Classificazione delle anestesie

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva Anestesia e pre-anestesia Etimologicamente la parola “anestesia” significa “assenza di sensazioni”; in senso clinico, invece, il concetto moderno di anestesia è più ampio. La stessa anestesia può essere generale o periferica, a seconda che coinvolga tutto l’organismo oppure soltanto una sua parte. Le anestesie periferiche si suddividono in: a. topica; è il caso, per es., della anestesia della glottide che viene condotta quando un paziente debba essere intubato da sveglio; b. locoregionale; coinvolge un territorio più ampio e può essere di diverso tipo: - per infiltrazione dei tessuti; - tronculare, per blocco di un nervo; - plessica, per blocco di un plesso nervoso. c. spinale; si riferisce al midollo spinale, e può essere: - subaracnoidea; - peridurale (o extradurale). Tra le anestesie periferiche vi sono anche altre metodiche che però sono cadute in disuso, come la perfrigerazione degli arti, oppure tecniche non ancora accettate (ipnosi, agopuntura). Ovviamente di ben più grande importanza è invece la anestesia generale. Nella anestesia generale si realizza una depressione discendente irregolare del SNC. Una definizione completa di anestesia generale è stata formulata da Nunn: L’anestesia generale è una condizione, indotta mediante farmaci o altri mezzi, caratterizzata da: a. perdita di coscienza; b. amnesia; c. assenza di risposta motoria agli stimoli chirurgici; d. minima risposta autonoma agli stimoli chirurgici; e. reversibilità del processo. I punti (a) e (b) sono molto importanti, poiché pazienti che riescano a conservare un minimo di coscienza e/o di ricordo delle fasi dell’intervento possono andare incontro a problemi psichici anche notevoli, che incidono negativamente sulla vita di relazione. Si tratta del cosiddetto fenomeno dell’awareness, cioè della “coscienza intraoperatoria”, dovuta spesso al fatto che la anestesia si mantiene su piani troppo superficiali non consentendo dunque la soddisfazione piena dei criteri (a) e (b), soprattutto (b), l’amnesia. Il punto (c) è importante soprattutto per facilitare il lavoro del chirurgo, abolendo le risposte riflesse che, aumentando il tono muscolare, renderebbero difficoltoso l’accesso a determinati siti anatomici. Il punto (d) è anch’esso importante, ed è importante che la risposta autonoma venga solo “abbassata”, e non abolita del tutto; la conservazione di quei riflessi, difatti, sia pur in maniera sopita, garantisce un certo mantenimento omeostatico in risposta agli stress chirurgici. Fondamentale ovviamente è il punto (e); il paziente deve pur risvegliarsi dopo l’intervento! 1

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Anestesia e pre-anestesia Etimologicamente la parola “anestesia” significa “assenza di sensazioni”; in senso clinico, invece, il concetto moderno di anestesia è più ampio. La stessa anestesia può essere generale o periferica, a seconda che coinvolga tutto l’organismo oppure soltanto una sua parte. Le anestesie periferiche si suddividono in: a. topica; è il caso, per es., della anestesia della glottide che viene condotta quando un paziente

debba essere intubato da sveglio; b. locoregionale; coinvolge un territorio più ampio e può essere di diverso tipo:

- per infiltrazione dei tessuti; - tronculare, per blocco di un nervo; - plessica, per blocco di un plesso nervoso.

c. spinale; si riferisce al midollo spinale, e può essere: - subaracnoidea; - peridurale (o extradurale).

Tra le anestesie periferiche vi sono anche altre metodiche che però sono cadute in disuso, come la perfrigerazione degli arti, oppure tecniche non ancora accettate (ipnosi, agopuntura). Ovviamente di ben più grande importanza è invece la anestesia generale. Nella anestesia generale si realizza una depressione discendente irregolare del SNC. Una definizione completa di anestesia generale è stata formulata da Nunn: L’anestesia generale è una condizione, indotta mediante farmaci o altri mezzi, caratterizzata da: a. perdita di coscienza; b. amnesia; c. assenza di risposta motoria agli stimoli chirurgici; d. minima risposta autonoma agli stimoli chirurgici; e. reversibilità del processo. I punti (a) e (b) sono molto importanti, poiché pazienti che riescano a conservare un minimo di coscienza e/o di ricordo delle fasi dell’intervento possono andare incontro a problemi psichici anche notevoli, che incidono negativamente sulla vita di relazione. Si tratta del cosiddetto fenomeno dell’awareness, cioè della “coscienza intraoperatoria”, dovuta spesso al fatto che la anestesia si mantiene su piani troppo superficiali non consentendo dunque la soddisfazione piena dei criteri (a) e (b), soprattutto (b), l’amnesia. Il punto (c) è importante soprattutto per facilitare il lavoro del chirurgo, abolendo le risposte riflesse che, aumentando il tono muscolare, renderebbero difficoltoso l’accesso a determinati siti anatomici. Il punto (d) è anch’esso importante, ed è importante che la risposta autonoma venga solo “abbassata”, e non abolita del tutto; la conservazione di quei riflessi, difatti, sia pur in maniera sopita, garantisce un certo mantenimento omeostatico in risposta agli stress chirurgici. Fondamentale ovviamente è il punto (e); il paziente deve pur risvegliarsi dopo l’intervento!

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva Nell’anestesia generale i farmaci possono essere somministrati per lo più per via inalatoria o per via endovenosa; in passato erano usate anche le vie intramuscolare, orale e rettale1, oggi praticamente abbandonate. Da un punto di vista farmacologico l’anestesia generale può essere semplice o mista. L’anestesia semplice prevede l’utilizzo di un sol farmaco; oggi non viene più praticata. L’anestesia mista è invece plurifarmacologica. L’anestesia è detta equilibrata quando soddisfa i criteri esposti nella definizione che abbiamo dato prima. Nella anestesia equilibrata i farmaci sono somministrati sia per via inalatoria che per via endovenosa, e hanno azione sia centrale che periferica. Nell’anestesia equilibrata è possibile dosare i vari farmaci secondo concentrazioni inferiori alle dosi tossiche, a differenza della “vecchia” anestesia semplice, monofarmacologica. Le classi di farmaci utilizzati in anestesia oggi sono: a. anestetici, endovenosi e/o inalatori; b. analgesico-narcotici; c. neurolettici; d. bloccanti neuromuscolari. L’anestesia viene pertanto indotta farmacologicamente nell’individuo; ovviamente l’effetto dei farmaci è graduale, per cui l’effetto finale si raggiunge solo in un certo tempo. Gli effetti dell’anestesia, in generale, sono tanto più marcati quanta maggiore è la concentrazione di farmaco attiva, e quindi quanto più tempo è passato. Fatta questa considerazione è possibile pertanto descrivere la progressione della depressione delle attività del paziente, descrivendo gli stadi dell’anestesia. Didatticamente si propone la classificazione di Guedel2, che contempla quattro stadi: a. primo stadio, analgesia; b. secondo stadio, delirio; c. terzo stadio, stadio chirurgico; d. quarto stadio, paralisi respiratoria. Nel primo stadio, o stadio dell’analgesia, si ha amnesia e stato stuporoso, ma la coscienza è conservata; il paziente è in grado di rispondere ad ordini semplici; si realizza la depressione solo dei centri superiori corticali. L’attività respiratoria è normale. I movimenti oculari sono sotto il controllo volontario. Il tono muscolare è normale. Nel secondo stadio, o stadio del delirio, si ha anche la perdita della coscienza; è tipica di questo stadio una esaltazione delle risposte riflesse a qualsiasi stimolo (dolorifico, termico, acustico), dal momento che si realizza la depressione corticale completa, con “liberazione” dal suo controllo dei centri diencefalici. Facilmente si ha vomito ed esaltazione dei riflessi neurovegetativi. E’ importante ridurre al minimo la durata di questo stadio. L’attività respiratoria è irregolare sia come ampiezza che come frequenza. I movimenti oculari sono esaltati. L’iperattività simpatica è causa di midriasi (aumentato diametro pupillare). E’ conservato il riflesso fotomotore. Scompare invece il riflesso corneale. I riflessi faringei sono esaltati. Il tono muscolare è aumentato.

