Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

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LEZIONI Bruno Chiarini DI POLITICA i Debito pubblico, aspettative razionali, ECONOMICA fluttuazioni cicliche Carocci

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economia politiva

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LEZIONIBruno Chiarini

DI POLITICAi

Debito pubblico, aspettative razionali,

ECONOMICAfluttuazioni cicliche

Carocci

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i “ edizione, giugno 2004 © copyright 2004 by Carocci editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nel giugno 2004 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

ISBN 88-430-2882-0

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 17 1 della legge 22 aprile 194 1, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato rip rodu rre questo volum e

anche parzialm ente e con qualsiasi mezzo, com presa la fotocopia, anclic per uso interno

o (lilialiirò .

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Indice

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Introduzione al volume e suggerimenti agli studenti

La teoria della politica economica: modelli, metodi e problemi

Le tecniche di simulazione standard1 .3 .1 . Shock temporanei e permanenti

Introduzione 1^I modelli economici e i modelli econometrici 181 . 1 . 1 . La classificazione delle variabili / 1.2.2. Le caratteristiche di un modello econometrico / 1.2.3. H termine di errore / 1.2.4. La forma strutturale e la forma ridotta / 1.2.5. La forma ridotta ristretta /1.2.6. La forma compatta

33

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Il controllo dell’economia come un problema di inge­gneria: la politica economica come “servomeccani­smo”Il controllo dell’economia come problema di ingegne­ria: il controllo ottimo 421 .5 .1. L ’approccio target-strumenti / 1.5.2. Politiche feasible /1.5.3. Il problema dell’incertezza / 1.5.4. Come analizzare i trade-off dell’economia? / 1.5.5. H controllo ottimo: la funzione obiettivo

I limiti dell’utilizzo dei modelli nella politica econo­mica 581.6.1. La struttura policy invariant / 1.6.2. Politica coerente o politica ottimale? / 1.6.3. La politica economica come un gioco dinamico

(ili sviluppi successivi 66i ./ .i. Le economie artificiali / 1.7.2. I modelli “ ateoretici”

7

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l . P / I O N I DI P O L I T I C A E C O N O M I C A

1 .8. Regole “fisse” o politiche discrezionali?i .8 .i. Milton Friedman / 1.8.2. Le scelte pubbliche / 1.8.3. H ritorno delle regole

1 .9 . Che cosa abbiam o appreso da questo capitolo Bibliografia (per saperne di più)

2. Deficit pubblico, debito pubblico e soluzione delleequazioni alle differenze

2 . 1 . Introduzione2.2. Gli strumenti di analisi2.3. La dinamica del debito pubblico

2.3.1. Alcune definizioni / 2.3.2. Il fabbisogno complessivo e la sua copertura finanziaria / 2.3.3. L ’evoluzione del rapporto d e b i t o / p i L

2.4. Le equazioni alle differenze e le loro soluzioni2.4.1. La soluzione di equilibrio / 2.4.2. La deviazione dall’equilibrio /2.4.3. La soluzione generale

2.5. L ’economia su un sentiero insostenibile2.6. Il finanziamento monetario e la relazione con le auto­

rità monetarie2.7. Misure alternative di rientro del debito pubblico2.8. Politica di bilancio e debito pubblico: equivalenza ri-

eardiana2.9. La teoria fiscale del livello dei prezzi2.10. Politica fiscale e debito pubblico: gli stabilizzatori

automatici2 .11 . La stabilizzazione del debito in una economia aperta

di piccole dimensioni2.12. I fatti stilizzati: gli anni ottanta e la spesa per inte­

ressi2.13. Il processo decisionale della politica fiscale2.14. Le teorie politiche del debito pubblico2.15. Il costituzionalismo economico2.16. Le equazioni differenziali: soluzione2.17. Che cosa abbiamo appreso da questo capitolo

Bibliografia (per saperne di più)

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INDICE

Aspettative razionali: logica e implicazioni. Un’anali­si introduttiva

IntroduzioneUna descrizione intuitiva delle aspettative3.2 .1. Aspettative adattive / 3.2.2. Implicazioni dell’ipotesi di aspetta­tive adattive / 3.2.3. Aspettative razionali: una prima definizione

Alcuni semplici modelli con aspettative razionali3.3.1. Le aspettative endogene e la componente stocastica /3.3.2. Curva di Phillips con aspettative razionali

La neutralità della politica economica3.4.1. Il ruolo del tasso naturale

Alcune proprietà delle aspettative razionali3.5.1. Proprietà dell’operatore atteso

Soluzioni di modelli con aspettative razionali3.6.1. Modelli con aspettative correnti / 3.6.2. Modelli con aspettative future

La critica di LucasPrezzo e rendimento degli assetsTasso di cambio e bubbles3.9.1. Le condizioni per ottenere una soluzione / 3.9.2. Bolle specula­tive / 3.9.3. Crashes: bolle che “ scoppiano” / 3.9.4. Bolle speculative, aspettative razionali e politica economica

Unicità delle soluzioni con aspettative razionali4.10.1. Esempio: Il modello di Dornbusch

Politiche ottimali, coerenza dinamica e credibilità del­la politica economica

i.x. Causalità e non causalità di una struttura economica / 3 .11.2 . Il problema dell’incocrenza dinamica della politica / 3 .1 1 .3 . Le politi­che ottimali open-loop e closed-loop / 3 .11.4 . Una soluzione formale del problema delTincoerenza dinamica / 3.n . 5. Coerenza dinamica c o n u n modello economico / 3 .11.6 . Una formulazione in termini di >',ioco dinamico / 3.n . 7. Il problema della credibilità / 3 .11.8 . Incoe- iriiy,;i dinamica ed equilibri di reputazione / 3 .n . 9. Inflation bias / ;. 1 1.10 . Lqmlibrio cooperativo e minacce non credibili / 3 .n . 1 1 . L ’e­

q u i l i b r i o perfetto

Implicazioni e critica delle aspettative razionali< I h- iosa abbiamo appreso da questo capitolo l'>il)lioj>ralia (per saperne di più)

183187

192

199

2 0 6

214

224227232

250

263

183

3033103 13

9

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

4-

4.1.4.2.4.3.

4.4.

4.5.

4.6.

4.7.4.8.

4.9.

4.10.

Le fluttuazioni cicliche: aspetti empirici e teorici

Introduzione Un po’ di storiaL ’analisi empirica del ciclo economico4.3.1. Le caratteristiche delle fluttuazioni economiche / 4.3.2. Crono­logia e intensità del ciclo economico italiano

Strumenti per la valutazione del ciclo economico4.4.1. La componente di alta frequenza / 4.4.2. Proprietà delle serie storiche / 4.4.3. Modelli di serie storiche / 4.4.4. Il modello random walk / 4.4.5. Trasformazione di variabili non stazionarie / 4.4.6. Di­scriminazione tra serie storiche con diverse caratteristiche di trend /4.4.7. Le statistiche del ciclo / 4.4.8. Il ciclo di crescita e l ’inversione del trend / 4.4.9. Le asimmetrie del ciclo e il trend / 4.4.10. Come si comportano le serie macroeconomiche?

Il ruolo della politica economica: problemi teorici4.5.1. Milton Friedman e la finanza funzionale / 4.5.2 La politica di destabilizzazione

Il ruolo della politica economica: l ’analisi empirica4.6.1. Quali politiche e quali regole? / 4.6.2. Expansionary contrac- tions e la politica fiscale

L ’approccio tradizionaleUn ciclo particolare: il ciclo politico4.8.1. Sviluppi dei modelli di ciclo politico

Le teorie del ciclo reale: un’introduzione4.9.1. Fatti stilizzati e l ’utilizzo della teoria classica per interpretarli /4.9.2. La necessità di scelte dinamiche / 4.9.3. Perché fluttuazioni del mercato del lavoro per una teoria del ciclo? / 4.9.4. Shock di pro­duttività c fluttuazioni di salari e occupazione: il meccanismo d’impul­so / 4.9.5. Il meccanismo di propagazione degli shock / 4.9.6. Le flut­tuazioni / 4.9.7. Estensioni del modello base: spostamento della curva di offerta / 4.9.8. L ’ equilibrio generale e la soluzione Pareto-ottimale / 4.9.9. La disoccupazione nei modelli di equilibrio

Che cosa abbiamo appreso da questo capitolo Bibliografìa (per saperne di più)

Indice dei riquadri

Indice analitico

319

3 x9 322 328

34 i

380

389

4064°9

416

440443

453

455

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Introduzione al volume e suggerimenti agli studenti

Il volume consiste di quattro capitoli che raccolgono materiale su una parte limitata delle argomentazioni e dei contenuti propri di un corso di politica economica. Lo studente non troverà trattazioni riguardanti i fallimenti di mercato e l’economia del benessere, considerazioni sul­la legislazione antimonopolistica e sulle varie patologie generate nelle economie avanzate. Infine saranno tralasciate anche le esperienze par- ticolari della politica italiana dal dopoguerra ad oggi. Queste esclusio­ni sono dovute sostanzialmente a tre motivi. Il primo motivo è che in unte le Università sono disponibili altri corsi, oltre a Microeconomia c Macroeconomia, i cui contenuti coprono molti aspetti sopra elenca­li e trascurati nel volume. Il secondo motivo riguarda la riforma uni­versitaria che, riducendo le ore dei corsi con l’allocazione dei crediti, lui impedito un programma più esteso. Infine, la trattazione più rigo- iosa degli argomenti inseriti e l ’importanza di tali argomenti hanno limitato lo spazio disponibile.

L’obiettivo, ambizioso, è quello di fornire allo studente un’analisi «lei problemi della politica economica qualitativamente soddisfacente, nonostante la limitazione delle ore di insegnamento per i corsi. Que- ;.io significa che il materiale inserito in questo volume va considerato in maniera flessibile, a seconda delle esigenze. I capitoli vanno cali- imi! i relativamente ai corsi di laurea e ai crediti disponibili per la ma­li ria. Alcune parti degli ultimi due capitoli possono essere considera­le utili introduzioni per i corsi di politica economica nella laurea■ I K-cialistica.

I ,a selezione del materiale riguarda alcuni aspetti teorici ed empi- iii i i Ih- hanno generato delle difficoltà all’intervento sistematico della politica economica negli ultimi trent’anni. L ’elemento comune del materiale riguarda, quindi, alcuni vincoli concreti che si sono manife- i.m nel corso degli ultimi decenni, e alcuni aspetti teorici che hanno

.....lato il modo di analizzare e guardare alla politica economica.Un secondo elemento che lega i vari capitoli è la dinamica dei

I I

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La teoria della politica economica: modelli, metodi e problemi

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Di che cosa si parla nel capitolo

/// </uesto capitolo passeremo brevemente in rassegna gli strumenti e i <nciodi della teorìa della politica economica. Metteremo in risalto come Li metodologia utilizzata per stimare gli effetti e le conseguenze delle "hniovre di politica fiscale e monetaria si sia sviluppata coerentemente , i )// le diverse idee teoriche e i problemi economici concreti. Un secon- .!<> aspetto importante, trattato nel capitolo, riguarda l’evoluzione del- /'V///erpretazione dei modelli costruiti per studiare la struttura economi­ci <■ del loro utilizzo per lo studio degli interventi di politica economica Jurante il periodo che va dal dopoguerra ad oggi. Infine, il capitolo in- hoduce una serie di concetti e definizioni riguardo i modelli e le loro . ./rat/eristiche che saranno continuamente richiamati negli altri capitoli. \Ho studente è richiesta particolare attenzione nell’amalgamare concetti

s■ ■, nici, e metodologici, avvenimenti storici, sviluppi teorici e gli autori l'ut rappresentativi. Una ulteriore nota di cautela riguarda i diversi■ /'/'<■/// metodologici e le varie definizioni che caratterizzano gli argo- •• culi trattati: considerazioni che possono apparire essenzialmente tecni- . />. ma che hanno delle implicazioni teoriche e di politica economica '//,-iuiIÌ. Lo studente dovrà ritornare, dopo aver letto i CAPP. 2-4, su■ /■■/e\/o capitolo per apprendere appieno l ’importanza dei concetti e delle ./. huroani riportate.

1 .1Introduzione

I ......I.-IIÌ economici, sia nella loro definizione analitica che nella spe-• ili. .i/ione econometrica, sono costruiti per ottenere previsioni di va-11.il-ili miHToeconomiche ed effettuare esercizi e simulazioni di politi-■ lie 1 < onomiclte in un contesto sperimentale. I modelli, permettendo r<>i)'..iiiiz,/:ix,ioiie di informazioni, dati e idee diverse, rappresentano

1 ')

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

e all’utilizzo di modelli teoretici, con la costruzione di “economie ar­tificiali” dove è la teoria che genera i dati economici e li confronta con le realizzazioni reali. Vedremo che entrambi questi sviluppi limi­tano sensibilmente l’analisi tradizionale della politica economica, at­tuata con sistematicità dagli anni quaranta in poi.

Il capitolo è formato da nove paragrafi. Nel secondo paragrafo è definito il concetto di modello economico e di modello econometrico e il loro utilizzo nell’analisi della politica economica. Questo paragra­fo è particolarmente importante perché introduce la classificazione e le proprietà delle variabili e le relazioni che compongono i modelli, e perché fornisce una rassegna storica dell’evoluzione della modellistica econometrica. Altro aspetto importante su cui ci si sofferma riguarda le varie forme di modello (forma strutturale e forma ridotta). I suc­cessivi tre paragrafi (1.3, 1.4 e 1.5) discutono le varie tecniche di si­mulazione utilizzate per l’analisi di politica economica con i modelli econometrici, fornendo contemporaneamente il quadro evolutivo dei concetti e della logica della teoria e dell’analisi quantitativa della po­litica economica.

Il p a r . 1.6 analizza i problemi che la nuova macroeconomia classi­ca ha individuato nella teoria della politica economica e nell’uso dei modelli econometrici e nell’analisi quantitativa della politica economi­ca. Il PAR. 1.7 discute gli sviluppi di analisi teorica e quantitativa, se­guiti a questa critica, mentre il p a r . 1.8 mette in risalto alcune impli­cazioni di carattere normativo che il dibattito sulla politica economica e sulla sua analisi quantitativa ha fatto emergere. Il capitolo si chiude con un paragrafo dedicato ai maggiori concetti appresi.

1.2I modelli economici e i modelli econometrici

I modelli economici sono uno strumento di analisi che prende corpo nella descrizione di una parte o dell’intera economia, con la specifica­zione delle relazioni economiche più rilevanti per il costruttore di modelli. I modelli sono quindi schemi semplificati dell’economia dove spesso si omettono esplicitamente relazioni e fattori che in un deter­minato contesto appaiono meno importanti.

La descrizione di una economia può assumere aspetti diversi: un diagramma, o uno schema logico di interrelazioni o ancora una lor malizzazione matematica. Questa descrizione può coinvolgere delibc ratamente soltanto una parte dell’economia o alcuni mercati oggetto di esame. Specificare, ad esempio, i comportamenti del mercato del

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

lavoro rappresenta una descrizione parziale. Limitarsi a trovare una l'dazione quantitativa per le determinanti della domanda di lavoro e l>cr le determinanti dell’offerta di lavoro significa costruire un mo­dello di equilibrio parziale: le interrelazioni con gli altri mercati non ■•ono specificate assumendo che rimangano costanti: ceteris paribus. Uno schema macroeconomico più ampio, che incorpori anche la specificazione dei comportamenti degli altri mercati, come, ad esem­pio, il mercato dei beni, della moneta e delle altre attività finanzia­ne, e le relazioni che intercorrono tra questi mercati, porta a co-111 lire un modello di equilibrio generale. In entrambi i casi il co­li littore di modelli continua ad assumere elementi che ritiene non

i ( mdizionanti o poco importanti nella definizione della struttura eco- no mica.

[ modelli, per quanto coerenti nelle relazioni che li compongo­no, sono, quindi, per definizione arbitrari e non veri, nel senso che •olio una approssimazione dell’economia reale. Tuttavia essi costi- miscono uno strumento indispensabile per catturare le relazioni de­mi minanti e i comportamenti dinamici nella maniera più semplice l'ossibile.

Pur senza entrare nei dettagli statistici, è opportuno provare a de-I iiiire le caratteristiche di un modello econometrico in quanto è uno• immento indispensabile nella modellistica della politica economica. In questo volume, un modello economico può essere inteso come un insieme coerente di comportamenti economici e relazioni di vario ge­neri- espressi in forma analitica. Un modello econometrico è un im­portante strumento di analisi e può essere facilmente pensato come mi insieme di relazioni economiche quantitative, ottenute con l’ausilio■ li metodi di stima appropriati e con l’utilizzo di dati per le variabili « ohi volte 4.

i.2 .i. La classificazione delle variabili

l e relazioni di un modello sono definite schematicamente da tre tipi di variabili economiche: variabili endogene, variabili esogene e stru- i nei 11 i o variabili di controllo.

I comportamenti economici aggregati si riflettono nelle variabili . ■nAoyenc, come i consumi delle famiglie, la disoccupazione, gli inve- ■■iuncini in macchine e attrezzature, gli investimenti in scorte, la dina-

|. I <l;ili prr le variabili macroeconomiche sono organizzati in serie storiche le m . .11 ;iiirrisi iclit* saranno analizzate nel C A P . 4.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

KII >1 IA[ >K< > I . IUn p o ’ di storia sui m o d e lli eco n o m etric i

I,'inizio della costruzione dei modelli econometrici per effettuare previsio­ni ed analisi di politica economica risale agli anni trenta, con il lavoro di Tinbergen (1939) sull’economia olandese. Un’analisi sistematica e rigorosa sulle proprietà statistiche, dinamiche e di policy viene intrapresa con la costruzione di una serie di modelli per gli Stati Uniti da Klein negli anni quaranta e pubblicati nel volume del 1950 . Questi modelli, noti nella let­teratura come Model 1, n e ni, sono divenuti dei prototipi su cui si eserci­tarono generazioni di costruttori di modelli per sviluppare tecniche di sti­ma e di simulazione. Una versione di questi modelli è nota nella letteratu­ra anche come modello di Klein-Goldberger (1955). Tra gli anni cinquan­ta e sessanta i maggiori sviluppi furono ottenuti presso l’Università del Michigan per poi estendersi rapidamente nelle università e nelle istituzio­ni degli altri Stati e di molti paesi europei. Negli anni settanta, i modelli econometrici di grandi dimensioni divenivano anche uno strumento com­merciale. Diverse istituzioni private, tra cui Data Resources Inc. (d e i ) e Chase Econometrics, mettevano a punto banche dati e modelli a disposi­zione di istituzioni private e pubbliche di diversi paesi, mirati ad analizza­re molteplici aspetti di carattere settoriale, nazionale e internazionale. At­traverso gli ultimi decenni è stato sviluppato anche un progetto finalizzato alla costruzione di una relazione internazionale dei modelli macroecono­metrici (project Link) 1. Attualmente è coordinato presso il centro Project Link dell’Università di Toronto e dal Dipartimento di Economia e Politi­che Sociali delle Nazioni Unite. Al progetto Link, che attualmente è basa­to su oltre 30 mila equazioni che compongono i modelli econometrici di circa un centinaio di paesi, l’Italia partecipa con il modello econometrico di Prometeia-Università di Bologna.

In Italia, la Banca d’Italia pubblica il suo primo modello m i b i nel 1970 sebbene l’attività di ricerca sulle equazioni che compongono quella prima versione sia iniziata diversi anni prima 2. La seconda versione, M 2BI

è del 1979 . Una ulteriore versione del modello stimato con dati trime­strali è stata presentata nel 1986 i . Successivamente il modello è stato più volte aggiornato. Nel 1988, la Banca centrale ha presentato un modello mensile del mercato monetario, finalizzato ad impostare coerentemente l’azione di intervento della Banca d’Italia sui mercati e consentendo an­che l’analisi tempestiva degli scostamenti delle variabili monetarie e credi­tizie dai sentieri di crescita programmati. Dal 1983 , la Banca d’Italia orga­nizza periodicamente un convegno sui temi e gli aggiornamenti di modelli e tecniche econometriche presso la s a d i b a di Perugia.

Tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni settanta sono stati costruiti, stimati e simulati diversi modelli presso le università e i centri studi di istituzioni pubbliche e private 4. Una esperienza simile in Italia è stata avviata anche presso le associazioni confederali dell’industria e dei

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

lavoratori (si veda Tivegna, 1983, per il modello della Confindustria e Fiorito, r984, per il sindacato). Una rassegna delle caratteristiche dei mo­delli di questo periodo è in Chiarini (1989). Tra i più importanti modelli in uso vanno ricordati i modelli della Banca d’Italia (www.bancaditalia.it) e di Prometeia (www.prometeia.it).

1, Sulla struttura del progetto Link si può vedere Klein, Welfe, Welfe (1999).2, Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, nell’ambito del Servizio Studi

(iella Banca d ’Italia sono state attivate diverse ricerche che hanno interessato parti del modello eco­nometrico. Molto di questo materiale ha trovato pubblicazione nella serie dei Contributi alla ricerca economica del Servizio Studi della Banca d ’Italia tra il 19 7 1 e la metà degli anni ottanta e nei Qua­derni di ricerche dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari “Luigi Einaudi” tra gli anni sessanta e i primi anni settanta. Tra i lavori dell’epoca ricordiamo quello di Gnes, Rey (1975) orien- lato alla politica di bilancio nella programmazione a breve.

3. Banca d ’Italia (1986). Si veda anche Nicoletti Altimari et al. {1997). Quest’ultimo lavoro è interessante anche per la discussione sugli effetti della politica monetaria studiati nel g a p . 4.

4. Un elenco dei modelli econometrici stimati e utilizzati in Italia negli anni 1960-80 e una breve descrizione del loro rapporto con i problemi dell’economia italiana dcH’epoca è in Valli t '993).

mica dei prezzi, l ’offerta di lavoro ecc. Le variabili endogene sono perciò quelle spiegate dal modello. Il modello si costruisce per ana­lizzare, in termini quantitativi, quali comportamenti, fattori o eventi determinano la dinamica delle variabili endogene. Precisamente, è particolarmente utile individuare la direzione (il segno) che queste va­riabili intraprendono una volta che le loro determinanti vengono sol­lecitate, e la dimensione della loro reazione.

Le variabili esogene sono dei dati o delle costanti, o quantomeno :;ono considerate dei dati dall’econometrico e da chi usa il modello. Il modello non è definito per spiegare queste variabili ma le utilizza per< leterminare l’andamento delle variabili endogene. Il tasso di interesse internazionale, il volume della domanda mondiale o il prezzo del pe­trolio sono aggregati considerati esogeni sia da chi costruisce il mo­di-ilo che dalle autorità di politica economica; chiaramente non sono comportamenti da spiegare con delle determinanti del modello, né :;ono variabili su cui le autorità dispongono un certo controllo 5.

Anche le variabili di controllo sono delle esogene, ma in quanto 'controllabili” dalle autorità monetarie, nel senso che queste ultime possono operare con queste variabili in maniera discrezionale, sono elliamate strumenti. Il tasso di interesse interno, la base monetaria, la ;pesa pubblica (i trasferimenti alle imprese, l’occupazione e gli sti­pendi del settore pubblico, i sussidi alle famiglie, gli investimenti pubblici ecc.), le tasse, le imposte e i contributi sociali sono esempi

*>. Vedrem o in seguito che, tuttavia, il problema della classificazione delle esoge­ni non è poi così semplice.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

di possibili strumenti: variabili non spiegate dal modello ma che sono controllate dalle autorità di politica economica.

Tra le variabili endogene alcune sono denominate variabili obietti­vo, poiché costituiscono un indicatore della situazione economica dal punto di vista delle autorità di politica economica. Se le autorità, in un determinato periodo, sono insoddisfatte del valore che assumono le variabili obiettivo, possono modificare i valori degli strumenti da loro controllati per condizionare le variabili obiettivo e portarle a va­lori più prossimi a quelli desiderati.

Il modello econometrico, schematizzando il funzionamento del si­stema economico in termini quantitativi, mette in grado le autorità di determinare quale valore devono assumere gli strumenti. Le relazioni quantitative e i coefficienti stimati che le legano definiscono delle re­lazioni dinamiche di causa-effetto (o di retroazione), con cui è possi­bile ottenere, una volta noti i valori delle variabili non spiegate dal modello (le esogene), il valore delle variabili endogene s.

1.2.2. Le caratteristiche di un modello econometrico

Il seguente modello rappresenta una semplice e generica economia i cui comportamenti aggregati sono definiti in forma analitica:

y1 = al + a2y2 + a3xi + a4ui + eiJ2 = ^1 + b2yi + b3x2 + b4u2 + e2

[ i . i ] = cx + c2y 1 + C3X1 + <?3y4 = yi - y2y4 = y}

Le y rappresentano le variabili endogene, le x indicano le variabili esogene mentre le u indicano gli strumenti esogeni ma controllati dal­le autorità di politica economica. Infine le e rappresentano dei termi­ni di disturbo o errore. Da questo semplice modello emergono tre caratteristiche importanti:i) un aspetto da notare è che il modello è composto soltanto da equazioni lineari. Spesso i modelli specificano relazioni non lineari tra variabili, in altri casi si usa trasformare le relazioni non lineari in rela­zioni lineari prendendone i logaritmi;

6. Un ulteriore aspetto va considerato nella formulazione delle politiche con l ’u ­tilizzo dei modelli: il modello rappresenta un valido strumento flessibile di valutazione quantitativa, che aggrega e organizza un gran numero di informazioni e idee diverse. Il modello acquisisce un valore operativo e costituisce una sintesi essenziale per verifi­care ipotesi e ottenere informazioni rilevanti (Visco, 1987).

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

//) una seconda caratteristica è che nelle equazioni di comportamento (le prime tre), chiamate anche equazioni strutturali, è specificato an- i he un termine di errore, la variabile casuale e, che rende casuale an-< lie le variabili endogene. In un modello le variabili casuali, altrimenti > lette variabili stocastiche o probabilistiche, esprimono l ’incertezza nel modello. Si osservi che i pedici del termine di errore indicano in qua­le equazione si trovano i termini stocastici. In seguito, vedremo che• lutante la stima del modello le tecniche statistiche richiedono delle l'articolari assunzioni su questo termine di errore;///) un ulteriore aspetto importante è che il modello è composto da equazioni di carattere diverso. Le prime tre equazioni specificano i■ oinportamenti aggregati degli agenti e, in quanto tali, sono chiamate equazioni di comportamento ed esprimono le determinanti delle va-i labili endogene. Queste tre equazioni sono chiamate anche equazioni \tDrastiche, in quanto sono composte da una parte nota, determinata■ la coefficienti costanti, e da una parte probabilistica o stocastica che e costituita dal termine di errore. La quarta relazione è una equazione■ 1/ definizione, è definita (generata) da altre variabili del modello, mentre la quinta relazione è una equazione di equilibrio.

Una volta considerate queste caratteristiche possiamo abbandona­le il modello generico e utilizzare un semplice modello econometricoI" i l’economia nazionale. Questo modello è in grado di fornirci ulte­r i or i informazioni sia di carattere tecnico che di politica economica:

Ct = 3.1 + 0 .74Y f - 0 .05R t + elt

L = 0.34 + 0 .2 1Y", - 0 .07R, + e?t

M tD

Pt= 26 + 0 .74Yf - 0 .08R, + eìt

M tD M,s — = M ,

Pt PtYtD = (Yt - Tt)

E X t = 0.87 + 0 .4 7 * - 0 .3 27 , + e4t

Yt - Ct + It + G t + E X

Il m o d e l l o f i .2] è costituito da sette equazioni e le variabili sono de- imiie ioiiic segue: C sono i consumi aggregati, I gli investimenti lordi,1 il |)i(xloilo interno lordo, YD il reddito disponibile, M/P i saldi moni u ri, l'.X le esportazioni nette, Y* la domanda mondiale, T è la

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LEZIONI DT POLITICA ECONOMICA

tassazione e R il tasso di interesse. Utilizzando delle tecniche statisti­che e delle serie storiche relative ad un periodo ben definito per ogni variabile coinvolta si sono ottenuti dei valori numerici per i parametri delle relazioni economiche.

Le variabili endogene sono C, I, R, YD e Y; gli strumenti esogeni di politica economica sono Ms, G, T, le variabili esogene non spiega­te dal modello sono P e Y*. Il modello, per facilitare l’esposizione didattica, non riporta variabili ritardate delle endogene o delle esoge­ne. Infatti il sistema di equazioni [1.2] può essere chiamato un mo­dello statico. In questo caso potremmo togliere anche il deponente temporale in quanto tutte le relazioni sono definite per lo stesso pe­riodo.

Modelli leggermente più complessi incorporano qualche tipo di dinamica. In questo caso, le relazioni tra le variabili che compongono il modello potrebbero essere definite su diversi periodi invece di pre­sentarsi simultaneamente tutte nello stesso periodo. Alcuni aspetti di­namici possono coinvolgere le variabili endogene come, ad esempio, l ’equazione dei consumi e della domanda di moneta, dove potremmo

M fi Mf_2 M f ,avere-------, -------, ... -------, C ^ , C,_2, ■■■ Ct_p, o una struttura di ri-

P t- 1 P (-2 PL—q

tardi ancora più complessa. Un ulteriore esempio di relazione dinami­ca potrebbe coinvolgere l’equazione delle esportazioni nette del mo­dello [1.2], la quale può presentare una struttura di ritardi distribuiti nel tempo del seguente tipo:

E X t = a + fSYf' + y0Yt + + ^2X1-2 + ^3^-3 + ...'k{]Yt_q + <?4/

Questi aspetti dinamici rendono il modello più realistico, ed emergo­no nella stima stessa del modello. Nella realtà abbiamo che la varia­zione di un aggregato (ad esempio la domanda mondiale) non esplica un impatto immediato e completo sui consumi, ma incide su di essi nel tempo, con intensità diversa. Inserire la variabile della domanda aggregata con più ritardi nell’equazione dei consumi tende a catturare questa distribuzione temporale.

Nei modelli dinamici occorre considerare che le variabili ritardate di uno o più periodi sono già note al tempo corrente e quindi rien­trano nella classificazione delle variabili predeterminate. Possiamo quindi classificare tutte le variabili più semplicemente come endogene e predeterminate. Le prime sono spiegate dalla specificazione del mo­dello, tutte le altre concorrono alla determinazione delle endogene e della loro dinamica.

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

Il passaggio da un modello teorico ad una sua espressione quanti- ut iva, definita come modello strutturale, è basato sull 'identificazione■ lei modello. L ’identificazione è costituita da una serie di restrizioni imposte sull’insieme di dati (dataset) relativi alle variabili per rendere coerente la struttura dei dati con una determinata teoria. Questo aspetto è molto importante perché si tratta di imporre alla struttura• Iri dati, definita dalle variabili, una particolare struttura teorica e utilizzare l’inferenza statistica per verificare con test statistici se que-■ tc imposizioni sqpo esatte7. Un ulteriore aspetto critico importante, l.^alo al problema dell’identificazione, è che i dati (produzione,I - rezzi, occupazione, retribuzioni ecc.) sono delle quantità realizzate e misurate dai vari centri statistici con particolari tecniche di rilevazio­ni e campionamento, mentre le variabili teoriche rappresentano le ritenzioni (le scelte) dei soggetti economici dello schema teorico. E■ > >i nprensibile che le variabili teoriche e le variabili misurate non ''in» la stessa cosa. Questi aspetti sono importanti per capire i limiti

• I.-i modelli, i loro sviluppi futuri e il loro utilizzo per la politica■ 11 montica.

Il modello [1.2] è piuttosto aggregato e molto semplice, e anche l i struttura dinamica è assente. I prezzi che solitamente sono consi-■ l< iati una variabile endogena, in questo modello non trovano una pii azione e sono quindi considerati esogeni. Il mercato del lavoro

ii"M e affatto specificato, anche i consumi e gli investimenti sono de-111 mi in maniera molto aggregata. Questi aggregati potrebbero essereI " < ilicati aggiungendo ulteriori equazioni e rendendo il modello più

•I. u.u'liato procedendo con la disaggregazione, ad esempio, dei con- 1 durevoli e non durevoli o degli investimenti in edilizia residen­ci Ir i■ in macchine ed attrezzature. Ovviamente le autorità di politi-

• i i i cnomica utilizzano modelli molto più complessi sia nella speci­lli 1 .ione delle equazioni che arrivano a dimensioni rilevanti (si usa­mi anche modelli con migliaia di equazioni), che nella specificazione■ In la m ic a x .

Il problema è che sulla stessa struttura dei dati (con le stesse variabili) po- in U h hi risultare valide diverse strutture teoriche.

:. Ad esempio, il modello trimestrale dell’economia italiana presentato dalla Ban-1 I li.dia nel n;86, è formato da 729 equazioni di cui 117 sono equazioni stocastiche,

■ ...... i-(|uazioni che endogenizzano variabili di minore importanza e il resto è co- . d i equazioni di identità e condizioni di equilibrio. I modelli del Tesoro bri-

■ .imi. " . d,-l n i i . s k (National Institute o f Econom ie and Social Research) inglese su-i i i n -1 I. m i l l e e q u a z io n i .

2 5

Page 19: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

1.2.3. A termine di errore

Le equazioni del consumo, degli investimenti, della domanda di mo­neta e delle esportazioni nette sono equazioni che riflettono dei comportamenti. Queste equazioni, come già accennato, sono stocasti­che, in quanto sono definite anche da un elemento casuale, chiamato termine di errore o di disturbo. Questo elemento varia ogni periodo (ha il tempo come deponente) e fa parte delle equazioni in cui emerge. Ciò significa che, ad esempio, la domanda di moneta, come tutte le equazioni di comportamento, è composta da una serie di de­terminanti che spiegano questo comportamento e da una parte non spiegata. Si possono anche definire queste due parti delle varie fun­zioni economiche come componente sistematica e componente casuale dell’equazione.

Il termine di errore può “ catturare” effetti e variabili omessi nel­l ’equazione, considerati meno rilevanti o difficili da quantificare. Que­sto termine non è osservabile e varia nel tempo, e l’assunzione che generalmente si adotta è che si comporti come una variabile casuale con un valore medio pari a zero e una distribuzione di probabilità che indica la dispersione intorno al valore medio ipotizzato. Durante l’applicazione delle tecniche di stima alle equazioni per ottenere i va­lori numerici dei parametri, è possibile ottenere una stima della va­rianza (una misura di dispersione dal valore medio) di questa distri­buzione di probabilità, altrimenti incognita.

1.2.4. La forma strutturale e la forma ridotta

Possiamo riprendere le caratteristiche elencate nel modello generico[1.1] , e articolare meglio l’analisi del modello econometrico [1.2]. L ’equazione del reddito disponibile e del reddito sono equazioni di definizione, l’equazione di uguaglianza tra offerta e domanda di mo­neta è anch’essa una equazione di definizione ma assume un molo particolare perché pone in equilibrio un mercato, e viene quindi chia­mata relazione di equilibrio. Il modello è in forma strutturale, in quanto è specificato con relazioni che compongono la struttura eco­nomica. La forma ridotta di un modello costituisce una diversa speci­ficazione derivata dalla forma strutturale, ed è particolarmente impor­tante per ottenere informazioni utili all’analisi di politica economica. La forma ridotta pone le endogene del modello in funzione delle sole variabili esogene o predeterminate (esogene al sistema e strumenti), risultando particolarmente utile nel definire le reazioni dei comporta­menti endogeni alle variazioni degli strumenti. La forma ridona si

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LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

l'iio facilmente ottenere sostituendo le variabili endogene entro l’e-• inazione che si vuole specificare in funzione dei soli strumenti e delle oli- esogene.

Nel modello sopra specificato, se si vuole ottenere una stima di- i' ii:i dell’effetto della tassazione o della spesa pubblica o dell’offerta• li moneta sul pil, è necessario ridefinire il modello in forma ridotta. A < picsto fine, sostituendo le equazioni di consumo, investimento,• | nutazioni nette nell’equazione del reddito da un lato, e risolvendo I • • inazione di domanda di moneta per il tasso di interesse dall’altro Ino, inserendo in qùest’ultima l’equazione di equilibrio del mercato •!• ll:i moneta otteniamo:

- 0 .27Y t = [4.31 + G t + 0.4 Y / - 0 .12R, - 0 .74T J

R t = 325 + 9.25 Y, - 12 .5M t

1 >iK si e due equazioni possono, a loro volta, essere ridotte ad una "l.i in funzione delle sole esogene e degli strumenti, inserendo den-

ii" I equazione del reddito il tasso di interesse specificato dalla se- "iiila equazione:

Y, = ------ [ -34.7 + G t + O A Yf + 15 M t - 0 .74T J0.84

1 'im .la equazione rappresenta la forma ridotta del modello struttura­la I i ’ I per il reddito nazionale. E un modello molto semplice, senza li n imica, ma è sufficiente a far comprendere la particolarità della

i"ima ridotta rispetto alla forma strutturale9. Ovviamente un’analoga• in.i/ione in forma ridotta può essere ottenuta, con lo stesso procedi-

• •" nio, per i consumi, gli investimenti, le esportazioni nette e il tasso ■li inicresse.

Nel modello [1.3] è subito chiaro come una variazione di spesa 1 ni.Mica, della tassazione e dell’offerta di moneta influenzino il reddi- i" ■><■ si vuole misurare la reazione quantitativa del reddito ad una

>. 1 In aspetto importante va sottolineato: la forma ridotta del modello [1.3 ] non imi.11.1 con Ir Ireniche statistiche. Il modello stimato è quello strutturale [1 .2 ] . L a

1.1.11 |>1 111H'i 11■ di im varc l’espressione quantitativa dei parametri e, successivamente, li ■ II. iiu.iu il calcolo «.Iella forma ridotta. Questo aspetto, com e vedremo nel para-• ............ Ihmvo di questo capitolo, costituisce un elemento centrale nello sviluppo

Page 21: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

l.l'.'/.IONI DI POLITICA ECONOMICA

variazione di questi strumenti, basta prendere le derivate parziali (o il rapporto incrementale) del reddito rispetto alla spesa pubblica, la moneta e la tassazione:

[1.4] — f - ------ = 1.19;1 1.5

dGt \ 0 .8 4 1 dMt 0.84= 1.78 ;

àYt ' - 0 .7 4 ’

dT, 0.84= - 0 .88 .

Queste derivate sono chiamate moltiplicatori. Dato che il modello è lineare il loro effetto è simmetrico: un incremento della tassazione conduce ad una riduzione del reddito, ma una riduzione della tassa­zione produce un incremento del reddito dello stesso ammontare. Un effetto simmetrico che, ovviamente, non è più vero con modelli non-lineari. Per modelli più complessi, dotati di una struttura dina­mica, possiamo definire i moltiplicatori d’impatto (il periodo iniziale), quelli ad interim o dinamici (i periodi successivi a quello d’impatto). Quindi, quando il modello (l’economia) è sottoposto ad uno shock esogeno o ad una variazione di uno strumento di politica economi­ca, avremo un effetto quantitativo su tutte le variabili endogene re­lativo al primo periodo, al secondo periodo e così via fino all’esauri­mento dell’effetto dovuto all’indebolimento delle reazioni implicite nel modello.

E opportuno ribadire che la forma ridotta rende esplicite tutte le endogene in funzione delle variabili predeterminate del sistema. Il modello [1.3] rappresenta la sola forma ridotta del reddito. In gene­rale, per modelli molto complessi sia nella dinamica che per la di­mensione, otteniamo sempre forme ridotte simili, nella logica, a que­sto semplicissimo modello-base:

[1.2 .1] Forma strutturale

[1.3 .1] forma ridotta

C = aY + G + eY = C + I

a G eC = ------- 1 + ------- +

1 - a 1 — a 1 -

1 G eY = ------- 1 + ------- +

1 - a 1 —a 1

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Page 22: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

I <• variabili endogene sono i consumi aggregati e il reddito mentre le■ inabili esogene sono spesa pubblica (G) e investimenti (I).

1.2 j . La forma ridotta ristretta

1 in aspetto molto importante delle forme ridotte [1.3] o [ 1 .3 .1] è Ih sono state ottenute stimando il modello in forma strutturale.

' 'M< (essivamente, utilizzando le stime dei parametri e il processo■ li sostituzione delle endogene sopra descritto, si calcola la forma11.lolla. Questa procedura, utilizzata dall’approccio tradizionale, l o i n i s c e la forma ridotta ristretta, proprio perché contiene le re­m/ioni imposte sui coefficienti della forma ridotta dalla forma11 ni turale. Nell’equazione [1.3], ad esempio, il valore (il molti-

I .li. aiore) che ci indica la reazione del reddito al variare dell’of- I ■ na di moneta (1.5/0.84 non è stato ottenuto stimando questa ..inazione, ma è ottenuto stimando il modello strutturale [1.2]. \naIogamente, i valori (i moltiplicatori) che esprimono la reazio-

i" del reddito ad un aumento della spesa pubblica (1.0/0 .84) o 'I. Ila tassazione ( - 0 .74/0 .84) sono stati ottenuti con lo stessoI 'i< 'cedimento.

I ,a stima della forma ridotta pone dei problemi in termini econo-.... .. non individua (identifica) nessuna teoria; nessuna struttura teo-11' a è specificata in maniera esplicita nella forma ridotta, i cui para- "l' iri condensano l’interazione dei comportamenti e delle varie rela- i"tii del modello.

Benché, dal punto di vista economico, la procedura dell’ap- l'iorcio tradizionale sembri appropriata, essa in realtà genera un l'ioUcma rilevante: non considera affatto la struttura dei dati su 'in si impongono le restrizioni del modello teorico. La forma ri-■ lolla, infatti, è la forma congruente per analizzare la struttura l'iohabilistica dei dati, mentre ci possono essere più strutture teo- ii'In- compatibili con la struttura dei dati. Questi aspetti riguar­dino il problema dell’identificazione (identificare la struttura teo- in .1 statisticamente congruente con quella dei dati), e sono im- l’.>iianti per lo sviluppo successivo dei modelli e del loro utilizzo i" 1 la politica economica10.

10. Il problema dell’identificazione non è un problema della teoria economica " 1 dell’analisi empirica. Il problema è com unque cruciale per stimare i modelli eco-

'" " 'i ' irici. Questi aspetti sono trattati in maniera standard sui manuali di econometria.II '."lum e di Favero (2001) costituisce un ’ottima introduzione.

i . I,A TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

29

Page 23: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

1.2.6. La forma compatta

Esiste un’altra forma per rappresentare i modelli e calcolarne le varie soluzioni: la forma compatta. In realtà è un semplice modo di riscrive­re la struttura del modello lineare utilizzando l’algebra lineare: si ri­scrivono le variabili e i coefficienti sotto forma di vettori di variabili e matrici di coefficienti. Ad esempio, possiamo riscrivere il semplice modello base [1.2 .1] in termini di singole equazioni dove a sinistra si riportano le endogene dello stesso periodo, e a destra le predetermi­nate e i termini di disturbo:

r i C - a Y = G + e_ c + y = j

Ovviamente per questo modello non emerge nessun problema per le variabili ritardate in quanto è un modello statico. A questo punto possiamo riscrivere ancora il modello con l’ausilio delle matrici e dei vettori:

1 —a ' C 1 ' 1 0 ' 'G '+

e

- 1 1 _ _ Y_ ,0 1 . . I _ .0 .

Infine, riassumiamo il modello definendo la matrice dei coefficienti delle endogene con A, quella delle esogene con B e le variabili endo­gene ed esogene in forma vettoriale:

[1.5] Ay = Bx + e

dove y, x, e sono vettori di variabili: y' = (C, Y); x '— (G , I); e’ - {e, 0).Ci possiamo chiedere come si rappresenti la forma ridotta con un

modello scritto in forma compatta. Dalla specificazione del sistema [1.3.2] e [1.3.3] emerge in maniera chiara che la matrice dei coeffi­cienti A rappresenta le relazioni al tempo corrente tra le endogene del sistema. Ciò significa che finché questa matrice è moltiplicata per il vettore delle variabili endogene, queste ultime sono in relazione tra loro. Sappiamo anche che la forma ridotta pone le variabili endogene in funzione delle variabili predeterminate. Prendendo l’inversa di questa matrice e pre-moltiplicandola a tutti i termini dell’equazione otteniamo la forma ridotta:

[1.6] y — A~lBx + A -1 e => 3; = ILf + è

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I.A TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

l'>vr abbiamo ridefinito la moltiplicazione della matrice inversa dei "<•1 fidenti delle endogene per, rispettivamente, la matrice dei coeffi- l'Hii delle esogene e il vettore degli strumenti nel modo seguente: I 1 /> = IX A rxe = è. La matrice

a - xb = n

i|'presenta la matrice dei moltiplicatori-, gli elementi di questa ma-H. « rappresentano il rapporto tra le variazioni delle variabili endoge-i. < le variazioni delle variabili esogene e degli strumenti.

I Mitizziamo un esempio leggermente più complesso. Si consideri in nuovo modello strutturale. Il modello differisce dal modello [1.2] ■In. die per la diversa specificazione delle equazioni e dei parametri, ii" In- per il fatto che contiene una struttura dinamica (ci sono i con- "ini rilardati di un periodo nell’equazione dei consumi):

Ct = O .ó lf + 0.2 Q_x + elt

Y ? = (Yt - T t)

Yt = Ct + Gt + 1,

Tt = 0.3 Y t + e2t

i\ 1:11110 il modello in forma compatta, portando a sinistra di ogni ■■ione tutte le variabili endogene al tempo corrente e lasciando destra solo le predeterminate (esogene ed endogene ritardate) e .... . di errore:

q - 0.6 y? = 0.2 q _ x + ^

Y ? - Y t + Tt = 0

-q + Yt = G t + i t

- 0 .3 Y, + Tt = e2t

!i.l' i nno matrici e vettori per riscrivere il modello, semplicemente . " i . m d o il valore dei coefficienti sulle rispettive variabili:

I HI, 0 ()

|| I I I

i n I O

o n il > I

q 0 0 0.2 0 0 0 q-iY» 0 0 q 0 0 0 0 YP-i

— +y, 1 1 0 0 0 0 yt-i■/;.. 0 0 0 0 0 0 j t-1.

Su

0

0

L e 2 t.

\ 1

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

La prima riga della matrice 4 x 4 (4 righe e 4 colonne) nel lato sini­stro ci informa che i consumi entrano nella prima equazione del si­stema con un coefficiente pari a 1; il reddito disponibile con un coef­ficiente di -0.6; il reddito non entra affatto nella prima equazione (il coefficiente è infatti zero) e così pure la tassazione. Si possono legge­re in maniera analoga le altre tre righe della matrice. La seconda riga ci indica che, nel periodo corrente, C non entra nella seconda equa­zione (il coefficiente è 0), che YD entra nella seconda equazione con un coefficiente uguale a 1, che Y ha in questa equazione un coeffi­ciente pari a - 1 e, infine, che T entra nell’equazione con un coeffi­ciente uguale a 1.

Cerchiamo di interpretare il primo membro a destra del segno di uguaglianza del sistema. La matrice 4 x 2 (4 righe e 2 colonne) ci in­forma che le variabili esogene spesa pubblica e investimenti entrano soltanto nella terza equazione con coefficiente uguale a 1. Il secondo membro nel lato destro, una matrice 4 x 4 , ci informa che esiste nel sistema una sola variabile ritardata delle endogene ed entra nella pri­ma equazione con un coefficiente pari a 0 .2 . Per ultimo, il vettore delle variabili casuali ci indica che ci sono due termini di errori, due equazioni stocastiche, e sono la prima e la quarta equazione del si­stema.

Infine, possiamo scrivere il modello in forma compatta:

[1.7] Ayt = BoXt + D xyt_i + et

Si noti che A , B0 e Dj sono matrici di coefficienti, mentre y„ yt_,, xt e et sono vettori di variabili. Precisamente un vettore per le variabili endogene correnti, per le endogene ritardate, per le esogene e per i termini di errore. Le matrici dei coefficienti A e D sono matrici n X n, dove « è il numero delle endogene. Nel nostro caso particolare è una matrice 4 x 4 . La matrice JB0 dei coefficienti è una matrice n x p dove p è il numero di variabili esogene non ritardate. Nel nostro caso la matrice B0 è di dimensione 4 x 2 . Il vettore delle endogene yt, delle endogene ritardate yt e dei termini di errori e, sono vettori n x l (4 x 1 nel nostro caso), il vettore delle esogene è p X 1 (2 x 1).

Si noti che i pedici delle matrici dei coefficienti nel modello [1.7] stanno ad indicare l’ordine dei ritardi. Per le esogene è zero mentre per le endogene la matrice indica che ci sono una o più variabili en­dogene ritardate di un periodo. Ciò indica che per modelli con strut­ture di ritardi più estese sia per le esogene che per le endogene pos­siamo scrivere:

32

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i . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

I , iS | Ayt - B0xt + Bxxt_x + ... + B^xt_k + Diyt_i ++ D2yt-2 + - ■ + ElqVt-q + et

Appare subito evidente l’utilità di una forma compatta: manovrare mediante l’algebra lineare modelli molto complessi con estrema facili- i i I ,a forma ridotta del modello [1.7] è:

1 ' 1 » 1 yt = + èt =» i yt = n ioxz + n2 + èt

I >< 11.) C1.9J, A^Bg = ni0 è una matrice di coefficienti numerici di di­mensione n x p , mentre A~lD 1 = n 21 è una matrice di coefficienti di■ IniK-tisione n X n . Questo modo di descrivere i modelli è valido solo ‘ questi sono lineari. Un modello generico non lineare in forma

■ "inpatta può essere rappresentato nel seguente modo:

I l i o) yt=f(yt, ut, xt)

"" ni re la forma ridotta in termini generici può essere scritta come:

I I yt = ghi-h ut, x,) i> 1

I .1 lorma ridotta pone le variabili endogene in funzione degli stru- "" mi esogeni, ma sotto controllo dell’autorità, e delle esogene al si­li m a.

1-3Le tecniche di simulazione standard

1 'ih sic tecniche utilizzano il modello per ricavare reazioni delle varia­bili e ndogene a sollecitazioni degli strumenti. Le variabili endogene nil'nono i comportamenti aggregati dei vari agenti economici; il mo- ■!■ Ilo con le relazioni di causa-effetto statiche e dinamiche permette, 1111.1 volta sollecitato da una variazione di uno o più variabili di con- n olio, di ottenere la reazione periodo per periodo di questi compor­ci n<-mi. In altri termini le tecniche forniscono il valore dei moltipli-■ ii<ni, ottenuti con determinati shock imposti ad alcuni strumenti...... . oliati dalle autorità o alle variabili esogene (o anche ad alcunii' 11 .iiiu-iri del sistema di relazioni che compone il modello). Esempi ..... . m i di questi shock sono una variazione di una componente di

3 3

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

spesa pubblica o delle imposte o ancora della base monetaria. Si può quindi rispondere a domande del tipo: cosa accadrebbe nel trimestre corrente, in quello successivo, fra tre trimestri e così via al p i l , ai consumi delle famiglie, alla domanda di lavoro, ai salari ecc. se le au­torità di politica fiscale aumentassero i consumi collettivi del 2 %? O riducessero l’aliquota di tassazione di un punto percentuale, o ancora, se le autorità di politica monetaria aumentassero di un quarto di pun­to il tasso di interesse?

Il modello può fornire anche indicazioni riguardo gli shock delle esogene. Ad esempio si potrebbe analizzare la risposta del modello al variare della domanda mondiale o del valore del dollaro. Infine, si potrebbero variare anche parametri per conoscere come reagirebbe l’economia con una diversa propensione marginale al consumo o se l’elasticità degli investimenti al tasso di interesse fosse più elevata di quella stimata.

In termini analitici ciò significa prendere la forma ridotta del mo­dello, che pone in relazione le variabili endogene con le sole esogene e gli strumenti, e calcolare la derivata delle endogene rispetto agli strumenti o alle esogene. Nei modelli econometrici, l’analisi dei molti­plicatori permette in ogni periodo di ottenere un sentiero dinamico della soluzione soggetta a shock e di quella di controllo (soluzione base) per ogni variabile endogena. L ’esercizio consiste inizialmente nell’aumentare o nel diminuire, ad esempio, una particolare spesa pubblica o una aliquota di tassazione, o ancora, un determinato tasso di interesse o i contributi sociali pagati dalle imprese nella definizione di costo del lavoro (tutti strumenti di politica economica specificati spesso come variabili esogene) e confrontare la soluzione dinamica ottenuta con questi shock con la soluzione ottenuta dal modello in assenza di shock.

Lo shock di policy provoca una reazione del modello in termini numerici, producendo una soluzione per il periodo considerato delle variabili endogene (p i l , occupazione, prezzi, consumi aggregati, inve­stimenti ecc.). Questa soluzione viene poi confrontata con quella otte­nuta dal modello in assenza dello shock e lo spread tra le due soluzio­ni costituisce l ’effetto della politica economica. Nei modelli econome­trici i moltiplicatori sono definiti rispetto ad una baseline. Questa so­luzione “traccia” la dinamica dell’economia senza il nuovo intervento di politica economica.

Per ogni variabile endogena, il confronto produce una variazione periodo per periodo, nella sua grandezza attraverso il sentiero pro­grammato. Tale variazione, presa come rapporto della grandezza del-

3 4 I

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i . I,A TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

. I IK A I . Iiminzione di base e simulazione con shock

••liock di policy, fornisce il valore dei moltiplicatori dinamici per ■ni variabile TI.

I :i no. i . i presenta le dinamiche della baseline (soluzione di baseI modello in assenza di shock) e di due sentieri per il p i l determi­

ni da due shock di policy diversi: un aumento della spesa pubblica mi aumento della tassazione.

Tecnicamente, il confronto tra le due soluzioni (di shock e di i e ) può essere facilmente raffigurato con la rappresentazione del■ niello in forma compatta. Utilizziamo il modello in forma ridotta '' |:

j t = n 10x , -i- n 213 V i +

i ',oliiaone~base del modello è il benchmark con cui confrontare lli-tio dello shock della politica o di una variabile esogena. La solu-

i i . Tra i diversi lavori sulle tecniche di simulazione e i metodi di soluzione deiii mi macroeconometrici, spiccano per chiarezza ed esaustività quello di Klein• ,1 < l'air (1984). U n ’introduzione per economisti è quella di Gapinski (1982) e di 1 ili. 11. I lagger (1983).

3 5

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

zione di base si ottiene ponendo il valore dei termini di disturbo uguale al loro valore medio (uguale a zero):

yt ^ U wxt + n 2lyt

Una volta sostituito al valore delle variabili esogene x un nuovo valo­re che tenga conto dello shock x + v, otteniamo la soluzione delle endogene:

yt = n i0(x, + vt) + U ^ y ^

Il confronto di queste soluzioni, non-perturbata e perturbata, permet­te di analizzare l ’effetto generato dalla policy.

[ i- n ] J t - J t

1.3 .1. Shock temporanei e permanenti

Negli esercizi di politica economica con modelli econometrici si di­stinguono quattro tipi di shock. Due di questi, gli shock temporanei e permanenti, interessano i modelli standard caratterizzati da una strut­tura composta da variabili endogene ed esogene e con una dinamica che ammette soltanto dei ritardi e schemi di aspettative di tipo adatti- vo: gli effetti passati incidono anche sul presente. Vedremo più avanti che in presenza di aspettative razionali si possono effettuare due altri tipi di esercizi particolarmente interessanti per i policymakers-. mano­vre di politica anticipate e non-anticipate.

Nelle simulazioni definite con shock temporanei, lo strumento di controllo è perturbato soltanto per pochi periodi mentre con shock permanenti lo strumento è perturbato per tutto il periodo di simula­zione: una volta aumentata, ad esempio, la spesa pubblica, questa ri­mane al nuovo livello per tutto il periodo della simulazione. Al con­trario, una volta che lo shock temporaneo è terminato, il modello tende a riportare le variabili endogene verso la loro soluzione di base. Ciò che è importante sottolineare è che durante gli esperimenti di policy con le simulazioni standard, lo shock è inteso sempre come manovra non-anticipata per gli agenti dell’economia. Questo giustifica anche l’interpretazione di una variazione degli strumenti come shock. In altri termini, si presuppone che i consumatori, gli imprenditori e gli altri agenti che sono alla base delle equazioni aggregate del mo­dello non conoscano l’intenzione delle autorità di manovrare la varia­bile di controllo in una determinata direzione.

36

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i . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

L’approccio della simulazione, owiamente, è stato utilizzato an-■ In- per formulare risposte sperimentali a problemi più complessi. Le inalisi counter-factual sono infatti costituite da ipotetici e complessi ly.j’ iustamenti ai sentieri delle variabili esogene e degli strumenti di t'xhty per cercare di capire le possibili risposte macroeconomiche as-umendo una serie di ipotesi sui valori di queste variabiliI2.

Nella f i g . i . i abbiamo descritto in maniera stilizzata le conse- !'iicnze dinamiche di alcune possibili simulazioni pon shock perma­n e n t i su tassazione e spesa pubblica, mettendo in evidenza la devia­rn e rispetto ad una simulazione ottenuta senza shock. Le t a b b . i . i

' i . > riportano le conseguenze quantitative di simulazioni ottenute '■>n un modello econometrico con due diversi shock permanenti, i Iel la prima tabella, il costo del lavoro è aumentato del 10% per tut- i" il periodo di simulazione, mentre nella seconda tabella lo shock permanente riguarda il tasso di interesse reale che è aumentato per miio il periodo di simulazione di un punto percentuale. In entrambe !■ simulazioni, sono riportati gli effetti immediati (nel primo trime- i ie) su alcune variabili macroeconomiche dello shock e gli effetti su

mi arco di tempo che raggiunge i nove anni. Le soluzioni riportate nelle due tabelle (i moltiplicatori d’impatto e ad interim) sono ottenu- i' mantenendo costanti tutte le altre variabili esogene e di controllo ■lei modello (ceteris paribus). L ’informazione che questo tipo di anali-

i produce per le autorità di politica economica, sebbene importante,■ molto parziale, in quanto nella realtà l’economia è continuamente "iioposta a shock di varia natura.

I Jn aumento del costo del lavoro, incide in maniera immediata su-■ li investimenti e raggiunge il maggiore effetto nel terzo anno con "n i caduta degli investimenti di oltre il 13%. La domanda del lavoro ""il subisce contrazioni nell’arco del primo trimestre e anche nel pri~ "i" anno, indicando che le variazioni dell’occupazione sono condizio- " uè da una certa rigidità nel mercato del lavoro italiano, dovuta pro-

i2. Un lavoro interessante, sotto l ’aspetto didattico, sull’uso dei modelli per la i ■ 'In u ;i economica è quello di Karakitsos (1992). In questo volume viene presentata m inalisi dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria e di quella fiscale

i' un ndo da un semplice modello analitico che via via viene reso più complesso, con 1 ■ 1 elisione dei vari settori dell’economia e con l ’analisi dei nuovi meccanismi di tra­mi-. .ione della politica che le estensioni procurano. Successivamente all’approccio ni il 11 u'o, l ’autore passa all’approccio simulazione per definire i nuovi meccanismi di n 1 missione e gli effetti dinamici della politica economica in presenza di un modello.....li" complesso e di grandi dimensioni. Questo testo, dopo un ripasso delle soluzio-'" di Ile equazioni differenziali e delle regole di differenziazione, può essere alla porta- ' 1 'li si udenti anche di corsi non avanzati. 1

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

T A B E L LA I . ISimulazione: shock permanente sul costo del lavoro (+ 10%). Variazioni percen­tuali

Periodo i° trimestre i ° anno 3° anno 5° anno 9° anno

Investimenti -1.99 —6.68 -13.63 -10.18 -5.94Y/K - 0.02 0.80 0.40 -1.85 - 8.01CU 0.00 -0.42 -1.35 -0.72 0.32L/K - 0.01 -1.38 -2.41 -8.29 - 1 1 . 12L 0.00 -0.42 - 2.20 -4.22 -8.92VA - 0.22 -2.68 -7.38 -9.70 - 12.86

L è la domanda di lavoro; K è lo stock di capitale; VA è il valore aggiunto del settore privato; CU è il grado della capacità utilizzata.

Fonte: Gavosto, Pellegrini (1993).

T A B E L LA 1 . 2Simulazione: shock permanente sul tasso di interesse reale (+ 1 punto). Variazioni percentualiPeriodo t° trimestre i ° anno 30 anno 5° anno 90 anno

Investimenti 0.0 -1.40 -3.80 -5.25 -5.42Y/K 0.0 0.93 1.92 3.90 4.35CU 0.0 -0.07 -0.23 - 0.12 -0.06L/K 0.0 0.92 1.96 4.07 4.89L 0.0 -0.05 -0.65 -1.13 -1.26VA 0.0 -0.30 -0.92 -1.26 -1.41

L è la domanda di lavoro; K è lo stock di capitale; VA è il valore grado della capacità utilizzata.

Fonte: Gavosto, Pellegrini (1993).

aggiunto del settore privato; CU è il

babilmente a contratti di lavoro firmati in precedenza. In questo mo­dello la riduzione della domanda di lavoro non raggiunge il mezzo punto percentuale dopo un anno, ma diventa sempre più rilevante successivamente, man mano che i contratti di lavoro vengono in sca­denza. Il processo di riduzione degli investimenti e dell’occupazione porta il rapporto lavoro-capitale dopo 9 anni ad una riduzione dell’ 11 %. L’attività produttiva mostra un moltiplicatore d’impatto ne­gativo e diviene sensibile con il passare del tempo: dopo 9 anni, il valore aggiunto riporta una caduta di circa il 13%. Questa simulazio­ne indica come, in un determinato periodo, una moderazione salaria­le e/o una riduzione del cuneo fiscale (una componente del costo del lavoro), ceteris paribus, tende ad aiutare in maniera sensibile la do­manda di lavoro e l’attività produttiva.

Aumentando il tasso di interesse reale di un punto, il modello

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T. LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M O DELLI, METODI E PROBLEMI

produce un impatto negativo sull’economia dovuto alla riduzione del processo di accumulazione del capitale, legato, a sua volta, alla con- i l'azione, graduale ma continua, degli investimenti, che raggiunge dopo 9 anni circa il 5 %. Domanda di lavoro e produzione si riduco­no di oltre i '1% dopo 5 anni mentre rimangono piuttosto limitati gli clfetti sulla capacità utilizzata. Nel complesso, questo modello dell’e- conomia italiana fornisce un’informazione rilevante: l ’impatto della variazione sui tassi di interesse risulta modesto.

1-4Il controllo dell’economia come un problema di ingegneria:

la politica economica come “ servomeccanismo”

I/applicazione delle tecniche di controllo ai modelli macroeconomici risale agli anni cinquanta. Diversi autori iniziarono a considerare il sistema economico alla stregua di un sistema di ingegneria. In questo contesto si potevano definire delle regole di stabilizzazione ad hoc che operavano in maniera automatica, qualora l’agire del sistema e della sua dinamica, sollecitata da eventi esogeni, portasse ad una deviazio­ne della variabile-obiettivo dal suo target. Ogniqualvolta si registra questa deviazione, al fine di stabilizzare il sistema entrano in funzione delle regole che definiscono la risposta di politica economica. Le op- 7 zioni in proposito possono essere diverse, con regole di reazione della politica economica basate sulla dimensione della deviazione dal tar­get, sulla storia passata delle deviazioni e sul tasso di variazione della deviazione (un esempio sono le regole di stabilizzazione di Phillips, 1954; i 957)-

La caratteristica importante di questi lavori era il metodo applica­lo allo studio delle interdipendenze delle variabili, che seguiva gli svi­luppi delle applicazioni del controllo ctosed-loop ai sistemi di circuito elettrici. Molti autori sottolineavano la somiglianza tra i modelli eco­nomici e i modelli ingegneristici e, di conseguenza, valutavano positi­vamente la possibilità di risolvere in maniera analoga i problemi eco­nomici. L ’obiettivo era di portare l’economia il più vicino possibile alla soluzione desiderata. La procedura era analoga a quella dei meto­di di controllo. Phillips, nei lavori citati, Tustin (1953), Alien (1955; 1956) e diversi altri autori sottolineavano come il metodo del con-l rollo fosse il metodo più appropriato per studiare gli interventi della politica economica. Alcuni importanti lavori caratterizzavano sin dal litoio questa similitudine: il lavoro di Alien del 1956 titolava in ma­niera indicativa The Engineer’s Approach to Economie Model, mentre il titolo del lavoro di Tustin del 1953 era The Mechanism o f Economie

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

FIGURA 1.2Politiche di controllo del sistema economico

Systems. An Approach to thè Problem o f Economie Stabilization from thè Point o f Vieto o f Control-System Engineering.

La f i g . 1 . 2 propone una descrizione dell’economia e della politica di stabilizzazione coerente con questa visione: un esempio di come sia possibile la regolazione del sistema.

La figura riporta una delle descrizioni di Alien (1956) delle tre politiche di stabilizzazione automatiche di Phillips: la politica propor­zionale if{p)), la politica integrale (f(i)) e la politica differenziale (f(d )). Le tre politiche incidono sulla componente di domanda sotto con­trollo, ad esempio la spesa pubblica (G), in forma di feedback-loop (anelli di ritorno o anelli chiusi) e, a sua volta, questa componente potrà incidere sulla domanda non regolata (Z). Quest’ultima è in­fluenzata anche direttamente dall’andamento del p i l via consumi e in­vestimenti (la parte bassa della figura).

