Cesare Bertoletti - Il Risorgimento Visto Dall'Altra Sponda

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Cesare Bertoletti - Il Risorgimento Visto Dall'Altra Sponda

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II Risorgimento visto dall'altra spondaVerit e giustizia per l'Italia meridionale

Introduzione di Giovanni ArtieriCon 42 tavole fuori testoArturo Berisio editore Napoli

INTRODUZIONE

Questo libro di Cesare Bertoletti (un nome del tutto nuovo alle scritture storiche e, forse, ad ogni altra scrittura) costituisce un raro, forse unico, esempio di storiografia caratterizzabile con qualcuno di quegli aggettivi messi in uso dai critici d'arte, per le pitture e i pittori spontanei : cio fauves, naifs del tipo Doganiere Rous-seau o Barbiere d'Ischia. Nelle pagine del Bertoletti, infatti, ricorrono spesso quadri o accenni, abbozzi e anche cartoni per pi vasti affreschi, nei quali l'autore tenta di visualizzare il suo racconto. S'ha idea, leggendo, che se invece di parole, il Bertoletti si servisse del disegno e del colore, il risultato rassomiglierebbe per fantasia e ingenuit appunto alle tele dei grandi ingenui della pittura contemporanea.Non sempre necessario chiedere alla storia un andamento culto, togato e, meno che mai, letterato. Si sa bene come il Croce ci metta in guardia dagli scrittori di storie troppo abili e, anche, troppo innamorati dell'arte del dire. Si sa bene quale antipatia egli voti agli storici consumatisi per anni a limare e stringare le loro pagine; e con quale piega di lieve disprezzo adoperi l'aggettivo tacitesco per caratterizzare lo stile di alcuni, come il povero Pietro Colletta che proprio per scrupolo di forma stipendi per un anno Giacomo Leopardi a Firenze, dandogli a rivedere e correggere le pagine della sua Storia del Reame di Napoli , a mano a mano che le scriveva. Beninteso il giudizio va a favore di Colletta, ingegnere militare e, sovratutto, uomo capace di accettare i suoi limiti.Anche il Bertoletti, per dire la verit, che di sua professione commerciante di pellicce con negozio a Roma, ha conferito a noi, che non siamo Leopardi e senza provvedere in cambio al nostro vitto e alloggio, di rileggere e, all'occorrenza, raddrizzare la sua prosa. Ma noi diremo subito di non avere quasi mai posto le mani nel tumultuoso e generoso scorrere del suo racconto; e di non aver trovato, anche quando talune regole del dire erano e sono aggirate o addirittura sorpassate d'un salto, mai giusto di correggere o porre in bello . Ci sembrato proprio di ridurci ad una funzione di calligrafi; e di togliere al manoscritto di Bertoletti il meglio della sua virt: la personalit e il sapore di schietto, di ingenuo, di spontaneo ch'esso possiede.Del resto questo di proporre il Bertoletti come una scoperta o un caso equivalente a ci che nelle arti della pittura furono il Doganiere e il vecchio Luigi de Angelis, barbiere a Porto d'Ischia, costituiva la ragione prima del nostro impegno a persuadere Veditore Arturo Berisio al rischio di stampare questo libro di storia. Era proprio la libert , generosamente erronea talvolta, della sua concezione e del suo stile a salvaguardarlo dal pericolo di diventare un libro come gli altri. O come quegli altri libri di storia, i cui autori sono capaci di far vincere la battaglia di Farsalo a Pompeo, si cela pouvait arrondir soit peu la phrase . proprio da questo punto di vista che Cesare Bertoletti non teme nulla, poich scrive col cuore in mano nello spirito pi affettuoso e discorsivo. Aggiunger, per prevenire qualche addebito sempre possibile di dilettantesimo o di sciatteria che non sempre necessario, nelle scritture storiche, rigore di stile e venust di forma, per i gi illustrati pericoli di cadere nell'eleganza decorativa o, perfino, nella letteratura . Le storie, purch siano tali e genuinamente tali, sopportano anche un notevole grado di trasandatezza, perch ci dice il Croce il pensiero storico mantiene la sua virt di pensiero . S'arriva persino ad ammettere, com' del resto comprensibile e giusto, che al racconto storico non siano necessari n copia, n precisione di notizie. Vi sono ricchissime ed esattissime raccolte di notizie delle quali si sente subito che non sono storie; e, per contro, libri fulgidi di intelligenza storica e poveri di informazione, persino cosparsi di notizie inesatte o leggendarie e favolose: basti accennare alla Scienza Nuova del Vico . Questo ci dice don Benedetto.Questo libro trova il suo posto nelle collezioni del Berisio, per lo spirito al quale improntato e lo scopo a cui mira.Da alcuni anni in qua, da molte parti e con intenti diversi si sono pubblicati libri di storia e tutta una storiografia, direi, rimasta in ombra e nel chiuso delle pubbliche o private biblioteche durante gli ottantacinque anni del Regno unitario (1861-1946). Questa storiografia appariva particolarmente ricca e interessante proprio in rapporto