chiederglisepossorifarmiunafamiglia.Credochecapirà:sachenonpossostaresoloArte,politicaefictionSandr

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14 il manifesto mercoledì 13 settembre 2006 Sandro Iovine Arles T ranquilla e quasi sonnolenta cittadi- na per più di nove mesi l’anno, Arles da trentasette anni a questa parte si trasforma da luglio a metà settembre, durante i Rencontres, in capitale mondiale del- la fotografia con un festival che offre moltissi- me mostre, conferenze, incontri. L’appuntamento con il fotografo francese Jean-François Rauzier è all’interno della Cha- pelle de l’Hôtel Jules César dove è esposta una parte delle sue Hyper-Photo (il resto è sui muri esterni) e dove HP, sponsor della mostra e della 37/ma edizione dei Rencontres d’Arles, ha allestito un imponente centro stampa. Rauzier è riconoscibile più per la classica res- sa intorno all’autore il giorno dell’inaugurazio- ne che per la somiglianza con il ritratto espo- sto accanto alle note biografiche all’inizio del- la mostra. L’unico elemento in comune è lo sguardo inquieto che contrasta con i modi compassa- ti, quasi anglosassoni. Per raggiungerlo in fon- do alla sala bisogna passare davanti alle sue Hyper-Photo (visto lo sponsor, saranno casua- li quelle due consonanti maiuscole?) che col- piscono immediatamente per le dimensioni tra i sei e i sette metri di base e per la strana sensazione che si prova ad averle davanti. Se a distanza infatti trasmettono artificiosità, av- vicinandosi emerge un dettaglio, inusitato per fotografie di queste dimensioni, che resti- tuisce estremo realismo al tutto pur nella sur- realtà dell’insieme. Su una tavola apparec- chiata con eleganza in un bosco-giardino, ad esempio, si scorge mezza mela. La perfezione del taglio fa presupporre l’impiego del coltello a lato del piatto, ma il segno di un morso fa smarrire l’osservatore. Più in alto si scorge su un ramo un serpente che sembra scrutare l’osservatore stupito. E più in là un non meno straniante gatto e così via. La mela, il serpente e il gatto ricorrono frequentemente nelle ope- re di Rauzier come pure le stesse fotografie ri- prodotte con un valore simbolico che sottin- tende una riflessione profonda sulla memoria e su una condizione originaria. «Ho iniziato a fare fotografie da piccolo - racconta Rauzier - per la straordinaria capacità di questo stru- mento di conservare i ricordi, soprattutto quelli familiari. E del resto è questo l’impiego primario che ne fa la gente. Nelle Hyper-Photo sembra perdersi talvol- ta la dimensione spazio-temporale… Vivi e defunti sono a volte riuniti nelle mie immagini. Quelle inserite all’interno delle Hyper-Photo sono spesso vecchie foto di fami- glia. Il quadro tenuto in mano dalla giovane ragazza in Racine è l’autoritratto del mio bi- snonno che è stato tra i primi fotografi in Fran- cia. Credo che l’aver visto le sue opere fin da piccolo tra le mura di casa mi abbia influenza- to molto contribuendo a far nascere in me la vocazione di fotografo. Siamo tutti in perenne relazione con il passato che più ci appartiene e personalmente credo molto nell’importan- za dell’eredità culturale e artistica. È questo il motivo per cui un artista crea: per tramanda- re qualcosa. Perché nelle Hyper-Photo compaiono spesso animali che sembrano avere valore simbolico? Immagino alluda al serpente e ai gatti. Beh, il primo simbolicamente va messo in relazio- ne ad un lettura biblica, alla mia ricerca di un giardino dell’Eden. I gatti invece rappresenta- no il lato oscuro e imprevedibile della vita. Mi affascinano per gli enigmi spesso incompren- sibili che pongono all’uomo semplicemente con la loro presenza. Un po’ come i serpenti. Come nasce l’idea di realizzare