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Giovanni Cellini, mainstream, precariato, ironico

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GIOVANNI CELLINI

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CO. CO. CO.SA NOSTRA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-518-2 Copertina: immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Aprile 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente e-

sistenti è da ritenersi puramente casuale

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Dedico questo libro a [IL TUO NOME QUI] Questa dedica è in vendita! Per un supplemento aggiungo anche

“perché a lui devo tutto” Ultimo aggiornamento: hanno vinto questo spazio, pagan-dolo a carissimo prezzo, la mia famiglia, Peppino, Nora e Antonio e mia moglie Lorenza. Quindi dedico a loro quanto segue. Senza offesa.

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Introduzione Carissimi lettori della prima parte di questo romanzo (ovvero quella che si riesce a leggere), io, Giovanni Cellini, nel pieno possesso del 20% scarso delle mie facoltà mentali (che per me è l’equivalente di una velocità di crociera), vi confermo che questa prima parte si può leggere: si parla di precariato, delinquenza e derivati. Quanto alla seconda parte non ho nulla da dirvi, io stesso non l’ho letta… ripeto, non ne valeva la pena. Ammetto che il mio giudizio potrebbe essere influenzato dal fatto che sono l’autore del presente libro. Saluti cari e buona lettura.

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CAPITOLO I

“Dopo la laurea” Cosa deve fare un diciottenne per far felici i parenti? Con il di-ploma in mano deve iscriversi all’università, laurearsi il prima possibile (sia laurea triennale che specialistica, innovazione por-tata esclusivamente per far guadagnare il doppio alla potente lobby dei ristoratori, grazie alle raddoppiate feste di laurea), evi-tare problemi particolari, non ingravidare nessuna, non fare notta-te in questura dopo feste tra studenti, insomma deve portare il pezzo di carta a casa senza effetti collaterali indesiderati. Così fece Giuseppe: laureato nei tempi, summa cum laude trien-nale e specialistica, il giorno dopo era già in cerca di lavoro, con-vinto che la sua vita da studente di clausura gli avesse fatto ac-cumulare punti, non si sa dove, che avrebbero portato a un degno primo impiego. Ma la realtà sociale italiana del terzo millennio non era di quest’idea, e si divertì un po’ con lui. Nulla di personale, la sud-detta realtà fa così con tutti. Possibile antidoto sarebbe stato l’essere nel giro giusto, per nasci-ta o per sveltezza, e Giuseppe mancava di questi bonus extracur-riculari, non si era distinto né per furbizia né per fortuna. Vi riassumo l’ultimo anno e mezzo. Un primo stage, un secondo stage, un terzo stage con rimborso spese che lo aveva illuso. Poi un contrattino di tre mesi con stipendio da paese in via di svilup-po, poi un corso della regione, poi quarto stage, poi un corso co-stoso e inutile presso azienda specializzata in corsi costosi e inuti-

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li, poi un contratto da tre mesi che sicuramente sarebbe diventato un indeterminato ti assicuro per certo perché ieri ho parlato con il direttore e lui non ti vede male, comunque poi ne riparliamo, in-tanto mi puoi fare quelle fotocopie che ti chiedevo? Attento che la fotocopiatrice si inceppa… Non è vero, la Xerox non s’inceppò, il contratto invece sì, Giu-seppe vide passare il giorno di scadenza del contratto, continuò a lavorare come un bufalo (che poi è normale che un bufalo lavori senza contratto, chi ha mai fatto un contratto a un bufalo? Non sa firmare), e dopo un mese abbondante di lavoro gli dissero che c’era stato un problema, tagli o chissà cos’altro, non lo ricordo più, ma neanche Giuseppe, confondeva oramai i motivi per cui i vari contratti erano finiti. Quella mattina Giuseppe era con altri disperati (forse un centinaio in tutto) in una piazzetta squallida e vuota, una di quelle moderne ad anfiteatro che sul progetto sono bellissime, ma che il calce-struzzo trasforma in cose brutte; succede anche con le chiese nuove, bruttissimo calcestruzzo in forme improbabili. Altrettanto improbabili erano le eleganze in piazza, un centinaio di maschi e femmine in abito da impiegato modello, ventiquattro-re pronta (con dentro il curriculum in cinquanta copie, in CD e in chiavetta USB) ma facce sconsolate, occhiaie, tristezza. Che ci facevano un centinaio di eleganti disperati lì? Aspettavano qual-cosa. Giuseppe era seduto vicino a Raffaele, laureato con lui, con per-corso diverso ma stessa disoccupazione, che lo guardò sconsolato e disse: «Andiamo, è tardi, oramai non arriva più nessuno» «Aspettiamo ancora un po', forse qualcuno arriva» Raffaele in quel momento odiava la pazienza remissiva di Giu-seppe… «Sì… aspettiamo… eccoci qua, precari a vita! Se non trovo lavo-ro entro un mese mi vendo un rene!»