1 La via rettale principalmente in bambini per la somministrazione di barbiturici a lunga durata 2 Si tratta della descrizione della progressione della depressione del SNC per dosi crescenti di un singolo anestetico (anestesia semplice) somministrato per via inalatoria. Anche se oggi vengono usati più farmaci, è didatticamente utile conoscere gli stadi di Guedel, anche perché costituiscono comunque un punto di riferimento per valutare la profondità dell’anestesia

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

A proposito del diametro pupillare come indice di profondità dell’anestesia, c’è da dire che nell’anestesia bilanciata l’uso di farmaci analgesico-narcotici provoca miosi, e quindi rende impossibile utilizzare il diametro pupillare come indice di profondità dell’anestesia. In queste condizioni la midriasi con pupilla reagente è indice di scarsa analgesia, mentre la midriasi fissa si verifica per grave sofferenza ipossica cerebrale (arresto cardiaco).

Nel terzo stadio, o stadio chirurgico, si individuano quattro “sotto-stadi”, che sono in realtà chiamati piani. Per cui nel terzo stadio ci sono quattro piani di anestesia. Il primo piano è il coma anestetico; in pratica si realizza la depressione anche dei centri diencefalici, cioè cessano tutte quelle risposte esagerate che si osservano nel secondo stadio. Nel secondo piano si verifica una attenuazione delle risposte neurovegetative agli stress chirurgici. In pratica si realizza il punto (d) della definizione di anestesia generale che abbiamo dato prima. Nel terzo piano si verifica l’abolizione delle risposte motorie di grandi e piccole masse muscolari. Nel quarto piano si verifica la paralisi dei muscoli intercostali. Il terzo e quarto piano realizzano in pratica il punto (c) della citata definizione. La abolizione della polipnea da incisione cutanea scompare al terzo piano del terzo stadio, che proprio per questo motivo è chiamato stadio chirurgico. L’attività respiratoria, così come il tono muscolare, si fa via via sempre minore, fino a quando, nel quarto piano, scompare la componente intercostale del respiro, e la respirazione di fa solo diaframmatica. Per quanto attiene i movimenti oculari, questi cessano nel secondo piano; nel secondo piano scompare anche il riflesso corneale, mentre il riflesso fotomotore scompare nel terzo piano. L’assenza di riflesso fotomotore è indice del fatto che il livello dell’anestesia è al piano chirurgico. Il diametro pupillare, nel terzo stadio, si restringe (miosi). Sempre relativa all’ingresso nel piano chirurgico è la scomparsa della lacrimazione. I riflessi faringei cessano già al primo piano, mentre i riflessi della glottide (laringospasmo da stimolazione della glottide) cessano solo al quarto piano; questo è importante per l’intubazione, che è una manovra estremamente reflessogena. L’intubazione era difatti particolarmente impegnativa quando l’anestesia era monofarmacologica. Un altro riflesso che scompare tardivamente è quella della carena (tosse ed contrazione del diaframma al contatto con la carena tracheale). Nel quarto stadio, o stadio della paralisi respiratoria, la depressione del SNC si estende al bulbo, con abolizione dell’attività dei centri respiratori, cardiaci e vasomotori. Il paziente non assistito muore. Scompare la respirazione diaframmatica. C’è midriasi fissa. La classificazione di Guedel, come abbiamo detto, è utile a fini didattici, però oggi in clinica si usano altri criteri di valutazione che tengono conto di vari aspetti; il livello di anestesia è definito sulle condizioni di ventilazione, rilasciamento muscolare, riflesso palpebrale, secrezione lacrimale, pressione arteriosa, frequenza cardiaca… ed esistono schemi di valutazione diversa a seconda che l’anestesia preveda o meno il blocco neuromuscolare. Le anestesia senza blocco neuromuscolare sono da riservare solo a interventi brevi e poco impegnativi. In questo caso ovviamente per valutare la profondità dell’anestesia non si tiene conto del tono muscolare, ma di altri parametri, principalmente di tipo respiratorio (frequenza, modo di respirare, colorito del paziente). Si valutano anche qui l’entità delle risposte autonome riflesse, entità proporzionale all’intensità degli stimoli chirurgici. Quando si impiegano farmaci curarizzanti è necessario valutare il grado di curarizzazione: questo è fatto valutando in realtà la de-curarizzazione, cioè i segni che il farmaco non sta più avendo effetto,

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva come l’aumento del tono dei muscoli respiratori, la comparsa di atti respiratori spontanei3, le reazioni al tubo tracheale (deglutizione, tosse). Abbiamo visto l’anestesia. In realtà c’è anche una pre-anestesia. Di che si tratta? Per preanestesia si intende l’attuazione di effetti, principalmente sedativi centrali e di inibizione neurovegetativa, intesi a facilitare l’anestesia senza che si verifichi abolizione della coscienza; questo è ottenuto per mezzo di farmaci somministrati prima dell’induzione dell’anestesia. La facilitazione dell’anestesia ha un triplice significato. Difatti: a. per il paziente, garantisce una maggiore tollerabilità del periodo preoperatorio e l’aumento del

margine di sicurezza delle pratiche anestesiologiche; b. per l’anestesista, comporta la riduzione (o anche l’abolizione) delle difficoltà tecniche e

metodologiche; c. per il chirurgo, garantisce condizioni operatorie ottimali. La preanestesia serve a: a. controllare l’ansia preoperatoria; b. prevenire gli effetti collaterali dell’anestesia; c. controllare l’attività nervosa riflessa; d. potenziare l’azione dei farmaci anestetici; e. controllare il dolore preoperatorio. Il punto (a) è estremamente importante, poiché l’ansia preoperatoria, oltre ad avere ripercussioni sulla psiche del paziente, ha anche dei correlati fisici (tachicardia, sudorazione, polipnea) che possono ostacolare l’andamento ottimale dell’intervento o peggiorare condizioni patologiche di base. Inoltre l’induzione di anestesia in condizioni del genere può comportare rischio di aritmie gravi o di ipo-/iper- tensione. Una adeguata sedazione preoperatoria, quindi, si rende necessario. Il punto (b) fa riferimento alla possibilità che i farmaci anestetici possano causare, durante l’intervento, emesi, inalazione accidentale di materiale rigurgitato, bradicardia, ipersecrezione salivare e laringo-tracheo-bronchiale. Si tratta di effetti collaterali che possono verificarsi, soprattutto quando ci sono delle “condizioni predisponenti”. Ad esempio, nelle donne in gravidanza che si sottopongono ad un cesareo è possibile che, data la condizione di iperacidità e rallentato svuotamento gastrico – condizioni tipiche della gravidanza – si verifichi l’inalazione accidentale di materiale rigurgitato. In particolare la situazione può evolvere in un grave edema polmonare di natura lesionale (sindrome di Mendelsson). La stessa possibilità si può avere in un paziente che venga operato a stomaco pieno! Il punto (c) è soprattutto da considerare quando si debbano preservare pazienti ad es., ipertesi o cardiopatici. In loro infatti è possibile che la stimolazione autonomica nel corso dell’anestesia o dell’intervento stesso possa precipitare una grave condizione. Si usano di solito Ca2+-antagonisti o beta-bloccanti. Gli alfa-bloccanti si usano in preanestesia solo nei pazienti che devono essere operati di feocromocitoma. Il punto (d) è in realtà un “requisito più teorico che pratico della preanestesia, a meno che non venga praticata una preanestesia con effetti fortemente sedativi oltre che ansiolitici”4.