In particolare, qualora nel modello per una ragione qualsiasi in- U-rvcnga un gap tra domanda e offerta produttiva, la politica di stabi­li/./azione opera nel sistema con tre regole dinamiche di politica che drliniscono l e caratteristiche dell’intervento del governo con una ma­n o v r a di s p e s a pubblica:1 I.i pollili .1 ili \t,ihilir7MZÌ(>ne proporzionale, dove la spesa pubblica

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

richiesta è proporzionale e con segno opposto al gap tra produzione corrente e livello di produzione desiderato;2. la politica differenziale dove l ’intervento di spesa pubblica è pro­porzionale e con segno opposto alla variazione dell’attività produttiva corrente;5. la politica integrale dove l’intervento di spesa pubblica è propor­zionale e con segno opposto alla somma delle differenze passate tra valori della produzione e valori desideratiI3.

Ciò che importa qui sottolineare non è tanto le singole caratteri­stiche di intervento automatico di Phillips I4, quanto la visione “mec­canica” dell’intervento che è tipica dei sistemi di controllo automati­co: la stessa logica potrebbe coinvolgere un circuito elettronico o una navicella spaziale. Lo scopo delle autorità economiche è mantenere il sistema economico vicino a determinati sentieri ottimali (tasso natura­li' di occupazione, bassa inflazione ecc.), così come lo scopo degli in­gegneri è quello di mantenere la navicella sul suo sentiero program­mato. Entrambi tentano, con gli strumenti a disposizione, di aggiu- siare le traiettorie endogene basandosi sull’informazione che proviene ' lalla posizione dell’economia o della navicella.

L ’approccio, comunque, ha dei limiti vistosi messi subito in evi-• lenza da diversi autori, qualora si abbandonino modelli piuttosto ■■empiici nella struttura dinamica e/o si considerino modelli non linea­l i . Agli inizi degli anni settanta, Pindyck (1973) poneva in risalto■ oine, con modelli dinamici con una struttura di ritardi complessa e■ dii diversi strumenti di politica economica, l’applicazione di queste n-gole ad hoc (intuitive policies) avrebbe provocato risultati opposti a ‘ lucili cercati, generando oscillazioni indesiderate. Esistono altri limiti1 questo modo di concepire i sistemi economici e gli interventi per1 ■ volarli. In economia, i modelli dovrebbero riflettere, per quanto■ inplici, comportamenti di individui intelligenti, che agiscono in ma-

ra strategica15. Nonostante si sia continuato ad utilizzare questo ipproccio per l ’analisi di politica economica, negli anni ottanta, per

i v L a definizione di politica differenziale proviene dal fatto che le variazioni ■l'Il.i produzione in tempo continuo sono specificate con le derivate, mentre per la i " 'In u à integrale, la somma del gap di produzione in tempo continuo è definita con ......inorale.

1 |. Per una descrizione dettagliata delle caratteristiche delle politiche proporzio­ni il'-. 11i11crenziale e integrale rimandiamo al volume di G andolfo (1977).

1 ,. Nel c a p . 3 , in particolare, analizzeremo i problem i che incontra la politica.......unica proprio in presenza di modelli con individui con aspettative sul futuro e•n ■ niMportamenti strategici.

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U/ZIONI DI POLITICA ECONOMICA

utilizzare le parole di Currie (1985), era ormai incontrovertibile il fat­to che

thè analogy between engineering and economie systems which inspired much of thè early work on control theory in economics is, quite simply, mislea- ding. Economie systems, like all systems of social interaction, are intelligent in a way that engineering systems are not. In economics, we are concerned with thè control of intelligent systems that think about what policy-makers do to them and act accordingly.

Un elemento che arricchisce l’analisi notevolmente e la distingue for­temente dai servomeccanismi elettronici.

Vedremo più avanti che l’evoluzione della teoria macroeconomica e della politica economica, basata proprio su alcuni aspetti indicati da Pindyck e Currie (modelli dinamici con operatori intelligenti e for- ward-looking), porterà a capovolgere questa critica e a sviluppare un approccio teorico e metodologico della politica economica basato su semplici regole di intervento.

Il controllo dell’economia come problema di ingegneria: il controllo ottimo

1.5 .1. L ’approccio target-strumenti

Un ulteriore metodo per l’analisi della politica economica che utilizzai modelli econometrici è l ’approccio target-strumenti. Il metodo, svi­luppato negli anni cinquanta, richiede, rispetto alle simulazioni stan­dard, una esplicita specificazione del target di politica economica. Con questo metodo le autorità di politica possono attribuire dei valo­ri desiderati per alcune variabili endogene, come ad esempio una cer­ta crescita del p i l , un particolare livello del tasso di inflazione o della disoccupazione ecc. Una volta resi espliciti i valori desiderati per gli obiettivi, l’approccio, che è una estensione della procedura di Tinber- gen (1952; 1956) ai modelli dinamici, permette di calcolare il valore ottimo per lo strumento che si intende utilizzare: il valore dello stru­mento che permette di raggiungere il valore desiderato dell’obiettivo. Se si vuole raggiungere, ad esempio, un tasso di inflazione del 2% , si sceglie lo strumento più appropriato, specificato in forma esogena nel modello (il tasso di interesse o la base monetaria) e si permette al modello di trovare il valore che lo strumento scelto dovrebbe rag- ginn «ere per ottenere il tasso di inflazione desiderato.

Anche per questo metodo risulta centrale la forma ridotta del mo-

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

dello. Abbiamo già sottolineato che questa forma del modello mette in relazione la variabile obiettivo con la variabile strumento. Ripren­diamo il modello strutturale [1.5] l6:

Ay = Bx + e

dove, come specificato dal sistema [1.3.3], A e B sono due matrici di coefficienti di dimensione n x n. Possiamo semplificare ancora la for­ma ridotta di questo modello, ponendo i termini di disturbo uguali al loro valore medio (zero):

y = IIx

con A~1B = D, una matrice di coefficienti di dimensione n x n. So­stituendo al posto delle variabili endogene definite come obiettivi dei valori desiderati si può ricavare la soluzione ottima per le variabili di controllo: dato il modello, i valori degli strumenti soddisfano i valori desiderati per gli obiettivi:

I.i. 12] x* = II” 1);*

Nella [1.12 ] le variabili con asterisco indicano i valori ottimi (per gli strumenti) e/o desiderati (per gli obiettivi).

La condizione necessaria per applicare questo metodo è chiamata regola di Tinbergen: la dimensione degli strumenti deve essere uguale alla dimensione degli obiettiviI7. Se si hanno due obiettivi di politica economica con dei valori desiderati, la condizione necessaria per l’esi­stenza di una soluzione di controllo richiede l’utilizzo di due stru­menti. Questa regola è chiamata condizione di controllabilità l8. Nei modelli dinamici questa condizione è meno stringente in quanto la lunghezza dell 'orizzonte temporale è importante per la dimensione de­sili strumenti. L ’orizzonte temporale della politica economica è la lun­

16 . Si ricordi che la dimensione temporale non è specificata perché il modello è Malico.

17 . Un ottimo testo al riguardo è quello di Oraziani e V inci (1992). In questo volume gli autori utilizzano Xinstrument-target approach con una serie di modelli m a­croeconomici e diversi obiettivi (stabilità monetaria, occupazione, equilibrio dei conti 1011 l ’estero). Questo volum e è importante anche perché costituisce il prim o testo di politica economica in Italia (la prima edizione è del 1979) che utilizza in maniera det- laj'Jiata ed estesa l ’approccio di Tinbergen.

r8. Sulle condizioni di controllabilità di un sistema econom ico si veda la tratta­zione di Petit (1990) e Balducci, Candela (19 9 1). U n ’ottima introduzione è nel testo di Turnovsky (1977).

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

ghezza della sequenza di misure di politica economica. Una manovra espansiva si propone di ottenere particolari obiettivi in termini di produzione e occupazione in un determinato arco di tempo che può essere definito anche in anni. Se, ad esempio, per sollecitare l’econo­mia si decide di utilizzare una riduzione della tassazione, questa ridu­zione può essere effettuata con modalità diverse nello stesso arco di tempo per raggiungere gli obiettivi programmati.

1.5.2. Politiche feasible

Occorre una certa cautela nel definire la politica ottima (o ottimale) con l’instrument-target approach. Questo tipo di simulazioni ha diversi problemi. Un primo elemento critico riguarda la difficoltà di definire il valore del target che può risultare, periodo per periodo, non feasi­ble (può non essere ammesso alle possibili soluzioni del modello); una situazione che, quando si verifica, può richiedere agli strumenti valori particolari e non realistici. Con un modello econometrico, e un determinato valore desiderato per alcune variabili obiettivo, si può ottenere dalla forma ridotta un valore per lo strumento che permette di raggiungere l’obiettivo ma che può risultare del tutto privo di sen­so: ad esempio per ottenere un’inflazione al 2% la soluzione del mo­dello mi potrebbe richiedere un incremento dei tassi di interesse di 15 punti percentuali: una soluzione che può implicare una recessione politicamente non gestibile. Questo aspetto è importante perché chia­risce che anche per gli strumenti le autorità dovrebbero specificare dei valori desiderati o quantomeno delle soglie che ne limitano la di­mensione e la variabilità. In questo approccio è assente ogni costo di aggiustamento delle variabili di controllo. Manovrare in maniera rapi­da alcuni aggregati e variabili monetarie può non essere un problema per una banca centrale, mentre la variazione rapida e frequente degli aggregati di spesa pubblica e delle aliquote di tassazione è piuttosto inverosimile.

1.5.3. U problema dell’incertezza

Un secondo aspetto importante riguarda l’incertezza additiva del mo­dello. L ’incertezza che coinvolge il modello è molto importante per la formulazione e la valutazione delle previsioni di politica economica. Possiamo indicare due tipi di incertezza.i) L ’incertezza nelle variabili. Le endogene del modello sono esse stesse variabili casuali perché una componente che le spiega, il termi­ne di errore, è una variabile casuale che ha una determinata distribu­

l I

i

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

zione di probabilità. Questa forma di incertezza è chiamata incertezza additiva, proprio perché il termine di errore è un termine addizionale nelle equazioni di comportamento.ii) L ’incertezza nei parametri del modello. Questa forma di incertez­za,- chiamata incertezza moltiplicativa, è più problematica in quanto coinvolge direttamente le relazioni tra variabili endogene e variabili esplicative.

L ’incertezza additiva, come abbiamo visto, non incide sulla defini­zione della politica ottima: la situazione descritta è di perfetta certez­za. Se l’elemento stocastico invece che additivo, e quindi indipenden­te dal livello della variabile di controllo, è moltiplicativo (ad esempio potrebbe interessare direttamente il coefficiente o la matrice dei coef­ficienti B), la proposizione di Tinbergen sulla condizione di controlla­bilità non è più applicabile. In questo caso l’effetto della variazione dello strumento sull’obiettivo non è più certo ma stocastico. Brainard (1967) dimostra che in presenza di incertezza (disturbi stocastici mol­tiplicativi) è conveniente utilizzare tutti gli strumenti a disposizione ma in maniera più cauta piuttosto che attenersi alla regola di Tinber­gen di uno strumento per un obiettivo. L ’incertezza sugli effetti delle manovre induce le autorità a distribuirne il rischio tra i diversi stru­menti.

In presenza di incertezza sui principali parametri che descrivono i meccanismi di trasmissione delle politiche monetarie e di bilancio, la politica dovrebbe essere attuata in maniera “ cauta” . In altri termini, il principio di cautela di Brainard asserisce che quando l’incertezza coin­volge la struttura dell’economia, le politiche economiche dovrebbero essere effettuate in maniera meno vigorosa di quanto richiederebbe una situazione in assenza di incertezza. Questo principio dipende dal­le varie politiche e dai parametri che compongono la struttura del modello, ed è stato utilizzato per spiegare la cautela delle banche centrali nel manovrare i tassi di interesse I9.

1.5.4. Come analizzare i trade-off dell’economia?

Un terzo problema ancora più rilevante è che l’approccio strumenti- target non consente di studiare i trade-off dell’economia, cioè le rela­zioni inverse tra i target di politica economica. Molti obiettivi ma­croeconomici su cui le autorità hanno dei valori desiderati sono in relazione inversa tra loro. Un tipico esempio è la relazione tra tasso

19 . Si veda ad esempio, nel Bollettino mensile della Banca centrale europea del «ennaio 2001, l ’articolo La politica monetaria in presenza d i incertezza.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

di inflazione e tasso di disoccupazione. Entrambe queste variabili sono considerate dei “mali” e lo scopo della politica economica è quello di cercare di ridimensionare il loro valore. Tuttavia, i compor­tamenti e la struttura economica spesso generano una relazione inver­sa tra queste variabili, rendendo difficile la loro riduzione contempo­ranea. Politiche di riduzione della tassazione o di aumento della spesa pubblica o, ancora, di aumento dell’offerta di moneta possono ridur­re il tasso di disoccupazione, ma spesso causano una accelerazione dei prezzi e viceversa.

A questo riguardo, si sviluppava rapidamente in quegli anni un approccio allo studio della politica con i modelli macroeconomici vol­to a risolvere questa lacuna. Ciò avveniva in concomitanza con un maggiore utilizzo delle tecniche di calcolo nell’economia e contempo­raneamente all’aumento della capacità di calcolo dei computer.

Per introdurre il metodo del controllo ottimo, possiamo far riferi­mento al metodo di derivazione del comportamento dell’agente mi­croeconomico, sia esso consumatore o imprenditore. Questi compor­tamenti, studiati in microeconomia, sono specificati assumendo agenti che massimizzano una particolare funzione (di utilità per il consuma­tore e di profitto per l’impresa), dove vengono espressi obiettivi o preferenze, tenendo conto tuttavia dei vincoli imposti al raggiungi­mento di questi obiettivi dalla tecnologia o dal vincolo di bilancio. Dalla massimizzazione della funzione di utilità, il consumatore, rispet­tando il vincolo di bilancio, definisce la sua offerta di lavoro e la sua domanda di bene ottima per ogni salario reale offerto e per ogni prezzo di equilibrio, mentre l’imprenditore, rispettando il vincolo del­la tecnologia produttiva, definisce la sua offerta di produzione e do­manda di lavoro ottima per ogni salario reale domandato e per ogni prezzo di equilibrio.

In maniera analoga a famiglie e imprese, in termini metodologici si assume che l’istituzione di politica economica, o il governo, sia in grado di definire una funzione di benessere sociale e che questa pos­sa concretizzarsi nella specificazione di una funzione obiettivo 20. Il policymaker definisce una funzione obiettivo, dove può esprimere dei valori-target per diverse variabili endogene e per gli strumenti che in­tende utilizzare, con lo scopo di guidare l’economia quanto più vicina possibile ad essi. In questo tentativo, il policymaker è vincolato dalle relazioni economiche esistenti che definiscono i vari mercati, e che tecnicamente sono rappresentate dal modello. Anche in questo caso,

( )vvi:inu-nlr la formulazione di queste preferenze è solo implicita nei provve­dimi mi e nelle misure delle autorità di politica economica.

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

il policymaker risolve un problema di ottimizzazione: cercando di massimizzare la funzione obiettivo, tenta di raggiungere i valori desi­derati, ad esempio, definiti in termini di crescita dell’occupazione o del p i l . Alternativamente, il problema di ottimizzazione può concre­tizzarsi con il tentativo di minimizzare una funzione di perdita, cer­cando di ottenere dei valori minimi per ciò che considera delle pato­logie, come, ad esempio, l’inflazione o la disoccupazione. In termini metodologici, in entrambi i casi il policymaker sta tentando di ottene­re la soluzione migliore (ottima); quella soluzione che gli rende il va­lore massimo della sua funzione obiettivo (o il valore minimo, se uti­lizza una funzione di perdita).

La procedura di ottimizzazione è effettuata manovrando gli stru­menti predisposti in modo tale da raggiungere o avvicinarsi il più possibile agli obiettivi designati e specificati nelle funzioni obiettivo o di perdita. Tuttavia, così come il consumatore è vincolato nel suo processo di ottimizzazione della funzione di utilità dal suo vincolo di bilancio, il policymaker dovrà esprimere la sua politica ottima tenen­do conto del sistema economico. Nello specificare i valori desiderati delle variabili obiettivo e manovrare gli strumenti disponibili per rag­giungerli, dovrà tener conto dell’intera economia, cioè dei comporta­menti e delle relazioni tra agenti nella loro dimensione qualitativa, quantitativa e dinamica, nonché del contesto istituzionale che regola- menta tali relazioni. In altre parole, il policymaker dovrà ottimizzare la sua funzione obiettivo soggetto al vincolo del modello economico che rappresenta l’economia.

Le autorità che definiscono e mettono in opera le manovre di po­litica economica sono considerate agenti “ razionali” , nel senso che si assume che siano capaci di specificare una lista di obiettivi con delle priorità precise che mirino a massimizzare l’utilità di tutti gli indivi­dui che rappresentano.

Il metodo del controllo ottimo è applicato dalla letteratura sulla politica economica sia ai modelli teorici che ai modelli econometrici. La logica è quella di sfruttare le conoscenze del modello economico e le preferenze delle autorità per ottenere soluzioni ottime e, in quanto tali, non migliorabili nelle stesse circostanze. Nei modelli dinamici, l’o­biettivo è trovare il sentiero ottimale dello strumento o del set di stru­menti a disposizione. In questo caso abbiamo un periodo di program­mazione dove la soluzione ottima della politica economica corrisponde ad una serie di valori, periodo per periodo, per gli strumenti utilizzati.

Nei modelli dinamici, la politica ottima è il sentiero di valori che gli strumenti devono assumere affinché si ottenga un sentiero delle endogene-obiettivo più vicino ai valori desiderati e specificati nella

4 7

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

R IQ U A D R O 1 . 2

Funzione obiettivo e preferenze collettive

La funzione di preferenza del policymaker utilizzata dalla letteratura teorica sul controllo ottimo non può riflettere le preferenze collettive. Esiste un noto teorema dell’economia del benessere, il teorema del­l’impossibilità di Arrow, che mostra come non sia possibile costruire una funzione di preferenza collettiva partendo da preferenze indivi­duali, senza non rispettare uno dei quattro assiomi postulati da Arrow come condizione necessaria per definire una funzione di preferenza collettiva.

Ottenere una preferenza collettiva o sociale significa aggregare le pre­ferenze individuali. Trovare un modo o un meccanismo per attuare que­sta aggregazione è tuttavia molto difficile. Si può dimostrare che l’aggre­gazione suU’ordinamento numerico come la votazione di maggioranza può essere facilmente manipolata. Un modo di aggregare le preferenze per ot­tenere la preferenza collettiva dovrebbe avere alcune proprietà desidera­bili. In particolare: i) le preferenze sociali dovrebbero godere delle pro­prietà di completezza, riflessività e transitività (così come le preferenze in­dividuali); inoltre ii) il meccanismo di decisione collettiva dovrebbe per­mettere di preferire un’alternativa ad un’altra se tutti preferiscono la pri­ma alternativa; Ut) un’ulteriore proprietà riguarda l’ordinamento delle al­ternative: le preferenze su due alternative non dovrebbero essere ordinate con altre alternative. Benché molto plausibili le proprietà elencate non sono soddisfatte da un meccanismo di decisione collettivo; iv) se questo meccanismo esiste allora deve essere una dittatura: l ’ordinamento sociale è l’ordinamento di un solo individuo.

Questa asserzione costituisce il teorema dell’impossibilità di Arrow e implica che non esiste una maniera perfetta (nel senso che rispetti le quattro condizioni, l’ultima espressa come teorema è detta di non-dittato- rialità) di aggregare le preferenze individuali per costruire una funzione di preferenza sociale. Spesso, ad esempio, la terza condizione, quella delle preferenze non irrilevanti non è rispettata.

Il teorema ci impedisce di considerare la funzione obiettivo come fun­zione di preferenza collettiva o di benessere sociale. Vedremo nei capitoli successivi che la funzione obiettivo non può essere pensata come stru­mento formale per definire le preferenze collettive, bensì quelle dell’ese­cutivo o delle autorità legate al governo in carica: spesso il governo ha l ’incentivo a specificare delle preferenze non legate affatto al benessere collettivo. La letteratura su questi aspetti è rilevante. Sul teorema dell’im­possibilità, e in genere sull’economia del benessere, si trovano ottime in­troduzioni sui manuali di Microeconomia. Si vedano i testi di Varian ( 199}), Kreps (1990), Gravelle e Rees (19 8 1). U n’ampia trattazione è in A e o c o l l a ( 2 0 0 2 ) .

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

funzione. In questo caso la definizione di politica ottima è più appro­priata che nel metodo di Tinbergen precedentemente menzionato, in quanto oltre ad essere basata sulle relazioni e i parametri dell’intero modello, le soluzioni ottenute per gli strumenti di policy sono legate anche al processo di massimizzazione del policymaker. Con questo metodo è possibile ottenere da un modello le informazioni riguardo le migliori relazioni tra obiettivi in conflitto, specificando, ad esem­pio, direttamente il trade-off nella funzione obiettivo.

1.5.5. H controllo ottimo: la funzione obiettivo

Le applicazioni del controllo ottimo ai modelli macroeconomici han­no i loro fondamenti nei lavori di Simon (1956) e Theil (1957), seb­bene il metodo diventerà popolare solo agli inizi degli anni settanta, quando si realizzeranno un certo numero di applicazioni a modelli econometrici, perlopiù utilizzando modelli per le economie degli Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada. Inoltre, come enfatizzato da Fair (1974), citando lo stesso Pindyck (1973), e Shupp (1972), ancora ne­gli anni settanta, era convinzione di molti che l’applicazione del con­trollo ottimo per modelli complessi di medie e grandi dimensioni ri­sultasse dubbia, considerata la capacità di calcolo che la tecnica ri­chiedeva. L ’analisi empirica e sperimentale della politica economica trovava ancora dei limiti nello sviluppo della tecnologia (software) ne­cessaria per ottenere rapidamente e a basso costo una serie di simula­zioni del modello. Tralasciando gli sviluppi più tecnici21, possiamo affermare che la moderna letteratura sulle tecniche di controllo otti­mo ha permesso di analizzare i problemi macroeconomici più impel­lenti, che comprendono, tra l ’altro, l’utilizzo di modelli con diverse forme di incertezza, e diverse istituzioni di politica economica 22.

2 1. Questi aspetti sono legati agli algoritmi di calcolo e alla loro capacità di otte­nere soluzioni ottime con una certa attendibilità con le più disparate forme funzionali del modello e della funzione obiettivo.

22. Tra i lavori essenziali su cui si è sviluppata la letteratura moderna, vanno ricordati, oltre quelli citati nel testo, quelli di Theil (1964); Pindyck (1973); Chow ( 1981); Kendrick (19 8 1); Preston e Pagan (1982). Ottime rassegne sono quelle di H u ­ghes Hallet e Rees (1983); H olly e Hughes Hallett (1989); Petit (1990). In lingua ita­liana sono da ricordare i lavori di Sitzia (1979), Carrara (1987) e Chiarini (1990). Il volume di Balducci e Candela (19 9 1) riporta un’esposizione sistematica della teoria del controllo. Questa letteratura costituisce un impegno troppo gravoso per lo stu­dente, in quanto richiede, oltre ad una buona padronanza dell’algebra lineare, anche la conoscenza dei metodi di ottimizzazione dinamica e dei metodi di soluzione nume- liea. Per gli studenti di corsi avanzati è comunque consigliabile il testo di Pindyck e i|iiello di Chow.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

La specificazione di una funzione obiettivo, cioè la forma mate­matica delle preferenze del policymaker, è l’aspetto più critico dell’ap­proccio del controllo ottimo. Questa specificazione è ciò che contrad­distingue il metodo dagli altri approcci. Due aspetti vanno ricordati con particolare attenzione. Il primo aspetto riguarda la procedura di ottimizzazione della funzione che è vincolata dalla struttura dinamica del modello. La funzione obiettivo determina la possibilità concreta di ottenere alcuni target manovrando alcuni strumenti di politica. De­finire i target può essere piuttosto semplice, ma la funzione obiettivo deve esser compatibile con l’intera struttura dinamica del modello e le circostanze del periodo coinvolto, riflesse nei valori delle esogene. La sua specificazione si concretizza, in realtà, in un processo di anali­si non indifferente che coinvolge le equazioni del modello, i coeffi­cienti, le variabili esogene, i pesi di penalizzazione nella funzione obiettivo e i valori desiderati dei target e degli strumenti. L ’approccio del controllo ottimo prende in considerazione l’intero sistema delle interrelazioni che compongono il modello e costituisce perciò il meto­do più sistematico per analizzare la politica economica con i modelli econometrici.

Un ulteriore aspetto, che riveste un ruolo particolarmente impor­tante nella soluzione trovata, riguarda la forma matematica della fun­zione obiettivo. Spesso si utilizzano modelli dell’economia lineari (o equazioni lineari nei logaritmi). In questo contesto viene spesso defi­nita una funzione obiettivo quadratica per riflettere le preferenze delle autorità perché, oltre a garantire alcune proprietà desiderabili, con modelli lineari e funzioni quadratiche si ottengono ottimi globali. La soluzione in questo caso fornisce valori per gli strumenti che produ­cono il valore più elevato possibile ottenibile per la funzione obietti­vo; una soluzione che non può essere superata da valori alternativi per gli strumenti (da politiche economiche alternative). In caso con­trario l’ottimo trovato è un ottimo locale. Tuttavia, è bene ricordare che è difficile pensare che le preferenze del policymaker siano rap­presentate da questo schema lineare-quadratico 23.

23. L ’approccio non va confuso con schemi alternativi di valutazione del pro­cesso di decisione, adottati nell’analisi di politica economica, quali quelli che vengono definiti come satisjicing approach, dove i valori degli obiettivi sono quelli ritenuti sod­disfacenti (o accettabili). In questo metodo, la soglia di accettazione viene di volta in volta rivista verso l ’alto o verso il basso in maniera concorde con la performance otte­nula, e giudicata superiore o inferiore alle aspirazioni (Mosley, 1976). L ’inconveniente di quc.slo approccio, così come quello delineato da Tinbergen e poi generalizzato a sisleini dinamici, risiede nella mancanza di un criterio sistematico per valutare i trade­nti dell’eeonomia.

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

Nei modelli macroeconomici, le relazioni inverse tra obiettivi (trade- off) non sono necessariamente specificate in maniera diretta, in una singola equazione, ma fanno parte di un sistema più ampio e com­plesso. Con l’ausilio delle tecniche di ottimizzazione, il trade-off tra disoccupazione e inflazione o quello tra equilibrio esterno (bilancia commerciale) e crescita interna possono essere quantificati nella loro dimensione ottima. La relazione tra disoccupazione e inflazione è spesso specificata da una curva di Phillips; tuttavia le variabili coin­volte, disoccupazione (o l’output) da una parte, e variazione dei prez­zi (o dei salari) dall’altra, sono variabili endogene e determinate in maniera congiunta ad altre equazioni. Con le tecniche di controllo ot­timo, il trade-off può essere analizzato specificando direttamente per disoccupazione e inflazione i loro valori desiderati e la loro importan­za relativa mediante appositi pesi nella funzione obiettivo (in questo caso funzione di costo). La minimizzazione del valore di questa fun­zione, tenendo conto dell’intero set di equazioni e di parametri del modello, produrrà il valore ottimo degli strumenti. Considerati i valo­ri desiderati per gli obiettivi e la loro importanza relativa, la politica ottimale che più si avvicina alla soluzione desiderata per disoccupa­zione e inflazione non può essere migliorata. Utilizzando le tecniche di ottimizzazione è possibile derivare le migliori possibilità (non do­minate) del trade-off implicite nel modello utilizzato, variando i para­metri della funzione obiettivo.

Per meglio caratterizzare l’approccio, analizziamo una funzione di perdita o di costo. Ci riferiamo ad un costo da minimizzare in quanto nella funzione le variabili rappresentano patologie che vanno ridimen­sionate, per quanto è possibile, con politiche adatte. Occorre trovare le politiche che minimizzano la seguente funzione:

[1 .1 3 ] / = rj{U - U*)2 + [i(P - P')2

J indica la funzione di utilità del governo, mentre gli argomenti di questa funzione sono rappresentati dalla disoccupazione e dal tasso di inflazione che divergono dai rispettivi valori desiderati. La funzio­ne è quadratica, ed è definita dalla somma delle deviazioni al qua­drato delle due variabili di interesse dai loro target. La somma è ponderata da pesi che indicano le priorità del policymaker rispetto alle variabili obiettivo della funzione. In particolare 17, fi indicano l’importanza relativa che le autorità attribuiscono al raggiungimento dei due obiettivi. Infine, notiamo che la [1.13 ] è una semplice fun­zione di perdita statica. Funzioni più realistiche sono definite su un orizzonte di programmazione, specificando per ogni periodo il valore

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

dei pesi e i valori desiderati. Una specificazione dinamica della fun­zione di costo prevede che gli obiettivi, i pesi di penalizzazione e le realizzazioni delle variabili endogene varino nel periodo di program­mazione 1, ..., T:

J = 1 L n M - u y + - P D 2 ]t= i

Oltre ad essere statica, nella funzione [1.13 ], per semplicità, non è stata inserita alcuna variabile di controllo. Gli argomenti di questa funzione sono delle variabili obiettivo, mentre abbiamo accennato, parlando dell’approccio di Tinbergen, di come sia importante inserire direttamente nella funzione da massimizzare o minimizzare anche gli strumenti utilizzati. Questo per evitare che la politica ottima non de­generi in valori o in una dinamica non realistica. La funzione [1.13 ] ha delle proprietà rilevanti.i) In primo luogo è facile constatare che il minimo della funzione di costo si ottiene quando Ut = U't e P, = P"t. La politica ottima è quindi quella che produce (o si avvicina di più a) questi due valori per l’inflazione e la disoccupazione.ii) Un secondo aspetto rilevante riguarda l’effetto simmetrico implici­to in questa funzione rispetto alle deviazioni della disoccupazione e dei prezzi dai rispettivi target: essendo specificati in forma quadratica, ciò significa che sulla funzione di costo / si produce lo stesso effetto sia se la politica genera una deviazione in eccesso dal target, sia se si ottiene una deviazione per difetto dal target. Se si fissa come target un tasso di disoccupazione al 4 % della forza lavoro, in questo caso se la politica riesce a produrre un tasso di disoccupazione del 6% (su­perando il target in eccesso) o, viceversa, riesce ad ottenere un tasso del 2% (un valore in difetto rispetto al target), creerà la stessa disuti­lità o costo24. Un esempio grafico chiarisce meglio questo punto. Nella f i g . 1 . 3 riportiamo una funzione di costo quadratica il cui ar­gomento è il tasso di disoccupazione. Il punto di ottimo è costituito dal tasso di disoccupazione naturale U*. A questo punto la funzione raggiunge il suo minimo e le politiche che conducono a questo ri­sultato sono politiche ottimali. La particolarità della funzione è che tassi di disoccupazione in eccesso o in difetto, rispetto al tasso natu­rale di disoccupazione, producono la stessa penalità in termini di fun-

C.iò è sicuramente un difetto delle funzioni quadratiche: è certamente preferi­bile oiiciH'iv dei valori per le patologie economiche di dimensione ridotta.

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

FIGURA 1 .3Funzione di costo quadratica

zione di costo. Ottenere un tasso di disoccupazione superiore al tasso naturale di due punti percentuali e ottenere un tasso di disoccupazio­ne inferiore al tasso naturale produce gli stessi effetti sulla funzione di costo. In termini economici, certamente i due risultati non sono indifferenti al policymaker.iii) Un terzo aspetto rilevante è che una funzione di utilità quadratica con dei pesi sulle variabili produce delle curve di indifferenza che sono delle ellissi con il centro definito dai target U*, P*.

Questo ultimo aspetto può essere visto calcolando il saggio margi­nale di sostituzione (s m s ) tra le due variabili obiettivo.

d]~ = 2 ì](U - U*) dU

d a c u i s i r ic a v a i l s m s :

JL dp

dU

dj= 0 ; - L = 2fi(P - P*) = 0

dP

dU _ f i { P - P *)

~dF ~ ~n(u - u f

/ f / '

f | f m ROMA. W-

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

F IG U R A 1.4Curve di indifferenza di una funzione quadratica

La f i g . 1.4 mostra che possiamo dividere le ellissi in quattro qua­dranti. Il trade-off tra i due obiettivi si troverà su una curva dei quat­tro quadranti e ciò dipende dai valori di U, P che possono risultare superiori o inferiori ai rispettivi target U*, P*. Ad esempio, nel primo quadrante, come mostra la figura, sia la disoccupazione che l’inflazio­ne sono superiori al loro valore di target. In questo caso, curve di indifferenza più interne rappresentano un costo minore e quindi una disutilità minore. Nella figura, infatti, (U*, P*) <J 1< J2 <J3 -

Quando i pesi sono uguali ì] = fi, questa ellisse diventa un cer­chio. E importante notare che con le seguenti condizioni, P* = U* - 0 e rj~ fi, avremo le usuali curve di indifferenza concave (ana­loghe a quelle del primo quadrante della figura) con l ’origine degli assi che rappresenta i valori desiderati di zero inflazione e zero di­soccupazione.iv) Un quarto aspetto da ricordare è legato ai concetti di incertezza richiamati sopra. Una situazione di incertezza conduce a fluttuazioni casuali intorno alle soluzioni di politica economica (al sentiero ottimo delle variabili di controllo). Simon e Theil, in alcuni lavori apparsi su “ r.( oiioimiiica” nella seconda metà degli anni cinquanta, hanno eia-

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBI,EMI

F IG U R A 1.5Politica ottimale

borato il principio di equivalenza della certezza. Questo principio sta­bilisce che in presenza di modelli lineari e funzioni obiettivo quadra­tiche, e con incertezza additiva, il termine di disturbo stocastico non altera la soluzione ottimale. Quindi presentare soluzioni deterministi­che in termini di politica ottimale non risulta particolarmente restrit­tivo.

La politica ottimale è definita dalla minimizzazione della funzione obiettivo [ 1.13 ] ed è sottoposta al vincolo definito dall’economia.

La f i g . 1.5 riporta un semplice esempio visivo di una politica otti­ma e delle sue conseguenze in termini di variabili obiettivo. Il valore ottimo (punto A) per l’obiettivo e lo strumento è stabilito dal punto di tangenza tra la pendenza della funzione obiettivo e l’inclinazione del vincolo costituito dalla forma ridotta del modello lineare. Il mo­dello economico nella f i g . 1.5 è espresso dalla relazione diretta tra Y e U. Il modello mette in relazione una variabile endogena con una variabile di controllo ed è una relazione lineare. In altre parole, con­siderati i valori desiderati per le variabili obiettivo e di controllo (Y*, U*), la massimizzazione della funzione obiettivo, che rappresenta le preferenze del governo, produce, sotto il vincolo definito dal mo­

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

dello economico, i migliori valori raggiungibili dal punto di vista del governo.

Dalla figura emerge, ad esempio, che la politica ottimale non rie­sce ad ottenere i target desiderati in termini di Y* e U*. Nel punto A, i valori del generico obiettivo Y e del generico strumento U sono inferiori a quelli specificati dalle autorità come target. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le condizioni economiche definite dalle re­lazioni del modello con il trade-off tra le variabili e i valori delle eso­gene non permettono la realizzazione degli obiettivi desiderati che ri­sultano quindi, in queste condizioni, irraggiungibili. Inoltre, la figura indica che nella funzione obiettivo del governo i target sono specifi­cati non soltanto per le variabili obiettivo ma anche per gli strumenti. Ad esempio, nel caso particolare, lo strumento potrebbe riguardare la tassazione o la spesa pubblica per cui viene specificata una soglia de­siderata corrispondente ad un determinato valore (o anche ad un de­terminato valore del deficit pubblico). Superare la soglia (il target) in eccesso o in difetto ha un effetto penalizzante per il valore della fun­zione obiettivo. Un analogo discorso potrebbe essere fatto per altri strumenti come i tassi di interesse o la base monetaria. Superare i target per queste variabili potrebbe essere utile per raggiungere i va­lori desiderati delle variabili obiettivo ma genererebbe scompensi ed effetti indesiderati su altre variabili e in ultima analisi sugli obiettivi stessi, nei periodi successivi. In determinati contesti, caratterizzati da particolari condizioni delle variabili esogene (ad esempio in presenza di un aumento del prezzo del greggio), operare con strumenti mone­tari per condurre a zero il tasso di inflazione potrebbe essere “troppo costoso” : la politica monetaria ottimale, in assenza di specifiche soglie sugli strumenti utilizzati, potrebbe richiedere tassi di interesse eccessi­vamente elevati che porterebbero a raggiungere il target sul!inflazio­ne ma, con molta probabilità, rischierebbero di provocare una grave recessione e una forte incertezza sui mercati finanziari.

Per riassumere, l ’impostazione tradizionale della teoria della poli­tica economica presuppone un unico agente economico rappresentato dal governo o dalle autorità di politica economica, intese collettiva­mente, e un “ambiente” definito dalla struttura economica. Questa struttura non varia nel tempo, nel senso che i comportamenti dinami­ci che contraddistinguono i mercati e le relazioni che la definiscono sono noti al governo e si suppone non varino durante il periodo di analisi ed intervento di politica economica. La specificazione della poliliea ollimale del governo poggia sulle seguenti specificazioni:/) un m o d e l l o econometrico dell’economia;//) i m a I m i / i o n e obiettivo (o di costo) per definire le preferenze del

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

policymaker: valori-target per obiettivi e strumenti e la loro importan­za relativa.

Tecnicamente, si risolve un problema di ottimizzazione vincolata: si massimizza la funzione obiettivo sotto il vincolo definito dal mo­dello dell’economia. La massimizzazione permette di ottenere la ma­novra ottimale per un certo numero di strumenti del policymaker. Le assunzioni economiche più rilevanti di questa impostazione tradizio­nale sono tre:i) la funzione obiettivo del governo approssima la funzione di be­nessere sociale;ii) un unico agente economico, il governo, per esprimere una politica economica ottimale;iii) un “ambiente” (una struttura economica) dinamico ma invariante nel tempo e che non esprime nelle sue componenti un comportamen­to strategico.

Le assunzioni tecniche più rilevanti sono due:i) la specificazione del modello dell’economia con equazioni lineari;ii) una funzione quadratica per esprimere la funzione obiettivo (o di costo).

In definitiva l’approccio metodologico alla politica economica che potremmo definire keynesiano può essere sintetizzato nel seguente modo:

Modello economico + Teoria del controllo =>=> Politiche di stabilizzazione ottimali

Lo sviluppo successivo delle tecniche di controllo ha permesso di in­corporare nell’analisi anche alcune problematiche importanti, come il coordinamento della politica fiscale e della politica monetaria, per­mettendo di studiare problemi relativi alle possibilità di conflitto di obiettivi tra le due autorità di politica economica e, con essi, la possi­bilità che le autorità di politica abbiano preferenze diverse e percepi­scano diversi modelli dell’economia 25.

2 5 . Una domanda che potrebbe, a questo punto, emergere è quella se i modelli e le loro soluzioni e indicazioni di policy siano effettivamente utilizzati dai policymakers per definire la loro politica ottima. A questo riguardo, le assunzioni adoperate nel definire modelli e soluzioni, spesso riflettono condizioni assolutamente non riscontra­bili in pratica. L a funzione obiettivo, i trade-off su cui si basa la politica, i pesi da attribuire alle singole variabili rappresentano informazioni difficilmente note e che co­munque richiedono alle autorità un percorso di apprendimento che a volte si realizza con un processo di tentativi ed errori. Il modello stesso non può assolutamente forni­re tutte le indicazioni necessarie, ma va integrato da una serie di altre informazioni di

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Nelle sezioni rimanenti di questo capitolo analizzeremo i problemi che emergono qualora vengano meno le assunzioni economiche dello schema tradizionale sopra presentato. In particolare, emergono delle serie difficoltà per la politica economica, definita tecnicamente e con­cettualmente dallo schema tradizionale di controllo ottimo se:i) gli agenti che definiscono le relazioni dei mercati hanno aspettati­ve fortoard-looking e sono agenti intelligenti, capaci essi stessi di spe­cificare proprie funzioni di utilità tenendo conto dell’“ ambiente” eco­nomico e delle politiche economiche;ii) le autorità di politica economica non sono sempre facilmente con­siderate collettivamente, ma hanno obiettivi e strumenti diversi;iii) la funzione obiettivo, lungi dal rappresentare una funzione di be­nessere collettivo, esprime altre considerazioni, oltre a quelle econo­miche, che riflettono gli interessi e l ’orientamento dell’elettorato dei politici in carica.

Questi casi descrivono un “ ambiente” non più “invariante” nel tempo e rispetto alle politiche economiche: una condizione che mette in dubbio la possibilità di definire politiche ottimali. Inoltre, la politi­ca economica spesso è la risultante di un processo cooperativo o con­flittuale tra le autorità di politica economica e tra queste e il settore privato.

1.6I limiti dell’utilizzo dei modelli nella politica economica

Lo sviluppo dei modelli e del loro uso per la politica economica ha messo in rilievo due aspetti critici, sollevati da Lucas (1976), Ky- dland, Prescott (1977) e Calvo (1978). I rilievi effettuati da questi au­tori alle procedure di analisi tradizionali sono particolarmente seri e mettono in dubbio l ’utilizzo dei modelli econometrici e la logica stes­sa di politiche ottimali. Queste critiche sono la conseguenza di una “ rivoluzionaria” scuola di pensiero conosciuta come aspettative razio­nali. Il lavoro fondamentale che diede avvio a questa corrente di pen­siero è quello di Muth (1961), ma è agli inizi degli anni settanta, con gli articoli di Lucas sulla neutralità della moneta (1972), sul ciclo di

fonti diverse. L ’approccio teorico e metodologico nato dai lavori di Frisch, Tinbergen, Theil e molti altri rimane fondamentale in quanto definisce il ruolo della politica in una maniera logica e consistente nello schema macroeconomico e grazie al quale è possibile formulare obiezioni, critiche e discussioni in maniera precisa. Un lavoro inte­ressante sulla domanda posta all’inizio di questa nota, che consigliamo come lettura aj’Ji slndcnli, è quello di Siviero, Terlizzese, Visco (1999).

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

equilibrio (1975) e sulla critica alla politica economica con i modelli econometrici (1976) che si genera un profondo cambiamento nella teoria macroeconomica e nella politica economica. Gli sviluppi rapi­damente investono tutti gli aspetti della modellistica e sono stati por­tati avanti da un team di economisti presso la Federai Reserve Bank of Minneapolis.

Con aspettative razionali, gli agenti cercano di formulare le loro previsioni future incorporando tutte le informazioni possibili. Ciò si­gnifica ipotizzare che gli agenti conoscano il modello dell’economia e quindi siano capaci di risolverlo, a meno di eventi casuali e del tutto imprevedibili. Gli agenti formulano le attese sui prezzi (ma potrem­mo considerare qualsiasi altra variabile) non più semplicemente in base ai valori che i prezzi stessi hanno assunto nel passato più re­cente, ma definiscono le attese considerando l ’intero modello dell’e­conomia. Questo modello può essere più o meno complesso, ma defi­nisce l’insieme di relazioni cui sono coinvolti i prezzi. In questo modo prendere le aspettative sui prezzi non significa altro che risol­vere il modello per la variabile prezzi. I prezzi dipendono dai para­metri dell’intero modello (dell’intera economia) e quindi incorporano tutte le informazioni possibili. Se l’agente è a conoscenza che un pa­rametro o una variabile di questo modello subirà in futuro una varia­zione, in questo caso incorporerà questa variazione e il suo effetto sui prezzi nel suo set informativo e modificherà immediatamente le aspet­tative sui prezzi.

Il primo aspetto critico, che mette in serio dubbio la possibilità di utilizzare i modelli econometrici per la politica economica, va sotto il nome di critica di Lucas, ed è innegabilmente valido per ogni tipo di approccio di utilizzo dei modelli ai fini dell’analisi di politica econo­mica. Il secondo contributo critico, generato dalla letteratura sulle aspettative razionali, è conosciuto come il problema dell’ incoerenza dinamica della politica economica (o fenomeno del tinte inconsisten- cy), e riguarda specificamente le politiche ottimali.

Queste due critiche, che fanno parte dello sviluppo macroecono­mico definito nuova macroeconomia classica, hanno mutato radical­mente l’indirizzo della modellistica economica ed econometrica, non­ché la concezione stessa di intervento di politica economica.

1.6 .1. La struttura policy invariant

Un aspetto comune a tutti gli approcci sopra menzionati è quello di stimare un modello assumendo che la sua struttura implicita sia una struttura costante. Questa struttura è policy invariant, non dovrebbe

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mutare in presenza di manovre di politica economica diverse: i coeffi­cienti che definiscono le relazioni economiche del modello sono infat­ti delle buone stime della struttura dell’economia. Il punto avanzato da Lucas è che se le aspettative sono razionali, il tipo di struttura stimata nei modelli econometrici non può essere una struttura costan­te e quindi non è policy invariant, ma, al contrario, dipenderà, tra le altre cose, dalle politiche che il governo sta applicando o che intende applicare. Ne consegue che l’approccio seguito per analizzare la poli­tica economica con la modellistica econometrica, discusso nei para­grafi precedenti, è errato. Suggerimenti di politica economica derivati da simulazioni ottenute da questi modelli non possono che essere in­gannevoli. I coefficienti stimati che definiscono il modello non posso­no perciò essere costanti in presenza di agenti che utilizzano l’infor­mazione in maniera efficiente. Le aspettative di una manovra di poli­tica economica sono formulate dagli agenti con l’utilizzo del modello e, quindi, incorporano anche delle regole di politica economica previ­ste dal modello. Se gli agenti sono in grado di riconoscere il processo che definisce la manovra di politica, ne consegue che variazioni di questa manovra alterano il modo in cui gli agenti formano le loro aspettative riguardo la politica economica. In altri termini Lucas chia­risce come non sia possibile identificare i parametri strutturali delle relazioni economiche (derivati dalle scelte degli agenti) dai parametri delle variabili su cui gli agenti formano le aspettative.

Le funzioni del consumo, deH’investimento, della domanda di la­voro ecc., che compongono i modelli economici, e che vengono sti­mate con procedure statistiche, sono equazioni di comportamento, e in quanto tali sono derivate implicitamente dalla massimizzazione di una funzione di utilità. Dalla microeconomia sappiamo che le prefe­renze e le risorse generano i comportamenti dei vari agenti economi­ci. Tuttavia, nelle equazioni di comportamento che formano i modelli econometrici strutturali non sono specificati in maniera appropriata i comportamenti microeconomici con i parametri che li caratterizzano ma, piuttosto, i modelli sono formati da relazioni spesso specificate ad hoc. I parametri stimati di queste relazioni non sono distinguibili nella loro composizione. Essi sono quindi composti dai parametri del­le funzioni di utilità, dai parametri relativi ai meccanismi di formazio­ne delle aspettative degli agenti e da parametri di policy, legati alle regole di intervento delle politiche economiche. In questo caso, non è possibile effettuare simulazioni degli effetti ottenuti sull’economia da variazioni delle variabili di controllo. Infatti, la stima delle relazioni e, onomiclie clic compongono il modello non permette di distinguere i pai.imeni di comportamento dai parametri di policy. L ’econometri­

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

co stima una relazione quantitativa tra le variabili e ottiene un valore che è esso stesso una composizione di diversi parametri. La critica di Lucas è una critica logica ed ha indirizzato la ricerca verso la stima dei parametri derivati direttamente dalle funzioni di utilità chiamati parametri “profondi” o deep parameters. Questi parametri, che riflet­tono sostanzialmente le caratteristiche delle preferenze e della tecno­logia e sono specificati dalle funzioni di utilità e dalle funzioni di pro­duzione, non mutano al variare delle variabili di controllo 26.

1.6.2. Politica coerente o politica ottimale?

La possibilità, per gli agenti con aspettative razionali, di prevedere gli effetti della politica economica sull’economia e tenerne debitamente conto, produce un incentivo per le autorità monetarie e fiscali a mu­tare nel corso del periodo di programmazione la loro politica econo­mica. Questa variazione della politica può sorprendere gli agenti eco­nomici che formulano le loro attese sulla politica ottimale delle stesse autorità. Il controllo ottimo (la politica ottimale) subisce una critica piuttosto severa che può essere riassunta da Kydland e Prescott (1977), nel seguente modo:

only if these (rational) expectations are irrelevant to thè future policy pian selected w ould optim al control theory be appropriate.

Nel CAP. 3 studieremo con rigore questa asserzione. Modelli con aspettative razionali generano un problema piuttosto serio per la poli­tica economica conosciuto come l ’incoerenza della politica ottimale. La coerenza dinamica è definita dal principio di ottimalità di Bellman (1957). Questo principio, su cui si basano i metodi recursivi della programmazione dinamica, utilizzati per ottenere la politica ottimale, in sintesi afferma che la politica ottimale calcolata in qualsiasi perio­do dell’orizzonte programmato deve rappresentare semplicemente la continuazione del programma ottimale originario, ossia quello elabo­rato al tempo iniziale. La possibilità per il policymaker di procedere con manovre di cheating (rinnegando un annuncio precedentemente effettuato) genera quindi un problema chiamato time inconsistency. Il

26. Sulla critica di Lucas, la letteratura è considerevole. Sono state effettuate analisi teoriche ed empiriche che hanno coinvolto tutti i possibili aspetti e interpreta­zioni. L e osservazioni che ci appaiono più interessanti provengono dal dibattito (criti­co) tra Sargent (1984) e Sims (1987; 1998) che esprime bene anche i diversi modi in cui la critica di Lucas può essere formulata.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

problema è particolarmente importante in quanto contribuisce a ge­nerare una relazione inversa tra politica ottimale e politica coerente­mente dinamica. Sotto determinate circostanze, la scelta si presenta tra una politica ottima ma non coerente in senso dinamico, e una po­litica coerente in senso dinamico ma sub-ottimale. In entrambi i casi, come vedremo, si creano dei problemi per la politica economica.

Una politica che inizialmente le autorità considerano ottima, con il passare del tempo può divenire non più ottima (sempre dal punto di vista delle autorità). Le autorità, di conseguenza, trovano ottimale comportarsi in maniera diversa da quanto preannunciato: esiste (si crea) un incentivo a cambiare politica. Questo significa che possono esserci degli incentivi per le stesse autorità “ to renege” la politica pre­cedentemente annunciata e considerata ottima. Tutto ciò ha condotto Prescott (1977) e molti altri autori a chiedersi se la teoria del con­trollo sia utile per le politiche di stabilizzazione.

1.6.3. La politica economica come un gioco dinamico

Per fornire un’intuizione delle implicazioni di questa critica, possia­mo riprendere l’analisi delle simulazioni standard con un modello econometrico. Abbiamo accennato che in presenza di variabili di aspettative future (come le aspettative razionali) due nuovi casi posso­no presentarsi al policymaker. la manovra di politica economica può essere annunciata (o anticipata) o non annunciata. Se gli agenti cono­scono il modello possono anticipare la futura manovra economica delle autorità, mutando il loro comportamento sin dal periodo cor­rente, prima che la manovra si realizzi. Le autorità possono anche an­nunciare che in determinate condizioni opteranno per una data poli­tica giudicata ottima. Anche in questo caso gli agenti con aspettative razionali (future) tenderanno a “scontare” immediatamente questa manovra.

La f i g . 1.6 propone un’illustrazione di questo aspetto. Si assuma, per esempio, che le autorità di politica fiscale annuncino per il prossi­mo futuro un aumento d e l le imposte indirette e d e l l ’ iv A per far fron­te nel prossimo bilancio al disavanzo pubblico. Come reazione gli agenti modificano immediatamente il loro comportamento. Infatti, i consumatori potrebbero anticipare i loro acquisti aumentando sin da subito i consumi. La situazione è analoga se assumiamo che gli agenti siano in grado di anticipare la politica, conoscendo l’economia e i suoi problemi e quindi prospettando correttamente un aumento del­l ’imposizione fiscale nel prossimo bilancio.

Nel caso della f i g . 1.6, la manovra futura restrittiva annunciata

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

FIGURA 1.6Effetto di un annuncio di politica economica

otto mesi prima è immediatamente anticipata, provocando come ef­fetto un incremento del p i l sin dall’anno corrente 2/.

Un aspetto chiave associato con questo problema è la credibilità della politica economica. Nelle simulazioni riportate nella f i g . 1 . 6 si assume infatti che la politica annunciata sia pienamente credibile. Gli agenti credono nell’annuncio della politica economica e si comporta­no di conseguenza. Per rimanere nell’esempio riportato dalla figura, il governo (o le autorità di politica economica), una volta annunciata la sua politica ottimale che consiste in un aumento delle imposte indi­rette, potrebbe scontare la reazione degli agenti che effettuano un in­cremento immediato dei consumi, e sentirsi ora libero di non perse­guire più la manovra annunciata di un inasprimento della pressione fiscale ma, piuttosto, mantenere una politica fiscale espansiva dato che l ’aumento dei consumi provoca comunque un aumento del getti­to. Questa è una politica time inconsistent. In altri termini, può ri­sultare ottimale per il governo comportarsi in questo modo e avvan­taggiarsi delle modifiche delle aspettative e quindi del comportamen­to del settore privato. Tuttavia questa politica non è coerente in sen­so dinamico.

27. Per alcune simulazioni con politiche anticipate e shock non anticipati con un modello per l ’economia italiana con aspettative razionali si può vedere Chiarini (1993; 1994).

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Il problema si complica se questo comportamento “incoerente” può essere anticipato dagli stessi agenti. Se famiglie e imprese cono­scono il modello e le sue possibili soluzioni, tra cui quella time incon- sistent, è probabile che ciò accada. La politica annunciata in questo caso non sarà una politica credibile a meno che non si verifichino delle condizioni particolari che obblighino le autorità a rispettare l ’impegno 28.

Le critiche della nuova macroeconomia classica arricchiscono no­tevolmente la teoria della politica economica per le soluzioni possibili che questa può provocare richiedendo nuove tecniche e l ’utilizzo in­dispensabile di definizioni, concetti e teoremi della teoria dei giochi. Nel nuovo contesto macroeconomico, le autorità monetarie e di poli­tica fiscale non hanno più l’esclusiva della manovra, o almeno non possono più manovrare discrezionalmente le variabili di controllo, ma devono interagire con le componenti del settore privato. La politica economica opera in un contesto che è agli antipodi del contesto raffi­gurabile come un servomeccanismo elettronico. Nella notazione, si utilizzeranno correntemente termini come temptation, renege, threat, credibility, reputation, quali espressioni che caratterizzano comporta­menti strategici in contesti di interazione tra più agenti. Agli inizi de­gli anni ottanta, Barro e Gordon (1983), utilizzando questi concetti con semplici modelli intesi a individuare i comportamenti strategici delle autorità di politica e del settore privato, provocheranno una ragguardevole mole di lavori e studi sulle interazioni dinamiche che la politica economica genera e un forte interesse non solo accademi­co 29.

Questo tipo di problemi apre un indirizzo di ricerca essenzial­mente basato sulla specificazione delle strategie dei diversi agenti e autorità coinvolti dal modello. Lo strumento utilizzato è la teoria dei giochi che permette di definire strategie e soluzioni per i policymakers e il settore privato in una moltitudine di contesti. Senza avere la pre­

28. Ottime rassegne di questi problem i che hanno la natura dei giochi dinamici sono Blackburn (1987), H olly, Hughes Hallett (1989), Chari, Kehoe, Prescott (1989), e Fischer (1990). Questi lavori e quelli elencati nella nota successiva non sono di faci­le lettura per lo studente di corsi non avanzati. Consigliamo di procedere con il m o­dello di Barro e G ordon e successivamente con alcune rassegne, tra cui quella di Persson e Tabellini (1990). Il primo rimando è comunque il cap . 3 di questo volume, dove presentiamo il m odello di Barro-G ordon e alcune definizioni e concetti propri della teoria dei giochi.

29. Tra la vasta letteratura segnaliamo i lavori di Tabellini (1988); Backus, Drif- fill (1985); R ogoff (1985; 1987); Cukierman, Meltzer (1986); Barro (1986); Canzoneri (1985). Una rassegna è in Persson, Tabellini (1990) e Drazen (2000).

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tesa di essere rigorosi, possiamo definire un gioco come una struttura formata da un insieme di players (agenti o giocatori coinvolti nell’in­terazione), un insieme di regole di comportamento, e una specifica­zione dei guadagni e delle perdite correlate alle varie azioni che ogni giocatore può intraprendere 3°. In generale, con il termine gioco si intende un contesto nel quale le persone o gli agenti economici in­teragiscono 31.

Un gioco dinamico richiede una dimensione temporale per com­pletare il gioco, dove le soluzioni correnti possono dipendere anche dalle azioni passate dei vari giocatori. Ogni giocatore tenta di ottene­re i suoi obiettivi scegliendo una strategia. Quindi ogni agente massi­mizza la sua funzione obiettivo. Tuttavia, in un contesto caratterizza­to dall’interazione tra più agenti, la massimizzazione non avviene “ contro natura” , come nel caso del controllo ottimo.

Una strategia è definita come una regola capace di descrivere come le azioni di un giocatore durante il gioco dipendano sull’infor­mazione che riceve durante il corso del gioco stesso. Ogni giocatore cercherà di sviluppare la sua strategia in base alle sue percezioni delle strategie degli altri giocatori e considerando come la sua stessa strate­gia influenzerà le strategie scelte dagli altri giocatori. Una soluzione (o un equilibrio) di un gioco dinamico è determinata dall’insieme del­le strategie di tutti i giocatori che massimizzano la loro funzione obiettivo coerenti con i relativi vincoli economici, ma anche soggetta al vincolo della percezione che ogni giocatore ha rispetto alle strate­gie di tutti gli altri giocatori.

Un concetto particolarmente rilevante è la dominanza. In alcuni giochi, alcuni giocatori agiscono tenendo in consi derazione come le proprie strategie influenzeranno quelle degli altri giocatori, mentre questi ultimi agiscono ignorando l’effetto delle proprie strategie sui primi. In questo gioco i primi giocatori sono dominant-players mentre i secondi sono definiti followers. In altre situazioni, ogni giocatore considera le strategie degli altri giocatori come date e oltre la propria influenza. Nonostante ogni player influenzi l’altro nel definire la pro­

30. Esiste una vastissima letteratura sulla teoria dei giochi e sulle applicazioni sia in microeconomia che in macroeconomia. Tra le introduzioni più interessanti si veda­no, G ibbons (1992) e Rasmusen (1989) anche se esistono ormai diverse traduzioni e volumi disponibili in italiano.

3 1 . L a teoria dei giochi si sviluppa con i contributi fondamentali di von Neu- mann e Morgenstern (1944) e Nash (1950; 1951). N el gap. 3 utilizzeremo alcuni con­cetti e soluzioni della teoria dei giochi utilizzando modelli con aspettative razionali.

»

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pria strategia, nessuno è dominante. La soluzione di questo tipo di gioco è la soluzione o equilibrio di Nash.

I risultati ottenuti nel nostro caso si possono schematizzare nel seguente modo:/) una politica tirne inconsistent è formulata in un contesto non-coo- perativo tra settore privato e autorità di politica economica, dove esi­ste un giocatore (il leader à la Stackleberg) che in questo caso può essere il policymaker, che ottimizza considerando le reazioni dell’altro giocatore (il follower) all’annuncio della politica;ii) una politica time consistent è invece formulata in un contesto ca­ratterizzato dall’equilibrio di Nash. Ogni giocatore, autorità di politi­ca economica (governo e banca centrale) e agenti privati (famiglie e imprese), agisce tenendo conto delle azioni dell’altro giocatore, pro­vocando una situazione di equilibrio quando non esiste più nessun incentivo per ogni giocatore a comportarsi diversamente da quanto stabilito.

1-7Gli sviluppi successivi

Le reazioni alle critiche mosse dalla rivoluzione delle aspettative ra­zionali hanno condotto l ’analisi quantitativa per la politica economica a due sviluppi alternativi. Il primo si basa sulla struttura teorica per costruire delle economie artificiali e definire una soluzione quantitati­va coerente con i fatti stilizzati. Il secondo approccio, all’opposto, al­meno nella sua versione originaria, esclude del tutto la teoria econo­mica e si basa esclusivamente sull’analisi statistica dei dati.

1.7 .1. Le economie artificiali

Riguardo il primo orientamento, diversi autori come E. Prescott, F. Kydland, G. Flansen, L. Christiano, C. Plosser, S. Rebelo, R. King e molti altri hanno indirizzato la ricerca macroeconomica nella costruzio­ne e nell’utilizzo di modelli dinamici di equilibrio economico generale, capaci di riprodurre i fatti stilizzati, con l’ausilio della tecnica della calibrazione (computable generai equilibrium approach). L ’approccio è alternativo alla specificazione tradizionale dei modelli econometrici, in quanto le assunzioni teoriche non vengono imposte su una struttura di dati (identificate) né tanto meno viene richiesto l’uso dell’inferenza sta­tistica per stimare e sottoporre a test tali imposizioni.

Questo filone di ricerca poggia sull’assunzione dell 'agente rappre­sentativo: esiste un’unica impresa e un unico consumatore o famiglia

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

che rappresentano il comportamento di tutti i consumatori e impren­ditori dell’economia. L ’assunzione, ovviamente, è che questi compor­tamenti per essere aggregati così facilmente siano analoghi tra fami­glie e tra imprese 32. La specificazione di modelli teoretici si basa su comportamenti dinamici (intertemporali) di consumatori e imprese coerenti con l ’equilibrio dei mercati: le funzioni di domanda e offerta sono derivate in maniera coerente dalla massimizzazione di funzioni di utilità per le famiglie e di profitto per le imprese; i vincoli sono ben definiti e comprendono i vincoli tecnologici (funzioni di produ­zione) e quelli di bilancio che limitano il comportamento dei consu­matori.

Come già studiato nei corsi di Microeconomia, le funzioni di utili­tà e i vincoli sono appropriati per specificare alcuni comportamenti e stabilire alcune coerenze dinamiche tra questi comportamenti. Si pen­si, ad esempio, alle funzioni di utilità o di produzione Cobb-Douglas. Ai parametri di queste ed altre funzioni già familiari si attribuisce un significato economico preciso.

Questi comportamenti producono domande e offerte di beni e fattori di produzione il cui prezzo è quello di equilibrio (derivato ap­punto dall’intersezione di domanda e offerta di beni e fattori produt­tivi) 33. I mercati sono sempre in equilibrio o tendono rapidamente ad esso. Questi modelli sono specificati con agenti con aspettative ra­zionali e sono soggetti a shock stocastici non-anticipati di diversa na­tura e di carattere essenzialmente reale. G li shock stocastici produco­no incertezza nel modello mentre gli shock di carattere monetario non hanno effetti reali (la moneta è neutrale). G li shock tecnologici incidono direttamente sulla produttività dei fattori e influenzano la funzione di produzione. Anche gli shock che incidono direttamente sulla funzione di utilità dei consumatori sono esempi tra i più diffusi per produrre delle dinamiche cicliche in questi modelli. Questi shock

32. Questa ipotesi porta a definire una sorta di Robinson Crusoe economy spesso criticata proprio perché annullerebbe la complessità e le soluzioni di un’economia con molti agenti eterogenei. I modelli sono fortemente stilizzati e considerano aggregati macroeconomici e relazioni tra aggregati quali consumo, investimenti ecc. per “ cattu­rare” soltanto gli elementi comuni dei vari comportamenti che caratterizzano queste relazioni. Questi aggregati medi possono essere visti in prima approssimazione come il riflesso delle scelte di un agente (fictitious agent) che vive per sempre e che rappre­senta la media della moltitudine di agenti.

33. Lo studente può pensare ai modelli di massimizzazione dei profitti e di mas­simizzazione delle funzioni di utilità studiati nel corso di M icroeconomia, dove, tutta­via, la soluzione trovata era, per semplicità, statica e spesso di equilibrio parziale.

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sono specificati da una componente nota e una casuale (stocastica) in modo tale da generare incertezza nel modello.

In questo contesto, la dinamica delle variabili economiche (il ciclo economico) è prodotta dalla reazione degli agenti a shock imprevedi­bili che “ colpiscono” l ’economia e inducono gli agenti a cambiare le decisioni economiche a loro pertinenti. Queste reazioni rendono pos­sibile la variazione della domanda e dell’offerta di lavoro, la variazio­ne delle quantità consumate e risparmiate ecc. Ai fini della politica economica è importante sottolineare che le reazioni che provengono dagli agenti, una volta sollecitati da uno shock di produttività inatteso dei fattori di produzione o altro, sono definite da un processo di massimizzazione e, quindi, sono reazioni ottimali. In questo caso emerge con chiarezza che non c’è spazio per la politica di stabilizza­zione in quanto l ’evoluzione dell’economia prodotta da queste reazio­ni, sia nelle fasi di crescita che in quelle di recessione, è ottimale e quindi Pareto non-migliorabile.