le Hyper- Photo? Mi è sempre piaciuto molto camminare nei grandi spazi, in montagna o nei campi. Mi dà una sensazione di ebbrezza vedere questi spazi che sembrano infiniti. Ma, fotografando- li, avevo sempre ottenuto dei risultati che non restituivano le stesse emozioni. Potevano an- che essere immagini esteticamente valide, ma non mi permettevano di rivivere quella sensazione di libertà o meglio di evasione che mi offre la realtà. Per questo ho iniziato a fare fotografie con apparecchi panoramici classici nel tentativo di recuperare almeno in parte le vecchie regole rinascimentali sul paesaggio. Il problema è che gli apparecchi panorami- ci per comprendere vaste aree di paesaggio devono impiegare ottiche grandangolari e queste producono deformazioni incurvando l’orizzonte e creando problemi nelle aree peri- feriche. La soluzione è arrivata con il digitale che mi ha permesso di assemblare più imma- gini. Ho iniziato con cinque o sei scatti per vol- ta e oggi sono arrivato a quattro o cinquecen- to per immagine. Ciò mi ha consentito di usa- re un teleobiettivo per eliminare qualsiasi pro- blema di vignettatura o di deformazione. Ma lo scopo principale di tutto questo lavoro, che richiede una o due ore di ripresa e qualche set- timana di lavoro al computer, rimane quello di creare un mio mondo personale attraverso immagini di cui possa dire di conoscere ogni filo d’erba. Quel giardino dell’Eden cui ho fat- to riferimento prima, rappresenta il mio mon- do interiore espresso all’esterno. Le Hyper-Photo sono quindi concettual- mente più vicine alla pittura che alla fotogra- fia? La fotografia è uno strumento di espressio- ne, ma non è completo e mi ha sempre regala- to qualche frustrazione, perché sentivo di non riuscire esprimermi totalmente. Ho pro- vato a dedicarmi a pittura e scultura che mi permettevano di far emergere qualcosa di più intimo. Ma da quando il digitale mi ha con- sentito di creare le Hyper-Photo, sento di aver raggiunto un’arte totale, di avere a disposizio- ne uno strumento completo per rappresenta- re la mia interiorità, perciò non ho più avuto bisogno di prendere in mano pennelli e scal- pelli. Perché chiamarle Hyper-Photo? La definizione deriva dall’Iperrealismo. I pittori di questa corrente facevano fotografie per trasformarle in dipinti e in qualche modo io faccio la stessa operazione. Nell’Iperreali- smo c’è quella dimensione un po’ folle di un lavoro enorme per dare forza a soggetti assai banali, io faccio la stessa cosa. Inoltre posso svincolarmi in questo modo dai limiti fisici, in senso dimensionale, della fotografia. Quanto sono importanti le dimensioni nell’Hyper-Photo? Sono molto importanti soprattutto se si af- fronta il paesaggio. A due o tre metri da un’Hyper-Photo l’occhio può abbracciare l’in- tero panorama e questo permette di immer- gersi all’interno di ciò che si sta guardando. Vorrei che chi osserva le mie immagini potes- se fermarsi mezz’ora o un’ora alla ricerca di particolari, come dovrebbe accadere ad un os- servatore attento di fronte a un paesaggio na- turale. So che può esserci un po’ di presunzio- ne in ciò, ma questo è il mio intento e per que- sto le dimensioni e la ricchezza di dettaglio so- no elementi fondanti del mio lavoro». Un altro tentativo di lavorare nella dimen- sione temporale? Il tempo è molto importante in fotografia. Se si scatta con un tempo di otturazione bre- ve si cattura un istante che potrà essere osser- vato per tutto il tempo che si vuole. Io impie- go qualche ora per acquisire gli elementi ne- cessari a realizzare una Hyper-Photo e parec- chie settimane per costruire l’immagine. Mi spiego: quando sono stato a New York per esempio la vera visita della città si è svolta so- lo