3 In questi casi il paziente è sottoposto a ventilazione meccanica 4 Così sul libro, a pag. 16

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva Il punto (e) è indispensabile per quei soggetti che hanno dolore acuto prima dell’intervento, in quanto gli effetti neurovegetativi del dolore vanno a sommarsi a quelli ansiogeni. In preanestesia si utilizzano di preferenza farmaci oppioidi, poiché i FANS possono interferire con l’emostasi intraoperatoria. Quale tecnica operare per la preanestesia? Dipende… come sempre. A seconda del grado della sedazione richiesta, delle caratteristiche del paziente, del tipo di intervento e dell’indirizzo di Scuola. Anche per la preanestesia è preferibile adottare più farmaci. La preanestesia può essere: a. sedativa; b. non sedativa. La preanestesia sedativa utilizza principalmente ansiolitici e neurolettici. E’ possibile anche l’uso di analgesico-narcotici e barbiturici. Le benzodiazepine hanno principalmente effetto ansiolitico, e quindi agiscono sui meccanismi corticali che sostengono la sintomatologia ansiosa; chimicamente esse potenziano la trasmissione GABEergica. Oltre all’azione ansiolitica, le benzodiazepine hanno anche azione ipnotica (di solito meno potente rispetto a quella ansiolitica, però alcune benzodiazepine, come il lorazepam, hanno uno spiccato effetto ipnotico), inducono amnesia (ottima cosa per ridurre l’awareness), hanno azione anticonvulsivante (in particolare diazepam e clonazepam) e miorilassante centrale (però quest’ultima azione si verifica ad alti dosaggi). Tra le benzodiazepine il capostipite è il diazepam; va somministrato preferibilmente per os al dosaggio di 10-20 mg; per via i.m. l’assorbimento è irregolare, per via e.v. il paziente ha dolore e c’è il rischio di tromboflebite, sebbene così un ottimo livello plasmatico sia raggiunto molto brevemente. Il diazepam però ha una lunga emivita per cui non è un ottimo pre-anestetico; meglio impegare il lorazepam o il nitrazepam, che hanno metabolismi molto più rapidi. I neurolettici comprendono fenotiazinici (es., clorpromazina) e butirrofenoni (es., aloperidolo). Essi agiscono sulla trasmissione dopaminergica centrale; quando il loro utilizzo è sporadico, come appunto è la condizione di pre-anestesia, l’effetto è principalmente sedativo. Contrariamente, un utilizzo prolungato provoca la cosiddetta “sindrome neurolettica”5. I neurolettici pertanto hanno effetto sedativo; inoltre potenziano l’effetto degli anestetici e deprimono i riflessi bronchiali e laringei, diminuiscono il vomito e la nausea. Hanno anche azione ipotensiva, anticolingergica, eccitante extrapiramidale. Rispetto ai fenotiazinici i butirrofenoni hanno un meno spiccato effetto ipotensivo e parasimpaticolitico, e un maggiore effetto antiemetico: per questo motivo sono da preferire in preanestesia. In particolare si preferisce il deidrobenzoperidolo, somministrato a dosi di 2,5-5 mg; l’effetto sedativo, specie se si associano oppioidi, è ottimale. La preanestesia non sedativa utilizza farmaci parasimpaticolitici, alfa- o beta- bloccanti, e altri farmaci ad azione specifica. Questo tipo di somministrazioni servono ad attutire gli effetti negativi dell’intervento in situazioni patologiche di base che potrebbero complicarsi incontrollatamente, e il loro utilizzo viene deciso volta per volta. Inconvenienti (o complicanze) della preanestesia sia verifica quando si sbagliano i dosaggi oppure il tempo e/o la via di somministrazione; si possono verificare effetti collaterali. Ovviamente si possono manifestare anche fenomeni allergici o idiosincrasici. Ma questo vale per tutti i farmaci! 5 Il paziente è sveglio, ma è silenzioso e immobile, senza interesse per l’esterno, con ridotto tono emozionale ed affettivo

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Periodo pre-operatorio La visita pre-operatoria serve a valutare il paziente, fisicamente e psicologicamente, e a definire il rischio operatorio e le possibili complicanze dell’intervento. Anamnesi – Con l’anamnesi bisogna accertare innanzitutto se il paziente è fumatore, bevitore o tossicodipendente. I rischi connessi con l’anestesia difatti sono maggiori con queste tre categorie di pazienti. Con l’anamnesi vanno ovviamente anche ricercati stati patologici pre-esistenti e eventuali episodi di awareness. Bisogna indagare sulle terapie in atto e valutare una modifica dei dosaggi di questi farmaci oppure la loro sospensione; ad esempio, i pazienti ipertesi non dovrebbero mai interrompere il trattamento, così come i pazienti addisoniani, che sono cronicamente trattati con cortisolo. Altro esempio: nei pazienti asmatici, invece, si farà attenzione a non somministrare beta-bloccanti (che hanno effetto broncocostrittore). Esame obiettivo – Valuta fondamentalmente le funzioni respiratoria e cardiocircolatoria. Ovviamente in caso di reperti sospetti di patologia vanno subito effettuati esami strumentali e/o laboratoristici più approfonditi; il paziente dispnoico, ad esempio, o facilmente affaticabile, va esaminato con somma attenzione. Inoltre all’esame obiettivo valutata la possibilità di trovare un accesso venoso, di verificare eventuali difficoltà di intubazione6, di verificare lo stato obeso del paziente. Il paziente obeso va meno difficilmente incontro a difficoltà respiratorie durante l’intervento. Screening preoperatorio – Si tratta di esami di laboratorio e strumentali che vanno allestiti prima dell’intervento, e servono per meglio definire le caratteristiche del paziente. Serve per valutare eventuali compromissione sistemiche, sospette o misconosciute, e per confermare l’adattabilità del paziente all’anestesia e all’atto chirurgico. Gli esami più importanti sono: a. Hb ed ematocrito; b. Rx torace; c. ECG; d. equilibrio elettrolitico, glicemia, funzionalità renale; e. parametri epatici. La rilevazione di (a) è indispensabile, specie quando si prevede una forte perdita ematica; (b) e (c) vanno fatti sempre per soggetti con più di 40 anni, mentre per soggetti più giovani andrebbero riservati in caso di sospetta patologia. In ambito intraoperatorio, invece, (c) è indispensabile per il rilievo precoce di eventuali aritmie o di ischemia subendocardica. La derivazione II registra la frequenza cardiaca e le eventuali aritmie, la derivazione precordiale V5 consente di visualizzare le ischemie subendocardiche. Gli esami (d) ed (e) consentono di verificare eventuali squilibri metabolici anche misconosciuti, e di considerare i dosaggi farmacologici secondo le condizioni del paziente. Rischio operatorio – E’ definito come la “probabilità che nel periodo intra- e postoperatorio si verifichino complicanze che alterino il decorso prevedibile della patologia”7. I fattori importanti da prendere in considerazione per la valutazione del rischio operatorio sono le condizioni generali del 6 A questo proposito esiste una classificazione dei pazienti “più o meno facilmente intubabili” formulata da Mallampati (infatti si parla di classi di Mallampati), che tiene conto delle caratteristiche del cavo oro-faringo-laringeo 7 Così sul libro, a pag. 11

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva paziente, il tipo di patologia da trattare, il tipo di intervento da effettuare, la eventuale indicazione d’urgenza, la necessità di un trattamento preoperatorio, la necessità di particolari esami di laboratorio preoperatori. Il rischio operatorio può essere calcolato tenendo conto di vari aspetti. Da un punto di vista teorico il rischio operatorio è ripartibile in: a. rischio anestesiologico; è dovuto alle tecniche di anestesia, e per ridurlo moltissimo è necessario

un continuo monitoraggio, durante l’anestesia, delle funzioni vitali; b. rischio chirurgico; oltre al tipo di intervento è valutabile in base alle conoscenze specifiche

dello staff operatorio e alla presenza di attrezzature e di reparti specializzati; c. rischio derivante dalle condizioni del paziente; è certamente la variabile più importante; d. rischio imprevedibile; idiosicrasie, ipertermia maligna, guasti delle apparecchiature… Orientativamente si può ripartire l’entità del rischio in tre possibilità: a. rischio lieve; le condizioni generali del paziente sono buone ed è assente qualsiasi

compromissione sistemica derivante dalla patologia chirurgica che ha portato all’intervento (ad es., chirurgia plastica in un soggetto sano);

b. rischio serio a priori; c’è una compromissione sistemica che può essere attinente o meno alla patologia per cui è richiesto l’intervento, oppure l’intervento è d’urgenza, il trauma chirurgico è notevole, è necessario un trattamento preoperatorio, ed esami preoperatori;

c. rischio moderato; è la classica “via di mezzo” tra due condizioni presentate. Accanto a questa generica definizione di rischio operatorio, esistono tante altre schede valutative specializzate. Particolarmente interessante è quella fornita da Goldman per gli interventi chirurgici non cardiaci; il pregio di questa valutazione è che per definire il rischio sono necessarie pochissime indagini.

