Colf e Badanti: il lavoro delle...

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UNIVERSITA’ DI CATANIA FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE C. d. L. SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE TESI DI LAUREA Colf e Badanti: il lavoro delle immigrate nelle famiglie italiane” A.A. 2010/2011 Relatrice: Prof.ssa Daniela Timpanaro Correlatrice: Prof.ssa Carmela Cosentino Studente: Andrea Giuseppe Denaro matr. 671/000318

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UNIVERSITA’ DI CATANIA

FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

C. d. L. SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE

TESI DI LAUREA

“Colf e Badanti: il lavoro delle immigrate

nelle famiglie italiane”

A.A. 2010/2011

Relatrice: Prof.ssa Daniela Timpanaro

Correlatrice: Prof.ssa Carmela Cosentino

Studente: Andrea Giuseppe Denaro matr. 671/000318

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Sommario

Introduzione 5

CAPITOLO 1

1.1 Processi di invecchiamento, trasformazioni sociali

e impatto nel sistema di welfare 7

1.1.2 Diversi modi di "essere anziani" p.8

1.1.3 Diverse autonomie, diverse disabilità p.11

1.1.4 Un nuovo welfare per gli anziani? p.15

1.2 Le politiche di welfare e le famiglie italiane 18

1.2.2 La famiglia e il territorio: tra reciprocità e domiciliarità p.19

1.2.3 Il nuovo welfare privato? p.23

1.3 Globalizzazione e welfare state 27

1.3.2 La migrazione: redistribuzione geografica dei problemi sociali? p.28

1.3.3 La femminilizzazione delle migrazioni p.30

1.3.4 Le politiche migratorie italiane e i diversi flussi di lavoratori p.34

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CAPITOLO 2

2.1 La funzione di cura: trasformazioni in atto nei ruoli delle donne 38

2.2 Datrici di lavoro e lavoratrici: donne a confronto 46

2.2.2 Mancanza di libertà e spazi di confronto p.47

2.2.3 Incontri culturali asimmetrici? p.50

2.3 Culture a confronto: spazi per l'integrazione sociale

e culturale delle lavoratrici immigrate 54

2.3.2 Integrazione e disagi spico-sociali dei lavoratori immigrati p.58

2.3.3 Culture familiari a confronto p.62

CAPITOLO 3

3.1 Colf e badanti: breve excursus sull'attuale legislazione 66

3.1.2 Settembre 2009 - Regolarizzazione di colf e badanti p.71

3.1.3 Le cause del presunto “flop” p.75

3.2 Quali strategie per quali obiettivi? p.79

Conclusioni 90

Riferimenti bibliografici 93

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«Che lavoro fai?» mi chiede Martin.

Mi aspettavo questa domanda, naturalmente. E non

dovrei sentirmi imbarazzata per questo. Non c’è niente di umiliante o degradante nel pulire case. È un

lavoro onesto. Sono le persone come me che fanno girare gli ingranaggi dell’industria e del commercio, permettendo agli altri di dedicarsi alle proprie carriere, permettendogli di fare quel che sanno fare meglio invece di sobbarcarsi i lavori domestici. Non è qualcosa di servile od ossequioso. Ma qualcosa che ti dà un’incredibile soddisfazione.

«Faccio la sceneggiatrice», rispondo.

(Norton S. - Colf per caso, 2006 )

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Introduzione:

Nel corso dell'ultimo decennio, i flussi migratori si stanno arricchendo di

protagonisti relativamente nuovi e sempre più silenziosi, quasi invisibili; questo

elaborato è incentrato proprio sullo studio di una figura che, da qualche anno a

questa parte, è diventata “familiare” nella società italiana: la Collaboratrice

Familiare (Colf), la Tata, la Donna delle Pulizie o, più spesso, la Badante.

Il lavoro domestico e di cura, in Italia, oggi è prevalentemente affidato a queste

donne straniere che si inseriscono nelle nostre strutture familiari, ne condividono

l’intimità, partecipano alle dinamiche intergenerazionali accudendo sia piccoli

che anziani, incrociano i consumi culturali, gli stili di vita, i comportamenti della

popolazione italiana.

Il mio principale interesse è l'analisi del nostro sistema di welfare, della sua

resistenza al cambiamento e della sua sorprendente vischiosità. Ciò che rende per

me così interessante il fenomeno del “badantato” è la sua straordinaria capacità di

debordare dai confini della sua realtà immediata, il lavoro di cura, per inglobare

aspetti e processi fondamentali della vita sociale, tanto complessi quanto

differenti tra loro: il fenomeno dell'invecchiamento della popolazione; la

femminilizzazione delle migrazioni; le trasformazioni in atto nei ruoli delle

donne; l'avanzare della globalizzazione nella sfera economica, sociale, culturale,

politica, e religiosa; l'aumento delle condizioni di povertà e di esclusione sociale;

le politiche italiane di welfare che si rivelano sempre meno efficienti. Gli

antropologi li chiamano “fenomeni sociali totali”: fatti o eventi che, partendo da

quasi nulla, finiscono con l'approdare a quasi tutto. Nel caso delle badanti, in

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quel tutto trovano posto le storie di vita di migliaia di lavoratrici immigrate

coinvolte nell'assistenza di altrettanti anziani; le ragioni che ci fanno

comprendere cosa può averle indotte (o costrette) a lasciare i loro paesi d'origine

per affrontare, da sole e lontane da casa, un futuro difficile; e naturalmente i

familiari rimasti nei luoghi di partenza e le famiglie incontrate in quelli di arrivo.

Parlare di badanti significa dunque intraprendere un lungo e complesso viaggio

attraverso la totalità della società, partendo dalla sua dimensione storica e

passando per i piani più alti e moderni della struttura e dell'organizzazione dei

servizi e del nostro modello di Stato sociale.

La mia tesi si sviluppa in tre capitoli: il primo è dedicato alle trasformazioni

demografiche e al loro impatto sociale ed economico nel sistema di welfare; il

secondo capitolo è incentrato sul confronto tra culture familiari differenti e sulla

relazione tra donna italiana datrice di lavoro e donna straniera lavoratrice; infine,

nel terzo capitolo, tenterò di analizzare le possibili cause del fallimento

(annunciato?) della sanatoria per la regolarizzazione delle posizioni lavorative di

colf e badanti.

Tenterò di esaminare a fondo il mondo del lavoro delle badanti straniere in Italia,

alla luce dei documenti che ho raccolto: saggi, dossier, ricerche, inchieste, articoli

e pubblicazioni scientifiche; spero di riuscire a dimostrare di aver preso

criticamente visione della principale letteratura disponibile, nonostante la

consapevolezza che l'argomento in questione sia in continuo mutamento e, ad

oggi, spesso male esplorato.

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CAPITOLO 1

1.1 Processi di invecchiamento, impatto nel sistema di welfare

e trasformazioni sociali

Il fenomeno dell'invecchiamento della popolazione è ormai da tempo nell'agenda del

dibattito politico e nelle riflessioni di quanti sono chiamati a gestire quotidianamente i

servizi di welfare. L'attenzione finora è stata rivolta principalmente agli impatti attesi

sugli aspetti previdenziali e sulla necessità di studiare la capacità del sistema di far

fronte ai cambiamenti demografici in atto. Questa prospettiva risulta sicuramente

importante, ma non deve far dimenticare che il cambiamento demografico prodotto

dalla riduzione della natalità, dall'aumento delle speranze di vita e dai flussi migratori

che si sono consolidati negli ultimi anni produrrà dei profondi cambiamenti nella

struttura sociale del nostro Paese, nelle risposte possibili al disagio e nei processi di

governo del sistema di welfare. (G. Bertin 2009, p.7)

L’avanzamento straordinario della speranza di vita della popolazione si è verificato

soprattutto in funzione del notevolissimo calo della mortalità infantile. Alcuni sfruttano

tale argomento per affermare che, in fondo, è proprio questa la causa essenziale delle

variazioni demografiche attuali. Invece, il numero sul quale bisogna concentrarsi per

poter apprezzare la dimensione reale del fenomeno dell’allungamento della durata di

vita è un altro: si riferisce alla speranza di vita a 60 e a 65 anni, che si colloca oggi tra i

15 e 20 anni nei paesi avanzati.

Il processo di invecchiamento è stato a lungo letto come un processo che si produce alla

base della piramide per età: pochi bambini nascono, ancor meno ne muoiono grazie al

controllo della mortalità infantile. L'evoluzione della mortalità nel XX secolo poggia

proprio sulla caduta della mortalità infantile e giovanile: le tavole di mortalità italiane

degli anni Ottanta registrano probabilità di morte nel primo anno di vita intorno al dieci

per mille.

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Il fatto nuovo degli ultimi due decenni è l'abbattimento delle barriere al raggiungimento

delle età senili, che fa prevalere un processo di invecchiamento “dall'alto” della

popolazione nel suo complesso. Abbattimento di tale misura da renderlo “sintomo di

una nuova fase dell'evoluzione della mortalità”. (G. Micheli 2009, p.22)

Non bisogna peraltro dimenticare che, nella speranza di vita a 60 o a 65 anni, vi è una

grande differenza tra gli uomini e le donne e che queste ultime, in molti paesi, sono

favorite da almeno 4 o 5 anni di esistenza in più.

L'analisi di questi processi di cambiamento deve partire da una profonda riflessione sul

concetto stesso di vecchiaia, affrontata troppo spesso in modo stereotipato e

standardizzato, dimenticando che la vecchiaia è il risultato di un processo individuale

che è la “sintesi” di storie ed esperienze personali fortemente differenziate. (G. Bertin

2009, p.7)

Le nazioni che sono oggi molto “giovani” – con la maggioranza della popolazione sotto

i 20 anni – avranno dei seri problemi di “invecchiamento” tra 20 o 30 anni. La Cina ci

sta già pensando. Così, quello che i paesi più “anziani” potranno mettere in cantiere

adesso, costituirà un prezioso punto di riferimento per tutti gli altri tra qualche anno.

Lo scenario demografico del prossimo futuro vedrà un consistente aumento di individui

anziani, e ciò rappresenterà un impegno non di poco conto per la società.

Le sfide da affrontare nei prossimi decenni riguardano soprattutto la capacità di

adattamento sociale, economico e culturale alle modifiche strutturali che il fenomeno

dell'invecchiamento della popolazione comporta. Un adattamento che oltre a richiedere

sensibilità e apertura alle problematiche emergenti, esige il superamento degli stereotipi

che vedono l'anziano come un soggetto necessariamente debole, bisognoso di continua

assistenza ed inevitabilmente destinato ad assorbire risorse dalla società. (V. Cesareo, G.

Bertin 2009, p.31)

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1.1.2 – Diversi modi di “essere anziani”

Un aspetto che forse ancora oggi si tiene poco in considerazione è che al di là delle

variabili oggettive che necessariamente influiscono sui diversi modi di essere anziani, il

percorso verso la vecchiaia è individuale ed è la storia di vita di ciascuno ad influenzare

notevolmente il modo in cui ogni individuo percepisce e vive il proprio stato di

anzianità. Accanto ad anziani realmente in difficoltà, perché non autosufficienti, malati

o soli, nel nostro Paese vivono molti individui che, pur avendo superato i sessantacinque

anni, conducono una vita attiva sia sul piano personale, sia in riferimento alla società,

continuano a dare una dimensione progettuale alla propria vita e non sentono di

appartenere alla categoria di anziani. In questo senso diventa importante favorire lo

sviluppo di un clima culturale capace di accreditare l'immagine dell'anziano non come

un peso da sopportare, bensì come vera e propria risorsa da reinvestire, come soggetto

di cui è doveroso valorizzare esperienze e potenzialità. Occorre quindi sensibilizzare ed

educare alla vecchiaia sia gli anziani di oggi sia, e soprattutto, coloro che vivranno la

condizione anziana nel corso dei prossimi decenni. Da ciò scaturisce la precisa necessità

di politiche sociali che, oltre a supportare le famiglie con anziani non autosufficienti,

sappiano promuovere e sostenere le opportunità relazionali degli anziani. (V. Cesareo,

G. Bertin 2009, p.32)

Lo sviluppo dei processi di invecchiamento è stato spesso tradotto nella comunicazione

dei mass media come l'apparizione di una nuova classe di consumatori, liberi dal lavoro

e dalle incombenze familiari, pronti a realizzare i sogni tenuti per anni nel cassetto. Le

poche ricerche realizzate mostrano che, per gran parte della popolazione, l'uscita dal

mercato del lavoro avviene in buone condizioni fisiche ed economiche. Questo si

trasforma nella ricerca di nuove occasioni di realizzazione, di sviluppo di esperienze

positive. Ma, purtroppo, questa è una faccia della medaglia che riguarda solo una prima

fase del processo d'ingresso nell'età anziana. Alla vecchiaia è associato infatti un

processo di perdita progressiva, più o meno lenta, di aspetti che contribuiscono a

definire la propria storia personale. Il “vecchio” è anche una persona costretta a

ripensare alla propria identità, che deve affrontare problemi legati alla perdita del

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proprio ruolo (uscita dal mercato del lavoro e riduzione della vita sociale), alla riduzione

della propria struttura di convivenza (vedovanza, uscita dei figli dal nucleo familiare) e

della rete sociale di appartenenza (morte dei parenti, degli amici più anziani e dei

coetanei), al peggioramento progressivo dello stato di salute, fino alla perdita della

capacità di svolgere una vita autonoma e alla riduzione della capacità economica dovuta

alla riduzione del valore reale delle pensioni. Queste due diverse facce

dell'invecchiamento non sono alternative, ma appartengono a fasi diverse dello stesso

processo. (G. Bertin 2009, p.43)

La presenza di queste due diverse condizioni dell'essere anziano sono state anche

formalizzate nella letteratura internazionale e sempre più si parla di terza età (elderly o

anziani) e di quarta età (old o vecchi). In questa prospettiva la terza età è il periodo della

vita che inizia con l'uscita dal mercato del lavoro e con il pensionamento, ed è

caratterizzato da discrete condizioni di salute ed economiche. La quarta età è

caratterizzata invece da una salute sempre più fragile e da una progressiva perdita della

capacità di vita autonoma nel periodo finale della propria esistenza. L'individuo non è

più in grado di vivere da solo e richiede cure e servizi.

Se spostiamo l'attenzione dal singolo individuo - con i suoi rischi - alla collettività e alla

sua composizione, possiamo dire che la perdita media di autonomia sale passando dai

60 ai 90 anni. Il tasso di disabilità di una popolazione, infatti, non cresce continuamente

nel corso della vita, ma presenta dei punti di discontinuità rivelatori di una pluralità di

concause.

“La standardizzazione delle condizioni di criticità (disabilità, malattia, povertà) di un

individuo assume le stesse forme in molti campi di osservazione. Nella cumulazione di

criticità vanno, in via del tutto generale, tenuti distinti quattro stati d'essere: l'area della

piena autonomia e della normalità, l'area della contingenza di crisi e di disagio, l'area

del disagio conclamato (quando una contingenza di crisi affiora fuori della cerchia

privata dell'individuo o del suo nucleo, e reclama un supporto dal sistema pubblico di

garanzie), e infine l'area della cronicizzazione e della irreversibilità dello stato di

sofferenza. Così le possibili traiettorie di crisi inanellano tre distinti slittamenti possibili:

l'acuirsi di un bisogno “normale” oltre la soglia di sostenibilità da parte dell'individuo o

del suo nucleo familiare, il passaggio dalla dissimulazione del problema entro le mura

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domestiche al suo affioramento fuori del nucleo, infine la perdita da parte della famiglia

della capacità di riassorbire la crisi”. (Micheli G. 2009, p.22)

1.1.3 Diverse autonomie, diverse disabilità

Analizzando il passaggio dalla terza alla quarta età si può evidenziare come la

permanenza in questa fascia sia fortemente differenziata e legata alla storia sociale e

sanitaria delle persone, ed un ulteriore problema da affrontare riguarda la permanenza

nella fase della vita che va dal manifestarsi della non autosufficienza alla morte. E'

questa infatti la fase più critica per la vita della persona ed anche per la sua rete

familiare, che è chiamata a farsi carico della condizione del proprio congiunto.

In altre parole, la progettazione dei servizi per gli anziani si dovrebbe confrontare in

modo particolare con la capacità di supportare le dinamiche che si sviluppano in questa

fase della vita. (G. Bertin 2009, p. 46)

Non è ipotizzabile, se non in casi specialissimi, che un soggetto in cattive condizioni

generali e/o psichiche possa raggiungere un'età molto avanzata. Si è ripetutamente e

giustamente affermato che un individuo di 65 anni oggi è da considerarsi un "giovane"

rispetto ad un soggetto di pari età di 20 o 40 anni fa. Non si è posto sufficientemente

l'accento sul fatto che una coorte di individui sempre più anziani conduce un'esistenza

sostanzialmente buona ma non paragonabile a quella di un individuo giovane-adulto.

Sono individui, in genere ultra-settantacinquenni, che assommano più malattie ad

andamento già cronico e che richiedono controlli e cure di tipo sanitario oltre che di

tutela dal punto di vista sociale. Questi soggetti che andrebbero definiti a tutti gli effetti

“fragili”, sono persone in cui il rischio di innescare eventi patologici a cascata è molto

più elevato che nella restante popolazione meno anziana, e in cui la possibilità di

sviluppare disabilità è concretamente possibile anche per quelle situazioni cliniche che,

generalmente, non sono considerate pericolose, come ad esempio una sindrome

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influenzale, una caduta, l'allettamento di qualche giorno.

Il passaggio da malattia a menomazione (riduzione delle funzionalità mentali o fisiche)

è molto più frequente ed irreversibile nell'anziano che nel soggetto giovane-adulto. È

evidente che la maggior capacità di controllare patologie, anche molto complesse, porta

a doversi confrontare con individui affetti da patologie plurime, che assumono molti

farmaci e che possono sviluppare limitazioni nello svolgimento delle attività della vita

quotidiana che configurano la disabilità.

La disabilità, pertanto, non dovrebbe essere considerata semplicemente come la fatale

conseguenza della malattia, anche se non vi è dubbio che nell'anziano la presenza di più

patologie e la caratteristica riduzione delle capacità di recupero, rendono altamente

probabile l'insorgenza di una situazione in cui sono ridotte le capacità di svolgere i

normali atti della vita quotidiana.

È pertanto chiaro che, a parità di malattia, possono determinarsi disabilità diverse a

seconda della gravità della malattia stessa, dei precedenti patologici, della tempestività e

appropriatezza delle cure, e così via (per esempio, un soggetto colpito da “ictus cerebri”

svilupperà una paralisi motoria più o meno grave a seconda di una serie complessa di

fattori sia biologici che psico-sociali). Ma la capacità di un individuo di riuscire a

rimanere inserito nel suo contesto sociale e famigliare dipende da altri fattori, a parità di

grado di menomazione e di conseguente disabilità. Vi sono, cioè, fattori esterni al

soggetto malato che determinano le capacità funzionali nella vita quotidiana. Questi

fattori vengono definiti come “handicap” il cui equivalente lessicale, in italiano, è

“svantaggio”. Sono quelle condizioni od ostacoli spesso di natura architettonica

(barriere fisiche) ma anche di natura economica o psichica che rendono meno facile la

gestione dell'autonomia personale. Per tornare all'esempio del soggetto colpito da ictus,

se si realizzano condizioni in cui siano rimosse le barriere architettoniche, vi sia un

ottimale utilizzo di aiuti protesici, non vi siano difficoltà economiche, è molto più

probabile che non si debba ricorrere ad una istituzionalizzazione del soggetto colpito da

paralisi. (F. Anzivino, P. Mansanti, A. M. Zagatti, A. Zurlo, 2004)

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Secondo quanto sostenuto da Massimo Paci, gli anziani della quarta età, in media hanno

enormi difficoltà nell'affrontare da soli tutti i rischi della vecchiaia: spesso hanno un

livello di istruzione medio-basso, hanno una pensione eccessivamente bassa e vivono a

carico dei figli, che non di rado cercano di liberarsene mettendoli in istituti inadeguati.

Sicuramente, in termini di politica sociale immediata, il cambiamento è stato molto

forte: l'Italia è uno dei paesi con il tasso di invecchiamento più alto e con un

lunghissimo prolungamento della vita media, ma senza un pieno affrancamento

economico dell'anziano. Ma, continua Paci, se allunghiamo lo sguardo potremmo

intravvedere una figura di anziano diversa, che avrà la casa di proprietà, che ha alle

spalle un bagaglio di istruzione che gli permetta di mantenere facoltà di discernimento e

di interesse maggiori, che avrà lavorato in un'economia industriale o terziaria, e che in

qualche modo ha potuto risparmiare perché non ha più avuto, come un tempo, tre figli

da mantenere (in media uno solo), e dovrebbe aver investito i propri risparmi in qualche

fondo integrativo. Ci sono molti segnali che stiamo andando verso una maggiore

responsabilità individuale, non solo attraverso il risparmio, ma anche attraverso la

prevenzione del rischio: un individuo più istruito dovrebbe essere più in grado di

prevenire i rischi. E questa prevenzione individuale, ovviamente, favorisce il risparmio

personale e dello Stato. (M. Paci 1997, p. 34-44)

L'espansione della popolazione dei cosiddetti “grandi anziani” comporta,

inevitabilmente, l'aumento della popolazione che dipende dagli altri (dalla famiglia,

dalla comunità, dallo Stato) per la propria vita quotidiana. Dunque, mentre forze

politiche e rappresentanze sindacali ancora si bloccano intorno al tavolo dei piani

pensione, un altro ben più consistente fronte è ormai da tempo aperto e sguarnito: quello

dell'assistenza alla non autosufficienza anziana.

Probabilmente, l'attenzione dei policy makers è stata così a lungo sviata dal nodo

cruciale dell'espansione della disabilità anziana da un particolare meccanismo di distorta

percezione, che ha influenzato la comunità scientifica (non solo italiana) negli ultimi

due decenni. Il comune sentire ha infatti oscillato in questo periodo tra ottimismo e

pessimismo: in base alla ragionevole equazione “più anziani uguale più persone a

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rischio di disabilità”, gli studi degli anni '60 presentavano visioni pessimistiche per il

futuro: Ma con gli anni '90 alcuni studi di settore (Manton 1997), partendo dalla

constatazione di un netto miglioramento dello stato di salute degli anziani, hanno

iniziato ad ipotizzare che tale miglioramento procedesse di pari passo con l'accresciuta

longevità di massa, così da mantenere (prodigiosamente) costante la quota di

popolazione bisognosa d'aiuto. Così un'ondata di ottimismo, altrettanto sopra le righe

della precedente ondata di pessimismo, spinse negli anni '90 a rigettare l'idea che le

“malattie della vecchiaia” siano intrattabili, e ad esaltare le nuove frontiere della

medicina che affrontano patologie come l'osteoporosi e l'Alzheimer (Vaupel, 1998).

La nuova, illimitata fiducia nella possibilità di controllare la disabilità alle età estreme

comincia a riflettersi, a breve distanza di tempo, sulle simulazioni di scenari di carico

assistenziale. E' vero infatti che la popolazione anziana e grande anziana si dilata

rapidamente, ma si diffonde la convinzione che le nuove disabilità (con perdita delle

capacità cognitive e di apprendimento, e aumento delle sindromi croniche) si

circoscrivano nel range degli over80, mentre sotto tale soglia si diffondano migliori

capacità fisiche e mentali, maggiori riserve cognitive, benessere emozionale e

personale.

In realtà, però, a legger bene gli scenari OCSE (Jacobzone 1999), essi assumevano che

“la salute sta migliorando nel suo insieme e le persone vivono più a lungo, ma la

speranza di vita in buona salute non sta crescendo con lo stesso ritmo”.

Non sarebbe tanto la diffusione di nuove conoscenze e nuove pratiche mediche a

mettere in moto questa tendenza alla compressione della disabilità, quanto il fatto che

varcano la soglia dell'età anziana nuove coorti che hanno vissuto l'intero arco della loro

vita senza pesanti traumi e “insulti ambientali”, e con livelli di scolarizzazione elevati.

E' infatti un dato empiricamente acclarato che il grado di autonomia dell'anziano è

direttamente correlato al livello di istruzione raggiunto. Circa una decina di anni fa il

CNR (Comitato Nazionale delle Ricerche) commentava:

“Lo Studio Longitudinale Italiano sull'Invecchiamento ha evidenziato una forte

associazione tra scarsi livelli di istruzione e disabilità fisica, probabilmente a causa di un

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ricorrente ritardo diagnostico delle patologie più gravi nella popolazione con minor

livello di istruzione”.