a posteriori, una volta tornato a casa, men- tre mettevo insieme i particolari presenti nel- le fotografie che avevo scattato. Io credo che la fotografia mantenga in sé una magia che è quella di svelare all’osservatore quei particola- ri che dal vivo non era riuscito a percepire. Nel mio modo di affrontare l’immagine cerco il caso a posteriori, al momento di ricostruire la mia realtà. Fare una fotografia è indubbia- mente un atto teso finalizzato all’esibizione del risultato, ma per me è fondamentale an- che il piacere personale che provo al momen- to dello scatto. Un piacere che così posso pro- lungare per settimane. La mattina mi alzo con il desiderio di continuare la mia foto, di esplorare ancora quel posto e scoprire nuovi particolari. Inoltre mi piace lavorare sul tem- po anche in un altro senso ricercando oggetti sui quali il tempo abbia lasciato le proprie tracce. Le stesse immagini degli avi che a vol- te appaiono trovo abbiano un fascino assolu- tamente speciale per via di quella patina che su di loro ha lasciato proprio il tempo. La fotografia cambia natura, ma quali tra- sformazioni immagina in futuro? Credo si debba fare un grosso lavoro sui supporti. Penso che per il futuro siano i moni- tor lo strumento più adatto a restituire un ge- nere di fotografia in cui sia possibile immer- gersi completamente. Al di là degli attuali limi- ti tecnici uno schermo può davvero permette- re all’osservatore, magari per mezzo di un’in- terattività di entrare all’interno del dettaglio di un’immagine, di avvicinarsi alla natura del- le cose. Sto sperimentando questa possibilità ad esempio sul sito internet dedicato alle Hyper-Photo (www.hyper-photo.com) dove ho realizzato delle immagini all’interno delle quali è possibile navigare ingrandendo i parti- colari alla ricerca del dettaglio. Jean-François Rauzier «Racines». Sotto, «La plage de souvenirs», in mostra nelle vie di Arles Ai Rencontres di Arles, intervista con il francese Jean François Rauzier, in mostra con le sue grandi Hyper Photo Il ricordo che congela il lato oscuro della vita «Siamo tutti in perenne relazione con il passato che più ci appartiene e credo nell’importanza dell’eredità culturale» A curare l’edizione 2006 degli Incontri di Arles - in corso fino al 17 settembre - è Raymond Depardon. Il festival prevede, in sedi varie, 67 mostre di autori di tutto il mondo. Fra le rassegne, all’Espace Van Gogh Robert Adams («Nos vies et nos enfants») e Cornell Capa («JFK Président!»). All’Atelier de Mécanique, fra gli altri, Don McCullin («Un coin d’Afrique»), David Burnett («Politique.S, 1973-1977»), Susan Meiselas («Carnival Strippers/Recadrer l’Histoire»). S’indaga sulla relazione fotografi e politica presso L’Eglise Sainte-Anne, con David Goldblatt; al Cloître Saint-Trophime con Anders Petersen; all’Eglise des Trinitaires con Paul Graham; all’Atelier des Forges con Philippe Chancel, Julien Chapsal, Malik Nejmi, Gilles Leimdorfer, Vincent Debanne, Olivier Jobard (e il suo «Carnet de route d’un immigrant clandestin»). Per «Territori di finzione», Alessandra Sanguinetti, Eleni Bakopoulos, Janine Gordon. Per «Prix dialogue de l’humanité», Maxence Rifflet-Chengdu, Ricky Dávila («Manila»), Wang Qingsong («Vie splendide»), Fatima Mazmouz («Histoire de femmes»). Per Prix no limit, Thomas Mailaender, Tom Hunter («Vivre en enfer et autres histoires»), Claudia Fahrenkemper («Photomicrographies»), Olaf Breuning. Altre personali di Josef Koudelka («Camargue»), Clark & Pougnaud («La Solitude»), Paolo Ventura («Scènes de guerre»). Devo parlarne con Dio, devo chiedergli se posso rifarmi una famiglia. Credo che capirà: sa che non posso stare solo Vittorio Cecchi Gori In calendario Arte, politica e fiction

