Chi conosce sé stesso è divinizzato Harran. La Luna e la ... · La Luna e la Religione dei...
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“Chi conosce sé stesso è divinizzato”
Harran. La Luna e la Religione dei Filosofi
Nella Firenze medicea della metà del ‘400, uno scultore, forse Donatello, fonde uno
splendido busto ora conservato al Bargello, in cui è ritratto un filosofo neoplatonico: un medaglione
sul petto raffigurante una quadriga pronta a prendere il volo è l’unico elemento che l’artista ha
ritenuto utile fornire per l’ identificazione del personaggio. In quello stesso periodo, Marsilio Ficino
era impegnato a tradurre l’intera opera di Platone, lavorando però al contempo anche sui trattati
del Corpus Hermeticum: anni dopo, il grande umanista scrive il De Vita Coelitus Comparanda, che
a suo giudizio costituiva una lucida sintesi del Picatrix, il “diabolico” manuale di arti magiche.
Scopo del presente articolo è individuare uno dei principali canali di trasmissione attraverso
cui il singolare connubio tra magia astrale e tardo Neoplatonismo è giunto nell’ Occidente
medievale e rinascimentale: i Sabei di Harran. L’interesse dell’argomento, nell’ambito di questa
mostra, sta nel fatto di contemplare l’ascesa al cielo nel corso della vita terrena non solo per pochi
individui d’eccezione ma, in linea di principio, per ogni uomo.
Prologo
Intorno alla metà del X secolo della nostra èra un “turista” un po’ fuori dal comune
giunge in visita a Harran, in Alta Mesopotamia1. Che cosa lo ha spinto fin quaggiù? Non lo
sappiamo con certezza. E’ facile immaginare tuttavia che ad orientare i passi di una
personalità di spicco come lo storico arabo al-Mas’udi verso un centro così carico di
memorie siano stati innanzitutto i suoi vasti interessi antropologici e culturali, quella
sincera curiosità per i costumi, i riti, le credenze dei tanti popoli della terra destinata a
prender corpo nel suo capolavoro: Le Praterie d’oro.
Durante il suo soggiorno in città, l’ “Erodoto degli Arabi” incontra alcuni personaggi
autorevoli del posto, dai quali apprende preziose informazioni sulle dottrine filosofico-
religiose professate dall’esotica comunità dei Sabei harraniani, sugli edifici pubblici e sui
templi presenti nella loro capitale nonché sulle cerimonie in essi praticate. Sarebbe un
errore sottovalutare il valore delle annotazioni prese in quella circostanza da al-Mas’udi:
nonostante il metodo “giornalistico” con cui espone alla fine i risultati delle sue indagini,
egli si rivela essere il solo individuo in grado di vantare un’esperienza personale riguardo
al complesso nodo problematico venutosi a intrecciare tra il Sabeismo e la realtà di
Harran. Tra le tante notizie registrate dallo scrittore nel corso di quel viaggio straordinario,
una in particolare attira irresistibilmente tutta la nostra attenzione. Il passaggio che la
contiene è breve, ma decisivo:
“Ho visto a Harran – racconta a un certo punto il nostro autore – sul battente della porta
del luogo di riunione dei Sabei un’iscrizione in caratteri siriaci, tratta da Platone; mi è stata
spiegata da Malik bin Uqbun e da altre persone della stessa setta: ‘Chi conosce sé stesso
è divinizzato’ ” 2.
La Capitale della Luna
Non è per un prepotente bisogno di spettacolarizzazione che si è scelto di titolare
così questo paragrafo. Di fronte a Harran, chiunque capisce subito di stare dinanzi a un
polo religioso di magnitudo superiore, assoluta, a un vero e proprio “centro” cosmico
capace di guardare a testa alta concorrenti del calibro di Gerusalemme, di Roma o de La
Mecca. La ripetuta menzione tra i materiali d’archivio portati alla luce dalla missione
archeologica italiana a Ebla di un sito denominato in grafia sillabica kha-ra-an(ki), che
significa appunto “strada”, “viaggio”, “carovana”, ha fornito da tempo la conferma dell’
essenziale funzione di snodo viario giocata dalla città fin dalla fase del Bronzo Antico 3. Ma
c’è dell’altro.
Emerge infatti la circostanza che il patrono di Ur, il dio della Luna chiamato in
Sumerico Zu-En - divenuto poi in trascrizione accadica semplicemente Sin 4 - finisce per
trovare una seconda sede speculare appunto a Harran, della quale diventa a sua volta il
protettore divino e dove sorge perciò fin dal principio del II millennio a.C un famoso
santuario in suo onore. Ne abbiamo la prova grazie a un prezioso documento risalente
all’epoca di Hammurabi e delle dinastie amorree che registra un trattato stipulato tra quelle
sacre mura a garanzia della promessa: “Asditakim e i re di Zalmaqum (da una parte), i
sudaqu e gli Anziani dei Bene-iamina (dall’altra), hanno concluso un’alleanza nel tempio
di Sin di Harran. I re del paese di Zalmaqum fanno la seguente dichiarazione ecc.” 5.
Le porte della Terra dei due Fiumi sono dunque abbracciate dal medesimo nume
tutelare, il dio lunare Sin. Al Nord come al Sud, a Harran come a Ur, è ancora e sempre la
Luna a dominare, sovrana, il paesaggio. Un motivo arcano presiede i destini delle due città
rendendole, una volta per tutte, sorelle. Di questo ponte gettato da un capo all’altro della
pianura mesopotamica (e rispecchiato dalla vicenda di Abramo narrata in Genesi, 11, 31)
non rimangono oggi che le vestigia del pilastro meridionale, lo splendore accasciato della
ziqqurat di Ur; a Harran il tempio della Luna ha pagato un prezzo ancor più alto nella sua
lotta contro il tempo, e il risultato è che di esso, purtroppo, non c’è più nulla da vedere.
Non si è riusciti nemmeno a stabilire dove sorgesse di preciso la dimora benedetta
di Sin. Senza dubbio, a partire dal periodo in cui Harran entrò stabilmente nell’orbita dello
stato assiro - anche a causa del crescente prestigio del dio-Luna ai fini della legittimazione
del potere politico - doveva trattarsi di un edificio magnifico. Ci resta solo il nome: la mitica
E-hul-hul, la “Casa della Gioia” . L’ impianto templare si chiamava ancora così al momento
dell’ascesa di Nabonedo (555-539 a.C), cultore devoto alla religione lunare fino al
fanatismo. In ciò ebbe certo il suo peso il fatto che la madre dell’ultimo re babilonese
avesse svolto le funzioni di grande sacerdotessa nel tempio di Harran, trasmettendo al
figlio una passione religiosa che gli si rivelerà però fatale. Appena quattordici anni dopo
l’ennesimo restauro della “Casa della Gioia”, Babilonia cadeva per sempre di fronte
all’inarrestabile offensiva di Ciro il persiano 6.