La dotazione di risorse economiche ma anche umane di un individuo, quindi, influisce

pesantemente sulla sua condizione di autonomia in età anziana.

La scolarizzazione è un processo tardivo, in Italia, rispetto agli altri paesi europei: la

prima ondata di scolarizzazione è coeva al grande spostamento rurale-urbano degli anni

'50. Sono i “boomers” le prime coorti diffusamente scolarizzate in Italia, ed essi si

affacceranno ai settanta anni solo nel prossimo decennio. L'anomalia di una

compressione della disabilità in “stand-by”, sarebbe quindi l'effetto di due meccanismi

incrociati: da una parte il crollo della mortalità anziana, dall'altra la scolarità ancora

bassa delle coorti che entrano in età anziana. (Micheli 2009)

L'istruzione e il lavoro sono quindi i settori strategici per i prossimi anni, settori su cui

dovrebbero concentrarsi sforzi ed investimenti perché da essi deriva la possibilità di

attivare le energie dei futuri cittadini e le loro capacità di fare.

1.1.4 – Un nuovo welfare per gli anziani?

La seconda metà del secolo scorso è stata caratterizzata dall'affermarsi

dell'invecchiamento demografico come fattore rilevante nel processo di vita degli

individui e come elemento fondamentale per l'organizzazione dei servizi di welfare. Due

sono gli elementi che hanno caratterizzato questo processo, e vanno ricondotti alle

dimensioni che ha assunto la presenza degli anziani nella piramide per età della

popolazione, legata al sensibile aumento della vita media, e all'assunzione, da parte

della comunità locale, dei problemi legati alla gestione della perdita di autonomia.

L'aumento della vita media si è andato a sovrapporre con il processo di nuclearizzazione

delle famiglie, caratterizzate dalla presenza nello stesso nucleo di due generazioni, che

ha, però, carattere solo temporaneo e dura fino all'uscita dei figli per la costituzione di

un nuovo nucleo di convivenza. Questi elementi hanno finito col rendere più complessa

la gestione familiare dei processi di perdita di autonomia dell'anziano e, forse fin troppo

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spesso, l'unica risposta del sistema è stata l'istituzionalizzazione dei soggetti interessati.

Lo sviluppo della rete dei servizi residenziali ha caratterizzato la costituzione della

prima vera e propria rete di servizi per gli anziani. Di fatto questa fase ha portato a una

ridefinizione del contratto fra pubblico e privato, fra comunità e famiglie, nella

progettazione delle politiche di welfare. Questo contratto è sicuramente influenzato da

diversi fattori, riconducibili alla natura e alle caratteristiche della famiglia ed alle

politiche di sostegno alla capacità della famiglia di svolgere il lavoro di cura. Ma

dipende sicuramente anche dalle risorse economiche e di capitale sociale delle famiglie,

dall'andamento del mercato del lavoro, dalle risorse a disposizione del pubblico per la

gestione dei servizi, dalla capacità di definire e rispondere alle priorità socialmente

assegnate ai diversi interventi.

Tutti questi fattori evidenziano come il confine fra aspetti rilevanti per la comunità e

aspetti di diretto interesse per la famiglia sia mobile, e cambi in funzione delle

dinamiche del sistema famiglia, del sistema socioeconomico e del sistema dei servizi di

welfare. (G. Bertin 2009, p.54)

L' analisi dei processi di trasformazione sociale dovuti all'invecchiamento della

popolazione in Italia mostra già alcune piste capaci di indicare i cambiamenti in atto. La

crescita della presenza di anziani con problemi di perdita di autonomia non si è

trasformata direttamente in una maggiore disponibilità dell'offerta residenziale, ma ha

attivato processi di trasformazione dei servizi, sempre più chiamati a specializzare il

proprio intervento, orientandolo ad alcune particolari tipologie di utenti. I primi segnali

già evidenti mostrano come stia aumentando l'età dell'accesso ai servizi residenziali, che

avviene raramente prima del compimento dell'ottantesimo anno di età. L'innalzamento

dell'età di accesso ai servizi si coniuga con il peggioramento del livello di

autosufficienza: in altre parole, i ricoverati presentano un'età sempre più elevata e livelli

di autosufficienza sempre più bassi. Questo processo di cambiamento sembra essersi

ormai affermato, ma l'avvento delle Collaboratrici Familiari, come supporto al lavoro di

cura sta oggi producendo una sempre crescente capacità di tenere l'anziano a casa anche

in presenza di marcata non autosufficienza. La propensione al mantenimento

dell'anziano a domicilio e all'acquisto di servizi di supporto è incentivato dalla grande

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flessibilità fornita dalle nuove lavoratrici domestiche straniere, e dal costo del servizio,

competitivo rispetto ai costi sostenuti dalle famiglie con il ricovero in istituto. Le

strutture residenziali sono dunque destinate a specializzare il loro intervento

orientandolo ai contesti ed ai casi nei quali l'anziano risulta più difficilmente gestibile a

domicilio.

Un'altra considerazione riguarda la diversificazione che si sta manifestando

relativamente alle classi sociali di appartenenza. Il livello di scolarizzazione e il reddito

incidono diversamente nella definizione della capacità delle famiglie di gestione

domiciliare dell'anziano non autonomo. Le ricerche che hanno studiato l'evoluzione

delle reti familiari nello sviluppo del lavoro di cura, segnalano una maggior propensione

alla gestione diretta degli interventi da parte delle famiglie con livelli di scolarizzazione

più bassi, e una propensione all'acquisto di interventi esterni di supporto da parte delle

famiglie con scolarizzazione e redditi più alti. (G. Bertin 2009, p.71-72)

I segnali di cambiamento in atto evidenziano la complessità del processo e la difficoltà

di prevederne gli esiti. L'invecchiamento risulta essere un processo difficilmente

standardizzabile e affrontabile esclusivamente dal punto di vista delle dinamiche dei

servizi socio-sanitari, perché investe la società in tutti i suoi processi di trasformazione.

Tale complessità richiede l'assunzione di una logica complessiva che cerchi di integrare

politiche diverse che rispondano a logiche e processi decisionali separati. Ma la natura e

le caratteristiche del processo di invecchiamento della popolazione non possono e non

devono essere considerati esclusivamente come un fenomeno che richiede una

ridefinizione del sistema di welfare. (G. Bertin 2009, p.74)

Il nuovo sistema di welfare dovrebbe, invece, consentire di ripensare alle politiche

pubbliche nel loro insieme, per farle diventare uno strumento reale di sviluppo delle

condizioni di vita, sociali, economiche e relazionali, delle nostre città.

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1.2 Le politiche di Welfare e le famiglie italiane

L'organizzazione tradizionale della struttura delle famiglie italiane ha conseguenze

importanti su molteplici aspetti della vita sociale del paese. Per esempio, ha costituito

certamente uno dei pilastri su cui si è impiantata, per molti anni, la storia delle politiche

sociali. (Donati 1981)

Infatti, come sosteneva Carlo Cardia, “la permanenza di forti legami di tipo solidaristico

nelle famiglie italiane ha costituito uno dei temi fondamentali a cui si sono

ripetutamente richiamate le forze politiche e sociali in tutte quelle circostanze in cui

erano in gioco interventi legislativi nel campo delle politiche dei servizi e della famiglia.

E proprio a causa di un radicato convincimento che l'autonomia solidaristica della

famiglia dovesse comunque essere salvaguardata da ogni possibile interferenza da parte

dello stato, è possibile spiegare il ritardo con cui sono stati varati in Italia i programmi

di sviluppo della rete dei servizi sociali.” (Cardia 1979)

Almeno sino alla fine degli anni '60, allorquando ha inizio una serie di significativi

cambiamenti nel tessuto dei rapporti tra famiglia, stato e società civile, il propulsivo

processo di industrializzazione e urbanizzazione non è stato affatto accompagnato da

una corrispondente politica dei servizi a favore della popolazione e delle famiglie.

“Lo spostamento di una parte considerevole della popolazione italiana dalle regioni

arretrate del mezzogiorno a quelle industrializzate e in via di sviluppo economico del

nord, aveva cambiato radicalmente le necessità di vita delle famiglie. In molti casi,

questo spostamento aveva anche indebolito profondamente il tessuto tradizionale dei

sostegni e dei legami di parentela. Eppure, alla perdita delle consolidate funzioni di

aiuto fornite dalla parentela, per lungo tempo non ha corrisposto l'approntamento di

misure sostitutive da parte del settore pubblico, soprattutto di misure rivolte ai bambini

e agli anziani. Quasi che l'etica sociale facesse fatica a tenere il passo con l'evoluzione

del costume e delle forme di vita, e l'assunto in base al quale si giustificava l'inerzia

delle forze politiche a provvedere un adeguato sostegno alle famiglie era implicitamente

che queste fossero comunque in grado di risolvere i loro problemi, anche in ambiente

urbano, facendo ricorso ai rapporti familiari e parentali.

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L'adeguamento della struttura dei servizi di base alle necessità delle famiglie si realizzò

soltanto negli anni seguenti, quando ormai il processo di urbanizzazione delle

popolazioni si era consolidato. Ma anche allora, soltanto in taluni casi i servizi erogati si

dimostrarono all'altezza della situazione.

Con l'avvento della crisi economico-sociale della metà degli anni '70 si ristabilirono, sia

pure in uno scenario profondamente diverso, le condizioni ex-ante. Le difficoltà

economiche che attraversava il paese poterono essere evocate per giustificare una

rivalutazione e un riapprezzamento delle funzioni di aiuto e sostegno economico

tradizionalmente garantite dalla famiglia e dalla parentela. L'approfondirsi della

cosiddetta “crisi fiscale” dello stato, espressa tra un crescente divario tra il prelievo

fiscale e la necessità da parte dello stato di rispondere ad una crescente domanda di

servizi, impose il ricorso ad una politica di austerità e di contenimento della spesa

pubblica. Il raggiungimento di questo obiettivo richiedeva necessariamente una

rinegoziazione delle virtuali linee di confine che stabilivano la responsabilità delle

diverse sfere istituzionali: famiglia, mercato, stato e sfera della solidarietà volontaria. In

modo particolare, il recupero delle tradizionali aree della solidarietà familiare, la

restaurazione di modelli di coabitazione, assistenza e sussistenza che sembrava essere

stati definitivamente superati, si presentarono come un'efficace soluzione alla crisi dello

stato del benessere”. (Sgritta 1988, p.43)

1.2.2 – La famiglia e il territorio: tra reciprocità e domiciliarità

Oggi, di fronte ai nuovi processi economici e sociali, caratterizzati dunque sempre più

da vulnerabilità economica e sociale, da dinamiche e da rischi di esclusione e di

frammentazione, il welfare locale dei servizi sembra essere la nuova frontiera dello

Stato sociale.

Si tratta di una prospettiva che di certo non vuole esaltare il localismo angusto e la

confusione dei poteri e dei compiti, la frammentazione dei vari ambiti e livelli dello

stato e del sociale. Essa rimanda piuttosto alla funzione di progettazione e di

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regolazione generale dello stato, alla politica nazionale, alle scelte previdenziali,

formative, fiscali, urbanistiche, sanitarie, sociali, di genere. Ma questi compiti devono

ancor meglio correlarsi alle scelte, alle azioni e alle pratiche previste e agite a livello

territoriale.

Per chi ha responsabilità di governo, l’obiettivo di ricostruire relazioni, autonomie e

capacità comporta una nuova ottica: basare sempre più le tutele sociali sul protagonismo

delle persone, sulla qualità di relazioni stabili, sull’integrazione tra pubblico, privato-

sociale e volontariato, sulla prossimità e sulla flessibilità, sulle reti, sull’equità e

sull’eguaglianza. Un’ottica, questa, che si pone in contrasto inevitabile con il vecchio

modello di mercato sociale, costruito sulla cieca e anonima transazione cliente/fornitore

e sui rapporti di forza che si è in grado di esprimere nella negoziazione. (Lazzarini

2004)

Il nuovo modello si chiama invece capitale sociale, ed è il prodotto degli scambi tra

soggetti, individuali e collettivi, che creano, mettono in campo risorse e conoscenze, si

aiutano, cooperano, si danno fiducia. Il primo riferimento è all’enorme ricchezza

esistenziale, economica, sociale, educativa, assistenziale realizzata dalle realtà familiari.

Se le dinamiche che si sviluppano spontaneamente nel vivo del corpo sociale generano

valore aggiunto e se questo valore è accumulato e diffuso come risorsa per l’intera

comunità, nasce una nuova ottica per riconsiderare e rendere sostenibile il welfare: la

politica, le istituzioni, i servizi, possono e devono sostenere queste competenze ed

esperienze, stimolando i cittadini a creare reti aperte, a giocare le loro attività in una

dimensione comunitaria.

Se occorre dunque garantire un adeguato livello di risorse (l’Italia è fra i paesi

occidentali sviluppati a spendere meno per il suo sistema socio-assistenziale),

probabilmente non serve tanto una mera aggiunta quantitativa di prestazioni,

mantenendo la centralità del servizio a prestazione individuale, quanto piuttosto un

modello nuovo che chiami alla trasformazione tutti i servizi sociali, sanitari, educativi,

culturali. Deve essere salvaguardato e ancor più valorizzato il percorso che dal singolo

individuo porta alle reti naturali di aiuto; dalla presa in carico alla condivisione delle

scelte soggettive e alla promozione; dalla prestazione professionale al capitale sociale.

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(ibidem)

E’ con questa ottica che andrebbe riconsiderato il tema della famiglia.

Non serve il riconoscimento (spesso scontato, retorico) del suo valore, che può servire

da alibi per gravarla ulteriormente di solitudine e di compiti, ma occorrono effettive

occasioni affinché la famiglia sempre meno sia semplice destinataria indiretta di servizi

rivolti a specifiche categorie di utenti (anziani, minori, disabili), e sempre più uno dei

soggetti protagonisti dell’attività di cura e di assistenza.

Questa prospettiva propone un’altra centralità strategica: l’integrazione fra le politiche

sociali, fra gli ambiti e i servizi istituzionali, così come tra i soggetti che sono a vario

titolo impegnati nel lavoro di cura e di assistenza. Si parla continuamente di rete, che

esprime l’idea e la strategia di collaborazione tra i soggetti istituzionali e sociali, e tra le

attività dei servizi e quelle presenti nella società civile, ma la sua traduzione in realtà è

ancora molto difficile (la prova più immediata viene dalla perdurante difficoltà a far

collaborare i servizi sociali e sanitari: si pensi solo ai rapporti tra SAD -servizio di

assistenza domiciliare- e ADI -assistenza domiciliare integrata-).

“La coesione, come principio guida, porta a ridefinire sia la domanda che l’offerta. La

domanda non viene più vista come stato di disagio da curare, ma come diritto e doveri

delle istituzioni di avere cura. Non si tratta di terapie per mali sociali, ma di rendere

capaci tramite strategie di empowerment. La domanda deve diventare, perciò, più

consapevole e attiva, mentre l’offerta deve passare dall’assistenza alla promozione. Solo

così possono essere mobilitate risorse potenziali, conoscenza tacita e locale, processi di

apprendimento di preferenze migliori, forme di partecipazione che evitino l’isolamento

nello stato di bisogno e il rifugio nel privatismo. Solo la promozione della capacità esige

integrazione delle politiche, mentre solo pratiche di empowerment producono come

effetto secondario la coesione sociale”. (Donolo 2003)

L’attenzione quindi va posta sullo “scambio”, che non sottovaluta di certo la necessità

dell’intervento di cura sul singolo, ma che nel contempo porta a ragionare in un’ottica

ambientale, centrando il lavoro sulle condizioni che facilitano gli scambi dentro un

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contesto, cercando i modi di far convergere interessi individuali e interessi collettivi.

“Il concetto dello scambio può permettere di uscire dal concetto di beneficenza, che

tanto ha informato di sé il lavoro sociale (nella beneficenza non c’è reciprocità, ma

separazione). E può permettere di allontanarsi anche dal burocratismo, legato alla logica

dei diritti/doveri (nemmeno nei servizi spesso c’è reciprocità), per portare gli operatori a

ragionare in un’ottica diversa, scostandosi un po’ dalla dissimmetria della relazione

d’aiuto.

Forse siamo troppo abituati a pensare il lavoro sociale come la scena dove chi sta bene,

ha le risorse e le capacità aiuta chi sta male e ha le carenze e le disabilità. Fatichiamo a

considerarci tutti portatori di domande e offerte. Non riconosciamo che nell’aiutare gli

altri si costruisce un bene anche nostro. Che tra chi dà e chi riceve c’è la stessa

convergenza nel raggiungere un interesse comune, che consiste nel fare qualcosa che

consideriamo positivo”. (Camerlinghi/D'Angella, 2003, p. 30)

E’ la prospettiva (o l’utopia?) che vede i servizi come centri in cui la comunità locale

impara a leggere le sue sfide, i suoi problemi, i suoi percorsi. In questa direzione, i

servizi prima ancora di pensarsi in termini di assunzione diretta di una persona e del suo

problema specifico, possono pensarsi come aiuto alla comunità locale nel riappropriarsi

dei fenomeni locali, nel prendere coscienza delle sofferenze, delle criticità, delle

disuguaglianze.

Dal punto di vista dei progetti e dei comportamenti dei cittadini, dei soggetti sociali,

della politica, ne consegue un compito che è insieme difficile da attuare e non eludibile:

farsi carico della cura e dell’aiuto diretto a persone, gruppi e comunità, ma insieme

cercare una risposta ai bisogni, legare la qualificazione delle politiche e dei servizi al

terreno dei diritti; inoltre, impegnarsi per delineare un diverso modo di produrre da parte

dei servizi.

Questo evoca un cambiamento di prospettiva e di modello di azione di tutte le realtà

sociali che operano per fini di solidarietà, a partire dall’intero terzo settore. Il

cambiamento, inoltre, non può non riguardare anche le varie forme aggregative e

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associative sorte sul terreno della disabilità, tanto più che indubbiamente esse

costituiscono una presenza particolarmente ricca e viva nel tessuto sociale.

Senza pretendere di esaurire una problematica così complessa, è possibile individuare

nella domiciliarità un fondamentale obiettivo strategico del welfare territoriale: essa va

intesa come un progetto culturale e politico che, oltre a favorire la permanenza nel

proprio domicilio dei soggetti anziani o disabili o in perdita di autonomia, favorisce il

collegamento delle persone, delle famiglie, delle reti comunitarie al contesto territoriale,

alla comunità locale in cui i soggetti sono inseriti. (Lazzarini 2004)

1.2.3 – Il nuovo welfare privato?

Purtroppo, però, le famiglie non sembrano essere ancora al centro dell'agenda politica in

questo paese. Al contrario, esse si fermano ai gradini più bassi di un ipotetico elenco

delle priorità.

L'Italia, infatti, investe solo lo 0,9% della ricchezza nazionale nelle politiche familiari.

Un dato che relega il nostro paese all'ultimo posto nell'Unione europea. (Eurispes 2003)

Di conseguenza, il ricorso al servizio privato a pagamento supera di molto l’utilizzo del

servizio pubblico, in particolare nel campo dell’assistenza agli anziani. Tra le famiglie

in cui è presente un soggetto non autosufficiente, quelle che si rivolgono ai servizi

privati di assistenza sono il 13% (corrispondente a circa 400.000 famiglie), una quota

molto maggiore di quella delle famiglie che fruiscono del servizio pubblico (7,6%).

Rispetto alla domanda complessiva di assistenza, il servizio pubblico eroga solo il 20%

degli aiuti, mentre il settore privato raggiunge il 35,4% della domanda, con picchi del

42,9% nei casi più gravi.

Le ragioni di questa differenza sono da ricercare nel carattere residuale del servizio

pubblico, che si rivolge esclusivamente ai gruppi sociali più svantaggiati, oltre che nelle

carenze relative alla flessibilità, qualità e adeguatezza del servizio.

Ricerche locali confermano sia la relazione tra indebolimento della rete informale e

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crescita del ricorso ai servizi privati a pagamento, sia il maggiore utilizzo di questi

rispetto a quelli pubblici: il ricorso all’aiuto privato avviene tanto più frequentemente

quanto più aumentano l’età e il grado di invalidità degli anziani, ma tende a ridursi

quando è presente una forte rete di sostegno familiare.

Molto spesso, di fronte alla necessità di assistenza, vengono utilizzate diverse

combinazioni di aiuto familiare e di aiuto pagato, a seconda della disponibilità o meno

di risorse informali, secondo un criterio di interdipendenza. (Zanatta 2004)

Secondo l'Eurispes il principale strumento di sostegno alle famiglie in Italia, le

detrazioni fiscali per i familiari a carico, è del tutto inadeguato perché lascia scoperti "i

nuclei che più degli altri necessiterebbero di sostegno economico: quelli in cui entrambi

i coniugi risultano disoccupati". Per l'istituto è dunque prioritaria l’introduzione di

misure a sostegno dei nuclei familiari che non possono usufruire delle agevolazioni

fiscali.

Infatti i sussidi monetari, attualmente in vigore a sostegno delle famiglie, sono giudicati

nello studio come "del tutto inadeguati al mantenimento dei figli". Mantenimento che

comporta enormi sacrifici: basti pensare che l’arrivo del primo figlio determina

mediamente una diminuzione del reddito a disposizione tra il 18% e il 45% ed una spesa

aggiuntiva compresa tra i 500 e gli 800 euro mensili, variabili in relazione all’età e alla

collocazione geografica.

Per quanto concerne i sussidi indiretti, l'Eurispes mette in evidenza l’insufficienza delle

detrazioni fiscali in vigore nel nostro Paese confrontandole con Francia e Germania: per

una famiglia con due figli a carico e un reddito complessivo di 30 mila euro il risparmio

d’imposta previsto è pari a poco più di 500 euro in Italia, mentre sale a tremila euro in

Francia e a seimila in Germania. (Eurispes 2003)

Nelle grandi città, in cui il tessuto sociale è più frammentato, i legami con la parentela

meno forti, più intenso il cambiamento demografico, maggiore il numero di donne

lavoratrici, così come più diffusa è l’instabilità coniugale, la rete informale (intesa come

parentela non convivente) mostra segni di grande debolezza e le famiglie che si

rivolgono al servizio privato sono molto più numerose che altrove.

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I risultati di una ricerca condotta a Roma nel 2000 sulla qualità della vita degli abitanti

della capitale confermano il ruolo primario di cura svolto dalla famiglia, ma anche

l’allentamento della rete di sostegno non convivente, come pure la tendenza delle

famiglie a rivolgersi prevalentemente al servizio privato anziché a quello pubblico per la

cura di anziani non autosufficienti (Zanatta 2004)

Tab. 1.1 - Modalità di cura a domicilio di anziani non autosufficienti.

Roma 2000. Percentuali

Fonte: Zanatta [2004]

La maggioranza degli anziani bisognosi di assistenza (circa il 60%) è accudita

esclusivamente dai membri conviventi della famiglia, principalmente donne (moglie e/o

figlie), mentre è molto ridotto l’aiuto gratuito proveniente dalla rete informale dei

parenti e/o amici non conviventi (5,4%).

Le famiglie (per meglio dire, le donne della famiglia) che si prendono cura di un

anziano convivente non autosufficiente non possono quindi contare se non in misura

limitatissima su altre persone della rete parentale e amicale e, quando da sole non ce la

fanno, si rivolgono ai servizi privati in misura considerevole e comunque molto

maggiore rispetto ai servizi pubblici (rispettivamente il 22,4% e il 9,5%). In

conclusione, la ricerca conferma tendenze già emerse a livello nazionale, ma più

evidenti in un contesto metropolitano: la famiglia rimane la fonte principale di aiuto e

cura per i soggetti deboli, ma bisogna chiarire e precisare che questo è vero solo o

prevalentemente per l’unità di convivenza, mentre ormai vale molto meno per la

famiglia allargata.

L'Italia, dunque, ben lontana da un modello di welfare di tipo scandinavo, ha finito col

trovare nell'immigrazione femminile (a seguito del marcato protagonismo delle donne

nella regolarizzazione del 2002 e nella fruizione delle quote degli anni successivi)

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l'occasione per crearne uno adatto alle sue disponibilità, con aspetti e potenzialità di

grande interesse, anche se necessitante di aggiustamenti quanto alla

professionalizzazione, all'organizzazione dei servizi per le famiglie e anche

all'inserimento delle immigrate in altri settori, trattandosi di donne mediamente con un

più alto livello di scolarizzazione rispetto alle italiane.