G li aspetti ciclici generati dalle economie artificiali possono essere analizzati in termini quantitativi attribuendo dei valori ai parametri del modello, ottenuti con la massimizzazione delle funzioni di prefe­renza degli agenti, e risolvendo il modello numericamente. Questo processo è chiamato calibrazione del modello e permette, una volta definite le soluzioni e i parametri, di far generare dal calcolatore la dinamica di tutte le variabili coinvolte.

1.7.2 . I modelli “ ateoretici”

Un approccio alternativo, nato come reazione alle critiche effettuate ai modelli strutturali dai fautori delle aspettative razionali e in parte dal “ fallimento” dei modelli nel prevedere l’evoluzione dell’economia durante gli anni settanta e di fornire una valida analisi di politica eco­nomica, prende avvio agli inizi degli anni ottanta dal lavoro di Sims (1980; 1982). L ’approccio var (modelli vettoriali autoregressivi) è sen­sibilmente distante dai modelli di equilibrio e dal processo di cali­brazione in quanto non fa riferimento a nessuno schema teorico 34.

34. Il significato di questa distanza agli inizi degli anni ottanta può essere fa­cilmente carpito dalla presentazione di Massimo Tivegna (1983) del primo modello della Confindustria: « L ’uso di un modello in un’associazione imprenditoriale come la Confindustria è principalmente legato alla possibilità che essò offre di valutare e in qualche m odo influenzare la politica economica. Per questo fine l ’approccio struttura­le tipico della m odellistica m acroeconometrica Keynesiana è più utile di un approccio tipo “ form a ridotta” , perché consente di seguire in modo più dettagliato gli impulsi di

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

La metodologia è quella econometrica e utilizza l ’inferenza statistica, come vedremo tra poco, nella maniera più corretta.

L ’approccio v a r si distingue in un aspetto cruciale dai modelli strutturali: l ’identificazione dei modelli. D i fatto nei modelli struttura­li l ’identificazione delle relazioni è ottenuta imponendo sulla struttura statistica dei dati delle restrizioni di origine teorica. L ’economista, in­fatti, con i modelli strutturali opera in modo tale chc la sua teoria influenzi il lavoro empirico. Imponendo tali restrizioni possiamo indi­viduare (identificare) una domanda di moneta, un’equazione di offer­ta di moneta, e così via per tutte le altre relazioni macroeconomiche d ’interesse. Sims giudica inaccettabile questa imposizione sui dati che poggia su “ restrizioni incredibili” .

G li economisti hanno una conoscenza molto limitata riguardo il processo economico che determina i dati delle variabili che effettiva­mente osserviamo {il processo generatore dei dati). Si costruiscono modelli che coinvolgono i dati su queste variabili facendo ricorso alla teoria economica ma, come già accennato, spesso ciò significa impor­re alla struttura dei dati delle restrizioni. Inoltre, la teoria economica, che spesso genera soluzioni di equilibrio o di lungo periodo, non produce informazioni sufficienti sulla dinamica, i ritardi di aggiusta­mento di un determinato fenomeno economico, su quale variabile in un determinato contesto può essere considerata esogena e su quale variabile in determinati contesti può essere considerata irrilevante. Un approccio alternativo è basato sulla teoria statistica che tenta di speci­ficare il processo statistico con il quale i dati sono generati. L ’approc­cio v a r va considerato in questo contesto.

Un modello v a r si concretizza con una forma autoregressiva per tutte le variabili endogene del sistema e replica il meccanismo statistico che genera i dati coinvolti (le realizzazioni delle variabili)35. In questo modo si evita la necessità di imporre a questa struttura una teoria non corretta. Infatti la struttura dei dati può essere compatibile con diverse forme strutturali teoriche. Tralasciando i problemi di stima e di “ con­gruenza statistica” che il confronto tra le due tipologie di modelli fa

politica economica». Questa interpretazione è generalizzabile alla quasi totalità dei modelli strutturali del periodo.

35. Una form a o un modello autoregressivo specifica una variabile com e funzio­ne dei suoi valori passati. Un m odello autoregressivo del primo ordine, indicato con a r ( 1 ), indica che la variabile dipende dal valore della stessa variabile realizzato un periodo prima; un modello autoregressivo del secondo ordine, indicato con a r ( 2 ),

estende questa dipendenza a due ritardi ecc. L ’intensità di questa dipendenza è data dal coefficiente che lega i valori correnti con quelli passati. N ei c a p p . 2, 3 e 4 utilizze­remo spesso queste forme autoregressive.

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e m e r g e r e , u n m o d e l lo v a r è m e n o s o g g e t t o a l le r e s t r iz io n i t e o r ic h e e

p iù a t te n to a lle c a r a t t e r is t ic h e s ta t is t ic h e d e l le v a r ia b i l i .

Per una rapida analisi delle differenze tra l ’approccio tradizionale e i modelli v a r , si confronti il modello strutturale [ i .r ] con il seguen­te semplice modello v a r composto da tre equazioni:

[1.14]y\t 1) J lt -2> ••• Vit-n> 3^2 * -2 > Vlt-m Vii-1> 3 ^ - 2 » ■■■ Vìt-n) + elty2t =fiyit-i> yu-2> ■■■ yu-m yzt-u yit-ii • • • > 3 ; 2 f - « > y t-1 > ? 3 * - 2 > yy? - « ) + e21 y t =f(yu-i, y\t-2i ■■■ yu-m yit-u y2t-z-> j2t-n-> y t-1> Vìt-2> ■■■ y^t-J + eìi

In questo modello, la prima variabile endogena è spiegata dalle va­riabili yz e y} ritardate di n periodi; la seconda equazione spiega l ’evo­luzione della variabile endogena y2 come funzione delle variabili ri­tardate y1 e y3\ infine la variabile endogena yò è determinata dalle va­riabili ritardate y1 e y2. In altri termini, possiamo dire che questo mo­dello è composto da tre equazioni ed indica che nella prima equazio­ne i valori delle variabili y2 e y} dei periodi precedenti hanno un po­tere esplicativo sulla realizzazione corrente della variabile y1. Se si sti­ma il modello e questo potere esplicativo è verificato, allora possiamo dire che le variabili y2 e causano “nel senso di Granger” la variabi­le y1 (si veda il riquadro 1.3). Se la stima del modello non fornisce questo risultato, ma verifica l ’inesistenza di una relazione tra la varia­bile yt e una o entrambe le variabili y2 e y3, allora i valori passati di queste variabili non permettono di prevedere i valori correnti della variabile endogena. Il potere esplicativo di y1 è determinato dai suoi soli valori passati. In maniera del tutto analoga possiamo formulare e sottoporre a verifica empirica la causalità (nel senso di Granger) delle variabili ritardate nelle rimanenti equazioni.

In un modello v a r ogni variabile è regredita su un insieme di va­riabili, su n ritardi di se stessa e di ognuna delle altre variabili incluse nel modello. Nessun valore delle variabili entra nelle equazioni che compongono il sistema con i valori correnti. Il v a r è dunque sostan­zialmente un modello statistico; la stessa causalità, cioè la specificazio­ne di quale variabile spiega e quale viene spiegata, è lasciata alla veri­fica empirica determinata dai dati e non imposta, secondo schemi, modelli teorici, come nei modelli econometrici strutturali. La teoria economica in questo contesto è limitata alla selezione delle variabili.

Si consideri, ad esempio, una semplice estensione dinamica del modello strutturale base [ 1 .2 .1] composto da un’equazione endogena per i consumi e una relazione contabile per il reddito, con investi­menti e spesa pubblica esogeni:

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Si osservi che in questo modello è stata imposta, ad esempio, la spesa pubblica come variabile esogena che causa (spiega) i consumi privati. Una specificazione v a r di questo modello, dove tutte le variabili coin­volte sono endogene, è la seguente:

C — ... C n 1 T/ i,... Y/. rn 1/ i,... \ì-H? i, G,_n) + t'c,j , J — f ( Y . . . Yt__n, ('f ; , . . . >_n-, I ; j , . . . It_My . . . H- ^ 'y /

M - l , -t—m t- I > ••• G t—ni C/_ 1 * ... _[, ... a) O/^ 7 f(Gi_ . . . G £_n, (< / | , . . . Ct_ny Yf | , . . . ^ / - l , **• / j ^*G/

Questo modello dovrà essere stimato e valutato con appropriati sti­matori e con dei test statistici. La versione stimata è probabile che mostri una struttura di ritardi limitata ad uno o due, e che quindi il numero di parametri che lega ogni relazione si riduca sensibilmente. Inoltre, la stima potrebbe rivelare anche qualche forma di esogeneità tra le variabili coinvolte. Il comportamento di queste variabili non è causato (o spiegato) ex ante da quelle incluse nel modello. Questa causalità è determinata dai dati e non dalla struttura teorica del mo­dello. E importante, infatti, sottolineare due aspetti:i) ogni conclusione riguardo il numero di parametri e l ’esogeneità delle variabili è ottenuta dai dati. E la struttura dei dati, cioè delle realizzazioni di variabili macroeconomiche, che determina le relazioni e la dinamica;ii) il numero dei parametri risulta rilevante rispetto al modello strut­turale, dove invece sono imposti da una teoria ben precisa.

Il var è un modello in forma ridotta in quanto ogni endogena è funzione di sole variabili pre-determinate. Occorre notare quattro ele­menti importanti.1. Non esiste più distinzione tra variabili esogene e variabili endoge­ne. Identificare le variabili endogene ed esogene ed imporre una struttura teorica ai parametri che legano le variabili costituisce invece l’approccio tradizionale dei modelli strutturali3fi.2. La dimensione del v a r non potrà che essere limitata (5-6 equazio­ni al massimo), proprio perché tutte le variabili sono endogene, e tut­te le endogene del modello entrano in ogni equazione con un numero

36. La letteratura sull’atheoretical macroeconometrics è piuttosto ampia. E utile vedere gli articoli iniziali di Cooley, LeR oy ^ 9 8 5) e Sims (1986).

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

di ritardi, mentre i modelli macroeconomici strutturali possono rag­giungere dimensioni rilevanti. Un limite che emerge chiaramente dal confronto tra il modello strutturale [ 1 .15 ] e il relativo modello v a r

[ 1.16 ] .3. Un ulteriore elemento di distinzione importante riguarda il con­fronto tra la forma ridotta del modello strutturale e il modello v a r

che è già specificato in forma ridotta. I parametri della forma ridotta del modello strutturale sono combinazioni di parametri strutturali, in qualche modo imposti dalla teoria di partenza. I parametri del v a r

non riflettono alcuna restrizione teorica. Per precisare meglio questo punto, va ricordato che la forma ridotta [1.3 ] del modello strutturale non è stimata con le tecniche statistiche. La stima che permette di trovare l ’espressione quantitativa dei parametri riguarda il modello strutturale [1.2 ]. Nell’approccio strutturale, solo successivamente vie­ne calcolata la forma ridotta. Questo aspetto è cruciale perché le ipo­tesi statistiche, e quindi l ’inferenza statistica, vanno analizzate nella forma ridotta di un modello perché è questa che spiega il processo che genera i dati, cioè il processo che genera le variabili osservabili. Quindi la stima dei parametri della forma strutturale deve essere con­gruente con la forma ridotta. Proprietà che spesso 1 modelli struttura­li non hanno r/.4. Infine, l ’approccio v a r non permette di porci domande del tipo “ qual è la politica monetaria ottima capace di ottenere determinati valori target per alcune variabili obiettivo” . Sotto questo aspetto la metodologia v a r è coerente con la critica di Lucas e apre un nuovo ruolo per l’analisi empirica 38.

I nuovi sviluppi della modellistica comunque saranno trascurati per circa un decennio, a testimonianza di quanto sia stato difficile per la teoria economica accettare formulazioni quantitative diverse, carat­terizzate da una visione più vicina alla struttura dei dati e meno “ controllate” con efficaci restrizioni. Diversi aspetti oggettivi hanno comunque condizionato l ’uso dei modelli v a r ; tra questi è importante ribadire la limitata capacità nell’utilizzo delle variabili endogene in presenza di una dimensione campionaria altrettanto limitata per le se­rie storiche delle variabili economiche.

37. Questo aspetto è rilevante per capire l ’affermazione di Sims sulle “ incredibili restrizioni” che i modelli strutturali im porrebbero alla struttura dei dati. Oltre all’arti­colo di Sims, un lavoro importante sulla congruenza statistica delle forme dei modelli è quello di Spanos (1989).

38. U n ottimo testo introduttivo agli approcci macroeconometrici sia sotto l ’a­spetto tecnico che quello storico e critico è il volum e di Favero {2 0 0 1).

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

R IQ U A D RO 1 . 3

Causalità di Granger

La teoria economica aiuta a definire le variabili dipendenti e quelle espli­cative di un modello. Se il modello è puramente teorico il problema non si pone, ma se lo schema teorico deve essere verificato empiricamente al­lora sorgono diverse difficoltà. Qui ci limitiamo a definire il problema di quale variabile o comportamento causa il comportamento di altre variabi­li, e quale variabile o comportamento è spiegato da altre variabili. Si può utilizzare a questo scopo un semplice modello di determinazione di salari e prezzi. Alcune teorie pongono in relazione la crescita dei salari diretta- mente alla crescita dei prezzi, definendo un’equazione strutturale dove il tasso di crescita dei prezzi causa il tasso di crescita dei salari. Altre teorie specificano la relazione di causalità in maniera inversa. Sono gli aumenti esogeni dei salari, dovuti alla contrattazione, che determinano (spiegano) l ’inflazione. E quindi opportuno osservare cautela nello studio delle rela­zioni economiche, anche perché salari e prezzi possono manifestare la causalità in entrambe le direzioni.

Se utilizziamo il concetto temporale, allora è più semplice definire un concetto di causalità. Infatti se un evento X si realizza prima di un altro evento Y, è più probabile che il primo evento X abbia causato il secondo Y, mentre non è possibile che Y abbia concorso in qualche maniera a determinare X. Ciò che è accaduto nel passato può aver determinato l’e­vento corrente. Questo ragionamento ci porta a definire un concetto di causalità nel senso di Granger. Una variabile X causa nel senso di Granger una variabile Y se i valori passati di X spiegano o aiutano a spiegare il comportamento corrente di Y. Se i valori passati di X hanno un potere esplicativo sui valori correnti di Y, è possibile che X possa spiegare Y (o possa causare Y nel senso di Granger). Proprio perché ci riferiamo alla dimensione temporale del fenomeno non utilizziamo un concetto di cau­salità (molto più restrittivo) ma indichiamo la causalità nel senso di Granger.

1 .8

Regole “ fisse” o politiche discrezionali?

I nuovi sviluppi teorici e metodologici hanno ancora una volta ridefi­nito il dibattito sulla politica discrezionale e le regole semplici.

r.8 .1. Milton Friedman

L ’esperienza dei modelli econometrici, brevemente ripercorsa nei para­grafi precedenti, quale strumento di sperimentazione di regole discre­zionali è stata sin dall’inizio contrastata da Milton Friedman. In A Mo-

\

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

netary and Fiscal Framework for Economie Stability (1948) e in A Pro­gram for Monetary Stability (1959), Friedman avanza alcune considera­zioni teoriche e diversi fatti empirici, che portano a considerare l ’ope­rato delle autorità monetarie come una fonte di instabilità economica piuttosto che come una politica volta a limitare le fluttuazioni cicliche.

La logica di questa critica è incontrovertibile 39. Se l ’intervento di politica fiscale e monetaria non è accuratamente stabilito in ter­mini dinamici (nel momento giusto) e se l ’intervento predisposto non risulta della dimensione appropriata per compensare le fasi ci­cliche che si vogliono attenuare, la manovra può risultare destabiliz­zante invece che stabilizzante. Dunque, un requisito per la stabiliz­zazione è conoscere perfettamente in quale situazione si sta operan­do. Come vedremo in dettaglio nel c a p . 4 di questo volume, è diffi­cile avere informazioni esatte sulla fase ciclica in corso e, in partico­lare, sulla sua evoluzione a breve termine. Spesso gli indicatori pre­disposti dagli istituti di previsione e dalle autorità di politica non forniscono risposte univoche né sui punti di svolta della fase ciclo, né sulla durata e sull’intensità di una particolare fase recessiva o espansiva. Questa fonte di incertezza crea sicuramente qualche pro­blema per la messa a punto delle manovre di politica economica. Un altro aspetto rilevante è costituito dal lasso di tempo che spesso una manovra, anche non particolarmente complessa, richiede per la sua definizione e implementazione e per esplicitare i suoi effetti sui comportamenti economici. Tutti elementi che rischiano di provocare un effetto delle politiche sul ciclo economico nei tempi sbagliati e nella dimensione non appropriata, provocando conseguenze di segno opposto a quelle desiderate.

Su queste basi, la Federai Reserve è stata una fonte di instabilità piuttosto che di controllo dell’economia, come Friedman e Schwartz (1963) hanno tentato di dimostrare nel loro lavoro empirico. In que­sto periodo lo sviluppo dei modelli econometrici caratterizzati quasi esclusivamente da un approccio keynesiano portava a elaborare simu­lazioni di policy i cui suggerimenti erano prettamente discrezionali. Friedman optava per delle regole fisse di condotta monetaria, capaci

39. Q ueste analisi hanno avviato un lungo e aspro dibattito tra i fautori delle politiche di stabilizzazione e i monetaristi. U n’utile lettura che consigliamo allo stu­dente è il discorso effettuato da M odigliani alla assemblea della American Economie Association nel 1976 e pubblicato sull’ “ American Econom ie R eview ” nel 19 77 , di cui esiste una traduzione in italiano (“Bancaria” , n. 3, 1979). Una ulteriore lettura consi­gliala sull’argomento è l ’ottima introduzione di Cesarano e Spinelli al volum e degli '.n in i di Milton Friedm an (1996) curati per il Mulino.

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

di alimentare il sistema con la necessaria creazione di moneta, ma chiare e costanti in modo da eliminare qualsiasi incertezza dal lato della politica economica.

1.8.2. Le scelte pubbliche

Su queste linee critiche, agli inizi degli anni ottanta un altro filone di ricerca proveniente dalla teoria delle scelte pubbliche suggeriva di ri­dimensionare la discrezionalità della politica. L ’esempio più impor­tante assunto da questo filone di ricerca è proprio la teoria keynesia- na della politica fiscale con l’utilizzo del bilancio del governo per la stabilizzazione delle economie. La regola di condotta keynesiana è semplice e per certi versi ingenua, e prevede la creazione di deficit di bilancio durante i periodi di caduta della domanda aggregata e la creazione di attivi di bilancio durante i periodi di crescita della do­manda aggregata. In questo modo le politiche di stabilizzazione pote­vano ridimensionare gli effetti patologici del ciclo economico, limi­tando la disoccupazione nelle fasi recessive e l’inflazione nei periodi di crescita sostenuta, senza generare seri problemi al bilancio pub­blico. Il deficit pubblico generato da aumenti delle spese e riduzioni delle imposte avrebbe ridimensionato la caduta della domanda e del­l’attività produttiva e accelerato i tempi di ripresa dell’economia. In questa fase, la necessità di maggiori spese e l’aumento delle entrate fiscali conseguenti all’aumento del reddito avrebbero generato dei surplus primari con cui finanziare il debito eventualmente accumulato nella fase recessiva.

In realtà, questa politica potrebbe essere condotta soltanto da un “benevolente” regime autoritario. Nelle democrazie moderne i partiti e i politici hanno il supporto di un elettorato e un naturale incentivo ad espandere la spesa pubblica e creare deficit, mentre hanno un al­trettanto valido incentivo a non aumentare la tassazione in maniera adeguata e consistente con l’aumento delle spese.

I governi sono un processo di interazione molto complesso nel quale politici, agenzie, dipartimenti e istituzioni burocratiche parteci­pano in diversa misura. Spesso i partiti politici che compongono un governo sono delle coalizioni di componenti politiche diverse che ri­flettono parti di elettorato, lobbies e gruppi di pressione diversi 4°. Le

40. Una esposizione più dettagliata di questo argomento è riportata nel g a p . 2. Indichiamo il lavoro di Alesina (1989) per una rapida rassegna delle motivazioni dei policym aken nei diversi contesti e della letteratura sulla relazione tra politica e politica economica.

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LEZIONI, o r POLITICA ECONOMICA

conseguenze di un’azione o una misura di polidca economica posso­no non riflettere le motivazioni delle singole componenti politiche di un governo. La manovra di politica è quindi generata da un dilemma: il conflitto tra la razionalità individuale (delle singole componenti po­litiche) e la razionalità collettiva di un governo che inevitabilmente genera soluzioni inefficienti o quantomeno Pareto migliorabili41.

In questo contesto, la regola di condotta keynesiana è quantome­no utopica ed è responsabile della creazione di continui e persistenti disavanzi pubblici proprio perché l ’immagine di un dittatore benevo­lente che agisce per il “pubblico interesse” , creando deliberatamente deficit e surplus di bilancio nelle varie fasi cicliche, è stata per molti anni pervasiva nella logica dei modelli e nell’attitudine degli economi­sti verso il processo di politica economica.

In questa ottica, Brennan e Buchanan (1981) hanno proposto la definizione di regole costituzionali per governare la politica monetaria. La parabola del piccolo alchimista in grado di trasformare sabbia in oro è utilizzata per ottenere delle prospettive realistiche su governo e inflazione. Una volta trovata la formula per trasformare sabbia in oro ci sono due soluzioni che l ’alchimista può ottenere. La prima è quella di vivere felice in ricchezza nella sua terra, mentre tutto il resto della popolazione impoverisce a causa della quantità di nuovo oro prodotta per coniare moneta per soddisfare i suoi desideri; quantità aggiuntiva che riduce il valore di scambio di tutto l ’oro della terra. Una seconda soluzione della storia, ipotizza che l ’alchimista non usi la formula in quanto consapevole degli effetti sul benessere degli altri abitanti della terra. Una ragazza di 10 anni troverebbe certamente non plausibile questa seconda versione della storia. Se alla parola “piccolo alchimi­sta” inseriamo la parola “ governo” e in maniera analoga sostituiamo la parola “oro” con “moneta” , possiamo presupporre che la saggezza di sofisticati pensatori sia analoga a quella di una ragazzina? I go­verni, che hanno il potere di creare moneta e di utilizzarla in cambio di beni e servizi, utilizzano questo potere per l ’interesse pubblico o invece cercano di assecondare i loro interessi? Se i governi hanno il potere di creare qualcosa senza costo, che permetterà loro di ottenere beni e servizi, è la risposta degli autori, si comporteranno secondo la childlike wisdom della parabola. Il problema dei deficit continui e crescenti nelle moderne democrazie segue la stessa logica. L ’unico modo di limitare questi fenomeni è imporre qualche tipo di vincolo costituzionale alle autorità di politica economica.

4 1 . Invitiamo lo studente a ritornare su questo punto dopo aver letto la soluzio­ne del gioco del “ dilemma del prigioniero” nel g a p . 3 .

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

1.8.3. A ritorno delle regole

La nuova macroeconomia classica, e in particolare l’applicazione delle aspettative razionali, ha ridefinito e rinvigorito il problema portato avanti da Friedman, Buchanan e diversi altri autori. I modelli con aspettative razionali richiedono solo regole di politica economica, dato che gli agenti effettuano decisioni non soltanto in base alle poli­tiche in essere ma anche sulle politiche che gli agenti stessi si aspetta­no per il futuro. Una regola di intervento permette di prevedere come la politica, in contesti diversi (in termini ad esempio, di infla­zione-deflazione o espansione-recessione dell’output), si comporterà nel futuro 42. Si assiste quindi ad un’inversione ad U dell’evoluzione storica della politica economica sopra descritta, con il ritorno di mec­canismi di condotta di politica economica per regolare il sistema eco­nomico. Lo studio della politica macroeconomica, attraverso semplici regole di intervento, che fu introdotto dall’approccio ingegneristico alla politica economica, viene quindi recuperato rispetto alla discre­zionalità delle soluzioni di politica ottimale, in un contesto comunque profondamente modificato dalla presenza di agenti con aspettative razionali 43.

In questo nuovo contesto, le politiche discrezionali, per essere ef­ficaci, assumono una forma di shock imprevisto che difficilmente po­trà permettere di raggiungere sia i macro obiettivi che una maggiore efficienza del sistema. Il problema deU’incoerenza dinamica rafforza questo aspetto. Gli incentivi a non rispettare le politiche annunciate e

42. L a richiesta da parte dei fautori delle aspettative razionali, di rappresentare nei modelli la politica economica mediante funzioni di reazione meccaniche è forte­mente criticata da Svensson (2003), il quale sottolinea che al pari degli agenti privati, le banche centrali sono agenti forward-looking che ottimizzano una funzione obiettivo. N el g a p . 3 vedremo come questo tipo di considerazioni sia stato affrontato nello stu­dio della politica economica con modelli con aspettative razionali, facendo ricorso alla teoria dei giochi, e come i problem i ad esse connessi suggeriscano l ’adozione di regole semplici.

43. Sulle regole di condotta della politica, dette anche instrument rules, sono im­portanti i lavori teorici e le analisi empiriche di Joh n Taylor ( 1 9 9 3 ; 1 9 9 9 ; 2000) che hanno portato a coniare la Taylor rule. Il volum e monografico della “Federai Reserve Bank of St Louis R eview ” (a a .v v ., 2001) dedicato alla teoria e alla pratica della politi­ca monetaria (www.stis.frb.org/fred) è utile per le diverse applicazioni della regola di policy. In questa monografia lo studente dovrebbe essere in grado di leggere ampie parti degli articoli di Taylor, G oodhart e di H oover e Jorda. Svensson (2003) produce una estesa e dettagliata rassegna critica di questa forma di intervento della politica monetaria. Per un ’analisi delle regole della politica economica e delle politiche discre­zionali rimandiamo al g a p . 4.

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i . r / 1 < > n i n i i ’< > i i r i < : a h c o n o m i c a

;kI evitare < lu- <>Ii agenti cor'reilamenta percepiscano le manovre futu­re c si comportino di conseguenza, produce delle soluzioni poco effi- cienli e necessariamente sub-ottimali.

La consapevolezza dei limiti sopra elencati, sostanzialmente asso­ciati alle politiche discrezionali della domanda tese ad orientare la di­namica economica di breve periodo, ha condotto ad adottare uno schema di intervento che poggia sulla specificazione di regole. Il com­portamento della politica economica è quindi mutato con l’assegna­zione alle autorità di politica monetaria e di politica di bilancio di obiettivi chiari, definiti nella loro dimensione quantitativa e di pub­blico dominio. Definire in maniera non ambigua gli obiettivi e i pos­sibili strumenti per farvi fronte rende più prevedibili le manovre nelle varie situazioni macroeconomiche e riduce il grado di incertezza pres­so gli operatori privati.

Le regole sono intese a disciplinare le decisioni dei polieymakers e in genere dei responsabili delle politiche economiche, limitando per quanto è possibile l’influenza di gruppi di pressione, gli incentivi le­gati al ciclo elettorale e le relazioni con i vari organi dell’esecutivo. Infine, l ’adozione di regole per la politica economica tende a rendere più coerenti nel tempo le decisioni stesse, con l’intento di promuove­re la fiducia nelle istituzioni economiche 44.

1 . 9

Che cosa abbiamo appreso da questo capitolo

In questo capitolo abbiamo riportato, senza pretesa di essere esaustivi e rigorosi, alcuni sviluppi della teoria della politica economica e della sua applicazione quantitativa. Da un lato, abbiamo passato in rasse­gna alcuni degli aspetti metodologici per analizzarne l’evoluzione sto­rica e le implicazioni di politica economica. Dall’altro lato, il riper­correre questi aspetti di metodo ci ha consentito di introdurre una serie di definizioni e concetti che saranno utilizzati nei restanti tre capitoli.

In particolare, abbiamo introdotto il modello econometrico quale strumento di analisi di politica economica, e classificato le variabili e le relazioni che lo compongono. La distinzione tra forma strutturale e forma ridotta di un modello è centrale per l’analisi quantitativa della politica economica, così come deve risultare chiara la classificazione delle variabili che compongono un modello come endogene e prede­

44. Si veda, ad esempio, il Bollettino mensile della Banca centrale europea, del­l ’ottobre 2oor, A lcune questioni riguardanti le regole d i politica monetaria.

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I . LA TEORIA DELLA POLITICA ECONOMICA: M ODELLI, METODI E PROBLEMI

terminate, e la specificazione di questo ultimo raggruppamento in va­riabili esogene, di controllo ed endogene ritardate.

Nel capitolo abbiamo considerato l’evoluzione dei metodi di si­mulazione per la politica economica, passando dai metodi di simula­zione tradizionale alle tecniche di controllo ottimo. Abbiamo descritto la visione ingegneristica del modello dell’economia che richiedeva un intervento di politica analogo ad un servomeccanismo, distinguendola dall’approccio del controllo ottimo. Quest’ultimo metodo prevede una esplicita espressione delle preferenze con la specificazione di una funzione obiettivo per il policymaker da massimizzare sotto il vincolo del modello che stabilisce la “fattibilità” o la possibilità concreta di raggiungimento dei target desiderati. Questo schema di analisi e di intervento per la politica economica incontra delle difficoltà quando il modello economico non è visto più come una struttura causale, dove le decisioni degli agenti dipendono dal periodo corrente e dal passato, ma come una struttura non causale, dove gli agenti decidono anche in base a ciò che prevedono accada nell’immediato futuro (aspettative forward e aspettative razionali). Un’altra difficoltà, collega­ta sempre alla struttura non causale del modello, interviene allorché si inserisce la possibilità che gli agenti prendano decisioni e azioni di carattere strategico. Lo schema di analisi e di intervento della politica definito dal controllo ottimo tradizionale ha subito questi aspetti criti­ci che, inevitabilmente, hanno modificato l’impostazione metodologi­ca e teorica dei modelli e dell’analisi della politica economica.

Sotto l ’aspetto teorico, l’evoluzione metodologica della politica economica ora richiamata almeno in parte si riassume nella distinzio­ne tra macroeconomia keynesiana e macroeconomia classica (o neo­classica). Entrambi gli schemi si caratterizzano come “rivoluzioni” dell’impianto teorico pre-esistente e delle implicazioni per la politica economica. L ’importanza in questo volume di questa distinzione risie­de nella diversa implicazione per la politica economica. Questo modo di classificare gli schemi teorici è estremo ma serve per mettere in evidenza come le due “rivoluzioni” abbiano richiesto metodi e stru­menti di analisi di politica economica piuttosto diversi. La teoria key­nesiana del dopoguerra ha dato vita ad un considerevole sviluppo di modelli econometrici e di tecniche di simulazione per l’analisi della politica economica. La critica di Lucas e le aspettative razionali han­no successivamente dato l ’impulso verso la specificazione e l’utilizzo di modelli ateoretici e di modelli statistici.

Lo spazio per politiche ottimali, con la critica delle aspettative razionali, si dissolve per l’impossibilità di utilizzare modelli econo­metrici strutturali (Lucas), per la proposizione di neutralità delle po-

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i l i * *i : I i >i 1-4 H.ITICA iiCONOMlCA

A, ■ (Sargeni e Wallace) e per il trade-off che si instau­ri (i.i i» >liiu Uè ultimali ma non coerenti in senso dinamico e politi- * Iii■ .siil x>iiincili i n a coerenti in senso dinamico (Kydland, Prescott e ( l a l v<>).

Inlme, si è vista l ’evoluzione degli schemi teorici e dei metodi del­la politica economica come un conflitto tra modi di intervenire da parte delle istituzioni di politica sul sistema economico. Il dibattito ancora aperto tra regole fisse e politiche discrezionali pone le fonda- menta su aspetti teorici e caratteristiche empiriche dell’operato delle autorità; su un rilevante numero di incentivi e disincentivi che in­fluenzano l’operare stesso dei policymakers nelle democrazie moderne; sulle caratteristiche oggettive della definizione e messa in opera di po­litiche economiche e sulla situazione economica su cui si sta operan­do. Gli effetti deludenti e gli squilibri di finanza pubblica provocati dalle politiche discrezionali degli anni settanta e ottanta, i legami del­le autorità di politica economica con l’esecutivo, l’incertezza che coin­volge la politica e il sistema economico e la capacità degli agenti eco­nomici di intuire, analizzare e anticipare le manovre sono elementi determinanti di questo dibattito.

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85

Page 79: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica
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Deficit pubblico, debito pubblico e soluzione delle equazioni alle differenze

2

Di che cosa si parla nel capitolo

II capitolo fornisce un’analisi delle determinanti del disavanzo pubblico e del debito pubblico e sviluppa gli aspetti dinamici impliciti nel finan­ziamento delle spese pubbliche. Un concetto essenziale è il vincolo di bilancio del governo. I l vincolo di bilancio pone in relazione entrate e uscite con la spesa per interessi sul debito accumulato ed è, quindi, ne­cessariamente dinamico. I l rispetto immediato o futuro del vincolo di bilancio caratterizza la relazione tra politiche di bilancio e politica mo­netaria dei vari paesi. Nel capitolo si sottolinea come questi aspetti pos­sano produrre rilevanti implicazioni generazionali. Lo strumento ade­guato per analizzare la dinamica del debito e le sue implicazioni sono le equazioni alle differenze e le equazioni differenziali. I l capitolo fornisce una trattazione piuttosto intuitiva delle soluzioni di queste equazioni. La struttura di queste equazioni si presta a modellare la struttura dina­mica del vincolo di bilancio del governo e le soluzioni di queste equa­zioni permettono di argomentare le implicazioni di breve e lungo perio­do del debito pubblico. G li argomenti trattati nel capitolo vogliono sot­tolineare anche l’aspetto dinamico del finanziamento delle politiche di bilancio. In questo ambito l ’analisi statica ha poco senso. Intervenire oggi o rimandare l ’intervento a domani può generare effetti rilevanti sul debito pubblico e quindi sulla politica, sull’economia e sulla distri­buzione del carico fiscale per i l riequilibrio finanziario. Queste conse­guenze non necessariamente ricadranno sugli stessi individui o genera­zioni che hanno usufruito dei vantaggi di un disavanzo pubblico.

2 . 1

Introduzione

Negli ultimi decenni abbiamo assistito in maniera più o meno ricorren­te ad un acceso dibattito sui problemi di finanza pubblica. Nella pro-

8 7I

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i . I '. /. i o n i d i p o l i t i c a e c o n o m i c a

gettazione dell’Unione monetaria europea, i parametri fiscali relativi a disavanzo e debito pubblico hanno generato critiche e discussioni in ambito accademico e politico. La rilevanza di questi parametri per la costruzione ed il mantenimento dell’unione monetaria è considerevole e ha condizionato le politiche economiche dei paesi che ne fanno parte.

Da questo dibattito emergono una serie di domande. Ad esempio, perché il debito pubblico rimane un tema della teoria economica tra i più dibattuti da diversi anni a questa parte? Perché il trattato di Maastricht impone esplicitamente il divieto di finanziare i disavanzi e prevede una Banca centrale completamente indipendente? Perché i governi raggiungono un livello tale di degenerazione della finanza pubblica? Perché il debito pubblico riguarda spesso molte generazio­ni diverse di individui (è un problema intergenerazionale)? Perché il debito pubblico da circa un decennio rappresenta il principale pro­blema di politica economica nei paesi industrializzati? Perché in tutti i paesi da oltre un decennio una riduzione della pressione fiscale è indicata come una politica indispensabile per rilanciare una crescita economica robusta, mentre aliquote e tassazione rimangono elevate e in molti casi continuano ad aumentare? Quali sono, per un governo, i costi e i benefici della stabilizzazione o di una riduzione del debito? Perché in paesi con elevato debito pubblico si riscontrano tassi di in- teresse più elevati e condizioni di crescita relativamente più modeste?I paesi con elevato debito mostrano caratteristiche politiche e istitu­zionali particolari? Perché si discute tanto di riforma dei sistemi pen­sionistici e che relazione esiste con i disavanzi pubblici? Questa breve trattazione non potrà tener conto di tutti questi quesiti in maniera dettagliata, tuttavia i vari paragrafi che la compongono cercheranno di fornire alcune indicazioni tecniche allo studente che potrà comun­que far ricorso al paragrafo finale “per saperne di più” .

Molte delle domande appena formulate caratterizzano i dibattiti e le discussioni in materia di finanza pubblica e trovano conforto o supporto critico, nel confronto dei dati macroeconomici riportati nel­le t a b b . 2 . 1 e 2 . 2 . E consuetudine confrontare spesa sociale, spesa complessiva, pressione fiscale e voci più dettagliate della spesa pub­blica e della tassazione tra i vari paesi e trarne conclusioni sul loro andamento attuale e potenziale. Questo confronto, specie se focaliz­zato in un ambito statico, non risulta affatto indicativo, in quanto si trascurano importanti considerazioni dinamiche.

Occorre, in altri termini, considerare non soltanto lo stato in esse­re degli aggregati di spesa pubblica e tassazione, ma:i) ciò che è stato nel passato prossimo o remoto (in alcuni casi, come

8 8

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE D ELLE EQUAZIONI

TABELLA 2.1 Spesa pubblica come percentuale del p il

1994

nei paesi eu

1998 2001 2 002

Austria 49.2 47.0 47.7 48.2Belgio 41.5 40.7 40.3 40.4Germania 43.1 42.7 42.7 43.0Danimarca 54.7 51.5 48.9 49.5Spagna Na 35.2 34.6 34.8Finlandia 56.4 46.4 43.6 44.2Francia 48.5 46.7 45.9 46.6Grecia 32.1 34.9 36.6 37.2Irlanda 36.6 29.9 29.9 31.4Italia 41.7 39.8 40.5 40.8Lussemburgo 43.7 40.9 39.5 43.3Olanda 43.2 39.2 39.3 40.3Portogallo 36.6 36.7 38.9 38.4Svezia 62.9 52.7 50.1 50.9Regno Unito 40.0 34.6 36.3 37.0Media 45.0 41.3 41 41.7Deviazione standard 8.2 6.4 5.4 5.4Fonie: onci) Economie Outlook 72 (dicembre 2002).

quello italiano, è importante considerare cosa è accaduto nei decennipassati), in termini di spesa pubblica e tassazione;ii) la dinamica e le determinanti del debito accumulato.

La t a b . 2,3 riporta l ’ammontare del debito pubblico accumulato in termini di p i l nei paesi dell’Unione europea. Considerando il pro­dotto interno lordo come una approssimazione della ricchezza che si produce ogni anno in un determinato paese, la tabella mette in luce una situazione piuttosto seria per diversi paesi, tra cui l’Italia: l’am­montare del debito è superiore alla ricchezza prodotta. La tabella mo­stra anche alcune caratteristiche dinamiche del rapporto debito/pil:i) nell’arco di tempo di 10 anni, tra il r98o e il 1990, in Italia il rapporto è quasi raddoppiato;ii) la dimensione e la dinamica del rapporto debito/piL dell’Italia sono piuttosto rilevanti qualora vengano confrontate con quelle ri­scontrate nello stesso arco di tempo nella media dei paesi e u ;

in) dal 1995, in maniera analoga a diversi altri paesi, si assiste in Italia ad una graduale riduzione (“ al rientro”) del rapporto debito/piL \

1 . Balassone et al. (2002) forniscono un’analisi dettagliata e aggiornata delle componenti dinamiche che hanno generato il debito pubblico italiano e del processo di consolidamento fiscale intrapreso nell'ultimo decennio.

8 91

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

TABELLA 2. 2

Pressione fiscale come percentuale del p i l nei paesi e u

1994 1998 2001 2002

Austria 43.7 45.7 46.9 46.4Belgio 46.0 47.5 47.0 47.4Germania 41.4 42.5 41.7 41.2Danimarca 50.2 51.0 50.6 50.0Spagna 33.6 34.7 35.8 36.5Finlandia 45.8 46.1 45.5 45.5Francia 44.6 46.0 46.2 45.7Grecia 33.9 37.7 38.6 38.1Irlanda 34.0 32.7 31.1 29.7Italia 42.2 42.9 42.1 41.6Lussemburgo 42.6 40.5 42.2 43.6Olanda 40.6 40.5 40.2 39.5Portogallo 33.5 35.0 36.2 37.1Svezia 49.0 53.5 54.2 52.1Regno Unito 35.7 37.3 38.1 36.9Media 41.2 42.2 42.0 41.4

Fatile: Commissione Europea, “European Econom y” ,. 5, 2002.

Questo capitolo, che comprende 17 paragrafi, analizza alcuni aspetti importanti del rapporto d e b ito /p iL , ed in particolare le caratteristiche dinamiche di questo rapporto che hanno consentito di generare alcu­ne serie implicazioni per l’economia e per la politica economica. Le cifre riportate nella t a b . 2.3 indicano chiaramente la responsabilità delle autorità di politica economica, ed in particolare le autorità di politica di bilancio, per il reiterato squilibrio dei conti finanziari ma, allo stesso tempo, ed è ciò che più ci interessa in questo capitolo, indicano anche che in questa situazione le autorità hanno incontrato e tuttora affrontano un severo vincolo ad operare con politiche di bi­lancio. Di fatto, sin dalla metà degli anni novanta le economie euro­pee hanno intrapreso un deciso programma di risanamento fiscale, le­gato alla dinamica e agli elevati livelli raggiunti da deficit e debito pubblico e ai parametri fiscali stabiliti a Maastricht per la partecipa­zione all’Unione europea.

Il capitolo è organizzato nel seguente modo: nel p a r . 2 . 2 si farà un breve riferimento allo strumento di analisi adottato nei testi di macroeconomia per valutare la politica fiscale. Il semplice schema IS-LM è inadeguato per catturare alcuni aspetti centrali della politi­ca di bilancio. Nel p a r . 2 . 3 viene affrontato il problema dinamico intrinseco alla definizione di debito pubblico. Il p a r . 2 . 4 introduce le equazioni alle differenze e le loro soluzioni per definire la dina-

9 0

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

TABELLA 2 . 3

D e b i t o p u b b l i c o c o m e p e r c e n t u a l e d e l p il n e i p a e s i e u ( 1 9 8 0 - 2 0 0 3 )

1980 1990 1995 2000 2001 2002 2003

Belgio 79.6 129.2 133.9 109.2 107.6 105.6 101.7Danimarca 36.5 57.8 69.3 46.8 44.7 44.0 42.4Germania 31.7 43.5 57.0 60.2 59.5 60.9 61.8Grecia 25.0 79.6 108.7 106.2 107.0 105.8 102.0Spagna 16.8 43.6 63.9 60.5 57.1 55 53.2Francia 19.8 35.1 54.6 57.3 57.3 58.6 59.3Irlanda 75.2 101.5 82.6 39.1 36.4 35.3 35.0ItdllU 58.2 97.2 123.2 110.6 109.9 110.3 108.0Lussemburgo 9.3 4.4 5.6 5.6 5.6 4.6 3.9Olanda 46.0 77.0 77.2 55.8 52.8 51.0 50.1Austria 36.2 57.2 69.2 63.6 63.2 63.2 63.0Portogallo 32.3 58.3 64.3 53.3 55.5 57.4 58.1Finlandia 11.5 14.3 57.2 44.0 43.4 42.4 41.9Svezia 40.3 42.3 79.2 55.3 56.6 53.8 51.7Gran Bretagna 53.2 34.0 51.8 42.1 39.1 38.5 38.1

Media 38.0 58.3 73.0 60.6 59.7 59.1 58.0Media ponderata (p i i .) 38.0 54.4 70.2 64.1 63.0 63.0 62.5Deviazione standard 20.5 32.5 30.2 27.5 27.7 27.8 26.9

Nota: stime per il 2003; le cifre del 1980 e del T990 per la Germania si riferiscono alla sola GermaniaOccidentale.

Fonie: Commissione Europea, “European Economy” , 5, 2002.

mica del debito pubblico. Questo strumento permette di indagare, con le sue soluzioni matematiche e le relative implicazioni economi­che, sulla dinamica del debito e sulle sue determinanti. L ’utilizzo di queste equazioni ci consente di stimare gli effetti di breve e di lun­go periodo di eventuali manovre di politica economica e capire se queste stiano generando una dinamica “sostenibile” o “non sosteni­bile” del debito.

La soluzione delle equazioni alle differenze è composta da due parti a cui corrispondono due soluzioni relative alla dinamica del debito pubblico: un valore di equilibrio e un valore di deviazione da tale equilibrio per ogni periodo considerato. Il debito pubblico, nelle sue diverse definizioni, può convergere verso un valore di equilibrio o, viceversa, può divergere da tale valore, creando una si­tuazione chiamata “esplosiva” . Il p a r . 2 . 5 analizza in dettaglio le implicazioni generate da quest’ultima soluzione (soluzione “esplosi­va” o insostenibile). Questa soluzione riveste una certa importanza in quanto, ben lungi dal rappresentare un risultato teorico o ipoteti­co, spesso riflette situazioni reali riscontrate in diversi paesi e in di­versi periodi storici.

91 ,

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Il p a r . 2 . 6 spiega come dal problema del finanziamento del debito nascano le possibilità di cooperazione e di conflitto tra politica fiscale e politica monetaria. In particolare, questo paragrafo mostra quali sono le implicazioni per la politica monetaria delle varie possibilità di finanziamento del debito. Il paragrafo successivo ( p a r . 2 . 7 ) pone in relazione questi aspetti con l’inflazione come misura eccezionale di ri­entro dallo squilibrio di finanza pubblica.

Il p a r . 2 . 8 definisce il concetto di equivalenza ricardiana. Una si­tuazione di sostanziale neutralità della politica fiscale, sebbene dipen­da da ipotesi ben definite e restrittive, è un utile benchmark per ana­lizzare gli effetti che una riduzione della tassazione può generare per stimolare l ’economia. Il p a r . 2 . 9 introduce la teoria fiscale del livello dei prezzi, e individua un’ulteriore relazione tra vincolo di bilancio, politica fiscale e prezzi.

Il p a r . 2 . 1 0 definisce il disavanzo pubblico corretto per il ciclo (chiamato anche disavanzo strutturale). Gli effetti ciclici incidono sul disavanzo pubblico per via degli stabilizzatori automatici: componen­ti delle entrate fiscali e delle uscite pubbliche che variano non in maniera discrezionale ma in maniera automatica con il ciclo econo­mico.

Il p a r . 2 . 1 1 discute le implicazioni per la stabilizzazione del de­bito qualora si consideri un’economia aperta con mobilità dei capi­tali. Il p a r . 2 . 1 2 riporta alcuni fatti stilizzati per l ’economia italiana e commenta tali dati alla luce delle soluzioni teoriche espresse nei paragrafi precedenti. Il p a r . 2 . 1 3 analizza il processo decisionale del­la politica di bilancio. Nel p a r . 2 . 1 4 ci si domanda quali siano stati i fattori che nel recente passato hanno prodotto in tutti i paesi un sensibile incremento del debito pubblico. In particolare, si analizza la natura politica di questo fenomeno. Il p a r . 2 . 1 5 introduce l’indi­rizzo di ricerca delle “ scelte pubbliche” , il cui obiettivo è limitare il potere discrezionale degli esecutivi e vincolare la possibilità di crea­re deficit pubblici mediante l ’introduzione di regole istituzionali o costituzionali. Infine, il p a r . 2 . 1 6 riporta il problema del debito defi­nito in precedenza in un contesto temporale non più discreto ma in tempo continuo. Lo strumento ora non sono più le equazioni alle differenze, ma le equazioni differenziali. Questo paragrafo mostra come le soluzioni siano analoghe nei due diversi contesti. Lo stu­dente attraverso i vari capitoli sarà introdotto ad utilizzare modelli economici definiti sia in termini di equazioni alle differenze sia in termini di equazioni differenziali. Il capitolo si chiude con un riepi­logo dei maggiori concetti e delle argomentazioni trattate e con una bibliografia.

9 2

Page 86: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO V, SOLUZIONI- UKl.l.K l.i.H I A'/.l< ) N l

2.2

Gli strumenti di analisi

Un primo strumento messo a disposizione dello studente per analiz­zare l ’effetto sull’economia (tasso di interesse, livello dei prezzi e red­dito) di una politica fiscale è lo schema IS-LM. Nelle sue formulazioni più semplici, questo schema non considera come la manovra di fi­nanza pubblica viene finanziata. In altri termini non si definisce un vincolo di bilancio del governo. Una contrazione o un’espansione del­la spesa o delle sue componenti aggregate, così come una riduzione o un aumento della tassazione mediante la manovra sulle aliquote, acci­se o tassazione forfetaria rappresenta, nelle democrazie occidentali, una manovra difficile da realizzare in tempi brevi. Queste misure sono soggette a pressioni di gruppi economici e lobbies diverse, e su­biscono un iter parlamentare a volte prolungato e non privo di ten­sione che spesso trasforma i progetti originali, a causa delle molteplici influenze che subiscono durante l’iter stesso.

Lo schema IS-LM astrae da queste problematiche e permette di analizzare immediatamente sui mercati dell’economia l’effetto di una eventuale variazione di spesa o tassazione, partendo da una situazione di equilibrio. I mercati dei capitali-beni, moneta, altre attività finan­ziarie e, via equilibrio tra domanda e offerta aggregata, anche il mer­cato del lavoro subiscono una variazione che raffiguriamo con un nuovo punto di equilibrio. Tuttavia in questo primo incontro con lo schema macroeconomico non si analizzano gli effetti della creazione di un disequilibrio tra entrate e uscite pubbliche. Ciò è dovuto al fat­to che l’economia che si sta considerando è un’economia statica. Considerare il disequilibrio generato nel vincolo di bilancio del go­verno significa infatti definire il problema in forma dinamica.

Le diverse manovre di politica fiscale effettuate con lo schema IS- LM rappresentano quindi degli esercizi di statica comparata. Esercizi, effettuati in un contesto di equilibrio parziale, dove si studiano sol­tanto le conseguenze generate dalla politica fiscale (tassazione o spesa pubblica) sui mercati dei beni (o dei capitali, offerta e domanda di risparmio) e su quello monetario. Questi esercizi sono utili per capire l’operare di alcuni meccanismi (applicando la clausola del ceteris pari- bus) ma risultano insufficienti per comprendere altri aspetti, ed in particolare le implicazioni dinamiche di spesa pubblica e tassazione e dei finanziamenti dei disavanzi che queste politiche generano.

Alcuni aspetti dinamici della politica fiscale possono essere consi­derati con lo schema IS-LM, facendo ricorso alla relazione tra stock e

93f

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

flussi. L ’analisi tra stock e flussi mette in luce anche importanti consi­derazioni strategiche sull’interazione tra politica fiscale e monetaria. Ad esempio, partendo da una situazione di equilibrio dello schema IS-LM e ipotizzando una politica fiscale espansiva, si raggiunge un nuovo equilibrio con lo spostamento della IS verso destra. Se, nell’e­quilibrio di partenza, il vincolo di bilancio del governo è in pareggio, il nuovo equilibrio raggiunto è un equilibrio di breve periodo. La poli­tica espansiva produce necessariamente un disavanzo che deve essere finanziato. Il nuovo equilibrio, caratterizzato dall’intersezione delle due curve di equilibrio del mercato della moneta e del mercato dei beni, produce un reddito più elevato, e questo potrebbe in parte con­trobilanciare il disavanzo pubblico causato dalla manovra fiscale espansiva se le entrate fiscali sono legate in qualche modo al reddito. L ’aumento del reddito può, tuttavia, non essere sufficiente a riequili­brare i conti pubblici. Una possibilità per ottenere il pareggio di bi­lancio è allora finanziarlo con dei titoli emessi dal Tesoro e acquistati dalle autorità monetarie che in questo modo creano moneta. Il pro­cesso di creazione di moneta genera uno spostamento della curva LM verso destra ed è un processo di aggiustamento di uno stock che du­rerà fintantoché esso sarà in grado di generare un aumento del pro­dotto tale che la tassazione sia capace di controbilanciare l’iniziale au­mento di spesa pubblica. Raggiunto questo punto, l’equilibrio defini­to dallo schema IS-LM è un equilibrio di stock e quindi un equilibrio di lungo periodo. In questo esempio abbiamo descritto un finanzia­mento monetario del disavanzo pubblico causato con un incremento di spesa pubblica che fa spostare la curva IS.

L ’esempio può essere replicato considerando l ’equilibrio di breve periodo ottenuto con un surplus di bilancio. In questo caso le entrate sono maggiori delle spese pubbliche e il Tesoro potrebbe ritirare il debito emesso (i titoli di debito pubblico) e assorbito dalla Banca centrale. In -altre parole, il Tesoro distruggerebbe moneta e portereb­be ad una contrazione del prodotto con lo spostamento verso sinistra della curva LM fino al punto in cui il prodotto risulta sufficiente, via tassazione, a bilanciare le spese. Anche in questo caso si avrebbe un equilibrio di lungo periodo con un bilancio pubblico in pareggio e una variazione nulla dello stock di moneta.

Il modello appena descritto è estremamente semplice ma è suffi­ciente a far sorgere alcune domande di politica economica. Tutto ciò nasce dal fatto che, contrariamente alle soluzioni semplicistiche pre­sentate nel primo corso di Macroeconomia, la politica fiscale dovrà trovare una copertura finanziaria. Ciò significa che occorre includere

94

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

nell’analisi un vincolo di bilancio per il settore pubblico. Inoltre que­ste brevi considerazioni ci permettono di avanzare ipotesi e domande sulla relazione tra le autorità di politica fiscale e la Banca centrale e sulle conseguenze di uno squilibrio di bilancio che sì protrae nel tem­po invece di essere finanziato con creazione di moneta.

Il capitolo analizzerà in maggiore dettaglio le dinamiche generate dalla politica fiscale, utilizzando il vincolo di bilancio dinamico del settore pubblico (o del governo o dello Stato). Abbandoneremo quin­di lo schema IS-LM e ci concentreremo sull’equazione dinamica del debito pubblico nel suo significato tecnico ed economico.

2.3La dinamica del debito pubblico

2.3.1. Alcune definizioni

E opportuno iniziare proprio dalla relazione tra un flusso, il disavan­zo pubblico, e uno stock, il debito pubblico (cioè l ’accumulazione dei disavanzi pubblici nel tempo). Prima di procedere nella specifi­cazione di questa relazione è comunque opportuno definire i vari ag­gregati. Nello schema aggregato considerato, possiamo distinguere tra disavanzo pubblico primario e disavanzo pubblico totale. Con la prima definizione si indica la differenza tra le entrate e le uscite del­lo Stato. In altri termini la differenza tra l’ammontare di entrate ot­tenute con le varie forme di tassazione e le uscite composte dalle va­rie voci di spesa pubblica. Un disavanzo primario è quindi generato da un eccesso di spesa mentre un surplus primario da un eccesso di tassazione (entrate). Se all’aggregato disavanzo primario aggiungiamo la spesa netta per interessi maturati sul debito pubblico in scadenza (debito in possesso di famiglie e operatori vari e che, giunto a matu­razione, fornisce un interesse ai possessori), otteniamo il disavanzo pubblico complessivo.

La più ampia aggregazione delle operazioni di spesa ed entrata si articola, nel bilancio, in quattro voci: Entrate i) tributarie; ii) extra­tributarie; iii) alienazione ed ammortamento di beni patrimoniali e ri­scossione di crediti; iv) accensione di prestiti.

Tra le entrate tributarie, vanno distinti tre aggregati maggiori.i) Tasse. I privati sono tenuti a contribuire a finanziare alcuni servizi prodotti dallo Stato qualora domandino tali servizi. Tasse scolastiche, giudiziarie e ticket sono esempi di tasse.ii) Imposte. Prelievi coattivi classificati come imposte dirette che col-

9 5\

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

piscono direttamente la capacità contributiva relativa ad un reddito o un patrimonio, e imposte indirette che colpiscono la capacità contri­butiva indirettamente attraverso il consumo o il trasferimento dei beni. La classificazione delle imposte definisce sistemi tributari piutto­sto complessi, formati da numerose imposte distinte per struttura giu­ridica ed effetti economici per cui si rimanda ai testi di scienze delle finanze (si veda ad esempio, Artoni, 1999; Bosi, Guerra, 1998) 2.iii) Contributi sociali. Prelievi relativi al reddito di lavoratori dipen­denti ed autonomi indirizzati sostanzialmente al finanziamento delle prestazioni sociali.

Per le Spese ci sono quattro titoli.i) Spese correnti. Erogazioni che si riferiscono al normale svolgimen­to dell’attività statale e spese destinate a realizzare la redistribuzione dei redditi.ii) Spese in conto capitale. Spese per investimenti diretti e indiretti (con il concorso finanziario pubblico).iii) Spese per acquisto di beni e servizi. L ’acquisto da parte delle am­ministrazioni pubbliche di beni prodotti e servizi correnti.iv) Spese di trasferimento. Prestazioni sociali e pagamenti di interessi sul debito pubblico sono tra le poste più rilevanti di queste spese, cui non corrispondono prestazioni di servizi o cessioni di beni, ma sono pagamenti unilaterali delle Amministrazioni pubbliche.

Oltre a questa breve definizione delle entrate e delle uscite pub­bliche va ricordato che si utilizzano tre definizioni dell’operatore pubblico. La Pubblica amministrazione che a sua volta è suddivisa in tre componenti, 1) Le Amministrazioni centrali (Stato, organi costitu­zionali, Cassa d d p p , a n a s e altri); //) Le Amministrazioni locali (regio­ni, province, comuni, aziende sanitarie locali, ospedali, università e al­tri); iii) Enti previdenziali ( i n p s , i n a i l , i n p d a p e altri).

Se a queste amministrazioni pubbliche sommiamo le ex aziende autonome statali (ferrovie, poste, monopoli, telefoni) e le aziende mu­nicipalizzate e regionalizzate, otteniamo il Settore pubblico. Infine, il Settore statale è definito come lo Stato inteso come bilancio e tesore­ria, le ex aziende autonome escluse ferrovie, poste e telefoni, la Cassa

2. Imposta sul reddito delle persone fisiche; imposta sul reddito delle persone giuridiche; imposta personale sul consumo; imposta sulle vendite; imposta sul valore aggiunto; imposta regionale sulle attività produttive; imposta sugli utili distribuiti; contributi sociali a carico del datore di lavoro; contributi sociali a carico del lavorato­re; imposta sostitutiva sui redditi da capitale e sulle plusvalenze; imposte a somma lìssa (sulle persone); imposte sulle risorse naturali; imposta sulle dotazioni di capitali.

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2 . DEFTCIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

depositi e prestiti (che gestisce la raccolta postale e finanzia gli enti locali).

Nello schema teorico di questo capitolo, per definire il disavanzo pubblico, aggregheremo ulteriormente queste voci in entrate e uscite. Inoltre, nella nostra esposizione teorica, l ’operatore pubblico, lo Statoo il governo sono assimilabili alle istituzioni di politica fiscale o politi­ca di bilancio, ma distinte dall’istituzione della politica monetaria (la Banca centrale).

2.3.2. Il fabbisogno complessivo e la sua copertura finanziaria

Consideriamo ora il bilancio dell’operatore pubblico. Iniziamo a defi­nire il fabbisogno complessivo sia nella sua formazione che nella suacopertura finanziaria.

[2.1] Ft = G t - T t + iBt_x

Questa equazione definisce il fabbisogno complessivo come la diffe­renza tra le spese pubbliche complessive G, e le entrate complessive T. Questa differenza è relativa all’anno corrente ed è chiamata fabbi­sogno primario, che naturalmente può essere positivo (le spese sono maggiori delle entrate, si produce un deficit), o negativo (le entrate sono maggiori delle uscite, si produce un surplus). Al fabbisogno pri­mario Dt - G t - T„ aggiungiamo la spesa per interessi relativa al fabbisogno dello scorso anno (t— I) coperto con un prestito, ad esem­pio emettendo titoli di debito pubblico iBt_1; dove i rappresenta il tasso di interesse nominale medio sui titoli di debito pubblico. Quin­di il fabbisogno complessivo per l’anno in corso è composto dalle spese pubbliche correnti, in conto capitale e spese per l’acquisto di beni e servizi, per le prestazioni sociali ecc., finanziate dalle entrate complessive, più le spese per il pagamento degli interessi maturati quest’anno sul debito pubblico accumulato precedentemente 3.

Vediamo ora le modalità di copertura del fabbisogno complessivo sopra definito. Le maggiori uscite del settore pubblico possono essere

3. Nella [2.1 ] abbiamo operato due semplificazioni rilevanti. Il tasso d’interesse rappresenta il rendimento medio dei titoli emessi (che, come vedremo in seguito, han­no caratteristiche diverse). Tutto il debito matura nell’arco di un anno, mentre in real­tà il processo di rifinanziamento è ben più complesso e definito da una serie di sca­denze che, nell’arco di ogni anno, riguarda una componente di titoli con dimensione, durata e rendimenti sensibilmente diversi.

97f

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

finanziate emettendo titoli di debito B t presso i soggetti privati o chiedendo alla Banca centrale di aumentare lo stock di moneta M t.

[2.2] Ft = (Bt - Bt_j) + (M, - M ^ )

Quindi le variazioni dello stock di debito fruttifero e dello stock di moneta costituiscono le fonti di finanziamento del fabbisogno. L ’u­guaglianza tra la formazione del fabbisogno e la sua copertura defini­sce il vincolo di bilancio dinamico in valore del settore pubblico:

[2.3] G t - Tt + iBt_! = (Bt - B f_j) + (Mt - M^j)

Il debito pubblico è un aggregato di titoli diversi, nelle caratteristiche e nelle scadenze, emessi sul mercato e quindi posseduti da soggetti privati quali famiglie e imprese nazionali ed estere, e dalla Banca cen­trale. La componente di titoli di debito pubblico posseduta dalla Banca centrale costituisce la base monetaria del Tesoro. Una constata­zione che porta immediatamente a definire la composizione del finan­ziamento di un deficit pubblico, che può trovare copertura sia con emissioni di titoli sia con creazione di moneta. Questo ultimo aspetto verrà analizzato in seguito, per cui in questa trattazione utilizzeremo soltanto la variazione dello stock del debito come fonte di finanzia­mento (Mt ~ M ;_i) = 0. Analizzeremo più avanti i problemi e le im­plicazioni di un finanziamento monetario del fabbisogno.

Se la composizione del debito è determinata da titoli a scadenza biennale, dopo due anni il capitale investito da famiglie e operatori in titoli di debito pubblico deve essere rimborsato. Come accennato, nella realtà le scadenze e le tipologie di titoli sono diverse. In questo semplice schema possiamo assumere che B t_x rappresenti il debito in scadenza dopo un anno. Date le precedenti definizioni, la relazione tra il valore del debito nel periodo corrente e il disavanzo pubblico è espressa dalla seguente equazione:

I2.4] B t = (1 + i)Bt_x + Dt

Un governo, mediante un dicastero economico (ministero del Tesoroo dell’Economia), emette titoli presso operatori vari (banche, impre­se) c famiglie per coprire un disavanzo primario, generato da maggio­ri l i s c i l e per spese pubbliche rispetto alle entrate complessive ottenu- i<- con l’imposizione fiscale. Inoltre il governo dovrà far fronte ad una

i ) 8

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

ulteriore voce di spesa, dovuta agli interessi maturati sul debito pre­esistente alla nuova emissione.

2.3.3. L ’evoluzione del rapporto debito/piL

Tuttavia, questa relazione comporta una difficile lettura della reale consistenza del debito. Come qualsiasi debito contratto da famiglie e imprese, la sua reale consistenza dovrà essere rapportata ad un indi­catore di ricchezza o produzione capace di fornire informazioni sulle capacità di farvi fronte. Una famiglia che chiede un prestito di 40 mila euro, ma che è in grado di realizzare un reddito di 100 mila euro, affronta un problema diverso da una famiglia che richiede lo stesso ammontare in prestito e realizza un reddito di 35 mila euro. Dire che il debito pubblico ha raggiunto 10 mila miliardi di euro o50 mila miliardi di euro non chiarisce la reale consistenza di questa grandezza. Per ovviare a questi inconvenienti, si usa raffrontare il va­lore nominale del debito e del deficit pubblico con la ricchezza che il paese è capace di produrre. Generalmente l’intera equazione [2.4] è ridefinita in rapporto al p i l nominale. Definendo questi rapporti con lettere minuscole, possiamo scrivere la seguente equazione dinamica:

1 + 1 1[2.5] bt = ---------V i + dt1 + n

Il rapporto tra tasso di interesse e tasso di crescita dell’economia è facilmente ricavabile se si considera che l’equazione [2.4] è divisa in entrambi i membri per il p i l nominale al tempo t. Tuttavia, nel lato destro dell’equazione il debito compare al tempo t— 1. Dovremmo de­flazionare un valore per l’anno passato con un valore del prodotto per l’anno corrente. Il lato destro della [2.4] può però essere contem­poraneamente moltiplicato e diviso per il p i l dello scorso anno, otte­nendo nel termine in oggetto:

Y,= (1 -1- i)btt- 1

Y,= (1 + Ì)\

t 1 + nWt-i

Con il tasso di crescita del p i l definito da n — (Yt — Yt_f)IYt_x (1 + n) = Y t/Yt_i, si ricava il lato destro della [2.5].