Il santuario tornerà agli onori delle cronache soltanto in tarda epoca romana, anche
se di certo non portò fortuna a chi si recò a visitarlo. Fu infatti sulla via del ritorno da
Harran, dove era andato per adorare la Luna, che Caracalla cadde assassinato nel 212
d.C per mano di Macrino; così pure l’imperatore Giuliano non mancò di rendere il proprio
omaggio al tempio, prima di dare avvio alla campagna militare del 363 d.C in Iran che gli
sarebbe stata fatale 7. La devozione dei Cesari per la divinità lunare non è un fatto isolato:
in onore di quest’ultima, per esempio, Adriano aveva fatto voluto fosse eretta una statua
nel luogo che ospitava in precedenza il celebre Colosso di Nerone.
L’Accademia Platonica
Gli ultimi esponenti dell’ Accademia Platonica furono costretti a lasciare Atene.nel
529 d.C. In quell’anno veniva infatti decretata da Giustiniano la soppressione della gloriosa
Scuola che il padre del pensiero occidentale aveva creato quasi un millennio prima: a
Damascio, Marino, Prisciano Lido, Simplicio e gli altri non restò allora che riparare
mestamente in Persia, presso la corte di Cosroe, da cui era giunta loro una provvidenziale
offerta di ospitalità. Ma che cosa accadde in seguito? Gli accordi di pace stipulati qualche
tempo più tardi tra i due massimi sovrani prevedevano, fra le altre clausole, anche la
garanzia per questo manipolo di filosofi di vivere in pace nei territori di Bisanzio. La
sfruttarono essi davvero? E, se così, dove?
Sono ormai trascorsi una trentina d’anni da quando Michel Tardieu sostenne per la
prima volta la tesi che, di ritorno dall’Iran, gli epigoni di Platone abbiano rinvenuto proprio
in Harran il posto ideale per vivere ed insegnare, ma l’idea di fondo non ha perso nulla
della sua forza 8. Reperire una città pagana dentro i confini dell’Impero Romano d’Oriente
non era certo una cosa a portata di mano a quell’epoca. E poi con l’aria che tirava in giro
non c’era nemmeno troppo da fidarsi: il ricordo del martirio subito ad Alessandria ad opera
dei fanatici cristiani dalla filosofa Ipazia doveva essere quanto mai vivo alla mente dei
nostri Platonici; ed essi di certo avranno dormito sonni più tranquilli, sapendosi in una
località situata a un passo dalla frontiera.
Gli elementi gettati sul piatto della bilancia da Tardieu a favore del proprio discorso
non si limitavano tuttavia a questo. L’analisi dei diversi sistemi di calendario che sarebbero
stati simultaneamente in uso a Harran secondo le fonti arabe; il rispetto mostrato nel 540
da Cosroe per gli Harraniani alla ripresa del conflitto con Bisanzio, “perché la maggior
parte di loro non sono Cristiani ma seguaci dell’antica fede”; il riferimento geografico al
fiume Khabur (le cui sorgenti sono a meno di cento chilometri dalla città), presente
nell’opera di Simplicio: sono tutti elementi che rendono l’ ipotesi avanzata dallo studioso
francese non solo verosimile, ma altamente probabile. Così come è assai probabile che i
Commentari di Simplicio su Aristotele, Epitteto ed Euclide siano stati composti qui; che
sempre qui siano state scritte da Prisciano le Solutiones; e che, se non qui, quantomeno
nell’ area siriana abbia risieduto Damascio fino al 538 (anno forse della sua morte) 9.
Attribuire a questi argomenti tutto il loro valore non vuol dire però mettere da parte
l’incredibile ricchezza culturale di Harran. Se il Neoplatonismo è riuscito a far presa qui
senza incontrare resistenze, è evidentemente perché ha potuto poggiare su un terreno già
fertile grazie alle diverse civiltà dell’ Oriente con cui la città nel corso dei secoli era venuta
con intelligenza a contatto. E’ così che si è formata quella singolare miscela di fattori
eterogenei - tenuta però saldamente insieme dal denominatore comune dei culti astrali -
che rappresenta il tratto più caratteristico dell’identità harraniana, dell’ elaborata forma di
sincretismo che questa grande capitale è stata in grado di sviluppare e quindi di
trasmettere al resto del mondo.
Chiarito ciò, dovrebbe essere anche chiara la ragione per la quale riconoscere negli
individui che al-Mas’udi incontrò a Harran gli esponenti della locale “Accademia Platonica”
- come credeva Tardieu - significhi decisamente “forzare l’evidenza” 10. Che si trattasse di
filosofi, e di filosofi legati a filo doppio con il Platonismo in virtù di un magistero risalente
con ogni probabilità a ben quattro secoli prima, non si discute. Ma qui bisogna fermarsi.
I Sabei
Lo scontro con il califfo
Nell’ anno 833 d.C il grande califfo al-Ma’mun capitò di persona a Harran: era in
procinto di sferrare un attacco militare ai Bizantini, e la regione rappresentava una tappa
naturale del percorso. Il Principe dei Credenti non tardò a capacitarsi che c’era qualcosa
che non andava. L’ inconsueto aspetto della gente del posto, la foggia degli abiti e delle
acconciature rinviavano ad un lontanissimo passato, dando adito ai più foschi sospetti che
vennero in pochi istanti confermati: erano pagani! La reazione del califfo fu violenta:
concedeva loro tempo fino al suo ritorno dalla guerra per convertirsi a all’Islam o ad un’
altra delle Religioni del Libro, ma poi non avrebbe più avuto nessuna pietà.
E’ questo, in estrema sintesi, l’ episodio-chiave a cui risalirebbe secondo il Fihrist
(Catalogo) del famoso poligrafo Ibn al-Nadim (fine X sec.) il motivo per cui gli Harraniani,
“comunemente conosciuti col nome di ‘Sabei’ ”, avrebbero scelto da allora di chiamarsi
così 11. Si sarebbe trattato di un volgare espediente, di una truffa freddamente perpetrata
al fine di strappare al governo musulmano uno spazio di tolleranza per il quale i pagani di
Harran non potevano accampare il benché minimo diritto. Ma chi sarebbe mai stato in
grado di smentirli? Nessuno sapeva dire a quale comunità pensasse il Profeta con
esattezza quando aveva inserito i Sabei fianco a fianco degli Ebrei e dei Cristiani nel
Corano (2, 62; 5, 69; 22, 17).
I dati comunicati da al-Nadim, comunque, non si riducono a questa nota storica di
colore, al contrario. La sua indagine spazia liberamente a trecentosessanta gradi: dalla
teologia alle divinità astrali o di altra origine adorate nel pantheon, dai profeti alle
celebrazioni ricorrenti nel corso dell’anno; e poi le preghiere, i sacrifici, i tabù alimentari, le
norme matrimoniali, i misteri. Le fonti letterarie impiegate dallo scrittore per comporre il
suo affresco si rivelano tuttavia di valore piuttosto disuguale: mentre le informazioni di
natura metafisico-dottrinaria derivano nientemeno che da un’ autorità del calibro di al-
Kindi 12, autore del celebre trattato De Radiis sugli influssi siderali 13, quelle relative al
calendario, all’ “incidente di percorso” con al-Ma’mun e, soprattutto, alla spaventosa storia
della Testa Parlante vanno prese invece con una certa cautela.