La generalizzazione del termine badante, pur nei toni sbrigativi e forse all'inizio anche

un po' di spregio, è una presa d'atto del preziosissimo supporto alle famiglie italiane a

fronte di una remunerazione tutto sommato contenuta, e quindi affrontabile anche da

tante famiglie le cui risorse si sono nel frattempo ridotte. L'immigrazione in Italia è

ormai caratterizzata da una normalizzazione dal punto di vista demografico: alla

sostanziale equivalenza numerica dei due sessi si accompagnano la prevalenza dei

coniugati sui celibi e sulle nubili, l'elevata incidenza dei minori (un quinto dei residenti,

di cui una buona metà nati in Italia) ed un consistente numero di nati da genitori

entrambi stranieri (più di 50.000 l'anno, all'incirca un decimo dei nuovi nati).

Il sottoinquadramento professionale riguarda tutti gli immigrati, e in particolare le

donne, relegate in gran numero nell'assistenza domestica, funzione ormai «etnicamente»

connotata. Vi sono appesantimenti del nostro sistema produttivo che rendono difficile

un inserimento più mirato degli immigrati e su questi aspetti, per quanto complessi

possano essere gli interventi, bisognerà ritornare con pazienza e perseveranza. (Pittau

2007)

Nel 2006 gli immigrati registrati all’INPS nel settore domestico e della cura erano

339.223 unità: oltre il 70% del totale (Osservatorio sui lavoratori domestici dell’INPS).

Dal 2005 a oggi ogni decreto flussi ha destinato quote di ingresso sempre più consistenti

al settore domestico e della cura. Nell’ultimo decreto, quello del 2008, l’impiego in

questo settore costituiva addirittura l’unico possibile canale d’ingresso per lavoro non

stagionale consentito a paesi non riservatari. La domanda di lavoro di domestiche e

assistenti familiari è, del resto, ancora più forte rispetto alle previsioni del governo.

(Piperno 2009)

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1.3 Globalizzazione e Welfare State

E' incontestabile che la famiglia in quanto tale, con tutte le sue funzioni (la

riproduzione, il lavoro domestico e di cura, la conciliazione del doppio ruolo della

donna lavoratrice) è da sempre e ovunque parte integrante e pilastro essenziale

dell'alchimia dei modelli di welfare. E lo stesso vale per gli altri attori istituzionali come

il mercato, lo Stato, la solidarietà organizzata su base volontaria, che secondo le epoche

e le tradizioni, le congiunture economiche e demografiche, i contesti nazionali e locali,

acquistano caso per caso maggiore o minore importanza nella condivisione delle

responsabilità, in quella che Richard Titmuss chiamava la “divisione sociale del

welfare”. (Titmuss 1986)

Negli ultimi decenni sono cambiati, più o meno profondamente, il quadro demografico,

l'assetto economico-produttivo, gli insediamenti e la mobilità delle popolazioni. Sono

cambiati anche i livelli di scolarizzazione, le reti di parentela, la condizione femminile e

la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, l'immagine culturale e la struttura

delle famiglie, i rapporti tra le generazioni, ai quali ha fatto seguito un continuo e forse

irreversibile processo di adeguamento degli ordinamenti, della normativa, nei relativi

ambiti. Di conseguenza formule, regole e convenzioni che si davano fino a pochi anni

fa per acquisite sono definitivamente mutate, così come oggi è mutato il pool di risorse

umane disponibile a farsi carico degli oneri di cura e assistenza di minori e anziani. Si

sono, insomma, a poco a poco affacciate nuove domande che, a loro volta, hanno

sollecitato l'elaborazione di risposte appropriate, la ricerca di nuovi equilibri e di vie

d'uscita dalla crisi.

La differenza fra i modelli di welfare, come sostiene Sgritta, non sta dunque negli

elementi che li costituiscono, che sono comunque i medesimi, e cioè le obbligazioni

familiari, lo Stato, le prestazioni offerte dal mercato e dalla solidarietà spontanea od

organizzata. Né sta nella misura in cui questi modelli sono esposti al cambiamento delle

condizioni ambientali esterne e perciò alla costante erosione delle loro formule

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originarie. Con le trasformazioni intervenute nella società e nell'economia a seguito

della globalizzazione dei mercati, dei costumi e della comunicazione, nessuna nazione è

rimasta immune da cambiamenti di questa natura. (Sgritta G. 2009, pp.13-16)

“Quando i media, le istituzioni politiche e gli analisti economici oggi definiscono cos'è

la globalizzazione, pongono l'accento sull'ipermobilità, sullo scambio internazionale di

informazioni e sull'annullamento delle categorie di distanza e di luogo. Vengono

sottolineati aspetti come l'economia dell'informazione globale, la comunicazione

istantanea e i mercati elettronici, tutti ambiti nei quali il luogo non ha importanza e il

solo tipo di lavoratore che conta è quello con una professionalità altamente qualificata.

Una globalizzazione così concepita privilegia la trasmissione globale rispetto

all'infrastruttura materiale che la rende possibile; l'informazione rispetto ai lavoratori

che la producono, siano essi operatori specializzati o segretarie; e la nuova cultura

aziendale transnazionale rispetto alle altre professioni che ne consentono l'esistenza, fra

cui quelle svolte tipicamente dagli immigrati”. (Ehrenreich/Hochschild 2004, p. 233)

1.3.2 La migrazione: redistribuzione geografica dei problemi sociali?

Il progresso avvenuto recentemente nell’integrazione dell’Europa occidentale e la

demolizione di quella che è stata chiamata la “cortina di ferro” tra Europa dell’est ed

Europa dell’ovest sono due fattori importanti che facilitano la migrazione intra-europea,

e mentre le differenze di “fertilità industriale” continuano a costituire un ostacolo al

trasferimento del capitale produttivo in regioni con eccedenza di manodopera, esse sono

uno stimolo alla migrazione dei lavoratori. Questo stimolo diventa tanto più efficace

quanto meno efficaci diventano gli ostacoli politici, fisici e culturali alla migrazione.

Tuttavia, nota Ferrera nel suo “Stato Sociale e Mercato”, gli immigrati in soprannumero

non trovano un lavoro nel settore “istituzionale”, che è soggetto alle varie disposizioni

del welfare state: essi diventano disponibili per un mercato del lavoro di livello

inferiore, di lavoro nero, a tempo parziale e spesso in condizione di subappalto, che è

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meno remunerato e che è dissociato dai diritti alle prestazioni di welfare. Sotto molti

aspetti, questo mercato del lavoro di livello inferiore si trasforma in un sostituto del

mercato regolamentato di livello superiore, poiché le aziende tendono a utilizzare

quest’opportunità più a buon mercato se e dove essa si presenta.

In questo modo, il mercato di livello superiore può assorbire meno lavoratori e una

porzione maggiore della manodopera nazionale viene anch’essa relegata al mercato di

livello inferiore. Inoltre, col passar del tempo, anche gli immigrati competono con

successo con i lavoratori nazionali per posizioni nel mercato di livello superiore,

distruggendo così la divisione netta tra una forza-lavoro nazionale ben integrata e una

sottoclasse di immigrati. L’immigrazione su larga scala da regioni con eccedenza di

manodopera “contamina”, per così dire, le società prospere e socialmente integrate

dell’Europa occidentale, centrale e del nord con i problemi sociali del mondo più vasto.

Nello stesso tempo, la differenza tra i paesi dovrebbe tendere a ridursi: nella misura in

cui gli immigrati provengono dalla periferia economica del sud e dell’est Europa, si

potrebbe parlare di una specie di convergenza dei welfare state europei: gli uni sono

sollevati di una quota del carico dei loro problemi non risolti, che in parte ricade sulle

spalle degli altri, come in una sorta di redistribuzione geografica dei problemi sociali.

All’interno del contesto europeo, questo non è necessariamente uno scenario tetro: tutto

dipende dal ritmo della crescita economica, che consente di estendere il mercato del

lavoro di livello superiore e di incorporare una parte crescente della popolazione in

eccesso, non protetta, dell’Europa nel sistema del welfare state collegato con il mercato

del lavoro. Dopo tutto, le regioni industriali centrali sono state aree di immigrazione per

la maggior parte della loro storia. L’assorbimento della manodopera in eccedenza,

proveniente dalle loro periferie nazionali, ha consentito a queste ultime di diventare

anch’esse prospere, in seguito a una bassa densità di popolazione adattata alla densità

dell’attività economica e di afflussi netti di denaro pubblico.

Le cose potrebbero cambiare considerando la prospettiva di un’immigrazione di massa

dai paesi extraeuropei, perchè le dimensioni del problema dell’eccedenza di

manodopera al di fuori dell’Europa sono così terribili che non si può pensare seriamente

di superarlo.

Un’Europa fiorente sarà maggiormente in grado di far fronte a determinate quote di

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immigrazione dall’esterno, ma potrebbe anche portare a un’intensificazione del flusso

di immigrati. Per tali motivi sembrerebbe ovvio pensare che l’afflusso di manodopera in

eccedenza dal Terzo Mondo sarà la fonte dei problemi sociali più gravi per i welfare

state europei nel futuro. Esso relativizzerà qualsiasi progresso che potrebbe in definitiva

essere conseguito grazie all’estensione della prosperità e dei diritti economici di

cittadinanza alla periferia del sud e dell’est; sarà certamente una sfida comune per i

paesi europei ricchi e poveri, una sfida che, però, minaccia di portare a una

convergenza verso il basso nell’efficienza dei welfare state. (Ferrera 2003)

1.3.3 La femminilizzazione delle migrazioni

Da sempre è il lavoro, o meglio la necessità di procurarsi di che vivere o il desiderio di

migliorare la propria condizione e il futuro dei propri figli, a spingere le persone a

emigrare in luoghi o paesi diversi da quello d'origine. Negli ultimi decenni si sono

tuttavia affermate alcune caratteristiche peculiari del fenomeno migratorio. E' cambiata

innanzitutto la composizione dei flussi migratori, con una presenza sempre più

significativa della componente femminile, particolarmente elevata nei grandi centri

metropolitani, dove il cambiamento è stato caratterizzato dalla crescita della domanda di

lavoro proveniente dal settore dei servizi e, in particolar modo, dalle famiglie. Così

l'assorbimento delle immigrate nel lavoro domestico e di cura è oggi, in Italia,

prevalente rispetto a qualsiasi altro tipo di attività. La trasformazione demografica, il

processo di invecchiamento della popolazione, i cambiamenti della struttura delle

famiglie e dei ruoli familiari, unitamente alle carenze e alle inadeguatezze del sistema

pubblico di welfare, spiegano ampiamente l'esplosione della domanda da parte delle

famiglie.

Secondo l'Istat “negli ultimi anni si è registrata una crescente domanda di servizi da

parte delle famiglie che ha attivato un'offerta di lavoro soprattutto straniera. Sembra

possibile ricollegare la richiesta di lavoro domestico soprattutto al progressivo

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invecchiamento della popolazione e al consistente numero di persone disabili. La cura

delle persone con problemi di disabilità ricade in larga parte sulle famiglie che, in molti

casi, prive di altri sostegni, si rivolgono per l'assistenza a badanti straniere”. (ISTAT

2007)

Il nesso con il carattere “familistico” del nostro sistema di welfare che, come sostiene

Sgritta, è a sua volta all'origine dei processi di denatalità, di invecchiamento

demografico e di indebolimento dei legami familiari, accelerati e aggravati dalla

crescente partecipazione della donna al mercato del lavoro, parrebbe dunque scontato: il

lavoro di cura fornito dalla sempre più nutrita presenza di donne immigrate, in

particolare nelle aree metropolitane, integra e supplisce il graduale declino delle

responsabilità di cura e assistenza tradizionalmente garantite dalle stesse famiglie.

Estranee che prendono il posto dei familiari, delle figlie e delle mogli in primo luogo,

ma in ogni caso donne; donne che prendono il posto di altre donne in un'attività di

lavoro che si conferma come un destino declinato al femminile, anche all'interno della

nuova divisione sessuale (globale)del lavoro. (Sgritta 2009, p.32)

Negli ultimi quaranta anni, in tutto il mondo (ma con l’eccezione della regione araba,

dove le norme socio-culturali continuano a limitare la mobilità femminile) ad emigrare

sono stati tanto gli uomini che le donne, in numero pressoché uguale (UNFPA United

Nations Population Fund, 2006).

In Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono regolarmente presenti oltre un milione

e ottocentomila donne straniere, pari quasi alla metà degli immigrati (49,9%; Caritas/

Migrantes, 2007).

Nel grafico sottostante sono indicate le prime dieci nazionalità di provenienza delle

donne immigrate in Italia. Le aree di provenienza delle immigrate sono soprattutto

l’Europa dell’ Est, il lontano oriente e l’America Latina. Le più numerose sono le

rumene (quasi 300.000), seguite da Ucraine e Albanesi (oltre 150.000). Sotto le 100.000

presenze le donne cinesi, filippine, moldave, polacche. Di poco sotto le 50.000

presenze, peruviane ed ecuadoregne.

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Tab. 1.3: Donne straniere presenti in Italia – primi 10 paesi d’origine

Fonte: elaborazione da dati Caritas/Migrantes 2007

A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, il principale settore d'impiego delle

donne immigrate in Italia ha cominciato ad essere quello della cura delle persone non

autonome, in particolare anziane. L'introduzione del termine “badante” nel lessico

nazionale esprime proprio l'emergere di questa nuova realtà lavorativa: sempre più

frequentemente le famiglie, anche quelle di estrazione sociale relativamente modesta,

fanno ricorso a questo tipo di di figure lavorative per le cure e l'assistenza dei propri

parenti anziani. (Sgritta 2009, p.30)

Dal canto loro, le donne straniere ampiamente rispondono a tale domanda di lavoro,

intraprendendo percorsi migratori spesso lunghi e faticosi, nell'unica speranza di

monetizzare le competenze che da sempre detengono nella sfera delle mansioni di cura:

il lavoro insomma costituisce un chiaro e forte motivo di attrazione che tante colgono,

ognuna al fine di perseguire un proprio progetto; alcune partono a seguito del marito o

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del padre, moltissime emigrano da sole, emulando le “pioniere” dell'emigrazione

femminile, alla ricerca di nuove opportunità di vita.

Secondo quanto affermato da F. Decimo, riflettendo sulle dinamiche che regolano

l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, è possibile intuire che le condizioni di

impiego a cui tutte queste donne devono adeguarsi, non sarebbero tali da costituire un

vero e proprio fattore di richiamo sufficiente e adeguato a rendere conto dei lunghi e

costosi tragitti di mobilità da loro percorsi: è infatti facilmente intuibile come il mondo

del lavoro domestico costituisca pur sempre una domanda di lavoro fluttuante,

informale, precaria, se non irregolare: il bisogno di una collaboratrice domestica o di

un'assistente ad un ammalato è spesso temporaneo e privo di garanzie, può nascere in

un momento congiunturale della vita familiare o in via sperimentale; e soprattutto può a

volte rappresentare un simbolo di privilegio sociale, e pertanto scaturire da

un'ambizione di status piuttosto che da un'esigenza effettiva di collaborazione. (Decimo

2005, p.80)

Ciononostante, la scelta migratoria diviene, nel corso del tempo, sempre più

frequentemente in versione femminile non soltanto perché si espandono le nicchie che

le donne “conquistano” nel mercato dei lavori di cura in Italia: se donne di diversa

estrazione e condizione accedono più disinvoltamente ai canali della mobilità

geografica, avviene anche perché si diffondono e si rendono raggiungibili opportunità

un tempo elitarie. Ciò diviene possibile entro sistemi migratori che veicolano una

mobilità di persone, denaro, beni e informazioni, tale da poter generare circuiti sociali e

mappe culturali trasversali ai diversi contesti locali; di fatto tale incremento di contatti,

scambi e legami mobilita quella che potremmo definire una “società migrante”, cioè

una popolazione composta da singoli e famiglie che conferiscono significato al loro

passato, vivono il presente e progettano il futuro facendo riferimento ai legami sociali

che intrattengono tra luoghi diversi. Soprattutto tale società migrante non sembra essere

segregata per genere o per età, cosicché, in linea di principio, al suo interno non è

escluso che accanto agli uomini emigrino le donne, accanto agli adulti, i bambini e gli

anziani. Tali sistemi migratori si alimentano innanzitutto attraverso la forza delle

relazioni che li compongono, e ciò comporta che possono anche essere individuati

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percorsi di mobilità la cui ragion d'essere è tutta riposta nella rete di legami sociali a cui

l'individuo è vincolato. (Ibidem, p.89)

1.3.4 Le politiche migratorie italiane e i diversi flussi di lavoratori

La presenza di lavoratrici straniere sul mercato del lavoro domestico in Italia sembra

essere caratterizzata da una sequenza di ondate migratorie separate le une dalle altre,

che si succedono senza che nessuna di esse operi una chiusura del mercato rispetto alle

lavoratrici successive. Nel corso degli anni, flussi di lavoratori provenienti da diversi

paesi, senza sostituire i precedenti, hanno fatto ingresso in questo mercato e occupato

porzioni rilevanti dello stesso, per essere successivamente raggiunti non da propri

connazionali, ma da lavoratori provenienti da altre aree.

Sul mercato del lavoro domestico italiano sono presenti migranti giunti durante tutte le

fasi della storia migratoria italiana: alcuni provenienti da Capo Verde, Mauritius,

Filippine, Eritrea, Etiopia e Somalia, hanno un insediamento storico ormai consolidato;

altri riflettono le trasformazioni nella situazione migratoria europea a metà degli anni

Novanta, con l'inizio dei flussi di lavoratrici domestiche dall'Europa Orientale e dai

Balcani e la crescita della presenza dallo Sri Lanka e dall'America Latina; un ultimo

gruppo è costituito dai flussi migratori di lavoratrici provenienti prevalentemente

dall'Europa Orientale, i quali hanno, nel nostro paese, un'anzianità migratoria molto

limitata.

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Fig. 1.3.2, Stranieri residenti in Italia nel 2006 per paese di provenienza

Fonte: De Paoli 2007

Secondo le ricerche condotte da Colombo e Sciortino nel 2009, questa successione di

flussi migratori di lavoratori mostra un'interessante peculiarità: i flussi più recenti sono

anche quelli numericamente più rilevanti, mentre i gruppi presenti da più tempo nel

lavoro domestico sono anche quelli che mostrano una minore tendenza espansiva.

In linea di principio sarebbe lecito attendersi che gli immigrati che penetrano per primi

in un mercato del lavoro si trovino in una situazione favorevole per attivare ulteriori

nuovi arrivi di connazionali su tale mercato. Coloro che sono presenti per primi, infatti,

sviluppano un patrimonio di relazioni e di conoscenze che li abilita rapidamente al ruolo

di mediatori tra domanda e offerta di lavoro. E questo a maggior ragione in un mercato

(i servizi alle famiglie) dove la fiducia nei confronti della persona gioca un ruolo

centrale, dove il processo di selezione è largamente informale e dove le credenziali

hanno un'importanza trascurabile. (Catanzaro/Colombo 2009, p.168)

Colombo e Sciortino formulano dunque due diverse ipotesi che possono spiegare per

quali motivi i gruppi di migranti più radicati, non sembrano riuscire a presidiare

l'accesso al mercato del lavoro domestico, favorendo l'arrivo di propri connazionali a

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scapito dei nuovi venuti.

Innanzitutto occorre riflettere sull'alta indifferenza verso l'irregolarità riscontrabile nel

settore dei servizi alle famiglie: questa tolleranza rende possibile lo sviluppo di sistemi

migratori irregolari di grandi dimensioni e facilita l'inserimento in questo mercato dei

lavoratori già presenti nel paese.

Un secondo elemento egualmente importante è costituito dal fatto che l'inserimento

lavorativo è successivo, e per molti versi indipendente, rispetto all'ingresso del migrante

sul territorio nazionale. Pochissimi immigrati giungono in Italia avendo già degli

specifici datori di lavoro che li attendono: date le caratteristiche dei processi di ingresso

irregolare e i tempi burocratici degli ingressi legali, se anche un familiare già insediato

potesse individuare prima della partenza un potenziale datore di lavoro domestico,

questi difficilmente accetterebbe un impegni privo di qualunque certezza sulla data di

arrivo. Un periodo intermedio tra la data di arrivo e l'inizio del lavoro domestico è

inoltre spesso necessario per acquisire una minima competenza linguistica e per

orientarsi sul territorio. Anche dal punto di vista del migrante già insediato, è quindi

preferibile attivare i diversi meccanismi di ricerca del lavoro solo quando il nuovo

migrante ha già completato il proprio viaggio con successo. L'ingresso avviene sulla

base dell'aspettativa generalizzata che un qualche lavoro domestico (o più

specificatamente di cura, dove l'urgenza è spesso un fattore fondamentale per la scelta)

verrà trovato rapidamente, non della conoscenza di uno specifico impiego.

Nel corso degli anni Novanta, il succedersi dei programmi di regolarizzazione ha

consentito ad un numero rilevante di lavoratori domestici di acquisire un titolo di

soggiorno legale e gli obblighi di visto per i paesi africani ed asiatici sono divenuti

sistematici, la concessione di visti turistici è stata sottoposta ad una politica restrittiva e

l'uso di canali di ingresso clandestini si è rivelato sempre più costoso in termini

finanziari e rischioso in termini personali.

I sistemi migratori sono stati quindi costretti a rivedere le proprie catene migratorie in

funzione delle opportunità di ingresso legale, utilizzando per quanto possibile i processi

di ricongiungimento familiare e le chiamate nominative dall'estero. Con tale passaggio,

le catene migratorie hanno assunto un carattere più selettivo e orientato al medio

periodo, rinunciando alla celerità e flessibilità dell'ingresso irregolare in cambio della

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forte riduzione di costi e di rischi personali garantiti dall'ingresso regolare.

Negli stessi anni, le dinamiche geopolitiche e il processo di allargamento hanno

consentito la nascita e lo sviluppo di corposi sistemi irregolari basati sull'ingresso dai

paesi candidati (ed oggi membri), da alcuni stati successori dell'ex Urss e dai paesi

latinoamericani. Questi sistemi, pur in assenza di un radicamento precedente, sono oggi

in grado di veicolare grandi numeri di lavoratori domestici, presentando così un

vantaggio competitivo particolarmente cruciale per il lavoro di cura: sono già presenti

sul territorio e possono essere immediatamente operativi.

In pochi anni, i nuovi arrivati sono stati in grado di conseguire una presenza stabile sul

mercato del lavoro domestico, e la loro stessa disponibilità ha finito per produrre un

allargamento dello stesso mercato. Tale disponibilità, insieme alla scarsa credibilità

delle eventuali sanzioni per l'assunzione di lavoratori in condizione irregolare, ha

presumibilmente ridotto l'interesse dei datori di lavoro verso la ricerca di lavoratori

ancora all'estero, indebolendo di conseguenza la capacità di intermediazione dei

lavoratori già presenti rispetto ai nuovi venuti.

In conclusione, si può sostenere che la configurazione delle politiche migratorie italiane

svolge un ruolo importante, per quanto indiretto ed involontario, nel favorire i sistemi

migratori più recenti, a scapito di quelli più antichi. (Catanzaro/Colombo 2009, p. 167-

193)

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CAPITOLO 2

2.1 La funzione di cura: trasformazioni in atto nei ruoli delle donne

Nella preistoria la scelta per la divisione dei ruoli, necessaria per garantire la

sopravvivenza della specie, è stata quella di affidare la caccia e la difesa del territorio

all'uomo, l'allattamento dei bambini e la raccolta di frutti alla donna. Compiti

apparentemente più semplici, che si svolgevano negli stanziamenti (più o meno stabili)

o nelle vicinanze, mentre l'uomo si allontanava verso spazi più ampi, per fare poi

ritorno a casa, dov'era atteso ed accolto.

Le funzioni di cura ed accoglienza, hanno nel tempo identificato un ruolo, quello

“femminile”, che si è stereotipato nei secoli, e che identifica e riconosce la donna,

accettandola come membro della comunità di appartenenza.

I numerosi movimenti di donne che, fin dalla Rivoluzione Francese, avanzavano il

riconoscimento dei loro diritti civili e politici, nel corso del XIX° secolo si diffusero ben

presto in tutta l'Europa, riuscendo in alcuni casi ad ottenere il soddisfacimento delle loro

richieste.