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«Ma non te n’eri già venduto uno?» «Sì… infatti per questo chiederò almeno il doppio!» «Beh… mi pare equo.» Un ragazzino interruppe il dialogo arrivando di corsa: «Ragazzi, arriva! Arriva il caporale!» I (circa) cento si alzarono in blocco per correre verso un camion-cino in arrivo. Il camioncino si fermò, i cento (o giù di lì) circon-darono il mezzo chiamando a gran voce il caporale (con tono im-plorante). Il caporale scese dal camioncino con un guardaspalle, entrambi armati, i (forse) cento si fecero da parte, caporale e vice-caporale salirono sul piano di carico, la folla sotto questa sorta di palco, in attesa. Non so se la cosa fosse fatta apposta, ma il caporale aveva il sole estivo alle spalle, e i ragazzi lo avevano negli occhi, questo aumentava i segni di sofferenza già presenti su quelle facce. Pochi secondi di silenzio, l’attesa che cominciasse a parlare il ca-porale. Descriviamolo, va, che ne vale la pena. Faccia patibolare, ottima per un western, corpo grasso e muscolo-so, ottimo per il wrestling, voce non la so, ancora non parla. Do-vrebbe cominciare a momenti. E infatti il caporale disse: «Allora! Cominciamo subito! Una multinazionale di Internet cer-ca due laureati, per un mese, a 15 euro al giorno...» La folla reagì all’offerta, tutti si proponevano tendendo le mani al caporale: «Prenda me!», «Ho bisogno!», « Io!», «Prenda me!» Il guardaspalle del caporale teneva lontani i più invadenti con uno sfollagente, e menava con gusto, ma i colpiti indietreggiavano per un momento e poi si rifacevano sotto, come le antenne di una lu-maca. Deduco che avessero davvero bisogno di lavorare. Il caporale gridò: «Calmi, feccia! Allora, sali tu... e tu! Veloci!»

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I due scelti salirono sul piano di carico del camioncino, ma anche gli altri spingevano, e il caporale ringhiò: «E voi buoni! Calmi!» Ci fu un secondo di silenzio di cui approfittò una ragazza, la più allettante (nel senso di “a letto”) del gruppo, che mise una mano sulla gamba del caporale e gridò: «Prenda me! Sono brava!» Il caporale aveva sempre uno o due contrattini extra da sfruttare al momento giusto, fece un ghigno e disse al guardaspalle: «Falla salire che poi lo vediamo quanto è brava…» Subito trasformò il ghigno in una faccia feroce e diede alla tipa un avvertimento: «Ma bada che se durante il contratto resti incinta sputtani te e me che ti faccio lavorare!» La ragazza annuì e si andò a sistemare sul cassone, la folla già aveva ricominciato a implorare, il caporale proseguì: «Un'azienda di computer cerca un laureato per l'ufficio marke-ting, per tre mesi, a 20 euro al giorno» Tre mesi era una pacchia, la paga non male, la folla mise la quar-ta, Giuseppe fu spinto da quelli dietro, quasi cadde e si rialzò a fortuna, il gesto atletico catturò l’attenzione del caporale, che lo indicò: «Buoni! Allora, sali tu... voi buoni…» Giuseppe emerse dalla folla vociante e salì sul camioncino aiutato dal guardaspalle, appena salito chiese al caporale: «Caporale, mi scusi, ma sarò assunto o con partita IVA?» Giuseppe aveva questi momenti di ingenuità, e simili domande fuori luogo le faceva; figuriamoci se un tre mesi veniva assunto… le riforme in questo settore sono state varie, quasi più che del co-dice della strada, l’ultima dell’ultimo governo tecnico Giuseppe non l’aveva neanche capita… aveva solo capito che c’era ancora l’assunzione a tempo determinato o in alternativa qualche cosa tipo co.co.co. che però era diventato rischioso per le aziende, che

