COLLANA “GREENlo capii, ma fu così che avvenne. Quando un adulto racconta una bugia a un bambino,...

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COLLANA “GREENL’elastico viola di Patricia Daniels

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COLLANA “GREEN”

L’elastico viola di Patricia Daniels

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PATRICIA DANIELS

L’elastico viola

ISBN 978-88-6660-006-0

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni L’elastico viola di Patricia Daniels Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] | P.E.C. [email protected]

ISBN 978-88-6660-006-0 Collana GREEN http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luo-ghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi re-almente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

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BIOGRAFIA DELL’AUTRICE Patricia Daniels vive a Milano. L’elastico viola è il suo primo romanzo.

RINGRAZIAMENTI Senza l’aiuto di alcune persone non sarei stata in grado di comple-tare questo libro. Carlo Santi, il mio editore alla CIESSE Edizioni, si è rivelato ciò che ogni scrittore sogna. Ha un dono raro quello di trovare il modo giusto di dire le cose. È autore, inoltre, della copertina e ha saputo intuire l’essenza del personaggio. È stato un onore lavora-re con lui. Un ringraziamento a tutto il suo staff anche per l’editing finale e definitivo. Un ringraziamento speciale va a due donne professionali e serie, Miriam Mastrovito e Pia Barletta di Strepitesti per aver girato la proposta di questo lavoro alla CIESSE Edizioni e per aver effet-tuato il primo e professionale editing rendendo migliore la qualità del libro. Vorrei segnalare anche il loro sito www.strepitesti.blogspot.com. Grazie Pia e Miriam! Grazie anche a Irina Turcanu, del comitato di redazione CIES-SE Edizioni, che ha valutato e elogiato il mio libro “contagiando” l’editore. Un ringraziamento va al mio amico Gianluca Garreffa che pa-zientemente per anni ha ascoltato e discusso con me i problemi concernenti l’argomento in questione. Il suo è stato un enorme contributo di conforto. Grazie anche a Gianfranco Piantoni, amico e Professore Uni-versitario della Bocconi che per primo, anni fa, aveva letto il ma-noscritto e mi aveva incitata a continuare nella scrittura. Un ringraziamento speciale a mio figlio al quale ho sottratto del tempo di gioco. Lui mi ha già perdonata, io non riesco a farlo quasi mai.

Patricia Daniels

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Fin da quando avevo tredici anni,

pensavo che il mio nome fosse ‘Taci’. Joe Namath

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PREFAZIONE

Non molto tempo fa nella casella postale di StrepiTesti è “ap-prodato” un romanzo inedito. L’autrice Patricia Daniels, già fol-lower del nostro blog letterario, aveva pensato di rivolgersi a noi perché ne facessimo l’editing e le fornissimo un parere in maniera del tutto spassionata.

Fin qui normale amministrazione, ma la lettura di qualche pa-gina ci è bastata per intuire che quello appena capitatoci tra le mani non era un manoscritto qualsiasi, era il “Manoscritto” quel-lo che, con ogni probabilità, qualsiasi editore lungimirante spera di vedersi recapitare.

Nonostante la lettura a video sia faticosa, in due ci siamo ri-trovate incollate allo schermo, incapaci di distogliere lo sguardo se non per lo spazio di brevi telefonate finalizzate allo scambio di impressioni entusiastiche e… ebbene sì, lo confessiamo, alla condivisione di una commozione sincera e profonda.

Esistono storie che non si vorrebbero mai raccontare ma che DEVONO essere raccontate perché dietro il velo della finzione narrativa si annidano esperienze durissime che, purtroppo, appar-tengono alla realtà. L’elastico viola è proprio una di queste.

Infanzia negata, solitudine, abbandono, alcolismo, abusi, tossi-codipendenza… amore e morte. Sono temi che squarciano la pa-gina e che, nostro malgrado, spesso entrano di prepotenza nella vita quotidiana. Sono tristi capitoli dell’esistenza che nella mag-gioranza dei casi rimangono muti al pari di un manoscritto rin-chiuso in un cassetto, perché denunciare fa male, perché richiede un coraggio che non tutti hanno.

Sara è un personaggio letterario ma riteniamo che possa rap-presentare degnamente tante donne che, silenziosamente, condi-vidono calvari simili.

Con grandissima delicatezza Patricia Daniels spinge il lettore sull’orlo del baratro ma, al di là della crudezza e della “bruttura” dei fatti narrati, ci consegna una bellissima storia d’amore: l’amore tra due sorelle, tanto forte da sfidare i confini dello spazio e del tempo, da sopravvivere e vincere, nonostante tutto.