Il Novecento è stato un secolo molto importante per le donne. Molti sono arrivati a

definirlo, dati i numerosi e repentini cambiamenti che si sono susseguiti

incessantemente, modificando radicalmente i costumi sociali tradizionali, il “Secolo

delle donne”. Complessivamente, si può parlare di un progressivo e graduale

riconoscimento dei diritti della donna nella società, talmente graduale da rendere

evidente come il controllo maschile sia intervenuto in questo processo.

Un processo, però, ancora in atto, dal momento in cui oggi alcuni ruoli e funzioni,

soprattutto nel campo professionale, sono affidati quasi esclusivamente a uomini e non

a donne; basti pensare che anche nella lingua corrente raramente sono utilizzati,

ammesso che esistano, termini al femminile quali: architetto, avvocato, medico, etc.

(Perri 2010)

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Per interpretare le trasformazioni più rilevanti nelle strutture familiari, un filo

conduttore è offerto dal mutamento della condizione femminile, iniziato negli anni ’60 e

‘70, quando “la dipendenza dal marito viene allentata grazie alla partecipazione al

mercato del lavoro e alle leggi sulla famiglia…che riconoscono un equilibrio giuridico

tra i coniugi” (CNEL 2008, p. 6). Un processo che sfocia in una fase ulteriore

“dell’affrancamento dalla necessità di avere un marito” e conseguente posticipazione

dell’età al matrimonio e di progressiva diminuzione della nuzialità a partire dagli anni

’80. “Il destino sociale femminile risulta sempre meno legato al matrimonio. (ibidem)

Vivere come single, in coppia di fatto o come madre sola diventano comportamenti

sempre più diffusi e accettati”. Questa graduale modificazione si precisa nei tempi più

recenti, con l’aumento delle donne che volontariamente non hanno figli e che,

comunque, non si sentono limitate dal fatto di non averne; anche se il fatto di vivere da

sola o senza figli rimane un comportamento minoritario, è però vero che “essere figlie,

moglie e madre sono sempre meno sentiti come obblighi sociali e che le donne

vogliono sempre di più valere per quello che sono” (CNEL 2008, p.7).

Questa, naturalmente, è una delle possibili linee interpretative per capire le

modificazioni strutturali della famiglia. Queste si sono concretate in una forte

diminuzione delle sue dimensioni (la media è scesa da 4,1 componenti nel 1951 a 2,5

nel 2008); nell’aumento della quota delle persone che vivono da sole; nel ritardo della

formazione dei nuclei familiari per matrimonio o unione di fatto; nella diminuzione del

numero dei figli; nell’aumento dell’instabilità familiare per separazione o divorzio;

nell’aumento delle famiglie mono genitore o di quelle ricostituite – per citare solo

alcune delle più evidenti modificazioni.

Naturalmente, le trasformazioni del contesto economico e sociale forniscono chiavi di

lettura delle modifiche strutturali delle famiglie altrettanto importanti del variare della

condizione femminile che ne è, simultaneamente, causa ed effetto. E’ fin troppo ovvio il

condizionamento esercitato, sull’offerta del lavoro femminile, dalla crescente necessità

di un doppio reddito nei bilanci familiari. E’ altrettanto evidente l’importanza del lavoro

come garanzia essenziale di autonomia, indipendenza e sopravvivenza in contesti di alta

instabilità familiare.

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Possiamo quindi affermare che la tradizionale preferenza accordata alla

“internalizzazione” dei compiti di cura non è più sostenibile, a fronte di alcuni

cambiamenti sociali individuati, soprattutto, nel progressivo invecchiamento della

popolazione e nell’impegno nel mondo del lavoro dei soggetti che, tradizionalmente,

assumevano il ruolo di caregivers all’interno della famiglia: le donne.

Lo sviluppo di un mercato dei servizi di cura rappresenta, dunque, la risposta

all’indebolimento delle reti familiari di sostegno in un sistema assistenziale in cui

l’intervento pubblico rimane ancora residuale e la domanda di cura è fortemente

orientata verso il mantenimento del soggetto non autosufficiente presso la propria

abitazione. Le problematiche connesse alla trasformazione della cura in un bene di

mercato possono essere comprese solamente tenendo in considerazione le caratteristiche

strutturali del lavoro di assistenza alla persona nell’attuale momento storico.

Dal punto di vista organizzativo si registra un’offerta altamente frammentata

rappresentata da lavoratori individuali (quasi sempre donne), che svolgono la propria

attività sulla base di un rapporto diretto con il soggetto non autosufficiente (o con i suoi

familiari), e che sono in grado di esercitare una forte concorrenza nei confronti dei

servizi di care forniti da strutture organizzate (non o for profit), attese le condizioni di

costo ben più contenute di cui essi possono accontentarsi rispetto a queste ultime.

Inoltre, si tratta di un mercato del lavoro che, come anticipato, gravita in larga parte

nell’ambito del sommerso e che vede occupate, in netta prevalenza, lavoratrici lo

immigrate, molto spesso prive del permesso di soggiorno.

E' evidente il processo di osmosi tra lavoro nei servizi di cura e occupazione

(sommersa) di lavoratrici immigrate irregolari: queste ultime trovano nel primo

opportunità occupazionali adatte alla loro particolare situazione di “clandestinità”

o, comunque, ad un progetto migratorio di breve durata, laddove l’obiettivo primario è

quello di massimizzare immediatamente le entrate; a sua volta il lavoro di cura deve

soddisfare bisogni di assistenza continua, imponendo così ritmi lavorativi intensi che

solo i lavoratori immigrati, attesa la loro situazione di clandestinità, sono disposti (o più

spesso, costretti) ad accettare. (Brun 2005)

Sotto molti aspetti, il lavoro domestico a pagamento può sembrare semplicemente uno

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dei tanti lavori che nessuno desidererebbe intraprendere: scarsa retribuzione e compiti

da svolgere considerati il più delle volte umilianti. Ci sono però molti elementi che

differenziano la cultura del lavoro domestico da tutti gli altri impieghi cosiddetti

“umili”. Il lavoro domestico è profondamente condizionato, in modo a volte evidente, a

volte più nascosto, dalla diversità di status sociale. I rapporti sono diversificati e

complessi. Sono rapporti tra donne, ma prevalentemente donne di diversa razza o

nazionalità, e sicuramente di diversa classe sociale. Si esplica in un luogo che può

essere intimo, gradevole e privato, ma che può anche essere una vetrina di ostentazione

sociale, e la collaboratrice domestica, soprattutto se è un'immigrata, senza alcuna

protezione legale e senza documenti in regola, finisce spesso col dipendere dal datore di

lavoro non solo per il salario, esattamente come questi dipende da lei non solo per il

lavoro manuale svolto.

La domanda di colf è in costante ascesa in tutta l'Europa e, sebbene si possa imputare la

tendenza a molte forze economiche e demografiche, come il ridimensionamento dello

stato sociale, la crescita della popolazione anziana, la femminilizzazione della forza

lavoro, l'aumento dei divorzi e la scomparsa della famiglia allargata, molte cose

rimangono senza spiegazione: per esempio molte collaboratrici domestiche sono

impegnate da donne che non lavorano fuori casa. Molte di loro, inoltre, sono più donne

delle pulizie che governanti. E mentre una coppia che lavora può avere bisogno di

qualcuno che badi ai figli o ai parenti anziani, nessuno ha la reale “necessità” di

impiegare una donna delle pulizie. Abiti stirati e pavimenti lustri non sono vere e

proprie necessità, ma piuttosto simboli che testimoniano lo stato sociale della famiglia,

mostrando che ha la possibilità di accedere a risorse finanziarie e umane.

In effetti, l'impiego di una donna delle pulizie consente alla donna borghese di assumere

il ruolo femminile di supporto morale e spirituale della famiglia, e di essere

contemporaneamente liberata dall'altro ruolo femminile, quello di fornire servizi e di

svolgere le incombenze sgradevoli. L'impiego di una collaboratrice domestica a

pagamento, quindi, aiuta a mantenere il proprio status sociale, non solo attraverso la

manutenzione degli oggetti che ne sono simbolo, ma perché mette in risalto le doti della

padrona di casa. Con il semplice fatto di assumere una colf, la datrice di lavoro svaluta

il lavoro svolto dalla dipendente, e può concedersi di occupare il proprio tempo con

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mansioni più piacevo e redditizie. (Ehrenreich/Hochschild 2004)

Sia che il bisogno sia effettivamente indispensabile, sia che si tratti solo di mantenere

uno status sociale, per la stragrande maggioranza delle immigrate l'esito è pressoché

scontato: in Italia il bisogno è diffuso, il lavoro c'è e la domanda supera l'offerta.

Avere un'occupazione, condividere il mènage familiare con il datore di lavoro, equivale

ad avere garantito il vitto, ed il più delle volte anche l'alloggio. Il guadagno, salvo

qualche piccola spesa personale, è quindi al netto. (Sgritta 2009)

Sebbene l'orario lungo, i salari bassi e la mancanza di privacy rendano in generale poco

ambito il lavoro a tutto servizio, le immigrate, e specialmente le nuove arrivate, possono

trovarlo conveniente: risolvono contemporaneamente i problemi dell'alloggio e

dell'impiego, riducono al minimo le spese e hanno l'opportunità di abituarsi ad una

nuova lingua e a una nuova cultura. La casa diventa inoltre un rifugio nei confronti

della polizia, soprattutto per le nuove arrivate prive di documenti regolari e terrorizzate

dalla prospettiva di venire espulse. I datori di lavoro apprezzano le immigrate che

vivono in casa perché, a differenza delle colf locali, non li abbandonano per badare ad

un figlio ammalato o per eventuali altri obblighi familiari. Le collaboratrici senza

documenti, in particolare, hanno contatti limitati con le proprie famiglie, e a volte non

hanno addirittura una vita sociale al di fuori della famiglia per cui lavorano.

(Ehrenreich/Hochschild – 2004)

Il lavoro domestico, in quanto lavoro svolto principalmente da immigrati, viene

considerato quasi esclusivamente come una forma di sfruttamento basata sulla

sottomissione a rapporti personali che, nel caso degli immigrati, si traducono anche in

rapporti attraversati dal razzismo. È questa la linea in cui si pongono, per esempio,

Andall e Anderson [2000], ed è chiaro che il lavoro domestico co-residente è un

contesto ideale per relazioni asimmetriche, di carattere servile, paternalistiche. Ma in

parte diversa è la ricostruzione proposta da Rachel Salazar Parreñas [2001], la quale,

osservando anche quanto accade sul lato dell’offerta, ovvero tra le donne che

concretamente svolgono lavori domestici a pagamento, mostra che tale lavoro si colloca

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all’interno di una catena costituita da tre anelli, anziché solo da due.

Infatti, come le famiglie di classe media dei paesi europei si rivolgono al mercato

privato del lavoro domestico, così le stesse immigrate che svolgono lavoro domestico

comprano, da donne di estrazione sociale più svantaggiata e non in grado di lasciare il

proprio paese, gli stessi servizi. In questo senso Parreñas non solo mette a nudo alcuni

paradossi, solo apparentemente tali, del sistema, ma mostra anche che le stesse

immigrate, lungi dall’essere esclusivamente destinatarie di forze che le sovrastano e alle

quali esse rispondono passivamente, sono le protagoniste attive di una struttura di

opportunità creata tanto da fattori strutturali quanto dal proprio comportamento, ovvero

dalla propria offerta di servizi. In breve, come accade per altri mercati, la crescita di

lavoro domestico, se di questo si è trattato, potrebbe non essere solo l’esito di un

processo di sostituzione di forza lavoro autoctona che si sarebbe spostata in occupazioni

più elevate da parte di forza lavoro immigrata, in modo tale da mantenere in equilibrio

perfetto e armonico un sistema in cui a una certa quantità di domanda deve

corrispondere un’offerta adeguata. Potrebbe apparire invece anche l’esito di strategie

attive, messe in atto da lavoratori migranti, per creare opportunità di occupazione e

allargare un mercato. (Colombo 2003)

Lo sviluppo di un mercato del lavoro dei servizi di cura costringe a superare la radicata

diffidenza verso l’idea che, intorno all’assistenza della persona, “si possano sviluppare

scambi di natura commerciale” e a tentare una riflessione scientifica su questi temi.

Poiché i carichi di lavoro familiare sono oggi particolarmente elevati quando vi sono

figli piccoli o persone anziane da curare, occorre innanzitutto guardare al ruolo dei

servizi forniti dallo Stato sociale. Tutte le analisi comparative rilevano l'importanza

della disponibilità di servizi pubblici di child-care e di congedi parentali per favorire

l'occupazione delle donne, soprattutto quelle poco istruite. Se aggiungiamo che i paesi

con una maggiore copertura degli asili nido sono anche quelli in cui sono più elevate

l'offerta di servizi di cura agli anziani e la spesa pubblica in servizi assistenziali alle

famiglie, si vede come il welfare state social-democratico, proprio dei paesi nordici, può

favorire l'occupazione femminile grazie a un processo di defamilizzazione, cioè di

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trasferimento dei servizi per sopperire ai più gravi carichi familiari, dalla famiglia alla

collettività. Questo processo, inoltre, agisce anche dal lato della domanda di lavoro,

poiché la crescita dei servizi sociali e di assistenza ha prodotto una grande richiesta di

occupazione femminile. Ma in Italia, come negli altri paesi dell'Europa meridionale, vi

è un regime “conservatore” di welfare state, che considera gli interventi pubblici

soltanto sussidiari alla famiglia, cui è riservato il ruolo centrale di assistere figli, anziani

e disabili. Per contro, nei paesi nordici, il sistema di assistenza ai bambini è stato

costruito espressamente per favorire la partecipazione al lavoro delle donne.

Per quanto riguarda le strutture dedicate all'assistenza domiciliare ai disabili e agli

anziani italiani, oltre ad essere poco diffuse, esse sono tutt'ora riservate quasi

esclusivamente ai casi in cui non vi siano familiari che possano prendersi cura di loro.

Si stima infatti che la percentuale di ultra-settantacinquenni residenti in case di riposo in

Italia non raggiunga il 4% e non presenti alcun segnale di aumento, anche perché negli

ultimi quindici anni si è diffusa una particolare forma di assistenza domiciliare privata.

Per la cura degli anziani e delle persone non autosufficienti lo Stato, più che fornire

servizi, trasferisce alle famiglie redditi monetari sotto forma di pensioni e sussidi (come

l'assegno di accompagnamento, erogato senza alcun vincolo di reddito e di utilizzo,

spendibile quindi anche per pagare servizi privati in nero), che aumentano il reddito

familiare, ma scarico una gran quantità di lavoro di cura sulla famiglia, cioè ancora sulle

donne, costrette a restare a casa o, se molto orientate al lavoro, a scaricarlo a loro volta

su altre donne: le badanti. (Reyneri 2011)

Lavorare a contatto con anziani in difficoltà, tra l'altro, presuppone non solo la capacità

di curare e seguire l’assistito nei piccoli gesti quotidiani (igiene personale,

alimentazione, somministrazione di medicinali), ma anche quella di saper affrontare il

disagio psicologico che a volte si accompagna alla vecchiaia. Per le sue caratteristiche

(convivenza, scarsità di tempo libero, relazione di cura e dipendenza assistito-

assistente) il lavoro di badante è particolarmente difficile e impegnativo anche dal punto

di vista psicologico, e anche per questo non esiste un' offerta di manodopera italiana

disposta a lavorare in quest’ambito.

E’ necessario anche considerare che molte di queste donne prima di fare le badanti

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lavoravano nei propri paesi come impiegate o dipendenti presso enti pubblici, fabbriche

o negozi e non hanno quindi formazione o esperienze nell’ambito della cura della

persona. Le caratteristiche del lavoro, la scarsa preparazione e la mancanza di

esperienza unite alla fragilità derivante dall’essere donne straniere, e talvolta alla

mancanza di motivazione o soddisfazione per la propria professione sono spesso motivo

di disagio psicologico e sociale. (Colombo 2003)

Indagare il mondo delle badanti significa voler fare emergere un fenomeno strutturale

che ha una straordinaria rilevanza sociale. E’ infatti senza dubbio fondamentale il loro

ruolo senza il quale il sistema del welfare e delle strutture assistenziali e sanitarie che si

occupano di anziani probabilmente collasserebbe. L’enorme domanda di assistenza

privata senza la loro disponibilità resterebbe insoddisfatta e di fatto la manodopera di

donne straniere nell’assistenza agli anziani rappresenta ormai una componente

fondamentale, se non maggioritaria, del sistema socio assistenziale. Alla necessità delle

famiglie di accudire i propri familiari non autosufficienti, le badanti offrono una serie di

servizi e un sostegno familiare a basso costo, che permette agli anziani di vivere il più

possibile presso il proprio domicilio abituale. Tuttavia si tende a considerare ancora il

fenomeno delle badanti come separato e scollegato dall’organizzazione dei servizi per

la non autosufficienza, mentre occorre probabilmente operare per una progressiva

emersione, regolarizzazione e per il riconoscimento del lavoro delle assistenti familiari

che metta in collegamento, attraverso politiche sempre più integrate, il sistema pubblico

dei servizi e le strategie familiari private. Se le famiglie scelgono di avvalersi di

collaboratrici straniere rimanendo al di fuori dell’offerta dei servizi pubblici per la terza

età, per evitare il ricovero dei propri cari ma anche per convenienza economica, è

necessario che i servizi si adoperino per attuare politiche che garantiscano e tutelino sia

le famiglie che non possono essere lasciate sole a gestire questo delicato rapporto, che

le lavoratrici, fragili e deboli anche in quanto donne straniere, che vivono ai margini

della legalità e dell’invisibilità. “In conclusione il sistema pubblico risulta confinato in

un ruolo residuale e quello privato si caratterizza spesso per l’assenza di regole, per

l’elusione delle normative fiscali e retributive e per la mancanza di tutela sia per gli

operatori che per gli assistiti.

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Esistono una molteplicità di problemi attinenti al mondo delle collaboratrici familiari

che emergono quotidianamente e che sono sotto gli occhi di tutti: l’irregolarità dei

rapporti di lavoro completamente in nero, nel caso di clandestine o turiste, o

parzialmente irregolari per chi ha un permesso di soggiorno; la loro formazione,

necessaria per la delicatezza del lavoro che svolgono; l’incontro tra la domanda e

offerta che passa ancora quasi completamente attraverso contatti informali; la necessità

di garantire i diritti di assistiti e assistenti. (www.centrointerculturale.org 2005)

2.2 Datrici di lavoro e lavoratrici: donne a confronto

Per comprendere il carattere sostenuto dei flussi migratori (regolari ed irregolari) e la

loro stessa persistenza a dispetto dei tentativi compiuti per ridimensionarne il volume,

occorre considerare anche l'interesse dei paesi d'origine dei migranti, che traggono dalle

loro rimesse ben più risorse di quelle ottenute attraverso gli aiuti allo sviluppo erogati

grazie ai dispositivi della cooperazione internazionale.

“Alcuni dei paesi che hanno alimentato le migrazioni femminili dirette verso l'Italia (si

pensi a Capo Verde e alle Filippine), ad esempio, promuovono da anni iniziative per

incoraggiare l'emigrazione di una parte della popolazione attiva, emigrazione che sarà

tanto più vantaggiosa quanto più definita dal registro della temporaneità” (Zanfrini

2005, p.247)

Proprio le donne impiegate presso le famiglie rappresentano, da questo punto di vista,

una straordinaria risorsa, a maggior ragione allorquando – come assai spesso avviene-

sono emigrate da sole, lasciandosi dietro mariti, figli, genitori e fratelli. La coabitazione

coi datori di lavoro si rivela funzionale alla compressione dei consumi personali e

circoscrive decisamente il rischio d'espulsione; in questo modo, l'interesse dei paesi di

destinazione a disporre di una manodopera adattabile e a buon mercato si salda con

quello dei paesi d'origine a garantirsi un afflusso costante di rimesse, lasciando che

siano queste donne e le loro famiglie a pagare il costo di una separazione forzata e

dell'esclusione dal sistema dei diritti.

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Laddove si fanno garanti della sicurezza economica dell'intera famiglia, queste donne

privano se stesse e i loro familiari di quella sicurezza affettiva che solo la loro presenza

potrebbe garantire. Spinte dall'esigenza di conservare il proprio posto di lavoro e

massimizzare gli invii di denaro, riducono le visite fino a restare lontane per anni e poi

rincontrare figli che quasi non le riconoscono. In tal modo, in tutti i paesi d'emigrazione,

una quota elevata dei figli cresce separata da uno o da entrambi i genitori, priva delle

loro manifestazioni quotidiane di affetto.

Come è stato scritto, questo “è il rovescio della medaglia, tutto femminile, della

globalizzazione, che vede milioni di lavoratrici migrare dai paesi poveri del Sud del

mondo per svolgere il lavoro da donne nel Nord del mondo, lavoro a cui le donne

benestanti non sono più in grado o non hanno più voglia di dedicarsi. Spesso queste

lavoratrici immigrate lasciano i propri figli alle cure di nonne, sorelle, cognate. Talvolta

una figlia, ancora ragazzina, lascia la scuola per occuparsi dei fratelli più piccoli”

(Ehrenreich/Hochschild 2004, pp. 8-9).

2.2.2 Mancanza di libertà e spazi di confronto

Generalmente, con l'espressione “lavoro di cura”, si intende porre l’accento sugli aspetti

della cura di bambini, persone anziane e/o disabili; con «lavoro familiare» l’attenzione è

invece concentrata sugli aspetti organizzativi, gestionali di una famiglia; si parla di

lavoro prettamente domestico quando si tratta di ordinaria manutenzione di una casa.

Quello domestico è un lavoro fortemente caratterizzato dall’elemento della

relazionalità, elemento che le donne hanno esportato anche nel mercato del lavoro, ma

che «spesso non è compensato o fatica a trovare la corretta misura di compensazione

con gli strumenti legali e contrattuali classici» (Scarpelli 2003, 62).

Si tratta dunque di una competenza, acquisita dalle donne attraverso le pratiche

domestiche, che viene considerata e utilizzata, ma che non riesce ancora a trovare un

linguaggio valutativo né nel mercato del lavoro, né tanto meno per quanto riguarda

quegli aspetti che ostinatamente vengono considerati privati.

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Il lavoro domestico non è solo finalizzato ai soggetti deboli (bambini, anziani, ecc.), ma

al contrario «è altrettanto stringente nella riproduzione dei soggetti adulti forti perché è

alla base della loro riproduzione quotidiana e del ripristino delle energie lavorative,

logorate da fatica, stress e insicurezza» (Picchio 2003, p. 44). La domesticità in Italia,

più che in altri paesi europei, è faccenda di donne, e «questo lavoro in più viene

scarsamente tematizzato; è un dato acquisito nella relazione tra uomini e donne

all’interno della famiglia» (Piazza 1997, p. 80).

Il lavoro domestico viene comunque delegato alle donne non tanto o non soltanto dagli

uomini, ma soprattutto dalle istituzioni, che nell’invisibilità e nel mancato

riconoscimento di tale lavoro mirano a nascondere la propria de-responsabilizzazione

rispetto alla sicurezza e al benessere dei cittadini, smantellando le forme di sicurezza

sociale.

Una sorta di doppio inganno, che riversa sulle donne difficoltà di ordine materiale,

perché si tratta comunque di svolgere un lavoro e di assumere responsabilità che

richiedono tempo ed energie, e difficoltà di ordine simbolico, che derivano dalla fatica

di mantenere costantemente quella che le studiose hanno definito «doppia presenza» per

indicare un’attenzione contemporanea alla scena del mercato e alla scena familiare.

Non doppio lavoro dunque - concetto che fa riferimento a competenze magari diverse,

ma allo stesso scenario simbolico - ma doppia presenza, che finisce inevitabilmente per

generare confusione anche nello spazio del mercato, dove alle donne vengono

riconosciute, ancora troppo spesso, qualità personali piuttosto che competenze

professionali.

Un lavoro totalizzante, che sempre meno le donne riescono a sostenere e che provano a

fuggire. Anche la diminuzioni della natalità si può forse leggere come un tentativo di

sottrarsi all’obbligo del lavoro di cura, al quale peraltro vincola l’aumento delle persone

anziane. Allora non resta che appaltare il lavoro domestico, tutto o per almeno alcuni

dei suoi aspetti.

L’obbligo, però, è così interiorizzato che, paradossalmente, le donne stesse si

considerano come inadeguate quando non riescono a fare fronte da sole al lavoro

domestico, tanto che sovente capita ancora di leggere un disagio, una resistenza ad

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ammettere di avere assunto una colf. (Alemani 2004)

Tocca ancora alle donne, che costituiscono il centro di una rete di relazioni familiari, il

compito di cercare un aiuto domestico. Lo cercano per la famiglia che hanno costruito,

per la famiglia d’origine e/o per quella dell’uomo con il quale vivono. E qui si crea un

ulteriore corto circuito, perché sono altre donne ad assumersi il carico di tale lavoro.