9 9

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Riguardo l ’equazione [2.5] è opportuno soffermarci su due con­siderazioni:a) le variabili sono espresse in termini nominali. Ciò significa che sono composte da una variabile reale e dai prezzi ad essa associati. Cosicché, ad esempio, il p i l in valore potrebbe crescere per effetto della sola crescita dei prezzi, o per effetto di un aumento reale delle quantità prodotte in un determinato anno, o per un effetto congiun­to di prezzi e quantità. Un analogo discorso coinvolge il tasso di in­teresse. L ’influenza dell’inflazione sulla dinamica del rapporto debi- to /p iL non sembra rilevante. Di fatto il tasso di crescita del reddito e il tasso di interesse contengono entrambi il tasso di inflazione: il tas­so di interesse nominale non è altro che il tasso di interesse reale più il tasso di inflazione. Analogamente, il tasso di crescita del p i l

nominale è definito come tasso di crescita del p i l reale più il tasso

I 1 + i \di inflazione. Tutto ciò implica che il rapporto ------- rimane inva-

\ 1 + n Iriato se espresso in termini di tasso di interesse reale e tasso di cre­scita reale. Vedremo più avanti, tuttavia, che la dinamica del rappor­to debito/piL non è neutrale all’inflazione. Dunque, la nostra impo­stazione non è corretta ma è un’utile approssimazione iniziale. In realtà esistono divergenze tra i deflatori utilizzati per il p i l e il tasso di interesse, nonché tra il tasso di inflazione corrente e atteso con cui si calcola il tasso di interesse reale. L ’inflazione agisce sulla dina­mica del rapporto debito/piL e sul disavanzo pubblico e il suo effet­to dipende anche dalla composizione dei titoli di debito pubblico, dalle loro caratteristiche particolari e dalla loro durata (maturità). In­fine occorre tener conto della cosiddetta “tassa da inflazione” qualo­ra sia possibile un finanziamento monetario del debito. Nei p a r r . 2.6 e 2.7 questi aspetti saranno ripresi in maniera più dettagliata;b) l ’equazione [2.5] è un’equazione dinamica che permette di espri­mere una sequenza di valori per la dinamica debito/piL di anno in anno (o di periodo in periodo). Questi valori per il rapporto debi- to/piL variano al variare delle sequenze di valori per le variabili coinvolte nell’equazione: tasso di crescita dell’economia, tasso di in­teresse nominale, tasso di inflazione, disavanzo primario. Per facili­tare l’analisi possiamo ipotizzare che il rapporto tra disavanzo pri­mario e p i l e il tasso di crescita del p i l , nonché il tasso di interesse nominale siano costanti. Queste assunzioni per quanto non realisti­che permettono di individuare caratteristiche importanti della dina­mica del debito pubblico e possono essere facilmente rimosse nel calcolo di tale dinamica.

1 ( ) ( )

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

L ’equazione [2.5] afferma che il rapporto debito/piL nel periodo corrente (il debito di nuova emissione) è determinato dal rapporto tra disavanzo primario e p i l e dal rapporto tra tasso di interesse e tasso di crescita del p i l . La [2.5] rivela come, oltre al deficit pubblico in rapporto al p i l , il secondo motivo per cui una nuova emissione è ri­chiesta è costituito dagli interessi sul debito, sebbene rapportati al tas­so di crescita del p i l .

Dalla [2.5] si possono congetturare varie ipotesi di crescita del debito. Ad esempio, per semplificare, possiamo assumere che per l’anno corrente si preveda un bilancio primario in pareggio {dt = 0), e domandarci se sarà necessario far ricorso ad una nuova emissione del debito. Oppure possiamo domandarci se il rapporto debito/piL bt cresca o si riduca. E facile prevedere come tali domande siano cen­trali per un governo che debba progettare i suoi programmi di fi­nanza pubblica (tassazione e spesa). Ovviamente tali domande posso­no essere replicate con situazioni diverse sul deficit pubblico. Ad esempio ci si può domandare quale sarà il rapporto debito/piL nel prossimo anno in presenza di un surplus primario dt < 0, o di un deficit primario dt > 0 nel periodo corrente, ipotizzando diversi tassi di crescita dell’economia e del tasso di interesse.

Se manteniamo l’ipotesi dt = 0 e ipotizziamo che nell’anno in corso venga a maturazione un debito di 50 mila euro, con un tasso di interesse del 5%, per far fronte a tale situazione, il governo dovrà pagare una somma come spesa per gli interessi pari a 2500 euro (0 .0 5 x 50000 = 2500), che aumenterà lo stock del debito a 52500 euro. Tuttavia, se ipotizziamo un p i l di 70000 euro con un tasso di crescita del 6%, allora l’effetto netto sul rapporto debito/piL è un ef­fetto decelerativo. Il rapporto si riduce per il maggiore tasso di cre­scita del p i l rispetto al tasso di interesse. Il rapporto tra tasso di inte­

resse e tasso di crescita1 + 1

è quindi cruciale per determinare il1 + n I

sentiero di crescita del rapporto debito/piL; a seconda che n sia mag­giore o minore di 1, il rapporto debito/pil subirà, rispettivamente, una riduzione o un aumento.

Si noti che dall’equazione [2.4] si possono derivare espressioni equivalenti alla [2.5] nel seguente modo:

ABt t[2.5.1] ----- = dt +

1 0 1f

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

R I Q U A D R O 2.1Definizioni della dinamica del debito

La [2.5.2] è ottenuta dalla [2.5.1] dividendo e moltiplicando il rapportoper V i

AB, Bt

Y, Yt Yt V i 1 +

Sottraendo da entrambi i lati V i otteniamo:

AB

Y,i _ b = b, - V i

1 + n 1

AB, / 1= A*, + 1 -

1 + nV 1 = Aè, +

/ n

1 + «V i

AB,Questa equazione, una volta sostituita nella [2.5.1] p e r----- , permette di

Ytottenere la specificazione [2.5.2].

o, anche,

( i — n )[2.5.2] Ab, = dt + —------- - V i

(1 + n)

La [2.5.2] ci informa sulla v a ria z io n e del rapporto d e b ito /p iL da un anno all’altro. Una volta c o n o s c iu ti i dati sul tasso di crescita dell’e­conomia, il tasso di interesse e il fabbisogno primario in rapporto al p i l , e considerato lo stock di debito in scadenza (in rapporto al p i l ),

possiamo domandarci d i quanto aumenterà il rapporto d e b ito /p iL il prossimo anno. Per fare u n esempio, ipotizziamo i seguenti valori per il tasso di interesse e il tasso di crescita del p i l : / = 8 % e n = 6 % .

Nel periodo iniziale (quest’anno), il rapporto d e b ito /p iL , b0, è pari a

1 e il fabbisogno primario è pari al 5 % del p i l . Inoltre escludiamo un finanziamento monetario. Possiamo domandarci quale sarà il rapporto d e b ito /p iL tra un anno. Applicando la [2.5.2] otteniamo: A bx = 0.05 + (0 .02/1.06) • 1 = 0 .06 .

1 0 2

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DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE D ELLE EQUAZIONI

Il rapporto debito/piL crescerà nel prossimo anno di circa 6 punti percentuali, passando dal 100 al 106%.

Paesi che presentano un alto rapporto debito/piL possono ridurre la le rapporto in maniera diversa, secondo le condizioni descritte dal dillerenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita. Con (i - ti) > 0 (o in altri termini con un rapporto tra i tassi maggiore dell’unità), l’equa­zione [2.5] asserisce che il rapporto debito/piL nel periodo corrente diminuisce solo se l’avanzo primario è superiore allo stock del rapporto <lcbito/piL nel periodo precedente moltiplicato il rapporto tra i tassi:

In altri termini l’avanzo primario (d — (G - T)/Y indica il disavanzo primario in termini di p i l , il segno negativo indica perciò un avanzo primario) dovrà superare la quota di interessi sul debito in eccesso al tasso di crescita dell’economia.

Si noti che, con la condizione (i — ri) < 0, la politica fiscale può generare anche un disavanzo primario senza fare crescere il debito, purché il disavanzo sia compensato dall’effetto di un tasso di inte­resse inferiore al tasso di crescita. Infine, quando il differenziale tra i tassi di interesse e crescita è nullo, non c’è nessun effetto sulla dina­mica del debito proveniente da questi due parametri, e per ridurre il rapporto d e b ito /p iL è necessario un surplus primario. Ovviamente, possiamo ripetere queste condizioni per le diverse espressioni della dinamica del debito [2.5.1] e [2.5.2].

Stabilizzare il debito significa trovare l’avanzo primario consistente con un rapporto d e b ito /p iL invariato, b, - bt_i — 0 . Occorre, quindi, verificare che tale condizione sia rispettata, riprendendo l’equazione del d e b ito [2.5] e imponendo tale vincolo (sottraendo da ambo le

parti il rapporto d e b ito /p iL ritardato bt_i):

Il surplus primario necessario alla stabilizzazione del debito è quindi:

1 + ibt - bt_x = 0 =

1 + nbt-i ~ 1 + àt

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M ' . / I O N I IM P O L I T I C A L C O N O M 1C A

Nel valutare la dinamica del debito pubblico è opportuno ricordare che il tasso di crescita dell’economia e il tasso di interesse sono, in questa trattazione, delle variabili esogene. Questa è un’ipotesi non re­alistica ma utile per limitare la complessità dell’analisi. Inoltre, questa assunzione sull’esogeneità ci permette un’ulteriore astrazione che ri­guarda l’apertura dell’economia agli scambi commerciali e finanziari. Tuttavia, è opportuno ricordare che l’equazione della dinamica del debito è legata alle molteplici relazioni tra le variabili coinvolte e i mercati che influenzano la crescita e i prezzi delle attività finanziarie, nonché agli assetti istituzionali che regolano le possibilità di disavan­zo e il loro finanziamento.

2#4Le equazioni alle differenze e le loro soluzioni

Le equazioni alle differenze (o le equazioni differenziali, se consideria­mo modelli nel tempo continuo, si veda il p a r . 2.16) costituiscono un valido strumento per analizzare la dinamica dei fenomeni economici. Per alcune semplici equazioni alle differenze è possibile ottenere una soluzione analitica. L ’equazione [2.5] che esprime la dinamica del de­bito pubblico è un esempio di equazione alle differenze:

(1 + 1)[2.5] bt = dt + —------- - V i

(1 + n)

La struttura della [2.5] non differisce dalla seguente equazione che rappresenta un caso generico di equazioni alle differenze:

[2.6] yt = at + cyt_:

dove y, è una generica variabile endogena al tempo /, at una variabile definita come forcing variable al tempo t (ma può essere anche una costante), e c un parametro costante.

Queste equazioni alle differenze rappresentano una sequenza di numeri per la variabile di interesse (nel nostro caso il rapporto debi- to/piL b) definiti in maniera ricorsiva, cioè mediante una semplice re­gola che pone in relazione ogni numero con i numeri precedenti nella sequenza. Le equazioni [2.5] e [2.6] sono equazioni di primo ordine perché ogni numero in sequenza dipende soltanto dal numero pre­cedente.

Possiamo definire i vari parametri della [2.5] e analizzarne le im­

1 0 4

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

plicazioni dinamiche. Ad esempio, assumendo un rapporto deficit/piL costante d = 0 .005, e un rapporto tra tasso di interesse e tasso di cre­scita dell’economia pari a 0 .96, possiamo riscrivere la [2.5] nel se­guente modo:

[2.7] bt = 0.005 + 0 . t-i

La [2.7] è una equazione alle differenze generica, con un coefficiente (in questo caso minore di 1) che pone in relazione una variabile con se stessa ma in periodi diversi di tempo. Nel nostro caso, questi coef­ficienti hanno un’interpretazione economica precisa, che discuteremo a lungo.

Per capire come bt varia nel tempo, occorre conoscere il rapporto debito/piL nelle condizioni iniziali, cioè il b0 con cui specificare il btA nell’equazione [2.7] e ottenere il valore di b nel primo periodo. Assu­miamo, ad esempio, che tale rapporto sia pari a 0.8 (nello specifico, ciò significa che nell’anno considerato il debito pubblico raggiunge una dimensione pari all’80% del p i l ). Ora è possibile calcolare bc per ogni periodo di tempo, t = 1, 2 , 3 , 4 ,..., nel seguente modo, a partire dall’anno iniziale (zero):

0.8 = 0.773 0.773 = 0.747 0.747 = 0.717 0.717 = 0.688

II 0 ò 0 + 0 .96b0 = 0.005 + 0.96b2 = 0.005 + 0.% b1 = 0.005 + 0.9600dilCA + 0 .96è2 = 0.005 + 0.96b4 = 0.005 + 0 .96^3 = 0.005 + 0.96

L ’espressione analitica della seconda riga, relativa allo stock del debi­to del secondo periodo è, di fatto, la seguente:

b2 = 0.005 + 0 .96£j = 0.005 + 0.96

Quindi, per il periodo k avremo:

0.005 + 0 .96b(

h

bk = 0.005 + 0 .96V i =0.005 + 0 .96(0.005 + 0 .96& ^ ) =0.005 + 0 .96(0.005 + (0 .96)(0.005 + 0 .96/ ^ ) )

T05t

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

In altri termini, nell’ipotesi di un fabbisogno primario positivo (e, per semplicità, costante), questo si accumula nel tempo e accresce lo stock iniziale del debito. Nel nostro esempio abbiamo un fabbisogno primario positivo in termini di p i l pari a 0.005 ripetuto in ogni perio­do. In una situazione in cui tasso di interesse e tasso di crescita siano uguali e rimangano invariati nel tempo, l’esempio mostra che lo stock del debito si accumulerebbe con il passare dei periodi allo stock ini­ziale (b0 = 0.8 nell’esempio).

L ’altro elemento che incide sulla dinamica dello stock è il differen­ziale tra tasso di interesse e tasso di crescita (anche qui, per semplicità ipotizzato costante). L ’equazione [2.7] mostra un aspetto importante: anche nel caso in cui il fabbisogno primario è nullo (d = 0), un diffe­renziale positivo (z - ri) > 0 produce una crescita dello stock. In altri termini, benché si perseguano politiche di bilancio che non producono deficit pubblici, lo stock del debito può crescere automaticamente, per via dei pagamenti degli interessi superiori all’effetto positivo di crescita del p i l . In maniera intuitiva, possiamo affermare che se il nostro reddito familiare aumenta e nessun componente della nostra famiglia ha chiesto nuovi prestiti, il nostro debito può tuttavia aumentare per la maturazio­ne degli interessi sui prestiti che la famiglia ha richiesto nel passato e che debbono ancora essere estinti. Ciò non significa che non sia positivo il fatto che nessun componente della famiglia non abbia acceso nuovi pre­stiti e che il reddito familiare sia aumentato rispetto al periodo prece­dente. Tuttavia, non è sufficiente per ridurre il debito se la spesa per interessi è maggiore di questo effetto positivo.

Nel caso di un differenziale negativo (un valore minore dell’unità come nella [2.7]) tra tasso di interesse e tasso di crescita, si produce una riduzione automatica dello stock del debito.

Per calcolare il rapporto debito/piL bt quando t cresce all’infinito è tuttavia preferibile ottenere una soluzione analitica che ci permetta di evitare un processo iterativo laborioso come quello sopra presenta­to. A tal fine si può utilizzare la seguente procedura:a) si trova il valore di equilibrio della variabile espressa dall’equazio­ne alle differenze;b) si trova la deviazione dal valore di equilibrio ottenuto nel passag­gio precedente.

2.4.r. La soluzione di equilibrio

Questo processo risulta valido per ogni equazione alle differenze che esprime un comportamento economico dinamico. Ipotizziamo che esista un livello di equilibrio b* tale che una volta raggiunto venga

1 0 6

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

mantenuto per tutti i periodi temporali. In altre parole in equilibrio non c’è dimensione temporale e quindi vale che b* = bt_x\ b'k = bt ecc. Ora riprendiamo la nostra equazione alle differenze [2.7]:

bt = 0.005 + 0 .96V i

a cui sostituiamo la definizione di equilibrio, cioè, b* = bt_x = bt\

[2.8] b* = 0.005 + 0.96b*

da cui ricaviamo: (1 - 0 .96)b* = 0 .005. Cioè:

[2.8.1]0.005

b'k = ------------- = 0.125(1 - 0 .96)

In termini economici, la [2.8.1] indica che, dati i parametri economi­ci di interesse (tassi di crescita, deficit e tasso di interesse), il valore di equilibrio del debito è del 12.5 % del p i l . In termini analitici la[2.8.1] riflette la seguente soluzione di equilibrio, definita eliminando la dimensione temporale dalla [2.5]:

l (1 + u 1 _|------------ 1)(1 + n)

1 + n - 1

1 += d

1 + n

Questa equazione ci dice che esiste un equilibrio finito (una soluzione particolare) del rapporto debito/piL. In economia questo risultato è detto stato stazionario e rappresenta una situazione particolare a cui l ’economia converge nel lungo periodo. Il rapporto debito/piL può quindi crescere, ma tendere comunque ad un valore finito. In questo caso lo stato stazionario si dice stabile. In altri termini, in questo caso, le politiche fiscali insieme al tasso di interesse e al tasso di cre­scita dell’economia conducono l’economia su un sentiero sostenibile. I debiti dello Stato sono, in questo sentiero, solvibili. Viceversa, il rap­porto debito/piL può progressivamente allontanarsi da questo stato stazionario. Una situazione che rende lo stesso stato stazionario insta­bile e il sentiero dell’economia insostenibile. Questo risultato, che ri­prenderemo più avanti in maniera dettagliata, fa parte della soluzione ricercata (la soluzione dell’equazione alle differenze).

1 0 7

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l . K Z l O N I DI P O L I T I C A ( E C O N O M I C A

2.4.2. La deviazione dall’equilibrio

Una volta ottenuta la soluzione particolare (di equilibrio) di una equazione alle differenze, occorre trovare la soluzione complementare (di deviazione dall’equilibrio). La soluzione complementare permette di rispondere a due domande economicamente rilevanti: r. il rapporto debito/piL, bt, tende a raggiungere il livello di equili­brio b*ì2. e con quale velocità ciò avviene?

Questi due quesiti aiutano a definire una soluzione relativa alla variabile di interesse e ci forniscono delle informazioni economiche interessanti. Si noti che quando il rapporto debito/piL non è quello di equilibrio è vero che:

[2.9] xt — bt - b* cioè bt = xt + b*

E utile sottolineare che questa equazione fornisce le due componenti della soluzione di una qualsiasi equazione alle differenze: la soluzione di equilibrio b* (anche chiamata soluzione particolare) e la soluzione di deviazione dell’equilibrio x, (anche chiamata soluzione generale del­l ’equazione omogenea o soluzione complementare).

Per quanto riguarda il primo quesito, verificare se bt tende a b* nel tempo, possiamo affermare mediante la [2.9] che se xt tende a zero come il tempo avanza (/—>°°), il rapporto debito/piL, bt, tenderà a raggiungere b*. In questo caso abbiamo una soluzione di equilibrio (steady state) stabile a cui la variabile debito pubblico converge. Vice­versa, se xt aumenta come t—>°°, la soluzione di equilibrio dell’equa­zione risulterà instabile (esplosiva): la soluzione, cioè i valori della va­riabile di interesse (nel nostro caso il rapporto debito/piL) per ogni periodo che soddisfa l’equazione alle differenze, si discosta sempre più dallo steady state. Per formulare un esempio concreto, riscriviamo la [2.9] utilizzando il valore di equilibrio b* trovato in precedenza con la [2.8.1]:

[2.10] bt = xt + b* = xt + 0.125

La [2.10] pone in risalto come il sentiero temporale del debito di­penda da xt, mentre b* è una costante. Ciò ci impone di trovare la soluzione generale. Si consideri di nuovo l’equazione [2.7], bt = 0.005 + 0 .96V i- Sappiamo che questa equazione ha una componen­te di equilibrio ed una componente di deviazione dall’equilibrio,

ro8

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

come la [2.9], cioè bt = xt + b*. Eguagliando queste due equazioni otteniamo:

[2 .11] xt + b* - 0.005 + 0 .96V i

Si noti che, sempre con l’ausilio della [2.9], l ’ultima equazione può essere riscritta nel seguente modo:

x, + b'k = 0.005 + 0 .96(b* + xt_x)

[2' I2] = 0.005 + 0.96 (b*) + 0 .96(x^ )v,___________ ____________ j------------------V

equazione [2 .8 ]

È facile constatare che l’equazione [2.12] incorpora l’equazione [2.8], quindi la sostituzione di b'k nella [2.12] semplifica l’equazione nel se­guente modo:

xt = 0 .96x;_!

Si ricordi che xt non è altro che la deviazione del rapporto debito/piL dal suo valore di equilibrio, come espresso nella [2.9]. Possiamo ite­rare questa equazione che vale in ogni periodo, a partire dal periodo iniziale (periodo zero):

x1 = 0 .96x0x2 = 0 .96x1 = 0 .96(0 .96x0) = 0.962xo

[2' I3] x6 = 0 .96*5 = 0 .96(0 .965xo) = 0 .966xo

xt ~ 0 .96?x0

Non conosciamo la deviazione iniziale tra b0 e b'k, cioè xt. Per trovare x0 utilizziamo la conoscenza di b0, per ipotesi fissato precedentemen­te a 0.8:

x0 = b0 - b'k = 0.8 - 0.125 = 0.675

Quindi mediante la [2.13] otteniamo la deviazione della variabile di interesse dalla sua soluzione di equilibrio per ogni periodo t\

xt = (0 .96)z0.675

109

Page 103: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Ad esempio, dopo trenta periodi (trenta anni o trenta iterazioni), avremo x30 = (0 .96)3°0.675 = 0 .1983. Dopo 50 anni, avremo x50 = (0 .96)5O0.675 = 0 .088. Come si nota, il debito sta convergendo versolo stato stazionario (equilibrio) con valori della deviazione da tale equilibrio che si riducono progressivamente. Quando x, — 0 , allora per la [2.9], bt = b*.

2.4.3. L a soluzione generale

Tornando all’equazione [2.9], che come accennato contiene entrambe le componenti che definiscono una soluzione di un’equazione alle dif­ferenze (equilibrio e deviazione di equilibrio), possiamo scrivere la soluzione dell’equazione alle differenze di primo ordine:

[2.14] b, = xt + b'k = 0 .675(0 .96)' + 0.125

Di nuovo, dopo trenta periodi (o iterazioni) possiamo affermare che bt - 0 .3233, dopo cinquanta periodi, b, = 0.2126 e così via. Dalla [2.13] è facile constatare che, se il valore costante elevato alla po­tenza di / è minore di 1, il valore della deviazione dall’equilibrio di­viene progressivamente più piccolo come t aumenta. Quando questo valore tende a zero. Nel nostro caso (0 .96)* —>0 come t— dato che 0.96 < 1.

Questa considerazione, insieme alla [2.14], ci porta a rispondere al primo quesito posto all’inizio del paragrafo precedente, e ad affer­mare che il rapporto debito/piL tende al suo valore di equilibrio come t aumenta.

Il secondo quesito riguardava la velocità con cui una variabile procede verso il suo valore di equilibrio con una equazione alle diffe­renze (nel nostro esempio, del rapporto debito/piL). La [2.14] mostra che con valori inferiori a 0 .96 , bt non può che procedere in maniera più veloce verso b*. Ad esempio, con 0.8 otteniamo dalla [2.8.1] una soluzione di equilibrio b* — 0.025 ed una variazione iniziale dall’e­quilibrio di 0 .775 . Dopo 30 iterazioni abbiamo che xt = 0 .775(0 .8)f e, quindi, bt — 0 .026. In generale, per una generica equazione alle differenze,

b . 1 5 ] y t = c + a y t_y

più il parametro a è piccolo più l’equazione converge velocemente al suo valore di equilibrio. Viceversa, s ea > 1 (ad esempio, bt = 0.008 + 1.010Vi)> allora come t cresce, bt tende ad allontanarsi sempre più dal suo valo­

I I O

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

re di equilibrio. La soluzione dell’equazione è allora instabile (lo steady state è instabile). Valori più elevati di a implicano un più rapido al­lontanamento della variabile considerata dal suo valore di equilibrio. Dunque, nel seguente caso:

bt ~ 0.008 + 1.04V i

i l r a p p o r t o d e b it o / p iL , a p a r i t à d i a l t r e c o n d iz io n i , s i a l lo n t a n e r à p iù

v e lo c e m e n t e d a lla s o lu z io n e d i s ta to s t a z io n a r io r is p e t t o a l c a s o d e ­

s c r it t o d a l la s e g u e n t e d in a m ic a d e l d e b it o :

bt = 0.008 + 1.0 10V i

Da quanto abbiamo detto è facile vedere che la stabilità dinamica dell’equilibrio dipende dal termine a nella [ 2 . 1 5 ] , che nel caso dell’e­quazione del debito pubblico corrisponde al rapporto tra tasso di in-

1 + zteresse e tasso di crescita del p i l , ------------ .

1 + n IUno stato stazionario è stabile se la soluzione complementare ten­

de a zero come il tempo passa (£—»°°) 4.Le f i g g . 2 . 1 e 2 .2 riportano l ’analisi grafica sulla dinamica e sul

lungo periodo del rapporto debito/piL, considerando le due condizio­ni relative al disavanzo primario e al rapporto tasso di interesse-tasso di crescita dell’economia. La f i g . 2 . 1 mostra una situazione “esplosi­va” , con il rapporto debito/piL che si allontana dallo stato stazionario mentre la f i g . 2 .2 mostra una dinamica per tale rapporto che conver­ge ad un valore di stato stazionario. Entrambe le dinamiche raffigura­te tengono conto di un deficit primario.

Nelle figure, gli assi riportano i valori del rapporto debito/piL al tempo t (asse delle ordinate) e al tempo t—i (asse delle ascisse). La retta a 45 gradi che passa per l ’origine degli assi ha pendenza uguale a 1. I punti su questa retta indicano valori analoghi per bt e V i- Sap­piamo che la dimensione temporale perde d’importanza nello stato stazionario. Quindi, i punti sulla retta a 45 gradi sono punti dello stato stazionario e indicano una delle due soluzioni di una equazione alle differenze. L ’altra soluzione è la deviazione dallo stato stazionario ed è fornita dalla seconda retta inserita nelle figure. Questa retta rap­presenta la dinamica del debito ed è caratterizzata da un'intercetta,

4. Altri termini per definire questa situazione sono una soluzione di punto fisso o un equilibrio d i lungo periodo.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

D inam ica del debito p u b b lico ( / > « ; d > 0 )

d e f in i t a d a l r a p p o r t o d e f ic it / p iL d, ( c h e a s s u m ia m o c o s t a n te ) , e d a l

l ’ in c l in a z io n e d a t a d a l r a p p o r t o t r a ta s s o d i in t e r e s s e e ta s s o d i e re

/s c ita

1 + / | ^--------- , anch’esso ipotizzato costante. L ’intercetta è sulla parte1 + n I

dell’asse verticale positiva se esiste un disavanzo primario (d> 0). Vi­ceversa, nel caso di un avanzo primario {d< 0), l’intercetta interseca valori negativi dell’asse verticale. La pendenza della retta dell’equa­zione dinamica del debito sarà maggiore di 1 nel caso i> n mentre è inferiore all’unità se i< n .

La f i g . 2 . i mostra che l’equazione del debito ha una pendenza maggiore della retta a 45 gradi: il debito tende a divergere nel tempo dallo stato stazionario. La f i g . 2 .2 presenta invece una equazione del debito con una pendenza inferiore all’unità (minore della pendenza della retta a 45 gradi): il debito in rapporto al p i l tende a convergere al suo valore di stato stazionario 5. Nelle figure, il processo di tra­slazione dei valori del debito sui diversi assi avviene mediante le due

5. Lasciam o allo studente raffigurare le seguenti situazioni: 1 ) d < O e z > n\ 2) d < 0 e i < «; 3) d = 0 e i > k; 4) J = 0 e ; < n.

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

F IG U R A 2 . 2

D inam ica del debito p u bblico (t<n; d> 0 )

linee e determina una dinamica convergente o divergente. Ad esem­pio, nella f i g . 2 .2 , partendo dall’asse orizzontale con il valore b0, pos­siamo ottenere il valore successivo (b^ sull’asse verticale utilizzando la linea dell’equazione dinamica del debito. Il processo può essere ri­petuto per il valore b2, ottenuto nello stesso modo, una volta traslato il valore di bx dall’asse verticale a quello orizzontale per mezzo della linea a 45 gradi: partendo da bt sull’asse orizzontale si può leggere il valore di b2 su quello verticale mediante la linea dell’equazione della dinamica del debito. Questo modo di procedere genera un sentiero a zig-zag che può convergere (come nella f i g . 2 .2 ) o divergere (come nella f i g . 2 . 1 ) . La linea che rappresenta l’equazione del debito per­mette di ottenere il valore del rapporto debito/piL del periodo t+ 1 partendo dal valore conseguito nel periodo t, mentre la linea di 45 gradi permette di traslare tale valore sull’asse orizzontale per ottene­re, con un nuovo round, il valore del periodo successivo.

Consideriamo il seguente problema. Un governo, prima di effet­tuare delle politiche di bilancio, deve prevedere la dinamica del debi­to in assenza di manovre. A questo fine, procede con alcune simula­zioni sull’evoluzione del debito per il prossimo decennio, partendo dalla seguente relazione:

1 1 3

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

R IQ U A D R O 2 . 2

Metodo generale per la soluzione di equazioni alle differenze

Questo riquadro definisce in maniera diretta le soluzioni di una equazio­ne alle differenze. La soluzione della seguente generica equazione alle differenze,

17] yl + 1 + ayt = c

dove a e c rappresentano due costanti, comprende due componenti chia­mate soluzione particolare yp e soluzione complementare yc. Per trovare quest’ultima soluzione si utilizza la soluzione àsW equazione omogenea del­la 17], imponendo c = 0: yt+1 + ay, = 0 mentre per trovare la soluzione particolare si utilizza l’equazione completa [/]. Nella [/] yt+x ha un coeffi­ciente unitario. Nel caso il coefficiente sia diverso da uno, è conveniente normalizzare l’equazione prima di trovare le soluzioni. L ’interpretazione economica che si attribuisce alle due soluzioni matematiche indica, nella soluzione particolare, l’equilibrio intertemporale e nella soluzione comple­mentare le deviazioni da questo equilibrio. La soluzione generale rappre­senta la somma delle due componenti. Iniziamo a definire la soluzione complementare. Questa soluzione usa l’equazione omogenea della [z] e dovrebbe avere una forma del seguente tipo:

yt = Ab‘\ ciò implica => yt+l = Ab,+1

dove A è una costante arbitraria ancora da interpretare. yt = Ah? costi­tuisce un tentativo per definire una soluzione. Con questo tentativo pos­siamo riscrivere la [z] con c = 0:

Abt+1 + aAV = 0; dividendo per Ab1 otteniamo b + a = 0, cioè b = -a .

In altri termini, il tentativo di soluzione, per soddisfare l’equazione alle differenze, dovrà essere fissato a b = -a . Quindi, ritornando alla forma predisposta per la soluzione complementare,

/ = Ab‘ = A{-aY

Troviamo ora la soluzione particolare utilizzando l’equazione completa [/]. Consideriamo un tentativo di soluzione tra i più semplici. Se assumia­mo che yt = k , dove k è una costante, ciò implica che nel periodo t, t + 1 ... y rimane sempre allo stesso valore costante k, cosicché si può ri­scrivere la [z] nel seguente modo:

ck + ak = c => k = -------- = yp

1 + a

n 4

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

Ciò è valido per tutti i valori a ^ - 1. Nel caso a = 1 si potrà utilizzare yt = kt invece di yt = k, nel tentativo di trovare la soluzione. La soluzio­ne generale dell’equazione alle differenze [z] risulta quindi:

[zz] yt = yc + yp = A(-aY +

Nella [zz] sono noti i valori di c ed a, ma non conosciamo ancora il valore di A. Per trovare la costante arbitraria A, basta far ricorso alla condizione iniziale, al tempo t = 0, in modo da scrivere yt = y0. Nota che t = 0 => (~a)° = 1.

Quindi avremo:

c rVo = A + --------=> A = yo1 + a 1 + a

La sostituzione per A nella [zz] fornisce la soluzione della [z] :

[zzz] yt = yc + f = \yo - ■ ì + a

Introduzioni più rigorose e ricche di esempi economici sono quelle di Gandolfo ( 1 9 7 7 ) , Shone ( 1 9 9 7 ) e Chiang (1984, varie edizioni). Consiglia­mo allo studente la consultazione di uno di questi testi.

B= 0 .0 0 4 + 0 .9 7 —

\Y t- 1

M a n t e n e n d o c o s t a n t i i p a r a m e t r i d e l p r o b le m a ( ta s so d i c r e s c it a , t a s ­

s o d i in t e r e s s e e r a p p o r t o d e f ic i t / p iL ) i t e c n ic i d e l g o v e r n o s i d o m a n ­

d a n o : /) q u a le s ia i l v a lo r e d i s ta to s t a z io n a r io d e l r a p p o r t o d e b i t o / p iL ;

ii) se t a le v a lo r e e s p r im e c h e i n e q u i l i b r io i l g o v e r n o è c r e d i t o r e o

d e b it o r e ; ni) a q u a n t o a m m o n te r à xt ( la d e v ia z io n e t r a d e b i t o / p iL a l

t e m p o t e d e b i t o / p iL d i s ta to s t a z io n a r io ) d o p o 1 0 a n n i; iv) q u a le v a lo ­

r e d e l r a p p o r t o d e b i t o / p iL s i o t t e r r à d o p o 10 a n n i, c o n s id e r a n d o c h e

i l r a p p o r t o d e b i t o / p iL n e l p e r io d o in i z ia le è 0 .7 . R ig u a r d o i p r im i d u e

q u e s it i z')-//) l o s ta to s t a z io n a r io i n t e r m in i n u m e r ic i , c h e in d ic h ia m o

1 1 5

Page 109: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

con b*, ammonta a b* ------------- = 0.133. Il governo in equilibrio è(1 - 0 .97)

debitore. Per rispondere al terzo quesito, iniziamo con il definire la deviazione iniziale dallo stato stazionario x0 = b0 - b* = 0.7 - 0.133 = 0 .567 . Iterando l’equazione autoregressiva della deviazione dal valore di stato stazionario abbiamo dopo 10 anni:

x, = (0 .97)* x0 => x10 = (0 .97)lo(0 .567) = 0.418

Per rispondere al quarto quesito, notiamo che il rapporto debito/piL dopo 10 anni sarà pari a bw — xw + b* = 0.418 + 0.133 = 0 .551 . Dati i parametri che caratterizzano la dinamica del debito, dopo 10 anni il rapporto debito/piL passa da 0.70 a 0 .551 . Il rapporto conver­ge verso il suo valore di stato stazionario che tuttavia raggiungerà quando la componente di deviazione dallo stato stazionario si annul­la. Per i parametri del sistema ciò richiederà un periodo di tempo di oltre 150 anni. Questa simulazione potrà essere ripetuta con ipotesi diverse sui parametri dell’equazione dinamica del debito per ottenere una gamma di profili futuri degli effetti delle politiche economiche.

2.5L ’economia su un sentiero insostenibile

Abbiamo più volte asserito che in presenza di una situazione che vede alti tassi di interesse e bassi tassi di crescita, l’economia è su un sentiero insostenibile. In altri termini stiamo affermando che lo Stato (o il governo) non è solvibile. La condizione (i - n) > 0 potrebbe provocare comportamenti conosciuti nella letteratura comé' Ponzi game-, continuare a generare debito in maniera perpetua, per ripagare quello esistente. Una condizione per evitare quester processo richiede che con il passare del tempo il valore dello stoclè del debito cresca in maniera inferiore al tasso di interesse o, alternativamente, che il rap-- porto debito/piL cresca ad un tasso inferiore/al differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita. Questa richiesta è soddisfatta dal vin­colo di bilancio e dalla condizione no-Ponzi, che richiede che al limi­te, come il tempo passa, il valore attuale del debito si annulli. Per ottenere questo risultato si riconsideri l’equazione del debito [2.4] espressa in valore: \

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE D ELLE EQUAZIONI

Questa equazione può essere espressa in termini di stock di debito nel periodo precedente, basta risolvere per -Bz_i:

V i =-D f 1

1 + / 1 + i-B t

Di nuovo, questa equazione può essere espressa ancora per il periodo precedente a / - l :

B f_7 =-D, 1

1 + i 1 ++ ~---:Bt-1 -

1 -D ,1 + i 1 + i

Proseguendo a ritroso, fino al periodo iniziale, quando abbiamo gene­rato lo stock del debito B0 abbiamo:

[2.16] B0 =.L -D i 1

j (i + iy \ ì +

La condizione che non permette di rinnovare all’infinito il debito as­serisce che a partire da un certo momento, come j cresce, il secondo termine di questa equazione si riduce fino ad annullarsi.

1 + ilì t = 0, come

Peì^hé ciò accada, è necessario che il valore dello stock del debito in maniera inferiore al tasso di interesse 6. Si noti che se questacresc

condizione è soddisfatta, la [2.16] con il secondo termine nel lato de- stroXuguale a zero afferma che il governo deve rispettare il vincolo di

6.1 Im porre questa condizione significa che il pagamento degli interessi sullo stock /del debito non deve essere ottenuto in maniera sistematica con ulteriore emis­sione' di debito, ma generando avanzi primari.

1 1 7

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

bilancio dinamico con il valore attuale di una serie di surplus primari di grandezza tale da ripagare l’intero debito iniziale.

[2.16.1] B, —j (1 + iy

Il vincolo di bilancio intertemporale è estremamente importante per­ché ci indica che non esiste free-lunch\ non esiste un pasto gratis, pre­sto o tardi occorre rispettare il vincolo di bilancio con una maggiore tassazione o una riduzione delle spese 7.

A seconda della dimensione del debito accumulato, questa condizio­ne potrebbe rivelarsi estremamente restrittiva per l’alta pressione fiscale che impone ai soggetti economici (taxpayers). Infatti, potrebbe essere ne­cessaria per molti anni l’imposizione di misure impopolari per generare bilanci in surplus e ripagare il debito. L ’aumento della tassazione e/o la riduzione delle spese pubbliche permetteranno di ripagare in ogni perio­do una parte di interessi fino ad annullare il valore scontato del debito. Un aspetto interessante da sottolineare è che il debito pubblico in rap­porto al p i l , sotto la condizione di no-Ponzi, potrebbe ancora continuare a crescere. Tuttavia tale crescita deve necessariamente essere inferiore al differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita 8.

L ’argomento definito dalla [2 .16 .1] è di estrema importanza. In­fatti è facile intuire gli aspetti intergenerazionali impliciti in questa condizione 9. Procedendo ancora con metafore potremmo dire che

7. Ovviamente procedere al riequilibrio mediante riduzione della spesa e/o au­mento della tassazione provoca effetti diversi sul livello del debito e quindi sulla dina­mica di convergenza. Le simulazioni con un piccolo m odello discreto per l ’economia italiana, riportate in Fiorito (2000), lasciano intendere l ’importanza di questo aspetto e mostrano come, procedendo con aumenti di tassazione, si generano costi più rile­vanti in termini di crescita che incidono sulla dinamica del debito.

8. Sulla sostenibilità del debito esiste un ’ampia letteratura. Analisi dettagliate sono quelle di Buiter (1985) e Spaventa (19883, i988b). L e verifiche empiriche sulla sostenibilità del debito pubblico si sono rapidamente moltiplicate dopo il lavoro di Hamilton e Flavin (1986). T ra i lavori sulla sostenibilità del debito pubblico italiano durante gli anni settanta e ottanta segnaliamo Attanasio, M arini (19 9 1), Baglioni, Cherubini (1993) e M arselli (1993). Si veda anche la rassegna di Bagnai (^996). Q ue­sti studi, che si basano sulla metodologia di Hamilton e Flavin e su alcuni sviluppi successivi (Trehan e W alsh, W ilcox e altri), tendono a rifiutare la sostenibilità del debito pubblico. L a lettura di questi lavori rimane difficoltosa per gli studenti senza un background econometrico.

9. P er com prendere gli effetti generazionali della politica fiscale, un approccio alternativo proposto da Auerbach, Gokhale, K otlikoff ( 19 9 1) e K otlikoff (1992) è quello della “ contabilità generazionale” (generational accounting). Il metodo, in pre-

1 1 8

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

il vincolo di bilancio dinamico può essere coerente con un pasto gratis per alcune generazioni e con il più rigido rispetto del vincolo per altre generazioni. In altri termini, si possono generare deficit e accumulare debito con spese espansive della pubblica amministra­zione per alcuni decenni, consapevoli (o inconsapevoli) che da un determinato momento in poi si dovrà porre fine a questa soluzione à la Ponzi. Ovviamente, nel periodo che intercorre tra la generazio­ne dei deficit con spese pubbliche in eccesso e l ’onere del riequili- bric^dtì^conti7l 5òtrebhero essere coinvolte diverse generazioni di individui, producendo vantàjjgj^per alcune di esse (quelle che hanno

/ usufruito delle spese) e svantaggi rilevanti per le ultime generazioni / di individui che dovranno sopportare l’onere del debito. Questo

aspetto è importante per i governi| chiamati dall’elettorato a guidare l’economia durante il periodo considerato. Infatti, è facile intuire, in mancanza di un impegno concreto a rispettare il vincolo di bilan­cio, il forte incentivo per i governi in carica di utilizzare i vantaggi

\ di spese in eccesso e rimandare^nel tempo l’aggiustamento richiesto \ dalla [2 .16 .1], lasciando il problema ai governi successivi. Riprende-

\rem o questi aspetti più ^vanti quando ci domanderemo se il debito pubblico costituisce uria ricchezza netta per le famiglie e analizzere-

^ho\le assunzioni,,che definiscono “l’equivalenza ricardiana” .I C ò r i u n ta S s o d i in t e r e s s e s u p e r io r e a l ta s s o d i c r e s c i t a d e l l ’ e c o ­

n o m ia - e c o n , a u t o r i t à d i p o l i t i c a f i s c a le n o n d i s p o s t e a g e n e r a r e r a ­

p id i e c o n s is t e n t i s u r p lu s p r im a r i , i l r a p p o r t o d e b i t o / p i L t e n d e a

C r e s c e r e c o n t in u a m e n t e e s e n z a l im i t i . Una p o s s ib i le im p l i c a z i o n e d i

t a le d in a m ic a r ig u a r d a le a s p e t t a t iv e d e g l i a g e n t i e c o n o m ic i s u i f u t u ­

r i e \ i i e v i t a b i l i a u m e n t i d e l l a p r e s s io n e f i s c a le o s u u n e v e n t u a le

c o n s o l id a m e n t o , o a n c o r a s u u n r i p u d io ( p iù o m e n o p a r z ia le ) d e l

d e b i t o p u b b l i c o .

\\\

\

senza di disequilibri di bilancio, è inteso a misurare direttamente quanto le generazio­ni esistenti dovrebbero attendersi di pagare al governo nel proseguo della loro vita. Il metodo di generatìonal accounting usa l ’equazione del vincolo di bilancio intertempo­rale del governo/per inferire il probabile carico fiscale che verrà imposto alle future generazioni e p erm ette di stimare la grandezza del carico fiscale che viene traslato

' -dalle passate generazioni alle generazioni future. Una prima applicazione per l ’Italia è quella di Franco, Gokhale, Guiso, K od iko ff e Sartor (1992). Per una discussione degli aspetti critici e dei vantaggi di questo metodo si può iniziare con la lettura dei lavori del simposio su generatìonal accounting riportati su Journal o f Economie Perspeclives, volume 8 , winter 1 9 9 4 . Una rassegna in italiano sulla discussione teorica sui conti ge­nerazionali e sugli indicatori tradizionali di sostenibilità della finanza pubblica come deficit e debito pubblico è quella di M azzaferro (2000). U n ’analisi empirica è riporta­ta nel Rapporto trimestrale dell’iSAE (1999).

1 1 9

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Le attese di questi eventi possono generare serie implicazioni macroeconomiche e, in ogni caso, l’emissione continua di quantità maggiori di titoli pubblici richiede inevitabilmente il pagamento di un premio crescente sullo stock del debito, legato alla rischiosità sempre più elevata nel detenere tali titoli nel proprio portafoglio. In altri termini, il premio si traduce in un aumento dei tassi di inte­resse che andranno “viziosamente” ad aggravare la dinamica del de­bito stesso. Tutto ciò porta a prefigurare un limite (teorico) alla quantità di debito pubblico che gli agenti sono disponibili a detene­re. Vedremo che questo limite ha delle implicazioni rilevanti sulla condotta delle politiche monetarie e fiscali. In definitiva, grandi e crescenti debiti pubblici provocano alti tassi di interesse reali e una contrazione dell’economia per gli effetti che gli interessi esercitano sulla domanda interna, e per l ’alta tassazione e i tagli delle spese pubbliche richiesti dalla situazione. Occorre sottolineare che quan­do il Tesoro emette una grande quantità di titoli sul mercato (cioè quando aumenta l’offerta di titoli sul mercato), si hanno due effetti importanti sugli investimenti. Per prima cosa, si genera un assorbi­mento di risparmio privato da parte del settore pubblico per finan­ziare i disavanzi. Di conseguenza ciò causa una riduzione dell’am­montare di risparmio che potrebbe finanziare gli investimenti priva­ti. In secondo luogo, l ’emissione di titoli produce una riduzione del loro prezzo e, di conseguenza, un incremento del tasso di rendi­mento dei titoli stessi. L ’aumento del tasso di interesse sui titoli tende a sua volta a trasmettersi su tutti i tassi di interesse dell’eco­nomia incidendo in maniera significativa sugli investimenti produtti­vi. Anche la riallocazione del risparmio che fa seguito ai maggiori rendimenti dei titoli di debito pubblico porta a scoraggiare le im­prese ad effettuare investimenti produttivi, certamente più rischiosi, e privilegiare investimenti in queste attività finanziarie.

L ’incremento del debito pubblico riduce, quindi, la domanda ag­gregata, con una riduzione degli investimenti, e porta ad una riduzio­ne dell’accumulazione dello stock di capitale con conseguenze in ter­mini di crescita futura. Ovviamente, questi effetti negativi sono in parte ridotti se le spese finanziate con debito riguardano investimenti pubblici (infrastrutture, educazione). Nel caso che una politica re­strittiva su spese e tassazione non sia dell’intensità richiesta per la sta­bilizzazione della dinamica del debito, appare inevitabile una delle se­guenti soluzioni:i) monetizzazione del debito e inflazione;ii) forme di ripudio parziali o totali che possono sfociare in una crisi finanziaria.

1 2 0

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¥ DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

2 .6Il finanziamento monetario e la relazione con le autorità monetarie

L ’equazione [2.4], B t - (1 + t)Bt_x + Dt, indica che il Tesoro deve collocare nuovo debito sul mercato in un ammontare/pari al fabbiso­gno primario più la spesa per interessi sul debito collocato sul mer­cato. Tuttavia, un disavanzo può essere anche cqperto con creazione di base monetaria. In tal caso la [2.4] d o v re te essere estesa come segue:

[2.17] Bt — (1 +

L ’e q u az io n e --^ "in d ica che l ’ammontare di debito necessario per ^coprire il disavanzo pubblico deve essere al netto del finanziamento monetario del Tesoro. In termini di rapporto debito/piL, avremmo:

[2.18]' l + ■'

1 +bt_i + <i , - mt

,pve il termine mt = AM JY , viene definito come signoraggio e sarà esàminato in dettaglio più avanti. Ovviamente con m = 0 il nuovo debito non avrà alcun finanziamento aggiuntivo da parte delle autori­tà monetarie e si ritornerebbe alla [2.5].

Il vincolo di bilancio [2.17] o [2.18] pone in risalto come la po- liticà monetaria e quella fiscale siano collegate e, in particolare, come qùeste politiche (e le istituzioni che le governano) possano entrare in conflitto. Infatti, Banca centrale e Tesoro possono imporre particola­ri condizioni definendo dei regimi di policy. Partendo dal vincolo di bilancio, la letteratura ha discusso due casi opposti caratterizzati come regime ricardiano e regime monetarista.t) Nel regime ricardiano, la politica monetaria non è utilizzata per finanziare gli squilibri di finanza pubblica ma le autorità di politica monetaria sono in grado di mantenere l’offerta di moneta costante (Mt - M t_i) - 0. In questa situazione, il valore dello stock del debito oggi deve essere uguale al valore attualizzato dei surplus futuri:

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Un valore positivo dello stock del debito indica necessariamente una serie di avanzi primari futuri. Ogni aumento dello stock del debito non può che risultare temporaneo e richiede necessariamente un pro­cesso di aggiustamento con minori spese e maggiore tassazione. La politica monetaria domina quella fiscale e induce i governi a compor­tamenti responsabili e coerenti con l’equilibrio di bilancio. In questa situazione i deficit non possono essere generati permanentemente.ii) Nel regime monetarista, la politica monetaria finanzia completa;, mente i disavanzi pubblici con nuova moneta, mentre non^viene emesso alcun debito per coprire tali disavanzi.

Bt = 0 ; Dt = M t - Mt_x /!

In questo regime, i disavanzi pubblici possono essere generati in ma­niera persistente nei limiti imposti dal finanziamento! monetario e dal­la funzione di domanda di moneta. Domanda di moneta e offerta di moneta generata dal finanziamento dei disavanzi realizzano l’equili­brio del mercato della moneta. La politica fiscale (l’autorità di politi­ca fiscale) domina quella monetaria (l’autorità di politica monetaria).

Sebbene esistano periodi e situazioni storiche dove questi due casi opposti (regime ricardiano e monetarista) sono stati in qualche modo una buona rappresentazione della realtà, è ovvio che essi rappresenta­no delle situazioni estreme. Nella storia economica dei paesi avanzati il finanziamento dai disavanzi pubblici è stato caratterizzato da situa­zioni intermedie.

I regimi intermedi, nelle varie forme di finanziamento parziale, co­stituiscono una terza possibilità. In ogni caso il finanziamento parziale dei deficit pubblici porta ad alimentare le aspettative inflazionistiche. Per analizzare come ciò possa avvenire, si prenda in considerazione la seguente funzione di domanda di moneta TO:

[2.19]P,

exp' E tPt + 1 - P t y

Pf

Questa funzione di domanda di moneta è molto semplice, non c’è una variabile per il reddito né una variabile per il tasso di interesse

10 . Si ricorda che exp è un m odo alternativo per esprim ere funzioni esponenzia­li: y t = é può essere scritto in maniera del tutto analoga come y t = exp(t). Si noti anche che yt = exp(t) può essere scritto, usando i logaritmi, come t = \a(yt).

1 2 2

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2 . DEFICIT PU BBU CÒ vD EBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

R IQ U A D RO 2.3 \Un esempio di regime fiscale \

La situazione italiana degli anni settanta rappresenta bene ciò che si in­tende per dominio fiscale sulla politica monetaria. In questo decennio una rilevante parte dei disavanzi pubblici viene monetizzata/mentre alcune ri­forme amministrative cercano di convogliare il risparmio verso il settore pubblico. Si provocò una riduzione dei tassi di interesse (che divengono negativi in termini reali) e, quindi, una riduzione^del costo che i ripetuti e rilevanthdeficit pubblici avrebbero potuto esercitare sull’economia e sulla situazione pòlitica. Si noti che questa situazione non avrebbe potuto rea­lizzarsi in una economia-aperta ron libertà di interscambio di merci e ca­pitale. D i fatto, i movimenti di capitale furono sottoposti a un rigido con­trollo, con un costante divieto di allocare capitali in attività produttive e finanziarie fuori dal paese. L ’inflazione, utile per contenere il costo del debito, tuttavia produceva una caduta di competitività delle merci e un

s indebolimento della valuta che, a sua volta, provocò un riallineamento e \ p aumento (per il premio al rischio sul debito che il governo fu costret- tòxa pagare) dei tassi di interesse interni rispetto a quelli esteri. La possi­bilità che il risparmio nazionale si convogli verso i mercati esteri riduce la possibilità di perseguire nuovi disavanzi. Il processo di indipendenza del­la Banca centrale dal Tesoro, iniziato tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, e la liberalizzazione dei movimenti di capitale, ini­ziata dalla metà degli anni ottanta, hanno contribuito diversi decenni dopo a eliminare questa situazione.

reale (entrambi sono considerati dati e dovrebbero essere inclusi in un termine costante che non inseriamo per semplicità). Questa fun­zione di domanda di moneta è nota nella letteratura come funzione di domanda di moneta à la Cagan TT e asserisce che più è elevata l’in­flazione attesa, minore sarà la domanda di saldi reali (in equilibrio la domanda di moneta è uguale allo stock reale di moneta nell’econo­mia). L ’equazione, che vale in ogni periodo t, t + 1, t + 2 ,..., è uti­lizzata per la sua semplicità e può essere risolta per il livello dei prez­zi come funzione delle aspettative sull’offerta di moneta. La soluzione (cfr. riquadro 2.4) è la seguente:

[2.20] Pt = cY,a ‘ E l M t+jz=0

1 1 . Questa domanda di moneta fu usata da Philip Cagan nello studio delle gran­di iperinflazioni.

1 2 3

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LEZ IO N I DI P O L IT IC A E CO N O M ICA

R I Q U A D R O 2.4 /

Soluzione di modelli lineari con aspettative j

In questo riquadro riportiamo la procedura per ottenere la soluzione[2.20]. Questa soluzione richiede la conoscenza dei modelli con aspettati­ve razionali con variabili future (oforward). Invitiamo lo studente a trala­sciare per il momento questo riquadro e considerare il risultato dell’equa­zione [2.20] come un dato, salvo poi ritornare sul contenuto del riquadro una volta studiati i modelli con aspettative razionali del c a p . 3 .

Prendendo i logaritmi della [2.19] e considerando la seguente appros-

— I Et Pt+1 — Pt\simazione, {Et Pt+1 - Pt) = -------------- - , con le variabili soprassegnate\ I

che denotano logaritmi delle variabili, otteniamo:

M M ' - P , = -HEt Pt+ 1- P t)

Questa equazione può essere espressa nel livello dei prezzi:

_ b 1 [zz] Pt = aEtPt+1 + cMt a = -------- ; c

1 + b 1 + b

La [«] è un’equazione di aspettative alle differenze. Esistono vari metodi per trovare una soluzione per questo tipo di equazioni (equazioni lineari con aspettative razionali). Come vedremo nel g a p . 3 , un metodo tra i più utilizzati è quello delle sostituzioni ripetute. Per eliminare la variabile non osservata Pt+1 nell’equazione [zz], si riscrive la [zz] al tempo t + l, pren­dendo le aspettative dei prezzi formulati al tempo t + 1 (si applica l’ope­ratore atteso), dopodiché si inserisce l’equazione trovata per i prezzi attesi nella [zz]. L ’operazione dovrà essere ripetuta un certo numero di volte perché prendendo le aspettative di ogni equazione si avrà sempre una va­riabile di aspettativa futura.

EtPt+x = aEt (E, Pt+2) + cE, Ml+1

Inserendo questa equazione nella [zz] si ottiene:

Pt = a2 Et Pt+2 + acEMt+l + cM,

Risolvendo in maniera ricorsiva fino al tempo N, otteniamo:

Pt = aN+1 E, P1+N+1 + c T. é Et Mt+i i= 0

1 2 4

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2 . D E F IC IÌN JU B B L IC O , D EBITO P U B B L I C O E SO EÙZIO N E D EI.1. li EQUAZIONI \

Se vale la seguente condizione, lim a^+1EtPt+N+l = 0, allora la solu­

zione si riduce all’espressione riportata dalla [2.20]. E facile constatare che tale condizione si basa sul fatto che a < 1.

La [2.20] esprime il livello dei pfezzi come funzione dell’offerta cor­rente di moneta e delle attese suU’offerta^futura di moneta. L ’implica­zione di questa equazione è che il govèrno, generando deficit che possono essere finanziati con nuova offerta di nìoneta^incide sulle at: tese future dell’offerta di moneta e, quindi, sui prezzi. Regimi inter­medi sono quindi inflazionistici, in quanto indicano futuri incrementi di base monetaria.

Nei casi di non coordinamento e non cooperazione tra autorità di politica monetaria e autorità di politica fiscale, si può pensare che una politica monetaria severa, slegata da ogni finanziamento del deficit, sia una politica efficace per indurre i governi a essere più responsabi­li. Sargent e Wallace (1981) (ma si veda anche Sargent, 1986) pongo­no dei dubbi su questa soluzione (unpleasant monetarist arithmetic), basandosi sull’esperienza americana. Una politica severa oggi potreb­be implicare una politica accomodante domani se le istituzioni di po­litica fiscale non si comportano di conseguenza, con una riduzione delle spese e un aumento delle entrate fiscali. L ’assunzione critica di questo modello 12 è che ci sia un ammontare limite di stock di debito che il pubblico (i vari soggetti dell’economia) è disposto a detenere.

E difficile definire sia teoricamente che empiricamente l’ammonta­re di questo livello. Anche l’esperienza storica di paesi con elevato debito non aiuta a definire una “soglia” massima di stock di debito collocabile presso il pubblico. Si possono generare diverse situazioni che inducono famiglie e imprese a rifiutare di detenere ulteriore debi­to nei loro portafogli. Tuttavia, qualsiasi sia la ragione, da un certo punto in poi, una volta raggiunto tale limite, gli agenti non sono più disponibili ad accettare titoli di debito pubblico nel loro portafoglio. Si riconsideri di nuovo la [2.18]:

1 + 1

1 + n’t- 1 + dt - m,

12 . Blanchard, Dornbusch e Buiter (1985) si riferiscono a questo modello come “ la scuola del M innesota” .

1 2 5

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Si assuma, inoltre, che il tasso di interesse sia maggiore del tasso di crescita dell’economia e che si sia raggiunto l’ammontare di titoli che il pubblico è disposto a detenere b°:

[2.21]1 + /

\ 1 + «/

Si noti che ora possiamo portare sul lato destro dell’equazione l’am­montare massimo del debito che il pubblico è disposto a detenere, e mettere in evidenza b°. Per semplificare, si consideri valida la seguen-

I -, ■1 + /te approssimazione:------------1

U + n ,sere riscritta nel seguente modo:

(/ - n). Quindi, la [2.21] può es-

[2.22] m — {i - n)b° + d

Ora la creazione di moneta finanzia gli interessi sul debito accumula­to non compensati dalla crescita economica (n) e il disavanzo prima­rio (d).

Dunque, anche nel caso di una politica monetaria intransigente, effettuata durante il periodo precedente al raggiungimento dello stock del debito considerato dal pubblico come livello massimo b°, seil Tesoro continua a generare i suoi disavanzi invece di intraprendere, coerentemente con la politica monetaria, un processo di riequilibrio della finanza pubblica, le autorità monetarie si troverebbero, prima o poi, a finanziare lo squilibrio fiscale.

Questo aspetto può rivelarsi estremamente serio se gli agenti for­mulano le loro attese in maniera razionale. In tal caso, essi conoscono che l ’autorità monetaria sarà costretta, “prima o poi” , a finanziare il disavanzo e la spesa per interessi sul debito accumulato dal momento che lo stock b° sarà raggiunto, e potrebbero anticipare tale manovra con comportamenti appropriati. Ad esempio, se gli agenti considera­no il finanziamento monetario come un aumento della tassa di infla­zione (l’incremento dei prezzi produce una riduzione del valore reale dei saldi monetari in loro possesso), potrebbero ridurre la domanda di moneta a beneficio di altre attività. Un punto importante è che tutto ciò avverrebbe prima del raggiungimento del livello critico di debito pubblico e perciò prima dell’imposizione della tassa di infla­

1 2 6

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\

zione stessa, incidendo quindi immediatamente sugli effetti della''poli- tica restrittiva effettuati dallaXBanca centrale in tale periodp^

Il modello di Sargent e Wallace presuppone una^divergenza tra gir obiettivi delle autorità di politica economica, e implica che la Ban­ca centrai^ (la politica monetaria) sia costretta^àd accettare le politi­che e gli obicttivi dell’esecutivo. \

Le politiche di bilancio hanno un anpatto pervasivo sull’econo­mia. Vedremo! successivamente che in determinati contesti e con par­ticolari assunzioni le politiche di bilancio possono risultare neutrali. Nello schema1 tradizionale, le politiche fiscali modificano l’allocazione delle risorse tra i vari settori dell’economia e tra il settore pubblico e privato. Le manovre di tassazione e spesa pubblica incidoiK^sui com­portamenti del consumo e, quindi, influenzano il risparmio e'Lijgve- stimento. Inoltre hanno un impatto sul prodotto e quindi sul ciclo' economico. La politica di bilancio incide sui tassi di interesse e sui premi per il rischio, con ulteriori conseguenze sulle variabili reali e sui prezzi.

La politica monetaria è spesso orientata alla stabilità dei prezzi e incide sui tassi di interesse e sulle aspettative di inflazione. La politica monetaria ha anche un impatto sulle variabili reali, sebbene dopo un certo periodo di tempo e con effetti temporanei. Considerati questi effetti, la cooperazione tra politica monetaria e politica fiscale è sem­pre stata al centro del dibattito teorico e politico della politica econo­mica. L ’interazione tra politica fiscale e monetaria è tuttavia mutata negli ultimi decenni. Precedentemente, come riferito in questo para­grafo, gli orientamenti favorivano lo schema di intervento di stabiliz­zazione delle politiche di bilancio, con la politica monetaria pronta a sostenere questa strategia con un finanziamento adeguato. Utilizzando uno schema teorico statico, le conseguenze di tale cooperazione erano limitate. Non si consideravano né gli incentivi che in tale contesto si creavano per gli esecutivi in termini di spesa, né gli effetti di lungo periodo sul sistema economico stesso e sulla possibilità di reiterare politiche di stabilizzazione del ciclo con manovre di bilancio. Infine non si valutava appieno come agenti razionali avrebbero considerato queste politiche e come avrebbero formulato le loro aspettative sui prezzi e le altre variabili macroeconomiche.

Questo modello di cooperazione tra politiche fiscali e monetarie venne meno con gli anni settanta e ottanta, in presenza di un ripetuto sostegno alla domanda da parte della politica di bilancio che provocò alti tassi di interesse, alti tassi di inflazione e un debito pubblico crescente.

Un modello di cooperazione, non a caso nominato game o f chick-

2 . DEFICIT PUBBLICÒVDEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

1 2 7

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

en, ha caratterizzato la politica economica negli Stati Uniti sotto l’Am­ministrazione Reagan. L ’Amministrazione appoggiò un regime fiscale ricardiano, incoraggiando le autorità monetarie a rispettare l’impegno di non monetizzare il debito, ma allo stesso tempo procedette con una politica di bilancio in disequilibrio, determinando una politica fiscale incompatibile con la politica monetaria. Se le autorità monetarie rie­scono a mantenere l’impegno di rifiutare di monetizzare il debito, il vincolo di bilancio del governo dovrebbe essere in grado di forzare le autorità fiscali a perseguire politiche di tassazione e di spesa pubblica coerenti con l’equilibrio. Se, viceversa, le autorità fiscali continuano a produrre dei deficit, il rispetto del vincolo di bilancio dovrà passare per una monetizzazione del debito. Quello che è chiaro è che in tali situazioni una delle due autorità di politica economica dovrà cedere: «thè party to capitolate is called a “chicken”» 13. Nei primi anni ottanta, tale ruolo spettò alla Federai Reserve, preoccupata per gli alti tassi di interesse e per le loro ripercussioni internazionali, generati da una po­litica di disequilibrio e dalle aspettative future che questa provocava I4.

Il nuovo paradigma del coordinamento tra le politiche non si basa più su una piena discrezionalità della politica di bilancio, ma si è svi­luppato sulla definizione di regole in grado di specificare una guida coerente per le istituzioni di politica economica. Queste regole di comportamento per le autorità hanno il vantaggio, se rispettate, di fornire informazioni precise per gli operatori privati. In questo conte­sto la soluzione ottimale per la politica economica è la definizione di un regime che chiarisca in maniera inequivocabile e coerente gli obiet­tivi e gli strumenti di politica economica. Utilizzando le parole della Banca centrale europea, il nuovo paradigma dovrebbe includere

assetti e procedure trasparenti e basati su regole e in cui la politica moneta­ria e quella di bilancio ricevano una guida costante per le loro azioni, sco­raggiando nel contempo comportamenti orientati esclusivamente da esigenze di breve periodo. All’interno di un regime di tale tipo, a condizione che sia adeguatamente definito e applicato, le risposte della politica monetaria e di quella fiscale ai cambiamenti del contesto economico saranno, quasi automa­ticamente, coerenti tra loro e favoriranno il raggiungimento del miglior ri­sultato macroeconomico. Peraltro non vi sarà generalmente alcun bisogno di

13 . Si veda il saggio di Thom as Sargent, su Reaganomics and credìbilìty, riportato in Sargent (1986), dove descrive il conflitto per la dominanza tra le autorità fiscali e monetarie e una varietà di altri metodi di coordinamento tra politiche fiscali e m one­tarie.