al Reame di Napoli, al Mezzogiorno e alla Sicilia; e il suo campo narrativo, in linea generale, abbracciava l'area del Risorgimento e delle imprese che, nel Mezzogiorno, si connettono col processo unitario.Sono stati riportati a luce e spolverati, senza grande fatica del resto, testi famosi, ma generalmente conosciuti soltanto per titolo e nome dell'autore, come la grande Storia delle Due Sicilie di Giacinto de Sivo, il Viaggio da Boccadifalco a Gaeta del Butta, il Diario dell'ammiraglio inglese Mundy; e, per citare altro benemerito e coraggioso editore, il Giordano, il poderoso, fondamentale Diario napoletano, dell'avvocato Carlo de Nicola, cronista minuzioso della eroica e sanguinosa tempesta rivoluzionaria del 1799 e della Reazione seguita alla caduta della Repubblica napoletana, una vigilia fatale e necessaria al gran fatto del Risorgimento.Queste storie, diarii, memoriali, queste testimonianze tenute in ombra dal vigoroso sentimento di autopreservazione a cui fu improntato, sotto veste liberale, il periodo unitario (una misura di salute, del resto necessaria per la fragilit stessa della costruzione elevata, e con tanti timori prima, durante e dopo, dai nostri padri) hanno seguito immediatamente la caduta dello Stato monarchico costituzionale, avvenuta il 2 giugno 1943.Non so quanto di proposito, una volta scomparsa la Monarchia unitaria e instaurata la Repubblica parlamentare, fondata sulla presunta indefinita permanenza del partito cattolico al potere, questi libri anti-risorgimen-tali abbiano visto la luce del sole e siano andati incontro ad un, del resto, giusto successo trovando nell'interesse del pubblico il primo loro merito e sostegno. Essi rappresentavano (e rappresentano) l'altra faccia della luna, in un grandioso processo storico come la formazione dell'Italia unitaria, di cui si era conosciuto soltanto la faccia offertaci dalla geografia e dalla storiografia liberale. Non che ben s'intende la storiografia liberale abbia falsato i fatti o negato meriti e realt. Ma le linee di forza delle sue narrazioni dovevano coincidere e coincisero con le necessit del sentimento, con le ispirazioni poetiche ed epiche del Risorgimento. E, dunque, anche nelle penne di quei liberali che, come il Settembrini, non si astennero dal giudicare severamente l'Italia di dopo, la storia dell'Italia che s'era fatta, alla quale aveva contribuito con la volont, il sacrificio e l'ingegno degli uomini un vento di epopea e una luce di leggenda, doveva essere la storia dei vittoriosi, non la storia dei vinti; anche se, tante volte, ai vinti venivano resi gli onori delle armi.La subita rivelazione di una storiografia, caratterizzata dal Croce con l'aggettivo reazionaria , capace di sollevare, dinnanzi ai nostri occhi meravigliati, i veli di tante realt di fatto, perdute nelle pieghe della narrativa mitizzante del Risorgimento, non poteva non colpire la fantasia del pubblico. Quanto simile spiegamento di realt e, lo ammettiamo, di verit serva a mutare l'intendimento e la coscienza storica e poetica del Risorgimento e dell'Unit nell'animo degli italiani, non sappiamo. Abbiamo espresso la nostra opinione altrove ' e abbiamo detto anche che, alla fine, malgrado la loro apparenza di vere e proprie stroncature critiche del processo unitario, dei suoi Uomini e dei suoi indirizzi liberali, questi libri (principalmente i due pi celebri, del De Sivo e del canonico Butta) non mutano, ed anzi confermano, le grandi linee per cui quella storia si avver e in quel senso, non in un altro.Il libro del Bertoletti, qui presentato, appartiene solo per un certo verso alla letteratura critica del Risorgimento e si situa in parte accanto ai veri e propri storici reazionari . Intanto il Bertoletti, vivo e vegeto, non , come il de Sivo e il Butta, un contemporaneo del grande dramma; il suo volume, inoltre, non limitato al periodo borbonico napoletano, ma si dilata, con ambiziose scorribande, sull'intero e tanto pi vasto orizzonte dell'unit in tutta la penisola italiana, dal Piemonte agli Stati centrali, al Reame napolitano; contiene, infine e lo rileveremo meglio pi avanti , una notevole carica di patriottismo unitario, come si conviene ad un vecchio aviatore della prima guerra mondiale. Non ci troviamo di fronte ad una cronaca e neppure, come potrebbe apparire, ad una storia di ci che non accaduto. I fatti narrati ripetono verit storicamente accertate e registrate dalla storiografia nota a tutti. Anzi l'Autore non omette mai di citare la fonte delle letture alle quali si riferisce: n come vedremo pi accuratamente assume qualcuno di quegli aspetti di rivendicatore , di giudice , di pubblico ministero; facili suggestioni a un uomo non dell'arte. Al contrario, il Bertoletti si sorveglia con raro equilibrio e, spesso, raggiunge le frontiere di una lucida saggezza. Egli si limita ad osservare soltanto che, generalmente, sono i vincitori a scrivere