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preferivano buttare tutto sulla partita IVA o sui voucher… co-munque dopo un po’ ti mandavano via come e quando volevano, questo era il risultato finale in ogni caso… eppure Giuseppe non si rassegnava, più che altro perché i genitori, due statali in pen-sione che non capivano perché nessuno facesse un indeterminato al figlio, continuavano a chiedere a ogni nuovo lavoro se sarebbe diventato stabile… e quando non accadeva facevano quel tre-mendo ragionamento colpevolizzante per il precario: “ma se gli servi all’imprenditore ti assume, se non ti assume non gli servi!”. Come dire che in fondo eri tu a non essere utile. Giuseppe ogni volta che sentiva queste parole cadeva in depressione, come tutti i giovani con contratti-nomadi che dovevano spiegare ai genitori della vecchia guardia che non erano loro gli incapaci, che ora funzionava così, o meglio, che ora così non funzionava… vabbè, insomma, se faceva la solita domanda sull’assunzione Giuseppe aveva i suoi buoni motivi… Il caporale gli prese la faccia con la mano e gli disse: «Guarda, oramai nelle aziende assumono solo droga, ma per te che hai questa faccetta buona buona possiamo fare un’eccezione… indeterminato a tre mesi, ti va bene?! TI VA BENE?!!» E lo spinse in malo modo tra gli altri seduti sul piano di carico, continuando la gag che divertiva il guardaspalle: «Vuoi essere assunto? Non mi sembri un tipo così “determina-to”!» Caporale e guardaspalle risero della battuta, poi il primo si fece serio e si rivolse alla folla, che continuava a implorare e non ave-va voglia di ridere: «E adesso... e adesso basta!» La folla cominciò a protestare, gridando, cercando di toccare il caporale: «Come basta?!Vogliamo lavorare!», «Prenda me!», «Caporale!» Ma il caporale voleva chiudere lì:

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«Per oggi è finita!» Da disoccupati si stavano avviando a essere rivoltosi, senz’altro avevano bisogno… il guardaspalle li teneva indietro a fatica, il caporale prese la pistola dalla fondina e sparò due colpi in aria, lì la folla si fermò. Il caporale era un po’ arrabbiato: «E allora! Feccia!» Poi si rivolse al guardaspalle: «Andiamo!» I due loschi individui (almeno una volta andavano definiti così) scesero dal cassone e rientrarono nel lato guida, sul cassone erano buttati i lavoratori scelti, Giuseppe era seduto e guardava le facce dei rimasti a terra, che stavano ancora vicino al camion. Benché la dura realtà del mondo del lavoro avesse reso Giuseppe un po’ più scaltro rispetto al dopo-laurea, comunque qualche momento di stupidità permaneva, e per la seconda volta in pochi minuti diede segno di ingenuità, cominciando a consolare i non scelti: «Ragazzi, dovete avere pazienza, il lavoro c'è, prima o poi chia-meranno anche voi! Funziona così... dovete essere flessibili!» La piccola folla ovviamente non aspettava che un motivo per sfo-garsi, e a queste parole cominciò una serie di proteste, che poi di-ventarono insulti, che lasciarono il posto alle mani, per poi con-cludersi con un Giuseppe preso e buttato giù dal camion, mentre gridava: «No! No! Non così flessibili! Troppo! Lasciatemi!» Aveva provocato la cosa ragionando poco, la folla in quel mo-mento non ragionava per niente, l’unico che ragionava fu il più anziano del gruppo, per la cronaca sposato con figli, che invece che accanirsi su Giuseppe salì sul camioncino e ne prese il posto. Il guardaspalle dal posto di guida vide la cosa e chiese: «Caporale, ne hanno buttato giù uno e ne è salito un altro…» Pensate quanto gliene poteva fregare al caporale, che rispose con malcelato gusto cinico: «Uno vale l'altro... su, parti, parti!»