INDICE DI GOLDMAN

Anamnesi Età > 70 anni IMA < 6 mesi IMA > 6 mesi

10 10 5

Esame fisico Terzo tono 11

ECG > 5 extrasistoli/min 7

Laboratorio

PaO2 < 60 PaCO2 > 50 K+ < 3 Azotemia > 50 Creatinina > 3

3 3 3 3 3

Tipo d’intervento

D’urgenza Toracico Addominale Chirurgia dell’aorta

4 4 3 3

Una volta calcolato questo indice, la gravità del rischio operatorio si ripartisce in quattro classi: classe I (0-5), II (6-12), III (13-25), IV (26 in poi). L’indice di Goldman viene calcolato soprattutto per valutare le complicanze cardiovascolari maggiori quali IMA (Infarto Acuto del Miocardio) o tachicardia ventricolare. Naturalmente queste valutazioni possono essere fatte anche con altre metodiche, più complesse (ad esempio la misurazione della frazione di eiezione del ventricolo

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva sinistro utilizzando radioisotopi), ma ai fini della valutazione del rischio i risultati sono correlabili a quelli ottenuti con il Goldman, per cui non vale la pena complicarsi la vita con altre metodiche. Il Goldman va bene. Un’altra classificazione del rischio operatorio è quella fatta dalla ASA, American Socieey of Anesthesiology, che propone come unico criterio quello dello stato fisiologico del paziente prima dell’intervento. E’ possibile classificare i pazienti in queste categorie: I. individuo in normali condizioni di salute; II. paziente con malattia sistemica di lieve entità; III. paziente con malattia sistemica di media entità, non invalidante; IV. paziente con malattia sistemica invalidante, che costituisce un costante pericolo per la

sopravvivenza; V. paziente moribondo, che non si ritiene possa sopravvivere per più di 24 ore con o senza

l’intervento chirurgico. Esiste anche una classificazione ASA modificata che prende in considerazione anche l’urgenza dell’intervento e tipo e localizzazione della patologia chirurgica. Alcuni anestesisti fanno riferimento a quest’altra classificazione, che peraltro arriva a definire 7 classi di rischio, e non più 5. Un’ulteriore classificazione è la PAFS (Preoperative Assessment of Fitness Score, cioè definizione preoperatoria del rischio operatorio), che dà alla condizione del paziente, considerata sotto vari aspetti, un punteggio. Questa classificazione considera come parametri di valutazione del rischio l’età del paziente, eventuali patologie pregresse, i parametri ematochimici, la terapia assunta dal paziente, il tipo di intervento e l’eventuale carattere di urgenza.

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Ipertermia maligna Si tratta di una sindrome a carattere familiare che può insorgere come grave complicanza in anestesia generale. Per la diagnosi ci si avvale di segni clinici che sono: a. ipertono della muscolatura scheletrica; b. aumento della temperatura corporea; c. tachicardia, tachipnea, cianosi. La patogenesi sembra essere determinata dalla massiva fuoriuscita di Ca2+ dai depositi intracellulari. Anche in questo caso è necessario un adeguato screening preventivo, e quindi indagare sulla familiarità, e soprattutto valutare la concentrazione di CPK ematica. Il livello di CPK ematica è elevato nei soggetti predisposti. Certo, il test della CPK può non essere esattamente specifico8, però è sempre meglio, per screening, di un altro test più specifico che è stato proposto, che però viene effettuato su biopsia muscolare (prova alla caffeina e all’alotano su biopsia muscolare). La terapia dell’ipertermia maligna consiste in: a. interruzione dell’erogazione di gas anestetico; b. iperventilazione con O2 al 100%; c. Na+-bicarbonato per ridurre l’acidosi che si realizza; d. dantrolene 1 mg/kg e.v. ogni 5 minuti per un max di 10 mg/kg [?]; e. correzione dell’aritmia e dell’iperK+emia (destrosio e insulina); f. abbassamento della temperatura corporea con mezzi fisici; g. mannitolo o furosemide per agevolare la funzione renale. La situazione viene monitorata con: a. ECG; b. emogasanalisi; c. elettroliti plasmatici; d. enzimi sierici (LDH e CPK); e. temperatura corporea; f. PVC (sovraccarico liquido?); Successivamente il paziente va ricoverato in Unità di Terapia Intensiva (UTI).

8 Anzi, non lo è affatto, cfr. lezioni del dott. Lepore, un grande della Neurologia – e dico la verità

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Traumi cranici I traumi cranici possono essere classificati in vario modo. Dal punto di vista patogenetico in: a. non penetrante ad alta velocità; b. non penetrante a bassa velocità; c. penetrante per ferita da arma da fuoco; d. penetrante per altro meccanismo lesivo. Dal punto di vista dell’entità del trauma: a. lieve (GCS 14 o 15); b. moderato (GCS da 9 a 13); c. grave (GCS da 3 a 8). Dal punto di vista morfologico: a. fratture craniche della volta

- lineari/stellate; - da pressa/non da pressa; - chiuse o aperte.

b. fratture craniche della base - con/senza perdita di liquor; - con/senza paralisi del VII nervo.

c. lesioni intracraniche focali - epidurali; - subdurali; - intracerebrali.

d. lesioni intracraniche diffuse - lieve commozione; - classica commozione; - diffuse commozioni con coinvolgimento assonico.

Trauma cranico lieve Il trauma cranico lieve rappresenta l’80% dei traumi cranici. Obiettivo è individuare i pazienti che possono presentare una cerebropatia post-traumatica prima che si instauri il deterioramento neurologico. La frattura cranica si presenta, secondo le varie casistiche, dallo 0,5% al 10% dei casi. C’è sindrome commotiva cerebrale (perdita transitoria di coscienza, amnesia, vomito, cefalea, vertigini). Fattori di rischio per l’aggravamento sono coagulopatie, terapie anticoagulanti, alcoolismo, tossicodipendenza, pregressi interventi neurochirurgici, epilessia, età avanzata. Il trauma cranico va valutato secondo un punteggio, detto GCS. Iter diagnostico-terapeutico: GCS 15 – Osservazione clinica per 6 ore e dimissione con foglio di istruzioni;

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva GCS 15 con sindrome commotiva – TAC cranio se c’è frattura (o Rx) e valutazione neurochirurgica; GCS 15 con fattori di rischio – TAC cranio e osservazione clinica per 24 ore; GCS 14 – TAC cranio, valutazione neurochirurgica e osservazione clinica per 24 ore se la TAC è negativa.

Trauma cranico moderato Nel trauma cranico moderato al danno primario si aggiunge un danno secondario nel giro di ore o giorni che può portare a danno ischemico. Aumento la pressione intracranica (PIC), diminuisce la pressione di perfusione cerebrale, diminuisce l’apporto di ossigeno e metaboliti al parenchima cerebrale con conseguente danno neuronale ischemico. Iter decisionale: - diagnosi neurologica secondo GCS; - correzione della ipotensione; - correzione della ipossia; - TAC cranio; - trasferimento in neurochirurgia se la TAC è positiva; - trattamento neurochirugico se SHIFT >5mm o Vol >25 cc; - valutazioni neurologiche periodiche (ogni ora) del GCS e pupille e controlli TAC:

- se la prima TAC è negativa controllo ogni 24 ore, o 12 ore se ci sono fattori di rischio; - se la prima TAC è positiva per lesioni non chirurgiche 24 ore (se prima >6h) o 12 ore (se prima <6h).