E’ superfluo porre l’accento sull’importanza che il De Radiis assume nell’economia
del presente discorso, perché vi si ritrovano i principi teorici di quella particolare branca
della magia astrologica, le cui applicazioni pratiche vengono esemplificate - come si vedrà
- dal Picatrix e dalle liturgie astrali degli Harraniani: “le espressioni più alte di magia, dal
punto di vista intellettuale, che furono sviluppate durante il Medioevo” 14, e sfruttate
ampiamente in seguito.
Le notizie registrate da al-Nadim sono per .lo più degne di credito anche per quanto
riguarda il calendario. Per esempio i nomi dei pianeti, di cui i Sabei di Harran si servivano
tra l’altro per indicare i giorni della settimana, forniscono una prova ulteriore del carattere
altamente sincretistico della loro religione: non stentiamo a riconoscere che tre sono di
origine greca (Helios-Sole, Ares-Marte e Kronos-Saturno), due sicuramente accadica
(Sin-Luna e Nabu-Mercurio) e due, infine, aramaica (Bal-Giove e Baltha/Balti-Venere).
Inoltre, se i rituali pubblici attestano quanto la Luna e gli altri dèi planetari fossero
pienamente al centro della devozione popolare, non sono d’altro canto assenti divinità
antico-mesopotamiche e siriane come Tammuz, il Signore della Fortuna, Uzuz e Shamal
(il Nord), “il dio più grande”. Che cosa dire però del sacrificio di un neonato che si sarebbe
tranquillamente compiuto in città nel mese di Ab (Agosto), sempre secondo l’ informatore
“cristiano” utilizzato in quest’occasione dal Fihrist 15?
Senza entrare nel merito dei feroci attacchi polemici di cui gli Harraniani furono
spesso il bersaglio sul piano religioso, vale la pena di rimarcare soltanto che, con l’ascesa
al potere della dinastia abbaside a Baghdad, molte cose cambiarono 16. Se dunque fino ad
allora nessuno si scandalizzava più di tanto per l’assimilazione sommaria degli abitanti di
Harran con i “Caldei”, i “Nabatei”, i “Greci”, i “Manichei”, o gli Hanif (gli uomini pii vissuti
prima della Rivelazione di Maometto) 17, ora non era più possibile evocare impunemente
certi fantasmi. Fu in questo modo che essi divennero per tutti gli altri, semplicemente, i
“Sabei di Harran”.
La Guida dei Perplessi
Questo riconoscimento avrebbe avuto delle conseguenze epocali. La marcata
connotazione astrale delle credenze professate da tempo immemorabile a Harran, la
diffusa notorietà del suo tempio della Luna, il prestigio che Sabei harraniani quali il grande
astronomo Thabit ibn Qurra (836-901) e i suoi discendenti seppero guadagnarsi a
Baghdad 18 aprirono pian piano la strada alla convinzione che il Sabeismo facesse tutt’uno
con il culto degli astri. Lentamente ma inesorabilmente, l’idea che i Sabei altri non fossero
che gli adoratori dei pianeti e delle stelle divenne una sorta di luogo comune, di ritornello,
portando a concentrare su ciò tutta l’attenzione degli studiosi, dei dotti, degli eresiologi
musulmani e non solo.
Una volta fissata nell’immaginario collettivo l’equazione Sabeismo-religione astrale,
non restava ormai più che un passo da compiere per far quadrare il cerchio. Se i Sabei
coincidono in ultima analisi con i politeisti e gli idolatri, se è in fondo impossibile
distinguere gli uni dagli altri, allora la conclusione non può essere che la seguente: il
Sabeismo coincide pure con la religione prevalente in un remoto passato su tutta la terra,
prima cioè che la luce della Rivelazione divina scendesse dal cielo per guidare l’umanità
smarrita sulla via della salvezza. Perfetto! Impeccabile! Ma, messo in questi termini, anche
falso purtroppo … 19
Ciò non ha impedito che fosse una simile idea fantastica dei Sabei e del Sabeismo
quella destinata alla fine a guadagnare un universale consenso. Anche perché ebbe la
sorte di incontrare un uomo di pensiero dalle non comuni doti dialettiche che la sposò
senza riserve. Era il dotto ispanico Mosè ben Maimon, meglio conosciuto come
Maimonide (1135-1204), l’autore della Guida dei Perplessi 20. Qui la tesi è sostenuta con
un tale fervore che perfino al lettore più scettico sarebbe difficile dubitare del suo carattere
fasullo. Il Sabeismo è la religione delle origini, e la religione delle origini è il culto degli
astri. Per fortuna ne sopravvivono ormai solo rarissimi esempi agli estremi margini della
terra, fra le genti dell’India a sud e fra quelle della Turchia a nord (si tratta di indicazioni
geografiche quanto mai approssimative e generiche, com’era di norma in età medievale).
E’ questa la terribile malattia, l’autentico cancro dello spirito contro cui ebbe a combattere
a lungo nostro padre Abramo, cercando in ogni modo di estirparla dalla Caldea: ma la
mala pianta vi aveva affondato ben solide radici, e non gli rimase infine che andarsene
scoraggiato a piantare altrove le tende. Peccato che il nostro filosofo ebraico ignori perfino
l’esistenza dei Sabei di Harran, che del resto ai suoi tempi erano usciti ormai
definitivamente di scena 21!
Per un capriccio della fortuna, l’immagine dei Sabei che avrebbe trovato secoli
appresso una straordinaria cassa di risonanza in Europa era proprio la versione adulterata
delle cose or ora esposta di Maimonide 22. L’emozione era grande: si era scoperta, forse,
la forma originaria di culto che affratellava ai primordi tutto il genere umano, qualcosa di
simile alla lingua parlata da Adamo e dai suoi discendenti fino alla colossale catastrofe
della Torre di Babele. In un mondo dominato dal paradigma di pensiero di Cartesio, era un
tema che toccava corde sensibili, eccitando la fantasia e tenendo quindi pienamente
banco ancora al crepuscolo dell’Età dei Lumi in un’opera di successo come L’ Origine di
tutti i Culti di Charles Dupuis, la cui eco lontana si può avvertire ancora nella Storia
dell’Astronomia del nostro giovane Leopardi.