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Il camioncino ripartì, i disoccupati cominciarono a inseguirlo ap-pena si resero conto che un furbo era riuscito a beccarsi il posto senza troppa fatica, ma oramai era fatta, e il suddetto furbo accen-tuava la cosa salutando gli inseguitori con gesti osceni. Alla fine a terra era rimasto solo Giuseppe, cosciente, nulla di rot-to, ma steso con braccia e gambe disarticolate come fosse una marionetta afflosciata. Si avvicinò il suo amico Raffaele per dar-gli il colpo di grazia: «Cacchio, sei proprio flessibile!» Giuseppe lo guardò con la faccia disperata e disse: «Io divento pazzo... io sento di impazzire... lo sento, lo sento... divento pazzo!»

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CAPITOLO II

“Arriva Giuseppe il pazzo” In un parco cittadino, più che parco quattro aiuole e due panchi-ne, camminava Giuseppe, o, com’era conosciuto nel quartiere, Giuseppe il pazzo. Come pazzo non gli mancava nulla, la cammi-nata sconclusionata, espressioni strane, versi strani ogni tot passi. Del Giuseppe che avete conosciuto poche righe fa pareva esser rimasto poco…che peccato. Nel suo girare senza meta si avvicinò a una fermata dell’autobus, dov’erano un gruppo di cittadini in attesa del mezzo. Li guardò, un verso gli aprì la bocca, da cui poi uscirono le seguenti parole: «L'autobus non passa mai! L'autobus non passa mai ! E' un'ora che aspetto». Poi ribadì il concetto: «Non passa mai! E' un'ora che aspetto!» Dopodiché Giuseppe si riavviò, ma le persone non erano né sor-prese né spaventate, solo qualche risata e un po’ di pietà. Un ra-gazzo si sentì in dovere di spiegare: «E’ Giuseppe il pazzo, ogni giorno arriva puntuale... dice sempre la stessa cosa... qui nel quartiere lo conoscono tutti!» Ma evidentemente erano tutti del quartiere, perché risposero con sufficienza: «Sì... lo conosciamo... lo conosciamo...» E una signora aggiunse: «Che tipo strambo... poverino, ma non fa male a nessuno.»

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Giuseppe, senza far male a nessuno, era già arrivato alla fermata dopo, neanche fosse lui stesso un bus. Trovò due signori in attesa e ripeté il suo pezzo forte: «L'autobus non passa mai! L'autobus non passa mai ! E' un'ora che aspetto, non passa mai! E' un'ora che aspetto!» E se ne andò. I due signori sorrisero, e uno spiegò: «Quello è Giuseppe il pazzo... fa sempre così, è pazzo, ma è in-nocuo.» Sfondava una porta aperta, l’altro rispose: «Lo so, lo conosco, tutti in questa zona lo conosciamo.» «Anche lei di questa zona? Dove abita? Magari siamo quasi vici-ni…» Mentre i due facevano conoscenza Giuseppe era giunto in un al-tro parco (tre aiuole in croce e mezza fontana). Un ragazzo da lontano lo incitò: «Ehi, Giuseppe, l'autobus?» Rispose d’istinto: «Non passa mai, l'autobus non passa mai, è un'ora che aspetto!» Anche altri ragazzi volevano divertirsi, e cominciarono a chia-marlo a distanza: «Giuseppe, l'autobus!» Lui rispondeva da bravo matto, finché una sveglia suonò, e smise di filare i ragazzi; prese un sacchetto, lo aprì, ne tirò fuori un pa-nino da ottocento kilocalorie, si sedette su una panchina e comin-ciò ad addentarlo. Sulla panchina c’era una bella ragazza che sor-rise a Giuseppe e gli disse: «Ehi, Giuseppe, e l'autobus?» Ma la bloccò subito: «Ragazza, ora sto in pausa pranzo.» Questo la ragazza non se l’aspettava, e chiese: «Pausa pranzo?» «Sì, ora sono in pausa pranzo e non lavoro, quindi non faccio il pazzo.»

