Ci spostiamo al museo della memoria che sorge di fronte ... · . testo e foto di Michele Novaga ......

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colpa dell’uomo e dello sciagurato trattamen- to che la politica commerciale sovietica prima e quella uzbeka e kazaka poi, hanno riserva- to alla natura. . testo e foto di Michele Novaga 36 . east . europe and asia strategies numero 31 . luglio 2010 . 37 Lago Aral : là dove c era l acqua Fino al 1970, Moynaq sorgeva sulle rive del lago d’Aral, il quarto più grande della terra, con un’estensione di 68mila chilometri quadrati. . Dai primi anni Sessanta il lago ha cominciato a ritirarsi fino agli attuali 16mila chilometri quadrati. . Tre quarti dell’acqua sono evaporati, spariti senza possibilità di ritorno. . Ma non è stata colpa dell’effetto serra o dei cambiamen- ti climatici. E nemmeno del buco dell’ozono. . Il lago d’Aral è evaporato semplicemente per CLIMA bar, né un ristorante, men che meno un negozio. Tutto è avvolto nella polvere. Ci spostiamo al museo della memoria che sorge di fronte al municipio. Un peschereccio arrugginito è stato posizio- nato di fronte al povero edificio quasi a voler sottolineare lo struggente confronto tra il benessere di ieri e la tristez- za di oggi. Nel museo, dove di allegro ci sono soli alcuni bambini che in una sala stanno provando il saggio per il giorno della festa d’indipendenza dell’Uzbekistan e qual- che fotografia in bianco e nero degli operai di una volta, sorridenti, gli abitanti di Moynaq hanno ricostruito la vi- ta prima del disastro ecologico. «Un tempo eravamo 50mila, per la gran parte dediti alla pesca. Oggi siamo rimasti in 8mila e cerchiamo di soprav- vivere con quel poco che la terra e l’allevamento di anima- L ’era il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, lo scorso 7 aprile, a sorvolare in elicotte- ro quello che una volta era il lago salato più gran- de del mondo. Nel guardare il bacino ormai quasi asciut- to, Ban Ki Moon ha detto con un filo di voce: «È uno dei più terribili disastri ecologici del mondo. Sono molto colpito ed è molto triste che questo potente mare sia scomparso. Credo che dietro questo dramma ci sia una responsabilità collettiva, e non solo dei popoli dell’Asia centrale. Qui, a doversi interrogare, è il mondo intero». In volo sopra il lago, Ban Ki Moon ha sicuramente visto, oltre al ritiro delle acque, anche le distese sterminate di campi coltivati a cotone. Sì perché la catastrofe dell’Aral nasce proprio da quei campi. E dalla volontà dell’Unio- ne Sovietica di destinare alla coltivazione del cotone mi- lioni di ettari di terreno, in Uzbekistan come in Kazaki- stan, deviando il corso dei due principali fiumi che li at- traversano: il Syr Darya e l’Amu Darya. Nel nostro tour iniziato a Tashkent, la capitale dell’Uz- bekistan, abbiamo viaggiato per centinaia di chilometri dentro lo stesso panorama: campi di cotone a perdita d’occhio. È stato così da Tashkent a Samarcanda, dove la cosiddetta “Steppa della fame” fu trasformata nell’area di produzione tessile più vasta di tutta l’Unione Sovieti- ca. Ma lo stesso paesaggio si è ripresentato, salvo qual- che eccezione, anche da Samarcanda a Bukhara e poi da Bukhara a Khiva (la famosa Via della seta che sarebbe meglio definire oggi la Via del cotone). Quindi fino a Nu- kus, da dove il tour del disastro è ripartito per raggiun- C gere la cittadina di Moynaq, che fino a poco tempo fa sor- geva sulle rive del lago. A Moynaq il sole è già alto. Ci arriviamo dopo un viaggio di oltre 200 chilometri da Nukus, ultimo avamposto pri- ma della terra del nulla. Siamo nel lembo più occidentale dell’Uzbekistan, nella repubblica autonoma del Karakal- pastan. Un cartello turistico indica l’arrivo alla cittadina un tempo famosa per la produzione di pesce in scatola. «Se ne confezionavano 20 milioni di lattine all’anno e coprivano l’intero fabbisogno degli abitanti di tutte le re- pubbliche dell’Urss», racconta la guida. Il mercato di Moynaq, più che un bazar asiatico con i profumi e i co- lori tipici del continente, sullo stile di Samarcanda, è un mercatino scalcagnato con povere cose, dove anche i co- lori sembrano sbiaditi. Nella strada principale non c’è un