Picatrix
La magia astrale
C’era stato, per la verità, un altro canale di trasmissione attraverso cui non la
caricatura dei Sabei divulgata dalla Guida, bensì il ritratto certificato di quelli
dichiaratamente tali, quelli di Harran, aveva avuto modo di ritagliarsi un proprio spazio d’
esistenza sulla sponda opposta del Mediterraneo: parlo del manuale di arti magiche
composto in Spagna intorno alla metà dell’XI secolo ed intitolato Ghayat al-Hakim (Lo
Scopo del Saggio: d’ora in avanti: Ghaya) 23. Non ci si lasci ingannare dall’aspetto
rassicurante del titolo, poiché si ha stavolta a che fare con un testo pericoloso, proibito,
anzi con il più proibito, forse, di tutti. Lo sapeva bene il redattore della stesura latina del
trattato, che ritenne più in linea con lo scabroso materiale contenuto nel volume sostituire il
titolo arabo iniziale con quello più esotico e inquietante di Picatrix 24. Fu in una tale veste
editoriale che il libro prese con prudenza a circolare nelle biblioteche, nelle corti, fra i dotti -
ma anche presso i ciarlatani e i negromanti d’ogni risma - dell’Europa tardo-medievale e
rinascimentale. Basterà ricordare i nomi di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, i quali
si accorsero a un certo punto di condividere entrambe un forte interesse proprio per
questa forma di magia. Nel 1489, il “pio” Marsilio si vantava addirittura di fronte all’amico di
avere con lucidità riassunto gli aspetti essenziali del Picatrix nel suo De Vita Coelitus
Comparanda dove, in realtà, il solo tema discusso nel cap. 18 (“quali figure celesti
imprimevano gli antichi nelle immagini e sull’uso delle immagini”) sarebbe sufficiente a
provare la fondatezza dell’affermazione. E’ però una successiva lettera di Girolamo
Benivieni (marzo 1514) - la cui importanza non era sfuggita a suo tempo ad Eugenio
Garin 25 - a gettare pienamente luce sull’ intesa intellettuale nata in quel frangente tra i due
filosofi: “La buona memoria del conte Giovanni della Mirandola cercò uno tempo insieme
con Marsilio Ficino in agro Caregio et altrove di coniungere per mezo de la magia naturale
et in virtù della dottrina cabalistica con certe loro observationi, orationi et profumi, la mente
con Dio, fare miracoli et prophetare”.
Ma è giunto il momento di passare senza altri indugi al testo che, visti i tagli e i
rimaneggiamenti inerenti alla traduzione in Latino, è preferibile però leggere nella versione
originale. Non è facile orientarsi, perché l’ambizione della Ghaya di rappresentare una
sorta di enciclopedia universale delle scienze occulte ha per contraltare un certo disordine
espositivo. Tuttavia, se uno ha la pazienza di andare avanti fino alla terza e penultima
sezione dell’opera, riuscirà finalmente a guadagnare, al settimo capitolo, l’agognato
premio delle sue fatiche: “L’astrologo Tabari ha tramandato i metodi impiegati dai Sabei
per attirare su di sé le forze dei pianeti. ‘Ho udito - afferma - ciò che conosco
sull’argomento dalla bocca dei Sabei e dei servitori del tempio, ed ecco quanto mi
hanno detto …’ ” 26.
Le pratiche cerimoniali che saranno qui di seguito descritte e commentate non
riguardavano certo l’intera popolazione di Harran. Si trattava di rituali esoterici, privati, che
avevano ben poco da spartire con le liturgie e le ricorrenze osservate dalla gran massa
degli Harraniani. La loro esecuzione era affidata ad un ristretto gruppo di individui
privilegiati, ad un’élite cioè che avesse saputo dar prova delle qualità spirituali necessarie
per condurre a buon fine un tale compito impegnativo. In effetti, il termine di “Sabei”
dovrebbe essere applicato a rigore solo a questa ben definita classe di persone, agli
aristocratici cultori della filosofia, della tradizione ermetica, della teurgia. Ma non importa.
“Quando vuoi rivolgere una preghiera a un pianeta e domandargli qualche cosa -
prosegue il manuale per bocca di al-Tabari - riempi innanzitutto il tuo cuore del timore di
Dio Altissimo, purifica il tuo cuore da ogni lordura, rendi il tuo spirito limpido e chiaro;
considera, inoltre, a quale dei sette pianeti è opportuno che tu invii la tua richiesta, poiché
questa deve essere in armonia con la sua propria natura. Quindi, indosserai le sue vesti,
brucerai il suo incenso, e - una volta che l’astro sarà arrivato a situarsi nel punto della
sfera celeste che io ti indicherò - gli indirizzerai la sua preghiera. Compiuti questi atti, il tuo
desiderio si realizzerà, e tu otterrai quanto richiesto … ” 27.
In questo breve passaggio si concentra l’ essenza del rituale sabeo. Meglio
soprassedere per il momento sulle indicazioni spirituali della prima parte, per rivolgersi
piuttosto alle istruzioni di carattere tecnico, operativo. Se si vuole ottenere quanto si
desidera, è importante anzitutto che la preghiera sia in perfetta sintonia con la più intima
natura dell’astro: infatti, “spesso accade … che si domandi per errore una certa cosa a un
pianeta, e quest’ultimo allora deve trasmettere la richiesta ad un altro, perché essa si
avveri”. La seconda delle misure da osservare con scrupolo investe le condizioni
astrologiche: è indispensabile che il pianeta si trovi in una posizione “forte”, vale a dire in
Esaltazione, o in uno dei suoi Domicili, o ancora nel suo Termine, nel suo Trigono ecc.;
solo allora potrà dispensare appieno tutto il suo potere. In ultimo, si tratta di predisporre un
variegato apparato liturgico allestito con vesti, simulacri, colori, arredi, incensi, sacrifici
conformi alle specifiche qualità dell’astro cui ci si appresta a rendere omaggio 28.
Al cospetto di Saturno, per esempio, bisogna presentarsi paludati di nero - poiché
questo è l’abito dei filosofi e degli Ebrei, ed Egli è il Signore del loro Ciclo -
nell’atteggiamento di chi è addolorato e triste, camminando lentamente; al dito si porterà
un anello di ferro, mentre in un braciere si accenderà l’ incenso di cui sono elencati uno ad
uno gli ingredienti e le esatte proporzioni (oppio, storace, zafferano, piantaggine, cumino
selvatico, corteccia dell’albero dell’incenso, lo sporco della lana, polpa di coloquintide e il
cranio di un gatto nero, in parti uguali); quindi, si provvederà a sacrificare un capro
anch’esso nero come la pece, ma non prima di aver recitato più volte, mentre sale il fumo
dall’incensiere, la sacra formula d’invocazione: “O Signore Saturno, tu freddo, secco,
tenebroso … stanco, fiacco, tu che te ne stai solo con il dolore e la tristezza … vecchio
carico d’anni, ricco di astuzie, di esperienze, di insidie, di inganni … Io ti chiedo, o primo
padre, che tu possa fare per me questo e quello!” 29.