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Devo parlarne con Dio, devo chiedergli se posso rifarmi una famiglia. Credo che capirà: sa che non posso stare solo Arte, politica e fiction Sandro Iovine Arles 14 Vittorio Cecchi Gori Jean-François Rauzier «Racines». Sotto, «La plage de souvenirs», in mostra nelle vie di Arles

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14 il manifesto mercoledì 13 settembre 2006

Sandro Iovine Arles

Tranquilla e quasi sonnolenta cittadi-na per più di nove mesi l’anno, Arlesda trentasette anni a questa parte sitrasforma da luglio a metà settembre,

durante i Rencontres, in capitale mondiale del-la fotografia con un festival che offre moltissi-me mostre, conferenze, incontri.

L’appuntamento con il fotografo franceseJean-François Rauzier è all’interno della Cha-pelle de l’Hôtel Jules César dove è espostauna parte delle sue Hyper-Photo (il resto è suimuri esterni) e dove HP, sponsor della mostrae della 37/ma edizione dei Rencontres d’Arles,ha allestito un imponente centro stampa.Rauzier è riconoscibile più per la classica res-sa intorno all’autore il giorno dell’inaugurazio-ne che per la somiglianza con il ritratto espo-sto accanto alle note biografiche all’inizio del-la mostra.

L’unico elemento in comune è lo sguardoinquieto che contrasta con i modi compassa-ti, quasi anglosassoni. Per raggiungerlo in fon-do alla sala bisogna passare davanti alle sueHyper-Photo (visto lo sponsor, saranno casua-li quelle due consonanti maiuscole?) che col-piscono immediatamente per le dimensionitra i sei e i sette metri di base e per la stranasensazione che si prova ad averle davanti. Sea distanza infatti trasmettono artificiosità, av-vicinandosi emerge un dettaglio, inusitatoper fotografie di queste dimensioni, che resti-tuisce estremo realismo al tutto pur nella sur-realtà dell’insieme. Su una tavola apparec-chiata con eleganza in un bosco-giardino, adesempio, si scorge mezza mela. La perfezionedel taglio fa presupporre l’impiego del coltelloa lato del piatto, ma il segno di un morso fasmarrire l’osservatore. Più in alto si scorge suun ramo un serpente che sembra scrutarel’osservatore stupito. E più in là un non menostraniante gatto e così via. La mela, il serpentee il gatto ricorrono frequentemente nelle ope-re di Rauzier come pure le stesse fotografie ri-prodotte con un valore simbolico che sottin-tende una riflessione profonda sulla memoriae su una condizione originaria. «Ho iniziato afare fotografie da piccolo - racconta Rauzier -per la straordinaria capacità di questo stru-mento di conservare i ricordi, soprattuttoquelli familiari. E del resto è questo l’impiegoprimario che ne fa la gente.

Nelle Hyper-Photo sembra perdersi talvol-ta la dimensione spazio-temporale…

Vivi e defunti sono a volte riuniti nelle mieimmagini. Quelle inserite all’interno delleHyper-Photo sono spesso vecchie foto di fami-glia. Il quadro tenuto in mano dalla giovaneragazza in Racine è l’autoritratto del mio bi-snonno che è stato tra i primi fotografi in Fran-cia. Credo che l’aver visto le sue opere fin dapiccolo tra le mura di casa mi abbia influenza-to molto contribuendo a far nascere in me lavocazione di fotografo. Siamo tutti in perennerelazione con il passato che più ci appartienee personalmente credo molto nell’importan-za dell’eredità culturale e artistica. È questo ilmotivo per cui un artista crea: per tramanda-re qualcosa.

Perché nelle Hyper-Photo compaionospesso animali che sembrano avere valoresimbolico?

Immagino alluda al serpente e ai gatti. Beh,il primo simbolicamente va messo in relazio-ne ad un lettura biblica, alla mia ricerca di ungiardino dell’Eden. I gatti invece rappresenta-no il lato oscuro e imprevedibile della vita. Miaffascinano per gli enigmi spesso incompren-sibili che pongono all’uomo semplicementecon la loro presenza. Un po’ come i serpenti.

Come nasce l’idea di realizzare le Hyper-Photo?