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colpa dell’uomo e dello sciagurato trattamen-

to che la politica commerciale sovietica prima

e quella uzbeka e kazaka poi, hanno riserva-

to alla natura. . testo e foto di Michele Novaga

36 . east . europe and asia strategies numero 31 . luglio 2010 . 37

Lago Aral:là dove c’era l’acquaFino al 1970, Moynaq sorgeva sulle rive del lago d’Aral, il quarto più grande della terra, con

un’estensione di 68mila chilometri quadrati. . Dai primi anni Sessanta il lago ha cominciato

a ritirarsi fino agli attuali 16mila chilometri quadrati. . Tre quarti dell’acqua sono evaporati,

spariti senza possibilità di ritorno. . Ma non è stata colpa dell’effetto serra o dei cambiamen-

ti climatici. E nemmeno del buco dell’ozono. . Il lago d’Aral è evaporato semplicemente per

CLIMA bar, né un ristorante, men che meno un negozio. Tutto èavvolto nella polvere.Ci spostiamo al museo della memoria che sorge di fronteal municipio. Un peschereccio arrugginito è stato posizio-nato di fronte al povero edificio quasi a voler sottolinearelo struggente confronto tra il benessere di ieri e la tristez-za di oggi. Nel museo, dove di allegro ci sono soli alcunibambini che in una sala stanno provando il saggio per ilgiorno della festa d’indipendenza dell’Uzbekistan e qual-che fotografia in bianco e nero degli operai di una volta,sorridenti, gli abitanti di Moynaq hanno ricostruito la vi-ta prima del disastro ecologico.

«Un tempo eravamo 50mila, per la gran parte dediti allapesca. Oggi siamo rimasti in 8mila e cerchiamo di soprav-vivere con quel poco che la terra e l’allevamento di anima-

L’era il segretario generale delle Nazioni Unite BanKi Moon, lo scorso 7 aprile, a sorvolare in elicotte-ro quello che una volta era il lago salato più gran-

de del mondo. Nel guardare il bacino ormai quasi asciut-to, Ban Ki Moon ha detto con un filo di voce: «È uno deipiù terribili disastri ecologici del mondo. Sono moltocolpito ed è molto triste che questo potente mare siascomparso. Credo che dietro questo dramma ci sia unaresponsabilità collettiva, e non solo dei popoli dell’Asiacentrale. Qui, a doversi interrogare, è il mondo intero». In volo sopra il lago, Ban Ki Moon ha sicuramente visto,oltre al ritiro delle acque, anche le distese sterminate dicampi coltivati a cotone. Sì perché la catastrofe dell’Aralnasce proprio da quei campi. E dalla volontà dell’Unio-ne Sovietica di destinare alla coltivazione del cotone mi-lioni di ettari di terreno, in Uzbekistan come in Kazaki-stan, deviando il corso dei due principali fiumi che li at-traversano: il Syr Darya e l’Amu Darya. Nel nostro tour iniziato a Tashkent, la capitale dell’Uz-bekistan, abbiamo viaggiato per centinaia di chilometridentro lo stesso panorama: campi di cotone a perditad’occhio. È stato così da Tashkent a Samarcanda, dove lacosiddetta “Steppa della fame” fu trasformata nell’areadi produzione tessile più vasta di tutta l’Unione Sovieti-ca. Ma lo stesso paesaggio si è ripresentato, salvo qual-che eccezione, anche da Samarcanda a Bukhara e poi daBukhara a Khiva (la famosa Via della seta che sarebbemeglio definire oggi la Via del cotone). Quindi fino a Nu-kus, da dove il tour del disastro è ripartito per raggiun-

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gere la cittadina di Moynaq, che fino a poco tempo fa sor-geva sulle rive del lago.