14 . M arini (1990) definisce in maniera analoga il problem a che ha caratterizzato il coordinamento della politica economica in Italia negli anni ottanta.

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un ulteriore coordinamento degli interventi quotidiani della politica econo­mica. In tali condizioni si possono ottenere ulteriori vantaggi dalla definizio­ne congiunta delle risposte agli shock soltanto se gli obiettivi assegnati ai vari responsabili delle politiche sono male allineati e incoerentiT5.

2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO'PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

,2-7 \Misure alternative di rientro del debito pubblico/

Misure eccezionali come il ripudio parziale o totale del debito porte­rebbero ad una serie di conseguenze particolarmente pericolose perlo sviluppo dell’economia. In particolare, si annullerebbe ogni rap­porto fiduciario tra lo Stato e i risparmiatori e, di conseguenza, anche nei mercati finanziari ci si troverebbe di fronte a un probleqna di ca­duta di fiducia su tutti i contratti privati e non.

Il ripudio del debito, ovviamente, renderebbe ardua la possibilità di nuove emissioni di debito. In altri termini, lo Stato troverebbe ficilmente fondi sul mercato dei capitali.

Un ulteriore strumento a cui spesso in passato si è fatto ricorso è l’inflazione. In questo caso la variazione dei prezzi presenta un aspet­to positivo: riduce il valore reale del debito. Il ricorso a questo tipo di politica è chiamato signoraggio: una definizione che risale al Me­dioevo, e che rimanda alla pratica dei signori con diritto di coniare moneta sulle proprie terre, di alterare la quantità di metallo prezioso contenuta nelle monete. Nelle economie moderne non esistono più monete costruite con metalli preziosi, ma banconote.

Analizziamo questo aspetto, iniziando a definire l’emissione di nuova base monetaria come ulteriore possibilità di finanziamento dei disavanzi pubblici e, quindi, come uno strumento addizionale per ot­tenere il rispetto del vincolo di bilancio del governo.

La tassa di inflazione può essere definita facilmente considerando l’equazione [2.17] che descrive il valore del debito in termini nomi­nali, in tempo discreto, mediante una equazione alle differenze. In questo paragrafo utilizzeremo le equazioni differenziali, riscrivendo la [2.17] in tempo continuo l6:

[2.23] Bit) + M(t) = iB(t) + D(t)

15. “Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea”, febbraio 2003, p. 38.16. Invitiamo lo studente ad un rapido ripasso delle soluzioni delle equazioni

differenziali con la lettura del p a r . 2.r6 di questo capitolo.

1 2 9

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

I punti sopra M e B indicano tassi di variazione delle variabili M = dM/dt; B = dB/dt. Questa equazione può essere scritta eliminando per semplicità l’indicatore temporale (t) (non la dimensione tempo­rale!):

[2.23.1] B + M = iB + D

La [2.23.1] mostra che si può fronteggiare il vincolo di bilancio del governo con l’emissione di titoli, con nuova moneta o con un mix delle due alternative. Se si vuole indagare sugli effetti dell’inflazione sulla dinamica del debito occorre utilizzare un modello che distingua tra variabili nominali e variabili reali. Occorre, quindi, riscrivere la[2.23.1] in termini reali. Se i prezzi non sono più considerati costanti,cade anche l’ipotesi che il tasso di interesse nominale sia un’approssi­mazione del tasso reale. Iniziamo con esprimere il valore del debito, del deficit pubblico e della moneta in termini reali, semplicemente dividendo tali aggregati per i prezzi. Ovviamente esprimeremo l ’equa­zione del debito come al solito in termini di rapporto con il p i l . Que­sta volta, però, il rapporto sarà specificato in termini di p i l nominale (valore reale del p i l moltiplicato per il livello dei prezzi). In altri ter­mini, riscriviamo l’equazione del debito nel modo seguente:

B M iB D[2.24] —— + —— = — + —

Py Py Py Py

dove P e y indicano, rispettivamente, i prezzi e il reddito reale. Svi­

luppiamo ora le seguenti specificazioni per b =B M

---- e fn —Py ! \Pyì

B B p B . yPy Py

y—Jb

p" ~

71

PyS r 1b

£n

cioè 17 :

17 . Questo procedim ento permette di scomporre, nella variazione del valore del debito, l’effetto dovuto alla variazione dei prezzi e l ’effetto dovuto alla variazione del­la crescita economica.

1 3 0

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M[->.24.2] fn = -------- mn - mn

Py

(Questa equazione può essere inserita nella [2.24] per M/Py. Inseren­do la [2.24.1] e la [2.24.2] nella [2.24], otteniamo:

12.25] b + m = (i — Jt — n)b - ( jt + n)m + d

Si noti ora come l’inflazione aiuti a risolvere il problema del debito pubblico (contribuisca a finanziarlo), nella richiesta di un minor fi­nanziamento sia per l’effetto dell’inflazione nella determinazione del servizio del debito da finanziare (riduce gli interessi reali al netto del tasso di crescita dell’economia), sia per l’effetto sullo stock di base monetaria, chiamato anche tassa da inflazione.

Se utilizziamo la definizione di tasso di interesse reale, r — i - Jt,

possiamo riscrivere la [2.25] nel seguente modo:

[2.26] b + m = (r - n)b — ( j t + n)m + d

Ci sono diverse definizioni di signoraggio e tassa da inflazione. Spi­nelli e Fratianni (1991) definiscono la tassa da inflazione come il tassodi inflazione moltiplicato per la somma dello stock di debito pubbli­co fruttifero e della base monetaria a prezzi costanti meno il valore

1 3 1

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

reale degli interessi pagati dallo Stato l8. Quando il tasso di inflazione cresce, la tassa sulla moneta aumenta. Ovviamente tra signoraggio e tassa da inflazione sussiste una stretta relazione. La rilevanza del ri­corso all’inflazione per finanziare i disavanzi nei vari periodi storici è esplicitata bene dal seguente passo ripreso da Spinelli e Fratianni (1991, p. 130):

Non sorpi*ende che signoraggio e tassa da inflazione, a loro volta, siano for­temente correlati con il deficit primario. Negli anni del sistema aureo e del periodo tra le due guerre mondiali, in media, si registra un avanzo primario. Durante quegli stessi periodi i) signoraggio è praticamente inesistente, men­tre la tassa da inflazione è addirittura negativa. Né sorprende che la tassa da inflazione superi il 25 % del reddito nazionale reale nel primo conflitto mon­diale ed il 30% nel secondo. Questo tipo di evidenza empirica è coerente con [...] la proposizione che, di fronte ad un aumento di spese determinato da una emergenza temporanea, lo Stato preferisca ricorrere alla tassa da in­flazione anziché ad un maggior aggravio fiscale. A prima vista, potrebbe sor­prendere invece l’entità del signoraggio e della tassa da inflazione negli anni settanta. Ma per questo periodo la forte spesa non è considerata temporanea e quindi anche la tassa da inflazione finisce per essere una componente strut­turale delle finanze pubbliche italiane.

Di solito valori elevati di signoraggio e tassa da inflazione sono ri­scontrati in periodi eccezionali (ad esempio in Italia nei decenni rela­tivi alle due guerre mondiali), ma anche negli anni più recenti si sono riscontrati periodi dove signoraggio e tassa da inflazione sono risultati rilevanti. Durante gli anni settanta, questa tassa ha di fatto contribui­to in molti paesi ad alta inflazione, come l’Italia, a finanziare il debito pubblico riducendone il valore reale.

In media Spinelli e Fratianni (1991) calcolano che il valore assun­to dal signoraggio negli anni settanta sia stato di oltre il 6% del red­dito (con una tassa da inflazione del 6 .5 %) contro 1’ 1.6% (con una tassa da inflazione del 3 %) degli anni cinquanta e l’1.7 % del decen­nio successivo (con una tassa da inflazione dello 0.21% ) *9.

18. Se si analizza la [2.26] si può notare come questa definizione non sia lontana da quella specificata nell’equazione. N ell’equazione [2.26], il finanziamento del disa­vanzo reale è ottenuto con la tassa da inflazione sullo stock di moneta e con la tassa da inflazione sullo stock del debito qualora il tasso d ’inflazione risulti superiore al lasso d ’ interesse nominale.

k). Per un’analisi storico-economica del contributo della politica monetaria al- l’aj’.f'.iiislanH'nto fiscale nel periodo tra il 1890 e il 1 9 ^ (alla vigilia della Prim a guerra mondiale) si veda Panteghini, Spinelli (2002). Il ruolo della politica monetaria nell’ag- ytti .t:ii 1 u 'iil<> fiscale degli anni settanta e ottanta è descritto in Salvemini (1993).

1 ^ 2

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2 . D L l ' I C I T P U B B L I C O , D E B IT O P U B B L IC O L S O L U Z IO N I'; DI'. L I, L. I ■.(.>( I /Y /.lo N t

Il ricorso alla tassa da inflazione per contenere i problemi di fi­nanza pubblica funziona se l ’inflazione è inattesa. In questo modo, l’aumento dei prezzi riduce o, in taluni casi, rende negativi i tassi di interesse reali. Oggi è difficile provocare un aumento inatteso di infla­zione. Se l ’aumento è atteso, infatti, anche i tassi di interesse nominali tenderebbero ad aumentare, annullando l’effetto dell’inflazione sul servizio del debito. Inoltre, l’effetto dell’aumento dell’inflazione sul debito dipende anche dalla maturità del debito. I titoli emessi dal Te­soro sono diversi per caratteristiche e per la loro durata. La vita me­dia dei titoli emessi può variare da un elevato numero di anni a pochi mesi.

Se la situazione è caratterizzata da un debito a lunga scadenza e gli agenti non sono solleciti nel rivedere le aspettative inflazionistiche, allora un incremento dell’inflazione può risultare efficace. Nel mo­mento in cui l ’incremento dei prezzi si concretizza, il debito non è ancora in scadenza e le aspettative non si rigenerano. Se, viceversa, la vita media del debito è breve (la vita media dei titoli è intorno all’an­no) allora è difficile pensare a un reale contributo dell’inflazione per contenere lo squilibrio di finanza pubblica.

Dal momento che si avvia un processo inflazionistico, la composi­zione della vita media del debito necessariamente cambia, gli agenti economici sono più disponibili a sottoscrivere titoli a breve scadenza, con tassi variabili e tassi di interesse più elevati. Questo cambiamento nella domanda di titoli di debito pubblico, riflette concretamente l’e­sperienza italiana in termini di maturità del debito degli anni settanta e ottanta.

2 . 8

Politica di bilancio e debito pubblico: equivalenza ricardiana

Analizziamo gli effetti di una politica fiscale espansiva in termini di domanda aggregata, mercato dei capitali e tasso di interesse. L ’aspet­to cruciale che va sottolineato è il finanziamento della politica espansiva.

Una politica fiscale espansiva, attuata attraverso un incremento di spesa pubblica o una riduzione della tassazione, aumenta il consumo aggregato ed espande la domanda aggregata. L ’aumento della doman­da aggregata provoca una riduzione del risparmio privato e di quello nazionale. In questo contesto, sul mercato dei capitali si crea un ec­cesso di domanda di risparmio che provoca un aumento del tasso di interesse reale. L ’aumento del tasso di interesse agisce da freno sugli

T33

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i i : / | ‘ >n i d i pi i i . r n c / v h c o n o m i c a

K K . H I A D K O 2 . 5

1 titoli emessi dal Tesoro

I Buoni ordinari del Tesoro (b o t ) sono titoli fruttiferi al portatore con scadenza fino a dodici mesi e con un collocamento che avviene mediante asta competitiva. I Buoni poliennali del Tesoro ( b t p ) sono titoli fruttiferi del debito patrimoniale a medio e lungo termine, a tasso fisso e cedola trimestrale. Vengono emessi con durata che varia da 3 a 30 anni. I Certi­ficati di credito del Tesoro (c c t ) sono titoli fruttiferi del debito patrimo­niale a medio e lungo termine e possono essere a tasso variabile (ad esempio, indicizzati al rendimento dei b o t annuale o semestrale) o a tasso fisso. I Certificati del Tesoro zero coupon (c t z ) sono titoli a medio termi­ne ( 1 8 - 2 4 mesi) privi di cedole. I Certificati del Tesoro in e c u ( c t e ) sono titoli espressi in European currency unit a medio lungo termine (3-8 anni) e a tasso fisso. I Certificati del Tesoro con opzione ( c t o ) sono titoli a tasso fisso che permettono il rimborso anticipato alla metà della vita del titolo. I Certificati del Tesoro reali (c:t r ) sono titoli a lungo termine a tasso fisso con il valore nominale legato annualmente alle variazioni del deflatore del p i l .

investimenti (un effetto di spiazzamento) e, quindi, sullo stock di capi­tale, riequilibrando domanda e offerta di risparmio 2°.

Partendo da una condizione di bilancio del governo in pareggio, una riduzione di tassazione implica un aumento del debito e, in una economia chiusa, produce un aumento dei tassi di interesse reali. In una economia aperta la riduzione di tassazione con la riduzione del­l’offerta di risparmio nazionale genera una domanda di risparmio che può dirigersi verso gli altri paesi. In questo caso l’effetto spiazzamen­to (con l’aumento dei tassi di interesse) è certamente più debole. Tut­tavia, la domanda di risparmio estero per finanziare gli investimenti interni provoca un deficit delle partite correnti.

La f ig . 2 . 3 mostra l’equilibrio del mercato dei capitali. La curva di domanda di investimento è derivata dalla somma della domanda di investimento delle imprese e dalla domanda di fondi da parte del set­tore pubblico, che assorbe risparmio per finanziare la spesa pubblica. La curva riflette il finanziamento del mercato dei capitali alle imprese e allo Stato ed è decrescente, indicando che a tassi di interesse infe­riori la domanda di investimento è maggiore perché più conveniente. L ’offerta di risparmio delle famiglie indica l ’ammontare di capitale

20. C i sono anche effetti di lungo periodo sullo stock del capitale che tuttavia non considereremo.

1 3 4

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2 . D EFICIT P U B B L IC O , DEBITO P U B B L IC O E SO LU Z IO NE DELLE E QUAZIO NI

l'ICUJRA 2 .3I Equilibrio del mercato dei capitali

che le famiglie fanno affluire al mercato dei capitali (sotto forma di acquisto di quote di fondi comuni, di fondi pensione, di certificati di deposito, di libretti a risparmio, di quote azionarie e obbligazionarie ecc.). La curva ha inclinazione positiva, in quanto maggiori tassi di interesse accrescono il rendimento del risparmio e inducono le fami­glie a convogliare più ampie parti del loro reddito al risparmio piut­tosto che al consumo. Quando interviene una riduzione della tassa­zione, avviene un duplice effetto sui mercati di capitali. Da un lato la riduzione delle tasse modifica la domanda di fondi aumentando quel­la del governo. Ciò provoca una traslazione verso destra della curva di domanda. Meno imposte per le famiglie portano comunque ad un maggiore reddito disponibile e quindi ad una maggiore offerta di ri­sparmio. Questo effetto provoca una traslazione della curva di offerta verso destra. L ’equilibrio sul mercato dei capitali si modifica (da A a B nella f i g . 2.4), modificando il tasso di interesse di equilibrio, il ri­sparmio offerto e la domanda di risparmio.

Il modello macroeconomico standard prevede che un taglio di im­poste finanziato in deficit generi, come abbiamo accennato, una varia­zione dei consumi, della domanda aggregata, del risparmio e dei tassi di interesse. Una visione alternativa, molto discussa in ambito accade­mico, degli effetti di una riduzione delle imposte sull’economia pren-

i 35

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LEZIONI DI P O L IT IC A E CO N O M ICA

FTG U R A 2 .4Equilibrio del mercato dei capitali con riduzione di tassazione

Risparmio e investimento

de il nome di equivalenza ricardiana. Questa teoria asserisce che alcu­ne politiche di bilancio, sotto condizioni particolari, non hanno nes­sun effetto sull’economia. In altri termini sono neutrali. Una politica espansiva perseguita con una riduzione di imposte che produce un deficit pubblico non altererà, contrariamente al modello standard, né il consumo né gli investimenti e quindi l’accumulazione del capitale e la crescita. Non ci sarà nessun effetto sul risparmio delle famiglie e sui tassi di interesse. La situazione che si viene a creare con il taglio della tassazione e il conseguente deficit pubblico è equivalente a quel­la che si creerebbe senza tale riduzione della tassazione.

Robert Barro, in un noto articolo del 1974, Are Government Bonds Net Wealth?, modifica il modello standard degli effetti di una politica di bilancio espansiva. In particolare, Barro afferma che un ta­glio delle imposte correnti, finanziato con un disavanzo (mantenendo invariate le spese pubbliche), e quindi con debito pubblico, comporta un aumento futuro delle imposte della dimensione del valore attuale della manovra (del taglio di imposta). Se si escludono comportamenti à la Ponzi, il valore attuale delle imposte non può essere diverso dal valore attuale delle spese. Con il vincolo di bilancio del governo, non c’è possibilità di free-luneh, un taglio oggi delle imposte deve essere compensato prima o poi da un aumento delle imposte: in altri termi­

1 3 6

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2 . D EFICIT P U B B L IC O , DEBITO P U BB L IC O E SO LU ZIO NE DELL Li EQUAZIONI

ni dal valore attuale delle imposte future. Le famiglie, se sono suffi­cientemente forward, cioè se formano le loro attese con schemi come quelli delle aspettative razionali, detraggono dalla loro ricchezza il va­lore presente delle imposte future, in considerazione del fatto che prima o poi dovranno ripagare il taglio di imposte effettuato nel pe­riodo corrente. Questa idea del resto è coerente con il comportamen­to delle famiglie descritto dalla teoria del reddito permanente (o del ciclo vitale). Le decisioni di consumo dipendono dal reddito perma­nente che, a sua volta, dipende dal valore attuale di tutti i guadagni netti (cioè i guadagni che si ottengono dopo aver detratto le tasse).

Un aumento del disavanzo pubblico corrisponde ad una riduzione del risparmio del governo. Qualora si effettui una riduzione delle im­poste, cioè una riduzione del risparmio del governo, si genera un au­mento del risparmio privato. In tal caso non si genera nessuna varia­zione del risparmio nazionale. L ’ipotesi dell’equivalenza ricardiana si basa sulle seguenti assunzioni principali:i) famiglie con vita infinita;ii) mercati dei capitali perfetti;iii) tassazione di tipo lump-sum (a somma fissa);iv) il sentiero della spesa pubblica è dato;v) le famiglie possono prevedere perfettamente la tassazione futura.

Per analizzare questo risultato consideriamo di nuovo il vincolo dibilancio intertemporale, già utilizzato per studiare i giochi alla Pon­zi 2I. Riprendiamo, quindi, il vincolo di bilancio espresso dall’equa­zione [2.4]:

I 2.27] B t - B ,^ + T t = iBt_x + G t

Assumiamo che la tassazione sia di tipo lump sum e che non ci sia possibilità di far fronte ai disavanzi mediante creazione di moneta. Si consideri ora la ricchezza delle famiglie che dipende dalla loro quota di debito pubblico meno la loro quota del valore attuale della tassa­zione presente e futura:

I2.28] B 0 = I ÓTt, 6 = — i—‘ (1 + t)

21. Utilizzeremo in particolare Barro (19893). Un’introduzione non tecnica è in liarro (1989!)).

1 3 7

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LEZIONI DI P O L IT IC A E CO N O M IC A

dove <5 rappresenta il tasso di sconto utilizzato per trasformare in va­lore attuale la (le prospettive future di) tassazione futura. Per data spesa pubblica, la ricchezza netta delle famiglie è invariante al meto­do di finanziamento del deficit. Per dimostrare questa assunzione consideriamo il valore attuale della tassazione futura [2.28], e sosti­tuiamo per la tassazione il vincolo di bilancio [2.27]:

ì d T t = I {8[Gt + (1 + ì)Bt_x - B,]}; 1

K K KHII + m i + 2) -1 - l à B t1 1 1K K K

= I S G , + B0 + Z àB t_ 1 - ZóBt1 2 1K

11 -M + B0 - ÒBk

Nel terzo passaggio si è utilizzata la formula del tasso di sconto <5(1 + t) — 1 per definire il valore attuale del periodo iniziale; inoltre abbiamo estratto dalla sommatoria il periodo iniziale dello stock del debito. Il quarto e definitivo passaggio si ottiene sottraendo nella ter­za equazione le due somme degli stock fino al periodo K 22. Se si lascia che il periodo K cresca all’infinito, abbiamo:

[2.29] Ì ò T t = l ò G t + B0 - lim (ÒBk)1 1

Il debito è un’attività e si assume che le famiglie alla fine di una vita di durata K non intendano lasciare attività finanziarie o reali ih avan­zo. Questa assunzione è riproposta anche per famiglie che hanno una lunghezza di vita infinita. Asintoticamente, nessuna risorsa è lasciata con un valore attuale positivo. Ciò equivale ad imporre una condizio­ne di trasversalità lim (SBK) = 0 . Le famiglie non manterranno nel

K—loro portafoglio un debito pubblico che cresce asintoticamente ad un

22. Ad esempio, si assuma per semplicità K = 4, avremo in questo caso 82^ - B1 + B3_1 - B2 + £4_! - B3 - B4. I vari termini si elidono tranne l’ultimo B4.

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2 . DEFICIT PUBBLICO,-DÉBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

tasso almeno pari al tasso di interesse. Questa condizione elimina qualsiasi gioco à la Ponzi- Imponendo la condizione di trasversalità si ottiene:

[2.30] l ó T t= ¥ Gt +

Il valore attuale della tassazione dipende dal valore attuale della spesa pubblica e dallo stock iniziale del debito. Se le autorità di politica economica effettuano delle spese, queste stesse dovranno prima o poi essere finanziate. Da questa equazione si determina agevolmente la condizione

B0 - ió T , = - IÒ G t

Quindi per le famiglie la ricchezza non varia al variare del debito B0, e con l ’intero sentiero dei deficit pubblici. Le famiglie si rendono conto che un disavanzo oggi implica una più elevata tassazione in fu­turo: a seguito di una riduzione della tassazione, le famiglie reagiran­no in termini di consumo, e quindi di risparmio, considerando l’au­mento di tassazione che inevitabilmente dovrà prima o poi avvenire.

Si noti come la [2.30] implichi che la ricchezza non varia inversa­mente con le variazioni del valore attuale delle spese pubbliche. In queste condizioni, diversamente dal modello standard sopra descritto, non variano i consumi, il risparmio e i tassi di interesse. L ’effetto di una riduzione di imposta non muta l’equilibrio del mercato dei capi­tali illustrato nella f i g . 2.3.

Richiamando la domanda che si pone Barro nell’articolo sull’equi­valenza ricardiana, «i titoli di Stato rappresentano ricchezza netta?», possiamo rispondere che sicuramente rappresentano un’attività per chi detiene questi titoli nel portafoglio. Tuttavia, per chi è soggetto a tassazione, i titoli di Stato rappresentano una passività: è stata finan­ziata una riduzione di tassazione con un debito. Le attività rendono ai loro possessori un aumento di ricchezza, ma una riduzione delle tasse, finanziata con questi titoli, equivale anche ad un aumento delle tasse per chi non possiede questi titoli e paga le tasse. In aggregato questi effetti si compensano e per le famiglie in quanto aggregato non ci sarà nessun aumento di ricchezza.

L ’inefficienza della politica fiscale implicita nell’equivalenza ricar-

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

diana è comunque vera soltanto se si applicano le assunzioni molto restrittive sopra elencate 23. Molti studi empirici tesi a verificare tale ipotesi hanno trovato un sostanziale effetto sulla domanda a seguito di variazioni della tassazione 24.

2-9La teoria fiscale del livello dei prezzi

Alcuni autori come Eric Leeper, Christopher Sims, Michael Wood- ford, John Cochrane e diversi altri hanno recentemente sottolineato il ruolo della politica fiscale nella determinazione del livello dei prezzi. Nei paragrafi precedenti abbiamo già analizzato la relazione tra politi­che di bilancio e livello del debito. A questo proposito abbiamo de­scritto come il vincolo di bilancio richieda, prima o poi, una sequen­za di surplus primari per rispettarlo. Questo problema coinvolge i prezzi perché in alcuni regimi la politica non coerente con il vincolo di bilancio può provocare un finanziamento monetario dello squili­brio di finanza pubblica. La teoria fiscale del livello dei prezzi ripren­de questa relazione tra debito e prezzi. Si riprenda il valore attuale

del vincolo di bilancio del governo [2.30]: X óT t = Y,òGt + B 0. In

questo vincolo B0 rappresenta l’ammontare dei titoli posseduti dal pubblico: una passività del governo. Se introduciamo la possibilità di utilizzare anche il finanziamento monetario, possiamo aggiungere una ulteriore passività del governo, M0. E opportuno richiamare l’atten­zione sul fatto che M0 e B0 rappresentano, rispettivamente, lo stock di base monetaria e lo stock del debito (le passività del governo)

23. L e critiche di carattere teorico investono molteplici aspetti del modello. Ad esempio M arini (1990) passa in rassegna alcuni modelli utilizzati per studiare gli effet­ti della politica fiscale e mostra come le diverse ipotesi necessarie e sufficienti per la non validità del teorema ricardiano mutino con i modelli considerati. Questa lettura accomunata con i lavori citati nell’articolo richiede la capacità di risolvere problem i di ottimizzazione dinamica.

24. U n ’analisi dei problemi empirici della nozione dell’equivalenza ricardiana è in Bernheim (1987). Si suggerisce comunque la lettura dei commenti di M arjorie Fla- vin e Charles Plosser al termine dell’articolo. Diversi risultati empirici sulla proposi­zione ricardiana sono riportati nel volume curato da Japp elli ( 19 9 1). Un noto lavoro di M odigliani e Jappelli (1987) ha mostrato come i tassi di interesse nominali e reali dell’Italia siano funzione dei disavanzi correnti ma non dello stock del debito pu b­blico. Questi risultati, che sono riportati nel volume di Jappelli insieme ad altri con­tributi critici, respingono il teorema dell’equivalenza ricardiana.

1 4 0

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2. DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

RIQ U A D R O 2 .6

Famiglie con orizzonte infinito ed equivalenza ricardiana

L’assunzione di famiglie con vita infinita (dinastiche) per l’equivalenza ri­cardiana è importante ma può sembrare molto restrittiva. Utilizzare degli orizzonti temporali finiti è centrale per molti modelli. Basti pensare ai modelli di “ciclo vitale” applicati al consumo da Modigliani e studiati nei testi di macroeconomia. Con modelli di ciclo vitale le famiglie o gli indi­vidui internalizzano quelle imposte per cui stimano di farvi fronte prima della fine della loro vita. In questo caso, l’esempio di una riduzione delle imposte finanziata in disavanzo produce risultati diversi da quelli trovati da Barro, a seconda che le imposte future cadano nell’orizzonte di vita o vadano oltre tale orizzonte. Se assumiamo che soltanto una parte di que­ste imposte future potranno interessare il corso della vita attesa di una famiglia, il valore attuale di questa parte di imposte deve essere inferiore al taglio dell’imposta. Infatti, un’altra parte delle imposte non interessa più la famiglia in esame, e verrà richiesta in un periodo che va oltre la vita attesa della famiglia. In questo caso la ricchezza netta di questa fami­glia aumenta, in quanto dovrà restituire solo una parte attualizzata della riduzione di imposta ricevuta. E probabile che questa famiglia aumenti il consumo e, quindi, incida sul risparmio nazionale: il risparmio di queste famiglie non aumenterà in maniera tale da compensare la riduzione di ri­sparmio del governo che si genera dal momento che produce un deficit.

La famiglia con orizzonte infinito può, comunque, risultare un’appros­simazione di una famiglia tipo, con figli e lasciti o trasferimenti ai suoi discendenti. I trasferimenti intergenerazionali permettono di definire una famiglia rappresentativa con un orizzonte infinito e ottenere il risultato dell’equivalenza ricardiana. Una riduzione di imposte oggi induce la fami­glia a capitalizzare l’intero flusso delle imposte future attese.

Per una discussione estesa su questa ipotesi e sulle altre assunzioni che sono alla base del risultato dell’equivalenza ricardiana, si veda Barro (r989a; 1989!)). Si veda inoltre la lunga rassegna di Seater (1993) sugli aspetti teorici ed empirici coinvolti dall’equivalenza ricardiana, mentre El- mendorf e Mankiw (T999) forniscono una rassegna aggiornata e un modo di interpretare questi risultati.

emessi in termini nominali. Il loro valore nominale è fissato nel perio­do di emissione mentre il loro valore reale dipende dal livello dei prezzi. In termini nominali, il vincolo di bilancio del governo può es­sere scritto nel seguente modo:

Ì ò T t = Ì ò G t + B0 + M 0 1 1

1 4 1

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Se “ scaliamo” 25 le variabili del vincolo del governo in termini di p i l

nominale otteniamo:

M 0 + B0[2.31] — --------- = X ó

P0Y0 P'Y,

dove <5 è il fattore di sconto che varia inversamente al tasso di inte­resse e direttamente con il tasso di crescita reale dell’economia 26. Questa equazione afferma che le passività del governo in termini di p i l devono uguagliare il surplus primario e il valore attuale dei sur­plus futuri. Insieme ai flussi del surplus primario richiesto per bilan­ciare le passività emesse dal governo può esserci anche il trasferimen­to monetario (non incluso nell’equazione) della Banca centrale: i titoli possono essere venduti ai privati e alla Banca centrale. In quest’ulti­mo caso nell’equazione dovrebbe comparire, come attività del gover­no, la tassazione e il finanziamento della Banca centrale mediante sot­toscrizione di titoli di debito pubblico. La teoria fiscale del livello dei prezzi attribuisce a questa equazione due caratteristiche principali. La prima è che rappresenta una condizione di equilibrio. La seconda è che il governo esprime le sue passività in termini nominali. Il vincolo deve essere soddisfatto in equilibrio, ma è importante vedere in che modo il vincolo può essere soddisfatto, oltre che quando può o dovrà essere soddisfatto. Queste assunzioni sono alla base della teoria fiscale del livello dei prezzi.

In precedenza abbiamo delineato due linee di cooperazione alter­native tra politica fiscale e monetaria. Nel caso si consideri un regime ricardiano, sappiamo che la politica fiscale sarà coerente con il rispet­to del vincolo di bilancio del governo [2.30]. In questo contesto i prezzi non sono coinvolti dal vincolo di bilancio del governo, ma vengono determinati altrove nell’economia. La prospettiva è diversa nel regime non-ricardiano (o in quelli intermedi analizzati dalla “scuola del Minnesota”). Ipotizziamo che il governo persegua una manovra espansiva, con un taglio della tassazione che produce un au­mento della domanda. Assumiamo anche che i salari e i prezzi sono

25. Prendiam o il rapporto delle variabili con il p il .26. Com e di consueto, il fattore di sconto rappresenta il prezzo di un dollaro

ricevuto dopo t periodi (anni) nel futuro e quindi varia inversamente al tasso di inte­resse. <5, comunque, subisce il processo di scaling con i prezzi e il p i l reale.

1 4 2

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE l-X.HJA/.K >Nl

flessibili; in questo caso sappiamo che le variabili reali sono al loro tasso naturale e, di conseguenza, p i l e tasso di interesse reale non si muovono in quanto sono determinati da fattori strutturali. Ciò impli­ca che anche il tasso di sconto (che si muove in senso contrario al tasso di interesse reale) rimane fermo. La riduzione della tassazione provoca nell’equazione di bilancio del governo [2.31] una riduzione del surplus che deve necessariamente essere compensata, per assicu­rare l’equilibrio del vincolo di bilancio, da un aumento dei prezzi. In

, . M0 + -Boaltre parole, la parte sinistra dell’equazione,-------------, deve muover­

lo 0si per assicurare l’uguaglianza della condizione di equilibrio [2.31]. Si noti, tuttavia, che il p i l reale non si muove dal suo tasso naturale e gli stock di base monetaria e di debito pubblico sono passività nomi­nali fissate nel periodo iniziale di emissione. L ’unica variabile che può “saltare” per riaffermare l’equilibrio dell’equazione è il livello dei prezzi, e quindi il p i l nominale. Questo aumento dei prezzi è legato all’eccesso di domanda creata dalla riduzione della tassazione.

Nel caso l’economia sia caratterizzata da rigidità dei prezzi e dei salari (ad esempio per via di contratti salariali), sia l ’output che il tas­so di interesse reale variano in seguito ad una riduzione della tassa­zione. In questo caso, oltre al livello dei prezzi, anche il tasso di sconto e il p i l reale possono muoversi per riequilibrare il vincolo di bilancio.

L ’aspetto importante da sottolineare è che, con le passività del go­verno considerate in termini nominali, il vincolo di bilancio sarà assi­curato o da una politica fiscale ricardiana o con il contributo di una variazione del livello dei prezzi. Viceversa, quando le passività sono tutte definite in termini reali, come nel caso deNunpleasant monetarist arithmetic, il rispetto del vincolo richiede necessariamente una ridu­zione delle spese pubbliche, un aumento della tassazione o manovre di signoraggio 27.

L ’implicazione principale di questa teoria è chiara: se le Banche centrali devono perseguire come loro obiettivo naturale la stabilità dei prezzi, la politica fiscale deve essere disciplinata, assicurando la /iscal solvency per ogni sentiero dei prezzi che la Banca centrale per­segue.

27. Tra i lavori che hanno dato avvio a questa letteratura citiamo quelli di Lee- |ht ( 19 9 1); Sims (1994); W oodford (1995); Canzoneri, Cumby, D iba (200r; 2002), su1 ni è basata la trattazione qui riportata. Si veda anche Cochrane (1998).

J 4 3

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Politica fiscale e debito pubblico: gli stabilizzatori automatici

Sinora abbiamo specificato due tipi di disavanzo pubblico. Disavanzo primario e disavanzo totale. Spesso si utilizza un’ulteriore definizione, il disavanzo strutturale o corretto per il ciclo, che mette in relazione il disavanzo con le caratteristiche cicliche dell’economia. Il problema importante è quello di capire se un determinato disavanzo è causato da politiche che portano ad aumentare il debito o da condizioni cicli­che che successivamente eserciteranno un effetto opposto sul disavan­zo, riducendolo. In altri termini, possiamo avere per determinati pe­riodi dei disavanzi positivi con disavanzi strutturali inferiori o nulli. Valutare la politica di bilancio guardando al disavanzo complessivo è difficile e può risultare ingannevole perché questa misura di disavan­zo riflette anche gli effetti ciclici dovuti all'operare degli stabilizzatori automatici, oltre alla spesa per interessi e alle misure fiscali approvate dal governo. Le entrate fiscali, alcune componenti di spesa pubblica e i sussidi di disoccupazione variano automaticamente nel ciclo e gene­rano una relazione tra attività economica e saldi di bilancio. Queste grandezze sono chiamate stabilizzatori automatici.

Il ciclo economico produce un effetto sul saldo di bilancio: nelle fasi espansive si genera una riduzione del disavanzo pubblico mentre le fasi recessive producono direttamente un disavanzo o un peggiora­mento del disavanzo pubblico. In altri termini, si producono variazio­ni delle entrate e delle spese pubbliche senza richiedere nuove deci­sioni da parte delle autorità di politica di bilancio. Ciò dipende dalla definizione di tassazione e dagli schemi di prestazioni sociali adottati dai vari paesi. Si pensi ad una fase recessiva, con il prodotto e quindi il reddito che diminuisce, si riducono le entrate del governo a causa della riduzione della base imponibile, mentre la spesa pubblica che va a finanziare servizi e reddito per le famiglie rimane incomprimibi­le. Pensioni, salari pagati ai dipendenti del settore pubblico, sussidi vari e altre spese per sanità e scuola difficilmente possono essere rivi­ste per considerazioni cicliche. Queste spese sono legate a impegni presi forse in anni precedenti e inseriti nei bilanci previsionali plu­riennali. In molti casi, anche dal lato delle spese, la situazione ciclica genera un deterioramento del saldo di bilancio, essendo previsti dei sussidi alla disoccupazione che “ automaticamente” si attivano nelle fasi recessive, proprio perché aumenta il numero di individui, in que­ste fasi, che ne fanno ricorso. L ’aumento di sussidi provoca un au­mento delle spese. Una situazione dove le spese tendono a rimanere invariate o ad aumentare, mentre le entrate complessive diminuiscono

LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

2.10

1 4 4

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per il minore reddito prodotto, genera necessariament^ un disavanzo pubblico. Gli stabilizzatori automatici tendono a imprimere al bilan­cio un andamento simile a quello ciclico. Nelle fasi espansive il saldo di bilancio migliora perché, senza attuare nuove manovre, l ’aumento della produzione e del reddito crea maggiori entrate e la riduzione dei sussidi riduce le spese, mentre nelle fasi di recessione dell’econo­mia, il saldo di bilancio peggiora per i motivi appena ricordati.

Il disavanzo strutturale (o in generale i saldi di bilancio corretti per gli effetti ciclici) ci fornisce una misura al netto degli effetti ciclici ed è, quindi, più appropriato per valutare la politica di bilancio 28. La domanda a questo punto è come si determina il valore del bilancio strutturale. La risposta si sviluppa in due parti.i) Un primo passo consiste nel valutare la relazione tra disavanzo e p t l . Quanto incide una riduzione di un punto percentuale di p i l sul dis­avanzo pubblico? Nell’area euro diverse stime indicano, ad esempio, un effetto pari allo 0 .5 %, con una sensibilità dei bilanci alle variazioni del p i l nei diversi paesi dell’area che va dallo 0 .3 % allo 0 .7 %.ii) Il secondo passo per costruire il disavanzo strutturale è ottenere una stima del p i l potenziale (o naturale) con cui valutare il gap di produzione periodo per periodo.

Per fare un esempio, assumiamo che la sensibilità del disavanzo pubblico al p i l in Italia sia dello 0 .5 %: gli stabilizzatori automatici permettono che un aumento (diminuzione) del p i l migliori (peggiori) il saldo di bilancio di 0.5 punti percentuali del p i l . Si ipotizzi che il paese sia riuscito a migliorare l’avanzo di bilancio ottenuto lo scorso anno, quando era di un punto percentuale del p i l , aumentandolo al 2 % nell’anno corrente. Si ipotizzi anche che la crescita dell’economia sia stata del 3 % e che la crescita del p i l potenziale è del 2 %. In questo caso, il miglioramento dei conti pubblici è dovuto per la metà all’effetto degli stabilizzatori automatici 0 .5x(3- 2) = 0 .5 . L ’elasticità tra disavanzo e p i l moltiplicata per la differenza di crescita tra p i l e p i l potenziale. Il miglioramento dell’avanzo di un punto percentuale è dovuto per il 50% agli stabilizzatori e per il 50% a politiche di risanamento di bilancio e alla spesa per interessi.

Tecnicamente possiamo scrivere il disavanzo aggiustato per il ci­clo nel seguente modo:

[2.32] dCit = dT't - vyt

28. P er una rassegna delle metodologie e delle diverse stime è utile consultare M om igliano (2001). Aspetti analitici e stime, sono riportati anche nei lavori inclusi in Banca d ’Italia (2002).

2 . DEFICIT PUBBLICO, DfeBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

1 4 5

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

dove dTj è il disavanzo totale e yt = (yt - y*)/y* rappresenta il gap dell’output, definito come deviazione tra il p i l corrente e il suo valore di equilibrio (o potenziale) in rapporto al p i l di equilibrio. Il parame­tro v riflette l’effetto sul disavanzo pubblico di un punto percentuale di aumento del gap dell’output. Nelle fasi espansive, quando il gap assume valori positivi, il saldo di bilancio è più positivo o meno nega­tivo del saldo di bilancio aggiustato per il ciclo. Nelle fasi recessive, l’output gap è negativo (il p i l è inferiore al p i l potenziale) e il saldo di bilancio è meno positivo o più negativo del saldo di bilancio ag­giustato per il ciclo.

Da quanto si è discusso sinora emerge una domanda importante: gli stabilizzatori automatici sono un valido strumento di politica fi­scale per ridurre la ciclicità dell’output? Alcuni studi mettono in luce che gli stabilizzatori automatici possono rivelarsi carenti in presenza di shock particolari, e quindi costituiscono uno strumento insufficien­te per la stabilizzazione del ciclo 29. In primo luogo, gli stabilizzatori tendono ad attutire lo shock ma non a compensarlo pienamente. Di­verse stime indicano che gli stabilizzatori automatici riescono a ridur­re le fluttuazioni dell’output di un terzo 3°. In secondo luogo, da quanto abbiamo detto precedentemente emerge che la grandezza di questi stabilizzatori dipende da alcuni parametri precisi: la grandezza della spesa pubblica, il grado di progressività della tassazione e la ge­nerosità dei sussidi alla disoccupazione. È chiaro, infatti, che se la tassazione è basata su un basso grado di progressività (quando au­menta il reddito non c’è un adeguato aumento delle aliquote e quindi un aumento della tassazione, e un effetto contrario quando il reddito diminuisce), questo stabilizzatore automatico ha un effetto piuttosto limitato.

In maniera analoga, se lo schema dei sussidi alla disoccupazione è non adeguato, come nel caso italiano dove praticamente non esiste protezione per i disoccupati ma soltanto una protezione parziale per poche categorie di lavoratori che perdono l ’impiego (cassa integrazio­ne guadagni), questo stabilizzatore automatico è quasi inesistente:

Se la dimensione della spesa pubblica sul p i l si riduce, lo stabi­lizzatore automatico relativo alla spesa tende anche in questo caso a ridimensionarsi. Questi aspetti portano a definire gli effetti degli sta­bilizzatori automatici sul ciclo come effetti ad hoc e non certamente come soluzioni ottimali.

29. Si veda il rapporto ces-ipo (2003) per una discussione su questo punto.30. Si veda European Commission (2002).

1 4 6

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CIT P U B B L IC O , DEBITO P U B B L IC O E SO l /j ZIONE DELLE EQUAZIONI

T A B E L L A 2 . 4

Stim e della com ponente ciclica del bilancio putjb lico (in % del p i l ) (segno - disavanzo; segno + avanzo)

\ \1990 199 1 !992 I 993 T994 I 995\ ^ I 99^ J 997 1998 1999 2000 2 0 0 1 -

Indicatore 0.5 LO 1.0 - 0.1 - 0.5 - 0 .8 O.X 0 .4 0 .0 0 0 0B. d ’Italia _______C o m m iss. 0 .9 0 .7 0.3 - 0 .8 - 0.5 ?0 .1 - 0 .4 - 0.3 - 0.3 - 0.5 - 0.2 0.0E u rop eao e c d 0 .8 0.4 - 0.2 - 1.5 - 1.1 - 0.4 - 0 .6 - 0.7 - 0 .8 - 1.0 - 0 .6 - 0.5f m i 0 .8 0.5 - 0.1 - 1.2 - 1.2 - 0 .6 - 0 .9 - 1.0 - 1.0 - 1.2 - 0 .8 - 0.7

Fonte: raffronto ripreso da Momigliano (2001).

Un terzo motivo per considerare con cautela gli stabilizzatori come strumento anticiclico è che il loro effetto varia nel tempo e tende a indebolirsi in quanto le riforme strutturali perseguite dai vari paesi nell’ultimo decennio, specie quelli europei, tendono a ridurre la di­mensione dei governi e quindi la spesa pubblica in percentuale del p i l (si veda la t a b . 2 . 1 ) .

Infine, in presenza di shock di carattere permanente, gli stabilizza­tori automatici producono un processo di aggiustamento piuttosto prolungato, causando dei deficit a cui occorre rimediare con politiche discrezionali. Uno shock di offerta che produce una recessione pro­lungata genera un deficit pubblico per la minore tassazione e la dimi­nuzione delle entrate. Tuttavia il prolungarsi del deficit a causa del prolungamento della recessione crea ulteriori effetti sul saldo di bi­lancio. Ad esempio, l’onere per gli interessi può aumentare in manie­ra sostanziale per il perdurare dei disavanzi.

La t a b . 2 . 4 mette in luce due aspetti. Il primo aspetto, economi­co, è sottolineato dalle stime che indicano come il ciclo incide sul disavanzo. Ad esempio, prendendo l’indicatore costruito dalla Banca d’Italia, si nota che negli anni di espansione 1 9 9 0 - 9 2 il ciclo economi­co ha prodotto un effetto benefico sui deficit pubblici, riducendoli. Le cifre infatti rappresentano la componente ciclica di bilancio e in­dicano un avanzo in percentuale del p i l nei tre anni considerati. Un ulteriore aspetto da notare è il risanamento fiscale protratto in manie­ra rilevante dal 1 9 9 3 al 1 9 9 8 che ha provocato un impatto congiuntu­rale certamente non positivo, producendo effetti significativi e negati­vi sulla componente ciclica del bilancio pubblico. In particolar modo, nel biennio 1 9 9 5 - 9 6 si registra un disavanzo dovuto agli effetti ciclici di quasi un punto percentuale del p i l . Negli anni di fine decennio, la componente ciclica è risultata sostanzialmente in pareggio con un lie-

i 47

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LEZIONI DI P O L IT IC A E CO NO M ICA

ve aumento del surplus legato agli effetti congiunturali nel biennio 2000-01.

La seconda caratteristica che emerge dalle cifre della tabella è la forte variabilità della stima della componente ciclica, sia nei livelli dei disavanzi legati al ciclo che nella loro dinamica. Queste differenze sono legate alla stima che i vari istituti utilizzano per ottenere l’ela­sticità del bilancio rispetto alle variazioni del p i l e il gap tra output e il suo valore potenziale e, in particolare, al sentiero di crescita ten­denziale dell’economia. Queste indicazioni ci obbligano ad utilizzare con cautela le stime sulla componente ciclica fornite dai vari organi­smi interni e internazionali, e ci aiuta a capire perché è difficile uti­lizzare la misura del disavanzo strutturale per la politica economica.

2.IILa stabilizzazione del debito in una economia aperta

di piccole dimensioni

Possiamo domandarci quali altri fattori possono incidere sulla dina­mica del debito e, in particolare, sulla sua stabilizzazione, quando consideriamo un’economia aperta. Per inserire i problemi del debito pubblico in un contesto internazionale dobbiamo caratterizzare que­st’ultimo con alcune condizioni. In particolare useremo la condizione della parità scoperta dei tassi di interesse e la parità dei poteri di ac­quisto.

Se ipotizziamo un economia di piccole dimensioni e perfetta mobi­lità dei capitali, sappiamo che in questo caso i tassi di interesse inter­ni non possono discostarsi dai tassi di interesse internazionali se non per un deprezzamento atteso del tasso di cambio. Questa condizione è espressa nella parità scoperta dei tassi di interesse, che viene defini­ta nel seguente modo:

h - h* =

dove i * indica il tasso di interesse nominale estero e Aet l’attesa di deprezzamento del tasso di cambio (della valuta nazionale) 31.

Quando esistono attese di svalutazione del cambio, il differenziale dei tassi di interesse deve essere positivo. In altri termini, il tasso di

3 1 . Ottime introduzioni alla parità scoperta dei tassi di interesse e alla parità dei poteri di acquisto sono quelle di D e G rauw e (19 91) e G andolfo (2001).

1 4 8

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\ \2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E S O L U Z I O N E D U L I E EQUAZIOn),

interesse interno deve superare quello estero. Ciò è dovuto al fatto che gli investitori allocano il loro risparmio su attività finanziarie/ si­mili, per cui i tassi di rendimento devono necessariaÌBente essere uguali. I tassi possono rivelarsi non uguali se si attende un depfezza- mento di una moneta, allora i detentori di titoli denominati in questa valuta subiranno una perdita in conto /capitale che dovrà necessaria­mente essere controbilanciata da un incremento del tasso di interesse su questi titoli.

Oltre all’attesa di un deprezzamento può esserci qualche altro ele­mento che genera un gap tra i due tassi di interesse. Ad esempio la stabilità dei fondamentali fiscali può risultare importante per questa relazione. Le attività estere, per un investitore nazionale, possono es­sere considerate (per molteplici motivi, non da ultimo perché l’infor­mazione su queste attività non è perfetta) rischiose. In queste situa­zioni si richiede un premio aggiuntivo (premio per il rischio), che au­menta il rendimento dei titoli esteri. In generale, gli agenti possono essere avversi al rischio, o possono essere incerti sul futuro tasso di cambio. Il premio per il rischio può essere richiesto anche sul tasso di interesse nazionale, che in questo caso deve risultare maggiore, se l’economia presenta un alto debito pubblico. Il premio per il rischio entra positivamente nella determinazione del differenziale dei tassi, e richiede che il differenziale sia positivo. L ’equazione della parità sco­perta può essere riscritta nel seguente modo:

[2.33] it - i * - Aet + q

dove q indica il premio per il rischio: un aumento dei rendimenti dei titoli nazionali. Dunque il premio per il rischio può essere legato a diversi fattori. Può esserci, per diverse ragioni, un rischio paese; un rischio inerente alla volatilità delle quotazioni e dei rendimenti, un rischio di cambio. Nel caso italiano il rischio paese è stato collegato al rischio di chi emette titoli, lo Stato italiano. Il rischio potrebbe es­sere legato alla percezione dei mercati sull’eventuale pericolo che le autorità possano adottare qualche forma straordinaria di rientro dal debito, come un parziale ripudio o un congelamento o ancora una monetizzazione. In questi casi chi detiene dei titoli pubblici subireb­be delle perdite. Detenere questi titoli nei portafogli richiede quindi un premio, un rendimento maggiore.

Si noti che la parità scoperta dei tassi di interesse può essere espressa in termini di tassi di interesse reali, rt = it - Apt:

149

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LEZIONI DI P O L IT I C A E CO N O M IC A

[2.34] (77 + Apt)-{r* + Ap * ) = Aet + q r - f k-A p t + A p * + Ae, + q

Per considerare i possibili effetti sulla stabilizzazione del debito, pos­siamo far riferimento al surplus primario richiesto affinché il rapporto debito/piL non v a r i32:

[2.35] dtI +

Questa equazione è espressa in termini di p i l e tasso di interesse no­minali. Possiamo rendere anch’essa in termini reali, considerando, di nuovo, il tasso di interesse reale per sostituire il tasso di interesse no­minale con it = rt + Apt nell’equazione [2.35]. Anche il p i l nomina­le può essere definito come prodotto tra valore reale e prezzi: Yt = ytpt. Questa modifica, quando si considera il rapporto tra il valore del debito con il p i l , comporta un cambiamento nelle equazioni del debi­to sinora considerate. Avremo una scomposizione del tasso di crescita in una componente di tasso di crescita reale n° e in una componente di tasso di inflazione Apt. In altre parole, il “trucco” di moltiplicare e dividere il termine definito dal debito al tempo t e dal p i l al tempo t— 1 deve essere scomposto come segue 33:

(I + 1)^ - 1 Yt

- (1 + r)( 1 + Ap)bt_1t

Jt-iPt-i

JiPt

= (1 + r ) ( 1 + A p ) 1 1 , (1 + r)\f + n ° j 1 + Ap°i-i 0x pt-i (1 + rP) ■

Una volta inserita questa specificazione nell’equazione del debito, il surplus primario richiesto per la stabilizzazione del debito diviene:

32. Si v e d a il p a r . 2.3.33 . Si noti che (1 + r)(l + Ap) = 1 + Ap + r + rAp. L’ultimo termine rAp può essere

trascurato poiché costituisce u n prodotto tra due tassi con un valore prossimo allo zero. Abbiam o quindi (1 + r)( 1 + Ap) = 1 + Ap + r = (1 + i).

1 5 0

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2 . D E F IC IT P U B B L IC O , D E B IT O P U B B L IC O E S O L U Z IO N E D E L L E E Q U A Z IO N I

[2.35.1] - d t -or — n

1 + n°

A questo punto possiamo utilizzare direttarilente la formula semplifi­cata della parità scoperta dei tassi di interesse [2.34]. Tuttavia, prima si noti che quest’ultima equazione subisce una modifica sostanziale se vale la parità dei poteri di acquisto (p p a ):

[2.36] - Apt + Apt * + A<?; = 0

La p p a , nella forma della [2.36], afferma che se l’inflazione interna (in Europa) aumenta di un x% , mentre l ’inflazione estera (negli Stati Uniti) aumenta di un valore inferiore e pari a z%, allora il tasso di cambio dell’euro deve deprezzarsi di un valore pari alla differenza dei tassi di inflazione {x - z)%- Dunque, se l’inflazione europea è al 3 % mentre l’inflazione negli Stati Uniti raggiunge il 2 % , il tasso di cam­bio dell’euro dovrebbe deprezzarsi dell’ 1 %.

La p p a è considerata una teoria di lungo periodo del tasso di cambio di equilibrio. Sebbene nel breve periodo ci possano essere scostamenti dal tasso di cambio definito dalla p p a , le forze di mercato tenderanno a riportare il cambio verso il valore di equilibrio.

In questo caso, se la p p a è valida, il tasso di interesse reale defini­to dalla [2.34] si riduce alla seguente equazione:

[2.37] r = r* + q

che, inserita nella [2.35.1], rende la stabilizzazione del debito dipen­dente dal tasso di interesse internazionale e dal premio al rischio sul tasso di interesse interno:

[2.38] - d t -1 r* — n° + q\

1 + n°'1- 1

Quali implicazioni produce l’equazione [2.38]? In una economia aperta, con libertà di movimento dei capitali, la stabilizzazione del debito rischia di diventare più difficile. Il tasso di interesse interno

15 1

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L E Z I O N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

non è esogeno, ma in relazione ai tassi di interesse internazionali34. Di fatto, le autorità di politica economica interna non possono inci­dere sui tassi dì interesse internazionali35.

Per un’analisi più rigorosa occorre anche considerare che una parte della crescita stessa dell’economia, che mitiga l’effetto degli in­teressi sul debito, è correlata a una componente estera della domanda (esportazioni nette). Il premio al rischio, inoltre, è correlato alla dina­mica dello stock del debito e si basa, oltre che su un tasso di inte­resse di riferimento, sulla probabilità che gli agenti possessori di de­bito pubblico attribuiscono alla possibilità che lo Stato intervenga con misure eccezionali per far fronte allo squilibrio finanziario.

2.12

I fatti stilizzati: gli anni ottanta e la spesa per interessi

Dalla descrizione della dinamica del debito emerge un’implicazione importante: la politica fiscale e monetaria dei nostri giorni è in realtà fortemente condizionata da ciò che è accaduto nei decenni passati, ed in particolare dalle politiche di bilancio negli anni settanta-ottanta. Gli anni sessanta sono stati caratterizzati da una sostanziale stabilità. Negli anni settanta il debito inizia a mostrare una certa dinamica e supera il 50% del p i l nel 1980. Gli anni settanta sono caratterizzati dalla riforma del sistema tributario che ha introdotto prima I’i v a

(1973) e poi rivisto le imposte dirette (1974), ma la politica economi­ca ha riscontrato per la maggior parte del decennio un carattere for­temente espansivo con la fiscalizzazione degli oneri sociali, i trasferi­menti a imprese e famiglie, l’aumento della protezione sociale e dei sussidi nel Meridione nelle sue più svariate forme (con una forte ac­celerazione delle pensioni di invalidità) e il sensibile incremento del­l’occupazione nel settore pubblico. Le politiche fiscali espansive sono state attuate anche per far fronte agli effetti recessivi degli shock pe­troliferi.

Negli anni ottanta è la spesa per interessi che inizia a far crescere il debito (t a b b . 2.6 e 2.7) che supera il 100% del p i l agli inizi degli

34. Nel caso la ppa non sia soddisfatta, la stabilizzazione si complica ulterior­mente poiché il differenziale dei tassi d’inflazione e il tasso di cambio divengono va­riabili rilevanti.

35. Ciocca e Nardozzi (1993), nella loro indagine empirica, mostrano l’evoluzio­ne dei fattori che hanno generato una crescente convergenza e correlazione tra i tassi di interesse nazionali ed esteri e un ruolo sempre più importante delle variabili inter­nazionali nello spiegare quelle nazionali. Uno studio puntuale ed aggiornato dell’anda­mento dei tassi si trova sul “Bollettino mensile della Banca centrale europea”.

1 5 2

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2. DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI \ " "

\

anni novanta 36. Nel 1979, i b o t rappresentavano il 6 .7 % della rie- \ chezza finanziaria delle famiglie, mentre i titoli di Stato a medio lun­go periodo costituivano il 6 .3 % del portafoglio delle famiglie. A fine anni ottanta la percentuale dei titoli di Stato nel portafoglio delle fa­miglie era salita ad un valore superiore al 39% (i b o t passavano al 17.8% e gli altri titoli di Stato al 21 .58%).

Nel 1981, l’evento cruciale riguarda la rifórma della relazione tra autorità di politica fiscale (il Tesoro) e quelle di politica monetaria (la Banca centrale). Con le nuove regole, che sanciscono un “divorzio” tra le due istituzioni, la Banca centrale non è più obbligata ad acqui­stare i titoli di debito pubblico emessi a copertura di spese pubbliche non assorbiti dal mercato 37. In altri termini, con la riforma le autori­tà monetarie:a) non monetizzano più direttamente i disavanzi pubblici;b) diventano più indipendenti dal Tesoro e possono perseguire di­rettamente i loro obiettivi;c) non sono più responsabili dei tassi di interessi sul debito pubbli­co, ma per tale responsabilità è chiamato a risponderne direttamente il Tesoro (e quindi il governo).

Dopo il divorzio, la quota percentuale di debito pubblico detenu­ta dalla Banca d’Italia si riduce sensibilmente. Negli anni 1975-76 questa quota aveva raggiunto quasi il 40% del debito pubblico; nel 1980-81 era scesa a circa il 24%. Da questo anno in poi decresce continuamente e a fine decennio era sotto il 13%. Se da un lato il divorzio tra Banca d’Italia e il Tesoro costituisce il primo serio e cre­dibile passo verso la formulazione dell’obiettivo di stabilizzazione mo­netaria da parte della Banca centrale italiana, dall’altro lato, in un preciso contesto istituzionale e politico, il divorzio tra le due autorità non è stato in grado di limitare le cospicue emissioni di titoli sul mer­cato da parte del Tesoro, per finanziare continui disavanzi. La conse­guenza è stata quella di provocare un incremento dei tassi di inte­resse che hanno condotto la spesa per interessi a superare il 10% del p i l agli inizi del decennio successivo. Nel Rapporto per una politica

36. Per un resoconto dettagliato si veda, ad esempio, Bosi, Golinelli, Stagni (1989), Salvemini (1993). Ulteriori letture comprendono Franco (1993); Visaggio(1997); Musu (1998), Sartor (1998). Un resoconto macroeconomico di questi decenni è riportato in Nardozzi (1980), Cotula (1989) e Signorini, Visco (1997).

37. Il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia costituiva la prima di una serie di ri­forme istituzionali che porteranno ad aumentare l’autonomia della Banca centrale ita­liana, ora capace di perseguire i suoi obiettivi monetari con maggiore determinazione.Si veda Tabellini (1988); Spinelli, Fratianni (1991); Bruni, Monti (1992) e Salvemini(1993)-

153

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L E Z I O N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

TABELLA 2 .^Avanzo primario (% del p i l ) (segno - avanzo)

1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991

Italia 4.8 3.7 4.1 5.2 3.9 3.7 3.2 1.6 1.5 0.6Germania 1.3 0.3 - 0.4 - 1 .1 -1.0 - 0.5 -0.2 - 2.5 -0.1 3.0Francia 1.6 1.4 0.9 0.8 0.6 - 0.3 - 0.5 - 1 .1 - 0.9 - 0.9GB - 0.7 0.2 0.6 - 0.5 -0.8 -1.8 - 3.9 - 3.8 -2.0 0.0Belgio 2.9 2.9 0.3 -1.0 - 1.3 -2.6 -2.9 - 3.1 - 3.8 -3.8

del debito pubblico in Italia, redatto dal Comitato scientifico consulti­vo del debito pubblico, istituito nel 1988 dal ministro del Tesoro pro-tempore Amato, e presieduto da Spaventa si legge:

La necessaria separazione di attribuzioni tra Banca centrale e Tesoro - la politica monetaria alla prima, la gestione del debito al secondo - richiede tuttavia forme di cooperazione e di coordinamento. Si ritiene che il sistema attuale, in cui il Tesoro ha il potere di variare il tasso di sconto e il finanzia­mento monetario automatico è regolato dalle norme sull’utilizzo del conto corrente di tesoreria, potrebbe essere migliorato in base al seguente criterio: attribuzione della piena responsabilità alla Banca d’Italia di tutte le decisioni relative sia ai tassi ufficiali, per restituire a questi maggiore flessibilità, sia alla riserva obbligatoria; maggiore flessibilità per il Tesoro per conseguire una ge­stione più autonoma del debito pubblico, senza pregiudizio per l’autonomia della politica monetaria ?8.

Questi aspetti, piena autonomia sul tasso di sconto e conto corrente di tesoreria con cui il Tesoro, dopo il divorzio del 1 9 8 1 , ricorre in via “automatica” al credito della Banca d ’Italia, saranno di fatto risolti soltanto diversi anni più tard i39.

Negli anni settanta la pressione fiscale raggiungeva il 27% del p i l rispetto al 34.6% della u e , mentre la spesa pubblica in percen­tuale del p i l era al 33.7. Nel 1980 quest’ultimo aggregato superava il 42% e negli anni novanta il 53 % , mentre la pressione fiscale saliva rispettivamente al 31% nel 19 8 0 , e al 40% nel 19 9 0 . Mentre, negli anni ottanta, nei maggiori paesi europei avviene un ridimensiona­mento della crescita della spesa pubblica e, quindi, dei disavanzi pubblici (t a b . 2 .5 ) in Italia continuava a crescere. Durante il periodo ! 970-95 la spesa pubblica è aumentata di oltre 20 punti percentuali

38. Si veda Arcelli (1990), dove è riportato il documento a cui si fa riferimento nel testo.

39. Un riferimento utile è Salvemini, Salvemini (1989).

154

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE D ELLE EQUAZIONI

T A B E L L A 2.6Spesa per interessi (% della spesa totale)

1982 I983 I984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991

il alia 13.8 14.3 15.2 14.5 15.3 14.6 15.1 16.4 17.2 17.7( ìermania 4 .0 4 .8 4 .8 4 .9 5 .0 5 .0 5.1 5 .0 4.8 4.5l 'rancia 2.4 3.4 3 .6 3 .9 4.1 4.3 4 .4 4.7 5.1 5.1( ; b 7.2 6.9 7.4 7 .5 7.3 7.4 6 .9 6.4 5.5 4.2Belgio 14.6 15.2 16.2 17.7 18.9 18.4 18.3 19.5 20.0 20.3

T A B E L L A 2 . 7

Rapporto debito-pii,

1982 1 9 8 3 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991

/ talia 66.4 72.0 77.2 84.1 88.5 93.0 95.7 98.8 101.1 103.1(ìermania 39 .6 41 .0 41.7 42 .5 42.6 4 4 .0 44.5 4 3 .4 43 .8 4 7 .6Francia 40.1 41.4 43 .8 45 .4 45.7 47.3 47.2 4 6 .6 46 .9 47.5G B 52 .9 53.1 54 .7 53.1 51 .7 49.2 42 .8 37 .4 3 5 .6 36 .0Belgio 102.3 113.4 118.6 122.7 127.2 131.7 133.7 130.7 130.1 131.6

del p i l mentre l’aumento della pressione fiscale è inferiore ai 15 punti. Si è creato quindi un disavanzo finanziato in parte con debito che, in presenza di elevati tassi di interesse, ha causato una forte spesa per interessi ( t a b . 2.6).

Le spese per la protezione sociale costituiscono una larga parte della spesa pubblica primaria (circa la metà), e sono aggregate in spesa previdenziale, spesa assistenziale, spesa sanitaria per il servizio sanita­rio nazionale e la spesa per i programmi assicurativo-mutualistici. Il primo aggregato, la spesa previdenziale, rappresenta una fonte non indifferente del disavanzo corrente e quindi del debito pubblico. Ciò è dovuto ad alcuni elementi riconducibili alla politica previdenziale (è cresciuto il numero delle pensioni, i livelli e le concessioni generose come le pensioni baby degli statali e i prepensionamenti ai lavoratori in esubero), e ad alcuni fattori strutturali-demografici (basso tasso di fertilità e conseguente riduzione della base contributiva attiva rispetto a quella non attiva pensionabile). Nel i960 tale spesa rappresentava poco meno del 5 % del p i l , nel 1970 la spesa per pensioni raggiunge­va il 7 .4 % del p i l , nel 1980 superava il 10% , nel 1994 era del 16% , superando di diversi punti il livello di spesa della media europea. Le riforme del 1992 e del 1995 hanno limitato, almeno parzialmente, la spinta delle determinanti previdenziali 40.