la storia dei vinti e perci molte verit, molti meriti riguardanti questi ultimi vanno occultati o dispersi. Questo concetto costituisce il punto di partenza e la ragione stessa della presente opera. Tuttavia, come abbiamo detto, egli non cos hard core , non cos estremista come un de Sivo o un Butta. In questo Italiano (e l'Autore un Italiano di quella buona vecchia razza alla quale, durante la guerra contro l'Austria Ungheria del '15 '18, l'Italia dovette le sue ore pi alte e nobili e una coscienza, non pi riprodottasi, della sua compattezza morale), in questo Italiano Bertoletti vivono e vibrano anche fortissimi sentimenti risorgimentali e unitari. Per questi ultimi, anzi, per questa passione unitaria che nei nostri giorni non felici va sempre pi rassomigliando alla trepida nostalgia di un bene perduto, egli muove contro i grandi protagonisti dell'Unit, il Cavour in primo luogo, per rimproverare, non senza fondamento, di non aver compiuto l'opera; e in questa negligenza, aver lasciato Napoli e il Mezzogiorno d'Italia nella condizione rejetta di donna depredata e tradita, di regina ridotta al rigagnolo. E, si badi, l'autore piemontese.1 In Il Tempo, Roma, lb sett. 1965 e ivi, 12 luglio 1966.

IIOh, come vorrei poter riprodurre il modo cordiale e sorridente del dire del Bertoletti, narrando come lui piemontese capa 'e lignammo , figlio di piemontesi di Fosseno, sul Lago Maggiore, venuto a Napoli durante la guerra mondiale, sui primi del 1918, diventasse senza avvedersene napolitano, assumesse per effetto misterioso di quel magnetismo dello spirito che fa di Napoli, appunto, una categoria universale, mente e cuore, parola e modi della citt magica; senza spogliarsene pi.Era stato tra i giovani sottotenenti del famoso 9 bersaglieri ciclisti a passare il confine austriaco nella notte dal 23 al 24 maggio 1915. S'era battuto a Oslavia, superstite al suo battaglione distrutto tre volte; era accorso alla chiamata della prima circolare del generalissimo Ca-dorna, per la costituzione (traendoli dai corpi di cavalleria, bersaglieri e artiglieria) di alcuni nuclei di aviatori militari. Cos nell'estate del 1916 il Bertoletti esce dal Battaglione-Scuola Aviatori, col brevetto di primo grado, seguito da quello di secondo e di terzo; e con la nomina di pilota da caccia . Nell'agosto del 1917 assunse il comando della 79a Squadriglia cacciatori, promosso capitano. Fu ferito due volte.Nella primavera del 1918 lo mandarono a Napoli per organizzare al Campo di Capodichino una base di difesa aerea.Era accaduto questo: una notte chiusa e gelida di quel terzo, triste inverno di guerra la citt fu sottoposta ad un severo bombardamento dall'aria. Fu uno dei primi bombardamenti di citt aperte, nelle guerre moderne 2. Un fatto sorprendentemente nuovo, che colse i militari del presidio completamente impreparati. Bombe alte tre metri, veri siluri aerei, caddero sui luoghi della citt pi pacifici e famosi. A Toledo, proprio all'angolo della strada di Santa Brigida, and per aria la mostra di marmo settecentesco del famoso dolciere Pintauro, l'inventore delle sfogliatelle ; la Galleria Umberto I, lo scrigno di cristallo, foro e basilica di Napoli come dice Peyrrefitte esplose come una bolla di sapone; sul Vomero, nei siti solitari dove gli ultimi lirici della canzone napoletana inscenavano i loro idilli delicati; alla Marina, sulla strada vesuviana alla quale s'affacciava allora, e un poco ancora oggi, tanta parte della Napoli cinque e seicentesca con ridenti o tumultuose memorie. Non vi fu gran danno. Morirono pochi sfortunati.Alla difesa antiaerea della citt, un compito ritenuto poco meno che teorico, erano preposti alcuni ufficiali della milizia territoriale; tra essi il Poeta Libero Bovio. Era gente piuttosto aliena da guerra e compiti militari. Bovio, in quell'epoca, aveva scritto alcune canzoni per la guerra: cautamente patriottiche, vagamente socialisteggianti, ma percorse dalla simpatia potente del suo gran cuore. Figliuolo del vecchio e glorioso Giovanni Bovio, filosofo del radicalesimo repubblicano, cantava nelle sue canzonette della guerra il sacrificio eroico del soldato di citt e di campagna, mentre, altri, come il Murolo, il Testa (A. Gill) cantavano e proponevano alla riconoscenza della patria e delle belle ragazze il tenentino ardito, figliuolo della borghesia, che effettivamente in quella guerra dette il meglio di s 3.Ond' che, pure in uniforme, quegli ufficiali della difesa antiaerea di Napoli continuavano le abitudini della bohme letteraria e giornalistica. La notte delle bombe, un gruppo attorno a Bovio, usciva da un ritrovo del Vico Sergente Maggiore; si chiamava il Corfinio . Furono colti, tutti, dal grandioso fragore dell'esplosione a pochi passi, sull'angolo della Galleria. lo Zeppel-lin grid Bovio siamo attaccati . Avvenne allora un fatto incredibile: Niente paura replic uno della comitiva . E sfoder la sciabola.