Cause di danno cerebrale secondario La rimozione chirurgica delle masse intracraniche rappresenta la priorità assoluta nel management, tuttavia la prevenzione ed il trattamento dei fattori extracerebrali alla base del danno secondario costituiscono gli obiettivi fondamentali del trattamento rianimatorio. Le cause di danno cerebrale secondario possono essere intracraniche o extracraniche. Intracraniche – ipertensione endocranica, lesioni espansive, edema, idrocefalo, infezioni (traumi aperti), crisi comiziali, alterazione del flusso ematico regionale e generale, danno da sostanze neurolesive. Extracraniche – ipotensione arteriosa, ipossia, anemia, ipertermia, iper/ipo-capnia, alterazioni elettrolitiche (ipoNa+), alterazioni della glicemia e dell’equilibrio acido-base.

Trauma cranico grave C’è un danno primario, che è il danno assonale diffuso e lesioni occupanti spazio (ematomi) e un danno secondario, dovuto a diversi fattori. Occorre evitare ipotensione (sistolica <90 mmHg), ipossia (PaO2 <60 mmHg), iper/ipo-capnia, ipertermia, perché l’ischemia conseguente dà edema e aumento della PIC. Nel trauma cranico grave (GCS 3-8):

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva - stabilizzazione delle funzioni vitali; - valutazione neurologica; - identificazione dei criteri per una corretta ospedalizzazione; - monitoraggio TAC; - monitoraggio dei parametri sistemici in terapia intensiva; - indicazioni al monitoraggio della PIC e della SjO2 [?]; - criteri di trattamento medico e chirurgico.

Stabilizzazione funzioni vitali La stabilizzazione delle funzioni vitali è effettuata con i criteri ABC. A – Airway – Pervietà delle vie aeree

- intubazione oro-tracheale previa sedazione/analgesia - prevenzione dell’aspirazione accidentale di materiale gastrico - garantire il controllo della stabilità del rachide cervicale

B – Breathing – Respiro

- ventilazione meccanica controllata - PaO2 >90 mmHg - PaCO2 30-35 mmHg - l’ipercapnia causa acidosi e vasodilatazione cerebrale con aumento della PIC - l’ipocapnia causa vasocostrizione cerebrale e ischemia

C – Circulation – Circolazione

- assicurare la stabilità circolatoria - reintegro volemico con soluzioni isotoniche, mai ipotoniche - P.A. sistolica >110 mmHg, CPP [Pressione di Perfusione Cerebrale] >70 mmHg - sconsigliato l’uso di mannitolo perché dà ipotensione e aumento di volume dell’ematoma;

però si può usare in caso di erniazione cerebrale - la CPP è uguale alla pressione arteriosa media (MAP) meno la PIC, pressione intracranica.

La CPP deve essere >70 mmHg

Valutazione neurologica E’ effettuata con la valutazione del GCS, cioè del Glasgow Coma Scale. Si dà un punteggio alle funzioni di apertura degli occhi (da 4 a 1) della risposta verbale (da 5 a 1), della risposta motoria (da 6 a 1). Il paziente viene indicato: a. con il punteggio GCS (da 3 a 15); b. valori della P.A.; c. se c’è o no sedazione; d. orario di valutazione. Il paziente può essere in coma. E’ in coma un paziente che non è in grado di aprire gli occhi, pronunciare parole, eseguire ordini semplici. Si valuta anche il diametro pupillare e la reazione pupillare alla luce (riflesso fotomotore).

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva - pupille piccole e reattive indicano lesione corticale bilaterale; - pupille puntiformi indicano lesione pontina o overdose di oppioidi (oppure anestesia); - anisocoria indica erniazione transtentoriale; - midirasi riflessa bilaterale può indicare decerebrazione, anossia, atropina, iperattività simpatica,

paralisi bilaterale del terzo n.cranico, stress, dolore.

Identificazione dei criteri per una corretta ospedalizzazione del traumatizzato in coma Il traumatizzato cranico grave dovrebbe essere ricoverato sempre in un centro specialistico, in grado si proseguire nella sua completezza la sorveglianza ed il trattamento al più alto livello qualitativo. In questi pazienti occorre identificare e trattare precocemente le lesioni asportabili chirurgicamente e prevenire e trattare i fattori di aggravamento e mantenere l’omeostasi.

Monitoraggio TAC Si segue la classificazione di Marshall: - lesione diffusa I nessuna patologia visualizzabile alla TAC; - lesione diffusa II cisterne visibili con shift [spostamento] do 0-5 mm e/o lesioni ad alta-

media densità <25° cc (compressi [sic] osso o corpi estranei); - lesione diffusa III (swelling) cisterne compresse o assenti, shift della linea mediana di 0-5

mm, lesioni ad alta-media densità <25 cc; - lesione diffusa IV (shif) shift della linea mediana > di 5 mm, lesioni ad alta-media densità

<25 cc; - massa evacuata qualsiasi lesione chirurgicamente evacuata (epidurale, subdurale,

intraparenchimale); - massa non evacuata lesioni ad alta-media densitù >25 cc non evacuate chirurgicamente

(uniche o multiple); - emorragia subaracnoidea assente/presente. Importante specificare la presenza di aria intracranica e se il trauma è chiuso o aperto. Iter per la TAC: Una TAC all’ingresso, quindi: a. se negativa, ripetere entro 24 ore o entro 12 ore se c’è rischio di coagulopatia o si tratta di

pazienti ipertesi; b. se positiva, ripetere:

- entro 24 ore se la prima è stata eseguita entro 3/6 ore dal trauma; - entro 12 ore se la prima è stata eseguita dopo 6 ore dal trauma e/o se non ci sono fattori di rischio.

Standard di monitoraggio strumentale dei parametri sistemici (in Rianimazione) - ECG; - Pressione Arteriosa Cruenta; - PVC; - Diuresi oraria;

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva - SaO2 (pulsossimetria); - Temperatura corporea in continuo; - CO2 di fine espirazione con curva; - Emogas almeno ogni 8 ore; - Monitoraggio delle pressioni delle vie aeree; - Dati di laboratorio (Na+, glucosio…); - Rx torace; - Tracheobroncoscopia al bisogno Obiettivo principale è preservare l’omeostasi dell’organismo in modo tale da prevenire il danno cerebrale.

Indicazioni al monitoraggio della PIC Rimane fondamentale per condurre un trattamento efficace. L’ipertensione endocranica non può essere determinata con metodi indiretti, né in modo quali- e quanti- tativamente accettabile con la TAC. Indicazioni al monitoraggio della PIC sono: - GCS < 8 con TAC positiva per danno encefalico; - GCS < 8 con TAC negativa ma presenza di almeno due dei seguenti fattori:

- anomalie del diametro e della reflettività oculare; - asimmetrie di risposta motoria; - ipotensione arteriosa; - età >40 anni.

Quando iniziare il monitoraggio della PIC – Al più presto dopo stabilizzazione clinica e definizione diagnostica. Dove eseguirlo – Sala operatoria (sterilità) Tecnica – Di prima scelta il catetere ventricolare; se dopo due tentativi di posizionamento non va, si può usare un catetere subdurale o parenchimale Durata del monitoraggio – Condizionata dal quadro clinico; dopo 24 ore di stabilità senza trattamento e sedazione Sorveglianza delle complicanze – Prelievi per esame citochimico e batteriologico (deliquorazione) Corretta interpretazione

Indicazioni al monitoraggio della SjO2 La CEO2 (Estrazione cerebrale di O2) è di solito = 25-45%. Essa si calcola:

SaO2 – SjO2 Il monitoraggio della SjO2 è indicato in: - paziente sottoposto ad iperventilazione terapeutica;

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva - paziente con GCS <8 con monitoraggio multiparametrico Il monitoraggio può essere continuo con cateteri a fibre ottiche o con prelievi seriati. Questi ultimi: - ogni 12 ore - in presenza di:

- PIC >25 mmHg, CPP <70 mmHg; - Variazione di ETCO2 e PaCO2; - Modifica della sedazione; - Anemizzazione acuta

Una PIC elevata in presenza di catetere per SjO2 può valersi un trattamento specifico. Una SjO2 >75% suggerisce una situazione di iperemia iperventilazione, tiopentone. Una SjO2 <55% suggerisce una condizione di ischemia non iperventilare, mannitolo, ottimizzare la CPP.