40. Si veda il riquadro 2.7.

1 5 5

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L K Z IO N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

Il debito pubblico supera il 100% del p i l sin dai primi anni no­vanta. Come abbiamo già accennato, sia l’esperienza storica che la teoria economica non permettono di individuare un limite per cui si possa definire tale rapporto troppo elevato o a rischio di insolvenza. Storicamente, durante periodi caratterizzati da eventi eccezionali, ad esempio negli anni tra le due guerre mondiali, molti paesi, tra cui l’Italia, hanno riscontrato forti indebitamenti che in rapporto al p i l

hanno raggiunto quote vicino al 200% 4\Abbiamo visto che il vincolo di bilancio intertemporale con la

condizione no-Ponzi impedisce una crescita infinita del debito (impe­disce il finanziamento perpetuo del debito con l’emissione di altro debito). Un forte e continuo indebitamento provoca necessariamente una contrazione della ricchezza delle generazioni future. In altri ter­mini, in presenza di governi miopi o poco coscienziosi, intenti a ri­mandare le politiche di stabilizzazione e di rientro, la condizione di trasversalità impone pesanti effetti redistributivi intergenerazionali, creando effetti perversi sulla crescita del reddito e della ricchezza.

2 .13Il processo decisionale della politica fiscale

Nei testi di macroeconomia si parla con facilità di misure di politica fiscale e degli effetti che queste misure provocano sulle variabili mo­netarie e sugli aggregati reali. Una variazione della spesa pubblica, spesso intesa come variabile aggregata, determina effetti sulla doman­da aggregata, sull’attività produttiva e sui tassi di interesse, provocan­do delle conseguenze diverse per l’aggregato degli investimenti e l ’ag­gregato dei consumi privati, e una serie di altri effetti diretti e indi­retti su tutte le variabili del sistema economico.

In questi testi, ma anche nelle sezioni precedenti di questo capito­lo, non sono state deliberatamente considerate alcune problematiche della politica di bilancio, per evidenziare aspetti aggregati che altri­menti non risulterebbero chiari. Le relazioni sono molto più comples­se e andrebbero articolate attentamente. Ad esempio, nel caso della spesa pubblica, rimanendo sempre in un ambito piuttosto aggregato, un aumento dei trasferimenti alle imprese, un incremento dei redditi familiari, un aumento degli stipendi ai dipendenti della pubblica am­ministrazione, un aumento degli investimenti pubblici o ancora, un aumento della spesa pensionistica, non coperta dalle aliquote effettive

4 1. Si veda il saggio di Alesina in Giavazzi, Spaventa (1988) e Tabellini (1992).

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

R I Q U A D R O 2 . 7

La spesa per pensioni

I sistemi pensionistici di molti paesi industrializzati si trovano ad affronta­re dei cambiamenti strutturali dovuti ad alcune evoluzioni demografiche.I sistemi a ripartizione sono caratterizzati dal fatto che le erogazioni pen­sionistiche correnti sono finanziate dai contributi dei lavoratori attivi. I contributi versati dai lavoratori vengono “ripartiti” tra i titolari di pensio­ne aventi diritto. I bassi tassi di natalità (l’Italia ha il più basso tasso tra i paesi industrializzati) che si riscontrano negli ultimi decenni incidono in maniera sostanziale sulla struttura per età della popolazione, facendo au­mentare il peso relativo delle classi di età anziane. Con sistemi pensioni­stici a ripartizione, l ’aumento della popolazione anziana implica un au­mento dell’aliquota di equilibrio finanziario del sistema pensionistico *. Per cogliere meglio questi aspetti e la condizione di equilibrio finanziario, utilizziamo della semplice aritmetica, indicando con p la pensione media, N il numero di pensionati, L il numero dei lavoratori attivi e w il corri­spondente livello della retribuzione media. Inoltre indichiamo con r il contributo che i lavoratori attivi dovranno pagare per il finanziamento della spesa pensionistica. L ’ammontare delle pensioni nel periodo corren­te è finanziato dai contributi di chi lavora in questo periodo con un’ali­quota pari a r:

\t] p ■ N = t ■ w ■ L

da cui si ricava:

Questo è uno schema molto semplice, non considera alcuni aspetti relativi alla produttività del lavoro e trascura una dinamica più complessa. Tuttavia è utile per capire come i sistemi di ripartizio­ne siano vulnerabili alle variabili demografiche (il rapporto tra pensionati e lavoratori attivi) e al rapporto tra pensione erogata e salario medio. YJ aliquota di equilibrio indica il contributo che si dovrebbe versare all’iNPS 2 per consentire il pagamento delle pen­sioni senza creare un disavanzo e, quindi, senza chiedere finanzia­menti allo Stato. Tanto più sono elevate le pensioni medie rispetto alle retribuzioni medie, tanto più si richiede ai lavoratori attivi un’aliquota più elevata per mantenere l’equilibrio finanziario del sistema pensionistico.

L ’aliquota è anche condizionata dalle variabili demografiche. Un

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L L Z IO N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

processo di invecchiamento della popolazione, con N che aumenta e L che diminuisce, implica un maggiore numero di persone aventi diritto ad una pensione e un numero minore di lavoratori attivi su cui imporre il contributo proporzionale per garantire l’equilibrio finanziario del sistema. In Italia il tasso di natalità (numero medio di figli per donna) è passato da 2.3 degli anni 1950-55 a 1.2 degli anni 1995-2000. Il numero di giova­ni di 15-35 anni (al netto delle migrazioni) è passato da 14.7 milioni del 1950 a 15.3 milioni nel 2000. Le Nazioni Unite stimano che nel 2010 il numero cadrà a 11.9 milioni, per raggiungere i 10.5 milioni nel decennio successivo. La percentuale delle persone anziane con un’età di 65 e più anni sul totale della popolazione è passata dall’8.3% del 1950 al 15.3% nel 1990. Nel 2000 tale percentuale raggiunge il 18.2% e la stima delle Nazioni Unite per il 2050 ammonta al 35%. Queste tendenze alla luce della [a] sono importanti e tuttavia occorre prestare attenzione perché, mentre coloro che hanno superato i 65 anni di età sono praticamente tut­ti in pensione, una proporzione piuttosto elevata di coloro che si trovano in età lavorativa in realtà non lavora (circa il 40% delle persone tra i 20 e i 65 anni) 5. Quindi, i dati implicano una situazione ancora più grave in termini di rapporto popolazione anziana e lavoratori attivi.

Le misure di politica economica incidono sul primo rapporto della [w] con tutte le regole riguardanti la determinazione della pensione, l’in­dicizzazione, il trattamento di fine rapporto ecc. Sul secondo rapporto in­cidono, oltre ai fattori demografici, le regole che stabiliscono l’età pensio­nabile e le regole che stabiliscono l’ammontare minimo di contributi per avere diritto ad una pensione. Ad esempio, l’età di pensionamento per gli uomini nella maggioranza dei paesi industrializzati è di 65 anni (per le donne in Italia e in Francia l’età è 60 anni). L’età effettiva di pensiona­mento è sostanzialmente più bassa in tutti i paesi: non raggiunge i 60 anni in Italia e in Francia, e la media u e è 60.5 anni per gli uomini e 59.9 anni per le donne. L ’età del pensionamento anticipato (pensione di anzia­nità) 4 è in Italia di 57 anni e 35 anni di contributi, mentre in diversi paesi non esiste questa possibilità. L’aliquota contributiva raggiunge in Italia il 32.7%. Tra i paesi industrializzati soltanto Portogallo e Belgio hanno aliquote contributive più elevate.

L ’evoluzione del sistema pensionistico italiano ha diversi tratti in co­mune con quello dei maggiori paesi europei e molti aspetti particolari. .11 tratto in comune più rilevante è costituito dal passaggio al sistema a ri- partizione nel dopoguerra per garantire a tutte le persone anziane un red­dito. Negli anni cinquanta il sistema si evolve con l’estensione della tutela pensionistica, il miglioramento delle prestazioni, la costituzione di gestioni separate per gli autonomi, i dipendenti, gli invalidi, l’introduzione delle forme di indicizzazioni delle pensioni. L ’evoluzione del sistema era quindi orientata al trasferimento di risorse verso le generazioni viventi senza cal­colare i costi di lungo periodo di questo trasferimento.

In quegli anni le pensioni acquistano in sostanza una forma assisten­ziale e di sostegno del reddito. Negli anni sessanta le pensioni di invalidi­

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2 . D E F IC IT P U B B L IC O , D E B IT O P U B B L IC O E S O L U Z IO N E D E L L E E Q U A Z IO N I

tà costituiscono circa il 40% delle nuove pensioni per i dipendenti del settore privato, e sono chiaramente un sostegno ad alcune categorie di lavoratori come quelli agricoli e quelli delle aree depresse: infatti la per­centuale delle pensioni di invalidità sale al 70% se si considerano le nuove pensioni per i lavoratori autonomi. A fine anni settanta le pensioni di in­validità ammontano ad una spesa di 4 punti percentuali del p i l . Nei de­cenni sessanta e settanta iniziano i primi problemi di controllo della spesa. Fino alla prima vera riforma del 1992, le prestazioni pensionistiche e le regole che le governavano erano diverse per i lavoratori privati, i lavorato­ri autonomi e i lavoratori pubblici. La crescita della spesa pensionistica sale dal 5.0% del p i l nel T960 al 14.9% del p i l nel 1992, contribuendo a generare una situazione di finanza pubblica molto grave. L ’evoluzione de­mografica, con il progressivo invecchiamento della popolazione, e la matu­razione progressiva delle prestazioni pensionistiche ponevano questa spesa su un chiaro sentiero insostenibile. Inoltre, l’espansione della spesa per pensioni imponeva una crescita più contenuta delle altre prestazioni socia­li e della spesa sanitaria, distinguendo l’Italia dagli altri paesi europei.

Nel 1999, la spesa per pensioni di vecchiaia e superstiti raggiunge il 15.6% del p i l contro la media europea del 12.9%. La spesa sanitaria è

limitata al 5 .4% del p i l (il valore medio europeo è del 7.1%), mentre la spesa per le altre prestazioni sociali è del 3 .0% del p i l (nella media u e è

del 7.2%).Prima delle riforme, i benefici pensionistici erano basati sul salario

dell’ultimo mese per i lavoratori pubblici e sulla media del salario degli ultimi cinque anni per i lavoratori privati. L ’età di ritiro variava in manie­ra diversa per i diversi lavoratori: il range comprendeva i 65 anni per gli impiegati pubblici fino ai 55 anni per le donne del settore privato. Per l’accesso alla pensione di anzianità si richiedevano 35 anni di contribuzio­ne per i dipendenti dei settori privati e tra i 20 e i 25 anni per i di­pendenti del settore pubblico.

In entrambi i casi, ma con particolare evidenza nel settore pubblico, non si prevedeva nessun meccanismo di aggiustamento per affrontare il fatto che i lavoratori che anticipavano l’accesso alla pensione, non appena maturavano i requisiti minimi, godevano di trattamento privilegiato otte­nendo un guadagno molto più consistente dei contributi versati. Inoltre tale meccanismo e la mancanza di un collegamento attuariale fra importo della pensione ed età di pensionamento, generando un forte incentivo al pensionamento, produceva effetti rilevanti sul mercato del lavoro e pro­blemi altrettanto rilevanti in termini di equità tra le varie categorie di lavo­ratori. In presenza del divieto di cumulare la pensione e altre retribuzioni si generava un forte incentivo ad offrire manodopera sul mercato irregola­re.

Per evidenziare la rilevanza del sistema pensionistico per i conti pub­blici, e i suoi potenziali elementi di crisi, basti pensare che nel 1980 l’ali­quota effettiva era del 23.9%, ma l’aliquota di equilibrio raggiungeva il 37.5%. I conti del sistema pensionistico non erano perciò in pareggio.

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L E Z I O N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

Per ottenere una copertura completa delle pensioni I ’i n p s avrebbe dovuto ricevere contributi aggiuntivi, e precisamente il 13.6% del reddito di la­voro in più sotto forma di contributi per pensioni. Nel 1990 la differenza tra aliquota effettiva e aliquota di equilibrio ammontava a 14.8 punti per­centuali: per pareggiare le spese per pensioni, i contributi in termini di reddito da lavoro avrebbero dovuto subire un salto dal 25.9% (aliquota effettiva) al 40.7% (equilibrio).

In termini di copertura finanziaria, le spese per pensioni prima della riforma del 1992 prevedevano un’aliquota di equilibrio del 42.4%. Per I’inps, senza la riforma questa aliquota sarebbe salita al 53.7% nel 2010. Oltre la metà della retribuzione di ogni lavoratore attivo avrebbe dovuto essere indirizzata a coprire la spesa pensionistica. Il ministero del Tesoro ha stimato che l’aliquota sarebbe salita a quasi il 60% nel 2025. Per la spesa pensionistica dei soli dipendenti pubblici, l’aliquota sarebbe passata dal 42.7% del 1994 al 73.5% nel 2010. Le ultime stime dell’iNPS indicano che nel 2010 l ’aliquota di equilibrio salirà al 47.8% e nel 2020 al 48.4%.

L ’espansione della spesa per pensioni è legata a diversi fattori. La seg­mentazione dei sistemi previdenziali settoriali, un contesto demografico in deterioramento, uno scollamento tra contributi e prestazioni, il ricorso alla fiscalità in generale e il limitato uso dei principi attuariali, la scarsa propensione a non calcolare gli effetti di lungo periodo delle decisioni prese in materia di normativa previdenziale, la combinazione delle norme riguardanti l ’età di pensionamento, l ’indicizzazione ai redditi e non da ul­timo la concorrenza tra i partiti nell’acquisizione del consenso sociale ed elettorale anche con lo strumento pensioni. L ’insieme di questi fattori ha generato l ’esplosione della spesa e un distacco dai sistemi pensionistici degli altri paesi.

Per una rassegna dettagliata ed aggiornata dei vari aspetti del sistema pensionistico si veda il lavoro di Massicci (2001) e quello di Franco e Marè (2002) e l’ampia bibliografia riportata in questi studi. Nella rassegna annuale dell’oECD sull’Italia, vengono puntualmente registrate e commen­tate le variazioni di finanza pubblica e le misure di politica di bilancio. Tra la vasta bibliografia si veda anche Castellino (1993) e Fornero e Ca­stellino (2001).

1. Per un’analisi del sistema a ripartizione nei diversi paesi europei e le possibili riforme per evitare il suo tracollo sotto l ’incalzare dei problemi demografici si veda Boldrin, Dolado, Jimeno, Peracchi (1999).

2. in p s : Istituto nazionale della Previdenza sociale. Ente di diritto pubblico che tutela le pen­sioni di invalidità, vecchiaia e dei superstiti dei lavoratori dipendenti del settore privato. Le imprese versano a l l ’ iN P S i contributi previdenziali di loro competenza e quelli dovuti dai lavoratori e tratte­nuti sulla busta paga.

3. Su questi aspetti una lettura introduttiva e aggiornata è quella di Livi Bacci, Errerà (2001). Sulla composizione dei flussi di pensionamento si veda inoltre il Box 15 del Rapporto del mini­stero del Lavoro e delle Politiche sociali sul monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro 2003.

4. Una pensione conseguita per il raggiungimento di una data anzianità lavorativa, in maniera indipendente dall’età anagrafica.

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2 . DKP1CIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE \!A){.\ AZI ( >N I

dei contributi dei lavoratori attivi, hanno conseguenze molto diverse sulle variabili economiche reali e monetarie, sia in termini di direzio­ne (segno) che in termini dinamici.

Anche il processo decisionale che coinvolge la politica fiscale è piuttosto complesso. Questo processo è basato su una serie di docu­menti con lo scopo di analizzare la situazione dell’economia in termi­ni di breve e di lungo periodo, le possibili evoluzioni dei maggiori aggregati e la situazione relativa alle finanze pubbliche. Questo pro­blema si affianca al problema della definizione delle procedure di bi­lancio: spesso difficoltose e non chiare, le attuali procedure in diversi paesi democratici non favoriscono il controllo delle finanze pubbli­che 42.

Nel g a p . 1 abbiamo parlato di controllo ottimo come strumento di analisi e di intervento della politica economica. I documenti della politica fiscale e il processo politico che li definisce rappresentano in maniera operativa l’impostazione dello schema di controllo delle au­torità di politica di bilancio (gli obiettivi e gli strumenti a disposizio­ne, i vincoli definiti dalla situazione dei mercati dell’economia, e i condizionamenti esogeni) e la possibile soluzione “ottimale” . Inoltre, le variabili di controllo sono analizzate nei loro effetti in maniera di­saggregata, legandole ad obiettivi particolari, anche se una stima ag­gregata dell’effetto complessivo della manovra è fornita sia in termini di aggregato finanziario coinvolto (l’ammontare della spesa pubblica corrente ecc.) che di stima dell’effetto ottenuto in termini di obiettivi e in relazione alla variabile di riferimento (il p i l ).

42. Si veda l ’articolo di Alesina, M are, Perotti (1996), che si ripropongono quan- lo segue: «U na delle argomentazioni principali che esporremo è che caratteristiche di complessità, mancanza di trasparenza, presenza di leggi e regolamenti spesso caotici rendono molto difficile il controllo delle finanze pubbliche italiane e particolarmente ardue le politiche di riduzione del debito e di controllo della spesa. D ’altra parte, la complessità e l ’assenza di trasparenza facilitano la realizzazione di bilanci “ creativi” , consentono un ’espansione notevole sul lato delle spese e offuscano il peso e la di­stribuzione del carico fiscale per quanto riguarda le entrate... E irrealistico pensare che una appropriata procedura di bilancio possa permanentemente eliminare la ten­denza a generare deficit di bilancio. Un governo, o un parlamento, che intendano per­seguire una politica fiscale dissoluta, sarebbero comunque in grado di farlo. Una pro­cedura di bilancio può, comunque, fare due cose: /) rendere possibile a un governo o parlamento responsabili una condotta di politica fiscale chiara e trasparente; ii) rende­re più difficile a governi e parlamenti irresponsabili la possibilità di nascondere le proprie responsabilità». L ’articolo analizza in maniera dettagliata le fasi del processo di bilancio e il regolamento della finanziaria in Italia sottolineando i maggiori pro­blemi ed avanzando per ognuno di essi delle proposte specifiche. Un confronto tra le proposte di Alesina, Marè e Perotti con altre proposte formulate per riformare le pro­ci-dure di bilancio in Italia è fornito dal lavoro di Milesi-Ferretti (1997).

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L E Z IO N I D J P O L IT IC A E C O N O M IC A

Il bilancio statale è lo strumento che in Italia consente al parla­mento di autorizzare il governo a procedere con politiche di spese e di tassazione. Esistono due versioni di bilancio, di previsione e con­suntivo. Il bilancio di previsione comprende spese pubbliche ed entra­te che si prevede si realizzino nel periodo considerato, mentre il bi­lancio consuntivo fornisce i risultati di una gestione appena conclusa.Il bilancio può essere formulato su base annuale o pluriennale. In quest’ultimo caso, nella versione a legislazione vigente sono considera­te le spese e le entrate definite sulla base della legislazione in essere senza, quindi, tener conto di possibili cambiamenti e/o modifiche del­le norme sulla finanza pubblica.

Il processo di bilancio è regolato:1. dall’articolo 81 della Costituzione le cui indicazioni fondamentali sono: i) con la legge di approvazione del bilancio non si possono sta­bilire nuovi tributi e nuove spese; ii) ogni altra legge diversa da quel­la di bilancio che comporti nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.2. dalla legge 362/1988 che articola le decisioni di finanza pubblica, così definite:a) entro il 15 maggio il governo deve presentare alle camere il d p e f

(documento di programmazione economico-finanziaria). Nel docu­mento si descrive il quadro macroeconomico interno e internazionale e la manovra di finanza pubblica con obiettivi e gli strumenti per rag­giungere tali obiettivi, per il periodo compreso nel bilancio plurienna­le. Gli obiettivi si riferiscono sia agli aggregati macroeconomici sia a quelli di finanza pubblica in termini di fabbisogno e debito pubbli­co;b) entro il 3 1 luglio il governo presenta il disegno di legge di appro­vazione del bilancio annuale e pluriennale a legislazione vigente;c) entro il 30 settembre il governo presenta il disegno di legge fi­nanziaria, la relazione revisionale e programmatica, il bilancio plu­riennale e programmatico e i disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica. La legge finanziaria dispone in ogni anno il qua­dro di riferimento finanziario. La legge non introduce nuove imposte, tasse e contributi, ma attribuisce variazioni quantitative ad aliquote, detrazioni, scaglioni, quote annuali di spese pluriennali ecc. La finan­ziaria è corredata di una serie di leggi di accompagnamento relative a interventi nel settore della previdenza, della finanza locale, del pub­blico impiego e della riforma del sistema fiscale.

Il processo di messa a punto della politica di bilancio è quindi piuttosto complicato e coinvolge la cooperazione fra più agenzie e di-

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D E F IC IT P U B B L IC O , D E B IT O P U B B L IC O E S O L U Z IO N E D E L L E E Q U A Z IO N I

l'.minienti dei ministeri economici, la condivisione di misure e meto­di degli aggregati e dei loro effetti in relazione alle esigenze non sol- i tutti macroeconomiche ma anche alle esigenze dei partiti che com- lMingono l’esecutivo e l’opposizione43.

2.14Le teorie politiche del debito pubblico

l ina domanda che sorge a questo punto dell’analisi riguarda la con­dili 1 a dei governi e delle autorità di politica economica che sono re- ponsabili dei disavanzi e dei debiti pubblici. Alla luce dei debiti ac-

■ 11 mulati in condizioni economiche non eccezionali (quali guerre o • ■venti straordinari) in molti paesi occidentali, è difficile pensare che i ",•)verni di questi paesi abbiano tentato di massimizzare una qualche Iunzione di benessere sociale. I governi hanno degli incentivi e degli i>l>iettivi che determinano un comportamento spesso distante dal be­nessere collettivo44. E questa la linea di ricerca che negli ultimi anni Im analizzato le cause del debito pubblico. Questa ricerca si divide ■;ostanzialmente in tre filoni teorici45:/) la teoria della public choice, che poggia sostanzialmente sul rap­porto elettorato-governo in carica;//) la teoria del conflitto tra governi successivi, che pone in evidenza l’incentivo che ogni tipo di governo avrebbe nell’aumentare il debito per considerazioni strategiche;

43. La legge finanziaria per l’individuazione delle linee della manovra finanziaria• nata dal dibattito sulla programmazione economica che si è sviluppato in Italia dalla metà degli anni sessanta. Il suo utilizzo iniziale è stato piuttosto critico come stru­mento di politica economica: il dibattito parlamentare che si generava annualmenteiilla finanziaria divenne per molto tempo il principale momento di scontro politico­

parlamentare. Piuttosto che l’occasione di razionalizzazione della legislazione di spesa• la approvare nel corso dell’anno di esercizio, e di strumento per definire le grandezze Imidamentali dei bilanci pubblici, la legge finanziaria è stata caratterizzata da elementi politici quale la tenuta della compagine governativa nei confronti delle opposizioni e la tenuta all’interno della coalizione governativa stessa, spesso contraddistinta da com­ponenti politiche in conflitto tra loro sulle decine di articoli e commi relativi a spese e interessi settoriali. Per una storia della legge finanziaria fino agli anni novanta si veda Da Empoli, De Toanna, Vegas (1988).

44. Si veda Frey (T978); Mueller (1989); Ordeshook (1986) per una trattazione U'orica. Un’introduzione più semplice è quella di Cullis, Jones (1998).

45. Si veda, tra gli altri, Tabellini (1986; 1993); Tabellini, Alesina (T990); Roubi- ni, Sachs (1988; 1989); Grilli, Masciandaro, Tabellini (19 9 1) ; Alesina, Roubini, Cohen ( ' 9 9 7 )-

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L E Z IO N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

RIQUADRO 2.8La gestione del debito pubblico nell’era dell’euro 1

Nell’attuale architettura istituzionale della politica economica europea non gioca nessun ruolo la gestione del debito pubblico. E vero che una delle più importanti componenti dei bilanci pubblici nazionali, la spesa per interessi, non è pienamente sotto il controllo dei responsabili di po­litica economica ma dipende dagli andamenti stocastici dei mercati dei capitali. Immaginiamo che uno shock petrolifero si protragga nel tempo causando un decremento della produzione ed un aumento delPinflazione che generi a sua volta un aumento dei tassi d ’interesse nominali. In que­sta situazione, ipotizziamo anche che la Banca centrale europea voglia farvi fronte con una ulteriore stretta monetaria reale per scongiurare pe­ricoli inflattivi in assenza di una maggiore moderazione salariale da parte dei sindacati. In questo caso, la variazione dei tassi d ’interesse al rialzo pregiudicherebbe l ’indebitamento pubblico proprio in un momento nel quale ce n’è meno bisogno: una fase di recessione genera, infatti, un calo delle entrate fiscali e un aumento della spesa pubblica a fini sociali. Quanto lo pregiudicherebbe? Questo dipende dalla struttura per scaden­ze e per tipologia di titoli del debito pubblico. Un debito a breve termi­ne (cioè fortemente orientato sui tassi a breve), dove predominano per esempio c c t e b o t , acuirebbe in maniera estrema l’effetto dello shock negativo sul deficit pubblico a causa dell’addizionale shock nella spesa per interessi. A quel punto non sarebbe difficile immaginare un governo restio a ridurre la spesa pubblica o ad alzare l ’imposizione per rientrare nei margini richiesti dal patto di stabilità e crescita, che eserciti pressioni sulla Banca centrale europea, causando gravi ripercussioni a livello so­pranazionale. Un debito a lungo termine con tassi fissi che non risentono delle variazioni dei tassi a breve ridurrebbe tali effetti negativi sul defi­cit. Tutto questo per dire che c’è un terzo giocatore nel gioco istituzio­nale della stabilità in Europa, oltre alla Banca centrale europea ed alle autorità di politica fiscale: il gestore del debito pubblico. Un giocatore importante: se egli è efficiente e indipendente da pressioni politiche, po­trebbe fare molto per smussare gli effetti degli shock sul bilancio pub­blico e quindi sulla probabilità di una crisi politica all’interno dell’Unio­ne monetaria europea.

Eppure, nell’architettura della politica europea nessun obiettivo è sug­gerito per la gestione del debito pubblico. Contrariamente a quello che avviene per la politica monetaria, nessuno strumento operativo vi è men­zionato, nessuna indipendenza è garantita al gestore del debito né tanto meno nessuna sua responsabilizzazione viene richiesta. Val la pena dun­que chiedersi, in questo vuoto istituzionale, cosa va fatto e cosa è stato fatto per scongiurare queste evenienze negative. Essendo il tutto lasciato alla buona volontà dei singoli governi, bisogna confrontare come i diversi paesi hanno reagito a questo vuoto istituzionale sopranazionale in tema di gestione del debito pubblico.

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

Sono tre le novità sostanziali nella gestione del debito apportate dal­l’avvento dell’euro.

La prima, una convergenza della durata finanziaria del debito (che mi­sura l’esposizione del debito a variazioni improvvise dei tassi d ’interesse, tanto è più alta tanto minore tale esposizione) tra i diversi paesi membri dell’uME. E ciò è dovuto all’abbandono del controllo nazionale sulla poli­tica monetaria. In effetti, un paese con una Banca centrale molto conser­vatrice (come per esempio la Germania), in termini di stabilità dei prezzi userebbe spesso i tassi a breve per mantenere sotto controllo l ’inflazione: ne deriva un’alta volatilità della spesa per interessi sui titoli a breve che porta i gestori del debito di quel paese a emettere titoli con una durata finanziaria piuttosto lunga, per evitare tale volatilità nei bilanci pubblici.Il contrario accade in un paese con una Banca centrale meno conserva­trice. L ’avvento di una sola banca centrale ha portato quindi ad un avvi­cinamento delle politiche dei diversi paesi.

Seconda novità: l ’utilizzo sempre più frequente di contratti derivati swap fisso-variabile. Gli sivap sono accordi tra due parti per trasformare un prestito a tasso a breve in un prestito a tasso a lungo e viceversa. Conlo swap, contrattato con una singola controparte (generalmente una ban­ca d’affari internazionale), il gestore del debito può, dopo aver emesso un titolo a lungo termine, ricevere dalla controparte un pagamento legato ad un tasso a lungo termine e pagare a quest’ultima una somma legata ad un tasso d ’interesse a breve termine, trasformando di fatto roriginaria obbli­gazione a lungo termine in un’obbligazione sintetica a breve termine. Per­ché allora non emettere direttamente a breve (per esempio con un b o t ? ) .

Perché, utilizzando lo swap, si perviene ad un doppio risultato: da un lato si può, se lo si desidera, pagare un tasso a breve e dall’altro non si rinuncia per questo ad emettere titoli a lungo termine che, per costare poco, richiedono molta liquidità e quindi una emissione sostanziale. Lo swap permette dunque di scindere la decisione di finanziamento da quella di portafoglio, legata al rischio-rendimento desiderato dal gestore. Prima dell’euro molti mercati swap nazionali erano poco liquidi e quindi ina­datti a digerire la presenza sostanziosa di un emittente sovrano senza assi­stere a forti variazioni del costo dello swap.

Terza ed ultima novità: l ’affidamento sempre più frequente della ge­stione del debito pubblico ad agenzie del debito con maggiore flessibilità gestionale, rispetto ai ministeri economici dove il debito è stato fino ad oggi gestito. Francia e Germania, due colossi del mercato del debito pub­blico n e l l ’uM E , hanno recentemente effettuato questa coraggiosa mossa istituzionale. Le agenzie del debito nascono da un lato per remunerare con salari più sostanziosi di quelli medi della pubblica amministrazione i gestori del debito pubblico. Esigenza questa naturale vista l ’importanza di assumere personale ben qualificato per potere dialogare con autorevolezza con sofisticati operatori dei mercati finanziari, a loro volta ben remunera­li, cd evitare fughe di cervelli verso il settore privato. Dall’altro lato le agenzie, fornite di un quadro normativo preciso da parte del Parlamento

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LK/IO N I DI POLITICA ECONOMICA

e di un quadro di responsabilizzazione verso il ministero dell’Economia per le proposte effettuate ed i risultati raggiunti, garantiscono una mag­giore trasparenza nel loro processo decisionale ed una indipendenza rela­tivamente più elevata di quanta non ne abbia un gestore del debito pub­blico operante sotto il controllo politico, a volte ispirato da motivazioni poco corrette o comunque miopi. La ragione per cui le agenzie appaiono nell’era dell’euro è che quest’ultimo ha generato una maggiore competi­zione tra gestori, vista la maggiore sostituibilità tra debiti intra-UME, e che le agenzie sono viste dagli investitori come valore aggiunto di professiona­lità e trasparenza.

i . Sulla gestione del debito si vedano alcuni lavori contenuti in Monorchio (1996); Conti, Ua- maui (1993); Dornbusch, Draghi (1990); Bagella, Paganetto (2002); Favero, Missale, Piga (2000).

iii) la teoria del conflitto tra i policymakers di un governo, che indivi­dua nell’aumento della spesa la possibilità di far fronte al proliferare di interessi diversi.

L ’approccio di ricerca della public choice (la scuola delle scelte pubbliche) sottolinea lo scarso legame esistente nelle democrazie moderne tra elettorato e governo. Quest’ultimo non massimizza cer­tamente una funzione di benessere sociale, ma la sua probabilità di rimanere in carica utilizzandone i privilegi concessi dal ruolo. Spesso un’informazione non perfetta tende ad ingannare l’elettorato, che non riesce a prevedere con esattezza i flussi di tassazione e spesa e le loro conseguenze dinamiche, limitando il controllo che l’elettore di­spone tramite il voto. Si potrebbe creare illusione fiscale, con una scarsa consapevolezza su cosa significhi una minore tassazione nel periodo corrente in termini di politica futura. Di conseguenza, per i governi in carica sarà più facile e conveniente creare debito con poli­tiche espansive non coperte da tassazione; come abbiamo analizzato in precedenza, questo debito richiederà un aumento della tassazione nel futuro.

Le altre linee di ricerca più recenti guardano alla generazione del debito come un prodotto strategico o come conseguenza di un siste­ma elettorale particolarmente inefficiente. Nel primo caso governi consecutivi sono incentivati ad aumentare il debito per limitare le eventuali azioni di finanza pubblica dei loro successori. In ogni caso, aumentare la spesa senza tassazione di copertura produce una mag­giore disponibilità di beni e servizi oggi e vincola tale disponibilità domani. In altri termini, il governo in carica produce un condiziona­mento sull’operare del governo successivo. Questi effetti sono parti­colarmente rilevanti nei paesi in cui governi diversi (conservatore-de­

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

mocratico o laburista) si avvicendano in maniera frequente, come gli Stati Uniti, e possono coinvolgere gli aspetti più diversi, come parti­colari spese per la difesa e la ripartizione del carico fiscale tra fasce di reddito.

Un ulteriore filone di ricerca spiega l’indebitamento, e anche le differenze esistenti tra i vari paesi nella sua dimensione, con aspetti istituzionali che producono un conflitto tra policymakers, a volte com­ponenti di uno stesso governo. Ad esempio, conflitto tra i dicasteri sulle spese; conflitto tra partiti che compongono una coalizione di go­verno sui vari interessi e lobbies da tutelare, conflitto tra governo e parti di esso con sindacati dei lavoratori; conflitto tra le amministra­zioni e apparato burocratico e parti dell’esecutivo ecc. Più si riscon­tra un decentramento tra più soggetti delle decisioni di politica eco­nomica, più questi conflitti possono emergere e condizionare la politi­ca di bilancio.

Ciò può essere dovuto, in parte, anche al carattere istituzionale: più i governi sono composti da ampie coalizioni (più le democrazie parlamentari sono proporzionali e meno maggioritarie), più il go­verno dovrà tener conto di interessi diversi e farsi carico con un maggiore onere di spesa per limitare i conflitti ed aumentare la probabilità che resti in carica. La frammentazione dei partiti che compongono la coalizione ne rende fragile l’equilibrio, e produce un forte incentivo a generare debito pubblico, dato che i vari grup­pi di pressione e le parti corporative si riflettono nella frammenta­zione.

I dati empirici confermano l ’elemento politico nella generazione del debito. I dati relativi agli anni settanta e ottanta mostrano chelo squilibrio di finanza pubblica è piuttosto accentuato nelle demo­crazie parlamentari con sistema elettorale proporzionale piuttosto che nelle democrazie con un sistema elettorale maggioritario e nelle democrazie presidenziali (Francia e Stati Uniti). Studi empirici han­no messo in evidenza una correlazione tra frammentazione dell’ese­cutivo e indebitamento pubblico e una correlazione negativa tra durata degli esecutivi e indebitamento. Un sistema elettorale che favorisce la formazione di maggioranze parlamentari solide produce minori disavanzi strutturali e, in ultima analisi, una sensibile ridu­zione dello stock del debito. Ampie coalizioni, composte da molti partiti, generano governi particolarmente deboli e di breve durata e rendono difficile la cooperazione tra i partiti. Questi tipi di gover­no sono più inclini a non internalizzare i costi dinamici delle ma­novre di finanza pubblica ma sono più propensi a perpetuare ma­

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iidvic mi<>|>i ;i tulle» vantaggio dell’immediato, rimandando i risana- n n l i l I l‘ \

2.15Il costituzionalismo economico

Il costituzionalismo economico è un indirizzo di ricerca delle scelte pubbliche che limita il potere discrezionale delle autorità di politi­la economica, ed in particolare delle autorità di politica fiscale. Lo scopo è quello di limitare la discrezionalità dei governi, legando la scelta di politica economica ad obiettivi definiti e previsti nei docu­menti a carattere costituzionale. In questo modo gli obiettivi non sono soltanto definiti dall’esecutivo in carica e dalle autorità di po­litica economica, ma godono di un consenso più elevato. Il sistema decisionale viene quindi caratterizzato da un aspetto costituzionale il quale determina le regole del gioco (i comportamenti da assume­re).

In questo contesto la politica di bilancio assume un rilievo parti­colare, in quanto è l’espressione economica del conflitto di interessi.Il costituzionalismo economico suggerisce il ripristino del bilancio in pareggio, dando a questo “obiettivo” un carattere costituzionale. Sol­tanto con la limitazione del potere discrezionale delle autorità attra­verso regole costituzionali è possibile limitare, nelle democrazie eco­nomiche, la crescita dell’inflazione e del debito pubblico. Questa li­nea di ricerca è stata sviluppata tra gli anni settanta e ottanta princi­palmente da Buchanan, Tollison, Wagner e Brennan 47.

L ’argomento che giustifica questa tesi è stato descritto nelle sezio­ni precedenti: nelle democrazie moderne, deficit persistenti ed infla­zione elevata sono spesso il risultato dell’interagire di interessi parti­colari o coalizioni di interessi che diversi agenti o gruppi di pressione cercano di imporre in assetti istituzionali e costituzionali favorevoli. In questi contesti politico-istituzionali il processo legislativo e decisio­nale della politica economica diviene fondamentale. Infatti, è inevita­bile che la valutazione dei benefici che i vari gruppi di agenti rie­scono ad ottenere sia confrontata con i costi marginali riferiti alla po-

46. Per una relazione tra i fattori istituzionali e politici italiani e l’evoluzione del debito pubblico si veda Salvemini (1993); Visaggio (1997); Sartor (1998) e Musu(1998). Una lettura indicativa in proposito è quella del volume di Amato (1990).

47. Si veda in particolare Buchanan, Wagner (1977); Buchanan, Rowley, Tollison (1987); Tollison, Wagner (1980). Diversi articoli di questi autori sono tradotti in ita­liano e riportati in Eusepi (1993).

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2 . D E F IC IT P U B B L IC O , D E B IT O P U B B L IC O E S O L U Z IO N E D E L L E E Q U A Z IO N I

R IQ U A D R O 2.9La politica di bilancio e il deficit bias

Riguardo la politica di bilancio si è riconosciuto che la gestione sistemati­ca e discrezionale della domanda, tesa ad orientare l’evoluzione dell’attivi­tà economica a breve termine, ha un margine di manovra molto limitato. In primo luogo, le incertezze e i ritardi intrinseci nel processo politico, unitamente ai ritardi con cui, ad esempio, un incremento discrezionale della spesa pubblica o un taglio delle imposte incidono sulla domanda aggregata e la sostanziale incertezza circa l’entità della risposta del sistema economico a tali stimoli, rendono la politica di bilancio anticiclica una pratica difficile e rischiosa J. In secondo luogo, benché gli strumenti della politica di bilancio possano essere importanti per ridurre le fluttuazioni del reddito determinate dalle condizioni macroeconomiche, vi è il rischio che il debito pubblico aumenti da un ciclo economico all’altro. Questo rischio (il cosiddetto deficit bias) ha di norma origine nel fatto che il pro­cesso politico è talvolta dominato da considerazioni e obiettivi di breve periodo associati con i cicli elettorali e con pressioni di gruppi specifici e ben organizzati.

Un modo relativamente semplice che le autorità di bilancio hanno di far fronte a domande potenzialmente conflittuali con un quantitativo di risorse limitato è quello di finanziare la spesa con l’indebitamento, spo­stando così l ’onere del finanziamento a generazioni future di contribuenti. In società interessate da un processo di invecchiamento, ciò può condurre ad un accumulo delle passività implicite nei sistemi pensionistici pubblici. A tali crescenti squilibri di bilancio sono associati ampi costi in termini di benessere economico. Finanze pubbliche non sostenibili limitano la porta­ta e l’efficacia delle politiche di bilancio nella stabilizzazione dell’econo­mia; l ’aumento della spesa e del rapporto tra debito e prodotto conduce a una pressione fiscale crescente che genera sempre maggiori perdite di efficienza dovute a una tassazione con effetti distorsivi. In aggiunta, l ’au­mento incontrollato dell’onere del debito può gradualmente spiazzare l’accumulazione privata di capitale produttivo e deprimere la crescita eco­nomica nel medio periodo.

1. Nel g a p . 4 analizzeremo in dettaglio l'effetto dei ritardi e delle incertezze della politica eco­nomica in relazione aH5evoluzione ciclica.

Fonte. Questo brano è tratto dal Bollettino mensile della Banca centrale europea, del febbraio 2005: La relazione tra In politica monetaria e le politiche di bilancio nell’area euro.

polazione come un tutto, generando una continua crescita delle spese pubbliche. Se queste argomentazioni sono valide anche per il lato delle entrate pubbliche, con un elettorato che in genere ha una forte avversione all’aumento della tassazione, si generano necessariamente squilibri rilevanti e continui delle finanze pubbliche.

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L E Z I O N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

Le esortazioni agli esecutivi dal trattenersi dal perseguire i propri interessi hanno poca efficacia. Il rimedio efficace, distinto “dall’illu­sione del rimedio” , richiede regole istituzionali o costituzionali capaci di cambiare i vincoli e i guadagni. Poiché le spese pubbliche aumen­tano il sostegno politico mentre le imposte lo riducono, l ’uso del fi­nanziamento in disavanzo costituisce un forte incentivo per i governi a perseguire politiche dissolute. Occorre ripristinare la situazione pre- keynesiana, quando i bilanci pubblici erano relativamente esigui e spesso in avanzo. Un avanzo usato per l’ammortamento del debito pubblico creato durante i periodi di guerra e recessione. Wagner (1987) è esplicito in proposito:

prima del periodo keynesiano gli americani credevano generalmente che i disavanzi di bilancio rappresentassero un’errata politica di governo, ad ecce­zione dei periodi di guerra o di depressione dell’economia. Durante i periodi normali, le eccedenze di bilancio erano ritenute una politica idonea a con­sentire il ritiro del debito creato nei periodi eccezionali. Questo era il mo­dello della storia finanziaria americana fino al periodo post-bellico, quando con l’avvento dell’era keynesiana di un governo vasto e attivo, il bilancio pubblico finì per l’essere considerato come un mezzo per bilanciare un’eco­nomia altrimenti instabile, così i disavanzi di bilancio persero la loro facoltà di indicatori di un errore finanziario. In altre parole, avveniva un cambia­mento dei limiti in cui era attuata la politica di bilancio, sebbene quei limiti non costituissero mai parte di una costituzione fiscale scritta.

Il solo modo per prevenire questo fenomeno è quello di imporre vin­coli costituzionali sul processo di spesa o sul budget del governo. E importante sottolineare che in questo contesto non è in discussione l’abilità del policymaker o le sue capacità di formulare e perseguire politiche ottime in termini di obiettivi e strumenti, e neanche la sua capacità di procedere con accuratezza nella gestione dell’intervento in termini dinamici e di dimensione. Le argomentazioni indicano che li­mitare la capacità discrezionale delle autorità di bilancio è vantaggio­so in quanto la discrezionalità produce una soluzione subottimale per il benessere collettivo.

Il costituzionalismo economico fa emergere un problema rilevan­te: dobbiamo chiederci se è lecito attendersi da un policymaker razio­nale un comportamento che vincola i suoi interessi a vantaggio di quelli collettivi o, in altri termini, se esistono degli incentivi o disin­centivi che limitano questa discrezionalità.

Questo quesito è emerso dal dibattito che è seguito all’applicazio­ne della legge Gramm-Rudman negli Stati Uniti durante la seconda metà degli anni ottanta. Questa legge, proposta dai senatori Phil

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2 . D E F IC IT P U B B L IC O , D E B IT O P U B B L IC O E S O L U Z IO N E D E L L E E Q U A Z IO N I

Gramm e Warren Rudman sotto l ’Amministrazione Reagan e appro­vata al congresso statunitense nel dicembre 1985, rappresenta l’esem­pio classico di applicazione di vincoli costituzionali alla politica fisca­le. La legge stabilisce una procedura automatica di riduzione delle spese che entra in opera ogniqualvolta il target sul deficit program­mato dal Congresso americano viene superato di un certo ammontare prestabilito. La legge non sostituisce le manovre discrezionali con una sorta di automatic pilot, ma è pensata come un valido deterrente peril Congresso e il Presidente (spesso negli Stati Uniti in contrapposi­zione su obiettivi e strumenti) per indurli a rispettare gli impegni pre­si riguardo l’ammontare delle spese e della tassazione. Il meccanismo, per essere credibile, deve definire in modo chiaro gli aspetti che lo rendono operativo e le possibili conseguenze della sua entrata in fun­zione che, ovviamente, per fungere da deterrente, devono essere quanto più “sgradevoli” . La legge deve rappresentare quello che nel­la teoria dei giochi è chiamato un threat point, cioè una “minaccia” per evitare che un accordo intrapreso precedentemente non venga rispettato.

L ’implementazione della legge Gramm-Rudman incontrò un am­pio numero di riserve ed emendamenti sui singoli programmi. Ad esempio, sulla sicurezza sociale, sulla salute, sugli interessi sul debito, sulle agevolazioni per i percettori di redditi minori. Inoltre alcune ri­serve sull’applicazione di questo meccanismo automatico sono state poste in relazione alle fasi di recessione, ma critiche furono indirizza­te anche sul suo carattere costituzionale 4®.

La complessità tecnica della legge ha lasciato molte possibilità di eluderla su diverse poste di spesa. Ciò ha condotto molti economisti a formulare giudizi negativi sulla concreta possibilità di applicazione di queste regole costituzionali alla discrezionalità dei politici. Inoltreil processo annuale di elaborazione dei bilanci, conformi ai requisiti imposti dalla legge, crea l ’illusione di un controllo del deficit ed eli­mina l’incentivo a mettere a punto misure reali di controllo degli squilibri fiscali. D ’altro lato sembra innegabile un certo successo del meccanismo di controllo. Negli anni sessanta il deficit di bilancio fe­derale degli Stati Uniti risultava in media dell’1% del p i l , mentre nel

48. La logica e la struttura della legge Gramm-Rudman è stata ampiamente do­cumentata e dibattuta dalla letteratura. Si vedano Gramlich (1990) e Sheffrin (1989) per un’analisi storica. Tra la letteratura critica sulla possibilità di limitare con una leg­ge la crescita dei deficit di bilancio pubblico, si veda Thelwell (19 9 1).

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

decennio successivo saliva al 2% . Lo squilibrio è comunque conti­nuato in maniera crescente fino a raggiungere nella metà degli anni ottanta il 5 .5 % del p i l . Tuttavia, già nel 1989 il deficit era ridotto al 2 .9%. Sembra difficile negare a questa performance l’effetto della leg­ge di controllo del deficit, sebbene è altrettanto vero che questa ha subito una serie di revisioni e riforme mirate ad indebolirla.

2.16Le equazioni differenziali: soluzione

Le equazioni differenziali di primo ordine hanno un meccanismo di soluzione del tutto analogo a quelle alle differenze, studiate nelle se­zioni precedenti con la dinamica del debito pubblico. Per rafforzare l’analogia, utilizzeremo ancora l’equazione del debito pubblico espressa come rapporto del p i l . La distinzione fondamentale è che ora stiamo utilizzando una dimensione temporale continua, piuttosto che discreta. Ciò implica che i tassi di variazione Axt = xt — xt_u che esprimono la dinamica di una variabile generica x, ora sono definiti

dxcome la derivata della variabile rispetto al tempo, ----. La seguente

dt

equazione differenziale esprime due modi esattamente equivalenti di definire la dinamica della variabile generica x:

[2.39] x + ax = c

dx[2.39.1] — + ax = c

dt

Notate che per semplificare abbiamo eliminato l’attribuzione tempo­rale alle variabili, che altrimenti dovrebbero essere scritte nel seguen­te modo, x(t) + ax{t) = c.

Ritornando alla nostra equazione della dinamica del rapporto de­bit o/ p i l , abbiamo la seguente equazione differenziale:

[2.40] b = (i — n)b + d

Da questa equazione si deduce che la dinamica del rapporto debito/ p i l dipende dal saldo primario d, dal tasso di interesse i, dal tasso di crescita del reddito n, dal debito ereditato dal passato b. La [2.40], inoltre, implica che il debito cresce se il tasso di interesse è superiore

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELLE EQUAZIONI

al tasso di crescita dell’economia. Una condizione già commentata nei paragrafi precedenti con le equazioni alle differenze.

La [2.40] è uri equazione differenziale non-omogenea del primo or­dine con la seguente soluzione:

[2.41] b, = (b0 - b*)e(,~n)l + b*

dove b* rappresenta il valore di stato stazionario del rapporto debito/ reddito. Anche nel caso delle equazioni differenziali abbiamo, quindi, una soluzione caratterizzata da due componenti; una di stato stazio­nario e una di deviazione dallo stato stazionario.

Quindi, l’equazione generica [2.39]:

dxx + ax = c ; x = ----

dt

è un’equazione differenziale non-omogenea del primo ordine, la cui soluzione è data dalla somma di due soluzioni specifiche: a) la solu­zione particolare (o integrale particolare), che definisce l’equilibrio in­tertemporale del livello della variabile x; b) la soluzione generale, che definisce la dinamica della variabile x, ossia la deviazione dell’equili­brio della soluzione particolare. La soluzione della [2.39] è quindi data dalla somma delle due singole soluzioni:

xt = xg + xp,

dove i deponenti indicano le soluzioni “generale” (o complementare) e “particolare”. La soluzione generale è data dal seguente tentativo:

[2.42] xg = Aeat (nel nostro caso Aé',~n')t)

dove A indica una costante arbitraria da definire. Per la soluzione particolare, basta definire la variabile * come una qualsiasi costante cosicché x = dx/dt = 0 (la derivata di una costante è zero), per cui la [2.39] diventa:

cax - c da cui x„* = —

a

Nel caso dell’equazione del debito, tale soluzione è data da:

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LI// ,IONI DI l ' O L I T l C A L C O N O M I C A

[2.43] b'k = —------(1 - n)

La [2.43] definisce il valore di equilibrio di stato stazionario del rap­porto debito/piL. Rimane da definire la costante arbitraria A. Un modo usuale di procedere è quello di sostituire a xt la condizione iniziale, ossia x0. Per t - 0 la seguente soluzione

xt = A eat +c

a

diventa

c cx0 = A + — cioè A = x0 -----

a a

Per l’equazione del debito, tale costante arbitraria è pari a (bQ = b*). Sostituendo nella soluzione le due componenti (soluzione generale e soluzione particolare) otteniamo:

[2.44] xt = x0a 1 a

È importante determinare il segno del coefficiente a. Per l ’equazione del debito pubblico tale coefficiente è definito dalla differenza tra tas­so di interesse e tasso di crescita del p i l . Nel caso della dinamica del debito, questa soluzione può essere scritta nel seguente modo:

[2.45] bt = (b0 - b'k)e(l- n)t + b'k

dove b'k indica il livello del debito di stato stazionario definito dalla[2.43].

Le implicazioni di questa equazione in termini di dinamica del debito e di politica economica sono del tutto analoghe a quelle espresse in tempo discreto nei paragrafi precedenti.

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2 . DEFICIT PUBBLICO, DEBITO PUBBLICO E SOLUZIONE DELI.li EOI IA/.IUN I

2.1J

Che cosa abbiamo appreso da questo capitolo

Il capitolo affronta sotto vari aspetti i problemi relativi al deficit e al debito pubblico. Abbiamo in primo luogo appreso le varie definizioni di disavanzo, complessivo, primario e strutturale (o corretto per il ci­elo), e sottolineato la rilevanza del contesto dinamico nell’analisi delle politiche di bilancio.

L ’analisi dinamica del debito pubblico è stata condotta con le equa­zioni alle differenze e le equazioni differenziali: uno strumento indi­spensabile e particolarmente utile perché definisce le caratteristiche di equilibrio (stabile o instabile) e perché le sue soluzioni particolari e complementari possono essere considerate, rispettivamente, come so­luzioni di equilibrio (di stato stazionario) e di deviazione dall’equili­brio. Queste equazioni ci permettono di identificare sentieri del debi­to convergenti o divergenti da un possibile stato stazionario e attri­buire ai parametri specifici tale dinamica.

A questo fine abbiamo discusso le conseguenze dinamiche degli squilibri di finanza pubblica: affrontare un problema oggi o affrontar­lo domani incide in maniera sostanziale sull’evoluzione dello squilibrio di finanza pubblica stesso, in virtù del legame tra la dinamica dello squilibrio e il gap tra i tassi di interesse e la crescita dell’economia.

Abbiamo parlato dei tassi di interesse perché il debito pubblico subisce la variazione dei tassi ma nello stesso tempo influenza i tassi di interesse in maniera determinante, generando anche un gap con i tassi di interesse internazionali. Abbiamo appreso che qualora il debi­to assuma dimensioni rilevanti, si possono generare fenomeni tipici delle attività rischiose, producendo anche per i titoli pubblici un pre­mio per il rischio.

Si è discusso del ruolo dell’inflazione e del finanziamento moneta­rio dello squilibrio di finanza pubblica, analizzando alcune particolari relazioni (regimi) tra istituzioni di politica di bilancio e istituzioni di politica monetaria. Abbiamo sottolineato come il finanziamento mone­tario con l’inflazione (tassa da inflazione) può essere, ed è stato in al­cuni paesi in determinati momenti storici, uno strumento dei governi per far fronte agli effetti di politiche dissennate. In questo contesto istituzionale si obbligano le autorità monetarie a finanziare parzial­mente o totalmente i disavanzi pubblici. Una politica fiscale capace di assicurare la fiscal solvency è l’inevitabile implicazione che emerge dalla scuola del Minnesota e della nuova teoria fiscale del livello dei prezzi. Una volta appurato che la stabilità dei prezzi è il fondamento

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

del corretto funzionamento di un’economia di mercato e il migliore contributo che la politica monetaria può apportare al benessere col­lettivo, l ’indipendenza delle Banche centrali da ogni forma di condizio­namento dell’esecutivo è stata considerata incontrovertibile e istitu­zionalizzata nella costituzione della Banca centrale europea.

Un ulteriore aspetto importante è il ruolo della politica nel deter­minare, in maniera miope, continui e consistenti disavanzi pubblici. Queste considerazioni sono tipiche delle democrazie moderne ma sono legate a diversi contesti istituzionali o costituzionali. Leggi elet­torali diverse, come il sistema maggioritario o il sistema proporziona­le, tendono a produrre effetti diversi sulle spese pubbliche e sulla tassazione.

L ’inserimento delle regole di politica di bilancio nella costituzione dei paesi democratici, e di “minacce severe” nel caso si riscontrino deviazioni da queste regole, è stato proposto da una corrente di pen­siero economico per eliminare gli incentivi dell’esecutivo a generare disavanzi pubblici eccessivi.

La dinamica del debito ha rilevanti risvolti intergenerazionali. G e­nerare dei disavanzi e farvi fronte in momenti diversi incide in manie­ra sostanziale sul benessere delle generazioni coinvolte e di quelle fu­ture. In diversi paesi il rilevante carico fiscale che limita l’attività pro­duttiva e la domanda e distorce le scelte di famiglie e imprese, è al­meno in parte la conseguenza di continui e rilevanti disavanzi pro­dotti alcuni decenni prima. Abbiamo comunque appreso che compor­tamenti à la Ponzi, con il pagamento dei debiti mediante l’accensione di altri debiti, ha un limite (sebbene non definito né teoricamente né empiricamente): il vincolo di bilancio intertemporale dovrà presto o tardi essere rispettato e “pasti gratis” non esistono.

In alcuni contesti, tuttavia, la generazione di un deficit pubblico non altera i consumi e quindi i risparmi e non incide sui tassi di inte­resse e sulla crescita. Una situazione caratterizzata da una riduzione della tassazione che crea un deficit pubblico è equivalente ad una situa­zione senza riduzione di tassazione se le tasse sono di tipo lump sum, le famiglie sono dinastiche, i mercati di capitali perfetti e se gli indivi­dui hanno aspettative razionali. Gli individui semplicemente sanno che dovranno ripagare domani quello che oggi gli viene offerto sotto forma di una riduzione di imposte e, quindi, altrettanto semplicemen­te non alterano i loro programmi di consumo. Robert Barro ha sotto- lineato come, in aggregato, per le famiglie detenere titoli pubblici non equivale a detenere ricchezza sebbene questi titoli siano delle attività finanziarie nei portafogli delle famiglie.

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2 . DEFICIT PUBBLICO, D E B I T O P U B B L I C O E S O L U Z I O N I i D E L I , ! : E<.)UAZI< >NI

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Page 176: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

Aspettative razionali: logica e implicazioni.

Un’analisi introduttiva

3

Di che cosa si parla nel capitolo

II capitolo affronta un argomento complesso, quello della determinazio­ne delle variabili attese, per definizione non osservabili, e le implicazio­ni economiche che producono i vari schemi predisposti per la loro stima discussi nella letteratura. Le implicazioni economiche coinvolgono gli aspetti dinamici delle variabili endogene e producono diverse conclusio­ni di carattere normativo. Il capitolo è quindi pensato per fasi. In una prima fase è importante capire gli schemi di formulazione delle aspetta­tive e come questi contribuiscono a definire la dinamica e le interrela­zioni del modello. E utile intuire come gli schemi di aspettative produ­cano soluzioni importanti e diverse per la politica economica. In un se­condo momento è importante dotarsi di un minimo di bagaglio metodo- logico con cui analizzare e risolvere i diversi modelli di aspettative ra­zionali. Il terzo step su cui è basato il capitolo è l’analisi delle implica­zioni dello schema di aspettative razionali. Implicazioni che coinvolgono sia la politica economica e il suo modo di operare, sia gli strumenti utilizzati dalle autorità per analizzare e prevedere gli effetti della politi­ca economica. Infine un’ulteriore fase importante è specificare come la formulazione di modelli con agenti con aspettative razionali dia vita ad miti serie di elementi strategici e di interazione tra agenti e policyma- l't'/'s, capaci di generare conclusioni rilevanti per la definizione di una l’oliliat ottima.

3.1Introduzione

N< " l i u h i i i i i 1 r *-m ’ j i i m i l;i i i 'o ri ; i mneroeconomica ha s u b i t o i n f l u e n z e

■ li 1.1K | Ki i i , i i . i <■ mi< iimi.i r l i c l i m i n o m o d i f i c a t o s o s t a n z i a l m e n t e t u t t i i

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LE Z IO N I D I P O L IT IC A EC O N O M IC A

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318

Page 178: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

Le fluttuazioni cicliche: aspetti empirici e teorici

Di che cosa si parla nel capitolo

Questa parte del corso è composta da nove paragrafi dedicati agli aspetti statistici e di misurazione del ciclo e alle maggiori determinanti teoriche delle fluttuazioni aggregate. Il capitolo si apre con un’analisi storica tesa a far emergere le diversità, riscontrate nel tempo, nell’interpretazione del ciclo. Dall’evoluzione storica emergono implicazioni importanti per l’ana­lisi empirica del ciclo, per gli schemi teorici predisposti per descriverlo e per la politica economica definita per controllare le fluttuazioni. L ’ele­mento centrale è la distinzione tra teoria della crescita e teoria del ciclo. Fluttuazioni cicliche e crescita economica sono due fenomeni dell’analisi empirica e della teoria macroeconomica a volte studiati in maniera di­stinta e a volte in maniera unificata. Lo studente si troverà ad affrontare elementi statistici e teorici, con una serie di definizioni e concetti da ap­plicare in situazioni diverse e con approcci diversi. L ’analisi tradizionale del ciclo fornisce una serie di strumenti per caratterizzare le fasi cicliche che vanno tenuti distinti dalle definizioni e dai concetti propri dell’ap­proccio di ciclo-trend. Nell’analisi empirica del ciclo, particolare attenzio­ne è dedicata alle caratteristiche delle serie storiche, ed in particolare alla composizione delle serie, al fine di individuarne le caratteristiche di trend e la componente ciclica. La differente interpretazione e misurazione delle fluttuazioni cicliche si riflette anche negli schemi teorici predisposti per interpretarle. In questo contesto, nel capitolo sono presentati alcuni mo­delli teorici e, tra gli elementi distintivi per caratterizzarli, abbiamo sotto- lineato la possibilità intrinseca di tali schemi teorici nel predire l’efficacia della politica economica nell’influenzare il ciclo.

4.1Introduzione

Studiare le caratteristiche del ciclo economico è importante per defini­re lo schema di intervento della politica economica. Di fatto quest’ul­

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

tima, nella sua definizione di politica di stabilizzazione, altro non è che il tentativo effettuato dalle autorità predisposte e con appositi strumenti (variabili di controllo) di influenzare le fluttuazioni cicliche. Le fluttuazioni, almeno nelle formulazioni tradizionali, sono determi­nate da shock esogeni di varia natura e assumono spesso la forma di fenomeni indesiderati capaci di generare welfare losses. Nelle fasi di “surriscaldamento” dell’economia, si tenta di ridimensionare l’incre­mento della domanda di prodotti e fattori produttivi e limitare la di­namica dei prezzi. In fasi recessive, al contrario, il tentativo della poli­tica di bilancio e della politica monetaria è quello di stimolare do­manda e attività produttiva. In realtà il problema è più complesso e, sia nella letteratura che nella pratica, tra gli studiosi e le autorità di politica economica rimangono ampie le divergenze su cosa si debba intendere per ciclo e, quindi, su come misurare e caratterizzare questo fenomeno. Ne consegue una visione non omogenea sulle determinanti delle fluttuazioni e sullo schema teorico da adottare per studiarle.

Per la misurazione e la definizione del ciclo economico la lettera­tura distingue due approcci. L ’approccio tradizionale, o ciclo classico, va fatto risalire alla ricerca empirica effettuata nell’ambito del Natio­nal Bureau of Economie Research ( n b e r ) , e si contraddistingue per la misurazione del ciclo economico con i movimenti nel livello dell’atti­vità economica. Questa definizione di ciclo è stata quella che ha cat­turato l’attenzione delle autorità di politica economica sin dagli anni trenta, ed è su questa definizione che i governi e le Banche centrali hanno manovrato i loro strumenti con l’intento di stabilizzare le flut­tuazioni. L ’impostazione fa perno esclusivamente sulla dinamica di breve periodo degli aggregati economici, con lo scopo di individuare i punti di svolta delle fasi cicliche, utilizzando alcune serie macroeco­nomiche capaci di rappresentare l’attività aggregata. In questo conte­sto, la descrizione del ciclo rispecchia l ’analisi della sua durata com­plessiva, delle sue singole fasi, l’ampiezza delle fluttuazioni, le even­tuali asimmetrie delle fasi cicliche e i movimenti cumulati dentro ogni singola fase recessiva o espansiva.

Un’interpretazione alternativa è quella fornita dall’approccio del ciclo di crescita. Le fluttuazioni non sono più definite con riferimento alla riduzione o all’incremento del livello aggregato dell’attività pro­duttiva, ma riguardano il livello dell’attività economica una volta che la variabile di riferimento sia stata detrendizzata-. il ciclo economico è visto come deviazione (fluttuazione) di una variabile di riferimento dal suo trend (tendenza di lungo periodo). Quest’ultimo approccio sottolinea l’importanza dei comovimenti delle variabili macroeconomi­ci it- per caratterizzare il ciclo e le sue fasi: le variabili macroeconomi­

3 2 0

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

che nella loro deviazione dal trend presentano un movimento comune. Un elemento che contraddistingue l’approccio ciclo-crescita da quello classico è l’importanza che assume la componente di trend (o di lungo periodo) nelle variabili. Se con la componente di trend si fa riferimen­to alla componente di crescita delle variabili, ne risulta che le fluttua­zioni cicliche sono intimamente legate al sentiero di crescita dell’eco­nomia '.N e l confronto dei due approcci emerge anche un aspetto me­todologico. Mentre l ’approccio tradizionale è proteso a costruire indi­catori ciclici e algoritmi capaci di prevedere i punti di svolta e quindi definire le singole fasi cicliche, nell’approccio di ciclo-crescita è estre­mamente importante il filtraggio delle serie economiche. Le statistiche ricavate per definire le caratteristiche del ciclo (volatilità, correlazione e cross-correlazione) dipendono dal metodo utilizzato per distinguere, nelle singole variabili, le componenti di trend e di ciclo.

I due approcci di definizione e di quantificazione delle fluttuazio­ni cicliche hanno influenzato gli schemi teorici definiti per analizzare il ciclo. Da un lato le teorie tradizionali, caratterizzate dal ruolo svol­to dagli eventi esogeni, dalla politica economica e dal comportamento politico. Queste teorie si basano sulla definizione tradizionale del ci­clo economico e confidano sulla possibilità di controllare o comun­que influenzare le fluttuazioni aggregate. La teoria del ciclo di equili­brio costituisce un approccio alternativo alle teorie tradizionali. I mo­delli di questo schema teorico per spiegare le fluttuazioni cicliche ri­corrono al comportamento ottimizzante degli agenti. Shock tecnologi­ci che, in maniera casuale, incidono sulla produttività dei fattori cau­sano la reazione degli agenti economici. Questa reazione si realizza con un mutamento dei loro comportamenti in termini di risparmio, investimento, domanda di lavoro ecc., che genera fluttuazioni degli aggregati macroeconomici. La teoria è coerente con la definizione del ciclo di crescita. Le implicazioni per la politica di stabilizzazione di

i . Questi approcci all’analisi empirica delle fluttuazioni macroeconomiche sono tuttora discussi nella letteratura sul ciclo. A d esempio, un ’analisi contrastante di ciò che debba essere definito e misurato come ciclo e della sua importanza ai fini dell’in­teresse per le autorità di politica economica è fornita da Cooley, Prescott ( 1 9 9 5 ) e Harding, Pagan (2000; 2002). In particolare Harding e Pagan sottolineano come la definizione del ciclo tradizionale sia quella considerata dalle autorità economiche e dagli istituti di previsione interessati all’analisi della congiuntura e delle fluttuazioni, mentre «studing thè growth cycle, whilst it may be fun and interesting, is therefore not particularly relevant to thè concerns o f most policy makers». I due autori prose­guono indicando anche la superiorità dell’approccio tradizionale per l ’utilizzo diretto di statistiche relative ai fatti attinenti alle fluttuazioni invece di richiedere tecniche di rimozione del trend.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

questo approccio sono rilevanti, in quanto le fluttuazioni cicliche sono risposte ottimali degli agenti e quindi costituiscono una soluzio­ne Pareto-ottima.