Bertoletti veniva a Napoli in questo inizio del 1918, nel pieno della guerra e subito dopo Caporetto.Ricordo quella Napoli notturna, avvolta in tenebre vagamente colorate del cupo e non omogeneo azzurro dei globi elettrici e dei lampioni dipinti. Nei vicoli della Corsea, del Rettifilo, dei Quartieri di Montecalvario, dei Guantai, ronde di vecchie mezzane uscite dalle righe del Satyricon , offrivano la profuga , la udinese , la bella friulana .La commedia eterna dell'amore mercenario si confondeva nel flutto della tragedia di quei mesi: l'invasione austriaca delle provincie venete, l'emigrazione delle popolazioni verso il Sud. Anche quello della profuga e della minorenne era un trucco della versatile industria dell'amore vagante. Ma quale picaresca e drammatica atmosfera non si sprigionava da quella offerta novit erotica, nella quale si riassumeva la invasione nemica e la possibile calata degli eserciti austriaci nella pianura padana e nel resto dell'Italia.Vittorio Emanuele Orlando aveva gi pronunciato in quel tempo il discorso meraviglioso per sentimento, bruttissimo per la forma, che ancora i vecchi amatori di rarit discografiche conservano come un prezioso cimelio.Fu il discorso del Resistere, resistere, resistere , col quale quanto di virile, di forte, di generoso conteneva l'anima della Nazione venne opposto al nemico e agli alleati (gli scettici francesi e inglesi che si preparavano ad abbandonarci al nostro destino). ben vero; in quel discorso esisteva la frase famosa: l'Italia rinculer sino alla Sicilia, ma non si arrender , bruttissima frase; ma ditemi se il proposito eroico di cui tutta animata, non infiamma ancora oggi4. E non erano soltanto propositi. Perch poi alle parole seguivano i fatti. Cosi, dopo la incursione dello Zeppellin contro la quale il solo atto di reazione (ma quanto generoso e nobilmente chisciottesco) fu quella sciabola snudata verso l'oscuro cielo da un animoso amico del Poeta Bovio, si pens subito ad attrezzare il campo di Marte di Capodichino.Era un luogo solitario, allora; costellato da barracchette di maniscalchi e da piccole osterie celebri per la zuppa di soffritto . Il capitano pilota Cesare Bertoletti, reduce da molti combattimenti aerei, vi fu mandato ad attrezzare una base di apparecchi da caccia, per la difesa di Napoli. Ma lo Zeppellin non ritorn. Bertoletti e i suoi aviatori lo attesero sino all'estate del 1918, quella fulgida estate della grande Battaglia del Solstizio, preludio alla vittoria del novembre. La guerra fin, in quest'attesa. Fini quando nessuno lo sperava pi.

Fu anche quella una sorpresa. Bertoletti si trov a disporre di dieci apparecchi da caccia, capaci della incredibile velocit di duecento chilometri l'ora. Non sapeva cosa farne. Pens di adoperarli per un esperimento di posta aerea. Aveva ventisei anni, forza, fantasia. Con i suoi piloti, andava e tornava da Roma con un carico di lettere e di giornali. Cos per le strade di Napoli si ud la prima volta (19 gennaio 1919) la voce degli strilloni proclamare: 'O Piccolo Giurnale d'Italia, arrivato frisco frisco cu Pariuplano . Talvolta Bertoletti ospitava al secondo posto del suo Sva una bellissima ragazza napoletana. Un giorno, a duemilacinquecento metri sul Golfo, si scambiarono un anello. Era di quell'epoca una canzone cantata da tutti; diceva:Vola il mio amore, vola. Vola per monti e mare ... Oh! com' bello amare ...La ragazza aveva sedici anni e allora, come ora dopo mezzo secolo di matrimonio, Bertoletti la chiamava: Perzechella . Lui parlava gi, con buon accento, la lingua napoletana.