Pare dunque delinearsi un conflitto interno al genere femminile: per permettere alle

donne dei paesi ricchi di godere della possibilità di lavorare fuori casa, occorre che altre

donne, che provengono da paesi o da contesti poveri, siano ricondotte in casa ad

assumersi quel carico che è «naturalmente» pertinente al genere femminile.

Svelare valenze e contraddittorietà del lavoro domestico permette allora di spostare il

terreno del conflitto, di ricondurlo alla sua complessità. Ciò evita innanzitutto di

racchiudere all’interno del genere femminile contraddizioni molto più ampie, che

riguardano la distribuzione della ricchezza, il divario tra paesi poveri e paesi ricchi, le

migrazioni – insomma, il modello globale di sviluppo. Ma, probabilmente, ciò permette

anche di aprire una possibilità di confronto tra le donne, a partire da una condizione

comune, quella cioè di essere al centro di una delega irreversibile, di essere

nell’impossibilità di scegliere.

Resta il problema di trovare modi per trasformare la mancanza di libertà in uno spazio

di confronto: se è innegabile che il lavoro domestico può costituire il tratto comune, è

altrettanto innegabile che estremamente diverse siano le condizioni materiali della vita

tra coloro che lo appaltano e coloro che lo svolgono. Tale diversità di condizioni

comprensibilmente inibisce il confronto, reso ulteriormente difficile dal fatto che sia chi

appalta il lavoro sia chi lo svolge ne vive le contraddizioni come parte di un aspetto del

privato. Occorre allora comprendere come un certo silenzio sul tema del lavoro

domestico non sia casuale, ma al contrario funzionale, sia perché costringe le donne a

muoversi sul terreno della contrapposizione piuttosto che su quello della condivisione,

sia perché ne nega il riconoscimento sociale e ne svilisce le competenze. (Alemani

2004)

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2.2.3 Incontri culturali asimmetrici?

Il “parlare di badanti” in tutti i suoi aspetti chiama necessariamente in gioco la

questione del confronto, altrettanto ravvicinato e costante, con comportamenti di genere

fra loro diversi. Volenti o nolenti, le lavoratrici domestiche migranti spesso incarnano

modelli di femminilità che mettono in discussione le concezioni predominanti in Italia

riguardo all'emancipazione delle donne, al loro successo personale e, soprattutto, alla

maternità. Il confronto diventa dirompente di fronte alle cosiddette “madri

transnazionali” in quanto donne che perseguono un modello di genitorialità “a distanza”

basato su valori e pratiche di accudimento di carattere diverso (se non opposto) a quelli

sui si fonda la società italiana in questo momento storico. La spesso lamentata

“inconcepibilità” delle scelte operate da queste madri, ben rappresenta il conflitto fra di

essi.

L'esperienza di queste donne apre una finestra su di una situazione incredibilmente

stimolante dal punto di vista del genere: un rapporto ravvicinato, quotidiano - “intimo”

si direbbe - fra donne diverse per classe, “razza”, religione, lingua e, soprattutto, fra

donne che sono in una chiara gerarchia di potere. In tal senso, l'icona-badante rimanda

alle possibili modalità di articolazione di tale relazione: maternalismo piuttosto che

dipendenza, competizione e conflitto, autoritarismo, ecc. In quest'ottica, “parlare di

badanti” significa spesso per molte donne italiane, proprio quelle che hanno scelto di

lavorare “fuori casa”, parlare di come gestire il proprio potere su colei che, nelle loro

case, è alla prese con quel lavoro fisico ed emotivo, di cura e pulizia, di cui pensavano

di essersi liberate. (Marchetti S. 2011)

«Onestà», «disponibilità» e «gentilezza» sono le parole che vengono associate

d’impulso alla collaboratrice familiare ideale, parole che esprimono qualità e capacità

differenti a seconda dei bisogni di cui le datrici di lavoro sono portatrici. L’onestà viene

intesa sia come incapacità di compiere atti considerati illeciti, sia come correttezza nel

dichiarare le ore di lavoro e/o le operazioni svolte quando la datrice di lavoro è assente.

In tali casi all’onestà viene legata la fiducia, percepita come patto reciproco («io non ci

sono, e in qualche modo ci dobbiamo fidare l’una dell’altra», «lei si deve fidare del

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fatto che io la paghi, e io mi devo fidare del fatto che lei abbia fatto ciò che dice»). Se

invece la datrice è presente, l’onestà viene messa in relazione anche alla capacità di

svolgere un «lavoro ben fatto», nel senso di accurato e preciso. (Alemani 2004)

Occorre, inoltre, sottolineare che l’onestà è strettamente legata alla sfera dell’intimità

della datrice di lavoro, una sfera estremamente soggettiva che non viene esplicitata, ma

data per scontata. È compito delle collaboratrici familiari di volta in volta, di casa in

casa, scoprire quali siano i confini di tale sfera per non correre il rischio di varcarli. A

fronte, infatti, di alcune datrici di lavoro che si dichiarano contente se gli indumenti

stirati vengono riposti, chi ha associato l’onestà alla colf ideale dichiara che «mettere

negli armadi è una cosa che può fare un familiare, è una cosa intima». La casa viene

percepita come una sorta di prolungamento di sé, e la violazione degli spazi considerati

privati, degli spazi chiusi soprattutto, è avvertita come violazione del sé.

«Disponibilità» è la caratteristica associata alla colf ideale da chi ha bambini,

«gentilezza» da chi le affida persone anziane. Per chi ha bambini, la disponibilità è

intesa come flessibilità nell’uso del tempo («coprire le emergenze che possono capitare

anche all’ultimo minuto»), oltre che come disponibilità alla cura («una sostituta della

mamma»). Alla parola «gentilezza» si attribuisce una gamma ampia di significati, che si

traducono in richieste per la colf: si va dalla capacità di essere pazienti, di sapersi

adeguare alle richieste di persone che «hanno bisogno di maggiori attenzioni», alla

capacità di instaurare un colloquio, un rapporto. Insieme alla gentilezza vengono

considerate importanti l’«educazione», la «calma», ma soprattutto il «rispetto» per la

persona anziana. La cura dei bambini sembra porre problemi prevalentemente sul piano

organizzativo (orari che non coincidono, malesseri improvvisi cui fare fronte). C’è nella

cura degli anziani, invece, un maggior carico di ansia generale, sia perché - nonostante

il lavoro di cura - le condizioni degli anziani sono comunque destinate a peggiorare, sia

perché badanti non più giovanissime prefigurano lo scenario del proprio futuro, che

vedono vicino e temono. (ibidem)

Nonostante la condivisione della vita quotidiana e degli spazi privati, il rapporto fra

stranieri e autoctoni conserva a volte una forte distanza sociale, spesso mascherata nei

discorsi. La datrice di lavoro qualche volta è descritta “come una sorella” o “come una

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madre”; la persona anziana “come un padre” o “come un nonno”, ma dietro questa

terminologia, che tende ad assimilare la domestica straniera ad un possibile membro

della famiglia, si nasconde un profondo senso di estraneità. I1 passaggio dal lavoro per

sé e/o per la propria famiglia a quello per gli altri modifica il senso che gli viene

attribuito, creando quella che si può definire una “frontiera nell’intimità“. Questa, legata

alla presenza di una persona

estranea nel domicilio, nella situazione migratoria assume una valenza culturale il cui

significato è tratto dalla posizione subalterna che le migranti occupano ed è

accompagnata da una crisi culturale, vissuta ed esplicitata in modo diverso secondo le

intervistate. L‘arrivo nel settore domestico coincide spesso con la permanenza in una

famiglia diversa dalla propria e questo passaggio verso una “intimità estranea” spesso è

descritto come uno choc culturale, accompagnato da una grande difficoltà nel decifrare i

codici culturali, i significati e il sistema di relazioni locali. (Miranda 2002)

Un altro elemento che contribuisce alla costruzione di una possibile crisi culturale

vissuta dalle migranti è rappresentato dal fatto che il lavoro casalingo da loro svolto,

non è in continuità con quello della società di origine; esse devono ridefinire le proprie

conoscenze e le tecniche incorporate sotto forma di habitus. Che lavorino ad ore o a

tempo completo, tutte hanno dovuto riapprendere ad assicurare l’igiene, l’ordine del

modo domestico, la gestione della salute e della malattia, secondo la realtà locale.

Oltre agli usi e costumi quotidiani, la diversità riguarda il tipo di casa, l’organizzazione

abitativa e perfino il clima; tutti questi elementi inducono ad una diversa esplicitazione

del ruolo domestico, spesso utilizzato dalle straniere come la base per una

comparazione culturale. (ibidem)

Il rapporto tra le donne e la propria casa chiama comunque in causa il “fantasma

materno”. Lo evoca il desiderio di essere accudite, di trovare nella persona che entra in

casa attenzione e disponibilità per sé. Ma se in quello spazio privato che è la casa ci si

può, forse, concedere di non essere all’altezza delle proprie aspettative, non è consentito

sottrarsi al confronto con il fantasma della propria madre e della sua casa. Per questo il

rapporto con la casa non è mai del tutto pacificato: occorre affrontare l’incontro, o lo

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scontro, con l’immagine della madre, e con quella delle sue regole domestiche, che

ciascuna donna porta impresse dentro di sé. Nella casa, nel modo di tenerla in ordine o

in disordine, nel modo di pulirla o di non pulirla, e nel modo di aspettarsi che ciò venga

fatto, si mette in scena un atto della relazione con la madre.

Appare evidente, nella domanda di collaborazione domestica e familiare, una certa

confusione tra l’ambito delle competenze che si possono chiedere a una lavoratrice e

l’ambito delle qualità intese come patrimonio soggettivo che precede le competenze.

Come succede anche in altri settori lavorativi che hanno al centro la cura delle persone,

questi ambiti si mescolano e si sovrappongono continuamente, rendendo tali lavori

faticosi e stressanti.

In questo particolare settore, tuttavia, il valore attribuito all’ambito delle qualità, lungi

dal costituirsi come valore aggiunto della collaborazione prestata, diminuisce la

significatività di quello competenziale e impedisce un adeguato riconoscimento del

lavoro stesso. Le datrici di lavoro più giovani, e paradossalmente quelle che ammettono

di essere molto rigorose nelle richieste alle colf («chiedere tutto quello che possono

dare»), riconoscono più facilmente le competenze delle collaboratrici familiari, anche se

le utilizzano forse con maggiore freddezza. (Alemani 2004)

Le datrici di lavoro nel complesso richiamano la dimensione della relazione

interpersonale e ne evidenziano l’importanza. Il rapporto di lavoro funziona se si

stabilisce una relazione; altrimenti neppure buone competenze tecnico-professionali

sono sufficienti. Evidentemente esiste un notevole investimento affettivo delle datrici di

lavoro, dovuto in parte al fatto che le collaboratrici risolvono problemi cui non si

saprebbe fare fronte altrimenti. Ma esistono anche altri fattori, come il fatto che le

donne hanno bisogno di creare relazioni nei luoghi in cui vivono e lavorano.

In secondo luogo, lo spazio chiuso della casa, la dualità del rapporto e il tipo di lavoro –

richiesto e prestato - fanno sì che inevitabilmente si creino condizioni di “stretta

vicinanza“ che favoriscono la relazione. In terzo luogo, le datrici di lavoro, soprattutto

coloro che sembrano rifarsi a un sistema etico-valoriale che minimizza le

differenziazioni tra le persone, vogliono essere percepite «buone» e «accomodanti»

perché faticano ad assumersi il peso di detenere il potere decisionale. Lo sviluppo di

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una relazione personale, dunque, attenua la responsabilità.

Non sempre, comunque, le relazioni sono improntate al dialogo. Le datrici meno

giovani, che da lungo tempo o da generazioni fruiscono di una collaborazione, pensano

ancora di dover educare una ragazza venuta dalla campagna a «servire» in città, anche

se sono consapevoli degli enormi cambiamenti sociali di cui sono state testimoni.

Dicono di seguire la collaboratrice, di «preparare il lavoro». C’è di fondo la

convinzione di non potersi fidare del tutto. In tali casi si ha l’impressione che le datrici

ascoltino con orecchio un po’ distratto, al massimo per essere educate, ciò che forse

viene loro raccontato, ma che nulla dicano di sé.

Alcune datrici di lavoro poi - soprattutto se appartengono alla fascia di reddito elevato o

condividono sistemi valoriali improntati alle differenziazioni tra le persone - rivelano

maggiori resistenze alla relazione. «È preferibile che non ci sia un rapporto oltre a

quello professionale. Così è più facile. Si chiede, e si può ottenere o non ottenere». C’è

dunque un tentativo di rifiutare la relazione vissuta, in questo caso, come un vincolo che

potrebbe impedire di chiedere quanto ci si aspetta che venga fatto. Forse c’è anche la

convinzione che la distanza possa negare o ridurre l’inevitabile intimità che si crea in

special modo quando la collaboratrice convive con la datrice. (Alemani 2004)

2.3 Culture a confronto: spazi per l'integrazione sociale e culturale delle

lavoratrici immigrate

La figura della donna è oggi un universo complesso e caleidoscopico, costituito da

relazioni, emozioni, affetti, spesso anche frustrazioni ed umiliazioni, che recano con sé

un notevole bagaglio di istanze sociali: realizzarsi nella moderna società come

lavoratrice, madre e compagna, significa individuare sia la propria personale identità,

sia rimarcare il proprio ruolo e rivendicare i propri spazi. Se ancor oggi, purtroppo, le

donne italiane s’interrogano sullo stato di attuazione delle “ pari opportunità “, per le

donne straniere il compito è senz’altro più arduo.

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Il fatto che un sempre maggior numero di donne soffra varie forme di povertà è legato,

probabilmente, al fatto che esse hanno minori possibilità di accesso all’istruzione e alle

risorse produttive e, in alcuni casi, al fatto che esse hanno minori diritti nella famiglia e

nella società. Questo, infatti, influisce negativamente sull’intera famiglia e, soprattutto,

sui figli, e quindi su tutta la comunità; in alcuni Paesi, benché le donne si occupino

dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame e di altre attività che producono reddito,

non hanno diritti di proprietà né possono ottenere prestiti bancari e, di conseguenza non

hanno la possibilità di uscire dalla povertà. Il più delle volte, nelle famiglie disagiate la

preferenza è data ai maschi quando si tratta di frequentare la scuola o corsi di

formazione, e non è raro il caso in cui le ragazze devono lavorare per mantenere agli

studi i fratelli maschi; in tante zone del mondo, alle donne ed alle ragazze vengono date

le rimanenze e gli avanzi dei pranzi consumati dai maschi. (Trani 2003)

Da alcuni decenni le famiglie italiane danno impiego principalmente alle donne

straniere. Donne venute da lontano, spinte da bisogni economici, vengono qui per dare

una mano alle famiglie italiane. E’ avvenuto in modo quasi spontaneo: le famiglie

italiane cercavano un aiuto in casa, le donne straniere cercavano una possibilità di

migliorare la loro condizione economica. Prima sono venute le donne delle ex colonie

italiane: somale, etiopi, eritree, dopo le donne Filippine, le sudamericane. Infine, dopo

il crollo del comunismo, le donne dell’Est. (Decimo 2005)

Con una colf (in nero o in regola) le donne italiane cercano di mantenere la loro

“doppia presenza”: nella famiglia e sul lavoro. Infatti non sono più solamente le donne

ricche che non lavorano ad avere bisogno di una colf, ma si tratta di donne di tutti gli

strati sociali, le donne che vivono in città, le donne che hanno impieghi impegnativi con

lunghi orari. Le Italiane sono chiamate ad impegnarsi su diversi fronti: tentano di

conciliare la vita professionale e di occuparsi di pochi e adoratissimi figli, e di accudire

i genitori longevi. Spesso, non avendo una famiglia allargata alle spalle, si devono

affidare alle straniere.

Quindi entrano nelle case italiane sguardi stranieri, con una loro impostazione culturale

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su come dovrebbe funzionare la famiglia, sull’educazione da impartire ai minori,

sull’accudimento degli anziani, sullo spazio della casa e sulla distribuzione dei ruoli in

famiglia, tutti elementi che implicano “il lavoro di collaboratrice domestica”.

(Lazzarini, Santagati, Bollani 2007)

Delle nuove migrazioni femminili, negli ultimi anni, si è parlato parecchio in campo

lavorativo, a proposito di assistenti domiciliari e di servizi di cura. Molto meno

tematizzata, almeno nel dibattito italiano, è la trasformazione prodotta sui rapporti

intergenerazionali da un’emigrazione che nasce, e spesso si sviluppa, solamente “al

femminile”: da un lato, nel lungo distacco tra madri e figli sopportato da molte di

queste famiglie, che può produrre lacerazioni non sempre ricomponibili, nonostante la

dedizione delle madri a tenere viva la relazione sul piano dell’accudimento materiale

dei figli e, per quanto possibile, nella condivisione degli affetti e delle loro esperienze di

vita quotidiana; dall’altro lato, nelle conseguenze del ricongiungimento familiare,

laddove avviene, sui percorsi di crescita dei figli, sui progetti di vita in immigrazione

delle madri, sulla ricerca di nuovi equilibri per famiglie migranti che rimangono

sovente monogenitoriali. (Ambrosini, Boccagni 2007)

Donne straniere, domestiche con saperi e usanze da una parte, e la “signora” dall’altra,

possibili collisioni o nuove combinazioni nella gestione dello spazio familiare. Le

famiglie italiane probabilmente intuiscono le doti di caregiver che le donne migranti

portano con sé come preziose e significative, e si incuriosiscono, domandano. Molte le

domande alle colf, soprattutto nel nord Italia, dove si vuole conoscere come ha vissuto

la colf in patria, quali esperienze ha vissuto: se è stata moglie, se è madre, come vivono

i suoi parenti. (CNEL/Fondazione S. Andolfi 2003)

Sicuramente la donna immigrata appare come interprete principale d’un lento e

silenzioso sviluppo all’interno della società di accoglienza; nel contempo non è da

trascurare il fatto che, proprio il processo d’inserimento ed integrazione della donna

straniera nel nostro Paese, potrebbe agevolare il processo di edificazione e

consolidamento di una società realmente multietnica ed interculturale. (Decimo 2005)

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Sono numerosi i problemi che le donne immigrate affrontano quotidianamente nelle

città italiane. Sistemate, o comunque temporaneamente risolte in qualche maniera le

questioni più urgenti ed essenziali per poter condurre una esistenza quantomeno

decorosa – permesso di soggiorno, una qualunque sistemazione abitativa, un lavoro –

anche alle donne straniere, come del resto a tutti gli immigrati, resta da affrontare quello

che, senz’ombra di dubbio, era ed è il più grande ostacolo ad una vera integrazione: la

diversità delle culture.

Diffidenze e pregiudizi reciproci fra immigrati ed autoctoni impediscono il decollo di

una vera società civile multietnica ed interculturale mentre, come molti sostengono,

solo la conoscenza e lo scambio reciproci potranno consentirci di superare questi

problemi. (Trani 2003)

Come già accennato in precedenza, se la situazione è già di per sé difficile per gli

uomini, lo è ancor di più per le donne immigrate, costrette troppo spesso a subire

angherie e violenze senza avere la forza, la conoscenza o gli strumenti necessari per

cambiare le cose.

Facilmente le immigrate subiscono violenza sotto forma di sfruttamento sul lavoro,

dove non vengono loro pagati i contributi INPS, a volte possono essere costrette a

subire abusi sessuali per conservare il posto di lavoro, senza contare il fatto che non è

raro il caso in cui, in presenza di una gravidanza, vengono messe alla porta dai datori di

lavoro senza alcun preavviso.

Tuttavia non sono solo singoli cittadini a procurare difficoltà alle donne immigrate:

anche le leggi e le strutture pubbliche, in molti casi, risultano del tutto inadeguate.

Insidie e pericoli per le donne immigrate non vengono, però, solo dall’esterno: vengono

anche dalla loro personale esperienza e cultura. Infatti, una volta giunte in Italia, spesso

non abbandonano usi e costumi del proprio Paese d’origine, compresi quelli considerati

giustamente aberranti da noi occidentali, come ad esempio l’infibulazione.

Questo forte attaccamento alla tradizione, se da un lato favorisce il legame con la

cultura che si è state costrette ad abbandonare, dall’altro è spesso dovuto solo ad

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ignoranza o superstizione. Accade spessissimo che le ragazze costrette da piccole a

pratiche di mutilazione genitale ( ancor oggi molto diffuse nell’Africa Subnilotica ) non

riescano a trovare una occupazione stabile. Questo in virtù del fatto che mensilmente,

durante i giorni del ciclo mestruale, non sono assolutamente in grado di svolgere alcun

lavoro. Quanto alla questione inerente il “velo“, la decisione d’indossarlo o meno è

solitamente legata, esclusivamente, ad una scelta della stessa donna; anche se, è bene

precisarlo, la donna islamica che non lo indossa viene meno, nella concezione della

propria comunità di appartenenza, ad un dovere etico – morale che potrebbe

emarginarla (anche se non sono pochi gli stessi musulmani che criticano questi

atteggiamenti di censura ). (Trani 2003)

Gli elementi chiave di una strategia per ridurre la povertà dovrebbero essere, dunque,

la garanzia dell’accesso di ragazze e donne ai vari livelli di istruzione, alle cure

mediche, alle terapie riproduttive, ai prestiti, ai mezzi, oltre che all’informazione

sull’alimentazione, sulla diffusione del virus HIV, sui propri diritti.

2.3.2 Integrazione e disagi psico-sociali dei lavoratori stranieri

Ma quali sono allora le dimensioni predominanti che contribuiscono a generare

particolari situazioni di disagio psicosociale? Va considerato in primo luogo che, in un

contesto globale, caratterizzato da crisi economico-finanziarie cicliche e da un

indebolimento complessivo della forza contrattuale dei lavoratori, in special modo in

settori lavorativi che si avvalgono di figure professionali mediamente o poco

qualificate, la precarietà lavorativa interessa un numero sempre maggiore di lavoratori

e, fra di essi, un numero assai elevato di lavoratori stranieri. Il protrarsi nel tempo di

tale condizione, unitamente al rischio di perdere del tutto il lavoro e con esso il diritto a

rimanere in Italia, determina una forte pressione psicologica difficilmente sopportabile

a lungo. E’ l’insieme di questi fattori che porta ad accettare di lavorare in condizioni

particolarmente sfavorevoli senza la possibilità di rivendicare apertamente i propri

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diritti. Quando poi il disagio si trasforma in patologia (pensiamo ad esempio alle

pressioni psicologiche a cui spesso sono sottoposte le assistenti familiari), si innescano

strategie di occultamento del disagio, sia agli occhi del datore di lavoro che dei propri

connazionali, per non mettere a rischio il posto di lavoro; in altri casi invece le priorità

connesse alla necessità di guadagno fanno sì che i segnali di disagio vengano

sottovalutati o addirittura non vengano considerati per non sottrarre tempo al lavoro

fino a quando la malattia, sia essa di tipo psicologico o fisico, non si manifesta in forma

dirompente. Inoltre, nella generale flessibilizzazione del mercato del lavoro, i lavoratori

stranieri, al lavoro regolare, che consente il rinnovo del permesso di soggiorno, spesso

affiancano altri lavori che consentono loro un guadagno supplementare utile a

fronteggiare le necessità di spesa e di risparmio. In queste condizioni, la conciliazione

dei tempi lavorativi e fra tempi di lavoro e vita privata, diventa assai complicata,

imponendo generalmente una compressione massima delle opportunità di

socializzazione e, per coloro che sono riusciti a ricongiungersi con la propria famiglia,

della sua gestione. (Borghi, Grandi 2010)

Il disagio individuale diventa quindi, in molti casi, disagio familiare nella misura in cui

non esistono o sono ridotti al minimo gli spazi di confronto e si erode progressivamente

la capacità dei genitori di influire positivamente nel processo di crescita dei figli.

Spesso è la donna immigrata a farsi carico della gestione e del raccordo di attività

plurime e a vivere, esattamente come la donna italiana, lo stress della “doppia

presenza”, con elevati oneri di conciliazione dei tempi di cura, di cui rimane la

principale responsabile nei confronti di coniugi e figli, e dei tempi di lavoro.