Criteri di trattamento medico Terapia medica per il controllo della PIC: - soglia di trattamento PIC > 20-25 mmHg - escludere e correggere:

- ostacolo al deflusso venoso - posizione di capo e collo - disadattamento al ventilatore

- vasodilatazione cerebrale - febbre, ipercapnia, ipotensione, crisi convulsiva

- ipertensione arteriosa - dolore, sedazione

- brivido - iposodiemia - malfunzionamento apparecchiature

La terapia medica valuta: - l’aspetto emodinamico, con farmaci inotropi e vasocostrittori; - la ventilazione; - la sedazione, con farmaci a rapido metabolismo; - altri aspetti (terapia nutrizionale). L’ipertensione endocranica è trattata a “steps”: 1. sedazione e analgesia; 2. deliquorazione; 3. mannitolo; 4. iperventilazione; 5. tiopentone sodico.

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Trasporto dell’ossigeno A livello degli alveoli polmonari avvengono gli scambi tra i gas presenti nell’aria inspirata e i gas presenti nel sangue che perfonde gli alveoli; tra i gas che vengono scambiati ci occuperemo qui dell’ossigeno (O2). Questi scambi gassosi sono però limitati, e possono essere limitati da due fattori, che sono la perfusione e la diffusione. In condizioni normali gli scambi gassosi sono limitati dalla perfusione; cioè l’entità degli scambi gassosi è dipendente dall’entità della perfusione alveolare. Maggiore è la perfusione degli alveoli, maggiore è l’entità degli scambi gassosi, e viceversa. In questi casi l’equilibrio tra i gas è raggiunto in breve tempo lungo il capillare alveolare. Lo scambio è più rapido se aumenta la velocità del flusso ematico. In condizioni di sforzo fisico, invece, gli scambi gassosi sono limitati dalla diffusione. L’equilibrio tra i gas non è raggiunto quando il sangue arriva alla fine del capillare polmonare, come avviene in condizioni normali, ma resta sempre una differenza di pressione parziale tra aria alveolare e sangue, e ciò fa sì che la diffusione continui finchè rimanga un gradiente pressorio. Questa situazione avviene quando aumenta lo spessore della membrana alveolo-capillare e /o diminuisce la superficie di scambio. Il passaggio dell’ossigeno dall’aria ambiente ai tessuti avviene per gradiente pressorio, dalla zona ove l’ossigeno ha una pressione maggiore a zone in cui la pressione è minore. E la stessa cosa vale per un altro componente dell’atmosfera, che è l’anidride carbonica, CO2. A livello del mare la pressione atmosferica è di 760 mmHg. L’atmosfera è una miscela gassosa, nella quale sono presenti tre gas, e cioè ossigeno, anidride carbonica e azoto, in diversa percentuale. Secondo la legge di Henry-Dalton la pressione parziale di un gas è proporzionale alla percentuale in cui esso è presente nella miscela gassosa.

O2 20,9% 159 mmHgCO2 0,1% 0,3 mmHgN2 79% 597 mmHg

Totale 760 mmHg

Quest’aria viene inalata e, dopo aver attraversato le vie aeree, giunge agli alveoli. Gli scambi gassosi a livello alveolare avvengono per gradiente pressorio tra aria alveolare e sangue. Si potrebbe pensare che a livello delle vie aeree e degli alveoli le pressioni dei gas sono uguali a quelle dell’aria atmosferica, ma non è così. Nelle vie aeree, infatti, l’aria viene umidificata, per cui alla composizione gassosa si aggiunge la pressione di vapor acqueo, che misura 47 mmHg. Per cui, a livello delle vie aeree, la situazione è la seguente:

O2 149 mmHgCO2 0,3 mmHgN2 564 mmHgH2O 47 mmHg

Totale 760 mmHg

Quando quest’aria arriva agli alveoli, si modifica ulteriormente poiché negli alveoli vi è una forte componente di CO2 di provenienza ematica. La composizione dell’aria alveolare, che è poi quella che viene effettivamente scambiata, è infine:

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

O2 104 mmHgCO2 40 mmHgN2 569 mmHgH2O 47 mmHg

Totale 760 mmHg

Di questo la cosa più importante è notare che la PO2, cioè la pressione parziale di O2 è 104 mmHg, e la PCO2, cioè la pressione parziale di CO2 è di 40 mmHg. Il processo di scambio di gas tra l’aria alveolare e il sangue che attraversa il capillare alveolare avviene secondo gradiente di concentrazione per diffusione passiva. Nel sangue venoso misto dei capillari alveolari la situazione è la seguente:

PvO2 40 mmHg PvCO2 46 mmHg

Per PvO2 (e, analogamente, PvCO2) si intende la pressione parziale nel sangue venoso, mentre per PaO2 (e, similmente, PaCO2), si intende la pressione parziale nel sangue arterioso. Nel sangue che perfonde gli alveoli, quindi, si ha che O2 ha una pressione di 40 mmHg; questa pressione è inferiore a quella del gas alveolare (che è invece di 104 mmHg), per cui l’ossigeno diffonde dall’aveolo nel sangue con facilità. Viceversa per la CO2, più rappresentata a livello venoso che a livello alveolare: il sangue si libera di anidride carbonica. Il gradiente di pressione tra l’aria alveolare e l’estremo arterioso del capillare alveolare è, rispettivamente, di 64 mmHg per l’O2 (104-40) e di 6 mmHg per la CO2 (46-40). La notevole diversità di questi gradienti è spiegata col fatto che la CO2 è circa 20 volte più diffusibile di O2 attraverso la barriera alveolo-capillare. Questa diffusione avviene secondo la legge di Fick, secondo cui la velocità di trasferimento del gas (e quindi l’entità del suo trasferimento) è direttamente proporzionale all’area di scambio, alla differenza di pressione parziale ed a una “costante di diffusione” tipica di ogni gas, mentre è inversamente proporzionale allo spessore della barriera. Abbiamo visto come quindi avvenga lo scambio di gas a livello alveolare. Ci aspetteremmo quindi di ritrovare nel sangue arterioso che viene espulso dal ventricolo sinistro valori di PaO2 di 104 mmHg (cioè un valore che riflette quello alveolare), invece non è così. I valori delle pressioni parziali nel sangue arterioso sono i seguenti:

PaO2 95 mmHg PaCO2 40 mmHg

E questo avviene perché il sangue refluo degli alveoli si mescola con il sangue delle vene di Tebesio e con quello proveniente dalle vene bronchiali, venendosi così a creare uno shunt fisso, definito “anatomico”. Per quanto riguarda O2, quindi, esiste un gradiente alveolo-arterioso che è pari a 9 mmHg. Questo gradiente può arrivare al max. a 20 mmHg, poi non è più clinicamente accettabile.

Abbiamo detto in apertura che l’ossigeno rappresenta circa il 21% dell’aria atmosferica, per cui quando si allestisce una anestesia in cui si somministra una miscela di gas, tra cui O2, necessariamente non si deve scendere al di sotto di questa percentuale di rappresentanza dell’ossigeno. Per la verità questa quantità viene superata, e si arriva a somministrare ossigeno al 34%; questo perché in anestesia generale, sia in ventilazione spontanea che controllata, si verificano alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione con conseguente ipossiemia. Per questo è preferibile somministrare concentrazioni di O2 superiori al 21%.