Di fronte a Giove si comparirà con un abito color del miele, una cintura e una croce,
a somiglianza dei monaci e dei Cristiani, perché Egli è il Signore del loro Ciclo; l’anello
dovrà essere stavolta di cristallo di rocca, mentre per la vittima animale si farà ricorso a un
agnellino. Con Marte ci si procurerà il costume rosso sangue dei guerrieri, insieme al
metallo duro e tagliente delle armi. Mentre una veste bianca e sfarzosa, lussuosi monili ed
essenze profumate saranno gli ornamenti previsti per onorare degnamente la sfavillante
Venere. E così via …
Manca lo spazio per un’analisi approfondita di questo materiale sovrabbondante
quanto ricco di implicazioni. Non sarà inutile, però, fissare alcuni punti fermi.
Intanto, a proposito del modello teologico, che ricalca il ben noto schema
neoplatonico. L’Uno è al di là di ogni comprensione, di ogni nome o attributo, dell’essere e
del non-essere. Ma dall’assoluta trascendenza del Signore dell’Alto Edificio (è con questa
suggestiva immagine che la Ghaya designa l’Altissimo) si irradia la lunga serie delle sue
manifestazioni visibili, prime fra tutte le costellazioni e i pianeti. E’ quindi a questi mediatori
celesti, agli angeli ad essi preposti, e agli spiriti a loro volta emanati ad un livello più basso
che l’uomo può rivolgersi per chiedere aiuto.
Ogni pianeta è la sede di una divinità o di un angelo che lo governa, un po’ come
nell’essere umano l’anima è unita al corpo. E’ possibile dunque invocare sia le divinità
legate ai diversi astri (che normalmente portano il loro stesso nome, da pronunciare in
Arabo, Pahlavi, Greco, “Romano” e Sanscrito, a testimonianza del respiro ecumenico della
pietà sabea), sia gli angeli ad essi associati: Ishbil per Saturno, Rufiya’il per Giove,
Rubiya’il per Marte, ecc. Quanto agli spiriti dislocati nello spazio circostante il pianeta, il
manuale ne registra qui i nomi magici in due sole occasioni, e per di più in modo alquanto
disordinato; così lo spirito o pneuma di Giove, quello che presiede alle singole parti e “al
suo movimento nella sua sfera”, si chiama Damahus; gli altri, a seguire, sono Daryas,
Hatis, Maghis, Daris, Tahis, Farus, Dahidas, Afridus 30.
La Ghaya nel capitolo in questione non si sofferma sulla teoria sottostante a tutto
ciò, ma l’obbiettivo del rituale dovrebbe essere ormai evidente. Grazie ai rapporti cosmici
di simpatia il mago interviene sugli intermediari celesti, spingendoli a far discendere fino a
lui uno degli spiriti planetari e a mettere al suo servizio il potere che gli astri hanno ricevuto
direttamente dal Creatore. A riprova dell’ esaudimento della richiesta, dovrà prodursi in
ogni caso un segno: l’ improvvisa comparsa di uno spirito alla presenza dell’orante, sotto
forma di una fiammella accesa ad esempio, sarà una prova tangibile del successo pieno
dell’esperimento 31.
Teste Parlanti
Sarebbe riduttivo circoscrivere alla magia astrale e ai suoi più intimi segreti la pietà
degli Harraniani. E’ un fatto, però, che i pagani di Harran per primi si fecero con orgoglio
portavoce non solo dell’efficacia di certe pratiche, ma anche del loro straordinario valore
sapienziale. Non erano stati forse Hermes e Agathodaimon, i più grandi di tutti i profeti, a
rivelarle una volta per sempre agli umani 32? E figure venerabili come Orfeo, Pitagora,
Platone, Aristotele, Zoroastro, Budda non avevano tramandato anch’essi i medesimi
insegnamenti 33? Il più autorevole ed influente di tutti i Sabei, quel Thabit ibn Qurra che già
conosciamo, affermava: “Aristotele disse che chiunque legga di filosofia, geometria e di
ogni altra scienza e sia privo di esperienza in astrologia incontrerà ostacoli e difficoltà,
poiché la scienza dei talismani è molto più preziosa della geometria e molto più profonda
della filosofia” 34.
Lo scritto di Thabit sui talismani, ormai perduto nella forma originale, era ben noto
nell’Occidente medievale: lo confermano le traduzioni latine prodotte da Giovanni di
Siviglia e da Adelardo di Bath con il titolo, rispettivamente, di De Imaginibus e di Liber
Prestigiorum, tuttora esistenti in numerosi manoscritti 35. A differenza di un amuleto, che
consiste di solito in una pietra rara dotata di per sé di un’eccezionale efficacia anche
apotropaica, un talismano deve la sua forza soprannaturale in primo luogo alla figura a
tutto tondo ricavata da una placca metallica o scolpita sulla sua superficie, benché talora
la materia di base possa essere pure la cera o il fango. Il problema è che, mentre le
condizioni astrologiche vengono specificate di volta in volta con cura, le immagini da
incidere sui talismani non sono in genere descritte da Thabit con precisione: pertanto
l’apprendista stregone di turno, che si fosse affidato soltanto alle istruzioni presenti nel
libro, avrebbe avuto non poche difficoltà a realizzare sul serio i suoi ambiziosi progetti. E
ad ogni buon conto anche in caso di riuscita non sarebbe andato molto lontano: se si
eccettua il mirabolante incantesimo da porre in essere per la distruzione di una città, la
maggior parte degli altri rituali rientra in una sfera di cose abbastanza ordinaria e modesta:
stimolare l’amore o l’odio fra due persone, ritrovare un oggetto smarrito, avere successo in
un’impresa, scacciare animali nocivi come i serpenti, i topi o gli scorpioni 36.