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«Mi vuoi dire che fai il pazzo per mestiere?» Giuseppe continuando a masticare rispose: «Mi sa che è meglio se ti spiego... dunque... io sono un disoccu-pato e allora mi sono iscritto alle agenzie per trovare lavoro. In-tanto al comune l'assessore Carli, che è ordinario di sociologia all’università, se n'è uscito dicendo che nelle città moderne le persone non si sentono più parte di una comunità, si sentono e-stranee fra di loro, e allora l'assessore dice che il pazzo del quar-tiere ha una funzione importante, perché tutti nel quartiere lo co-noscono, lo deridono, ne parlano e si sentono parte del gruppo sociale, sentono che qualcosa li accomuna, insomma. Ha propo-sto questo progetto all’Unione Europea, l’hanno finanziato…» Chissà quante volte aveva raccontato questa storia (non avrebbe dovuto in realtà), oramai gli veniva a memoria: «Avuti i soldi, il comune si è rivolto alla agenzia dov’ero iscritto chiedendo dei lavoratori co.co.co. per fare i pazzi del quartiere, e ho dovuto accettare, così almeno guadagno qualcosa. Ed eccomi qua.» Finita la spiegazione Giuseppe continuò il pasto, ma immaginate la faccia sorpresa della tipa. La sorpresa durò un minuto, poi la ragazza riuscì a parlare: «Che storia! Beh... però è vero, tu qui sei conosciuto da tutti, se uno ti conosce vuol dire che è del quartiere... si sente parte della comunità... è un’idea originale, non è male!» Come abbiamo visto Giuseppe aveva automatizzato il racconto della sua strana storia, ma anche la reazione all’apprezzamento della ragazza gli venne con freddo automatismo: «Ma vaffanculo te e l’assessore!» La ragazza ebbe un secondo attimo di sorpresa, ma capì l’antifona e se ne andò al volo senza rispondere. Giuseppe finì di mangiare in pace, poi si alzò e ricominciò il suo strano mestiere. Camminava per strada tra la gente che lo guardava sorridendo, e parlava da solo:

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«Controllore, le giuro! Il biglietto l'ho perso! Come?! La multa a me?! Lei non sa chi sono io! Anche perché le ho dato un nome falso...»

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CAPITOLO III

"Come Giuseppe perse il suo posto di lavoratore socialmente utile"

Mentre fuori le persone si scannavano per briciole di contratto, al Comune l’atmosfera era diversa, almeno per quelli a tempo inde-terminato, che si comportavano per quello che erano, nobiltà del lavoro. Le giornate passavano tranquille, lo stress era basso, il la-voro marciava lento ma inesorabile, gli stipendi a volte non erano tra i più alti, ma fuori c’era chi stava peggio, e poi chi soffriva di più per gli stipendi non altissimi erano di solito i più intrapren-denti, che una attività extra la rimediavano sempre. Quanto ai ta-gli, alle spending review… una pacchia, perché ora c’era un vero motivo per fare il meno possibile, mancavano i fondi. Prima bi-sognava tirare in ballo la burocrazia, i regolamenti. Armando, dirigente comunale, prese il telefono e chiamò Luigi, suo collega che stava al piano di sotto: «Pronto?» Armando, come spesso si fa per le telefonate di lavoro, cominciò parlando del più e del meno: «Ciao Luigi! Come va?» «Bene» «Mi fa piacere... e tua moglie come sta?» «E' morta.» «Morta?! Quando?!» «Tra un'ora, se non trovo traffico...»