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Un sentimento racchiuso nella fragile indistruttibilità di un ela-stico viola che si tende allo spasmo ma non si spezza.

A lettura ultimata non abbiamo avuto dubbi: un romanzo così non poteva cadere nell’oblio, tanto più perché l’autrice, pur rime-stando negli orrori, riesce a trasmettere un gran senso di forza e di riscatto dal dolore.

L’abbiamo sottoposto all’amico editore Carlo Santi, che ci ha creduto quanto noi e, con una celerità sorprendente, ha deciso di pubblicarlo. Grazie alla sua professionalità arricchita da un animo sensibile oggi condividiamo la gioia di presentare ai lettori un li-bro che, siamo certe, saprà regalarvi grandissime emozioni.

Miriam Mastrovito e Pia Barletta

www.strepitesti.blogspot.com

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PARTE PRIMA

Capitolo I

«Dove andiamo, mamma?» «In un posto.» «Dove?» «Un posto qui vicino.» «A fare cosa?» «… una cosa.» «E che cosa?» «Basta, Sara, con tutte queste domande! Devi smetterla!

Piccola curiosa. Lo sai che la curiosità fa crescere il naso? Proprio come le bugie.»

La mamma, nervosa, sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Ci teneva per mano. Camminavamo lungo il viale alberato che affianca il grande fiume. Lei in mezzo, mia sorella Elena da una parte, io dall’altra. Cadevano finissimi aghi di pioggia e l’odore delle foglie umide rendeva tutto talmente triste che mi venne un’improvvisa voglia di fare pipì. Ero sicura che se mi fossi liberata la vescica la tristezza in parte se ne sarebbe andata.

«Oggi è bello perché è brutto.» Disse la mamma alzando il viso al cielo carico di nuvole.

Non capivo quel gioco di parole, però mi chiedevo nella mia testa di bambina perché tutte le volte che pioveva, faceva freddo, nevicava e non splendeva il sole, la mamma era contenta.

Non c’era nessuno sul viale a parte noi tre. Mia sorella Elena indossava un cappotto fucsia, decorato con disegni geometrici, rombi neri che s’incrociavano tra loro. Era proprio brutto, quel cappotto. Non che il mio fosse bello, visto che brillava di un verde tapparella. La mamma faceva la sarta, e aveva ritagliato i

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nostri paltò da alcuni scampoli di stoffa che le aveva regalato una ricca signora alla quale aveva confezionato i tendoni della villa in campagna.

Percorrevamo la strada a passi lenti, e la mamma tentava di spiegarci che ci stava portando in un posto bellissimo dove c’erano altre bambine, che saremmo rimaste lì solo un po’ di tempo, che in quel posto ci avrebbero trattate molto bene, e soprattutto avremmo mangiato tutti i giorni, non come a casa, che a volte quando non si saltava il pasto si mangiavano soltanto pane e latte.

«Vi daranno addirittura il pollo arrosto!», diceva con una cadenza che voleva sorprenderci.

D’un tratto si fermò in mezzo al viale. L’odore delle foglie bagnate si fece più intenso e si infilò dritto nel naso tanto da farmi pizzicare gli occhi di lacrime. Mi girò di spalle, si piegò leggermente verso di me e disfece la mia lunghissima treccia, proprio sotto gli alberi quasi spogli. La testa si alzava a ogni strattone della mamma mentre io osservavo attentamente i rami che sembravano braccia sottili e nodose, come quelle delle streghe. Sembravano pronte a rapirmi, e magari lo avessero fat-to…

La mamma mise tra le rosse labbra la molletta che teneva fermi i miei capelli ai lati, rifece la treccia bella rigida, strozzò la punta con un elastico viola e come sempre disse: «Che bei capelli hai! Sono proprio belli.» E infilò la molletta al lato del capo. Mia sorella miagolò: «Anch’io, anch’io!» E la mamma, con le lunghe unghie laccate di un viola porpora, pettinò anche i suoi capelli corti, premendo inutilmente su quel ciuffo sparato in aria, piazzato proprio in cima alla sua piccola nuca.

«Ricresceranno anche a te vedrai!» intanto si girò verso di me con sguardo severo, per rimproverarmi ancora.