E’ in un simile, ben definito contesto che va ad inscriversi la macabra leggenda
della Testa Parlante cui accennavo prima. C’è da dire in effetti che il redattore della
Ghaya, pur non essendo pregiudizialmente ostile ai Sabei, ha fatto in questo caso tutto
quanto era nei suoi mezzi per enfatizzare la portata emotiva della storia, poiché ne
rielabora addirittura due versioni differenti 37. Qui ci si limiterà, comunque, ad osservare
quella per cui l’istituzione di quest’ orrido rituale risalirebbe a “un filosofo conosciuto sotto
il nome di Brahma il Brahmano, che morì in India”. Eccone qui di seguito il testo:
Quando il Sole entra nel segno del Leone - dice il racconto - i Sabei catturano un
ragazzo originario di Cipro (perché è necessario che abbia i capelli e la carnagione
rossastri), e lo conducono nottetempo in uno dei loro templi. Dopo averlo rinchiuso in una
cisterna colma d’olio di sesamo, gli danno da mangiare rose secche insieme ad una zuppa
di mostarda, lenticchie, piselli, riso, fagioli, lupini e farina. Trascorre così poco meno di un
anno. Al 28 del mese di Ayyar (Maggio), il giovane viene accecato e costretto ad aspirare
qualcosa che lo fa starnutire violentemente. Subito poi lo si porta in un luogo solitario: qui i
Sabei gli espiantano la testa dal busto senza incontrare la minima resistenza, grazie al
trattamento somministrato prima alle membra. Quindi sotterrano il corpo, ma conservano
la testa che recano fino a Dayr Kadha (nota località presso Harran, dove si svolgeva una
festa di primavera simile a quella babilonese dell’akitu), piazzandola sopra uno dei loro
idoli sinistri. Ed è a questo punto che il capo mozzato, senza preavviso, lancia un
potentissimo urlo profetico …38
Conclusione
Non c’è la benché minima prova dell’esecuzione di una barbarie del genere a
Harran, ma ciò non esclude un fondo di verità. A guardar meglio, non è difficile
comprendere che il rito “è in rapporto all’ ‘evocazione verso il basso’ di uno degli spiriti
[planetari] affinché prenda sede in un talismano, e quindi all’antica pratica di donare vita
alle statue come pure ai principi della magia astrale” 39. Il riscontro offerto dalla copia del
Liber Veneris della Biblioteca Apostolica Vaticana è, d’altronde, inequivocabile 40. Non
solo vi si trovano dettagliate istruzioni per la fabbricazione di una testa oracolare con la
particolare sostanza associata a Venere (ex latone croceo puro 41), ma si attribuisce pure
a chiare lettere il rituale magico - comprensivo della lista con i nomi degli angeli posta in
chiusura dello scritto - agli “Albigesi (= Manichei) greci di Harran” 42.
Si è quindi davanti ad “una lettura malevola e distorta di una pratica semplicemente
magica” 43, ad uno dei tanti colpi bassi cui - come già detto - il partito dei polemisti anti-
harraniani di fede tanto islamica che cristiana fece spesso e volentieri ricorso.
In compenso, opposto a quest’ ultimo, emerge anche un altro fronte politico-
religioso che, benché minoritario, non ha mai cessato di tributare tutto il suo valore alla
tradizione spirituale d’altissimo profilo rinvenibile alle spalle del Sabeismo 44. In tempi più
vicini a noi, è stato Henry Corbin a riproporre un’interpretazione in questa chiave del
fenomeno “Sabei” che a tutt’oggi non teme confronti, anche se personalmente ritengo
troppo rigida la sua netta distinzione tra “pratica talismanica” e “sabeismo filosofico” 45: “la
discesa degli spiriti per istruire l’operatore o garantirgli una conoscenza celeste è legata -
infatti - … a una corrispondente ascesa dell’anima dell’operatore mentre il suo corpo
rimane in vita” 46.
Nel grandioso scenario spalancato da Corbin si ricompongono d’un tratto come per
prodigio le membra sparse di un’unica, possente, formidabile, corrente di pensiero, che
attraversa le epoche e guida senza interruzione gli uomini di buona volontà: in Oriente –
solo per fare alcuni nomi - sono stati i Fratelli della Purezza, Sohravardi e i Platonici di
Persia, i Nosayiriti, Sufi, gli Ismaeliti a dare voce e a mantenere vivo il messaggio; in
Occidente, è la splendente catena d’oro che, partendo dagli augusti rappresentanti della
Prisca Theologia, si snoda abbracciando i mistici come Meister Eckhart, i Fedeli d’Amore
come Dante, i Platonici di Cambridge, i Templari, i Cabalisti cristiani, i Rosacroce, tutti
coloro insomma che non disdegnerebbero di occupare un posto nell’austera dimora della
Pia Philosophia cara a Ficino 47. Tentare di comprimere tutto questo in una formula
sarebbe fatica vana, ma un’espressione quale “cavalleria spirituale” può magari essere un
accettabile compromesso.
Una variante della massima osservata a Harran da al-Mas’udi - da cui come si
ricorderà era partito il discorso - recita: “Colui che conosce sé stesso (la propria Anima)
conosce il suo Signore”, il proprio Angelo 48.
I Sabei non corrispondono affatto agli adoratori delle “armate celesti” di biblica
memoria, e tanto meno ai membri della setta degli Stratiotai, come suggeriva anni fa
senza convinzione Tardieu per dare dei contorni più precisi alla vecchia congettura di
Edward Pocock 49. I Sabei sono gli uomini schierati in permanenza a guardia della vivente
santità del Cielo, gli uomini al disciplinato servizio del Divino. Sono essi stessi la luce, le
stelle della terra 50.
Note
1) H. è situata nell’alta valle del Balikh, poco lontano dal’attuale confine turco-siriano, una
quarantina di chilometri a sud di Sanliurfa (l’antica Edessa).
2) Al-MAS’UDI, trad. Paris 1871-77, IV p.64. Per la prima parte della massima si rinvia a BETZ,
1970, pp. 465-484; per la seconda, a HAUSSLEITER, 1957, soprattutto p. 812 sgg.
L’importante studio di TARDIEU, 1986, p. 14, prende le mosse proprio da questo passaggio,
in cui l’autore scorge un richiamo all’ Alcibiade I 133c di Platone, per avanzare la nota
ipotesi del trasferimento dell’Accademia Platonica da Atene a H. (vedi oltre nel testo).
3) PETTINATO, 1978, pp. 52-54 e successive integrazioni sul Thesaurus Inscriptionum
Eblaitarum. Sulle origini e il periodo arcaico di H., POSTGATE, 1975, pp. 122-125.
4) COMBE, Paris 1908.
5) DOSSIN G., Benjamites dans les Textes de Mari, in Mélanges Syriens Offerts à M. René
Dussaud, Paris 1939, p. 986.
6) GREEN, Leiden-New York-Koln 1992, pp. 20-22 e p. 34 sgg.; GUNDUZ, Oxford 1994, p. 127
sgg.
7) Per Caracalla, DIONE CASSIO, LXXIX, 5, 4; Historia Augusta, Carac. 6, 6; 7, 1; ERODIANO, ab.
exc. IV, 18, 3. Per Giuliano, AMMIANO MARCELLINO, XXIII, 1, 2-3; TEODORETO, Hist. Eccl.
III, 21; CASSIODORO, Hist. Eccl. Tripert. VI, 48 ecc. Per Adriano, Hist. Aug., Hadr. 13. Vedi
comunque WEISSBACH, 1917, coll. 2009-2021; GREEN, Leiden-New York-Koln 1992, p. 47
sgg.; GUNDUZ, Oxford 1994, pp. 130-131. Per le monete di H. raffiguranti il tempio con il
simbolo del dio-Luna (betile conico, sormontato dalla mezzaluna) o quest’ultimo da solo
(mezzaluna, le punte verso l’alto, con nastri pendenti da essa, posta su di un globo; fra i
corni, stella a sei [o a otto] raggi), HILL G.F., Catalogue of the Greek Coins of Arabia,
Mesopotamia and Persia, London 1922, pp. 82-90.