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«Avete litigato di nuovo, eh? Ma senti, Luigi, ti devo chiedere una cosa importante... sai che abbiamo tra i lavoratori co.co.co. qui al comune, tra quelli socialmente utili, Giuseppe... sì, ce lo paga la regione col progetto sui matti di quartiere, che poi in real-tà sono fondi europei, quelli finanziano proprio tutto… dicevo? Ah, sì, Giuseppe… mi ha ricordato or ora che c'è la scadenza per la richiesta dei fondi, ci vuole una relazione per il ministero, al-trimenti ci ritirano i fondi e lo dobbiamo mandar via. Il problema è che io non ho tempo per fare ‘sta relazione...» L’istinto di fancazzista di Luigi cominciò a pizzicare: «Arma', è compito tuo! Avresti dovuto già farla da sei mesi!» Armando non provò neanche a giustificarsi, sei mesi non sono un ritardo grave, c’è di peggio: «Sì, lo so, ma non ho tempo, la relazione va fatta per lunedì, io domani vado in vacanza... c'ho una manza sottomano... un'amica di mia figlia... tu mi devi un favore per quel tuo parente assunto nell’azienda di pulizie che ha l’appalto col comune, giusto? Bene, sdebitati! Mi fai la relazione per lunedì. Mi raccomando, per lu-nedì.» Luigi in cuor suo malediva il parente netturbino, che aveva dovu-to aiutare per pressioni della famiglia tutta: «Va bene, farò la relazione, ma solo perché ti devo un favore.» La cosa pareva risolta, ma anche Luigi sapeva usare il telefono, e lo fece, chiamando Franco, dieci stanze più in là: «Pronto?» Luigi non era come Armando, niente chiacchiere, dritto al punto, c’era un lavoro da scaricare: «Ciao Franco, senti, ti ricordi che mi devi un favore per quel permesso concesso al tuo amico che non era in regola? » Franco sentì arrivare un siluro, ma la sua risposta non aveva mol-te opzioni: «Sì, mi ricordo.»

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«Bene, allora tu mi fai una relazione sui lavoratori socialmente utili entro lunedì e siamo pari... lo so, è noiosa, ma è molto im-portante, non ti puoi rifiutare!» «Va bene, ma solo perché ti devo un favore...» La pratica stava girando meglio di Valentino Rossi ai bei tempi, Franco non sapeva da dove provenisse, ma sapeva che non aveva voglia di tenersela. Riprese il telefono e chiamò tale Gino del pi-ano di sotto: «Pronto?» «Pronto Gino? Sono Franco, senti, mi serve una relazione sui la-voratori socialmente utili per lunedì, me la puoi fare? Ti ricordo di quel tuo amico che ha chiesto di poter fare una cappelletta al cimitero comunale. Io gliela faccio fare senza problemi, ma tu devi fare qualcosa per me, eh? Allora, mi fai la relazione entro lunedì? Mi raccomando, che poi la do io a chi di dovere.» «Va bene, ma mi raccomando la cappelletta...» Gino era felice, perché aveva appena fatto un favore cimiteriale all’ingegnere del palazzo, persona in vista con moglie pettegola, che avrebbe raccontato a tutti del favore ricevuto, alzando così il prestigio di Gino nel condominio. Ma la felicità di Gino era rad-doppiata dal fatto che aveva già pensato a un collega che la sud-detta pratica la doveva già fare, e lo chiamò subito. Avete presen-te Armando? Quello che avrebbe dovuto fare la pratica e che a-veva iniziato questo giro? Ebbene, il suo telefono squillò: «Pronto?» Gino era di buon umore per quanto detto sopra, Armando era di buon umore per quanto successo all’inizio, la telefonata assunse i toni di una conversazione da bar: «Pronto Armando? Come va? Non mi frega della salute, vecchio porco, voglio sapere chi ti stai ripassando…» «Una teenager!»