Pochi giorni prima, giocando alla parrucchiera con mia sorella, le avevo quasi rapato a zero la testa. Di solito la facevo accomodare sulla poltrona della camera da letto, la piazzavo di fronte allo specchio dell’anta dell’armadio, le appoggiavo sotto il mento un bavaglio grande come un lenzuolo e, con un sadismo

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che solo i bambini possiedono, infilavo le dita negli anelli delle forbici e tagliuzzavo, sfilacciavo mentre le spiegavo, proprio come fanno le parrucchiere, che stava venendo un lavoro bellissimo. E alla fine mi facevo anche pagare. Quando infatti aprivo la mano, lei faceva finta di metterci dei soldi. Elena non si ribellava mai. Qualsiasi acconciatura creassi sulla sua testa, con qualsiasi intruglio, a lei piaceva sempre. Era così, si fidava ciecamente di me. La mamma mi sgridava per quei pasticci sulla povera testolina, e a volte mi dava anche un ceffone.

Elena socchiuse i bellissimi occhi verdi lasciandosi felicemente raschiare dal pettine fatto di mani della mamma. Sorrise contenta, mentre incassava la testa tra le spalle. Io, nel frattempo, mi appoggiavo prima su una gamba poi sull’altra, quindi le stringevo contemporaneamente per trattenere la paura. Non volevo farmela addosso.

La mamma, che forse percepiva la mia irrequietezza, ci rassicurò. Giurò che sarebbe venuta a trovarci tutte le domeniche e che ci avrebbe riportate a casa molto presto, e accarezzando ancora la nuca di Elena, disse tre frasi, le ricordo bene, due delle quali perfettamente uguali tra loro.

«Non è colpa mia. Il tribunale dei minori ha deciso così. Non è colpa mia.»

Mentre pronunciava quelle parole, la testa affollata di morbidi ricci castani, rimase eretta. I suoi occhi erano asciutti come la sabbia e le palpebre dipinte di un ombretto blu notte. Nonostante i miei sei anni e mezzo, capivo con chiarezza che da quel momento la vita non sarebbe stata per niente facile. Non so come lo capii, ma fu così che avvenne. Quando un adulto racconta una bugia a un bambino, subito dopo gli fa troppe ed esagerate promesse.

«Mamma, che cos’è il tribunale dei minori?» chiesi. «Ancora con queste domande! È un posto, Sara, un posto

dove decidono le cose giuste.» La mamma dava sempre risposte alle quali non si poteva

controbattere. Poi finalmente arrivammo davanti a un massiccio portone di legno. Lei si fermò, e io che già sapevo leggere e mi

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concentravo sempre più nella lettura e nel conteggio di qualunque cosa, i percorsi sui tabelloni del tram, i componenti di tutti i detersivi che trovavo per casa, i titoli del giornale dello sport appoggiato sul comodino del mio papà, decifrai per bene l’incisione sulla targa dorata inchiodata sul quel magnifico portone: Pro Pueritia.

«Cosa vuol dire quella scritta, mamma?» «Niente, non vuol dire niente, è solo il nome di questo posto.

Basta con tutte queste domande, Sara! Ti prego! Piuttosto prometti che da questo momento ti prenderai cura di tua sorella. Lo sai che lei...»

«Lei cosa?» feci io. Spesso le sentivo dire ai vicini di casa, alle persone che

incontrava per la strada, che Elena era nata con un briciolo di ossigeno in meno. Raccontava che Elena era come una melodia jazz, in cui gli strumenti creano note che s’intrecciano e sembrano fuori tempo, ma che nell’insieme compongono una musica meravigliosa. Non sapevo che cosa volesse dire veramente.

«Lei cosa, mamma?» insistetti. «Niente, niente. Fai come ti dico, prenditi cura di lei, ché tu sei

più grande.» Mi liquidò così, e io capii che non dovevo insistere perché mi

sarebbe arrivato sicuramente uno scappellotto. Ero abituata alle sue risposte scocciate, in effetti di domande ne facevo tantissime. Lei però era, come dire, frettolosa nelle risposte, e io non riuscivo a sentirmi mai completamente appagata, ecco perché insistevo.

Intanto alzai il capo e quello che vidi, in quel momento, fu un enorme palazzo dai colori aranciati. Era altissimo, tanto che pensai che una volta dentro il cielo non lo avrei visto mai più. La mamma premette due volte un pulsante dorato a fianco della targa, e qualche secondo dopo venne ad aprire una suora tutta vestita di nero. Era la prima volta che ne vedevo una in carne e ossa. Non mi piaceva. Dalla paura strinsi forte la mano della mamma, così forte che le mie unghie divennero tutte bianche. Sei

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gradini ci dividevano dall’ingresso principale. Io cercai di tirare mia madre verso la strada, ma lei mi fermò con una stretta decisa.