8) TARDIEU, 1986, pp. 1-44. Della stessa opinione HADOT, Berlin-New York 1987, pp. 40-57.
9) Per i riferimenti, PINGREE, 2002, pp. 9-11.
10) PINGREE, 2002, p. 10 e nt. 10. In ragione della loro ascendenza greca, AL-MAS’UDI, trad.
Paris 1871-77, IV, pp. 63-64, assimila i comuni Sabei harraniani a dei filosofi, ma “volgari” e
“di basso rango” (CHWOLSOHN, St. Petersburg 1856, II, p. 371: “eclettici”), che sembra
distinguere dai veri sapienti: perché “non tutti i Greci sono filosofi, e solo i filosofi sono i
loro saggi”.
11) DODGE, New York 1970, II, pp. 745-773.
12) Attraverso il suo allievo al-Sarakhsi: i passi relativi alla posizione teologica e filosofica dei
Sabei sono riportati, oltre che nel Fihrist (ibidem, p. 746 sgg.), anche da ROSENTHAL, New
Haven 1943, pp. 41-51.
13) D’ALVERNY, HUDRY, 1974, pp. 139-260.
14) PINGREE, 1987, p. 59.
15) DODGE, New York 1970, II, p. 759. L’eventualità di un errore di trascrizione della parola
Nasrani (Cristiano), segnalata da Hjarpe, è commentata da PINGREE, 2002, p. 17 nt. 59.
16) “Quando I musulmani divennero la maggioranza all’interno della ‘Casa dell’Islam’ … la
definizione giuridica di ‘Popolo del Libro’ e l’interpretazione dei diritti legali e sociali del
Patto [stipulato con I membri delle religioni non-islamiche] divennero in linea di tendenza
più restrittive” (GREEN, Leiden-New York-Koln 1992, p. 4).
17) Nella tradizione islamica l’ hanif per eccellenza è Abramo, ma per gli Harraniani il termine
assumeva una differente connotazione: come p. es. nella celebre arringa di Thabit ibn
Qurra (su cui vedi oltre nel testo), per il quale gli Hanif sono evidentemente i fondatori e i
custodi del mondo civile: “Noi siamo gli eredi e i continuatori della ‘civiltà degli Hanif‘(=
Hanputho in Siriaco) che è grandemente onorata su questa terra ... Senza [ciò che essi
hanno costruito] il mondo sarebbe un luogo vuoto e bisognoso di tutto!” (da Barebreo,
citato da PINGREE, 2002, p. 34 nt. 155). Si noterà l’uso interscambiabile di “Sabei” e Hanif
(= Hanpe in Siriaco al plur.) nell’elenco di Barebreo delle opere di Thabit, in CHWOLSOHN,
St. Petersburg 1856, II, pp. ii-iii.
18) RUSKA J., EI, s.v.; CARMODY, Los Angeles 1960; FAHD T., EI2, s.v. sabi’a.
19) Un’agile presentazione delle radici storiche e culturali della mistica astrale è fornita da LO
SARDO, Roma 2007.
20) MAIMONIDE, La Guida dei Perplessi, trad, it. Torino 2005, pp. 417-430.
21) Secondo AL-DIMASHQI (XIII sec.), trad. Copenhague 1874, p. 191, l’ultimo tempio della
Luna fu distrutto dagli “Egiziani” (i Fatimidi) nel 1032, ma mancano i riscontri. Ibn Jubair
non vi fa nemmeno cenno nella sua cronaca di viaggio del 1184, mentre ibn Shaddad, che
risiedette in città fino alla fatale conquista dei Mongoli nel 1271, sembra posticipare la
scomparsa del santuario e/o dei Sabei di una cinquantina d’anni (VAN BLADEL, Oxford
2009, 110-112).
22) Per le posizioni assunte a partire dai primi del Seicento dagli studiosi europei sul Sabeismo,
CHWOLSOHN, St. Petersburg 1856, I, p. 23 sgg.
23) RITTER, PLESSNER, London 1962. Per il ruolo centrale di H. nella trasmissione
dell’iconografia orientale di stampo astrologico in Europa, SAXL, trad. it. 1985, p. 29 sgg. e
pp. 134-138.
24) PINGREE, London 1986. Esiste ora anche una versione italiana, Milano 2001. Sempre
indispensabile sul piano teoretico lo studio di PERRONE COMPAGNI, 1975.
25) GARIN, Firenze 1986, p. 11 nt. 7, che rinvia per la lettera di Benivieni a KRISTELLER P.O.,
Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma 19692, pp. 171-172. Per un quadro
complessivo, PERRONE COMPAGNI, 1977.
26) RITTER, PLESSNER, London 1962, p. 206 (ho semplificato il passaggio). La personalità citata
all’inizio compare anche nel Liber de locutione cum spiritibus planetarum (unica copia ms.
presso la Biblioteca Nazionale di Firenze), dove si nomina un certo Abuelabec Altanarani
che PINGREE, 1992, pp. 107-108, ha identificato nell’astrologo persiano Umar ibn al-
Farrukhan al-Tabari, presente a Baghdad intorno all’anno 800.
27) RITTER, PLESSNER, London 1962, pp. 206-207.
28) Ibidem e p. 213. PINGREE, 2002, p. 22 e ntt. 87-88, riconosce qui la confluenza di tre
differenti tradizioni, greca, indiana e babilonese, attente rispettivamente alle corrette
posizioni planetarie, alle vesti e gli ornamenti, e alle fumigazioni. Ma è l’impiego della
tradizione astrologica greca il tratto più caratterizzante dei Sabei di H.
29) RITTER, PLESSNER, London 1962, p. 213 sgg. Il metallo dovrebbe essere qui il piombo,
secondo il canone risalente allo Pseudo-Apollonio: a seguire, stagno-Giove, ferro-Marte,
oro-Sole, rame-Venere, bronzo (in alternativa al poco pratico mercurio) - Mercurio,
argento-Luna. Per i rapporti di corrispondenza pianeti-religioni, vedi Al-BIRUNI, London
1934, p. 253.
30) RITTER, PLESSNER, London 1962 p. 221. La serie completa degli spiriti planetari è riprodotta
nel manuale al successivo cap. 9 della terza parte.
31) Ibidem, p. 218. PINGREE, 2002, p. 22: “come responso, un’immagine – l’apparizione
immateriale di uno degli spiriti dei pianeti – compare davanti a lui [al postulante] e
risponde alla sua preghiera”.
32) A quanto riferisce al-Kindi (ROSENTHAL, New Haven 1943, p. 47), gli Harraniani credevano
che “un profeta è libero dalle impurità dell’anima e dai difetti del corpo. Egli è perfetto in
ogni virtù. Egli può rispondere a qualunque domanda”. La definizione corrisponde
evidentemente alla nozione ermetica di Natura Perfetta.
33) Per i profeti sabei, GREEN, Leiden-New York-Koln 1992, p. 170 sgg.; GUNDUZ, Oxford 1994,
p. 157 sgg.