Mi è sempre piaciuto molto camminarenei grandi spazi, in montagna o nei campi. Midà una sensazione di ebbrezza vedere questispazi che sembrano infiniti. Ma, fotografando-li, avevo sempre ottenuto dei risultati che nonrestituivano le stesse emozioni. Potevano an-che essere immagini esteticamente valide,ma non mi permettevano di rivivere quellasensazione di libertà o meglio di evasione chemi offre la realtà. Per questo ho iniziato a farefotografie con apparecchi panoramici classicinel tentativo di recuperare almeno in parte levecchie regole rinascimentali sul paesaggio.

Il problema è che gli apparecchi panorami-ci per comprendere vaste aree di paesaggiodevono impiegare ottiche grandangolari equeste producono deformazioni incurvandol’orizzonte e creando problemi nelle aree peri-feriche. La soluzione è arrivata con il digitale

che mi ha permesso di assemblare più imma-gini. Ho iniziato con cinque o sei scatti per vol-ta e oggi sono arrivato a quattro o cinquecen-to per immagine. Ciò mi ha consentito di usa-re un teleobiettivo per eliminare qualsiasi pro-blema di vignettatura o di deformazione. Malo scopo principale di tutto questo lavoro, cherichiede una o due ore di ripresa e qualche set-timana di lavoro al computer, rimane quellodi creare un mio mondo personale attraversoimmagini di cui possa dire di conoscere ognifilo d’erba. Quel giardino dell’Eden cui ho fat-to riferimento prima, rappresenta il mio mon-do interiore espresso all’esterno.

Le Hyper-Photo sono quindi concettual-mente più vicine alla pittura che alla fotogra-fia?

La fotografia è uno strumento di espressio-ne, ma non è completo e mi ha sempre regala-

to qualche frustrazione, perché sentivo dinon riuscire esprimermi totalmente. Ho pro-vato a dedicarmi a pittura e scultura che mipermettevano di far emergere qualcosa di piùintimo. Ma da quando il digitale mi ha con-sentito di creare le Hyper-Photo, sento di averraggiunto un’arte totale, di avere a disposizio-ne uno strumento completo per rappresenta-re la mia interiorità, perciò non ho più avutobisogno di prendere in mano pennelli e scal-pelli.

Perché chiamarle Hyper-Photo?La definizione deriva dall’Iperrealismo. I

pittori di questa corrente facevano fotografieper trasformarle in dipinti e in qualche modoio faccio la stessa operazione. Nell’Iperreali-smo c’è quella dimensione un po’ folle di unlavoro enorme per dare forza a soggetti assaibanali, io faccio la stessa cosa. Inoltre posso

svincolarmi in questo modo dai limiti fisici, insenso dimensionale, della fotografia.

Quanto sono importanti le dimensioninell’Hyper-Photo?

Sono molto importanti soprattutto se si af-fronta il paesaggio. A due o tre metri daun’Hyper-Photo l’occhio può abbracciare l’in-tero panorama e questo permette di immer-gersi all’interno di ciò che si sta guardando.Vorrei che chi osserva le mie immagini potes-se fermarsi mezz’ora o un’ora alla ricerca diparticolari, come dovrebbe accadere ad un os-servatore attento di fronte a un paesaggio na-turale. So che può esserci un po’ di presunzio-ne in ciò, ma questo è il mio intento e per que-sto le dimensioni e la ricchezza di dettaglio so-no elementi fondanti del mio lavoro».

Un altro tentativo di lavorare nella dimen-sione temporale?