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«Una minorenne?! Sei un porco! Sei un porco! Ce l'ha una sorel-la? Magari sorella minore... poi mi dai un contatto... niente Face-book che mi tana mia moglie, il cellulare!» «Non c'è problema! Ma dimmi, ti serve qualcosa?» Meno male che cominciarono a parlare di lavoro, in poche battute di telefonata avevano già toccato il fondo e l’illegalità sessuale. Gino spiegò il problema: «Mi serve una relazione sui lavoratori socialmente utili del nostro comune, ma io so che tu ne stai preparando una, non è che me la potresti mandare appena l’hai fatta? Mi devi un favore per quella licenza a tuo zio, ti ricordi?» Ma quanti cazzo di favori fanno al comune?! Alla fine fanno un sacco di cose, ma solo per favore. Comunque Armando mantenne il buon umore (il che avrebbe dovuto far capire a Gino che c’era un problema) e spiegò che la cosa era già risolta: «Gino non c'è problema! La relazione sarà pronta entro lunedì, e ti manderò immediatamente una copia via mail.» Il corto circuito era fatto, e Armando lo rese ancora più stabile ri-chiamando Luigi (il secondo del giro, mi seguite? Non potrete mai lavorare in un ente pubblico se non sapete tracciare una cate-na di favori): «Pronto Luigi, sì sono sempre io! Ti sono mancato? Senti... mi raccomando e ti ricordo, fammi la relazione sui lavoratori social-mente utili, che serve anche a dei colleghi, ci conto?» Luigi era sicuro che qualcuno gli avrebbe fatto la suddetta rela-zione, come molti quella mattina in quel palazzo: «Tranquillo Arma'! Avrai la tua relazione entro Lunedì, mi sono già organizzato, ti saluto bello, ciao!» Due mesi dopo Giuseppe perse il lavoro, e non la prese bene. Era su una panchina di fronte al comune, disperato, e al suo fianco c’era il dirigente comunale Armando che lo consolava: «Giuseppe, a tutti noi del comune dispiace doverti licenziare, è che non ci hanno rinnovato i fondi.»

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Giuseppe non capiva, pensava che il rinnovo fondi fosse automa-tico, di solito bastava una relazione: «Ma almeno si sa perché non li hanno rinnovati?» Armando non poteva ammettere che la pratica aveva girato in un circolo chiuso di uffici accelerando sempre più neanche fosse l’acceleratore di particelle LHC di Ginevra, e quindi con una fac-cia di bronzo che un paio di volte nella vita farebbe comodo a chiunque rispose: «Boh… e chi lo sa come vanno ‘ste cose… quelli a Bruxelles so-no burocrati senza cuore…» Giuseppe, testa fra le mani: «Sono disoccupato e senza un euro…» Armando sparò la cavolata: «Eddai, in fondo i soldi non comprano la felicità!» Giuseppe sparò la perla di saggezza: «E’ vero, i soldi non comprano la felicità… la prendono in affit-to… finiti i soldi finisce la felicità… e io ho pochi soldi!» Armando apprezzò la frase, che senz’altro avrebbe rivenduto co-me sua, e poi cercò di fare quello che sapeva fare meglio, ovvero non il suo lavoro, ma i favori. Prese una mano a Giuseppe e disse: «Senti Giuseppe… il padrone dell’azienda che ti aveva mandato qui al comune, la Mad Power, l’ho aiutato ad avere la licenza e ha dal comune molti contratti, insomma mi deve vari favori... se vuoi, potrei chiedergli di assumerti... a tempo determinato, si in-tende…» Giuseppe lo guardò con lo sguardo commosso e si buttò alle sue ginocchia piangendo: «Dottore grazie! Lei sì che è buono! Grazie! Lei per me è come un fratello!» Armando si schernì: «Figurati… diciamo che mi devi un favore… e poi più che un fra-tello potrei essere tuo padre… anzi, forse lo sono, come si chiama tua madre?»