Sono inoltre sempre le donne ad essere maggiormente discriminate nel contesto

lavorativo con una ricaduta negativa sul loro capitale di salute iniziale. (CNEL 2004)

Laddove il tema delle “madri a distanza” emerge alla ribalta, l’orientamento prevalente

del discorso pubblico oscilla tra diverse reazioni emotive: in molti prevale

semplicemente un senso di fatalità, come se il care drain, o “drenaggio di risorse di

cura” fosse una conseguenza inevitabile degli squilibri economici tra le diverse aree del

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mondo; in altri, emerge lo stupore per il “coraggio” dimostrato da queste donne, capaci

di farsi carico di una prolungata lontananza dai figli, e di una vita piena di sacrifici, per

offrire loro un futuro migliore; in altri casi ancora, e in maniera crescente nei paesi

d’origine, si fa strada la disapprovazione (se non lo stigma) per la “irresponsabilità”

verso i figli (Parreñas, 2005) di cui, al contrario, la loro lontananza da casa sarebbe

un’indiscutibile dimostrazione.

Nessuno di questi atteggiamenti aiuta a comprendere l’esperienza di vita delle madri

migranti – la progettualità che le alimenta, la sofferenza che le accompagna, i molteplici

sbocchi che può assumere – in termini privi di moralismi o pregiudizi ideologici. Non

aiutano soprattutto a prefigurare, nella comunità locale in cui lavorano, possibili

interventi d’aiuto a loro sostegno.

La condizione di “madre a distanza”, prolungata per anni, è legata a una dimensione

strutturale delle politiche migratorie: la difficoltà di praticare quel ricongiungimento

familiare a cui molte di loro (ma, è bene ribadirlo, non tutte) aspirerebbero. Al tempo

stesso, ci sono linee di azione, interne al raggio delle loro capacità e competenze, che

potrebbero essere utilmente potenziate per alleviare, in qualche misura, i vissuti

soggettivi più problematici delle madri migranti. Molte energie e competenze sono state

spese nel nostro Paese, negli ultimi anni, per facilitare l’emersione lavorativa delle

assistenti domiciliari, per qualificarne l’offerta di lavoro, per migliorarne il profilo

formativo e raccordarlo con le esigenze delle famiglie in termini meno “spontaneistici”

di quanto non avvenisse in precedenza. (Ambrosini, Boccagni 2007)

Altri fattori che risultano influire direttamente sulla salute psicosociale delle lavoratrici

e dei lavoratori stranieri riguardano l’accesso e la fruibilità dei servizi socio sanitari

territoriali. Un primo aspetto strutturale ha a che fare con la disomogeneità quantitativa

e qualitativa di tali servizi sul territorio nazionale. E’ evidente infatti che la prossimità

dei servizi e la capacità di fornire una risposta tempestiva ed adeguata alle sollecitazioni

dell’utenza (anche quella straniera) contribuiscono in maniera significativa al benessere

complessivo di un territorio e di chi lo abita. Vi sono poi altri fattori che determinano il

mancato accesso ai servizi, fra di essi la scarsa conoscenza da parte dei lavoratori

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stranieri dei servizi erogati e delle modalità di accesso. Nelle aree metropolitane la

ricchezza dell’offerta non costituisce di per sé una garanzia all’accesso: l’assenza, in

alcuni casi, di un marketing dei servizi strutturato e di procedimenti di comunicazione

interculturale che sappiano presentare l’organizzazione complessa del sistema dei

servizi e la diversità di funzione e offerta dei diversi nodi della rete, depotenzia le

opportunità inclusive che i sistemi di welfare diffuso vorrebbero ottenere. (Borghi,

Grandi 2010)

Le comunità straniere e/o le associazioni, “luoghi” di riferimento nei giorni di riposo,

potrebbero rappresentare un’importante risorsa per gli immigrati che vi fanno

riferimento, ma troppo spesso risultano trascurate, se non addirittura invisibili.

Maggiore partecipazione, coinvolgimento, dialogo, nonché sostegno sia economico che

rivolto agli aspetti, per esempio, formativi, potrebbero incentivare questi “luoghi” come

catalizzatori e mediatori di integrazione.

Se la difficoltà sta proprio nell’integrazione, in alcuni casi alle lavoratrici straniere

rimane solo il tempo di idealizzare quello che hanno perduto, i valori e il modo di

vivere nelle loro culture: come la vita in Italia prima della partenza era immaginata

come una vita bella, facile e tutta al positivo, così anche la vita in patria, una volta

immigrate, diventa “la vita delle appartenenze, della cura e delle emozioni”. Ed i

bisogni emozionali delle donne che migrano sole, fungono doppiamente da richiamo: i

primi riguardano il passato, le appartenenze, le origini, il legame che continuano a

mantenere con le famiglie inviando rimesse, i secondi sono più rivolti al futuro e

prospettano una situazione familiare di cui il ricongiungimento è solo l’inizio.

Entrambi, per essere soddisfatti, prevedono che le immigrate lavorino e che,

continuamente, “organizzino e progettino” la migrazione, ma per la maggioranza

l’orientamento culturale, e probabilmente anche la storia sociale, sono più volti ad una

vita quotidiana dove il rispetto delle tradizioni e della famiglia hanno una priorità sul

tempo e sull’organizzazione della vita.

Pur essendo, infatti, le lavoratrici straniere portatrici di una forte cultura di gruppo,

orientata alla cura e alla rete di supporto, la possibilità di fare scelte personali e di

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distaccarsi da una vita “pre-scritta” sta crescendo anche nei loro paesi: quelle da meno

tempo in Italia sono, il più delle volte, donne intorno ai 30 anni, scolarizzate, che hanno

preso la decisione di immigrare in modo più privato e personale, indipendentemente dal

desiderio della loro famiglia. (CNEL 2004)

2.3.3 Culture familiari a confronto

Nel contesto italiano, una ricerca promossa dal CNEL in collaborazione con la

fondazione Andolfi (2003), ha fornito una prima fotografia delle lavoratrici straniere

presenti all'interno delle famiglie italiane, assunte come colf, assistenti familiari e baby-

sitter, mediante la distribuzione di un questionario a 400 donne provenienti da Filippine,

Perù, Polonia, Capo Verde, Somalia, Etiopia, Eritrea. Circa il 26% di esse svolge un

lavoro di assistenza agli anziani: nonostante la precarietà, la subordinazione e la

discriminazione che sperimentano nella condizione di lavoro, le donne del campione

considerano l'emigrazione una scelta positiva nel proprio percorso. La loro qualità di

vita, infatti, è generalmente migliorata in seguito all'esperienza migratoria: per tali

motivi, le donne contattate nell'indagine propendono verso una stabilizzazione in Italia

(Cnel, Fondazione S. Andolfi 2003).

Tuttavia, il clima che caratterizza i rapporti tra la colf e i datori di lavoro, non è sempre

positivo: la straniera, non sempre riconosciuta e rispettata come lavoratrice si ritrova in

un ambiente poco “alla pari”, vivendo piuttosto una situazione di forte gerarchia e

subordinazione. Poca fiducia e scarso rispetto hanno ricevuto le colf nella situazione

precaria in cui si trovavano prima della sanatoria. Le interviste, infatti, sono state

raccolte tra l’inverno e la primavera del 2003, cioè nel periodo della “sanatoria per la

regolarizzazione dei collaboratori domestici”, con la quale si intendeva migliorare la

situazione lavorativa delle colf.

Le 400 colf intervistate hanno dichiarato che le famiglie italiane presso cui lavorano si

possono permettere di “viziare” i propri figli: i genitori danno troppo e ricevono in

cambio dai figli molto di meno. Agli occhi delle immigrate, la famiglia italiana

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sembrerebbe puntare esclusivamente sulle giovani generazioni, non più, come in

passato, in nome di una restituzione di un debito che da anziani si potrà ricevere, poiché

anche le donne straniere hanno percepito che l’anziano rappresenta sovente un peso, e

non ha tanto valore per i figli.

Hanno descritto un paese dove è ancora la donna a farsi carico del lavoro nella famiglia,

anche se ogni giorno più supportata e aiutata dal marito. Queste sono le principali

differenze e punti di scontro tra le due culture: da una parte la cultura

dell’individualismo, più espressiva ed orientata alla produzione, dall’altra parte le

culture di gruppo e di forte appartenenza.

Le colf inoltre hanno visto più “Italie”: il modello familiare del Sud sembra ancora

essere caratterizzato da tante coabitazioni intergenerazionali, tanti contatti sociali e di

aiuto tra i parenti. Le colf notano la forte istituzionalizzazione del matrimonio e

l’influenza dei genitori nelle scelte personali di figli. Forse questo ambiente orientato ai

bambini e alla parentela è un ambiente dove le colf si trovano meglio, perché

assomiglia di più ai loro paesi d’origine: ci sono meno soldi, ma le reti familiari sono

più forti.

I dati della ricerca rivelano inoltre che in realtà si tratta di immigrate altamente istruite,

che hanno mariti che lavorano e che loro stesse svolgevano una professione in patria,

lasciata perché, la maggior parte, ha giudicato che con un lavoro nel ricco occidente si

potesse meglio contribuire al miglioramento delle condizioni di vita dei famigliari e dei

figli. In un terzo dei casi la partenza è motivata dalla ricerca di una vita migliore per se

stesse, nonostante la conoscenza anticipata della dura realtà che le aspetta, e del fatto

che il paese ospitante riserverà loro solo il ruolo delle “donne di casa” che cucinano,

puliscono, accudiscono. Rimane comunque un terzo delle donne, male informate, le cui

aspettative sono state deluse.

I loro titoli di studio non sono riconosciuti, dei loro diritti spesso se ne abusa, alcune

non avranno una pensione, ma comunque le loro qualità di nutrici, infermiere e badanti

sono molto ricercate. Quello che loro riescono a vendere al mercato del lavoro italiano

è il fatto di essere “donne di famiglia”, il che appare come una vera e propria qualifica.

Le collaboratrici domestiche hanno l’esperienza di un matrimonio alle spalle, tanto è

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vero che solo un terzo di loro è nubile. Altra competenza che accomuna le colf straniere

è l’esperienza della maternità. Tutte queste “abilità naturali” potranno essere spendibili

nella ricerca e nello svolgimento dell’occupazione.

Nonostante la precarietà, la subordinazione e la discriminazione, nel complesso due

terzi delle intervistate crede che l’emigrazione sia stata una buona scelta e che la loro

vita sia cambiata in meglio. Questo non esclude il fatto che l’affetto e la presenza dei

propri cari manchi loro, ed è anche per questo che, nonostante queste donne emigrino

sole, se riusciranno, prima o poi, verso il quinto anno di permanenza a trovare una

abitazione propria, diverranno colf a ore e chiameranno i loro mariti e figli. Infatti il

progetto del ritorno è costantemente rinviato, e l’età di queste donne avanza. E' anche

difficile capire se la famiglia d’origine vuole che continuino a restare in Italia. Che la

scelta di immigrare sia stata una scelta collettiva, quasi un mandato familiare, è

confermato nelle loro risposte: è la famiglia che vuole che lei resti in Italia per

continuare a dare un aiuto economico.

Le donne che dichiarano che la loro vita è cambiata in peggio sono quelle che non

riescono ad interrompere il progetto migratorio, perché non concluso o perché da

ridefinirsi. Sono per metà le donne che vivono in Italia da più di 10 anni. E sono questi

anni che si fanno pesanti, doppiamente lunghi perché trascorsi in uno spazio stretto con

pochi contatti e tanta solitudine. Vogliono tornare anche quelle immigrate da

pochissimo, da circa due anni. E’ dura la svalorizzazione della propria immagine, il

vivere la lontananza e l’assenza, l’impatto con una realtà straniera; sono proprio quelle

che vivono più comunemente con le famiglie per le quali lavorano, che rischiano la

depressione.

La tendenza generale, comunque, è verso la stabilizzazione ed è quasi ovvio che la loro

percezione della famiglia “a casa loro” e “in Italia” sia oggetto di cambiamento.

Quello che accade alle colf, in quanto soggetti migranti, è l’acculturazione, processo

che avviene nel tempo proprio rispetto al cambiamento di contesto culturale e al

contatto con la diversità degli altri, che prevede acquisizione e/o una trasformazione di

alcuni aspetti culturali. E’ difficile identificare se le vere cause di un cambiamento sono

dovute a forze esterne (contatto con la nuova cultura) o a forze interne (personalità),

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diversi fattori operano simultaneamente oltre al contatto, la diffusione e l’innovazione.

Comunque la maggioranza delle colf frequenta i luoghi dove è quasi assoluta la

presenza di altri stranieri, e la scarsa disponibilità di tempo libero non facilita il

contatto e le relazioni con gli italiani. Rare sono le opportunità di scambio con persone

italiane della stessa età e con interessi simili. Questa condizione di isolamento

soggettivo de facto ostacola una vera integrazione e uno scambio tra le due culture.

(CNEL / Fondazione S. Andolfi 2003, pp. 90-95)

E mentre i datori di lavoro italiani fanno molte domande sulla famiglia di origine della

colf, forse per rassicurarsi su chi tengono in casa, le colf chiedono poco o niente.

Rimangono pochi ponti e tanti muri. Gli italiani, che hanno un’immagine distorta delle

colf, che la ricerca del CNEL conferma, e le colf, che hanno un’immagine distorta degli

italiani. La conoscenza e lo scambio tra le due culture sembra scarsa e l’atmosfera è di

un film muto. Le donne straniere, invece, catapultate da un mondo vero in un mondo

più fantasticato che conosciuto, se vorranno capire e rendersi soggetti più partecipi di

cosa sta accadendo, dovranno dare a tutti l’opportunità di cambiare: a quelli che le

ospitano, a quelli che sono rimasti a casa. E infine a se stesse.

Signora, ha qualcosa da aggiungere sull’esperienza con le famiglie italiane?

“Anche loro sono emigrati tanto tempo fa in America Latina, hanno fatto tanti soldi, noi forse

l’abbiamo fatto in un’altra forma, loro mostrano tanta ostilità verso di noi, noi non l’abbiamo dimostrata nella nostra epoca, nel nostro tempo, perché… la gente è buona. Basta ragionare un po’, anche noi siamo esseri umani, abbiamo dei sentimenti, possiamo essere più scuri o più chiari dei

polacchi, che ne so, siamo tutti esseri umani, siamo tutti fratelli, che uno parli un’altra lingua, che abbiamo forme diverse... tutti siamo uguali: abbiamo due occhi, una bocca, un naso, capelli... è

questo… Perché il paese è povero tu sei limitato a fare quello lì e non puoi fare quell’altro. Per esempio delle volte ci stanno delle famiglie, ci stanno delle persone che ti fanno capire di pensare come se tu fossi scemo: “Ah! Ma che sai leggere?, Ah! Ma che sai fare questo?..Ah! Ma sei

troppo intelligente..”, anche per delle piccole cose, senta non è che noi siamo ritardati, siamo come voi, soltanto facciamo questo tipo di lavoro perché purtroppo è così...” (Donna Colombiana)

CNEL / Fondazione S. Andolfi – 2003

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CAPITOLO 3

3.1 Colf e badanti: breve excursus sull’attuale legislazione

La legge 30 luglio 2002, n.189 (nota come Legge Bossi-Fini) e il successivo D.L.9

settembre 2002, n.195 hanno modificato il Testo Unico sull’Immigrazione del 1998

(D.Lgs.n.286/1998) prevedendo norme più rigide per il soggiorno e la permanenza dei

cittadini extracomunitari in Italia.

Varie sono le novità contenute nel nuovo testo di legge rispetto a quello del 1998:

innanzitutto si stabilisce che il presupposto per la regolare permanenza del cittadino

straniero in Italia è l’esistenza di un valido rapporto di lavoro, per cui non si parla più di

permesso di soggiorno bensì di contratto di soggiorno per motivi di lavoro, che avrà un

validità di due anni. Se sussistono le condizioni, il contratto di soggiorno potrà essere

rinnovato, altrimenti il lavoratore potrà essere iscritto nelle liste di collocamento e

otterrà un permesso di soggiorno per attesa occupazione per un periodo di 6 mesi (nel

precedente Testo Legislativo, quello del 1998, il permesso di soggiorno per

disoccupazione aveva la durata di un anno). Se in quel lasso di tempo il lavoratore

straniero non riesce a firmare un nuovo contratto di lavoro, dovrà lasciare l’Italia

oppure diventerà un cittadino irregolare.

Un’altra novità rispetto al Testo del 1998, per quanto riguarda la stesura del contratto di

soggiorno per lavoro subordinato, sono le due dichiarazioni che devono essere rilasciate

da parte del datore di lavoro:

a) la garanzia di fornire al lavoratore un alloggio che rientri nei parametri minimi

previsti dall’attuale disposizione per gli alloggi residenziali pubblici

b) l’impegno a pagare le spese di viaggio per il rientro nel paese da cui proviene il

lavoratore.

Queste dichiarazioni acquistano un valore fondamentale, in quanto si stabilisce che un

contratto di lavoro per lavoro subordinato privo di tali requisiti deve essere ritenuto non

valido ai fini del rilascio del permesso di soggiorno.

Nella nuova legge, la 189/2002, insieme alla figura dello “sponsor” è stata soppressa

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anche la possibilità di una chiamata diretta da parte di imprese, aziende o privati per

l’assunzione di un lavoratore straniero. Quindi, le nuove norme prevedono che la

chiamata avvenga solo attraverso gli elenchi di richiedenti extracomunitari iscritti negli

uffici istituiti nelle ambasciate o nei consolati italiani nei paesi di provenienza. In Italia

sarà lo Sportello unico per l’immigrazione, di nuova istituzione (che dovrà essere

presente in ogni Provincia) il responsabile dell’intera procedura per l’assunzione dei

cittadini extracomunitari e quindi provvederà a tutti gli adempimenti burocratici.

Insieme a queste modifiche, l’art. 33 della Legge Bossi-Fini prevede anche la

regolarizzazione di due categorie di lavoratori: badanti e colf. Con questa norma si

intende, appunto, regolarizzare la posizione lavorativa e di soggiorno di tutti quei

cittadini stranieri che svolgono queste attività senza un regolare contratto di lavoro e

senza essere titolari di un permesso di soggiorno. Per colf si intende “il personale

addetto al lavoro domestico”; badanti sono invece “le lavoratrici destinate

all’assistenza di componenti della famiglia affetti da patologie e handicap che ne

limitano l’autosufficienza”. (www.interno.it – L.30 luglio 2002, n.189 - Modifica alla

normativa in materia di immigrazione e di asilo)

Successivamente è stato emanato il decreto legge 9 settembre 2002, n.195 che prevede

la regolarizzazione di altre tipologie di lavoratori stranieri sprovvisti di regolare

permesso di soggiorno, in particolare “degli immigrati che lavorano nelle aziende

dell’industria, del terziario e dell’agricoltura con contratti a tempo indeterminato o

determinato di durata non inferiore ad un anno”. In entrambi i casi i datori di lavoro

possono presentare una domanda di regolarizzazione, dichiarando di aver impiegato,

nei tre mesi antecedenti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, lavoratori

stranieri irregolari e di volerli assumere per almeno un anno. Una volta regolarizzati, i

lavoratori stranieri dovranno registrare le proprie impronte digitali entro un anno dal

permesso di soggiorno. L’obbligo delle impronte digitali è un’altra delle novità previste

dalla nuova legge sull’immigrazione: esse dovranno essere prese sia al cittadino

straniero che chiede per la prima volta il permesso di soggiorno, sia a chi fa domanda

per il rinnovo dello stesso. (www.parlamento.it - Decreto-legge 9 settembre 2002, n.

195 - "Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di

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extracomunitari")

Per quanto riguarda colf e badanti occorreva adeguarsi alla nuova normativa entro due

mesi dall’entrata in vigore della legge n.189/2002. Per gli altri lavoratori stranieri

irregolari, il termine per denunciare la situazione di irregolarità era di 30 giorni dalla

data di entrata in vigore del D.L. n.195/2002. Oltre alla differenza nei termini, era anche

diverso il contributo forfettario da pagare per i lavoratori che avevano prestato servizio

in “nero”. Per colf e badanti il contributo era di 290 euro, più 40 euro per le spese di

istruttoria, invece per gli altri lavoratori subordinati il contributo era di 700 euro più 100

euro per le spese di istruttoria.

La denuncia relativa all’emersione del lavoro irregolare per colf e badanti può essere

presentata soltanto per un solo lavoratore straniero per nucleo familiare nel caso del

lavoro domestico, quindi si può regolarizzare una sola colf; invece per quanto riguarda

il numero di badanti per l’assistenza dei familiari non autosufficienti, la legge 189 non

poneva limiti di numero, ma era richiesta la presentazione di un certificato medico

attestante la patologia o handicap di cui era affetto il familiare da assistere. Una volta

presentata la dichiarazione di regolarizzazione, il datore di lavoro deve attendere la

convocazione insieme al lavoratore straniero da parte della Prefettura per la stipula del

contratto di lavoro e per il rilascio del permesso di soggiorno. Nel caso in cui il

lavoratore extracomunitario ed il datore di lavoro non si presentino per la firma del

contratto, il procedimento verrà automaticamente archiviato. Il permesso di soggiorno

avrà una validità di un anno e potrà essere successivamente rinnovato se vengono

accertate due condizioni: a) la prova della continuazione del rapporto di lavoro b) la

regolarità della posizione contributiva riferita al lavoratore straniero occupato.

Il rapporto di lavoro è regolamentato dal contratto collettivo nazionale di lavoro per

lavoratori domestici dove sono previste diverse categorie di lavoratori a seconda delle

mansioni svolte. Inoltre vengono regolamentate le retribuzioni minime, gli orari di

lavoro, le ferie, il licenziamento, il trattamento di fine rapporto e le coperture

assicurative. Queste ultime prevedono la pensione (anzianità, inabilità, reversibilità), le

coperture per tubercolosi e disoccupazione, gli assegni familiari, la maternità, la

malattia e gli infortuni su lavoro e le malattie professionali. A questo proposito, il nuovo

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testo di legge sull’immigrazione (L.189/2002) prevede la possibilità per il lavoratore

straniero di conservare i diritti sia previdenziali che di sicurezza sociale maturati. Il

lavoratore straniero potrà usufruire di tali contributi a prescindere dalla stipula di

accordi fra lo Stato italiano e quello di provenienza del lavoratore extracomunitario.

L’unica condizione richiesta per l’accreditamento contributivo è aver compiuto 65 anni

di età. (www.camera.it – L.30 luglio 2002, n. 189 - "Modifica alla normativa in materia

di immigrazione e di asilo")

Per quanto riguarda le domande di regolarizzazione, secondo i dati del Consiglio

Nazionale dell’Economia e del Lavoro, sono state presentate in totale 702.156 di cui

341.121 per colf e badanti e 361.035 per la regolarizzazione delle altre categorie di

lavoratori (CNEL, le colf straniere: culture familiari a confronto, Report 2003)

La regione Lazio è quella che ha visto il maggior numero di domande per la

regolarizzazione di colf e badanti (74.761), seguita dalla Lombardia (61.897),

Campania (40.201) ed Emilia Romagna (27.048). Nel 1999 i lavoratori domestici

extracomunitari assicurati all’Inps erano 114.182, di cui 88.887 erano donne (77.8%),

con la regolarizzazione prevista dall’art.33 della legge 189/2002 sono diventate 455.303

e si presuppone che la stragrande maggioranza di loro siano donne.

Questi dati evidenziano l’enorme richiesta di lavoro domestico da parte dell’Italia,

richiesta coperta per la maggior parte da lavoratori stranieri, in particolare dalle donne.

Ciò riflette, da un lato, la carenza e inadeguatezza dei servizi pubblici predisposti per la

cura, assistenza e sostegno alle famiglie, e dall’altro, i cambiamenti avvenuti nella

società italiana negli ultimi decenni. Da più parti è stato segnalato che il sistema di

protezione sociale italiano ha sempre delegato alle famiglie la domanda di cura e

assistenza dei propri membri, configurandosi come “un welfare invisibile basato sul

lavoro non riconosciuto e non retribuito delle mogli-madri”. Ma negli ultimi decenni

sono intervenuti alcuni fenomeni che hanno contribuito a indebolire enormemente

l’utilizzo di questa risorsa. Basti pensare a fenomeni già noti come l’invecchiamento

della popolazione, l’ingresso nel mercato del lavoro delle donne italiane soprattutto

nelle fasce centrali di età, lo sfilacciamento delle reti familiari allargate e dei rapporti

amicali con il conseguente aumento del numero di persone che vivono da sole, la

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fragilità delle unioni familiari.