Il tempo è molto importante in fotografia.Se si scatta con un tempo di otturazione bre-ve si cattura un istante che potrà essere osser-vato per tutto il tempo che si vuole. Io impie-go qualche ora per acquisire gli elementi ne-cessari a realizzare una Hyper-Photo e parec-chie settimane per costruire l’immagine. Mispiego: quando sono stato a New York peresempio la vera visita della città si è svolta so-lo a posteriori, una volta tornato a casa, men-tre mettevo insieme i particolari presenti nel-le fotografie che avevo scattato. Io credo chela fotografia mantenga in sé una magia che èquella di svelare all’osservatore quei particola-ri che dal vivo non era riuscito a percepire.Nel mio modo di affrontare l’immagine cercoil caso a posteriori, al momento di ricostruirela mia realtà. Fare una fotografia è indubbia-mente un atto teso finalizzato all’esibizionedel risultato, ma per me è fondamentale an-che il piacere personale che provo al momen-to dello scatto. Un piacere che così posso pro-lungare per settimane. La mattina mi alzocon il desiderio di continuare la mia foto, diesplorare ancora quel posto e scoprire nuoviparticolari. Inoltre mi piace lavorare sul tem-po anche in un altro senso ricercando oggettisui quali il tempo abbia lasciato le proprietracce. Le stesse immagini degli avi che a vol-te appaiono trovo abbiano un fascino assolu-tamente speciale per via di quella patina chesu di loro ha lasciato proprio il tempo.

La fotografia cambia natura, ma quali tra-sformazioni immagina in futuro?

Credo si debba fare un grosso lavoro suisupporti. Penso che per il futuro siano i moni-tor lo strumento più adatto a restituire un ge-nere di fotografia in cui sia possibile immer-gersi completamente. Al di là degli attuali limi-ti tecnici uno schermo può davvero permette-re all’osservatore, magari per mezzo di un’in-terattività di entrare all’interno del dettagliodi un’immagine, di avvicinarsi alla natura del-le cose. Sto sperimentando questa possibilitàad esempio sul sito internet dedicato alleHyper-Photo (www.hyper-photo.com) doveho realizzato delle immagini all’interno dellequali è possibile navigare ingrandendo i parti-colari alla ricerca del dettaglio.

Jean-François Rauzier«Racines». Sotto,«La plage de souvenirs»,in mostra nelle vie di Arles

Ai Rencontres di Arles,intervista con il franceseJean François Rauzier,in mostra con le suegrandi Hyper Photo

Il ricordo che congelail lato oscuro della vita

«Siamo tutti in perennerelazione con il passatoche più ci appartienee credo nell’importanzadell’eredità culturale»

A curare l’edizione 2006 degliIncontri di Arles - in corso fino al 17settembre - è Raymond Depardon. Ilfestival prevede, in sedi varie, 67mostre di autori di tutto il mondo.Fra le rassegne, all’Espace VanGogh Robert Adams («Nos vies etnos enfants») e Cornell Capa («JFKPrésident!»). All’Atelier deMécanique, fra gli altri, DonMcCullin («Un coin d’Afrique»),David Burnett («Politique.S,1973-1977»), Susan Meiselas(«Carnival Strippers/Recadrerl’Histoire»). S’indaga sulla relazionefotografi e politicapresso L’Eglise Sainte-Anne, conDavid Goldblatt; al CloîtreSaint-Trophime con AndersPetersen; all’Eglise des Trinitairescon Paul Graham; all’Atelier desForges con Philippe Chancel, JulienChapsal, Malik Nejmi, GillesLeimdorfer, Vincent Debanne, OlivierJobard (e il suo «Carnet de routed’un immigrant clandestin»). Per«Territori di finzione», AlessandraSanguinetti, Eleni Bakopoulos,Janine Gordon. Per «Prix dialogue del’humanité», MaxenceRifflet-Chengdu, Ricky Dávila(«Manila»), Wang Qingsong («Viesplendide»), Fatima Mazmouz(«Histoire de femmes»). Per Prix nolimit, Thomas Mailaender,Tom Hunter («Vivre en enfer etautres histoires»), ClaudiaFahrenkemper(«Photomicrographies»), OlafBreuning. Altre personali di JosefKoudelka («Camargue»), Clark &Pougnaud («La Solitude»), PaoloVentura («Scènes de guerre»).

Devo parlarne con Dio, devo chiedergli se possorifarmi una famiglia. Credo che capirà: sache non posso stare solo Vittorio Cecchi Gori

In calendarioArte, politica e fiction