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CAPITOLO IV

"Il nuovo lavoro di Giuseppe" Finalmente si vedeva un Giuseppe soddisfatto e felice. Per un ne-olaureato appena uscito dall’università un lavoro a tempo deter-minato poteva essere visto come un momento di passaggio, ma per chi è passato per la fase successiva, l’odissea della ricerca di un lavoro non dico degno ma quasi, un contratto a tempo deter-minato ti fa sentire il re del mondo. Alla fin fine è sempre un’assunzione! Giuseppe trasudava soddisfazione e amava il pro-prio lavoro. Seduto nell’ufficio della Mad Power, giacca e cravat-ta, sotto il logo al neon (un neon al chiuso è un po’ cafone, sono il primo a dirlo), lavorava con passione. Cos’era il logo della Mad Power? Un matto in camicia di forza, giacca di forza e cravatta di forza. Non starò a spiegare come funzionava l’azienda, faccio prima a descrivervi cinque minuti del nuovo lavoro. Il telefono sulla sua scrivania squillò, Giuseppe rispose: «Mad Power, buongiorno, sono Giuseppe, come posso aiutarla?» Dall’altra parte del telefono c’era un signore in giacca, cravatta e scrivania di pelle, di quelle che oramai si usano solo nei vecchi uffici pubblici, e infatti: «Pronto, buongiorno, sono il Dottor Rocca, assessore del comune di Rocca Santa, è proprio la Mad Power quella dei pazzi a termi-ne?» «Sì, siamo noi! » Giuseppe impostò la voce: «Alla Mad Power lavoriamo da matti!»

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Poi passò dal tono spot a quello “gentilezza col cliente”: «Assessore, posso esserle utile?» «Dunque, qui a Rocca Santa abbiamo appena inaugurato una nuova stazione ferroviaria. Moderna, funzionale, bellissima! Ma più la guardo più sento che manca qualcosa. C’ho pensato un po’ e poi ho capito, una stazione moderna non è tale se non è frequen-tata dai classici “tipi strani da stazione”, e chiedendo in giro mi hanno detto che voi vi occupate del settore… è vero?» «Certo! La nostra azienda ha fornito “tipi strani” per molte sta-zioni ferroviarie importanti! Sono tutti disadattati veri! Noi non usiamo finti sbandati come certe nostre concorrenti…» «Bene! E che mi potete dare?» «Le forniremo un fricchettone che chiede spiccioli ai passanti, è una nostra specialità… ha presente il tormentone “hai qualche spicciolo? Devo prendere il treno”? Quello lo hanno inventato i nostri creativi, un grande successo! Vuole anche dei punk? Si piazzano in gruppo seduti per terra vicino alla stazione e bevono alcolici…» «Sì, va bene per i punk, e barboni? Ne avete?» «Certo! Abbiamo barboni italiani, dell’est Europa, e abbiamo an-che il classico barbone tedesco biondo con il cane addormentato e il cartello “o fame”, è tra i più richiesti. Vuole anche un pazzo da stazione? Il classico pazzo che fa cose strane… ne ho uno per le mani…» L’assessore era più che interessato: «Cosa fa questo pazzo?» «Ogni tanto si dà una pacca sulla spalla e poi si gira per vedere chi è stato. La gente sta ore a guardarlo! E’ reduce da un tour nel-le più grandi stazioni ferroviarie europee, grande successo!» «Importuna anche i passanti?» «Per quello ci deve pagare qualcosa a parte, è opzionale» «Va bene, prendo tutto l’assortimento!»

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«Ottima scelta! Le assicuro che la sua stazione di paese avrà gen-te così strana che sembrerà la stazione Termini di Roma! E in re-galo le do anche un mimo rumeno!» Giuseppe reimpostò la voce in modalità spot: «E tutto questo grazie alla Mad Power, “alla Mad Power lavoria-mo da matti!” » Poi Giuseppe passò alla modalità “moneta”: «E ora, assessore, parliamo dei prezzi, si parte dal più economico, il pacchetto “c’è crisi”…» Fine anteprime.Continua...