A Moynaq il sole è già alto. Ci arriviamo dopo un viaggiodi oltre 200 chilometri da Nukus, ultimo avamposto pri-ma della terra del nulla. Siamo nel lembo più occidentaledell’Uzbekistan, nella repubblica autonoma del Karakal-pastan. Un cartello turistico indica l’arrivo alla cittadinaun tempo famosa per la produzione di pesce in scatola. «Se ne confezionavano 20 milioni di lattine all’anno ecoprivano l’intero fabbisogno degli abitanti di tutte le re-pubbliche dell’Urss», racconta la guida. Il mercato diMoynaq, più che un bazar asiatico con i profumi e i co-lori tipici del continente, sullo stile di Samarcanda, è unmercatino scalcagnato con povere cose, dove anche i co-lori sembrano sbiaditi. Nella strada principale non c’è un

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li 16mila chilometri quadrati. Tre quarti dell’acqua sonoevaporati, spariti senza possibilità di ritorno.

on è stata colpa dell’effetto serra, o dei cambia-menti climatici. E nemmeno del buco dell’ozono.Il lago è svaporato semplicemente per colpa del-

l’uomo e dello sciagurato trattamento che la politica com-merciale sovietica prima e quella uzbeka e kazaka poi,hanno riservato alla natura.Sin dalla sua fondazione, nel 1917, l’Unione Sovietica,che governava sulle repubbliche di Uzbekistan e Kazaki-stan, in mezzo alla frontiera tra i quali si trova il lagod’Aral, intraprese un’opera di drenaggio delle acque deidue maggiori affluenti: il Syr Darya (che affluisce all’Araldal Kazakistan) e l’Amu Darya (che scorre a Sud e attra-versa gran parte dell’Uzbekistan).Lo scopo era quello di fornire acque agli sterminati cam-pi coltivati a cotone, per confezionare vestiti per tuttal’Urss. L’irrigazione, che necessita di una notevole quan-tità d’acqua, a lungo andare ha finito per impoverire la

li possono offrire». Chi ha potuto è tornato in Kazakistano è letteralmente scappato da qui. Studi epidemiologiciparlano di una percentuale elevata di tumori ai polmoniealle vie respiratorie. Ma anche di malformazioni nei neo-nati e di un elevato tasso di mortalità infantile, dovuta aipesticidi utilizzati in agricoltura e portati qui dalle fre-quenti tempeste di vento e sabbia che infestano la zona. Un inquinamento atmosferico che ha coinvolto la cate-na alimentare, anche a causa dell’acqua inquinata, che siutilizza per le irrigazioni. Una situazione che ha genera-to un circolo vizioso, dato che i prodotti della terra ven-gono mangiati dagli abitanti della zona.

Cosa è successo in questo luogo dove le strade sono de-serte, dove il numero di case e edifici abbandonati è mag-giore di quelli abitati, tanto da ricordare il set di un filmwestern americano? Fino al 1970, Moynaq sorgeva sullerive del lago d’Aral, il quarto lago più grande della terra,che si estendeva per 68mila chilometri quadrati. Dai pri-mi anni Sessanta ha cominciato a ritirarsi fino agli attua-

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tacolo è desolante: laddove c’era una baia e un porto, og-gi ci sono solo dune; laddove si poteva contemplare il ma-re, oggi si vede solo sabbia a perdita d’occhio e qualchesterpaglia. L’acqua è a 80, forse 100 chilometri da qui. Im-possibile da raggiungere se non a bordo di potenti jeep.Ci si cala in quello che una volta era il letto del lago e sitocca con mano la ruggine delle tante navi abbandonatee allineate così dagli abitanti per illustrare da vicino aipochi turisti temerari che si avventurano qui, il drammadi questo posto. Alcune carcasse sono state consumatedalla ruggine. Le chiglie sembrano bocche sdentate.

un paio di chilometri, spunta un molo. «Fu co-struito cercando di seguire le acque – dice anco-ra la guida – ma siccome si ritiravano sempre più

in là, bisognava variare di volta in volta il progetto e spo-stare sempre più a nord il molo. Quando è stato ultima-to, l’acqua era già molto lontana». Curioso che alcuni pa-li della luce siano stati piantati proprio qui, nel bacinodel lago. Quasi a voler affermare la rassegnazione e laconsapevolezza che l’acqua non tornerà mai più.L’ultima parte del tour si svolge di fronte al vecchio Kom-binat dove lavoravano migliaia di operai. Un bambinocon la bicicletta guarda stupito il visitatore occidentale.