2 Cfr. Artieri, Napoli nobilissima, Longanesi ed. Milano, 1959, pp. 11, 12.3 I poeti napoletani cantarono, soffrendola, la guerra mondiale. In lingua e in dialetto, Bovio, Murolo, Galdieri, E. A. Mario riassunsero in versi talvolta belli, l'umano dolore, la passione e la fierezza del sentimento popolare. Fior anche qualche esempio di arte pi alta e incisa, come, di Ernesto Murolo, O miercur d' 'a Madonna 'o Carmene . A Napoli, e ad un lirico napoletano, la guerra vittoriosa dovette la canzone-inno del Piave e quella assai meno nota, ma vibrante di Soldato ignoto , entrambe di E. A. Mario (G. Gaeta)..4 II discorso fu pronunciato nella seduta del 22 dicembre 1917 a Montecitorio a chiusura della discussione sulle responsabilit di Caporetto. Finiva cos: La voce dei morti e la volont dei vivi, il senso dell'onore e la ragione dell'utilit, concordemente, solennemente ci rivolgono, adunque, un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza; resistere! resistere! resistere! . Cfr. V. E. Orlando, Discorsi per la guerra e per la pace, Campitelli, Foligno, 1923, pp. 95 e segg.

IIIBertoletti pervenuto alla storia per caso. La vecchia Carmelina la tarantellara di Capri dei suicidi che si gettavano dal Salto di Tiberio diceva ch'erano caduti nell'antichit . Ugualmente si pu cadere nella storia .Ho una lettera dell'Autore, piena di sensi e di sapori, valida a capire anche la sua biografia e questo libro. Ne trascrivo qualche brano. Quattro anni fa a Palermo, in uno dei miei soliti viaggi, vidi in una vetrina il libro di Mack Smith Garibaldi e Cavour nel 1860 ; lo comprai e fu una rivelazione. Capii come i miei dubbi circa il vero e il falso della storia risorgimentale stavano trasformandosi in certezze e comprai un sacco di altri libri, mentre molti altri li avevo; e mi misi a leggerli. Mi si chiarirono le idee.Per, spesso, in casa a Roma o ad Asti o a Torino, avevo preso le parti dei meridionali, in modo spontaneo, senza preordinati calcoli, perch in guerra avevo avuto amici napoletani e siciliani in gran numero, di grande valore e non ero pi disposto a sopportare i soliti luoghi comuni a carico dei meridionali.Mi convinsi cos a scrivere una storia comparata per vedere se, con i miei studi e con la mia biblioteca, si potesse dimostrare che se i meridionali erano passibili di critiche, altrettanto ne erano gli italiani del settentrione. Ma, apriti Gelo!, lo studio fece s che i difetti attribuiti ai singoli e ai governi meridionali venivano a trovarsi moltiplicati per i singoli e i governi settentrionali. Cos Lei, oggi, si trova tra le mani il mio zibaldone le cui conclusioni non possono essere che queste: ignobili e malevoli calunnie durante pi di un secolo a carico dei meridionali e balle sciocche e in malafede cantate in coro a favore dei settentrionali. Caro Artieri, io credo di aver compiuto un dovere e tale dovere dovevo compiere proprio perch sono di famiglia piemontese ed era ora che da un piemontese uscisse la verit per tutto ci che meridionale. E pertanto, con la massima buona fede, con le prove alla mano, ho il dovere di comunicare ai lettori, sia italiani che stranieri, la verit, anche quella che inevitabilmente contraster con le storielle filofrancesi e filoinglesi della storia ufficiale fin qui elargitaci. Naturalmente la mia permanenza a Napoli dal marzo 1918 al 30 novembre 1919 ha avuto il suo peso. Perzechella , con la sua presenza di donna di casa e d'affari di prim'ordine, ha fatto il resto ... .Tali i detti del nostro Autore. Certamente (il lettore 1o vedr) non viene negato in questo libro la necessit storica del Risorgimento. In questi ultimi venti anni, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, molte correnti di studi, influenzate dal predominio politico dei cattolici, si sono orientate in quel senso. Il Risorgimento sarebbe stato uno sbaglio o una colpa, avrebbe infranto equilibri secolari, contraddetto la saggezza del Papa e, nella usurpazione dei Principati italiani, avrebbe costituito un solo, gigantesco peccato mortale.Questo errore gli Italiani avrebbero pagato (o non ancora pagato) mediante la sconfitta nella seconda guerra mondiale; e per esso dovrebbero risistemare, in un disegno presso a poco uguale a quello anteriore dell'Italia divisa in otto Stati, un'Italia contemporanea divisa in otto o pi regioni autonome e altrettanto separate quanto gli antichi Stati.L'ordine antico dell'Italia fratta si basava anche e sovratutto sulla accettata sopportabilit da parte degli italiani di uno o pi domini stranieri. L'inesistenza di ogni fierezza nazionale, di ogni sentimento collettivo di dignit e di carattere, crearono, ai tempi di Machiavelli e Guicciardini, la morale del proprio particulare . L'idea della