«Mamma, non voglio entrare!» la implorai sottovoce tirandola verso di me.

Lei si chinò e guardandomi con i suoi occhi severi disse: «Smettila! Non fare così che tua sorella si spaventa.»

Elena ci guardava con le pupille grandi e verdi come il colore del mio cappotto, il suo ciuffo disubbidiente stava dritto sulla nuca e formava, con una certa perfezione, un punto interrogativo, come a dire “Che cosa sta succedendo?” La suora ci invitò a entrare e noi la seguimmo.

Appena addentrate nel palazzo, nelle mie narici si infilò un odore di ossa bollite, come quando la mamma, in rarissimi momenti di generosità della vicina di casa, faceva bollire un pezzo di codino per fare il brodo, perché era più buono del manzo, diceva lei.

«Mamma, non voglio stare qui! Ti prego!» la supplicai preoccupatissima con un tono basso, e intanto stringevo le gambe per non farmela addosso. Mi appoggiavo prima su una, poi sull’altra.

Lei non mi sentiva. La suora parlava e sorrideva mentre mia madre cercava qualcosa nella borsetta da cui venne fuori un foglio bianco, piegato, che porse alla donna. Lei si alzò agilmente il gonnone e, con un movimento d’anca, lo fece sparire. Mi domandai immediatamente se invece di una suora non fosse una maga. “Farà sparire così anche noi”, pensai preoccupata.

«Bene, stia tranquilla, pensiamo a tutto noi.» Disse poi. A quella frase, istintivamente, lasciai la mano della mamma e

presi subito quella di mia sorella. La strinsi forte perché capii che non potevamo più contare su di lei. Io ed Elena da quel momento eravamo unite per sempre, gettate in qualcosa di ignoto. La suora, nel frattempo, ci intratteneva obbligandoci con le spalle al muro, diceva cose senza significato, per distrarci, e quando mi girai per dire alla mamma che se ci avesse riportate a casa saremmo state più buone, lei non c’era più. Se n’era andata.

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La suora ci disse di seguirla. Strinsi più forte la mano di Elena e lei, con indosso quella macchia rosa fucsia a rombi, mi guardò in preda all’abbandono, come se da quel momento io sarei stata per sempre responsabile della sua vita. Improvvisamente mi sentii molto grande.

Di fronte a noi si proiettava un lungo e lucidissimo corridoio sul quale si aprivano numerose porte. A sinistra si arrampicava un lungo serpente di scale e con la suora salimmo fino al terzo piano. Era molto faticoso. Gli scalini erano larghi e alti, tutti in pietra grezza. Butterati. Entrammo con il fiatone in un’enorme camera dove c’erano trentasette letti con la struttura in ferro laccata di bianco, fu una sciocchezza per me contarli tutti in meno di un secondo. I copriletto erano candidi, perfettamente tirati, con gli angoli a punta come vele pronte per una gara; pareva che sopra non ci avesse mai dormito nessuno. In fondo al dormitorio, in un angolo, campeggiava un letto a baldacchino nascosto da una tenda bianca rettangolare, alta fino al soffitto. All’interno s’intravedeva la luce che entrava da una finestra. Era il letto in cui dormiva la suora. A sinistra si apriva la stanza da bagno con dodici lavandini e dodici porte che custodivano altrettanti piccoli candidi water.

«Questo è il dormitorio delle mezzane» annunciò la suora. «Il tuo letto, Sara, è quello laggiù vicino alla porta del bagno, e sarai il numero 67. Tua sorella deve restare con le piccole al piano di sotto e sarà il numero 22. I vostri nomi qui non servono. Quando faremo l’appello vi chiameremo con i numeri e voi dovrete rispondere: presente!»

«Al piano di sotto?» sbottai. «Ma Elena deve stare con me! A casa dormiamo sempre insieme e la mamma ha detto che devo prendermi cura di lei, non posso lasciarla!» intanto le stringevo la mano sempre più forte e la sentivo tremare.

«Qui funziona così, le piccole con le piccole, le mezzane con le mezzane, le grandi con le grandi. Avrete tempo di vedervi, uuhh, se ne avrete!»