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva L’ossigeno è trasportato nel sangue per la maggior parte dall’emoglobina, che può essere considerata un trasportatore reversibile di O2. La Hb ha una capacità massima di legare O2, dopodichè è saturata. Il grado di saturazione di Hb è espresso con l’indicatore SO2. La saturazione di Hb è in equilibrio dinamico con la quantità di O2 fisicamente disciolto nel sangue che, a sua volta, è direttamente proporzionale alla pressione parziale di O2, secondo la formula:

Quantità di O2 disciolta = PO2 * 0.003 La saturazione dell’Hb dipende molto dalla PO2 ma il rapporto non è lineare ma logaritmico. E’ notorio infatti che la curva di dissociazione dell’Hb ha un andamento sigmoideo; questo significa

che la saturazione di Hb varia diversamente per stesse differenze di PO2. La saturazione di Hb quando la pressione parziale di ossigeno è pari a 95 mmHg (quindi in condizioni normali di sangue arterioso) è del 98%. Cioè a 95 mmHg di PO2 il 98% di Hb è saturato. Quando la PO2 è invece 60 mmHg la saturazione di Hb è del 90%. Se la PO2 scende a 50 mmHg, la saturazione di Hb cala bruscamente a 80%, quando la PO2 misura 26 mmHg, la saturazione di Hb è del 50%. Si capisce bene dunque come l’andamento dei decrementi di saturazione non sia lineare con i decrementi di PO2. Ciò significa che quando i valori di PO2 sono inferiori a 60 mmHg basta poco per abbassare bruscamente la saturazione di Hb, che invece si mantiene quasi uguale per “sbalzi” di PO2 che avvengono nel range 95-60 mmHg. Questa proprietà di Hb consente un buon trasporto di ossigeno anche in presenza di una moderata compromissione dello scambio polmonare, o

per diminuzioni di O2, come avviene ad esempio in altitudine.

Figura 1 - Curva di dissociazione dell'emoglobina

A quota elevata la pressione atmosferica è inferiore rispetto al livello del mare, quindi fa registrare valori inferiori a 760 mmHg, però le pressioni parziali percentuali dei gas restano ovviamente le stesse; ciò significa che l’ossigeno, che rappresenta sempre il 21% circa dei gas atmosferici, avrà un valore assoluto di pressione inferiore a 159 mmHg, e quindi agli alveoli ne arriva di meno. Questa condizione, di ipossia da altitudine, viene corretta con vari meccanismi, tra cui questo “adattamento” dell’Hb.

In clinica si parla di ipossiemia grave quando la PaO2 è inferiore a 60 mmHg, e quindi Hb è saturata a meno del 90%. Esistono delle apparecchiature, dette saturimetri arteriosi transcutanei, che sono utilizzati in anestesia e rianimazione per misurare la SaO2. La curva di dissociazione dell’Hb ha un andamento sigmoideo, come si vede nella figura. Per PO2 di 95 mmHg la sua saturazione è al 98%, per PO2 di 60 mmHg la saturazione è al 90%, per PO2 di 40 mmHg la sua saturazione è al 75%, per PO2 di 26 mmHg la saturazione è al 50%. Al di sotto del valore soglia di 60 mmHg (SaO2 90%) la forma della curva è tale che ogni ulteriore riduzione della

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva PO2, anche se minima, determina un decremento notevole della saturazione. Si parla di ipossiema grave quando i valore di PaO2 sono inferiori a 60 mmHg. Esistono fattori in grado di influire sul grado di affinità dell’Hb per l’ossigeno. Quando l’affinità di Hb per l’ossigeno è aumentata, significa che per la stessa PO2 la saturazione dell’Hb è aumentata, e quindi la P50, cioè il valore di PO2 che fa registrare una saturazione di Hb al 50%, è ridotta (il valore normale è 26). In questi casi si dice che la curva di saturazione di Hb è spostata a sinistra. La aumentata affinità di Hb per O2 fa sì che Hb possa captare più facilmente O2 dall’aria alveolare, ma più difficilmente può cederlo ai tessuti. Altri fattori, invece, fanno sì che la affinità di Hb per O2 sia ridotta, e, quindi, come si dice, la curva di saturazione dell’Hb venga spostata a destra, poiché la P50 si attesta su valori maggiori. Cioè è necessario che una maggiore quota di O2 sia presente per poter saturare il 50% dell’Hb. La ridotta affinità si Hb per l’ossigeno fa sì che Hb possa cedere più facilmente ossigeno ai tessuti, ma più difficilmente potrà catturalo a livello alveolare.

FATTORI CHE AGISCONO SULLA CURVA DI DISSOCIAZIONE DELL’HB

Spostano a sx (aumentano l’affinità) Spostano a dx (riducono l’affinità)

Ipotermia Alcalosi Ipocapnia Riduzione di 2,3 BPG nei globuli rossi

Ipertermia Acidosi Ipercapnia Aumento di 2,3 BPG nei globuli rossi

Come si può facilmente osservare, si tratta delle condizioni opposte. Spostano a sx le condizioni alveolari, spostano a dx le condizioni tissutali, per cui Hb è facilitata nell’alveolo a prendere ossigeno, ed è faciltata in periferia a cedere l’ossigeno.

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Ipossia e ipossiemia Per ipossia si intende una riduzione della disponibilità periferica di ossigeno. Per anossia si intende l’assenza della disponibilità periferica di ossigeno. Per ipossiemia si intende una riduzione della PaO2. Come è facile notare, ipossia e ipossiemia non significano la stessa cosa! Cause di ipossiemia sono: - diminuzione della PO2 alveolare, come può avvenire in alta quota; - diminuzione della ventilazione, come può avvenire in malattie neuromuscolari; - alterazioni nel rapporto ventilazione/perfusione; - commistione venosa, come avviene nel caso di shunt dx sx; - diminuzione del trasporto di ossigeno, come avviene nelle anemie o nelle intossicazioni da CO. Cause di ipossia sono: - diminuito apporto di ossigeno, come avviene nelle ipossie atmosferiche o nelle insufficienze

respiratorie; - diminuito trasporto di ossigeno, come avviene nelle anemie o nelle alterazioni miocardiche o

negli shunt dx sx; - diminuita cessione di ossigeno ai tessuti, come avviene nelle disfunzioni del microcircolo (ad

es., shock settico) o in un edema; - ipermetabolismi, laddove la richiesta di O2 cellulare eccede la reale disponibilità. Una forma particolare di ipossia, per cui è improprio, però, parlare di ipossia, sono le disossie, cioè condizioni in cui l’apporto di ossigeno ai tessuti è normale, ma la cellula ha dei deficit nel suo utilizzo. Per ovviare alle condizioni di ipossia l’organismo mette in moto una serie di meccanismi di compenso, che possono agire in tempi diversi, per cui si parla di meccanismi rapidi (minuti), lenti (ore), lentissimi (giorni). Alla fine tutti i meccanismi portano ad una migliorata disponibilità di ossigeno ai tessuti, poiché si realizza un miglioramento delle gittata cardiaca, un aumento della ventilazione, un aumento del volume plasmatico, un aumento della estrazione di O2 da Hb per spostamento a dx della curva di dissociazione, e un aumento della sintesi di Hb (eritropoietina!).

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Controllo della ventilazione Il controllo della ventilazione è esplicato a diversi livelli. I più importanti centri per la respirazione sono a livello del SNC. Le informazioni afferenti sono coordinate a livello del tronco encefalico, da cui parte l’output per i muscoli respiratori ed il ciclo respiratorio. I muscoli respiratori sono: - inspiratori – diaframma (di norma), intercostali interni ed accessori; - espiratori – addominali, intercostali interni. Riconosciamo: a. Centro respiratorio midollare – Si trova nella formazione reticolare, ed è composto da due

porzioni. La porzione dorsale serve regola l’inspirazione e il ritmo della respirazione, la porzione ventrale regola invece l’espirazione9. Input per questo centro sono le stimolazioni del vago, le risposte invece sono modulate tramite l’attività del nervo frenico.

b. Centro apneustico – Si trova nel ponte; stimola la inspirazione e provoca inspirazione profonda e affannosa.

c. Centro pneumotassico – Si trova nel ponte, più cranialmente rispetto al centro apneustico; inibisce la inspirazione e regola il volume inspiratorio e la frequenza respiratoria.

d. Corteccia cerebrale – Serve per effettuare il controllo volontario sulla ventilazione; il controllo volontario non è totale, poiché viene bloccato quando si registrino valori abnormi di PaCO2 e PO2.

e. Chemocettori periferici e centrali – Sono posizionati in corrispondenza dei glomi aortici e carotidei (periferici) e a livello bulbare (centrale); sono diversamente sensibili, in quanto i chemocettori centrali rispondono ad aumenti della PaCO2, mentre i chemocettori periferici sono più che altro sensibili alla riduzione della PaO2.