sopportabilit di una o pi dominazioni straniere ritornata, sotterraneamente, nell'Italia contemporanea; come si visto e si vede nella quasi completa indifferenza ai grandi problemi del nostro Paese, da par- ' te delle giovanissime generazioni, spinte, col potente tramite dei mezzi monopolizzati di informazione, verso11 facilismo americaneggiante, l'incoltura, la insofferenza della famiglia, dell'ordine sociale, degli elementari doveri, della stessa educazione all'igiene personale.L'infiacchimento determinato dall'abbandono graduale dell'etica liberale nello Stato, della morale laica nella vita privata, dispone gli italiani all'accettazione senza eri-tica; produce danni definitivi nello spirito delle nuove generazioni: distolte dalle idee motrici della aborrita e vilipesa Italia risorgimentale, non indirizzate ad altre di uguale o pi acuta suggestione: svanito persino il mito marxistico, nelle convulse tempeste del fallimento storico e pratico della Rivoluzione russa e nell'urto ideologico tra i nuovi comunismi .Ora il Bertoletti non chiede di associarsi alla schiera dubbia e oscura dei testimoni a carico del Risorgimento. I suoi mugugni, le sue sfuriate, la sua antipatia per il Cavour non provengono come la fiera animosit di un de Sivo o di un Butta dalla fede nel diritto divino, dalla convinzione della non necessit di quanto accadde dal 1815 al 1870. La sua indignazione di diversa natura, come si legge nel brano autobiografico riportato. quasi un sentimento di giustizia offesa per tutto ci che venne perpetrato in danno di Napoli e del Mezzogiorno; cio di quella parte dell'Italia che giustamente costituiva una porzione eletta del giardino peninsulare. Dal Mezzogiorno, in molta parte, si estrassero le forze ideali e pratiche per la trasformazione unitaria del Paese; e il dono generoso venne compensato con l'abbassamento a condizione semicoloniale della citt, capitale per sette secoli di un florido Regno.Il Bertoletti non indugia sul grande problema delle origini profonde del nostro Risorgimento; sulla nascita delle forze e dei motivi per cui quell'impossibile miracolo dell'Unit venne compiuto. Non parteggia per nessuna delle due teorie sulle sue origini; quella per la quale il Risorgimento fu il risultato di un movimento intellettuale di lites, capitanato da pochi aristocratici del pensiero; e l'altra, collegata alla concezione marxistica della storia, per cui l'Unit ebbe come motivo dominante la necessit economica e, cio, il fenomeno della produzione nella sua varia complessit; le antitesi di classe e il fenomeno degli scambi, che avrebbero portato alla cacciata degli stranieri e alla costituzione dell'Italia in unica entit economica.Non si lasci ingannare il lettore dall'apparenza di certe recriminazioni del Bertoletti, appoggiata a cifre e statistiche componenti il quadro di ci che venne preso da Napoli e dal Mezzogiorno in cambio di ci che venne dato . Certamente l'Autore (che poi un uomo d'affari) non sfugge alla tentazione di adoperare, e lo fa con molta efficacia, il forte argomento delle cose concrete, delle cose economiche, a favore del suo discorso. D'altronde nel suo diritto e nel suo dovere di storico. Ma, nella sostanza, anche per lui il Risorgimento , come dice il de Ruggiero, un fatto essenzialmente di valori morali: di onest, di dirittura, di devozione, di fede, di disinteresse ; o, come con maggiore efficacia esclama Croce, un fenomeno, in cui spiriti religiosi riempirono e mossero la storia italiana ... e seppero piegare al loro fine la politica dei gabinetti e convertire le proprie richieste in necessit e utilit politiche .Nel Bertoletti (ricordiamo ch' piemontese) sussistono due anime: quella liberale e risorgimentale e quella tutta vibrante per la protesta meridionalista, per la giustizia offesa tantissime volte da scrittori e agiografi risorgimentali, incaricati di demolire il mito del regno felice dei Borboni per soprapporvi quello del progresso nell'Unit, nelle tassazioni, nella burocrazia di un'Italia piemontese . A me, tante volte, leggendo non senza diletto queste pagine, accaduto di ricordare quel passo del crociano Contributo alla critica di me stesso , nel quale il filosofo ricorda i suoi parenti nella casa abruzzese di Pescasseroli e le conversazioni ascoltate da lui, ragazzo; ... in bocca loro coglievo gli elogi di Ferdinando secondo, che era 'un buon re', troppo calunniato e di Maria Cristina che era una 'santa' e, al tempo stesso non udivo pronunziare i nomi degli uomini del Risorgimento se non di rado e accompagnati da parole di riserbo, di diffidenza, e talvolta di satira per i liberali chiacchieroni e per i 'patrioti' affaristi5.5 B. Croce, Filosofia, Poesia, Storia, Ricciardi, Milano-Napoli, 1951, p. 1140.