La combinazione di questi fattori ha fatto crescere la richiesta di lavoro domestico per

cui si è finito per delegare ad altre donne, in particolare a donne straniere, la cura delle

persone e delle case. E’ importante anche segnalare che la possibilità di ricorrere

all’aiuto di donne immigrate costituisce una grande risorsa per le famiglie italiane, che

altrimenti sarebbero costrette a rivolgersi al mercato privato di servizi (molto costosi),

in mancanza di servizi pubblici. Allo stesso tempo l’utilizzo di colf e badanti da parte

delle famiglie italiane consente anche un rilevante risparmio per il sistema pubblico che

in questo modo non deve investire in servizi e prestazioni rivolte alle famiglie,

soprattutto se teniamo presente che attualmente la spesa pubblica per servizi alle

famiglie incide in una percentuale molto bassa (0.04%) sul prodotto interno lordo. Va

anche detto che la richiesta di assistenza domiciliare in senso lato coinvolge anche le

famiglie con redditi medio-bassi e non soltanto famiglie con redditi alti, accadeva in

passato quando, grazie all’intermediazione della Chiesa e delle missioni cattoliche

presenti nei paesi di origine, cominciarono ad arrivare in Italia le prime collaboratrici

domestiche provenienti da paesi extracomunitari.

La stragrande maggioranza delle donne immigrate soggiornanti in Italia (circa l’80%) è

occupata nel settore del lavoro domestico e di cura e assistenza agli anziani: infatti

l’unico sbocco professionale che hanno trovato queste donne è stato l’inserimento in

questo particolare segmento del mercato del lavoro, indipendentemente dal titolo e dal

grado di istruzione posseduto e dalle esperienze e competenze acquisite nei paesi di

origine. Questa realtà vale sia per le donne di più vecchia immigrazione come le

capoverdiane, latinoamericane, eritree che per quelle di più recente immigrazione, come

è il caso delle donne provenienti dall’Est Europeo.

Ciò vuol dire che fra le donne immigrate la mobilità sociale è comunque molto scarsa;

esiste soltanto una mobilità di tipo orizzontale per cui in molti casi si passa da una

condizione di lavoro “fisso” dove è previsto che si viva insieme alla famiglia italiana

dove si presta servizio, ad un lavoro a ore dove i margini di autonomia e di crescita

personale sono molto più ampi.

Poche sono le donne che, avendo titoli di studio spendibili sul mercato del lavoro

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italiano, iniziano il percorso di riconoscimento dei loro titoli per cercare di inserirsi in

altri settori che non sia quello tradizionale del lavoro domestico. Un fattore di mobilità

sociale che sta solo ora iniziando a prendere forma è quello dell’associazionismo fra

donne straniere che permette lo sviluppo di forme di lavoro autonomo e creazione di

piccole imprese. (Organismo Nazionale di Coordinamento per le Politiche di

Integrazione Sociale degli Stranieri, CNEL 2003, p. 107)

3.1.2 Settembre 2009 - Regolarizzazione di colf e badanti

Il ministero dell’Interno, nel novembre del 2009, ha pubblicato il report conclusivo

delle dichiarazioni di emersione delle collaboratrici familiari e delle badanti, sanatoria

che ha accompagnato il cosiddetto “Pacchetto sicurezza”, quello che ha introdotto il

reato di immigrazione clandestina. (www.interno.it)

Il provvedimento di regolarizzazione ha suscitato polemiche sia per la platea dei

beneficiari prescelta che per le modalità di emersione: il primo dato che ha suscitato

diverse reazioni è stato proprio il basso numero di regolarizzazioni: sono stati richiesti

351 mila moduli e le domande presentate sono state in tutto poco più di 294 mila, bel al

di sotto delle stime del sommerso esistente (almeno 600 mila persone) e anche delle

cifre ipotizzate dal Ministero, che prevedeva almeno 400 mila regolarizzazioni. (

www.qualificare.info)

Un vero e proprio “flop” insomma. La distribuzione delle richieste vede al primo posto

i privati, che hanno inviato 149 mila domande, seguiti dalle associazioni e dai patronati

con 137 mila, poi i consulenti del lavoro con appena 5 mila e i comuni con 3.238

domande. Un secondo dato balza all’occhio: sono state presentate 180 mila domande

per colf e 114 mila per le badanti: una distribuzione a dir poco inversa a quella che ci si

attendeva.

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Tab 3.1 Report conclusivo dichiarazione di emersione.

LeFonte: www.interno.it

Le cause di tale insuccesso sono da ricercare proprio nell’assenza di benefici per le

famiglie che regolarizzano la badante o la colf. Per loro, l’unico beneficio era quello di

“uscire dall’illegalità” (peraltro in un certo senso “creata” dalla stessa legge). Ma la

paura di diventare penalmente perseguibili, in un paese come l'Italia non è un deterrente

efficace, forse anche a causa della consapevolezza dell’impossibilità pratica per le forze

dell’ordine di effettuare i dovuti controlli. E certamente hanno pesato ( a parte i 500

euro da versare) il complesso iter procedurale richiesto ed il minimo di 20 ore alla

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settimana per cui il lavoratore doveva essere assunto, che ha di fatto escluso tutto il

mercato del lavoro a ore. Lo scoraggiamento si vede anche dalla grande differenza tra

moduli richiesti e domande presentate, quasi 60 mila, cioè il 17%.

Se il flop era prevedibile, meno attese sono alcune “anomalie” evidenziate da Carlo

Cipiciani nella sua inchiesta “Badanti e colf, la regolarizzazione all'italiana”, che

utilizza i dati del Ministero confrontandoli con dati dell’Istat.

Una prima anomalia è rappresentata dalla distribuzione per nazionalità delle

“regolarizzazioni”: al primo posto c’è l’Ucraina con 37.178 domande (12,6%), seguita

dal Marocco con 36.112 (12,3%), dalla Moldavia con 25.588 domande (l’8,7%), dalla

Cina con 21.090 (7,2%), dal Bangladesh con 18.557 (6,3%) e poi da India con 17.572

(5,9%), Egitto con 16.325 (5,5%), Senegal con 13.646 (4,6%), Albania con 11.147

(3,8%) e Pakistan (3,7%, con 10.784 domande). Se confrontiamo la distribuzione per

nazionalità con quella per sesso, per cittadinanza e per motivo di richiesta dei permessi

di soggiorno concessi fino al 2008, scopriamo che il Marocco è effettivamente al primo

posto, l’Albania è seconda e l’Ucraina è terza. Ma se prendiamo in esame i permessi

rilasciati alle sole donne che vengono per motivi di lavoro (cioè, presumibilmente il

grosso delle colf o badanti “regolari”) la classifica vede al primo posto l’Ucraina (22%),

poi la Moldavia. E dietro l’Equador, il Perù, le Filippine. Il Marocco è molto indietro ed

il Senegal o il Bangladesh o il Pakistan non ci sono. Perché da questi paesi arrivano

soprattutto uomini.

Anche la distribuzione provinciale delle richieste riserva delle sorprese. Le maggior

parte, il 14,7%, proviene dalla provincia di Milano con 43.393 domande, seguita da

Roma con 32.034 domande (il 10,9%), da Napoli con 24.331 domande (8,3%), Brescia

con 11.121 domande (il 3,8%), Bergamo con 8.836 domande (3%), Torino con 8.296

domande (2,8%), Caserta con 6.622 domande (2,3%), Bologna con 6.511 domande

(2,2%,), Modena con 6.199 domande (2,1%) e Reggio Emilia con 5.680 domande

(1,9%). Se confrontiamo questi dati con la distribuzione provinciale dei permessi di

soggiorno emessi prima del 2009, e limitiamo l’analisi alle sole donne Milano è

effettivamente la prima città, con 106 mila permessi di soggiorno il 12,7% del totale,

seguita da Roma con l’11,6%. Poi cominciano le differenze: Napoli ha solo 29 mila

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permessi di soggiorno “regolari” per le donne, appena il 4,5%, mentre Brescia con 41

mila permessi di soggiorno ha il 3,4%, Modena il 2,5% , più o meno come Bologna.

Caserta rappresenta solo l’1,2% (pari a poco più di 8 mila permessi) del totale. Per

Napoli e Caserta è possibile che ci sia stata una maggiore “irregolarità” pregressa, ma le

differenze sono notevoli. Senza considerare che per queste due province le domande di

regolarizzazione sono quasi uguali ai permessi di soggiorno sin qui regolarmente

concessi.

Se limitiamo il campo alle sole badanti, le anomalie aumentano. Perché mentre nel

centro-nord c’è stato il grande flop nella regolarizzazione delle badanti, in diverse

province del Sud, a partire proprio da Napoli e Caserta, le cose sono andate

diversamente. A Napoli sono state presentate 13.489 domande di emersione del lavoro

domestico, l’11,8% del totale, poco più di Milano e molto più che a Roma. Caserta è

quarta, ed ha battuto Brescia, Bergamo, Torino. E parliamo di province in cui la

percentuale di popolazione anziana è inferiore.

“A pensare male si fa peccato -scrive Carlo Cipiciani- ma qualcosa non torna: o la

badante è in realtà una colf, oppure – anche peggio – si tratta di lavoratori impiegati in

altri settori e fatti passare come assistenti familiari. Ma i furbetti non sono solo a Sud”.

Un’altra anomalia, presente stavolta nel Nord Italia, e che spiega la “strana”

distribuzione per cittadinanza delle domande di regolarizzazione, dove ai primi posti ci

sono paesi che non ti aspetteresti: riguarda la regolarizzazione di badanti maschi e di

maggiordomi. Ci sono state 39 mila domande (il 13% del totale) presentate da

lavoratori stranieri regolari, soprattutto marocchini, senegalesi, pakistani, cinesi,

egiziani e bengalesi che si sono prenotati per fare un contratto di soggiorno a propri

connazionali (sulla carta per assumere colf e badanti). Insomma, una strana

“autosanatoria” fatta in casa, un “favore” a amici o parenti clandestini. In cambio di

cosa? Difficile dirlo. Non sono comunque mancate le denunce di immigrati irregolari

nei confronti di datori di lavoro, sia italiani che stranieri, che hanno offerto l’assunzione

e quindi la “regolarizzazione” in cambio di denaro. (Cipiciani Carlo 2009)

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3.1.3 Le cause del presunto “flop”

Un dato trascurato nell’analisi della sanatoria del 2009 deriva dal fatto che

l’allargamento dell’Unione Europea ha sottratto una parte dei lavoratori stranieri alla

necessità di stipulare il contratto di soggiorno per ottenere il permesso, con l’obbligo di

rinnovarlo di fatto annualmente. L’allargamento ha infatti ridotto il numero di lavoratori

per i quali il possesso di un’occupazione certificata, e quindi di un contratto di lavoro,

costituisce il vincolo per poter risiedere regolarmente nel paese, non rischiare di essere

condotto in un Centro di identificazione ed espulsione, non essere allontanato dal paese

o essere denunciato per violazione delle norme sul soggiorno.

L’uscita di una fetta consistente dell’immigrazione dagli archivi dei permessi di

soggiorno è una delle ragioni, forse non la principale, ma di certo una ragione

importante, della riduzione della domanda di regolarità. Per chi non deve chiedere il

permesso di soggiorno, il provvedimento di emersione offriva senz’altro più costi che

vantaggi, non ultimo proprio i 500 euro che, è bene ricordare, vengono in genere pagati

dai lavoratori. E si consideri che tra le nazionalità esonerate dalla richiesta dei permessi

di soggiorno ci sono i rumeni. Questi sono passati dai 300 mila all’inizio del 2007, agli

oltre 600 mila al 1° gennaio 2008, e infine a poco meno di 800 mila all’inizio del 2009,

quindi due volte e mezza in più che due anni prima. E si consideri, anche, che nel 2006,

in occasione del decreto flussi eccezionalmente esteso, tra le oltre 86 mila domande di

regolarizzazione provenienti da rumene, una quota variabile tra il 50 e l’80%, a seconda

dell’età, riguardava il lavoro domestico. Il 2006 è stato l’ultimo anno in cui i rumeni

dovevano chiedere il permesso per poter lavorare in Italia e l’ultimo in cui dovevano

certificare di avere un lavoro per poter risiedere legalmente in Italia, entrarvi e uscirvi.

Certo, già dal 2002 non era loro più richiesto il visto di ingresso per soggiorno di durata

inferiore ai tre mesi, ma di fatto se uscivano dopo la scadenza dei tre mesi non potevano

più rientrare per un lungo periodo, o dovevano corrompere i doganieri rumeni e

ungheresi. Oggi i rumeni non possono essere trattati come gli altri immigrati, quindi

l’uscita di una quota della popolazione straniera dal novero degli “extracomunitari”

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coincide con la sua uscita dai destinatari di un provvedimento, la sanatoria di massa,

nato in un’epoca in cui l’Unione Europea aveva 15 paesi membri e all’interno delle sue

frontiere non c’erano paesi di emigrazione diretta verso altri paesi della stessa Ue.

(Colombo 2009)

Una seconda ipotesi riguarda invece le trasformazioni recenti dei sistemi migratori che

hanno raggiunto l’Italia: nel nostro paese convivono e si intrecciano oggi i tragitti di

diversi sistemi migratori. Tali sistemi non si differenziano solo in virtù della varietà dei

paesi di provenienza. La molteplicità dei sistemi migratori italiani dipende anche dai

progetti dei loro protagonisti, dalle condizioni dell’insediamento, dai valori e dagli stili

di vita e, infine, dallo stadio del ciclo di vita in cui essi si trovano. Sotto questo profilo,

nell’Italia contemporanea, coesistono due grandi stratificazioni di sistemi migratori.

La prima, emergente e sempre più al centro dell’interesse degli studiosi, è formata dalle

migrazioni in cui i nuclei familiari cominciano a prevalere sui singoli o sulle famiglie

monogenitore, in cui la struttura per età si avvicina tendenzialmente a quella degli

italiani, in cui il rapporto tra uomini e donne è progressivamente meno squilibrato, in

cui, accanto e insieme a progetti migratori centrati sul lavoro, compaiono aspirazioni

all’insediamento, e perfino alla naturalizzazione. (ibidem)

La seconda è, invece, formata da quei sistemi migratori ancora nella loro fase iniziale,

quella, per intendersi, ad elevata selettività, in cui emigrano i singoli, la struttura per

genere ed età è assai più squilibrata e prevalgono progetti migratori da lavoro e, almeno

inizialmente, di respiro più breve. Da un punto di vista del ciclo storico, è chiaro che in

Italia si sta assistendo a una transizione dal secondo tipo descritto al primo. Ed è chiaro

che a questo passaggio si accompagnano altre trasformazioni, in particolare la riduzione

della disponibilità ad andare a servizio, in piccola parte tra le pioniere, in misura assai

più marcata nella generazione delle loro figlie.

Si dirà, quindi, che nuovi sistemi migratori potranno sostituire quelli precedenti, proprio

come le filippine, a loro volta, hanno sostituito le capoverdiane e le somale. Che questo

accada, però, è tutt’altro che scontato. Vediamo perché.

Nel nostro senso comune opera un quadro di riferimento cognitivo assai diffuso e forse

sostanzialmente mai messo in discussione. Si pensa che i flussi migratori che hanno

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interessato il nostro paese si muovano in una sola direzione, ovvero dall’esterno verso

l’interno. La ricerca empirica ci dice invece che questa immagine è del tutto inesatta, e

che esistono altre due importanti direttrici spesso trascurate: quella che porta, dopo un

certo periodo, una parte degli immigrati entrati in Italia a dirigersi verso altri paesi e

quella che li porta a fare rientro nel proprio paese di origine. La distribuzione di questi

flussi tra le tre direttrici indicate è assai variabile e dipende da molti fattori. (ibidem)

La dinamica delle reti migratorie e il maggiore o minore successo e capacità di

adattamento che esse sperimentano nei vari paesi di destinazione sono senz’altro tra

queste. Non bisogna però trascurare altri importanti elementi, come le condizioni di

ingresso e di permanenza, le opportunità di integrazione, il grado di apertura o chiusura

del mercato del lavoro, la presenza o assenza di istituzioni facilitatrici, tanto pubbliche,

quanto inserite nel sistema associativo e di volontariato. Quali che siano le ragioni,

però, non è razionale aspettarsi che un sistema migratorio persista solo perché è

iniziato. Nel passato, ormai remoto, della nostra transizione migratoria, che risale ormai

alla fine degli anni Sessanta, molti sistemi migratori promettenti, sotto il profilo delle

dimensioni e del loro livello di strutturazione si sono successivamente esauriti. Chi

osservasse la distribuzione delle principali nazionalità tra gli anni Settanta e Ottanta

troverebbe sistemi migratori scomparsi o largamente esauriti, come quello iraniano,

venezuelano, jugoslavo, etiope e capoverdiano, paesi a lungo in testa nelle graduatorie

per numero di presenze. Allo stesso modo è probabile che una parte dei flussi migratori

oggi più dinamici possa esaurirsi nei prossimi anni, e quelli del lavoro domestico, per

varie caratteristiche, sono forse tra i candidati preferenziali di questo processo. Formati

da donne adulte, con vincoli coniugali spezzati alle spalle e spesso con figli, alcuni dei

quali rimasti al paese di origine, i sistemi migratori moldavo, ucraino e russo potrebbero

esaurirsi, o almeno vedere la loro dinamicità ridursi rapidamente. Alcuni segni del fatto

che questi sistemi migratori siano in fase di trasformazione rapida si intravvedono già.

Fino al 2002 l’Ucraina non esiste come paese esportatore di manodopera verso l’Italia e

infatti troviamo solo alcune pioniere. Nel 2003, quando entra nella sua fase di massa, il

sistema migratorio italo-ucraino mostra i classici segni delle migrazioni altamente

selettive, come lo squilibrio di genere con ben 6 donne per ogni uomo. Ma solo 5 anni

dopo questo rapporto si è già ridotto a 4 donne per uomo, a riprova del passaggio a

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progetti di insediamento di dimensioni rilevanti, e non è improbabile che questa

tendenza si rafforzi nei prossimi anni. Se si esauriscono i sistemi migratori con elevate

quote di migranti con progetti a tempo e scopo definito, si esaurirà presto anche il

serbatoio dei più disponibili a entrare nel mercato del lavoro domestico, in particolare

quello coresidente, con salari sub-standard e senza protezioni sociali. (Avola, in Consoli

M. T. 2009, pp. 35-53)

Ma non sono forse solo queste due le ragioni della delusione per i numeri della

sanatoria. A differenza di quanto si pensa, l’Italia, non solo non è un paese in cui lo

stock migratorio presente abbia dimensioni particolarmente rilevanti, ma non è neanche

un paese che stia sperimentando una fase particolarmente dinamica sotto il profilo degli

ingressi. Anzi. Molti segnali mostrano che oggi sta avvenendo proprio il contrario. La

crescita continua, ma la sua velocità sta rallentando assai più rapidamente di quanto

osservato in altri paesi.

E' difficile dire se siano in atto processi di riduzione della dinamicità delle migrazioni

verso l’Italia da un lato e, dall’altro, mutamenti nelle condizioni dell’accoglienza, di

crescita dei vincoli alla transizione dalla condizione di sans-papiers a quella di regolari,

o di regolarizzati, di crescita delle retoriche politiche ostili agli immigrati.

Se così fosse, se questi meccanismi tendessero a rafforzarsi, interi settori del nostro

sistema produttivo e del nostro welfare ne sarebbero toccati, perché l’edilizia, i servizi

privati alle famiglie, il basso terziario, l’agricoltura estensiva, il lavoro stagionale e

molti altri ancora vivono sul lavoro straniero. Forse è il caso di smettere di

nascondercelo e di uscire da quella sindrome schizofrenica che finora ha celato sotto la

coltre di enunciati politicamente assai ostili agli immigrati, il bisogno strutturale di

questi ultimi. Sanatorie individuali, permessi di soggiorno per ricerca di lavoro e

naturalizzazioni appaiono allora come una strada obbligata. (Colombo Asher 2009)

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3.2 Quali strategie per quali obiettivi?

Agli occhi del sociologo, l'immigrazione possiede una caratteristica straordinaria:

quella di rendere manifesto ciò che è latente, aiutandoci a comprendere meglio la

società in cui viviamo e la destinazione verso la quale ci conducono le tendenze in atto.

L'analisi del lavoro delle immigrate costituisce un caso esemplare, evidenziando una

relazione, sempre più stretta, tra il ruolo loro assegnato e le scelte attraverso le quali la

nostra società risponde, o tenta di rispondere, alla necessità di garantire l'espletamento

delle funzioni di riproduzione sociale, in particolare quelle rivolte ai soggetti più

vulnerabili. In altre parole, mette in luce la relazione tra il lavoro delle immigrate e il

futuro dei regimi di welfare, oggi coinvolti in un processo di transizione tanto delicata

quanto indispensabile.

Come s'è già avuto modo di ricordare, fin dalla fase di costituzione dei diversi modelli

di welfare apparsi nella vicenda europea, le donne migranti hanno svolto un ruolo assai

più rilevante di quanto comunemente non si ammetta, occupandosi delle mansioni

«femminili» nell'industria, in agricoltura e nei servizi e, per certi versi, consentendo alle

donne autoctone di dedicarsi a tempo pieno al lavoro familiare. Oggi, in un momento di

profonda trasformazione dei regimi di welfare, il loro ruolo è ancora più cruciale:

sovente accusate di essere forti «consumatrici di welfare», le popolazioni immigrate

sono copiosamente impegnate nella produzione di servizi di cura e assistenza, al punto

da costituire un tassello fondamentale del sistema di protezione in quasi tutti i paesi

economicamente avanzati. È infatti acquistando il lavoro a buon mercato dei poveri e

degli immigrati che molte famiglie dei paesi economicamente avanzati risolvono i loro

problemi di sovraccarico funzionale.

In definitiva, una società che non ha risolto i dilemmi e le sfide indotti dall'avvento di

un nuovo regime di accumulazione, finisce con lo scaricare sui ceti più deboli il

compito di realizzare una ricomposizione, sempre più difficile, tra lavoro per il mercato

e responsabilità di cura (Zanfrini 2004a).

L'esperienza italiana è al riguardo emblematica, il che non è casuale se si considera che

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essa rappresenta la variante «familistica» di welfare (Esping-Andersen 2000), dato il

forte carico che proprio sulla famiglia tradizionalmente grava nella produzione di

servizi di cura. Certamente non mancavano le condizioni perché in Italia il settore delle

collaborazioni familiari conoscesse una particolare espansione. La carenza nell'offerta

pubblica (e privata a costi accessibili) rende nell'ambito dei nuclei monogenitoriali, così

come nelle famiglie in cui i coniugi lavorano entrambi, il ricorso a supporti esterni

sostanzialmente una necessità (sempre che, evidentemente, tali famiglie possano

permetterselo). Col passare degli anni il ricorso a servizi a pagamento ha dunque via via

perso i suoi caratteri élitari, per diventare una prassi diffusa tra i vari ceti sociali e

soprattutto tra le famiglie con carichi di cura particolarmente onerosi (Iref 1999).

Del resto, come abbiamo già rilevato, lo sviluppo dell'assistenza privata a pagamento è

senza dubbio tributaria dell'offerta straniera che, soprattutto a partire dagli anni Novanta

- quando il fenomeno ha cominciato a conoscere una diffusione capillare - ha fatto

dell'assistenza domiciliare continuativa una modalità «normale» per affrontare il

problema dell'accudimento dei soggetti non auto sufficienti, o più semplicemente non

più in grado di abitare da soli. Le evidenze empiriche, e in particolare i risultati

dell'ultima regolarizzazione, ci dicono che esso non può più essere considerato un

fenomeno circoscritto ad alcune realtà locali e categorie sociali, ma si sta anzi

diffondendo a macchia d'olio in tutto il paese, rispondendo a un bisogno insopprimibile

e come tale ampiamente impermeabile agli andamenti congiunturali dell'economia. E

ancora, si tratta di una funzione che certamente non può essere delocalizzata nei paesi a

basso costo del lavoro (com'è invece in una certa misura possibile per le produzioni

industriali cui sono adibiti gli immigrati) e che, al contempo, è la meno esposta alla

concorrenza coi lavoratori nazionali. E tuttavia, è anche uno dei settori in cui più

elevato è il rischio di informalità e di non rispetto dei diritti dei lavoratori, e più

verosimile l'eventualità che la concorrenza interna all'universo dell'immigrazione

ingeneri un ulteriore degrado delle condizioni di lavoro e retributive. Così come si tratta

di un fabbisogno estremamente difficile da pianificare e governare attraverso i sistemi

delle quote, per ragioni che riguardano la natura stessa del lavoro (chi se la sentirebbe

di affidare un proprio familiare bisognoso d'assistenza alle cure di una persona scelta

all'interno di una lista di candidati all'emigrazione?) e il carattere d'urgenza con cui

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molto spesso tale fabbisogno si manifesta. E ancora, oltre a tutti i problemi che sorgono

quando si tratta di reclutare all'estero personale per svolgere mansioni così intime e

delicate, non si può trascurare il fatto che i limiti di reddito fissati dalla legge vanno

oltre le possibilità economiche di molte famiglie. In definitiva, è l'ambito che, tra tutti

quelli interessati dal lavoro degli immigrati, più d'ogni altro chiama in causa la

necessità di interventi di «ingegneria istituzionale» capaci di mettere a punto procedure

idonee per governarlo (Zanfrini 2005).