Il capitolo inizia con un’analisi storica dei problemi accennati in questa introduzione (p a r. 4.2) e poi prosegue con l’analisi empirica dei due approcci, del ciclo classico e del ciclo-crescita, dopo aver passato in rassegna alcuni elementi dell’analisi delle serie storiche ( p a r r . 4.3-4.4). Successivamente, nel p a r . 4.5, vengono presentate al­cune determinanti economiche e politiche del ciclo. L ’ultima parte del capitolo è dedicata ai modelli di ciclo di equilibrio.

4.2Un po’ di storia 2

La ricerca sulle fluttuazioni economiche è progredita rapidamente dal quando Robert Lucas agli inizi degli anni settanta ravvivò l’interesse per la teoria del ciclo economico. Prima della pubblicazione della Ge­neral Theory o f Employment, Interest, and Money di Keynes (nel 1936), il ciclo economico era un argomento ben definito della teoria economica. La teoria del ciclo agli inizi del secolo scorso ebbe un ragguardevole impulso dovuto allo studio empirico delle fluttuazioni. Analizzando i periodi di prosperità e i periodi di declino, diversi au­tori avevano messo in evidenza un sorprendente grado di regolarità ira le caratteristiche dei cicli.

Wesley Mitchell, Simon Kuznets e Frederick Mills documentaro­no in maniera attenta le caratteristiche delle fluttuazioni cicliche sulla base dei dati disponibili per gli Stati Uniti e altre economie. In parti­colare, Mitchell documentò la simultaneità di movimento (comovi- u/enlo) delle variabili nel ciclo, e considerò questo fenomeno utile per apprendere come prevedere fasi economiche espansive e recessive. Mills analizzò il comportamento dei prezzi e in particolare il comovi- menlo di prezzi e quantità nelle fasi di espansione e di contrazione dell’economia. Mills credeva che questo avrebbe portato a spunti im­puri anti per capire le origini dei cicli. La sua intuizione era basata Niill’ipolcsi che, se i prezzi apparivano prociclici, cioè tendevano ad aumentare nelle fasi di espansione mentre diminuivano in quelle re­cessivi-, le fluttuazioni erano generate dal lato della domanda (de- nhunl tir/pen), mentre se i prezzi si rivelavano anticiclici, ciò implicava < lie le lini Inazioni erano generate dal lato dell’offerta (supply-driven).

■ Uih-mIo |);ii';i;',ial(i si basa essenzialmente sul lavoro di Cooley, Prescott (199;) 1 di 1 II 1.11 f<-1 | r r ( >(><»>) (per il riquadro 4 .1 ) .

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

Kuznets studiò i pattern di crescita e delle fluttuazioni. L ’analisi em­pirica di questi ricercatori rivelò caratteristiche delle fluttuazioni eco­nomiche sorprendentemente simili sia nel tempo che attraverso i pae­si. Questa evidenza portò a postulare la possibilità che i cicli econo­mici potessero essere spiegati mediante regole o leggi economiche {economie laws).

Gli anni trenta rappresentano un periodo piuttosto attivo per la ricerca sul ciclo economico. Il National Bureau of Economie Research ( n b e r ) continuava il programma iniziato da Mills, Kuznets e Mitchell sulla documentazione empirica delle caratteristiche del ciclo. Dalla collezione ed elaborazione dei dati emergeva che le fluttuazioni cicli­che erano un evento ricorrente con molte similarità nel tempo e tra i vari paesi. Questo risultato sollecitò molti tentativi di spiegazione del ciclo e la costruzione di schemi teorici destinati a questo scopo.

In particolare, in questo periodo diversi autori tentarono di spie­gare perché i cicli avvengono con regolarità nei sistemi economici. Ragnar Frisch, agli inizi degli anni trenta, considerava il ciclo come un set di fasi depresse dell’economia che risultano dalla propagazione all’economia di shock casuali. Il modello di ciclo economico di Frisch mostrava che le fluttuazioni cicliche potevano essere generate dalla soluzione di equazioni alle differenze di secondo ordine, e che queste potevano essere utilizzate per specificare un sistema economico. In quegli anni Eugen Slutzky (1937) avanzò una teoria alternativa, uti­lizzando anch’esso delle equazioni alle differenze. Slutzky mostrò come la somma di shock casuali che colpisce un’economia, rappre­sentata da una equazione alle differenze stocastica stabile con radici reali positive, sia in grado di generare fluttuazioni che assomigliano al ciclo economico 3. Ulteriori teorie sul ciclo negli stessi anni sono state avanzate, tra gli altri, da Kalecki, Schumpeter (che sottolineava il ruo­lo delle innovazioni tecnologiche nel determinare una crescita di lun­go periodo e nel generare cicli) e Meltzer che studiò il ciclo delle scorte. In questo periodo si assistette ad una proliferazione di modelli di ciclo economico senza, tuttavia, che questi portassero un progresso reale nel risolvere domande importanti.

I primi tentativi nel costruire modelli econometrici per l ’economia aggregata erano motivati proprio dal desiderio di sottoporre a verifica

3. Queste informazioni vanno considerate sotto l ’aspetto storico, senza preoccu­parsi del riferimento alle equazioni alle differenze, accennate nel testo. L ’elemento so­stanziale che dovrebbe essere rilevato è che con Frisch e Slutzky il disturbo stocastico assume per la prima volta un ruolo nel determinare le fluttuazioni cicliche. Una sem­plificazione di questo aspetto si trova nel riquadro 4.1.

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

le diverse teorie del ciclo economico. I cicli economici sono fenomeni dinamici, ma gli economisti a quel tempo non avevano gli strumenti teorici e metodologici per analizzarli con modelli rigorosi. L ’analisi empirica, usata per definire leggi economiche, sembrava la strada più fruttuosa da seguire.

Alla fine degli anni quaranta, l’interesse sul ciclo economico in sé declinò anche come conseguenza della pubblicazione della General Theory di Keynes. La “rivoluzione keynesiana” che seguì la pubblica­zione di questo volume spostò l’attenzione lontano dal ciclo economi­co 4. Il problema per i macroeconomisti divenne spiegare le forze che determinano il livello dell’output economico in un dato periodo, con­dizionato dalla storia precedente dell’economia. A questa agenda di ricerca, suggerita dalla General Theory, fu dato un contenuto empiri­co dagli importanti contributi di Tinbergen e Klein di cui abbiamo parlato a lungo nel c a p . i . La preoccupazione più rilevante era la co­struzione di modelli analitici ed econometrici con cui studiare le de­terminanti del prodotto e dell’occupazione e gli effetti che diverse politiche economiche erano capaci di generare su questi aggregati. Occorre ricordare che in quegli anni gli Stati Uniti e la Gran Breta­gna stavano uscendo dalla seconda guerra mondiale. La guerra inoltre stava producendo una grande distruzione dello stock di capitale in molti paesi occidentali. Gli economisti erano preoccupati che il pro­lungato declino economico della Grande Depressione potesse ripre­sentarsi dopo la guerra. In questo contesto comprendere le determi­nanti del livello dell’output era necessario per definire politiche (poli­tiche di stabilizzazione) capaci di influenzarlo ed eventualmente pre­venire il ripresentarsi di crisi economiche su vasta scala quali la Gran­de Depressione.

Il mutamento di obiettivo nella teoria macroeconomica indirizzò la ricerca empirica successiva esclusivamente ai problemi della deter­minazione dell’output, piuttosto che allo studio dell’intera forma e caratteristiche del ciclo economico. Questa agenda di ricerca, combi­nata con la crescente disponibilità di serie storiche e di dati economi­ci aggregati, portò alla creazione di modelli completamente specificati per catturare il processo di determinazione dell’output. Con l’eccezio­ne di Adelman e Adelman (1959), che mostrarono in un importante lavoro alla fine degli anni cinquanta come un modello econometrico, sviluppato da Lawrence Klein, forniva fluttuazioni simili a quelle del

4. Ricordiam o che questa breve analisi storica è ricavata dal lavoro di Cooley, Prescott (1995) e che queste osservazioni, condivise da chi scrive, riflettono il punto di vista degli autori.

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4 . LE F L U T T U A Z I O N I C I C L I C H E : A S P E T T I E M P I R I C I E T E O R I C I

ciclo economico quando sollecitato da shock casuali, l ’interesse nella comprensione sul ciclo economico come evento ricorrente scemò fino ai lavori di Lucas (1972; 1975) e Kydland e Prescott (1982). Questi lavori resero di nuovo vivo l’interesse nell’analisi teorica ed empirica sul ciclo economico.

Negli anni cinquanta si sviluppò un nuovo filone di ricerca, di­staccato dall’emergenza della macroeconomia keynesiana. In quegli anni ravvivò l’interesse per la comprensione delle leggi di moto di lungo periodo dell’economia e per i problemi che imponeva. Questo indirizzo costituiva l ’agenda di ricerca della teoria moderna della cre­scita iniziata con Harrod e Domar e sviluppata nella sua più impor­tante espressione nel lavoro di Robert Solow. In maniera analoga alla teoria del ciclo economico, la teoria moderna della crescita economi­ca era basata sull’osservazione delle regolarità empiriche. Man mano che i dati economici si rendevano disponibili, diveniva palese che la crescita economica, nei diversi paesi, mostrava eccezionali regolari­tà empiriche nel tempo. Queste osservazioni, chiamate da Nicholas Kaldor (1957) i «fatti stilizzati» della crescita economica, divennero il benchmark della teoria della crescita economica. I fatti stilizzati ca­ratterizzati nel lavoro di Solow (1970) sono sei.1. Il prodotto reale cresce più o meno ad un tasso costante.2. Lo stock di capitale reale cresce anch’esso a un tasso costante e più elevato del tasso di crescita dell’input lavoro.3. I tassi di crescita dello stock di capitale e del prodotto tendono ad essere simili.4. Il rapporto tra profitti e capitale ha un trend orizzontale.5. Il tasso di crescita del prodotto prò capite varia in maniera rile­vante da un paese all’altro.6. Economie con un’alta quota di profitti sul reddito tendono ad avere un alto rapporto investimenti/prodotto.

Analizzando le implicazioni di queste regolarità empiriche, notia­mo come il terzo e quarto fatto stilizzato implichino che la quota di capitale sul reddito totale è costante, mentre il secondo e terzo fatto stilizzato indicano un rapporto investimenti/prodotto costante. I pri­mi quattro fatti stilizzati descrivono un’economia caratterizzata da crescita bilanciata. La grandezza di un’economia caratterizzata da cre­scita bilanciata cambierà nel tempo, ma la composizione del prodotto non muterà. Nel periodo in cui Kaldor sintetizzava le principali infor­mazioni economiche riguardanti la crescita, il progetto di sviluppare un modello teoreticamente coerente diveniva un obiettivo prioritario per gli economisti in Inghilterra e negli Stati Uniti. Le osservazioni di cui si è parlato hanno condotto la teoria della crescita ad esplorare le

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l e z i o n i : d i p o l i t i c a e c o n o m i c a

proprietà di modelli di economie con crescita bilanciata o con sentie­ri di steady state ben definiti, e ad analizzare se economie artificiali, inizialmente fuori dallo stato stazionario, producono sentieri dinamici per le variabili che tendono a convergere verso di esso. Il quinto e sesto fatto stilizzato hanno creato più difficoltà per la teoria neoclassi­ca della crescita e alcuni indirizzi della moderna teoria della crescita endogena riguardano proprio queste caratteristiche.

Il modello neoclassico dell’accumulazione di capitale riproduce molti di questi fatti stilizzati riguardo la crescita economica ed è coe­rente con molte caratteristiche attuali delle economie. In molte eco­nomie industrializzate il prodotto prò capite, il capitale per lavoratore e la produttività crescono nel tempo. Robert Solow usò il modello di crescita neoclassico come base per decomporre la crescita del pro­dotto prò capile nella parte dovuta agli incrementi degli input (lavoro e capitale) e nella parte attribuibile ad aumenti della produttività. I risultati di Solow spinsero verso una vasta ricerca sulla misurazione della produttività e svilupparono modelli di crescita matematici con diversi modi per incorporare le variazioni tecnologiche.

La cosa sorprendente dello sviluppo della teoria della crescita è che per un arco di tempo piuttosto lungo questo filone di ricerca non influenzò, e non fu influenzato, dagli sviluppi della macroeconomia empirica. Gli studi sul comportamento di breve periodo o sulle flut­tuazioni e gli studi sulla crescita di lungo periodo si svilupparono in maniera distinta e indipendente. Il punto di vista generalmente accet­tato fu che era necessaria una teoria per spiegare la crescita di lungo periodo e una teoria completamente diversa per spiegare le fluttuazio­ni dell’output di breve periodo. Tuttavia, alcuni importanti contributi della teoria della crescita gettavano le fondamenta per pensare alla teoria della crescita e al ciclo economico in un unico contesto. Uno tra i più importanti di questi lavori fu lo studio della crescita ottima in una economia con shock di produttività stocastici operato da Brock e Mirman (1972). Un secondo sviluppo importante di quegli anni fu l ’introduzione della scelta di lavoro-tempo libero nel modello neoclas­sico base. Questi sviluppi costituiscono il blocco fondamentale del­l’approccio moderno dello studio del ciclo economico.

La teoria moderna del ciclo economico considera crescita e flut­tuazioni come fenomeni non distinti. Al contrario, questi fenomeni economici vanno studiati con i medesimi dati e lo stesso impianto analitico. La teoria moderna utilizza semplici economie artificiali come un utile veicolo per analizzare e valutare le caratteristiche importanti delle economie per l’analisi del ciclo economico. Un aspetto che con­traddistingue questi modelli economici riguarda le soluzioni e i risul-

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4 . LE ELUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

R IQ U A D R O 4 . 1

Le “onde casuali” di Slutzky e gli “shock casuali” degli Adelman

In un articolo pubblicato in russo nel 1927 e tradotto in inglese dieci anni più tardi lo statistico ed economista russo Eugen Slutzky descrisse in detta­glio come eventi casuali potevano generare movimenti ciclici nei dati eco­nomici. La “scoperta” di Slutzky si articola in due fasi. Nella prima fase definì una serie di numeri estratti casualmente, ognuno dei quali era un numero intero tra 0 e 9. Se questa serie di numeri è riportata su un grafico, produce una linea che si muove in alto e in basso senza mostrare una parti­colare tendenza. Questo movimento riflette il fatto che i numeri, essendo estratti in maniera casuale, non determinano nessuna relazione tra loro. Successivamente Slutzky costruì una nuova serie addizionando, 10 alla vol­ta, i numeri casuali che compongono la serie nel modo seguente. Il primo numero della nuova serie era la somma dei primi 10 numeri casuali, il se­condo numero della nuova serie era la somma dei numeri casuali che van­no da 2 a 1 1 , e così via. Ogni numero della nuova serie era una somma di10 numeri casuali. Nella nuova serie le differenze in valore tra numeri adia­centi potevano al massimo essere di nove, ma le differenze tra numeri non adiacenti ma più ampiamente separati erano molto più grandi. Slutzky notò che questa combinazione dei “fatti” - i membri della serie adiacenti assumevano valori simili che divenivano molto diversi per i membri più distanti della serie - implicava movimenti analoghi a “onde” o cicli. Slutzky confrontò la nuova serie definita da una somma mobile di 10 valori con un indicatore del ciclo economico inglese, riscontrando una ragguardevole e sorprendente similarità. Questa analisi persuase molti teorici del ciclo eco­nomico a ricercare una spiegazione del ciclo negli effetti cumulati di vari shock casuali che colpiscono l’economia. Il risultato di Slutzky non fa ri­corso a nessuna teoria, e quindi non spiega il perché gli aggregati macroe­conomici sono bene approssimati da una somma di variabili casuali.

Più tardi, alla fine degli anni cinquanta, Irma Adelman e Frank Adel­man misero in evidenza ancora una volta il ruolo degli shock casuali nel determinare le fluttuazioni cicliche. Gli Adelman utilizzarono uno dei pri­mi modelli econometrici per l’economia u s a (il modello di Klein-Gold berger) con un esperimento di simulazione basato sull’utilizzo eli dm- shock diversi per determinare le fluttuazioni cicliche. Il primo shock con sisteva nel modificare in maniera casuale il valore di una variabile osserva bile (ad esempio, il tasso di interesse di breve o di lungo periodo, la s|>e sa pubblica ecc.) e nel verificare se tale shock produceva delle f l ut t uaz i oni

degli aggregati macroeconomici del modello. Questo tipo di shock n on

ebbe successo nel riprodurre una dinamica delle variabili simile a q ue l l a

presentata dal ciclo dell’economia statunitense. Il secondo shock u n i : .1 to dagli Adelman si basava sul gap tra la soluzione del modello e c o n o m e

trico e i valori storici delle variabili macroeconomiche. Q u e s t e d e v i a / i o n i

sono i residui non spiegati delle singole equazioni del m o d e l l e . T u l i . i n d o

•S27

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L K Z J O N I D I P O L I T I C A E C O N O M I C A

questi residui come shock casuali, gli Adelman poterono constatare che riuscivano a provocare fluttuazioni degli aggregati macroeconomici che approssimavano bene il ciclo economico degli Stati Uniti. Il problema ri­levante è che il ciclo economico è spiegato da shock casuali che non sono osservabili e che non corrispondono a specifici fattori.

tati a cui pervengono in termini di fluttuazioni degli aggregati ma­croeconomici. Queste soluzioni non si generano in maniera arbitraria, ma piuttosto riflettono soluzioni di equilibrio ottenute da agenti ra­zionali. Il costruttore di economie artificiali non condivide lo spirito della tradizione macroeconomica del dopoguerra di Tinbergen, Klein e degli altri autori ricordati nel g a p . r, anche se condivide con questo approccio la necessità di specificare modelli capaci di effettuare anali­si quantitative. Le economie artificiali vanno intese come utili labora­tori per studiare il ciclo economico e la politica economica. L ’obietti­vo di questa ricerca è comprendere meglio il comportamento delle economie attuali studiando gli equilibri di queste economie “ sinteti­che” . La realizzazione di questo obiettivo richiede un attento connu­bio tra la teoria economica e le osservazioni empiriche.

Dopo questa breve analisi storica sullo studio del ciclo e sulla re­lazione tra ciclo e crescita economica, iniziamo ad analizzare le di­verse concezioni e misurazioni del ciclo. L ’approccio n b e r e l ’approc­cio “ciclo di crescita” rappresentano due modi diversi di misurare e considerare il ciclo. Alcuni dei paragrafi successivi sono dedicati allo studio di questi metodi. Tuttavia, per affrontare l’approccio del ciclo di crescita è necessario che lo studente conosca le caratteristiche di una serie storica e delle sue principali componenti. A questo fine gran parte del p a r . 4.4 rappresenta una introduzione ai vari aspetti statistici della componente di una serie storica che descrive il ciclo (le variazioni di breve periodo) e della componente di trend (la tendenza di lungo periodo).

4-3L ’analisi empirica del ciclo economico

Gli episodi di crisi ricorrenti (o il periodico ritorno delle crisi) erano già osservati e commentati alla fine del Settecento. Tuttavia i proble­mi indagati tra il xvin e il x ix secolo erano sostanzialmente problemi di crescita di lungo periodo. In questo contesto poco spazio era indi­rizzato dai teorici dell’epoca all’analisi sistematica dei cicli. La teoria economica era intenta a definire concetti teoretici come Xequilibrio,

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4 . Lli F L U T T U A Z I O N I C I C L I C H E : A S P E T T I E M P I R I C I i.;, T E O R I C I

mentre il ciclo economico, sebbene rappresentasse delle interruzioni rilevanti e dolorose alla crescita e alla “prosperità” , era un evento em­pirico sostanzialmente legato all’evoluzione storica. L ’idea rilevante era quella di cercare le maggiori determinanti dei livelli medi e dei tassi di crescita dell’attività economica senza considerare o studiare in maniera sistematica le sue fluttuazioni. Soltanto nei primi decenni del x x secolo diviene importante analizzare la transizione da quelle che allora erano chiamate fasi di prosperità alle fasi di depressione e crisi, e da queste ultime alle fasi di “ rinascita” . Questi primi studi si soffer­mavano sulla dinamica e l’intensità (una depressione severa o leggerao una crescita rapida o lenta e difficoltosa) delle fasi cicliche, ma era ancora lontana un’analisi capace di caratterizzare l ’andamento degli aggregati macroeconomici. La raccolta sistematica dei dati, la loro elaborazione e organizzazione nasce con i progetti di studio e di ana­lisi dei cicli del n b e r . Con un’analisi di vasta portata sui mutamenti delle condizioni economiche si iniziò a costruire e documentare le cronologie storiche di diversi paesi5,

L ’analisi del ciclo economico trova pieno sviluppo nell’ultimo se­colo e fu intrapresa in maniera sistematica da Wesley Mitchell, inda­gando sulle regolarità mostrate dalle serie economiche. Mitchell per­viene alla seguente definizione di ciclo economico:

Un ciclo consiste in espansioni che intervengono quasi nello stesso periodo in molte attività economiche, seguite in maniera simile da recessioni, con­trazioni e riprese che confluiscono dentro una fase di espansione nel ciclo successivo; questa sequenza di variazioni è ricorrente sebbene non periodica; nella durata i cicli economici variano da più di un anno a dieci o dodici anni; essi non sono divisibili in cicli più brevi di carattere simile e con di­versa ampiezza.

Il punto importante di questa definizione ripresa dall’opera di Burns e Mitchell (1946) è il comovimento di diverse variabili economiche che interviene con un certo sincronismo nel corso del ciclo economi­co (Zarnowitz, T992) 6. La caratteristica saliente che permette di par­

5. Un resoconto di questi lavori e un ’applicazione del metodo n bh r all’analisi del ciclo dei maggiori paesi occidentali è in Gallegati, Stanca (1998),

6. Questa affermazione è contrastata da H arding e Pagan (2000; 2002). Secondo questi autori, Burns e M itchell suggeriscono l ’utilizzo di un ampio set di serie m a­croeconomiche al posto di una singola serie per definire o misurare il ciclo econom i­co. Nessuna serie è disponibile a cadenza mensile o trimestrale per il periodo indaga­to per approssimare il pattern dell’attività aggregata dell’economia. In sostanza, il m e­todo utilizzato consisteva nell’individuare i punti di svolta nelle serie con cui definire dei cicli specifici e, successivamente, identificare il ciclo aggregato con l’ausilio dell’ in

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U N Z IO N I 1)1 P O L I T I C A E C O N O M I C A

lare di ciclo è quella che successivamente verrà definita la coerenza tra numerose variabili (la loro conformità ciclica). Il carattere considere­vole di questo lavoro, che diverrà negli anni successivi l’elemento che permetterà di sviluppare una teoria del ciclo, fu la documentazione delle similarità di tutti i cicli economici intervenuti nei periodi di pace. Tenuto conto della durata, ogni ciclo infatti tende ad esibire lo stesso pattern di comovimento tra le variabili. Queste considerazioni estratte dall’analisi empirica sono alla base dello sviluppo teorico dei cicli economici. Oltre trenta anni più tardi, Lucas (1981) argomenterà che sulla base di una analisi empirica robusta, si può definire qualco­sa come il ciclo economico tipo. Il ciclo può essere separato in fasi, invarianti nel carattere (se non in durata), e questo suggerisce che una sostanziale parte delle fluttuazioni osservate può essere spiegata ad un livello astratto o semplice mediante una singola spiegazione teoretica del ciclo. Sotto questo aspetto tutti i cicli sono uguali.

Il problema che tuttavia condiziona l’analisi di queste regolarità empiriche e la rende particolarmente complessa è che le fluttuazioni macroeconomiche coinvolgono molti processi che, se sollecitati, inter­agiscono e generano essi stessi delle reazioni. Questi processi non ri­guardano soltanto aspetti di carattere economico, ma anche politici e sociali che contribuiscono a generare controversie sia sulle fonti gene­ratrici delle fluttuazioni (basti pensare alle discussioni sugli shock di natura reale o monetaria, o quelli di offerta o di domanda aggregata) sia sui soggetti e le istituzioni che definiscono le reazioni (autorità di politica economica, politici, consumatori e imprenditori). Se si osser­va l ’attività economica di un paese, caratterizzata dal comportamento di molteplici variabili di natura reale e finanziaria, si può notare come nel tempo queste variabili non presentino un andamento uniforme (costante o di crescita) ma un sentiero determinato da condizioni di­verse che si susseguono in maniera alternata anche se con alcune re­golarità.

Tutte le economie industrializzate presentano significative varia­zioni di breve periodo nell’output e nell’occupazione. Insieme a que­ste variabili si riscontrano altrettanto significative variazioni dei salari e della disoccupazione. Spesso alcune di queste variabili si muovono insieme. Ad esempio, produzione e occupazione salgono e cadono in maniera più o meno sincrona e con una certa intensità, almeno in alcuni paesi. Altre relazioni presentano un andamento inverso, è il

formazione derivata dai cicli specifici, espresso nei livelli delle serie. E il processo di conoscenza dei cicli che richiede l ’analisi dei comovimenti delle serie, e questi do­vrebbero essere considerati com e una caratteristica secondaria dell’analisi del ciclo.

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4 . L E F L U T T U A Z I O N I C I C L I C H E : A S P E T T I E M P I R I C I E T E O R I C I

caso della produzione con la disoccupazione. Alcune variabili, infine, mostrano una relazione poco significativa con altre variabili pur ma­nifestando oscillazioni che a volte non si presentano robuste (relazio­ni tra variabili che cambiano di segno).

Le caratteristiche del ciclo economico, quali la sua ampiezza, la durata e l ’intensità, hanno subito nel corso degli anni mutamenti do­vuti alle condizioni strutturali, ai cambiamenti istituzionali e agli shock esogeni che colpiscono l’economia. L ’analisi cronologica delle fluttuazioni cicliche dal dopoguerra ad oggi mostra delle eterogeneità e delle regolarità. I comportamenti delle componenti della domanda aggregata, dei prezzi e delle variabili del lavoro, ad esempio, mostra­no una diversa volatilità e intensità nei diversi periodi storici. La du­rata media delle fasi cicliche muta nei diversi sottoperiodi considerati, così come alcune asimmetrie relative all’intensità delle espansioni e delle recessioni.

4.3.1. Le caratteristiche delle fluttuazioni economiche

Tra le caratteristiche dei cicli economici, particolarmente importante risulta la direzione (direction) e la sincronizzazione {timing) delle varia­bili macroeconomiche. La direzione di una variabile è espressa in ter­mini relativi all’aggregato dell’attività produttiva. Se per quest’ultimo consideriamo il p il , allora possiamo definire una variabile economica prociclica se si muove nella stessa direzione del p il , mentre sarà anti­ciclica se la sua direzione risulta opposta a quella del p i l 7. Una varia­bile può essere definita aciclica se il suo movimento è analogo a quel­lo del p i l ma la sua intensità risulta modesta. Il termine tecnico per definire questa intensità di movimento è la correlazione. In particola­re, nell’analisi ciclica è importante la correlazione tra le singole varia­bili ed il p il . Questa misura considera come due variabili si muovono (co-variano). In particolare ci indica l’intensità della relazione e la sua direzione (positiva o negativa). In termini tecnici è quindi espressa dalla covarianza delle due variabili senza tener conto della loro unità di misura. Per sincronizzazione si intende la capacità di una variabile di essere coerente con i punti di svolta {turning points) del ciclo. Que­sti punti definiscono i picchi e gli avvallamenti (peaks e troughts) del

7. Ricordiam o che il p i l (prodotto interno lordo) costituisce il valore complessi vo dei beni e servizi prodotti in un paese (al lordo degli ammortamenti e al nello dei beni intermedi prodotti da alcune imprese e utilizzati da altre imprese), e<l è eqniv.i lente alla somma dei valori aggiunti (prodotti lordi) definiti dalli- impresi- o p e i a m i m I

territorio nazionale e presso l ’Amministrazione pubblica.

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I I /.H >N I I »! IM )| .1 n « .A I ■( a >N< >M h ,.\

c ic lo s t i l iz z a t i n e l la f i g . 4 . 1 . È q u in d i im p o r t a n t e s t a b i l i r e s e u n a v a ­

r ia b i le p o s s ie d e le s e g u e n t i c a r a t t e r is t ic h e :

a) anticipa i punti di svolta del ciclo (leading variable)-,b) coincide con i punti di svolta del ciclo {coinciderti variable)',c) ritarda a coincidere con i punti di svolta del ciclo (lagged variable).

L ’aspetto definito dal punto a) riveste un particolare interesse pergli operatori economici e le autorità di politica economica, in quanto le variabili macroeconomiche che possiedono questa proprietà e ten­dono ad anticipare i punti di svolta del ciclo (un punto di boom e una recessione) sono importanti per prevedere l’andamento dell’eco­nomia nel breve periodo (nei periodi futuri più ravvicinati) e quindi predisporre operazioni o politiche appropriate all’imminente cambia­mento dell’economia. Per definire se una variabile anticipa il ciclo è quindi importante analizzare la componente ciclica della variabile di interesse in raffronto a quella del p i l .

A volte può rivelarsi insufficiente la semplice esposizione grafica dell’andamento delle variabili. A tale proposito alcuni istituti di anali­si e previsione definiscono correntemente la dinamica ciclica di deci­ne e decine di variabili, costruendo degli indicatori compositi da più variabili (leading indicators). Questi indicatori sono utilizzati per otte­nere informazioni tempestive sull’andamento ciclico futuro dell’eco­nomia. E intuitivo che avere “ segnali” utili per prevedere su un oriz­zonte molto breve (3-6 mesi) la direzione dell’attività economica ed essere così in grado di anticipare l ’inizio di una recessione o di un’e­spansione dell’economia riveste una notevole importanza 8.

Gli indicatori o le variabili che tendono a rilevare in ritardo i punti di svolta hanno un ruolo relativamente minore nell’analisi pre­visiva del ciclo economico. Per questo motivo, e coerentemente con la tradizione n b e r , si sono costruiti sin dagli anni sessanta i coincident e leading indicators: indicatori sintetici per ottenere misure affidabili sull’evoluzione del ciclo, costruiti selezionando con criteri statistici e aggregando in indicatori gruppi di variabili con determinate caratteri­stiche relative ai punti di svolta del ciclo. Questi indicatori non co­stituiscono un’analisi approfondita dell’attività economica; inoltre,

8. N ell’ ambito dell’analisi ciclica è importante la raccolta puntuale e l’elaborazio­ne continua di dati e indicatori a cadenza quanto più frequente possibile. Questa ana­lisi dettagliata dell’evoluzione economica, insieme alla registrazione di eventuali nuovi eventi e al loro intrecciarsi con gli elementi dinamici dell’economia, è chiamata con­giuntura economica. Per una rassegna degli strumenti dell’analisi congiunturale e in particolare delle misure utilizzate per individuare la corretta dinamica dei fenomeni economici, si veda Cipolletta (1992) e Rapacciuolo (2002).

3 3 2

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4 . t.l! F L U T T U A Z I O N I C I C L I C H E : A S P E T T I H M P J K 1 C J E T E O R I C I

I T C U R A 4 . 1Una stilizzazione delle fasi del ciclo economico

nessun criterio di natura economica e nessuno schema teorico è con­siderato nella loro costruzione. Essendo costruiti con una determinata combinazione di un numero di variabili (serie temporali), gli indicato­ri compositi sintetizzano l’informazione contenuta in queste variabili per valutare l ’andamento dell’attività economica. Tuttavia, è utile sot­tolineare che questo carattere di sintesi costituisce anche il loro limi­te, in quanto aggregando le informazioni in modo predefinito si pos­sono oscurare alcuni importanti elementi della dinamica delle singole serie, utili per analizzare la fase ciclica.

Dal punto di vista metodologico, la specificazione e la misurazio­ne delle fluttuazioni cicliche è generalmente definita con l ’approccio (“ degli indicatori” ) conosciuto come n b e r 9. L ’approccio, come già

9. Il processo di definizione dei punti di svolta con le relative caratteristiche è piuttosto complesso e richiede un algoritmo. Il metodo di Bry e Boschan ( 1 1>/ 1 ) <■ utilizzato dal n b e r . Esistono diversi metodi per qualificare e quanlilicare i pumi di svolta del ciclo. Su questo aspetto e sulle tecniche comunemenle adunale m v <Li. |» 1 esempio, Boldin (1994). Il problema con la metodologia c la pi. un .1 nini ■ >1" 1picchi massimi e minimi del ciclo sono determinali e ......... .. u h i *I->|>■ > I 1 I........... 111 >realizzazione. Per la politica economica, a v e r e q m •.!, m i e ...................... m ........ . 1 ,1

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L E Z I O N I D I P O L I T I C A E C O N O M I C A

accennato, deriva dagli studi sul ciclo dell’economia statunitense ini­ziati sin dagli anni trenta da Burns e Mitchell (1946) e proseguiti in maniera più completa da un gran numero di ricercatori durante gli anni sessanta al National Bureau of Economie Research. L ’insieme di questi lavori ha contribuito a definire un approccio metodologico per identificare le fasi del ciclo dell’economia, correntemente utilizzato dalle istituzioni economiche predisposte all’analisi ciclica e congiuntu­rale nei vari paesi. L ’analisi delle fluttuazioni è determinata esclusiva- mente su base empirica e si basa sulla definizione di ciclo avanzata da Wesley Mitchell. Il ciclo è definito come fluttuazioni ricorrenti del­l’attività economica aggregata, persistenti nel tempo (da più di un anno fino ad arrivare a 10-12 anni) ed estese a tutti i settori. I cicli costituiscono movimenti di un ampio set di variabili che identificano, nel tempo, punti massimi e punti minimi muovendosi insieme verso l’alto o verso il basso. La sequenza di questi movimenti, che dà vita ad una cronologia ciclica, è identificata sulla base di un set di variabili nei loro livelli (cioè senza che sia stata loro rimossa la componente di trend) e fa ricorso al concetto di punti di svolta (turning points) e alla forma (shape) delle fluttuazioni. Lo scopo della costruzione degli in­dicatori è proprio quello di identificare un insieme di serie storiche utile per prevedere la fine di una recessione in corso o il rallenta­mento di una fase di espansione. Il problema principale della costru­zione di questi indicatori è appunto quello di individuare i turning points, le fasi di svolta del ciclo.

Spesso la variabile di riferimento, quando si analizza il comovi- mento tra due o più serie economiche è il pil a prezzi costanti. Un’al­tra variabile di riferimento è la produzione industriale. I dati su que- st’ultima variabile sono disponibili mensilmente e, quindi, costituisco­no un buon indicatore per analizzare il ciclo, mentre i dati sul p il

sono disponibili con frequenza trimestrale. In questo confronto è co­munque utile considerare che il settore industriale negli ultimi decen­ni ha subito un sensibile ridimensionamento che lo ha condotto a non rappresentare più la parte rilevante dell’economia. Ad esempio per l’intera area dell’euro il settore industriale rappresenta circa un

invece cruciale. Per far fronte a queste esigenze informative, la letteratura sta svilup­pando metodi per definire i punti di svolta in tempo reale. Chauvet e Piger (2003), con un modello M arkov-switching applicato ai dati del p i l reale e dell’occupazione, riescono a replicare la cronologia del ciclo descritta dal n b e r negli ultimi quarantan­ni, utilizzando soltanto l ’informazione che sarebbe stata disponibile nei vari episodi ciclici.

334

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

quarto dell’economia. Tuttavia, produzione industriale e p i l presenta­no profili ciclici molto simili.

Per analizzare il profilo ciclico di una variabile è spesso utile cal­colare anche la correlazione con un indicatore composito. Vedremo tra poco in termini tecnici come si definisce il coefficiente di correla­zione; per ora ci interessa soltanto sapere che misura l’intensità di movimento tra due variabili. Il coefficiente di correlazione è utile per stabilire quanto l’indicatore costruito riproduca il profilo ciclico della serie di riferimento: un alto coefficiente positivo ci indica che l’indi­catore ha un profilo ciclico molto simile alla variabile di riferimento. In questo stesso ambito è spesso utilizzato anche il test di causalità di Granger T°. In generale, come vedremo meglio successivamente, una variabile (serie storica) è determinata dai suoi valori passati: ad esem­pio, gran parte del valore del p i l riscontrato nel periodo corrente è

analoga a quella riscontrata lo scorso periodo (anno o trimestre). Una serie di riferimento, come il p i l , è quindi determinata dai suoi valori passati. In altri termini, i valori passati del prodotto interno lordo sono utili per prevederne i valori attuali, e quelli passati insieme ai valori attuali si possono utilizzare per prevedere i valori futuri. Ciò costituisce un ottimo punto per analizzare il ciclo. Se, oltre i valori passati del p i l , anche i valori passati dell’indicatore sintetico contri­buiscono a determinare il valore corrente del p i l , allora diciamo che l’indicatore composito causa, in senso di Granger, la dinamica della variabile di riferimento. Questo test ha una certa importanza per va­lutare gli indicatori, in quanto ci suggerisce che variazioni dell’indica­tore composito precedono quelle della serie di riferimento, e quindi costituisce un buono strumento per analizzare e avere informazioni utili in anticipo sul ciclo.

L ’approccio seguito dal metodo degli indicatori è appunto quello di individuare le fasi distinte del ciclo (espansione e contrazione) e successivamente identificare i punti di svolta mediante l’applicazione ripetuta di un filtro statistico per eliminare le irregolarità delle serie, come quello delle medie mobili. Di fatto, errori di vario tipo (distur­bi) possono riflettersi sull’andamento ciclico per cui effetti di misura­zione, eventi politici, particolari eventi climatici o economici possono indurre a valutare in maniera errata gli estremi di un ciclo. Questi elementi vanno distinti dalle altre irregolarità rappresentate dal ciclo e quindi richiedono che essi siano “filtrati” prima di utilizzare le serie storiche per l ’analisi ciclica.

io . Sul concetto di causalità nel senso di Granger, si veda il riquadro 1.3 .

335

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LEZIONI DI POLITICA EC O N O M IC A

RIQUADRO 4.2Analisi del ciclo in Italia

Sin dagli anni settanta, la metodologia dell’approccio degli indicatori è stata uno dei metodi più utilizzati per l’analisi delle fluttuazioni e della congiuntura di breve periodo in diversi paesi. Affiancati da altri metodi per l’analisi qualitativa degli operatori economici e dai modelli econome­trici, l’approccio degli indicatori ha portato all’elaborazione di indicatori compositi (composite leading indexes), meglio noti come superindici.

La metodologia n b e r è stata introdotta nell’analisi del ciclo economi­co in Italia dalPrsco (Istituto per lo studio della congiuntura) alla fine degli anni cinquanta. Nel 1962 fisco ha pubblicato la prima analisi sul ciclo economico italiano. La cronologia del ciclo dell’isco, ora i s a e (Isti­tuto di Studi e Analisi Economica, www.isae.it) rimane ancora oggi la cronologia ufficiale del ciclo basata sulla definizione “classica” .

L ’tsa i; svolge indagini statistiche presso imprese e famiglie. Fornisce pre­visioni macroeconomiche e analisi nazionali ed internazionali di breve-medio- lungo periodo, combinando valutazioni qualitative, indicatori statistici e i ri­sultati ottenuti con metodi quantitativi e tecniche econometriche.

I lavori di Annunziato (1992) e Schlitzer (1993) forniscono alcuni spunti storici per quanto riguarda lo sviluppo di questa metodologia per la misurazione del ciclo in Italia, mentre uno studio che arricchisce la cronologia ciclica dell’isco agli anni più recenti utilizzando nuovi indica­tori compositi è quello di Altissimo, Marchetti, Oneto (2000).

La Banca d’Italia e F i s a e hanno presentato di recente alcuni nuovi indicatori compositi. Tra questi, l’indicatore coincidente, utile a rappre­sentare l’evoluzione del ciclo aggregato, è il risultato di un’analisi com­plessa delle caratteristiche cicliche degli ultimi trentanni. In particolare, la costruzione dell’indicatore è basata sulla seguente procedura: /) si de­termina il ciclo di riferimento sulla base di 3 serie, il cui comportamento è considerato rappresentativo del ciclo aggregato: l’indice della produzione industriale, un indicatore ciclico calcolato con il metodo is'co e il p i l ; ii) successivamente si analizza il comportamento dì 183 serie storiche in rap­porto all’andamento delle 3 serie di riferimento, selezionando quelle con un comportamento ciclico più simile. La valutazione di coerenza alle fre­quenze cicliche si basa sull’analisi moderna delle serie storiche; iii) l’anali­si permette di selezionare 12 serie storiche, altamente coerenti col ciclo aggregato; iv) un’analisi basata sui punti di svolta, secondo l’approccio tradizionale del n b e r e capace di selezionare le serie che più si avvicinano alla cronologia precedente dell’isco, riduce ulteriormente queste serie a 6. L’individuazione dei punti di svolta è fatta sulle serie ai livelli ed è dun­que coerente con la definizione classica di ciclo. Le sei variabili sono: quota di lavoro straordinario nella grande industria, indice di produzione industriale, trasporto di beni su ferrovia, valore aggiunto nei servizi di mercato, investimenti in macchinari e importazioni di beni d’investimen-

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

to; v) l’indicatore ciclico è costruito aggregando i tassi di crescita mensili di ogni serie, dopo averli standardizzati, secondo l’approccio seguito dal n b e r . Analisi dettagliate del ciclo economico con gli indicatori ISA E-Banca d’Italia sono regolarmente riportate sul Rapporto trimestrale d e l l ’ isA E . L a seguente figura riporta l'indicatore ciclico iSAE-Banca-d’Italia per il periodo 1970-2002 (le aree ombreggiate rappresentano le fasi di recessione).

Indicatore del ciclo italiano (isAi>Banca d’Italia)

70 74 7 8 82 86 90 94 98 02

72 7 6 80 84 88 92 96 00

Alcuni indicatori compositi anticipatori sono periodicamente pubblicati d a l l ’ o E C D per i vari paesi. Un indicatore coincidente mensile del ciclo eco­nomico dell’area euro è pubblicato dal Centre for Economie Policy Research (c e p r ) ed è disponibile insieme alla sua descrizione in maniera det­tagliata sul sito http://www.cepr.org/Data/eurocoin/. Un’analisi aggiornata del ciclo economico nei diversi paesi, con l’identificazione dei punti di svolta dal dopoguerra ad oggi effettuata con varie metodologie, è disponibi­le sul sito dell’Economic Cycle Research Institute (e g r i ), http://www. businesscycle.com/ e su quello del Center for Economie Studies and thè i f o

Institute for Economie Research (c e s i f o ) http://www.cesifo.de/DICE.

4.3.2. Cronologia e intensità del ciclo economico italiano

Ritornando alla f i g . 4.1, questa ci mostra una particolare relazione tra trend e ciclo, con l’attribuzione di una specifica classificazione delle fasi sopra e sotto il trend, che può non corrispondere ad altre

3 3 7

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

classificazioni temporali delle fasi cicliche definite dai diversi approcci di misurazione. Ad esempio, la fase immediatamente precedente un picco massimo è spesso definita come un boom, mentre subito dopo tale picco, la fase discendente viene caratterizzata come un periodo di rallentamento del ciclo: sebbene il p i l continui a restare nella parte superiore del trend, la sua crescita avviene a ritmi decrescenti, gene­rando una graduale riduzione del livello del p i l che porta l’economia verso il livello di trend. Il proseguimento della fase discendente nella parte inferiore del trend è chiamata contrazione, mentre il raggiungi­mento del picco minimo e il periodo precedente e quello immediata­mente successivo a questo picco costituisce il periodo di recessione. La successiva fase, sebbene sia ancora inferiore al trend, costituisce un periodo di ripresa dell’economia, mentre dal punto in cui l’anda­mento del p i l supera il trend subentra una fase di crescita che perdu­ra fino a diventare di nuovo un boom. In generale, spesso si classifica come fase espansiva del ciclo il periodo definito dal punto di recessio­ne al punto di picco massimo e come fase di contrazione il periodo che parte dal punto in cui inizia la riduzione dei ritmi dell’espansione (picco massimo) al punto di svolta minimo. A questo riguardo, il Business Cycle Dating Committee del n b e r afferma nei suoi docu­menti di analisi delle fasi del ciclo: «A recession begins just after thè economy reaches a peak of activity and ends as thè economy reaches its trough» 11 . Un ulteriore aspetto su cui occorre soffermarsi riguar­da le fasi di espansione e recessione che determinano il ciclo econo­mico e che sono stilizzate nella figura. Nelle raffigurazioni stilizzate le fasi sia positive che recessive mostrano un andamento costante e con­tinuo nella loro dinamica. In realtà si susseguono fasi positive e nega­tive con caratteristiche profondamente diverse per quanto riguarda la durata e l ’intensità delle fasi stesse. La t a b . 4.1 mostra una cronolo­gia dei cicli economici per alcuni paesi d e ll ’o E C D dal dopoguerra al 1993, mentre la t a b . 4.2 riporta la cronologia e le caratteristiche del ciclo economico italiano tra il 1940 e il 1995.

Nella t a b . 4.1 sono riportati i punti di svolta (m i n -m a x ) delle flut­tuazioni cicliche nel periodo postbellico che permettono di identifica­re le varie fasi cicliche. Ad esempio, per l’Italia i punti di minimo del ciclo, che caratterizzano una situazione recessiva, sono riscontrati ne­gli anni 1945, 1958, 1965, 1972, 1975, 1983, 1993, mentre i punti di

ix. L’analisi dettagliata e periodica delle fasi cicliche dell’economia u s a , effettua­ta dal Business Cycle Dating Committee, è disponibile su http://www.nber.org/cycles/.Il Committee è composto da Robert Hall, Martin Feldstein, Jeffrey Frankel, Robert Gordon, Christina Romer, David Romer e Victor Zarnowitz.

3 3 8

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI KMIMKJCI K T);< iKK .I

TA BELLA 4 . 1

Cronologia ciclica nel Gy: p i l 1 9 4 .5 - 19 9 3 *

Italia Stati Uniti Giappone Germania Francia G B Canada

M IN 1 9 4 5 1 9 4 7 1:9 4 6 1 9 4 6 1 9 4 4 1 9 4 7 1 9 4 9

M A X 1 9 5 1 1 9 5 3 1 9 5 3 J 9 5 5 1 9 4 9 1 9 5 1 1 9 5 3M IN 1 9 5 8 1 9 6 1 i 9 6 0 1 9 5 9 1 9 5 8 1 9 6 1

M A X 1 9 6 2 1 9 6 6 1 9 6 2 I9 6 4 1 9 6 6

M IN 1 9 6 5 1 9 6 6 1 9 6 7

M A X 1 9 7 0 1 9 7 1

M IN 1 9 7 2 1 9 7 1 I 9 7 3 I 9 7 I 1 9 7 0

M A X 1 9 7 4 * 9 7 3 1 9 7 3 I 9 7 3M IN 1 9 7 5 1 9 7 5 1 9 7 7 z 9 7 5 1 9 7 5 x9 7 5M A X 1 9 8 0 1 9 7 9 I 9 7 9 1 9 7 9 x 9 7 9 1 9 7 9M IN 1 9 8 3 1 9 8 2 1 9 8 7 19 8 .5 1 9 8 2 1 9 8 2

M A X 1 9 9 0 1 9 8 9 1 9 9 0 1 9 8 9 19 8 9

M IN I 9 9 3 J 9 9 2 1 9 9 2 1 9 9 1 1 9 9 3 1 9 9 2 1 9 9 2

* U n’analisi più aggiornata è disponibile sul sito dell’ncRi, http://w\vw.busincsscycle.com/.

massimo nel periodo considerato si riscontrano negli anni 1951, 1962, 1970, 1974, 1980, 1990.

Un ulteriore aspetto che emerge dalla tabella sulla ricostruzione del ciclo riguarda la propagazione delle fasi congiunturali espansive o recessive nelle economie occidentali. Una sincronizzazione del ciclo a livello internazionale implica l ’esistenza di particolari canali di tra­smissione (i flussi commerciali tra i vari paesi) che possono divenire più o meno intensi in particolari condizioni (ad esempio sotto diversi regimi di cambio). Dalla tabella appare evidente come il ciclo sia non sempre sincronizzato tra i vari paesi. Ad esempio, se si raffrontano i punti di svolta del ciclo italiano con la cronologia ciclica degli Stati Uniti emerge che, durante gli anni quaranta e cinquanta, i punti di m i n e m a x sono sempre in anticipo (dai 2 ai 4 anni) nei confronti dei relativi punti di svolta dell’economia americana mentre risultano qua­si sempre in ritardo (di un anno) nei decenni successivi. L ’identifica­zione dei cicli che emerge dalla tabella indica anche una cronologia più omogenea tra i vari paesi negli anni 1975, 1979 e 1992.

La t a b . 4.2 riporta in dettaglio alcune caratteristiche del ciclo ita­liano, mostrando oltre i punti di svolta del ciclo, la relativa intensità e la durata in anni delle fasi. Dalla tabella emergono differenze sostan­ziali tra i cicli che si sono succeduti dal dopoguerra agli anni novanta. Nel punto di recessione nel 1945, ad esempio, il prodotto reale subi­va un drammatico ridimensionamento, cadendo di oltre il 43 % dall’i­nizio della fase recessiva nel 1940. Un evento mai più riscontrato. Nel periodo considerato, la durata media dei cicli (tra minimo e minimo

339

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

T A BE LLA 4.2Caratteristiche del ciclo italiano, p i l 1940-95

Punti di svolta Intensità (%) Durata (anni)

MIN MAX

194 5 19401958 19511965 19621972 19 7 0

19 75 I 9 7 4

1983 1980

r 9 93 1990

Media

M IN M AX

-43.7 14.6- 1.6 7.0- 2.6 1.8-1.4 1.5-3.7 3.2-2.5 3.5-2.5 2.3- 8.3 4.8

m-m M-M1 1 1 113 1 17 1 17 83 48 610 10

8.4 8.7

Espans. Contraz.6 56 74 35 22 15 37 35 3.4

L ’identificazione dei cicli è ottenuta secondo una metodologia di analisi ciclica di tipo n b e k (National Bureau of Economie Research).Un’analisi dettagliata, da cui cjucste considerazioni sono tratte, è quella di Stanca (1999).

m-m, e tra massimo e massimo M-M) è di circa 8.5 anni. Un’ulteriore caratteristica importante è che, in media, le espansioni riportano una durata maggiore delle contrazioni (5 contro 3.4 anni). La durata com­plessiva del ciclo è particolarmente diversa nel corso del periodo con­siderato, e va dai 3 anni ad una durata massima di 13 anni, mentre le espansioni e le contrazioni presentano una durata che va da 1 anno a 7 anni12.

Gli effetti macroeconomici dei cicli possono essere sintetizzati sommariamente nel seguente modo.i . Durante una fase espansiva, domanda e offerta interagiscono per­mettendo un’espansione della produzione. Il livello di produzione in questa fase è sostenuto da un livello di domanda, permettendone la crescita. Durante le fasi recessive avviene il contrario, generando una riduzione dei livelli di produzione e di reddito.i . La domanda dei consumatori può essere sostenuta dalla disponibi­lità di credito. La fase espansiva può essere particolarmente agevolata qualora la quantità di credito disponibile riesca ad incrementare la domanda dei consumatori in misura maggiore del loro reddito dispo­nibile. Necessariamente questa espansione del credito dovrà terminare generando una riduzione della domanda e quindi della fase espansiva r, successivamente, una contrazione ancora più consistente.

I consumi nella fase espansiva presentano accelerazioni che spesso min possono essere sostenute dal credito o dal reddito disponibile.

r -■ Il l;ivom <li S lanci ( lyy y) effettua un’analisi più dettagliata sulle singole fasi i I. li. li. ;i< . ostandole ad (.•velili e fattori specifici.

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

Anche gli investimenti sono soggetti a tali accelerazioni proprio per beneficiare della fase espansiva. Questi ritmi di crescita possono, tut­tavia, rivelarsi troppo forti rispetto alle possibilità determinate dalla domanda e dalla struttura produttiva. In questo caso agisce il mecca­nismo delle attese degli operatori con una revisione delle attese di crescita e una contrazione di investimenti e consumi. La contrazione dell’economia riporta la produzione a livelli più efficienti e riduce eventuali pressioni inflazionistiche che l’accompagnano.4. Durante le fasi espansive e recessive si riscontrano varie patologie macroeconomiche che inducono i governi ad intervenire sui mercati con politiche di stabilizzazione. Tra le patologie, nelle fasi recessive si genera una riduzione del reddito e dell’occupazione e un aumento del tasso di disoccupazione, mentre nelle fasi espansive la dinamica di prezzi e salari può divenire particolarmente sostenuta. Nelle varie economie, le fasi espansive sono caratterizzate da mercati del lavoro più stretti, con una riduzione delle persone in cerca di lavoro e un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese. Viceversa, nelle fasi recessive Yallentamento dei mercati del lavoro e la riduzione della domanda di beni di consumo e di investimento non permettono una dinamica sostenuta dei prezzi.

Questi fatti stilizzati sul ciclo economico sono comunemente ac­cettati; all’elenco vanno aggiunte le variazioni degli strumenti di con­trollo delle autorità monetarie e di bilancio (tassi di interesse, varie componenti della spesa pubblica, tassazione). In generale, quando i ritmi di produzione e di crescita delle componenti di domanda inter­na sono elevati, notiamo un aumento dei tassi di interesse e una poli­tica fiscale meno espansiva, mentre nelle fasi recessive avvengono va­riazioni degli strumenti di segno opposto.

4-4Strumenti per la valutazione del ciclo economico

In questo capitolo abbiamo iniziato a parlare di relazioni tra grandez­ze macroeconomiche. Senza specificare nessuno schema teorico per definire queste relazioni, nell’ambito dell’analisi empirica sul ciclo economico, abbiamo sottolineato l’importanza di concetti come la coerenza e il comovimento di diverse variabili (consumo, retribuzioni, occupazione, p i l ). Prima di considerare queste relazioni tra aggregati, è comunque importante analizzare le proprietà delle singole serie sto­riche. L ’analisi delle caratteristiche delle serie storiche delle variabili macroeconomiche costituisce un momento importante della riflessio­

3 4 1

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

ne economica sull'evoluzione dei fenomeni nel mondo reale ed è un argomento indispensabile per la verifica empirica della moderna teoria economica. Questo paragrafo è una semplice introduzione alle pro­prietà delle serie storiche e ai diversi metodi utilizzati in macroecono­mia per valutarne le componenti di ciclo e di trend.

4.4.1. La componente di alta frequenza

Un approccio utile per definire il ciclo e le sue caratteristiche è quel­lo di utilizzare direttamente le proprietà statistiche delle serie tempo­rali per ottenere informazioni sulla volatilità della variabile in oggetto, sulla sua persistenza e sugli eventuali comovimenti con altre variabili. Una variabile, nella forma realizzata di serie temporale o serie storica, può essere scomposta in quattro componenti: una componente di trend, una di ciclo, una componente che riflette le variazioni stagionali e una componente irregolare. Queste componenti non si osservano di­rettamente; ciò che osserviamo è il valore della variabile aggregata e il suo andamento nel tempo. Le statistiche ufficiali ci forniscono serie storiche per i prezzi al consumo, per le retribuzioni salariali, per la spesa pubblica corrente e per altre centinaia di variabili macroecono­miche. Tutte queste serie possono essere analizzate nelle loro varie componenti, anche se i dati ufficiali sono riferiti all’insieme di esse. Per ottenere queste informazioni dai dati aggregati ufficiali abbiamo quindi bisogno di metodi capaci di rimuovere le componenti di una serie storica.

In questo capitolo definiamo una serie storica di una variabile, più semplicemente come la somma di una componente ciclica (chia­mata di alta frequenza) e di una componente di trend o di lungo pe­riodo (chiamata di bassa frequenza). Definendo ogni variabile econo­mica con l’ausilio di queste due componenti, trascuriamo la parte er­ratica e quella stagionale, meno importanti per la nostra analisiI3. Un

13 . Questo non significa che non esiste una relazione tra ciclo e componente ci­clica stagionale. Se attribuiamo alle fluttuazioni stagionali una dimensione ridotta nel confronto con le fluttuazioni cicliche, la loro rimozione dall’analisi non incide in m a­niera sostanziale sulla trattazione del ciclo, anche se esiste una relazione tra i due tipi di fluttuazioni. Inoltre, le determinanti della stagionalità possono essere diverse da quelle del ciclo econom ico e quindi non possono trovare spazio in questa trattazione. D a ultimo, occorre specificare che mentre la stagionalità potrebbe essere anche desi­derabile dal punto di vista della politica economica, le fluttuazioni cicliche sono viste dagli approcci tradizionali come non desiderabili e, in ultima analisi, come fenomeni che producono una riduzione del benessere della società. L o studio dei pattern delle fluttuazioni stagionali appare comunque importante. In proposito esiste un ’ampia let-

3 4 2

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

problema serio che si incontra nel processo di identificazione della componente ciclica e del trend di una serie storica è la selezione del metodo che contribuisce ad identificarle: le caratteristiche di queste componenti variano a seconda del metodo adottato. A questo riguar­do analizzeremo alcuni metodi di scomposizione di queste due com­ponenti delle serie, chiamati filtri o metodi di detrendizzazione.

4.4.2. Proprietà delle serie storiche

Iniziamo a definire una serie di dati relativa ad una generica variabile macroeconomica. Una serie storica (o serie temporale) che esprimia­mo nel seguente modo:

[4.1] {yt, t = 1, 2 , 3 , ... T}

quantifica un fenomeno particolare (produzione, prezzi, occupazione, tasso di cambio ecc.) che si evolve nel tempo /. Quindi una serie sto­rica è una sequenza di osservazioni su un fenomeno economico, effet­tuate in intervalli di tempo consecutivi e della medesima lunghezza. Una serie è chiamata discreta quando le osservazioni sono rilevate a intervalli discreti e uguali. I dati relativi ad una variabile o aggregato macroeconomico, che ne descrivono i movimenti nel tempo con una prestabilita cadenza (giornaliera, settimanale, mensile, trimestrale, an­nuale), rappresentano una serie storica. Una particolare caratteristica dell’analisi delle serie storiche economiche è che le osservazioni suc­cessive non sono indipendenti da quelle passate. Le serie mostrano quindi un certo grado di inerzia o persistenza. Se le osservazioni suc­cessive sono dipendenti da quelle passate, allora i valori futuri diven­gono perfettamente prevedibili dalle osservazioni passate. In questo caso la serie è deterministica. Tuttavia le serie storiche sono spesso stocastiche (o casuali) e ciò implica che i valori successivi di una serie sono determinati dai valori passati soltanto in maniera parziale. La previsione esatta sui valori che assumeranno queste serie non è possi­bile e bisogna far ricorso all’idea che i valori delle serie hanno una probabilità di distribuzione che è condizionata sui valori passati. Una variabile casuale assume dei valori (numeri reali) alternativi associati ad una probabilità. Una variabile casuale deve perciò essere accompa­gnata da una distribuzione di probabilità, cioè da un elenco di tutti i possibili valori e relative probabilità che la variabile può assumere.

tenitura. T ra i vari lavori importanti su questa relazione citiamo M iron, Beaulieu (1996); Cecchetti, Kashyap, W ilcox (1997); Matas-Mir, Osborn (2001).

Page 203: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

Esempi di variabili casuali discrete sono il p i l , la disoccupazione, gli aggregati monetari e così via I4.

Una completa specificazione della funzione di distribuzione di probabilità per una serie è comunque impossibile. In pratica si uti­lizzano i momenti di queste distribuzioni, ed in particolare i primi due momenti, media e varianza. Il termine matematico per la media di una distribuzione è il suo valore atteso E(.). Infatti, non si può cal­colare una semplice media di tutti i valori di y dato che alcuni di essi si presenteranno con maggiore frequenza di altri. Occorre, quindi, calcolare una media ponderata con i pesi definiti dalle probabilità che ogni singolo valore della variabile di interesse può assumere.

N[4.2] media y = E(y) = p xy x + p2y2 + ■■■ + PnJn = £ PìJ ìl — I

dove p{ è la probabilità che la variabile y assuma il valore yt- e dove l Pi = 1.

N[4.3] varianza of, - X pl [j, - E (y)]2

i~ 1

La varianza di una variabile casuale fornisce una misura di dispersione intorno alla media. Un elevato valore della varianza indica una elevata variabilità (o volatilità) di una serie. Una ulteriore misura di disper­sione utilizzata per rappresentare la volatilità delle serie storiche è la deviazione standard oy. Gli scarti dalla media al quadrato, come indi­ca la definizione della varianza, possono generare qualche problema di interpretazione. Un metodo per ritornare all’unità di misura origi­naria è quello di effettuare la radice quadrata della varianza, per l ’ap­punto la deviazione standard. Analogamente alla varianza, valori ele­vati della deviazione standard indicano un’alta volatilità della serie, e viceversa.

Sino ad ora abbiamo considerato una singola serie storica. Siamo in grado di definire il valore medio e la variabilità di una serie econo­mica. La variabilità, misurata da statistiche di dispersione (varianza e scarto quadratico medio), è particolarmente importante in quanto può essere considerata un indicatore ciclico relativo agli aggregati ma­

LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

14 . Esiste un vasto numero di manuali e testi introduttivi sul trattamento dei dati econom ici (tipologia, metodi di elaborazione, statistiche descrittive, analisi univariata delle serie ecc.). Un testo piuttosto semplice e in lingua italiana è quello di Koop (2000).

3 4 4

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE*. ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

croeconomici di interesse. Nei paragrafi precedenti abbiamo già ;u cennato quanto sia utile disporre di qualche misura di relazione i ni due variabili che ci indichi se queste presentano la tendenza a variare insieme o, al contrario, in modo indipendente. A questo proposi io definiamo la covarianza di due variabili x e y la seguente quantità:

N NI.4.4] covarianza yk = COV(x, y )= p tJYJ Y Lxr E(x)][yr E(y)]

i- 1j - 1.

dove py è la probabilità congiunta che le variabili x e y assumano 1 valori e yt. La covarianza è una misura del grado di associazioni lineare di due variabili casuali e il suo valore dipende dall’unila ili misura delle variabili considerate. Per ovviare a questo inconven ionie si ricorre al coefficiente di correlazione:

COV(x,[4.5] q (x , y) = ------------

dove crx, oy rappresentano le deviazioni standard relative alle due va riabili. Il coefficiente di correlazione [4.5] è la misura del grado di associazione tra due variabili T-5. Il coefficiente di correlazione è siale /ree (è la covarianza normalizzata per le deviazioni standard delle dm variabili, non dipende dalle unità di misura delle variabili) e <|uimli varia da -1 a 1. Precisamente, abbiamo le seguenti situazioni:

q (x , ; y ) > 0 una correlazione positiva tra due variabili: a: r v m

muovono nella stessa direzione. Ad esempio i consumi si muovono insieme al reddito. I consumi sono altamente correlati con il ivddiio

g(x, y) <0 una correlazione negativa tra le due variabili: x c 1 m muovono in direzione opposta. La disoccupazione tende a muover,1 in maniera opposta all’andamento della produzione. La disoccupa, io ne è correlata con la produzione, ma con segno negativo.

g(x, y )= 0 non c’è relazione tra le due variabili '6.

4.4.3. Modelli di serie storiche

L’analisi delle serie storiche assume che i dati siano ge nomi 1 d.i un

processo stocastico (o casuale). I processi stocastici sono un m:ac.......li

15. Il coefficiente di correlazione misura l ’intensità della rela/imn n.i .L , i m 1 liili quando quest’ultima è lineare. Per analizzare relazioni non lineari ila «Ine v.m.J.ili il coefficiente di correlazione non è una statistica utile.

16. Una correlazione p(x, y) = 0 non garantisce clic non esisle ah m n ■. I......... .ira le due variabili. Può esistere tra le variabili una relazione non lineali

H ’>

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L E Z IO N I D I P O L IT IC A E C O N O M IC A

variabili casuali che sono ordinate nel tempo. La serie storica di una variabile è generata da un processo stocastico. Lo studio univariato delle serie storiche ha come scopo quello di analizzare e interpretare le caratteristiche del meccanismo dinamico che genera la serie storica.I processi stocastici specificano la natura casuale che genera il cam­pione di osservazioni della variabile 17. Le serie storiche economiche sono classificate come serie stazionarie e serie non stazionarie. Il con­cetto di stazionarietà coinvolge le serie storiche e i processi stocastici che le generano ed è estremamente importante nello studio dell’eco­nometria e della macroeconomia. Una serie storica è detta stazionaria (in senso debole) se la media della serie, la varianza e la covarianza tra i suoi valori adiacenti sono tutte costanti. In termini analitici, per una generica serie x possiamo scrivere per tutte le t:

E(xt) —> costanteVAR(xt) —» costanteCOV(xt, xt+k) —> costante

Anche per il processo stocastico che genera la serie è cruciale la sua invarianza rispetto al tempo. Se le caratteristiche di questo processo variano nel tempo, il processo è non-stazionario. Se invece il processo stocastico è costante nel tempo, è chiamato stazionario. Se la serie del p i l reale che indichiamo con y è stazionaria, la sua media, varianza e covarianza sono tutte stazionarie e anche il processo (modello) che la genera è stazionario.