f. Recettori polmonari di distensione – Si trovano lungo la muscolatura liscia delle vie aeree; la distensione della vie aeree provoca diminuzione della frequenza respiratoria (riflesso di Hering-Breuer);

g. Recettori di irritazione – Si trovano in prossimità delle cellule epiteliali delle vie aeree e sono stimolati da fattori irritanti;

h. Recettori j iuxtacapillari – Si trovano in prossimità dei capillari alveolari; la distensione dei capillari, ad es., a seguito di ipertensione polmonare, provoca, stimolando questi recettori, un respiro rapido e superficiale;

i. Recettori articolari e muscolari – Modulano la ventilazione nell’esercizio fisico. Durante l’esercizio il sistema respiratorio offre una vera e propria risposta integrata. Difatti nell’esercizio aumenta di consumo di ossigeno e la produzione di CO2, e inoltre c’è movimento degli arti. Tutto ciò provoca un aumento della frequenza respiratoria all’inizio dell’esercizio stesso. Ciò fa sì che il valore medio dei gas respiratori non cambi durante l’esercizio. Il pH può cambiare durante l’esercizio fisico impegnativo (aumenta il lattato). La PvCO2 aumenta per produzione di CO2 muscolare; si tratta di CO2 che andrà ai polmoni. La aumentata gittata cardiaca nell’esercizio aumenta il flusso polmonare e facilità l’eliminazione dei gas. Il reclutamento di capillari polmonari distribuisce meglio il rapporto ventilazione/perfusione del polmone.

9 Secondo il prof.Bruno l’espirazione è in condizioni normali un atto tutto passivo, per cui il controllo della espirazione è fatto solo in condizioni di sforzo fisico

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Circolo polmonare Nel circolo polmonare la pressione sanguigna è molto bassa (circa 15 mmHg), e le resistenze al flusso sono anch’esse basse. Il polmone riceve la stessa gittata cardiaca sistemica, infatti le gittate cardiache dx e sx sono uguali. Il sangue si distribuisce uniformemente nel parenchima polmonare se il paziente è supino, mentre per gravità se il paziente è seduto o in piedi. E’ possibile individuare nel polmone zone in cui la ventilazione e la perfusione non sono sempre le stesse. Ci sono cioè zone più perfuse che ventilate, zone più ventilate che perfuse e zone ugualmente ventilate e perfuse. Il fisiologo West ha così individuato tre zone: - zona 1 – Corrisponde all’apice polmonare, dove V (Ventilazione) è maggiore che Q

(perfusione), e quindi V/Q > 0,8 (è il valore normale); la pressione alveolare è superiore alla pressione arteriosa, e quindi i capillari sono chiusi dall’esterno;

- zona 2 – Corrisponde al polmone medio, dove V/Q = 0,8; la pressione arteriosa è superiore alla pressione alveolare, e quindi i capillari sono pervii;

- zona 3 – Corrisponde alle basi polmonari, dove V/Q < 0,8; la pressione arteriosa è maggiore di quella venosa che è maggiore di quella alveolare; le basi del polmone sono più perfuse che ventilate, per cui si tratta di una zona in cui lo scambio di gas è più difficoltoso.

Tutto questo avviene perché, secondo gravità, per effetto della pressione idrostatica, il flusso ematico polmonare diminuisce procedendo dalla base all’apice del polmone; similmente anche per la ventilazione, ma in misura inferiore rispetto al flusso. Nel polmone l’ipossia, segno di scarsa ventilazione, causa vasocostrizione; ciò fa sì che il flusso ematico vanga dirottato in zone maggiormente ventilate. Questo spiega perché, nel neonato, la resistenza vascolare polmonare resta elevata fin quando, con la respirazione, l’ossigeno entra negli alveoli. E’ importantissimo lo studio del rapporto V/Q, Ventilazione/Perfusione. Aumenti del rapporto fanno registrare il cosiddetto effetto spazio morto, mentre diminuzioni del rapporto portano al cosiddetto effetto shunt. Nelle ostruzioni totali delle vie aeree V/Q = 0 perché V=0; nelle ostruzioni totali del flusso ematico V/Q = infinito, poiché Q=0. In queste condizioni non c’è comunque scambio di gas per cui le PO2 e le PCO2 alveolari e atmosferiche coincidono. Gli shunts sono dei “bypass” anatomici e funzionali che il sangue percorre sottraendosi alla ossigenazione o alla deossigenazione. Esistono due tipi di shunts: a. dx sx – Cioè il sangue destro (venoso) non viene ossigenato ma si riversa direttamente nel

circolo sinistro. Esiste uno shunt normale (2%) dovuto alle vene pleuriche, alle vene bronchiali e alle vene di Tebesio. Segno di shunt dx sx è la diminuzione della PaO2. Si misura facendo respirare al paziente ossigeno al 100% e confrontando la PaO2 del sistema venoso;

b. sx dx – E’ praticamente il contrario della situazione vista prima. Si riscontra per lo più in anomalie congenite, e si manifesta con un calo della PvO2.

Lo spazio morto fisiologico è il volume di vie aeree che non partecipa allo scambio di gas. Esso si calcola:

Vd = Vt * [(PaCO2 – PeCO2) / PaCO2] Cioè moltiplicando il Volume corrente (Vt) per la quota di CO2 che non è stata scambiata.

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Meccanica respiratoria La respirazione segue leggi meccaniche per cui obbedisce alle variazioni dei vari volumi e resistenze che si esplicano nell’ambito del parenchima polmonare. In particolare è importante il calcolo delle resistenze delle vie aeree, che possono provocare problemi soprattutto quando si deve sottoporre il paziente a ventilazione meccanica. Secondo la legge di Poisuille, le resistenze sono: - direttamente proporzionali a viscosità del gas e lunghezza del percorso; - inversamente proporzionali alla quarta potenza del raggio del condotto da percorrere. Ciò significa che per piccole modifiche del raggio è notevole la variazione di resistenza. La legge è: R = (8 * η * l) / (π * r4) , dove η è indice della viscosità. Le resistenze delle vie aeree sono modificate dalla attività della muscolatura bronchiale (a sua volta definita dalle attività del sistema autonomo) e dal volume dei polmoni (una diminuzione del volume aumenta le resistenze). Le resistenze delle vie aeree si trovano per lo più a livello dei bronchi di media grandezza; le più piccole vie aeree sembrerebbero presentare i valori più elevati di R, ma sono complessivamente meno importanti a causa dalla loro disposizione in parallelo. Anche la senescenza o la patologia del parenchima polmonare influisce sulla meccanica respiratoria; infatti per evitare il collasso delle vie aeree i pazienti malati cronici espirano lentamente e socchiudendo le labbra, sì da diminuire il flusso espiratorio e prevenire il collassamento delle vie aeree.

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Anestesia, rianimazione e terapia intensiva

Avvertenze L’esame di Anestesia e Rianimazione, da sostenere con i proff. Brienza e Bruno, va preparato dal libro del prof. Brienza, ed integrato con quello che ho riportato in questa dispensa (si tratta dei lucidi che hanno fatto vedere a lezione, e non tutti: solo quei lucidi che non hanno corrispondenze sul libro). I capitoli da preparare sul libro del professore sono: Classificazioni delle anestesie – Visita preoperatoria – Rischio operatorio – Preanestesia – Oppiodi [secondo alcuni questo capitolo non va fatto] – Miorilassanti – Coscienza intraoperatoria – Trasporto dell’ossigeno – Ipossie – Produzione, trasporto ed eliminazione della CO2 – Rapporto ventilazione/perfusione – Concetti generali di meccanica respiratoria – Insufficienza respiratoria acuta – Emodinamica del circolo sistemico e polmonare – Shock – Arresto cardiocircolatorio – Monitoraggio emodinamico [secondo alcuni non si fa] – ARDS [son più quelli che dicono che non si fa di quelli che dicono che si fa] – Indici di gravità in terapia intensiva.

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