Un anziano signore si ferma a parlare con noi. Baktiar,questo il suo nome, ha 80 anni e una faccia piena di ru-ghe segnate dal sole che lo fanno sembrare il protagoni-sta de Il vecchio e il mare di Hemingway. «Lavoravo in mare come pescatore – dice – e con la miabarca pescavo quintali di pesce che poi vendevo al Kom-binat (la fabbrica) per il processo di inscatolamento.Sono anziano e pensionato: non mi resta molto da vive-re. Ma il vero dramma sono questi giovani: che speranzae che futuro può offrire loro una città senza più il mare?».In verità un futuro tetro, così come il presente, conside-rando che i ragazzini dell’Uzbekistan, a Moynaq come inaltre parti del Paese, sono costretti a raccogliere il coto-ne. Una denuncia che le associazioni internazionali di tu-tela dei diritti dei bambini facevano da tempo, prima chela vergogna venisse filmata da una troupe della Bbc e sma-scherata. 450mila moderni schiavi che, in nome della ra-gion di Stato che fa chiudere le scuole e scorta con la po-lizia gli alunni fino ai campi, sono costretti a lavorare persettimane intere, gratuitamente o per una paga modestis-sima, raccogliendo anche 70 chili di cotone al giorno.Schiavitù e cotone, un dramma che ciclicamente si ripe-te nei secoli, per il guadagno di pochi e lo sfruttamento dimolti. .

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siano quelli da bonificare. Troppo importante, comun-que, l’oro bianco per lo “stan” dell’Asia centrale. L’Uz-bekistan, infatti, è il terzo Paese al mondo per le esporta-zioni di cotone e il quinto produttore mondiale con i suoitre milioni di tonnellate annue. La sua è un’economia che si basa ancora quasi totalmen-te su questa monocoltura, da cui ricava un miliardo didollari l’anno e che rappresenta il 60% delle sue espor-tazioni. Sono 800mila le tonnellate vendute ogni annosoprattutto a Paesi europei e asiatici. La situazione è invece migliorata nella parte kazaka, do-ve cospicui finanziamenti della World Bank hanno per-messo la creazione di un sistema di dighe. Ciò ha resopiù facile l’irrigazione dei campi coltivati, elevando il li-vello dell’Aral di alcuni metri. Nel 2005, infatti, con lacostruzione della diga di Kok Aral, il flusso d’acqua ver-so il bacino meridionale è stato bloccato ed è stata stabi-lizzata la portata e il grado di salinità dell’acqua nellaparte nord del lago.Entro l’anno prossimo, secondo stime ottimistiche, l’ac-qua dovrebbe ritornare a bagnare la città di Aralsk da cuideriva il nome del lago. Ma la notizia buona è che il pic-colo mare del Kazakistan è tornato di nuovo a essere pe-scoso. Non è così a Sud, a Moynaq. Sul lungomare lo spet-

portata dei due affluenti dell’Aral e, di conseguenza, an-che la superficie dello stesso lago.

onostante una presa di coscienza internazionaledel problema, oggi il destino del lago appare se-gnato. Almeno per quanto riguarda la parte uz-

beka. Pochi i fondi a disposizione per permettere di ri-nunciare alla coltivazione del cotone, vera ricchezza delPaese e far affluire nuovamente l’acqua al lago d’Aral. Epoca la volontà dei governanti uzbeki di porre rimedio aquesta situazione. Il presidente Islam Karimov, sovrano incontrastato e pa-drone dell’economia del Paese, ha dichiarato più di unavolta: «Ormai l’Aral è morto», scommettendo solo sulsuo rinverdimento e sull’eventuale ricerca di petrolio nelsottosuolo del suo ex bacino. Una trasformazione co-munque difficile e costosissima. Il disastro ambientaledell’Aral è rappresentato anche dalla vergogna dell’iso-la di Vozrozhdeniye (Rinascita), che sorgeva in mezzo allago, dove i sovietici per decenni hanno condotto i pro-pri esperimenti per la produzione di armi biologiche didistruzione di massa. Nel 2002, grazie a un fondo Usa, dieci siti di antrace so-no stati bonificati. Ma è facile pensare che ancora molti

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