34) Il testo è tratto dalla versione latina di Giovanni da Siviglia del Trattato sui Talismani (De
Imaginibus: redazione J) edita da CARMODY, Berkeley-Los Angeles 1960, p. 180.
35) Per il De Imaginibus, nt. 34. BURNETT, Adelshot 1996, p. 6 nt. 21, ha annunciato da tempo
la pubblicazione della precedente versione di Adelardo (principio XII sec.). Vedi comunque
PINGREE, 1987, pp. 74-75.
36) CARMODY, Berkeley-Los Angeles 1960, pp. 180 sgg.
37) RITTER, PLESSNER, London 1962, pp. 146-147 e pp. 240-241. Oltre a queste, esistono ben
altre quattro redazioni (una è riportata nel Fihrist, vedi sopra nel testo il paragrafo sui
Sabei), senza contare quella abbreviata di ibn Khaldun: tavola comparativa in HJARPE,
Uppsala 1972, p. 106 sgg.
38) RITTER, PLESSNER, London 1962, pp. 240-241.
39) PINGREE, 2002, p. 23.
40) Ho usato il Ms. Vat. Lat. 10803 (XV sec.), 55 r. - 56 v., studiato dall’amico e collega Carlo
Prato che colgo l’occasione per ringraziare.
41) “Di puro latone giallo”: per questo metallo, vicino al rame ed equivalente al mitico oricalco,
HALLEUX R., L’Orichalque et le Laiton, in L’Antiquité Classique 42 (1973), pp. 64-81.
42) L’equazione Manichei - Harraniani compare già nella Cronaca dell’anno 764-5 del vescovo
Dionigi di Tell Mahre, autore di una delle versioni della leggenda: CHWOLSOHN, St.
Petersburg 1856, I, p. 464, II, p. 131; HJARPE, Uppsala 1970, p. 120 sgg. Lo stretto rapporto
tra la versione riprodotta nel Ms. Vat. del Liber Veneris e il contesto harraniano è stato da
tempo evidenziato dalla Perrone Compagni (LUCENTINI, PERRONE COMPAGNI, Firenze
2001, p. 86 sgg.), che ha curato inoltre l’edizione critica del testo di prossima pubblicazione
in Corpus Christianorum. Continuatio Medievalis: Hermes Latinus.
43) LUCENTINI, PERRONE COMPAGNI, Firenze 2001, p. 88.
44) Vedi p. es. l’edificante ritratto dei Sabei nella IV delle Lettere dei Fratelli della Purezza,
studiata da MARQUET, 1966, passim; oppure l’ideale contraddittorio tra i Sabei e gli Hanif
in AL-SHAHRASTANI, trad. Leuven c.1986-1993, II, p. 97 sgg., sospettato perciò di simpatie
ismaelite. Secondo Massignon “il romanzo sincretistico dei Sabei” giocò all’interno del
mondo islamico medievale lo stesso ruolo che, in età moderna, svolse il movimento dei
Rosacroce in rapporto alla Massoneria: CORBIN, trad. it. Torino 1983, pp. 52-53 nt. 9 e p.
55 nt. 41 per Shahrastani. Per gli Hanif, nt. 17.
45) CORBIN, ibidem, p. 54 nt. 37, di cui vedi soprattutto i due primi studi raccolti nel volume
(Rituale sabeo e Tempio spirituale; Esegesi ismailita del rituale), pp. 11-62.
46) PAGE, 2012, p. 80, utile anche per gli aggiornamenti bibliografici. Ulteriori contributi in
BRESC, GREVIN, Roma 2002, pp. 589-890.
47) CORBIN, trad. it. Torino 1983, passim.
48) Citato ibidem, p. 21.
49) TARDIEU, 1986, p. 41; POCOCK E., Specimen Historiae Arabum, Oxford 1649, pp. 142-143:
“Saba, Exercitus … quasi saba hash-shamayim, Exercitus coelitis cultores”.
50) SEGAL, 1953, pp. 97-119, notò che il profilo geometrico delle costruzioni di Sumatar
Harabesi, luogo consacrato al dio-Luna vicino a Harran, coincideva con quello dei templi
planetari dei Sabei secondo le fonti arabe (al-Mas’udi, al-Shahrastani, al-Dimashqi):
esagono per Saturno, triangolo per Giove, rettangolo per Marte, quadrato per il Sole,
triangolo inscritto in un quadrato per Venere, triangolo in un rettangolo per Mercurio,
ottagono per la Luna. Si tratta di tombe monumentali per gli iniziati al culto di Sin, titolari al
contempo di un’alta carica militare, designati dalle locali iscrizioni siriache del 164-5 d.C
con il termine budar (SEGAL, 1954, pp. 26-28; DRIJVERS, Leiden 1980, pp. 126 sgg.; ID.
1973, p. 9, per il nome proprio wrdw). Lo stesso sostantivo (trascritto in Arabo
bughdariyyun) compare più di otto secoli dopo nel Fihrist di al-Nadim in relazione ai riti
misterico-iniziatici di Harran (DODGE, New York 1970, II, p. 769 sgg.).
La parola, di origine ignota, è verosimilmente da ricondurre per metatesi all’accadico
(w)ardu (attestato anche nelle forme bardu, urdu, aradu [= semitico ‘abd]: “schiavo”,
“ufficiale”, “servo”, “soldato”, soggetto [di un re]”, fedele [di una divinità]”: GELB I.J.,
LANDSBERGER B., OPPENHEIM A.L. (edds.), Chicago Assyrian Dictionary, vol. 2, s.v ardu;
per la resa in Assiro della w in b, SEMERANO, Firenze 1994, II A, p. xciv), la cui
sovrapponibilità con il campo semantico dell’accadico sabu, sabiu (“gruppo di persone”,
“contingente di lavoratori”, “truppa di soldati”, “esercito”, “gente”, “popolazione”, ma
pure “personale del tempio”: CAD, vol. 16, s.v. sabu; per il rapporto con i Sabei, FRATINI,
PRATO, Roma 1997) è fuori discussione. L’ambito connotativo condiviso dalle due forme
nominali si incentra sull’idea di “servizio”, inteso tanto in senso militare, quanto sacrale-
religioso, quanto lavorativo-servile. Lo dimostrano i successivi esiti linguistici di (w)ardu:
vedi p. es. l’italiano “orda”, “guardia”, “guardiano”, “bardo”; oppure la permanenza di un
termine come wor-ship (ma anche Arthur/Artù!) in una lingua conservativa quale
l’Anglosassone; per non parlare dell’arabo murid, “novizio (sufi), aspirante alla conoscenza
di Dio” (MARGOLIOUTH, 1913, p. 519; PLESSNER, M., EI, s.v.), e ward, “persona coraggiosa,
intrepida” ma soprattutto “rosa”: un simbolo dalle straordinarie implicazioni mistiche e
letterarie su cui è inutile insistere.
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