Guardai Elena, che con i suoi tre anni non capiva quello che avevo intuito io, e le sussurrai nell’orecchio che non doveva

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preoccuparsi di niente perché saremmo state insieme. Io, piccolo essere alto poco più di un metro, piccola pulce armata solo di una bella treccia, da quel momento sentii nel cuore il bisogno di proteggerla.

«Dov’è la mamma? Voglio tornare a casa.» Disse lei con il labbro tremolante.

Io mi guardai attorno, e mentre la suora qualche metro lontana da noi apriva una finestra, sibilai «L’hanno mandata via. Io ho visto che voleva tornare indietro a prenderci, ma quella suora l’ha mandata via. Vedrai che tornerà.» E con quella sorprendente bugia salvai il suo magnifico sorriso.

«Ma... siamo in posto brutto?» mi chiese ancora. «No no! Assolutamente no! Però tu devi stare sempre vicino a

me, sempre, capito? Non ti devi allontanare mai, capito? Hai capito? Dimmi se hai capito.»

«Sì, ho capito, ma come faccio se mi mandano a dormire di sotto?»

«Verrò io da te stanotte, quando tutti dormono. Verrò tutte le notti e poi dillo che hai una sorella grande, dillo a tutti! Così sanno che non sei sola, capito? Hai capito? Dimmi se hai capito.»

«Sì, ho capito.» «Quello è il tuo armadio.» Mi disse la religiosa indicando una

scatola grigia di metallo dalla forma rettangolare. «Aprilo, troverai la divisa di tutti i giorni e anche quella della domenica. I vestiti che indossi non ti serviranno più, quindi mettili dentro il sacchetto di tela che trovi nell’armadio e consegnalo a suor Bibiana.»

«Chi è suor Bibiana?» «Chiedi in giro quando ti sarai cambiata.» «Devo mettere nel sacco anche il cappotto?» «No, quello appendilo e mettilo nell’armadio, serve per

quando vai a scuola. Finché ti andrà bene lo userai.» Cercai di lasciare la mano di Elena, ma lei non ne voleva

sapere e stringeva ancora di più la mia. Le scollai le dita una a una e lei prese subito l’angolo del cappotto che ancora indossavo.

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Sorrisi. Le feci l’occhiolino e lei si tranquillizzò. Le aprii a fatica le piccolissime dita che stringevano con forza il mio paltò, e porsi la sua mano alla suora. La vidi andare via con il suo geometrico cappotto rosa. Sembrava un piccolo coriandolo reduce da una festa andata male. Si voltò almeno dieci volte per salutarmi con la manina. Le sorrisi tentando di convincere anche me stessa che sarebbe andato tutto bene. La seguii con lo sguardo fino alla porta e la immaginai scendere le scale; pensai che anche a lei avrebbero assegnato un letto e un numero con la consapevolezza che solo uno stupido pavimento ci avrebbe divise.

Aprii il mio armadietto e trovai due paia di mutandine bianche, due paia di calzettoni, uno blu e l’altro bianco, una gonna a portafoglio kilt rossa, una maglia blu con le maniche lunghe, e ben piegati, due grembiuli azzurri abbottonati sul davanti e sul petto ricamato il numero 67. Quel numero era presente dappertutto, persino sui bordi delle calze.

Mi tolsi il cappotto, lo appesi alla gruccia come avevo visto fare mille volte alla mamma, e mi spogliai. Rimasi nuda seduta su quel letto candido per qualche minuto, in attesa di comprendere che cosa dovevo indossare. D’un tratto arrivò una suora che mi urlò che non si poteva stare così, tutte nude, davanti a Dio. E gridava, urlava e si avvicinava sempre di più al mio viso. Ebbi paura di quella voce così penetrante e anche di Dio. Mi urlò di indossare il grembiule azzurro. In fretta obbedii facendolo passare dalle gambe.

«Mettiti le mutande!» mi urlò ancora lei. Ma non le trovavo. Rovistai tra la roba nuova per cercarle, ma

la paura non mi permetteva di vederle e così mi feci la pipì addosso. Quando ai miei piedi la piccola pozza cominciò ad allargarsi, la religiosa mi guardò austera, e inclemente mi assestò un ceffone sulla guancia. A mano aperta. Ricordo perfettamente il calore che pervase il mio viso dopo lo schiaffo, lo ricordo come fosse ora. E non lo dimenticherò mai. Un nodo mi strinse la gola e mi bloccò il respiro lasciandomi a bocca aperta. Mi sentivo mortificata. Non avevo mai preso uno schiaffo da una sconosciuta. Solo dalla mamma. Ma lei era lei. Trovai finalmente