Le seguenti figure mostrano alcune caratteristiche delle serie non stazionarie. Nelle f i g g . 4 .2 e 4 .3 sono rappresentate delle variabili che presentano un chiaro trend crescente (f i g . 4 .2 ) e decrescente (f i g . 4 .3 ) : con il passare del tempo il valore che queste variabili assu­mono tende a crescere o decrescere. Risulta chiaro che queste serie non hanno una media costante, ma sono caratterizzate da un trend. La f i g . 4 .4 rappresenta anch’essa una serie non stazionaria: benché la media potrebbe risultare costante, la varianza di questa serie non è costante ma cresce nel tempo. La stazionarietà di una serie economi-

17. I testi sull’analisi delle serie storiche non sono adeguati ai corsi non avanzati. Tra questi citiamo Mills (1990) e, in italiano, Piccolo (1990). Tuttavia, i primi capitoli di questi testi sono indirizzati all’analisi descrittiva, ai processi stocastici e ai concetti di stazionarietà e smoothing e possono essere comunque utilizzati dagli studenti. Un testo più introduttivo è quello di Mills (2003), e alcuni testi di econometria applicata, come Pindyck, Rubinfeld (1981) e successive edizioni, Enders (1995) e Patterson (2000).

3 4 6

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

RIQUADRO 4 .3

La distribuzione dei dati

Un concetto cruciale per l’analisi delle serie storiche è la distribuzione dei dati. La distribuzione dei dati sintetizza le caratteristiche dei dati stessi. Molti eventi economici si presentano con situazioni numeriche che varia­no da zero ad infinito. Le vendite al dettaglio nei grandi magazzini posso­no variare da zero ad un numero consistente. Le esportazioni verso una determinata area geografica possono variare da zero ad un numero piut­tosto elevato, e così via. Queste variabili non sono dicotomiche (sì o no; alto o basso ecc.) ma continue. Per catturarne le caratteristiche si utilizza la distribuzione. La distribuzione di una variabile casuale ha diverse for­me. La d is t r ib u z io n e n o r m a le , ad esempio, riflette molto bene le caratteri­stiche di molte variabili economiche. Questa distribuzione è anche mate­maticamente conveniente e per questi aspetti è molto utilizzata. La di­stribuzione ha una forma “a campana” che approssima un infinito nume­ro di istogrammi (sotto la campana) per la variabile y . La forma del grafi­co è dovuta alla seguente espressione matematica:

1 , n i W I2M 4>(y)=— = é - mh r ì

O y2Jt

dove (i = E{y). La variabile considerata (y) può prendere valori che vanno da meno infinito a più infinito. Tuttavia guardando bene questa espressione matematica si nota che è formata dal numero neperiano (e

= 2.718), e da 7t = 3 .142. Le uniche incognite di questa formula che viene chiamata f u n z i o n e d i d e n s it à d i p r o b a b i l i t à (p d f ) sono la media e la varianza della serie y. La distribuzione è simmetrica (si veda la figu­

ra sotto): il termine - è elevato al quadrato. Questa formula, nella£7

letteratura economica, viene spesso espressa nella seguente notazione sintetica:

m y = N(fi, o2)

In altri termini, la variabile y è distribuita come una variabile normale con media e varianza, rispettivamente, fi e o2. Le caratteristiche di una variabile possono essere rappresentate in una versione ancora più semplificata della [2], prendendo la d i s t r ib u z io n e n o r m a le s t a n d a r d iz z a ­

ta , dove la media è zero e la varianza è uguale a uno. In questo caso avremo:

347

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L K '/lO N l 1)1 P O L IT IC A EC O N O M IC A

ca caratterizza l’andamento della variabile che la rappresenta e ha in­teressanti implicazioni che analizzeremo nei prossimi paragrafi, dopo aver definito in dettaglio alcuni processi stazionari e non stazionari.

4.4.4. Il modello randotn walk .

Le serie storiche economiche sono considerate delle variabili casuali; è quindi importante analizzare alcuni dei processi stocastici più im­portanti capaci di generarle. Il processo randotn walk (o passeggiata aleatoria) è un esempio di serie stocastica che spesso ricorre in econo­mia in quanto costituisce una buona approssimazione di molte serie macroeconomiche. Un semplice modello random walk è il seguente:

[4-6] yt = yt-\ + et

che può essere scritto come:

&yt = £/

3 4 8

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4 . l.E FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

l 'TGURA 4 .2 Serie non stazionaria

IT G U R A 4 . 3 Serie non stazionaria

10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

3 4 9

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

F IG U R A 4 . 4 Serie non stazionaria

dove £ è un termine di disturbo che in media è uguale a zero e che non dipende dai suoi valori passati: E (e)= 0 ; E{st£s) = 0 , dove t ^ s.Il simbolo zi applicato alla serie storica y definisce una differenza prima, cioè la variazione intervenuta tra yf e yt_1 al variare di t. Esempi di variabili economiche che possono essere generate dalla[4.6] sono:

Pt = Pt-1 + Prezzi Ap, = et[4.6.1] L t - L t_i + £[ Occupazione AL, = et

Ct - Cf_j + et Consumi A Ct = et

Questi modelli stocastici random walk sono anche chiamati modelli di radice unitaria 18 e, come mostra la [4.6], sono definiti da un’equazio­ne che ha una forma autoregressiva con radice uguale ad I . Il modello random walk, che approssima bene il comportamento di molte serie macroeconomiche, è un modello non stazionario e genera perciò una serie non stazionaria. Se i prezzi, l’occupazione e i consumi sono ben

1 8 . Ciò, ovviamente, non significa che prezzi, occupazione e consumi siano delle variabili random w alk, anche se spesso questa ipotesi, con l ’utilizzo di opportuni test effettuati per queste serie in diversi paesi, è risultata vera.

3 5 0

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4 - LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

espressi dal modello [4.6.1] allora possiamo dire che sono variabili non stazionarie. Da quanto detto sopra, sappiamo che la stazionarietà richiede che la media e la varianza della serie siano costanti. Per di­mostrare la non stazionarietà di un modello random walk possiamo verificare, quindi, se il suo valore atteso e la varianza sono entrambi costanti. Iniziamo con la media, riprendendo la [4.6] e applicando a questa equazione il valore atteso:

yt = yt-i +U '7] E(yt) = E(y^ + E(st) => E(yt) = E(yt_{) + 0

Ricordiamo che per il termine di errore assumiamo media zero e va­rianza costante e che la media di una variabile casuale si ottiene pren­dendo il suo valore atteso. La [4.7] ci indica che la media in un de­terminato periodo è uguale alla media del periodo precedente. La media del semplice processo random walk è costante. Passiamo ora ad analizzarne la varianza. Questa rappresenta un indicatore di di­spersione ottenuto dalla somma delle differenze delle osservazioni che compongono la serie da un valore medio. Per generare queste osser­vazioni riscriviamo la dimensione temporale della [4.6] partendo da un anno iniziale y0. In questo modo possiamo generare una serie di valori per la variabile y con cui calcolare la dispersione intorno alla media:

yi = y0 + e1

Possiamo iterare questa equazione alle differenze in avanti,

y i= yo + £iVi - Vi + e2 = Jo + £1 + e2y 3 = y 2 + £3 = y0 + E1 + EZ + S 3

y n = ^ 0 + £ 1 + e 2 + e 3 + e 4 + •••

Questo ci permette di scrivere, in generale, che:

t-i14 - 8 ] Jt ~ y 0 + 2 £t-i

z = 0

Prendiamo la varianza di questo processo: y0 è una costante, rappre­senta il valore iniziale e quindi la varianza di una costante è zero. Gli

3 5 i

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

errori £ò i= 1, ... n sono distribuiti in maniera indipendente con me­dia zero e varianza costante, ma la somma delle singole varianze ten­de ad aumentare con i periodi considerati, «ojj. Il processo random walk è un processo non-stazionario in quanto la varianza di questo processo cresce nel tempo. Generalizzando, possiamo scrivere:

[4.9] VAR(yt) = tal

Si noti che la varianza del processo, crescendo nel tempo, tende al­l’infinito e quindi risulta non definita. In maniera analoga, la cova­rianza di un processo random walk tende a crescere nel tempo. Il processo random walk è un semplice esempio di processo non-stazio- nario. Un’estensione del processo random walk ora descritto è quella di random walk con drift:

[4.10] yt ~ yt-1 + £t + a

Il modello [4.10] tiene conto di un trend della serie y,. II trend può essere positivo o negativo a seconda del segno della costante a (i gra­fici riportati nella f i g . 4.5 presentano i due casi). In maniera analoga alla [4.8], iterando l’equazione alle differenze del random walk con drift in avanti nel tempo otteniamo:

t- 1[4.1 1 ] yt = yQ + at + X £t_t-

i= 0

In questo caso la variabile generata da questo processo presenta una tendenza a crescere (o decrescere se il segno di a è negativo) oltre che una varianza crescente. La variabile yt può rappresentare il p i l , il livello dei prezzi al consumo, lo stock di moneta o altre serie ma­croeconomiche. Precedentemente abbiamo parlato del fenomeno del­la persistenza che caratterizza molte serie macroeconomiche; un coef­ficiente di autocorrelazione vicino all’unità implica una forte persisten­za delle eventuali deviazioni di una serie storica dal suo trend. Si noti che nel modello random walk [4.6] e [4.10] il coefficiente di auto­correlazione è esattamente uguale ad uno.

La f i g . 4.5 mostra l’andamento di alcune variabili random walk con drift di diverso segno. Il random walk con drift positivo raffigura­to nella f i g . 4.5, una volta filtrato con le differenze prime, fornisce la serie stazionaria riportata nella f i g . 4.6.

3 5 2

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

F IG U R A 4.5 Random walk con drift

F IG U R A 4.6Differenza prima di una serie non stazionaria

0.08

0.04 -

0.00 -

- 0.04 -

- 0.08

10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

4.4.5. Trasformazione di variabili non stazionarie

Una volta analizzato un processo non stazionario possiamo cliicdrn 1 come si rappresenta un processo stazionario. Il più semplice modello stazionario è il seguente:

■J5 -;

Differenza prima di una serie non stazionaria

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Si ricorderà che il termine di errore è distribuito in maniera indipen­dente (gli errori nei diversi periodi non sono correlati, ma sono indi- pendenti l’uno dall’altro), ha media zero e varianza costante; scritto in maniera sintetica:

e, = IDD(0 , o )

Si presti attenzione a non confondere la [ 4 . 1 2 ] con l’espressione di un processo random walk [4 .6 ]

[4 .6 ] A yt = et

Quest’ultimo, infatti, come abbiamo mostrato empiricamente con le f i g g . 4 .5 e 4 .6 , rappresenta un processo stazionario solo se la variabi­le è espressa alle differenze. Confrontate attentamente la [ 4 . 1 2 ] con la[4 .6 ] . La [ 4 . 1 2 ] indica un processo che genera la variabile stazionaria y ogni periodo, mentre la [4 .6 ] indica un processo che non genera y ma un’altra variabile, definita dalla differenza prima di y: è questa differenza prima che è stazionaria. Infatti, se riscriviamo la [4 .6 ] con i livelli della variabile, otteniamo il modello random walk, yt = yt_x + £t.

Una terminologia molto in uso anche in macroeconomia definisce i due tipi di variabili, non stazionaria e stazionaria, rispettivamente come variabile integrata di ordine uno 1(1) e integrata di ordine zero 1(0). Una variabile non stazionaria come il random walk. è una varia­bile 1(1): una volta formulata in differenze prime, come nella [4 .6 ] , la variabile trasformata diventa 1(0). Le serie storiche possono essere in­tegrate di un ordine superiore ad uno: ciò significa che queste serie risultano stazionarie differenziandole (prendendone la differenza) più volte. Una variabile integrata di ordine n può essere trasformata in una variabile stazionaria prendendone le differenze n volte. Se la tra­sformazione di una serie non stazionaria (ad esempio una variabile random walk.) in una serie stazionaria richiede una sola differenziazio­ne della serie, la serie non-stazionaria è integrata di ordine uno. Nella f i g . 4 .7 è riportata una serie non stazionaria 1 ( 1 ) , e precisamente un random walk. con drift positivo e la sua trasformazione, mediante le differenze prime, in una nuova serie 1(0), anch’essa riportata nella f i g . 4 .7 . Per accentuare il carattere di questa trasformazione di una serie in una nuova serie, possiamo scrivere per una variabile random walk:

[4 .1 2 ] yt = £t

354

Page 214: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

I

4 . L E FLU T T U A Z IO N I C IC L IC H E : A SP E T T I EM PIR IC I E T EO R IC I

F IG U R A 4.7Serie non stazionaria e serie differenziata

-----AY ------Y

Jt = yt~ 1 + £i, = M t = yt - y t-i =

cioè

[4.13] z, = et

Owiamente la [4.13] è equivalente alla [4.6]. La serie originaria è y~I(l), mentre la nuova serie è z~I{0). Quest’ultima serie è una tra­sformazione della prima. Infatti, et ha una distribuzione i cui parame­tri sono per ipotesi indipendenti dal tempo, e quindi stazionaria. Molte serie di dati relative a variabili reali come il p i l , le retribuzioni salariali, le esportazioni e l’occupazione sono variabili 1(1); altre serie macroeconomiche, come i prezzi, spesso sono serie non stazionarie classificabili come variabili 1(2) e possono essere rese stazionarie dif­ferenziandole due volte A(Apt) = A2pt.

Come accennato, la f i g . 4.7 rappresenta una serie generica non stazionaria (con un drift positivo). Dalla figura si nota come la va­ri anza di y cresce nel tempo e non converge verso il suo valore medio.

355

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LE Z IO N I D I P O L IT IC A EC O N O M IC A

4 . 4 . 6 . Discriminazione tra serie storiche con diverse caratteristiche di trend

Nella letteratura macroeconomica è ormai indispensabile distinguere le variabili come serie stazionarie alle differenze e serie trend-staziona­rie. Per specificare questa distinzione, definiamo un processo stoca­stico capace di generare dei dati, ma più generale del random walk visto in precedenza. Il seguente modello è chiamato modello autore­gressivo di primo ordine (è determinato dal valore del periodo prece­dente della stessa variabile):

[ 4 . 1 4 ] y t = g y t_ x + Et

Questa equazione mostra che il processo random walk è un caso parti­colare di un processo autoregressivo. In particolare, si ha un modello random walk quando Q= 1 (o quando è - 1) . Viceversa, la [4.14] de­scrive un processo stazionario se o < ] in valore assoluto. Per dimo­strare che la [4.14] con q - 1 è un processo non stazionario, replichia­mo per questo modello la verifica [4.9], dove si mostra una varianza che cresce nel tempo. In maniera analoga alla [4.8], possiamo calcola­re la varianza del processo autoregressivo con la condizione g < 1 :

y\ = Qyo + £1[ 4 - 8 . 1 ] = Qy1 + e 2 = g(gy0 + e J + e2 = gzy0 + q e x + e2

y 3 = g y 2 + e } = g(g?y 0 + gEj + e2) + £}

/-1yt = é>% + I Q‘£t-i i = 0

Se calcoliamo la varianza di questo processo otteniamo:

[4-9-i] VAR(yt) = l ^ ‘VAR(£tJz = 0

1Come t cresce, la varianza di y converge a -------- I9.

1 “ ^Con l ’ausilio di questo processo stocastico possiamo riprendere i

concetti di una serie trend-stazionaria e stazionaria alle differenze. Una variabile random walk è una serie stazionaria alle differenze. Ab-

19. Utilizzate le proprietà delle serie geometriche riportate nel riquadro 3.6. In altri termini, come t cresce la [4 .8 .1] indica che yt è determinato dal processo et + Q£t_i + Questo processo ha media costante e varianza pari a a 2J 1 - p2.

356

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4 - L E F L U T T U A Z I O N I C I C L I C H E : A S P U T T I U M P I R I C I I- T K o K l C I

bìamo già visto che prendendo la differenza prima di questa variabile non stazionaria (come nell’equazione [4.6]) otteniamo una variabile stazionaria. Una variabile con un trend deterministico è chiamata trend stazionaria. Ad esempio, il seguente modello genera i dati per yt:

yt = a + /3t + £t

In questo modello, a + jìt rappresenta il trend deterministico, mentreil disturbo et è la componente stocastica. Dato che questa compo­nente è stazionaria (ha media zero, varianza costante e non è correla­ta con i valori passati), la variabile yt è chiamata trend-stazionaria. In altri termini yt può mostrare un trend ma le deviazioni da questo trend deterministico sono stazionarie 2°. La variabile diviene staziona­ria se si estrae la componente di trend.

Togliere la componente di trend dalle serie storiche equivale a ren­derle stazionarie. Tuttavia occorre considerare che ci sono diversi tipi di trend. In particolare distinguiamo tra trend stocastici e trend determini­stici. Le variabili random walk hanno un trend stocastico, mentre una variabile che mostra una tendenza marcata, sia essa positiva o negativa, è una variabile con un trend deterministico. Questa differenza, come vedremo, ha implicazioni rilevanti, anche per l’analisi economica. Se i vari tipi di trend caratterizzano la non stazionarietà delle serie storiche, diviene importante analizzare i metodi usati per rimuovere la compo­nente di trend dalle variabili. Le serie non-stazionarie subiscono spesso un processo di “detrendizzazione” (si rimuove o si filtra il trend dalla serie) prima del loro utilizzo nei lavori empirici sul ciclo. La rimozione del trend è particolarmente importante nello studio delle fluttuazioni economiche, in quanto la componente residua è la componente ciclica. Togliere il trend dalla serie significa identificare la componente ciclica di una variabile. L ’identificazione della componente ciclica, tuttavia, non è soltanto un fatto tecnico, ma può condizionare l’analisi economi­ca e di politica economica. I tre metodi più frequentemente utilizzati in economia per detrendizzare una variabile non stazionaria sono 2T:1. stimare una regressione lineare della variabile sul trend;2. prendere le differenze (prime, seconde ecc.) della serie;5. utilizzare un metodo di detrendizzazione più flessibile come il filtro di Hodrick-Prescott.

20. Ciò significa che la media di un processo trend-stazionario non è costante nel periodo di riferimento, E (yt) = a + fit, sebbene possa essere perfettamente stimata dato il periodo t e i parametri a e fi.

z i . Esistono molti metodi di detrendizzazione. Questo aspetto si rivela proble- nniiico per l ’approccio al ciclo di crescita in quanto le caratteristiche cicliche dipendo­no dal (litro utilizzato. Si veda la critica di Harding, Pagan (2002) e Canova (1994).

357

Page 217: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

1

Modello di trend lineare

Se una serie storica di una variabile economica yt aumenta di un ammon­tare costante ogni periodo (ad esempio, ogni anno), si può specificare questo andamento e quindi prevedere i valori futuri nel seguente modo:

[4.15] yt = a + fit

dove t rappresenta il tempo, il periodo che parte da 0 e si sviluppa in avanti, aumentando di una unità in ogni intervallo successivo. La se­guente equazione rappresenta un esempio numerico della precedente specificazione del trend lineare di una variabile 22:

yt = 10.5 + A lt

Questo esempio mostra che possiamo prevedere quale sarà il valore di yt nel periodo t+ 1. Il valore sarà di 4.2 unità più elevato di quello ottenuto al tempo t e così via per ogni periodo successivo. Il modello descritto è un semplice modello di trend lineare (o di estrapolazio­ne) 23 ottenuto con l ’applicazione della tecnica della regressione alla serie storica della variabile yt 24.

22. E possibile ottenere questa specificazione numerica applicando le normali tecniche di regressione alla variabile y, e alla serie numerica (1, 2 , 3 , 4 ...) del trend l.

23. E possibile comunque specificare altri tipi di crescita di una variabile. I se­guenti tre esempi mostrano tre tipi diversi di trend deterministici: la crescita della variabile yt è determinata, rispettivamente, da un trend definito da una funzione espo­nenziale, quadratica e logistica-,

Iny, = cx + c2l yt = c1 + c2t + c^i2

y ^ i c + a b 'Y 1 , b > G

Se assumiamo che il trend della variabile in oggetto sia lineare possiamo ottenere una stima effettuando una regressione lineare:

y, = a + [}t + ut

dove t rappresenta il trend, una variabile deterministica (cioè composta da una serie numerica 1 , 2 , 3 , 4 ,...). I parametri della regressione vengono stimati con un metodo che minimizza i residui ù, (la parte non nota) e, quindi, con le seguenti proprietà X « , = 0 e E ^ = 0 . L a rimozione di questo trend dalla serie lascia la sola componente ciclica.

24. Per chi non ha nessun rudimento di econometria o comunque delle tecniche di stima consigliamo la lettura del capitolo sulla regressione semplice del volum e di Koop (2000).

I , I : / . I< >N I DI P O L I T I C A L C O N O M I C A

3 5 8

Page 218: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORfCI

Il trend lineare per correggere la serie dalle componenti di cre­scita è stato estensivamente utilizzato fino agli inizi degli anni ottanta. Successivamente diversi autori hanno sviluppato l’idea che la compo­nente di crescita stessa contenesse una certa variabilità, dando vita a due distinti filoni metodologici. Il primo approccio sottolinea le ca­ratteristiche stocastiche del trend (le differenze di una serie). La se­conda impostazione permette alla componente di crescita di mutare la sua pendenza, anche se in maniera non erratica e senza brusche variazioni (la detrendizzazione flessibile).

Le differenze di una serie

ti primo metodo alternativo, già analizzato in precedenza, si basa sul­la trasformazione di un processo random walk in un processo stazio­nario. In questo caso si assume che il trend sia stocastico e per elimi­narlo prendiamo le differenze della serie:

[4.16] Ayt - fi + et

dove Ayt ~ y t - y t-\- La differenziazione della serie avviene tante volte quante ne richiede la serie per diventare stazionaria, cioè per fornire B(et) = 0 e VAR(e,) = o2e. Nella [4.16] assumiamo che la differenza prima di yt è sufficiente per produrre una serie stazionaria con media fi. L ’equazione [4.16] costituisce un modello random walk con drift.Il modello rappresenta un processo che diviene stazionario alle diffe­renze.

Un metodo di detrendizzazione flessibile

IJn ulteriore metodo alternativo al trend lineare, spesso utilizzato per scomporre le serie macroeconomiche in ciclo e trend, è il filtro Ho- drick-Prescott (h -p ) . Abbiamo più volte accennato che le serie stori­che osservate sono tradizionalmente viste come la somma di una componente ciclica di breve periodo (stazionaria) e di una compo­nente di crescita di lungo periodo (non stazionaria). Molti autori tut­tavia sostengono che non è possibile conoscere esattamente il model­lo che descrive il trend della serie, sia esso lineare deterministico o stocastico. L ’unica caratteristica nota a priori del trend è il suo essere più liscio (smooth) rispetto alla serie originale.

La logica di questo tipo di filtro (e di altri metodi di detrendizza­zione analoghi, come il band-pass flter) è quella di eliminare alcune componenti di trend, irregolari e stagionali, caratterizzate da Irequen-

Page 219: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

I l ' . / . n > N I l > l l'< H .1 l l < . A I .< i »|- J< > M l i . A

R I Q U A D R O 4 . 4

La procedura Hodrick-Prescott

La procedura di Hodrick e Prescott ( 1 9 9 7 ) è un metodo per calcolare il trend di una variabile ed è tra le più utilizzate per rimuovere questa com­ponente dalla variabile e ricavare la componente ciclica. Per prima cosa definiamo la serie storica yt come la somma di una componente di trend xt e di una componente ciclica:

Vii y, = xl + cl per/= l...T

Secondo questa definizione, la componente ciclica può essere espressa come differenza tra il livello della variabile e la sua componente di trend: ct - Jt ~ xt- 11 problema è calcolare il trend della variabile, e il filtro h -p ottiene una stima del trend come soluzione di un problema di minimizza­zione della seguente funzione:

TMinW = Y (y r xì)2t=1

T -1soggetto al vincolo X [(x,+i-xt)-{xt-xt ,)]2

t —2

Questo problema di minimizzazione può essere riscritto nel seguente modo:

T T- 1

[«] MinW = X ( j-x ;)2 + AX \.{xl+x-x^-{xi-xt_f)'\2t = 1 ; = 2

La procedura mette in risalto che il trend è dato da una sequenza di nu­meri per xt che rende^minima la somma dei quadrati degli scarti dellavariabile considerata 2 (y —x,)2, tenendo conto del vincolo definito da; = 1una somma delle differenze seconde di xt. Il parametro di smoothing (o anche moltiplicatore di Lagrange) A è cruciale nel definire il trend, ed è un numero positivo che assegna un peso alla variabilità della componente di trend. Più alto è il suo valore, più il trend risulta “liscio”. In altri ter­mini, più è alto il parametro A, più aumenta il peso delle fluttuazioni con elevata ampiezza incluso nella componente ciclica. Quando A tende all’in­finito, il problema ha un minimo solo se (xt+ =0, cioè quan­do il trend cresce ad un tasso costante. In questo caso il trend di h - p

coincide con il trend lineare.Il valore di A che normalmente si sceglie per rimuovere il trend dalle

serie macroeconomiche permette una moderata fluttuazione del trend, nel­

3 6 0

Page 220: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

I i i i i i m ii m i > h 11 < i < i i < i i l . : AMI ' , i' ri i m r i ki< :i r. ri .< > k i < : i

l'ipotesi t'Iir non tutte le fluttuazioni dell’economia siano dovute alla com­ponente di breve periodo. Il filtro h -p , come del resto gli altri metodi disponibili per definire il trend di una variabile, mostra alcuni limiti \ Un aspetto critico è proprio la definizione del parametro A. Kydland e Pre- scott (1990) fissano per le serie trimestrali tale valore a 1600, mentre pel­le serie annuali i lavori che utilizzano questo filtro adottano un parametro A = 100. Questi valori sono quelli che permettono di replicare meglio la lunghezza osservata delle fluttuazioni cicliche e, considerata l’importanza di A nel determinare l’ampiezza delle fluttuazioni che si lasciano nella componente ciclica e l’andamento del trend di una variabile, appare evi­dente l’interesse per questo parametro e le discussioni che esso suscita.

r. Una critica è quella di Maravall (1995). I lavori di Canova (1994; 1998) e gli articoli conte­nuti in Banca d ’Italia (1999) mettono in rilievo alcuni aspetti problematici dell’uso dei filtri per stimare il livello tendenziale delle serie storiche.

ze alte e definire un intervallo di frequenza corrispondente alle fasi cicliche Si definisce così un profilo ciclico che varia da un periodo (per esempio, un trimestre) minimo ad un periodo massimo. Ad esempio, il valore del parametro utilizzato nei lavori della Banca d’I ­talia per filtrare le serie annuali è 30 . Questa riduzione dal più comu­ne A =100 a A = 30 limita il peso delle fluttuazioni di lunghezza più elevata incluse nella componente ciclica ed escluse dal trend i6. In questo modo si riesce ad includere nella componente ciclica fluttua­zioni di lunghezza fino ad 8 anni, escludendole dalla componente di trend. Con A= 100, il filtro h - p riesce ad includere nella componente ciclica fluttuazioni di lunghezza che arrivano anche a 15 anni, mentre con un valore del moltiplicatore di Lagrange A = 10, le fluttuazioni eliminate dal trend e incluse nel ciclo raggiungono un periodo di lun­ghezza minore. Questa grandezza è ciò che Baxter e King (1995) con­siderano una “lunghezza tipo” per il ciclo economico.

La f i g . 4.8 riporta la serie (nei logaritmi) del p i l italiano in termini reali per il periodo 1970-2000. Nel secondo quadrante, la figura mo­stra il trend della variabile, calcolato con il metodo h - p (trend flessi­bile). Spesso le serie sono prese in logaritmi: ciò non dovrebbe turba­re lo studente; la trasformazione logaritmica è frequentemente utiliz-

25. Questi metodi operano filtrando la serie dalle componenti cicliche ad ecce­zione di quelle componenti che rientrano dentro una certa banda di frequenza (ih e pass band).

26. I riferimenti alla Banca d ’Italia sono ripresi da M om igliano (2001). Sullo smoothing parameter A, Roger e Ongena (1999) riferiscono sul metodo h -p per l ’aggiu­stamento ciclico effettuato dalla Commissione europea e discutono gli effetti provocati da questo param etro sulle componenti delle serie storiche. E utile vedere anche gli altri saggi inclusi in Banca d ’Italia (1999).

3 6 1

Page 221: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

L E Z IO N I DI P O L IT IC A EC O N O M IC A

F IG U R A 4 .8

Caratteristiche della serie del p i l italiano

1^1

---- tykHpfCÌclo|

---- lykHpfTrend]

---- IvkDet

zata in macroeconomia, ma anche nelle analisi empiriche, perché ren­de più trattabili le serie storiche, rendendole più “lisce” e rendendo­ne omogenea la grandezza numerica. Inoltre, nell’analisi del ciclo stu­diamo la dinamica di una serie; questa dinamica (pattern) è invariante alla trasformazione logaritmica. La parte bassa della figura riporta la componente ciclica (stazionaria) della serie del p i l , calcolata anch’essa in due modi: con il metodo h - p (ciclo) e prendendo le differenze pri­me della variabile (Det).

4.4.7. Le statistiche del ciclo

La t a b . 4.3 riporta una serie di statistiche relative ad alcune caratteri­stiche del ciclo economico italiano. Queste informazioni, note anche come fatti stilizzati, sono ottenute rimuovendo il trend dalle serie sto­riche con il metodo h - p .

La deviazione standard di ogni variabile (assoluta) e quella in ter­mini relativi al p i l ci indica la variabilità della serie in esame. La de-

3 6 2

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4 . L E FLUTTUAZIONI CICLICI 1 li: A SPKTTl l'.MIMKICI IC T IX )R lc;i

T A BELLA 4.3[1 ciclo econom ico in Italia: 19 5 1-9 2 , volatilità, persistenza, correlazione. M etodo h -p

Deviazione standard Autocorrel. Correlaz.c o n p i l

assoluta relativa un ritardo ritardo 0

PIL 3 .1 7 1 . 0 0 .5 4 1 . 0

Consumo 1 .9 8 0 .6 2 0 .6 5 0 .7 6Investimento 4 .6 3 1 .4 6 0 .6 0 0 .8 2Spesa pubblica 3 .7 8 1 .19 0 .7 9 - 0 .1 3Esportazioni 8 .4 2 2 . 6 6 0 .7 7 0 .4 4Importazioni 6 .1 7 1.95 0 .4 9 0 .7 0Esportazioni nette 0 .8 9 0 .2 8 0 .3 8 - 0 .4 2Occupati industria 2 .1 3 0 .6 7 0 .7 0 0 .3 7Occupati 0 .9 7 0 .3 1 0 .6 5 0 .1 9Produttività lavoro 1 . 8 6 0 .5 9 0 .6 7 0 . 8 6

Salari industria 2 .3 9 0 .7 5 0 .6 4 0 .3 5

Fonte: Gallegali, Stanca (1 9 9 8 ).

viazione standard misura la dispersione tra i singoli valori di una serie e il suo valore medio. Una deviazione standard elevata al quadrato costituisce la varianza di una serie. Deviazione standard e varianza sono due misure di volatilità comunemente adottate nelle analisi em­piriche.

L ’autocorrelazione della serie detrendizzata misura la persistenza. Cioè quanto un valore corrente di una variabile è determinato dal suo valore precedente. Nel nostro caso, dato che trattiamo variabili il cui trend è stato rimosso, Fautocorrelazione misura quanto il valore corrente della componente ciclica di una variabile macroeconomica è determinato dal suo valore precedente.

La cross-correlazione (o correlazione con il p i l ) ci indica il comovi- mento contemporaneo (rispetto al ritardo 0) di ogni variabile con il p i l . Può essere utile per l’analisi del ciclo avere informazioni anche sulla cross-correlazione delle variabili con il p i l nei periodi precedenti e successivi a quello contemporaneo.

Dalla correlazione con il p i l emerge che la spesa pubblica e gli occupati possono essere considerate variabili acicliche (una correlazio­ne con il p i l inferiore a ±0.2), mentre le esportazioni nette si rivelano anticicliche: alPaumentare della fase espansiva, con l’aumento del prodotto interno lordo, la bilancia commerciale presenta un disavan­zo. La serie dei salari nell’industria risulta debolmente prociclica, mentre le componenti della domanda aggregata sono fortemente pro­cicliche. Riguardo queste ultime, il consumo mostra due caratteristi­che importanti, coerenti con la teoria del reddito permanente: una

3 6 3

Page 223: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

LE Z IO N I DI P O LITIC A EC O N O M IC A

T A BE LLA 4.4Il ciclo in Italia: 1970-2002

aa

ÓpiLkOt, pu.k a , , - i Qt, t - 4

P IL k 0 ,0 1 3 1,00 1,00 0 ,8 2 5 2 - 0 ,0 7 2 5UX 0 ,0 4 1 3 ,0 9 0 ,3 3 0 ,4 8 7 9 - 0 ,0 6 2 9M 0 ,0 4 8 3 ,6 6 0 ,7 0 0 ,6 6 3 - 0 ,0 3 2 1C Fl 0,012 0 ,8 9 0 ,7 0 0 ,9 0 2 5 0 ,2 4I 0 ,0 2 9 2 ,2 3 0 ,7 2 0 ,8 7 4 2 0 ,3 2 9 3R E T 0,021 1,62 0 ,1 4 0 ,8 7 3 3 0,2021ULA 0 ,0 0 7 0 ,5 4 0 ,5 5 0 ,8 0 7 2 0 ,1 8 5 7

Serie filtrate con il metodo n-r Elaborazioni su dati IS'TAT.

minore volatilità rispetto al p i l e una maggiore persistenza. Gli inve­stimenti presentano invece una forte volatilità e rappresentano la componente di domanda più prociclica. Il comportamento sostanzial­mente aciclico della spesa pubblica mette in dubbio il ruolo stabi­lizzatore dei consumi pubblici in Italia. Questa aciclicità della spesa pubblica è un’informazione di policy che ha importanti implicazioni che riprenderemo nel paragrafo dedicato all’efficacia delle politiche economiche nel contrastare le fluttuazioni cicliche.

I fatti stilizzati riportati nella tabella fanno emergere anche un’in­teressante distinzione tra occupati totali e occupati del solo settore industriale, con questi ultimi certamente più volatili, persistenti e pro­ciclici 2/. Infine, la produttività del lavoro risulta fortemente prociclica e presenta una variabilità inferiore rispetto all’output. La t a b . 4.4 ri­porta le caratteristiche cicliche dell’economia italiana per un diverso periodo che parte dal 1970 e arriva al 2002, utilizzando dati trime­strali. Le caratteristiche delle serie sono, rispettivamente, la deviazione standard; il rapporto tra deviazioni standard; la correlazione con il p i l

reale e l’autocorrelazione al primo e quarto ritardo delle variabili28.Tutte le variabili si riferiscono alla componente di ciclo ottenuta

con il filtro h - p su dati i s t a t e sono in logaritmi. P IL k - p i l a prezzi costanti; im = importazioni; c f i = consumi finali interni delle fami­glie; / = investimenti fissi lordi; e x = esportazioni; u l a = unità di lavoro totali; r e t = retribuzioni lorde.

27. Si prenda visione anche delle caratteristiche cicliche delle serie settoriali del­l ’occupazione riportate nella r ie . 4.9.

28. L o studente dovrebbe commentare in dettaglio queste caratteristiche ed ef­fettuare un confronto con le caratteristiche del ciclo riportate nella t a b . 4.3 relative ad un diverso periodo.

3 6 4

Page 224: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: A S P E T T I E M P I R I C I E T I - ( ) | < I C I

La f i g . 4.9 mostra il comovimento di alcune serie dell’occupazio­ne. Da quanto detto, sappiamo che è importante capire se una serie, ad esempio la serie dell’occupazione, sia prociclica e con quale inten­sità segua l’andamento dell’attività produttiva. I testi di macroecono­mia analizzano diversi schemi teorici dove si assume un stretta rela­zione tra occupazione e prodotto. Le t a b b . 4.3 e 4.4, sopra riportate, ci indicano tuttavia che se consideriamo la componente di alte fre­quenze, questa relazione non è particolarmente forte. La f i g . 4.9 mo­stra le caratteristiche delle serie dell’occupazione in alcuni settori eco­nomici (le serie sono dati i s t a t 1970-2002 presi nei logaritmi e filtrati dalla componente di trend con il metodo h - p ) , e fornisce alcune indi­cazioni utili dal confronto con la componente ciclica del p i l . I grafici, che riportano l’andamento degli occupati in quattro settori produtti­vi, aiutano a capire perché la correlazione dei dati aggregati dell’oc­cupazione non risulta particolarmente forte.

La componente 20 si riferisce alla componente ciclica degli occu­pati nel settore dell’ “ istruzione, sanità e altri servizi pubblici e priva­ti” ; la componente occupazionale 17 è relativa al “ commercio, ripara­zioni, alberghi e pubblici esercizi” ; la componente 14 indica le “co­struzioni” e, infine, la componente 5 mostra l’andamento ciclico del­l ’occupazione dei “prodotti della trasformazione industriale” . Dalla fi­gura emerge che l ’occupazione della trasformazione (componente 5 ) è particolarmente prociclica, mentre le componenti 20 e 17 si mostrano certamente meno procicliche e in alcuni periodi assumono una mar­cata caratteristica anticiclica. Infine, la componente 14, benché proci­clica, indica l’esistenza di un certo ritardo nel seguire la componente ciclica del p i l . La figura riporta il comovimento dell’occupazione di soli quattro settori con il p i l , mentre un’analisi dettagliata delle ca­ratteristiche cicliche dell’occupazione richiederebbe lo studio del co- movimento dell’occupazione degli altri settori dell’industria, dei servi­zi e dell’agricoltura.

4.4.8. Il ciclo di crescita e l’inversione del trend

Nell’analisi sull’evoluzione degli studi sul ciclo che ha aperto il capi­tolo, abbiamo più volte affermato che negli ultimi anni gli studi sulle fluttuazioni aggregate sono stati effettuati in un contesto teorico co­mune con i modelli di crescita. In questo paragrafo e nel riquadro 4.5 ci proponiamo di mostrare come, di fatto, l ’analisi del ciclo ri­chieda l’analisi della crescita. Negli anni più recenti, una parte consi­stente della letteratura empirica sul ciclo si è discostata dall’approccio n b e r , intraprendendo lo studio delle serie storiche per identificare e

3 6 5

Page 225: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

L E Z IO N I D I P O LITIC A EC O N O M IC A

F IG U R A 4 .

0.0200.0150.0100.0050.000

- 0.005- 0.010- 0.015

75 80 85— Ciclo 20

90 95 00Ciclo P I L

— Ciclo 17 - Ciclo P IL

0.04

0.02

0:00

- 0.02

- 0.04

0.04

0.02

0.00

- 0.02

-0.04

0.04

0.02

0.00

- 0.02

- 0.0470 75 80 85 90 95 00

— Ciclo 14 -- Ciclo P I L

3 6 6

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I4 . L E FLUTTUAZIONI C I C L I C I I li: A S I M i T T I l i M P l K l C I l i T l i < >KI < ;i

quantificare i comovimenti delle variabili macroeconomiche. L ’ap­proccio, chiamato ciclo di crescita (growth cycle), si distingue dal ci­clo classico del n b e r e identifica la componente ad alta frequenza di una serie storica come deviazione dalla sua componente di lungo pe­riodo (dalla componente a bassa frequenza, il suo trend). Nella tradi­zione n b e r le fluttuazioni dell’attività economica sono considerate nei livelli assoluti. Il ciclo è caratterizzato da aumenti o riduzioni del va­lore assoluto dell’attività economica. Una flessione dell’attività econo­mica in questo caso si manifesta con tassi di variazione negativi del p i l , mentre un incremento dell’attività economica si riferisce a tassi di crescita positivi del p i l . La misurazione del ciclo economico per l’ap­proccio del ciclo di crescita è intrapresa in termini di deviazioni dal trend (il trend approssima la crescita). In questo caso una flessione è associata ad un livello del p i l inferiore al suo trend. Nel ciclo di cre­scita le flessioni possono verificarsi anche con tassi di crescita positivi che producono un livello del p i l inferiore a quello del trend, mentre nell’approccio tradizionale le flessioni riguardano sempre riduzioni del livello assoluto del p i l 2 9 .

Lo sviluppo di questo nuovo modo di vedere il ciclo è in parte legato all’esigenza di mutare gli strumenti di indagine con il variare delle caratteristiche del ciclo. Dalla fine della seconda guerra mondia­le si è notato che, invece di gravi e prolungate recessioni, si susseguo­no delle fasi di espansione e riduzione dei ritmi di crescita dell’eco­nomia. Il fenomeno è ancora più marcato nel periodo più recente, dove si nota che le fluttuazioni dell’attività economica sono caratte­rizzate da accelerazioni e decelerazioni dei tassi di crescita. L ’analisi del ciclo è mutata, indirizzando l’attenzione sull’individuazione e la misurazione delle fasi di accelerazione della crescita e di periodi ca­ratterizzati da crescita più lenta. Questa analisi fa ricorso ad una mi­sura di trend che riflette ciò che è considerato un tasso di crescita normale.

Il ciclo di trend, come analisi delle fluttuazioni aggregate, è legato alla letteratura sulla natura dei trend stocastici, i cui contributi più importanti risalgono agli inizi degli anni ottanta. Più avanti vedremo che, per l’analisi statistica di quegli anni, gran parte delle serie ma­croeconomiche era caratterizzata da un trend stocastico (random walk). Un’interpretazione del ciclo piuttosto intuitiva e quindi facil­

29. Abbiam o già avuto m odo di accennare che questo approccio all’analisi del ciclo trova critiche considerevoli. A d esempio, H arding e Pagan sottolineano come la definizione del ciclo tradizionale sia quella considerata dalle autorità economiche e dagli istituti di previsione, ed è perciò la sola interessante a questi fini.

3 6 7

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LE Z IO N I D I P O L IT IC A EC O N O M IC A

mente raffigurabile in maniera stilizzata considera le fluttuazioni delle variabili macroeconomiche come movimenti della loro componente ciclica intorno al trend. Il problema con questa raffigurazione del ci­clo sorge quando il trend delle variabili non può essere considerato costante ma è esso stesso generato da un processo stocastico. Il pro­blema non è di poco conto perché, in questo caso, anche il trend contribuisce alle fluttuazioni osservate in quanto è soggetto anch’esso a particolari variazioni.

Per rendere chiaro questo aspetto, consideriamo la serie storica del p i l y, con lo scopo di presentare un semplice modello di trend deterministico e di trend stocastico 3°. Possiamo dare un’interpreta­zione economica alla componente di trend del p i l . Assumiamo l’ipo­tesi del tasso naturale del p i l per definire il trend di questa variabile. L ’ipotesi rende esplicito che la crescita del p i l di lungo periodo è

dovuta a fattori che incidono esclusivamente sul tasso naturale del p i l . Assumiamo quindi che il p i l reale (nei logaritmi) cresca ad un tasso costante nel tempo:

[4.17] y, = 3V1 + aTt

L ’equazione [4.17] afferma che il livello naturale del p i l reale (yt) di un dato periodo è uguale al livello naturale del p i l reale del periodo precedente, più la crescita del trend. Dal punto di vista statistico, questa equazione assomiglia a un modello random walk con drift, stu­diato nel p a r . 4.4.4. L ’equazione afferma anche che la variazione del tasso naturale del p i l è costante e pari ad a. Il p i l è sul suo sentiero di trend e l ’equazione ci permette di tracciare una linea di trend con una pendenza di a per anno. Questo schema descrive la componente di trend della variabile p i l . Analizziamo ora cosa accade se, per una qualsiasi ragione, il p i l devia dal suo sentiero di trend di crescita na­turale. La deviazione di quanto prodotto all’interno di questa ipoteti­ca economia dal suo sentiero di trend necessariamente coinvolgerà un breve periodo; nel lungo periodo la variabile sarà indotta a seguire il suo sentiero naturale. Questo processo dinamico del p i l può essere descritto nel seguente modo:

[4-18] yt = yt + P(yt-i -3V1) + ut

3 0 . N ei paragrafi successivi vedremo perché la distinzione è rilevante anche per gli schemi teorici predisposti per analizzare il ciclo.

3 6 8

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4 . L E FLU T T U A Z IO N I C IC L IC H E : A SP E T T I EM PIR IC I E TEO R ICI

dove yt rappresenta il p i l osservato nel periodo t, ovviamente diverso dal livello naturale del p i l , il coefficiente fi è ristretto ai seguenti valo­ri 0 </3< 1, mentre il tasso naturale del p i l yt segue la dinamica espressa dalla [4.17]. L ’equazione [4.18] rappresenta uno schema con cui si possono facilmente definire due tipi di trend e le rispettive im­plicazioni per il ciclo.

Caso 1: Se il parametro fi presenta un valore inferiore ad 1, si hanno due implicazioni:a) i l v a lo re d e l p i l n o n è s u lla sua lin e a d i tren d ;b) opera un meccanismo che tende a riportare i valori del p i l sul suo valore di trend.

Uno shock è rappresentato dal termine di errore nell’equazione[4.18]; ad esempio uno shock positivo che crei un’espansione dell’c conomia presuppone un valore positivo di u„ e produce una variazio ne positiva del p i l sopra il suo valore di trend. Viceversa, uno shock negativo di ut determina una variazione negativa del p i l . Il coefficien te fi è quindi l’ammontare del p i l al tempo t rispetto al valore de terminato nel periodo precedente Infatti, dalla [4.18], prendendo la derivata del p i l al tempo / rispetto al p i l del periodo prece­dente, otteniamo dyt/dyt_x = fi. Se ipotizziamo un coefficiente fi< I, ad esempio 0.6, e uno shock positivo che innalza il p i l di 100 milioni sopra il suo trend, possiamo chiederci quale sarà l’evoluzione del imi in seguito a questo shock. Nel periodo successivo ( / + 1) il p i l risulie rà ancora sopra il suo trend di un ammontare pari a (100 • 0.6) = 60 , successivamente (t + 2) si avrà una variazione ancora positiva e pari a (60 - 0.6) = 3 6 e cosi via con l’effetto dello shock che diviene graduai mente più debole, portando il p i l di nuovo sul suo sentiero di trend eli lungo periodo (si veda la f i g . 4.10).

Questo modello di inversione del trend riporta le deviazioni (lim illazioni) del p i l s u una linea fissa che rappresenta la componcnie di irend della serie.

Caso 2: Se la situazione è caratterizzata da fi= 1, l’ inversione sulla li nea fissa non è più possibile. Con fi= 1, l ’equazione | 4.18 | divenla:

14-19] yt-yt-1 = (y/-y/ i) +Si noti che il primo termine a destra dcH'equazione I p m>| e la dilli renza logaritmica del p i l naturale che sappiamo (dalla |.|.i/D co ( 1 ; 11 ale al tasso di crescita costarne <t. ( ao ci |htiih-ii<- di risi 1 1\ <■ 1 ■ Li I4.19] nel seguente modo:

V >■ >

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L E Z IO N I DI P O LITIC A EC O N O M IC A

F I G U R A 4 . I O

p il che converge sul sentiero di trend

F I G U R A 4 . 1 1

p i i . che non converge sul sentiero di trend

Tempo

3 7 0

Page 230: Chiarini B. Lezioni Di Politica Economica

4 - L E F L U T T U A Z I O N I C I C L I C H E : A S P E T T I E M P I R I C I V. T K O K I C I

[4.20] = aT + u,

Abbiamo già incontrato questo modello nel p a r . 4.4.4 e sappiamo che nella letteratura sulle serie storiche è conosciuto con il nome di random walk. In particolare l’equazione [4.20] indica che il compor­tamento della variabile è determinato da un processo random walk con drift.

Utilizzando questo modello, possiamo raffigurare in maniera sti­lizzata l’effetto di shock casuali che spostano la stessa linea di trend sopra o sotto la linea di trend fissa. La particolarità definita dalla[4.20] è che, dato un trend rappresentato da una linea fissa, il valore del p i l nel periodo corrente dipende esclusivamente dal valore del p i l nel periodo precedente. Una volta sollecitato da un disturbo eso­geno, il p i l continua per sempre a crescere sul nuovo sentiero. Lo spostamento determina una crescita del p i l ad un tasso a ma fuori della linea di trend fissa e, ciò che è più rilevante, questo processo di crescita non mostrerà nessuna tendenza ad invertire la dinamica come nel precedente modello, e ritornare sul trend fisso. Per ottenere un’inversione della dinamica è necessario che intervenga un nuovo shock ut di segno opposto, in grado di spostare, questa volta, la retta di trend del p i l verso il basso. Questo processo stilizzato è raffigurato con gli effetti di tre shock di segno diverso nella f i g . 4 .11 3I.

Queste considerazioni mettono in evidenza come il ciclo sia inti­mamente legato alla crescita. La f i g . 4 .11 rispecchia l’equazione[4.20]: variazioni del termine stocastico (shock casuali di varia natu­ra) aumentano o diminuiscono il p i l , spostando verso l’alto (sopra) o verso il basso (sotto) il suo sentiero naturale (di trend). La figura mette in evidenza che una volta spostato il p i l dal suo sentiero, se­condo la [4.20] non c’è possibilità alcuna che lo spostamento si ridu­ca gradualmente e converga sul precedente sentiero naturale. Lo shock non può essere “riassorbito” come nel caso precedente. L ’uni­ca possibilità per spostare di nuovo il p i l dal suo nuovo sentiero è un ulteriore shock di segno contrario. Ed è proprio questo che accade nella realtà, con innumerevoli shock diversi e opposti che “colpisco­no” l’economia producendo spostamenti del p i l dal suo sentiero na­turale.

In un recente studio sulle maggiori recessioni, Dow (1998) analizza la fase asimmetrica delle grandi recessioni, che si caratterizza con una forte riduzione del p i l seguita da una ripresa del trend di crescita, che

3 1 . L a figura, ripresa da fia li (1990), è utile per sottolineare le caratteristiche del modello. In realtà la dinamica della [4.20] può essere rappresentata dalla f i g . 4.5.

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LE Z IO N I D I P O L IT IC A EC O N O M IC A

F IG U R A 4 . I 2

Effetto recessivo di un forte shock negativo

tuttavia avviene gradualmente e si interrompe generando una ulteriore caduta del prodotto. La dinamica è rappresentata in maniera stilizzata nella f i g . 4.12 e, come appare evidente, contrasta con le fasi cicliche tradizionali descritte dalla f i g . 4.10. La figura di Dow mette in risalto la mancanza di meccanismi capaci, quasi automaticamente, di ristabilire un sentiero positivo di crescita e di convergenza verso il trend del p i l .

Al contrario, a meno che non intervenga un nuovo shock, una volta esaurito l’effetto d’impatto dello shock negativo, il trend di crescita vie­ne ripreso da un livello più basso. Come mostra la figura, lo shock che ha innescato la fase recessiva (secondo Dow, lo shock che causa major recessioni) presenta effetti permanenti.

4.4.9. Le asimmetrie del ciclo e il trend

L ’aspetto sottolineato da Dow (1998), che asserisce che questo feno­meno è valido soltanto per shock particolarmente rilevanti, ma non negli altri casi, è importante e merita alcune considerazioni in quanto ci conduce al problema dell 'asimmetria delle fasi cicliche. Il problema di stabilire se le caratteristiche delle fasi espansive siano diverse da quelle delle fasi di recessione è piuttosto antico e risale ai primi scrit­ti sul ciclo economico. Se ci limitiamo ai lavori con cui abbiamo aperto la trattazione in questo capitolo, già negli anni quaranta Burns e Mitchell, con l’ausilio del materiale e delle informazioni raccolte,

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4 - L E F L t J T T U A Z J O N I C l C L T C i I K : A S 111 ; I I ’ I l ' Ml MKMI I TI < > i: I < I

descrivevano un ciclo economico asimmetrico caral len* ' / .atn da la:.i

recessive più rapide, più profonde e di minore duca la del le la:.i

espansive 32. A questo riguardo esiste una letteratura recente clic ana lizza l’asimmetria del ciclo basandosi su approcci diversi di concepireil trend delle serie.

Il lavoro di Hamilton (1989) ha dato avvio ad un filone di ricerca metodologica rilevante 33. In questo contesto, il contributo ci interes­sa in quanto permette di dividere nettamente il ciclo in due fasi, uti­lizzando l ’analisi univariata di una serie storica. L ’economia può effet­tuare uno switch tra una crescita del trend negativa ed una crescita del trend positiva. Questa dinamica non permette però, nella fase successiva ad una recessione, di effettuare di nuovo uno switch di se­gno contrario che riporti l ’economia sulla fase di crescita espansiva. In altri termini l’economia (o il p i l ) non riesce a ritornare sul sentiero da cui la recessione l ’ha allontanata, mostrando un effetto stilizzato simile a quello descritto dalla f i g . 4.12. Gli effetti che determinano la recessione non sembrano quindi avere caratteristiche temporanee, o quantomeno producono un fenomeno, la recessione, con caratteristi­che permanenti: il p i l rimane inevitabilmente influenzato in maniera permanente da uno shock avverso. L a recessione (o il fattore che l’ha causata) determina un movimento del trend nella serie del p i l , men­tre nelle analisi tradizionali la recessione è considerata come una de­viazione transitoria dal trend 34.

32. Il lavoro di riferimento che ha dato avvio alla letteratura moderna di verifica delle asimmetrie è quello di Neftci (1984) sulle serie della disoccupazione.

33. Questo filone di ricerca econometrica ha generato ciò che ormai è com une­mente chiamato modello Markov-switching. Un modello utilizzato per catturare le ca­ratteristiche di due regimi e lo switch tra i due. Questo approccio è chiaramente alter­nativo a quello lineare dove l ’output è funzione soltanto dei valori passati. Se le fasi che contraddistinguono il ciclo hanno caratteristiche distinte, il modello lineare non può essere utilizzato. Hamilton (1989) applica un modello di Markov switching alla serie del P N L degli Stati Uniti e riporta le asimmetrie nei dati associati con le diffe­renze nei tassi di crescita medi tra gli Stati e le probabilità di transizione tra gli Stati. Il risultato è che il comportamento del p n l è marcatamente differente nel ciclo econo­mico con le espansioni e le contrazioni che si presentano come fasi distinte. Un lavoro interessante che introduce il concetto di steepness (le contrazioni sono più ripide delle espansioni) e deepness (i picchi minimi sono più profondi di quanto non siano alti i picchi espansivi del ciclo) nel caratterizzare i tipi di asimmetria delle fasi cicliche è quello di Sichel (1993).

34. Recentemente Friedm an (1993) ha ribadito quest’ultima visione: la recessione è prodotta da shock negativi che possono essere rilevanti ma sono comunque transito­ri. Si veda anche Kim e Piger (2000) per una rassegna dei diversi problemi dell’a- sinimetria del ciclo e delle caratteristiche di trend della serie, nonché delle difficoltà nel sottoporre a test un modello Markov-switching rispetto a un modello lineare di

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Di fatto il termine stocastico rappresenta gli innumerevoli disturbi di segno positivo e negativo che colpiscono l’economia, cosicché ciò che osserviamo (le statistiche sul p i l ) può apparire coerente con un ciclo economico caratterizzato da un modello di inversione di trend mentre, in realtà, è lo stesso sentiero di trend che si muove casual­mente in alto e in basso. Una domanda che a questo punto si pone è come è possibile distinguere una variabile macroeconomica che segue un processo random walk o di inversione del trend?

4.4.10. Come si comportano le serie macroeconomiche?

I paragrafi precedenti hanno messo in evidenza come la componente di trend sia determinante per l’analisi del ciclo. Nel loro studio em­pirico Nelson e Plosser (1982) mostrano che il p i l e le altre serie macroeconomiche degli Stati Uniti si comportano come un processo random walk. Cioè sono serie stazionarie alle differenze che possono essere definite come variabili 1(1) (in altri termini, variabili integrate di primo ordine).

Come accennato, le proprietà di un random walk rendono impos­sibile al processo stesso di riportare una variabile, una volta sollecita­ta, su un particolare livello di lungo periodo. Il random walk è un processo stocastico non-stazionario ed è chiamato trend stocastico perché, sebbene possa mostrare crescita, non genera nessuna fluttua­zione intorno a un particolare trend deterministico 35.

Dalla pubblicazione del lavoro di Nelson e Plosser, la letteratura macroeconomica ha rivolto un crescente interesse alle proprietà stati­stiche delle serie storiche delle variabili aggregate. La discriminazione tra variabili c9.11 trend stocastici o deterministici è diventata una pras­si consueta nelle analisi empiriche. Una variabile non stazionaria con un trend stocastico, qualora uno shock casuale la influenzi, non mo­strerà nessuna tendenza a convergere a un valore medio o di equili-

una serie storica. Questi autori propongono anche un metodo (un’analisi multivariata) per considerare insieme questi due tipi di asimmetrie del ciclo (caratteristiche transi­torie e permanenti).

35. Nel loro lavoro Nelson e Plosser osservano che anche la serie ricavata per la tecnologia da un residuo di Solow è caratterizzata da un processo random walk. Shock (innovazioni) di tecnologia e, quindi, shock di produttività dei fattori influenza­no una serie di variabili macroeconomiche con trend stocastici, e producono su di esse effetti permanenti. Questi aspetti sullo shock di tecnologia e i trend stocastici risulteranno importanti nell’analisi del ciclo reale.

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

R IQ U A D RO 4.5L ’indistinguibilità statistica tra ciclo e trend

Le considerazioni effettuate nei precedenti paragrafi sottolineato l’esisten­za di un legame tra ciclo e crescita. In questo riquadro utilizzeremo un semplice modello statistico per mostrare come sia difficile distinguere tra ciclo e trend in presenza di variabili economiche con trend stocastici. Questa indistinguibilità avvalora la considerazione del ciclo economico portata avanti dalla letteratura più recente sul ciclo, dove entrambe le componenti della serie sono originate dagli stessi fattori.

Abbiamo già notato che, nella sua scomposizione più semplice, una serie macroeconomica può comprendere una componente transitoria (ci­clo) ed una componente permanente (trend):

M yt = rt + ctdove Tt e Ct sono, rispettivamente, le componenti di trend e di ciclo della variabile yt. Analizziamo separatamente queste due componenti della se­rie. Se ipotizziamo che la componente di trend sia stocastica, questa com­ponente può essere definita nel modo seguente

[ii] Tt = p + T ^ + A (L )e t

dove (3 è una costante positiva, e, è definito rumore bianco (è una variabi­le casuale indipendente, distribuita normalmente, con media zero e va­rianza costante) e A(L) indica un polinomio nell’operatore ritardo L: A(L) = (1 +L + L2 + ...)A. Quindi A(L) è un modo per scrivere una distri­buzione di ritardi della componente di disturbo, ed equivale a scrivere A(L)et = Xet +Xst_x+Xs^2 +Xst_ì + ... Nella [ii] la componente di trend della variabile dipende da una costante (un drift), dal valore precedente del trend e da una serie di disturbi casuali.

Passiamo alla componente ciclica della variabile, C, che può essere rappresentata da uno shock che prolunga i suoi effetti nel tempo e che tendono ad annullarsi nel lungo periodo:

[iii] Ct = xV(L)ut

dove u, è anch’esso definito rumore bianco e ij.i(L) è un polinomio nel­l’operatore ritardo L: W(L)ut = (1 + L + L2 + ...)ìjju, = iput + +1pUt-2 + tyUt-3 + ■■•

Prendiamo le differenze della [i] e sostituiamo le componenti di trend e ciclo [ii] e [iii] anch’esse in differenze prime (AT,= T -T t_i, ACt = Ct- C^), per ottenere:

[tv] A y^ p + A iD et + W iD ur-W iQ u^P+A iLÌE '+d-D W iU U 'AT, AC,

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LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

È opportuno notare che non è possibile stimare la [iv\. non si può di­stinguere l’effetto sulla variabile di interesse y, ottenuto da uno shock sul trend da uno ottenuto con uno shock sul ciclo. In altre parole, non è identificabile quanta parte della variazione (dello shock) osservata di y, è attribuibile alla variazione del trend o del ciclo: anche se l’equazione [ivi mostra che gli shock al trend fi, producono un effetto permanente in quanto A(L) è diverso da zero, mentre uno shock al ciclo u, produce un effetto transitorio (nel lungo periodo, quando la dimensione temporale viene meno, infatti avremo W(L)-W(L) = 0).

Nei paragrafi successivi vedremo che l’approccio teorico del ciclo rea­le “risolve” questo problema, assumendo che gli shock sul trend e sul ciclo siano determinati dallo stesso insieme di fattori. In questo caso ab­biamo e, = u, che ci permette di semplificare la [ivi nel seguente modo:

[vi Ay, = fi + A (L)e, + ( l-L)W(L) e, = fi + £2(L) e,-W(L) e,_t

dove Q = ( A + W). La variazione di y, è causata dalla somma dei coeffi­cienti degli shock che è uguale a A(L): i coefficienti dello shock sul trend specificati nella [iti.

Un caso semplificato può aiutare a chiarire questo punto. Si assuma che gli shock su trend e ciclo siano limitati a due soli periodi:

A(L) = (1 + AL)W(L) = (1 + xj,L)

Con l’ipotesi che e, = u„ la [vi ora diventa:

Ay, = f ì+( 1 + XL)s, + (1 + il>L)(l~L)e,= fi+ et + A + £ -s t + H>£t -ipst_2

= /?+ 2e, + (A + ip-VtEf^-xjte^

definendo r)= (X + i p- 1 ) possiamo ancora scrivere:

[vii Ay, = fi+ 2s, + ìjs,_t +

Uno shock produce un effetto su y, pari a (2 + r]~ ip). Dato che i] = A + ip-1, lo shock produce un effetto pari a (1 + k) che rappresenta l’effetto dello shock sul solo trend. Valori di A piuttosto elevati producono un valore di lungo periodo della serie y, superiore all’effetto di impatto dello shock. Viceversa, piccoli valori di A producono un valore di lungo periodo della variabile y, inferiore al valore di impatto corrente dello shock. In que­st’ultimo caso si può affermare che lo shock viene parzialmente riassor­bito.

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4 . LE FLUTTUAZIONI CICLICHE: ASPETTI EMPIRICI E TEORICI

brio. Ciò implica che la sua scomposizione in una componente di trend ed una di ciclo è più complessa. Gli stessi elementi strutturali stocastici tendono ad influenzare entrambe le componenti della serie e l ’identificazione delle stesse diviene più problematica. In questo caso, le fluttuazioni economiche possono essere spiegate come varia­zioni delle prospettive di crescita dell’economia di lungo periodo; il ciclo rappresenta gli aggiustamenti a possibili nuovi sentieri di cre­scita di lungo periodo.

Viceversa, una variabile che contenga un trend deterministico può essere caratterizzata come un processo stazionario intorno ad un trend e le fluttuazioni che essa mostra (i cicli) intorno alla componente seco­lare (la crescita) sono necessariamente di natura temporanea.

Alcuni economisti affermano che la letteratura teorica sul ciclo re­ale (che analizzeremo più avanti) ha trovato un riscontro empirico dalla letteratura sulle serie storiche, in particolare dai lavori che han­no seguito l’analisi di Nelson e Plosser. In realtà, i risultati raggiunti da una vasta parte di questa letteratura non sono conclusivi. Esistono diversi problemi che riguardano la valutazione dei risultati ottenuti e la metodologia statistica adottata. Per illustrare alcuni di questi pro­blemi aperti, ipotizziamo che il seguente modello riesca a specificare bene la crescita del p i l :

[4.21] yt = a y , + fit + et

Supponiamo che intervenga una variazione di et che porti l’output a crescere sopra il suo trend. Con yt che dipende da yt_lt lo shock vie­ne trasmesso nei periodi successivi generando una correlazione seriale del prodotto, tipica dei cicli economici. Con a < 1, l ’effetto delle va­riazioni di et tende a diminuire gradualmente e il prodotto tende a ritornare sul suo trend.

Alternativamente, possiamo ipotizzare che il prodotto segua un andamento random walh.

[4.22] yt = yt_x + + £,

L ’equazione [4.22] si distingue dalla [4.21] per la restrizione a = 1, mentre [it rappresenta un drift. Una variazione del termine di disturbo £, genererà un effetto persistente e (in mancanza di altri shock di segno contrario) il p i l non riuscirà a ridimensionare questo effetto. L’eviden­za empirica su questi due casi non è univoca e genera molti dubbi di interpretazione. Ad esempio, si consideri il seguente modello:

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