Verrebbe da affermare che l'anarchia dominante nel settore è una riprova della scarsa

considerazione politica in cui è stato a lungo tenuto il problema del sovraccarico

funzionale delle famiglie italiane: la segregazione delle donne immigrate nelle mansioni

domestiche e di cura, la clandestinità diffusa (periodicamente sanata con provvedimenti,

come le regolarizzazioni di massa, che dovrebbero invece avere un carattere di

eccezionalità), l'egemonia esercitata da canali di reclutamento informali, il ricorso a

prestazioni irregolari o solo parzialmente denunciate, la sostanziale disattenzione per i

contenuti tecnico-relazionali del lavoro possono essere visti come altrettanti caratteri

del tutto coerenti con l'architettura familistica del welfare italiano e con la tradizione di

«oscuramento» del lavoro delle casalinghe. D'altro canto, anche se l'immigrazione ha

avuto un ruolo innegabile nel- 1'espansione del settore delle prestazioni a pagamento

(ossia del cosiddetto «welfare privato»), il ricorso a queste ultime non è certo un fatto

nuovo. Il «welfare parallelo» (Zanfrini 2005) nato grazie all'immigrazione si è infatti

innestato su un sistema già esistente, basato sul ricorso a prestazioni quasi sempre

erogate da persone inattive (pensionati, casalinghe e, nel caso dei servizi di baby sitting,

studentesse) o già occupate, in genere con una funzione di integrazione dell' assistenza

prestata dal care giver principale (quasi sempre un familiare).

Un sistema in cui l'irregolarità era ed è la norma, dettata tanto dalla consuetudine

quanto dalla reciproca convenienza delle due parti interessate.

Il ricorso al mercato privato, in forme regolari o irregolari, configurerebbe dunque un

«welfare nascosto», com'è stato efficacemente definito (Gori 2002), lungamente rimasto

in ombra nelle stesse analisi che si sono, per contro, occupate di gettare luce sul welfare

informale e sul suo ruolo nel processo di riproduzione, ma le cui dimensioni sono ormai

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decisamente consistenti e destinate a crescere ancora nel prossimo futuro. A riprova

della scarsa attenzione che è stata da sempre riservata al mercato privato di cura, si può

osservare come le stesse ipotesi di defamilizzazione siano state di norma sostenute

auspicando un arricchimento dell'offerta pubblica di servizi: sottovalutando, in tal

modo, la resistenza dei modelli culturalmente radicati e la valenza, anche simbolica, che

hanno quelle soluzioni che consentono di evitare l'istituzionalizzazione degli anziani

(come pure l'affidamento al nido dei bambini molto piccoli) e organizzare l'assistenza

sotto la regia dei familiari.

Specie nel caso degli anziani che vivono soli, il ricorso al mercato privato è una

modalità attraverso la quale si mantengono in vita quelle relazioni tra genitori e figli

che definiscono il modello della «intimità a distanza» (Laslett, Oeppen e Smith 1993),

consentendo a questi ultimi di non abdicare ai propri doveri filiali; una modalità,

dunque, per non venire meno agli obblighi di reciprocità e garantire agli anziani la

possibilità di continuare a vivere nella propria casa. In pratica, la pur condivisibile

preoccupazione di difendere la centralità del Welfare State a fronte delle tendenze alla

privatizzazione dell'assistenza ha finito con l'assecondare la crescita anomica e

incontrollata di un welfare parallelo fatto di lavoro irregolare e per lo più di bassa

qualità.

Per riassumere, la definizione di welfare nascosto non è certo appropriata se si valuta la

crescente visibilità del fenomeno del ricorso al mercato privato, ma lo è certamente se si

considera la sua sostanziale marginalità nell'ambito della stessa riflessione sulle

politiche sociali in Italia (Ranci 2004). E, a maggior ragione, nell'agenda politica e nello

stesso sforzo di progettazione che ha condotto alla legge 328/2000, legge quadro per la

realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

«Si nota una contraddizione tra l'intenzione di disegnare le caratteristiche del nuovo

sistema di welfare locale in Italia, svolgendo un' articolata riflessione sull'insieme dei

soggetti coinvolti, e la mancata considerazione di uno di questi. II legislatore, detto

altrimenti, ha sostanzialmente operato come se l'assistenza privata non esistesse. La

legge quadro è la più nota normativa degli anni recenti e il suo modo di (non)

considerare l'assistenza privata riassume l'approccio prevalente nella politica sociale

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italiana. Il radicamento di tale approccio è confermato da come l'ampia produzione

normativa delle regioni in tema di politica sociale ha nella gran parte dei casi trascurato

l'assistenza privata» (Gori 2002, p. 27).

Ma quali sono le conseguenze di tale fenomeno di “cecità sociale”?

Una prima conseguenza riguarda probabilmente la sottovalutazione dei requisiti di

qualità delle prestazioni erogate, che è l'altra faccia della dequalificazione professionale

dei migranti. La qualità delle prestazioni passa attraverso le abilità relazionali

dell'operatore, le sue skills tecniche nella cura della persona e, non da ultimo, la sua

capacità di connettersi con gli altri erogatori di cure, sia di tipo informale (i familiari,

gli amici, i volontari) sia di tipo formale (gli operatori sanitari e dei servizi pubblici).

Essa non può quindi essere ridotta alla disponibilità a un impegno lavorativo continuo,

intenso e flessibile, che è pure la dimensione considerata strategica dalle famiglie.

Quest'ultima è anzi una dimensione della qualità che può facilmente entrare in tensione

con le altre, e soprattutto con la regolarizzazione del rapporto di impiego e con il

rispetto dei diritti dei lavoratori. Che però, giova ribadirlo, sono a loro volta connessi

con la qualità in senso lato delle prestazioni, perché è difficile pensare che un lavoratore

«sfruttato» e asservito riesca a svolgere bene il suo lavoro.

L'etnicizzazione di questo comparto e l'ampia diffusione di rapporti irregolari ci

interrogano dunque sul valore che la nostra società attribuisce al lavoro di cura e ai suoi

membri più vulnerabili, diventando misura del suo grado di civiltà.

Paradossalmente, infatti, la monetizzazione di queste funzioni tradizionalmente svolte

dalle casalinghe ha finito col rendere manifesta la svalutazione culturale che il lavoro di

cura riceve e i livelli retributivi cui prima abbiamo accennato lo dimostrano

ampiamente (benché risultino alquanto onerosi per molte famiglie). Un esito cui certo

non è estranea la femminilizzazione di questo tipo di impiego, se si considera che tanto

le pre-categorizzazioni basate sul genere quanto quelle fondate sull'appartenenza etnica

poggiano sulla presunzione, più o meno implicita, del loro fondamento naturale e

biologico. La sostanziale disattenzione per i contenuti tecnico-relazionali del lavoro,

non solo quello domestico in senso stretto, ma finanche quello di assistenza alle

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persone, avrebbe dunque a che vedere con la tendenza a considerarli meri

«prolungamenti» delle funzioni che ogni donna è «naturalmente» portata a svolgere.

Ciò ha reso possibile la cooptazione di persone di estrazione composita, con esperienze

professionali pregresse eterogenee e sovente del tutto estranee al campo dell'assistenza,

spesso con scarse competenze linguistiche, ma accomunate dal bisogno di lavorare e

dalla provenienza da paesi poveri, requisiti sufficienti per imprimere loro lo stigma di

essere particolarmente adatte a fare le serve e le badanti. Il dato che colpisce è infatti

l'avvicendamento in questo settore di donne migranti di diversa nazionalità, un'

evoluzione che ricalca quella della composizione dell'immigrazione femminile in Italia,

ma che è al tempo stesso una delle determinanti di quest'ultima: per molte donne, è

proprio la speranza di trovare un lavoro in questo ambito a spingerle a emigrare, spesso

al di fuori dei dispositivi di legge.

Da un certo punto di vista, infine, perfino la denuncia della condizione di segregazione

occupazionale in cui versano molte donne immigrate ha contribuito a consolidare

un'immagine «appiattita» del lavoro domestico e di cura, quasi appunto si trattasse di

mestieri dequalificati e privi di ogni contenuto professionale. Un risultato, dunque,

paradossale e contro-intuitivo, ma con una sorprendente coerenza, ancora una volta,

rispetto alla tradizione di oscuramento e svalorizzazione culturale di tali compiti.

D'altro canto, i sussidi erogati alle famiglie a riconoscimento dei loro carichi di

assistenza, così come non premiano la regolarità del rapporto, non incentivano neppure

la professionalizzazione.

La seconda conseguenza riguarda 1'ampia tolleranza verso l'impiego irregolare che, nel

caso degli immigrati, spesso si associa anche all'irregolarità dal punto di vista del

soggiorno. L'utilizzo di lavoro irregolare ha in primo luogo a che vedere con la

polverizzazione della domanda, che contribuisce a far sì che l'attività ispettiva sia

estremamente difficile da realizzare (essa inoltre andrebbe incontro a uno scarsissimo

consenso sociale). Inoltre, il problema dei costi non è affatto irrilevante: non tutte le

famiglie possono permettersi di sostenere l'onere di un'assunzione regolare, quando, ad

esempio, si tratta di garantire 24 ore su 24 l'assistenza a un anziano non autosufficiente.

In altri casi ancora - tutt'altro che rari - è la stessa irregolarità nelle condizioni del

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soggiorno a impedire l'assunzione regolare. A tale riguardo, va anche tenuto presente

che per il tipo di lavoro di cui si tratta, da svolgersi dentro le mura di casa, la

conoscenza diretta tra lavoratore e datore di lavoro, o quanto meno la garanzia prestata

da una persona conosciuta, è un requisito ritenuto indispensabile per procedere

all'assunzione. Molte famiglie preferiscono così ricorrere a un immigrato irregolare ma

«garantito» piuttosto che pescare dalle liste dei disoccupati o dei candidati

all'immigrazione. In tali casi, ammesso che i datori di lavoro abbiano intenzione di

farlo, occorrerà attendere una sanatoria per regolarizzare il rapporto di lavoro. D'altro

canto, l'irregolarità ha a che vedere con la stessa atomizzazione dell'offerta, che entra in

contatto coi datori di lavoro potenziali utilizzando reti sociali di tipo informale o

organizzazioni nate con fini diversi dalla mediazione tra domanda e offerta di lavoro,

come le cosiddette «istituzioni facilitatrici» (Ambrosini 2001). In ogni caso, le

possibilità d'ingresso legale sono in genere ritenute sottodimensionate rispetto all'entità

del fabbisogno, oltre che inadeguate a soddisfare il carattere d'urgenza con cui esso

spesso si manifesta. La stessa temporaneità quasi fisiologicamente associata a molte

prestazioni (che terminano nel momento in cui l'assistito muore o non può più essere

accudito al domicilio) ripropone periodicamente, per molti immigrati, il problema della

regolarizzazione, che quindi non sembra mai essere risolto una volta per tutte. In talune

realtà locali sono in atto tentativi di organizzazione dell'offerta, per esempio attraverso

la costituzione di cooperative o l'intermediazione di organismi di privato-sociale:

tentativi che indubbiamente contribuiscono a rendere il mercato maggiormente

trasparente, a garantire tanto le famiglie quanto i lavoratori, ma che possono anche

preludere a un rafforzamento delle logiche di etnicizzazione.

Così come non sono mancati esperimenti per favorire l'emersione dei rapporti di lavoro

irregolari, basati sulla concessione di benefici fiscali alle famiglie, che però si scontrano

con una consuetudine radicata di ricorso al lavoro sommerso, che continua peraltro a

essere ritenuto più conveniente, e coi vincoli posti dalle politiche migratorie.

D'altro canto, l'espansione delle prestazioni irregolari può essere vista anche come un

effetto perverso degli stessi sussidi finanziari erogati alle famiglie: mentre si riconosce

il carico di cura che queste sopportano, si finge di non sapere come spesso tali sostegni

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siano utilizzati per l'acquisto di prestazioni “in nero”. Diversamente da quanto si

verifica in altri paesi, non esistono in Italia meccanismi di controllo sull'utilizzo dei

sussidi né sistemi di accreditamento dei professionisti dell'assistenza o di certificazione

del loro lavoro, circostanza che in qualche misura legittima il ricorso a operatori

generici e irregolari.

Sta di fatto che tale situazione di irregolarità diffusa sta ora dando vita a esiti imprevisti.

Proprio la relativa facilità di ingresso e permanenza irregolare costituisce una causa,

probabilmente sottovalutata, della disoccupazione: è pur vero che l'economia sommersa

rappresenta uno straordinario fattore d'attrazione e un ampio bacino d'assorbimento

dell'immigrazione irregolare; tuttavia, l' avvicendarsi di nuovi arrivi ha finito col far

lievitare l'offerta e determinare, se non una totale saturazione degli sbocchi, quanto

meno un netto peggioramento delle condizioni di lavoro, e in specie retributive. E'

quanto si è verificato, in particolare, nei comparti più marcatamente etnicizzati del

mercato del lavoro, dove il flusso continuativo di arrivi dall'estero, richiamati da

vecchie e nuove catene migratorie (tra queste ultime in particolare quelle dall'Est) e

facilitati dalla fiorente «industria dell'immigrazione», ha finito col determinare

difficoltà nel reperimento dell'impiego anche per le vecchie coorti di migranti,

soprattutto se non disponibili ad adattarsi incondizionatamente.

Tutto ciò significa che, al di là di quelle che possono essere le considerazioni di

carattere umanitario, gli ingressi irregolari in termini complessivi non giovano agli

immigrati già presenti, che vedono ridursi le proprie chance occupazionali e la propria

forza contrattuale a causa della formazione di una sorta di «esercito postindustriale di

riserva». Si può dunque discutere attorno all'efficacia e all'adeguatezza di un certo

sistema di reclutamento e programmazione degli ingressi, ma bisogna al tempo stesso

essere consapevoli di come un afflusso incontrollato non giovi a nessuno, se non a

coloro che traggono profitto, ai vari livelli, dal traffico delle braccia. D'altro canto è pur

vero che, secondo i dati che ci restituiscono le indagine campionarie, il lavoro nero

costituisce, per la maggioranza degli intervistati, una fase di passaggio, che prelude alla

conquista di un permesso di soggiorno e di un' occupazione regolare. Ma, a meno che

non si voglia ufficializzare il ricorso alle sanatorie periodiche come strumento di

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governo dell'immigrazione, è bene non sottovalutare il rischio che, col susseguirsi degli

arrivi e la lievitazione dell'offerta, la disoccupazione - o la permanenza in quell'area

grigia fatta di lavori precari e irregolari - diventi per molti una condizione di lunga

durata. Un rischio al quale ancora una volta le donne sono le più esposte. (Zanfrini

2005)

Infine, la terza conseguenza è rappresentata dal sostanziale isolamento in cui sono

lasciate le famiglie, che produce ripercussioni soprattutto per i nuclei meno in grado di

fronteggiare i rischi sociali. Anche se di impossibile quantificazione, il mercato privato

dell'assistenza ha oggi dimensioni maggiori dello stesso sistema di servizi pubblici, se

misurato in termini di numero di utenti (peraltro solo stimabile) e continuità delle

prestazioni. Ma la natura a pagamento delle prestazioni discrimina evidentemente le

famiglie meno dotate di risorse (tenuto anche conto che taluni sussidi, in particolare

l'indennità di accompagnamento, sono erogati senza considerare i livelli di reddito

familiare). La relazione tra reddito e propensione all'acquisto di servizi privati si

affievolisce evidentemente via via che il bisogno di cura si fa più accentuato (Ranci

2004), ma ciò non risolve il problema, anzi semmai lo esaspera, giacché è evidente che,

quanto più precarie sono le condizioni economiche di una famiglia, tanto più probabile

è che essa ricorra a lavoro povero e irregolare, contribuendo ad accentuare la

segmentazione interna a questo mercato (segmentazione di cui ben poco si conosce, ma

che è certamente ipotizzabile).

II rischio - più concreto che paventato - è che si scateni una «guerra tra poveri». Da un

lato vi sono gli anziani bisognosi di assistenza e le loro famiglie, scarsamente sostenuti

dal welfare pubblico e con condizioni di vita non così agiate da potersi permettere di

acquistare sul mercato privato le prestazioni di cui necessitano pagandole regolarmente.

Dall'altro ci sono gli immigrati (o più spesso le immigrate), con il loro bisogno di

lavoro e di guadagno, protagonisti di quel «welfare parallelo» cresciuto in questi anni

spesso nell'informalità, ma oggi più di ieri (dato anche l'attuale clima politico)

interessati a regolarizzare il proprio impiego garantendosi per questa via il diritto a

soggiornare nel paese. E ancora, le moltitudini di nuovi migranti spinti dal bisogno e

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dall'aspettativa di potersi «sistemare» in Italia, che giungono nel nostro paese e si

offrono a buon mercato per svolgere gli stessi lavori di chi li ha preceduti.

Così, la vulnerabilità dell'offerta e della domanda si alimentano a vicenda, coperte dalla

tolleranza verso il lavoro nero, dai pregiudizi etnici, dalla paradossale «coerenza» di

questo stato di cose coi caratteri tanto delle politiche sociali quanto delle politiche

migratorie.

Le prime (le politiche sociali) orientate a delegare alle famiglie la responsabilità di

organizzare l'assistenza dei propri membri bisognosi anche, eventualmente, attraverso il

ricorso a un mercato privato, che non si preoccupano di regolare né di inserire in

maniera integrata nel proprio pacchetto di interventi.

Le seconde (le politiche migratorie) obbedienti a una sorta di neoilluminismo che

pretenderebbe di pianificare gli ingressi sulla scorta dei bisogni del sistema produttivo,

a prescindere dalle modalità concrete con cui può avvenire l'incontro tra domanda e

offerta e dalla specificità del fabbisogno espresso dalle famiglie.

Ad alimentare l'offerta di lavoro sono, come abbiamo visto, soprattutto donne

immigrate, non di rado appartenenti a famiglie disgregate e divise. Ma anche ad

alimentare la domanda sono soprattutto donne: caregivers non più in grado di reggere

da sole il carico di cura dei propri familiari e le tante donne anziane sole sopravvissute

al partner, che dopo avere speso una vita intera a occuparsi dei propri cari, si trovano

ora a dover acquistare sul mercato i servizi di cui hanno bisogno vitale. Come abbiamo

visto più sopra, una serie di analisi denuncia la natura iniqua della nuova divisione

internazionale del lavoro riproduttivo, che mette accanto domestiche e padrone,

accomunandole nella loro ricerca di indipendenza attraverso il lavoro retribuito, ma

mantenendole separate da un enorme divario di privilegi e opportunità (Ehrenreich /

Hochschild 2004). La nostra riflessione, guardando ai bisogni della componente più

vulnerabile della popolazione autoctona, ci ha posto a sua volta di fronte a donne

diverse ma che pagano tutte sulla propria pelle la rinuncia dei nostri sistemi di welfare a

rinnovare, in forme adeguate ai tempi e alle trasformazioni che la società ha conosciuto,

la propria tradizione solidaristica. Considerazioni che rendono evidente come garantire

un «buon» governo dell'immigrazione costituisca una sfida inseparabile dalla capacità

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di progettare un modello di sviluppo non soltanto economicamente competitivo, ma

anche socialmente sostenibile (Zanfrini 2004). E come la dimensione dell'etica, troppo a

lungo espunta dal dibattito sulle migrazioni, dovrebbe invece diventarne una delle

componenti centrali. A partire proprio dall'esperienza delle donne.

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Conclusioni:

L’ultimo decennio ha evidenziato un importante cambiamento nella

composizione dei flussi migratori nel nostro Paese. È aumentato il numero delle

donne primo-migranti, provenienti principalmente dall’Est europeo, che in età

spesso non giovanissima lasciano le famiglie per venire in Italia a lavorare come

badanti, collaboratrici domestiche o assistenti familiari.

In questo mio lavoro ho cercato di mettere a fuoco il fenomeno del badantato,

analizzandone lo scenario nel quale si sviluppa ed i processi macrosociali

coinvolti. Il mio intento, in sostanza, era quello di capire le ragioni strutturali

della così rapida e improvvisa diffusione della figura sociale di badante straniera

nella realtà italiana, interrogandomi sul ruolo che assumono in questa dinamica i

rapporti familiari e, soprattutto, l'assetto del nostro welfare a base familistica, e

cercare infine di valutare quali ne siano le ricadute nel medio-lungo termine.

Con il cosiddetto processo di globalizzazione, le donne sono in movimento come

mai era avvenuto prima nella storia. Milioni di donne si muovono, sole, dai paesi

poveri verso quelli ricchi dove lavorano, generalmente, nelle famiglie come

bambinaie, badanti, collaboratrici familiari.

Vengono qui a svolgere il lavoro di cura, che da secoli spettava alle donne dei

paesi occidentali le quali non sono più in grado di dedicarvisi, essendo

impegnate, spesso, nel lavoro retribuito extra domestico.

Le lavoratrici immigrate colmano il deficit di cura e di amore nelle nostre

famiglie, ma a loro volta lo ricreano nelle famiglie dei loro paesi di origine.

Spesso lasciano i propri figli alla cura di nonne, sorelle, cognate. A volte è la

figlia maggiore che lascia la scuola per dedicarsi ai fratelli più piccoli, con

conseguenze talvolta gravi e con laceranti contraddizioni e sofferenze sia per le

madri che per i figli.

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L’impatto della migrazione di donne nel nostro paese è duplice: rende accessibili

servizi di cura personalizzata (a basso costo e a domicilio) alle famiglie con

anziani o disabili; consente un notevole risparmio per il welfare locale che è

orientato all’erogazione di sussidi monetari e alla delega implicita dei compiti

assistenziali alle famiglie, piuttosto che alla realizzazione di efficienti servizi

territoriali.

Tuttavia ritengo che stia diventando sempre più urgente, date le loro precarie

condizioni lavorative, sociali e familiari, non fermarsi al presente, ma rivolgere

l’attenzione al futuro delle colf e delle badanti, e interrogarsi su quali saranno le

loro opportunità e le possibilità di scelta, nel momento in cui potranno o

dovranno uscire dal mercato del lavoro: raggiunta l’età pensionabile, cosa

succederà a tutte quelle donne straniere che oggi aiutano le famiglie italiane

nella cura delle persone non autosufficienti e fanno risparmiare a Stato e Regioni

circa 45 miliardi di euro l’anno in welfare non elargito?

Alla luce di queste considerazioni mi sembra doveroso riflettere sulle future

condizioni di vita delle colf e badanti straniere nel nostro Paese. Cosa resterà loro

dopo aver lavorato molti anni in Italia, svolgendo mansioni non proprio

gratificanti, e dopo aver lasciato le proprie famiglie nei paesi di origine, non

potendo veder crescere i figli o mantenere un solido rapporto coniugale?

Probabilmente solo tanta incertezza e un forte rischio di emarginazione.

Per questo motivo, nonostante oggi sia ancora basso il numero di immigrate tra i

pensionati italiani, credo sia necessario guardare ai loro bisogni futuri per

ragionare su nuove misure politico-sociali da adottare nei prossimi anni quando,

allo stato attuale delle cose, il loro numero crescerà in maniera considerevole.

08/09/2011

Andrea G. Denaro

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Profumo di timo sull'alta radura, le rondini intorno alla chiesa, d'aprile

La fredda neve fra le sue mani, la pioggia che bagna ginocchia bambine

L'odore di legna che brucia nel fuoco, il cuore che batte e una lacrima dolce

L'Amore di un uomo che le fu accanto, questo vedono gli occhi di Greta.

(Giuseppe Festa, Lingalad – Gli occhi di Greta)

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