IVII Bertoletti racconta la storia come un cunto , una favola nel senso napoletano. In questo suo modo bonario e vibrato, drammatico e patetico si scorge il segno principale del suo singolare processo di napoletanizzazione . Cosparge, come usa a Napoli, il suo diritto di giudizi sommari, veementi, ingenui, entusiastici come dati nel calor del discorrere, dinnanzi al caff e ai liquori, in un ricco dopopranzo. Suoi tratti tipici sono i salti di tempo e di concetti e giudizi, propri di chi pensa e scrive senza programma. Da Ferdinando II va a Mussolini; da Nino Bixio ad Armando Diaz, ma questo affollamento di idee e di concetti vengono dal fervore di una passione che non teme di deviare nel disordine, nella mancanza di metodo.A noi, poi, questo timbro particolarmente caro; questi accenti del Bertoletti ci riportano alla voce perduta di nostro padre, quando bambini ci raccontava le cose dell'Italia; e come questa Patria era stata fatta, attraverso battaglie, avventure, congiure, miracoli. Ci riporta ai racconti di quando doganiere e cacciatore di contrabbandieri sulle coste della Sardegna nostro padre ebbe occasione di vedere Garibaldi vecchissimo sulla sedia a rotelle, a Caprera; e di rivolgere la parola a donna Francesca Armosino, la moglie dell'Eroe.Questo modo di raccontare e questo racconto stesso evocano magicamente un'Italia diversa , nella quale si adoravano cose e luoghi oggi non pi considerati abbandonati alla dimenticanza e alla decadenza. Era l'Italia, come io la chiamo dentro di me, delle domeniche ; quando nei chiari mattini di primavera i ragazzi, alla mano del loro papa venivano accompagnati ai Musei, alle letture di Dante, alle visite ai monumenti. La prima domenica di giugno si vedevano gli aspri bianchi dei colonnelli sfilare alla testa delle truppe per la festa dello Statuto. I ragazzi, allora, imparavano a compitare sui caratteri delle lapidi commemorative dei grandi fatti, dei grandi uomini, dei martiri e combattenti per l'Unit. Quante volte, a mano di qualcuno dei miei maggiori, mi sono soffermato sulla piazza della Carit a Napoli, in quell'angolo ancora oggi cos vivo e caldo di antica, barocca e sensuosa umanit napoletana, allo sfociare della Pignasecca sul fiume di via Toledo, a leggere sul fianco dell'ex albergo Universo il marmo in onore di Luigi La Vista, il poeta fucilato nelle giornate del Quarantotto.Talvolta il Bertoletti s'abbandona alle sue temerarie antipatie come quelle, molto pronunciate, per Vittorio Emanuele II e Cavour.Il Re e il suo Primo Ministro, dice Bertoletti, non volevano l'Unit; che venne promossa sovratutto da mazziniani e garibaldini, generosi portatori dell'idea nelle congiure, negli esilii, nelle galere e sui campi di battaglia.Il Piemonte (e Cavour) non avrebbero fatto altro che profittare degli slanci generosi; eccetera, eccetera. fin troppo facile dimostrare come l'idea (ma per Cavour si direbbe meglio il piano) dell'unit nazionale esistesse in lui, nascesse quasi con lui, si connaturasse con la sua stessa persona. Se ne rinvengono tracce nella sua giovinezza, durante i suoi viaggi in Francia e in Inghilterra nel 1835. Sono bagliori antelucani. Non si scorre senza commozione il folto opuscolo polemico di Camillo di Cavour Des chemins de fer en Italie, par le Comte Petitti, conseiller d'Etat du Royaume de Sar daigne (1 maggio 1846)6, nel quale il Conte traccia quasi lo schema del sistema nervoso d'una Italia collegata dalla libert commerciale, dalla rapidit dei trasporti, dal fluire dell'economia sulle rotaie distese da un capo all'altro della Penisola, cos difficilmente unificabile, per la sua verticalit geografica, percorsa e divisa in due come un baccello, dalla cordigliera appenninica.Leggiamo (togliendoci il cappello) il brano stupendo per impeto profetico e per passione italiana, alla pagina 77 del pamphlet cavurriano. Poche righe avanti il Conte, analizzando i vantaggi di una linea ferroviaria da Trieste a Vienna, destinata a congiungere la Germania all'Italia, ha osservato con realistica precisione che i vantaggi di ordine economico di quel collegamento sarebbero stati controbilanciati da un aumento dei mezzi di influenza della casa d'Austria sull'Italia intera .Ma, con un gran colpo d'ala, Cavour definisce speciosa e infondata quell'obiezione. Ascoltate cosa scrive: Se l'avvenire riserva all'Italia delle sorti pi felici, se questo bel paese, com' lecito sperare, destinato a riconquistare un giorno la sua nazionalit, ci non potr avvenire che a seguito di un rimaneggiamento europeo, o per effetto di uno di quei grandi sommovimenti, di quegli avvenimenti in qualche modo provvidenziali sui quali la facilit di spostare pi o meno presto alcuni reggimenti, procurata dalle ferrovie, non potrebbe esercitare alcuna influenza. Il tempo delle cospirazioni trascorso; l'emancipazione dei popoli non pu essere l'effetto n di un complotto, n d'una sorpresa, essa diventata la necessaria conseguenza dei progressi della civilizzazione cristiana, dello sviluppo dei lumi.Le forze materiali di cui dispongono i governi saranno impotenti a mantenere sotto il giogo le nazioni conquistate, quando l'ora della loro liberazione sar suonata; esse cederanno davanti all'azione delle forze morali che aumentano giorno per giorno e che debbono presto o tardi produrre in Europa, con l'aiuto della provvidenza, un rivolgimento politico di cui la Polonia e l'Italia sono chiamate a profittare pi di ogni altro paese .In questo suo raro lavoro di scrittura distesa, Cavour consegna, prima ancora di abbozzarne l'inizio, l'intero programma della propria futura opera politica. Sulla immaginata estensione della rete ferroviaria italiana, egli percorre con la mente Stato per Stato, tutta la Penisola da Chambery a Taranto; e puntualizza la situazione reale delle iniziative private e governative in materia di comunicazioni ferroviarie; quasi indugiando a valutare da ci che si era fatto e si voleva (o non si voleva) fare, il grado di conducibilit della grande corrente unitaria, della elettrizzante idea italiana.Gi in quell'anno 1846, le sue constatazioni sono fatalmente coincidenti con lo svolgersi prossimo del grande processo unitario: rapido dove il nuovo mezzo di civilt della ferrovia gi diffuso, o lo sar a scadenza breve; lento e difficile in quell'unico Stato (il Papato) dove alla nuova invenzione si opponevano dottrina epolitica: L rieri n'a t fait esclama Cavour et, l'exception de la ligne de Bologne Ancone, si ner-giquement sollicite par la Romagne, on ne songe gure a rien faire .A questo punto dovremmo tradurre dal Cavour la trattazione ampia e, direi, persino affettuosa fatta per sottolineare, elogiare, ci che Re Ferdinando II aveva gi realizzato nel Reame: la Napoli-Castellammare, inaugurata nel 1844, prima della Milano-Monza e la Napoli-Capua. Sono, per, ferrovie turistiche, annota il Conte d'admirables moyens de promenade dans les sites en-chanteurs , ma presto diverranno capolinea d'una rete verso il Sud, verso l'Adriatico con un'opera che les dispositions bien connues du Roi lasciano sperare ricca dei pi grandi risultati. Il Mezzogiorno come il Settentrione saranno presto dotati di queste nuove vie di comunicazioni il cui effetto meraviglioso influir potentemente sulle sorti della belle peninsule italienne. Enfin dice Cavour dans le Royaume de Naples, un systme complet rayonnant depuis la capitale, fera circuler la vapeur d'une mer l'autre et, s'tendant jusq' Tarente ou Otrante, tendra la main l'Orient'.6 In Raccolta di atti officiali e di diversi scritti pubblicati in Italia, in Francia, in Germania, intorno alle presenti vertenze fra l'Austria e il Piemonte, preceduta da alcune memorie intorno alle Strade Ferrate e alle presenti condizioni politiche dell'Italia e dell'Austria, S. Bonamici Compagnia, Losanna, 1846. Cavour commenta, in francese, sulla Revue Nouvelle, tome VII, 1 mai 1842, i Cinque discorsi di Ilarione Petitti, Delle Strade Ferrate Italiane e del miglior ordinamento di esse, pubblicati in un grosso volume di 651 pagine, l'anno prima a Capolago. La Revue Nouvelle presenta lo scritto di Cavour con parole lusinghiere e riconosce che il Conte ha su agrandir l'expos d'une question conomique par des considera tion politiques dont tous les sprits sages et gnreux apprcient l'lvation et la porte .7 Vedi anche M. Vocino, Primati del Regno di Napoli, Mele ed. s.i.d.

V pur sempre con rinnovata meraviglia che si considera (anche e sovratutto oggi che tutto o quasi tutto del Risorgimento si revoca in discussione e nelle origini e nei risultati) quel miracolo travagliato e talvolta oscurato drammaticamente dagli urti tra i suoi protagonisti, dalle loro debolezze e inimicizie ma alla fine splendido nel suo finale risultato, cio il fatto stupendo della nascita di una Nazione. Diversamente dovremmo concludere (ma il nostro Bertoletti sarebbe il primo a mostrarsi di contrario avviso) che quel miracolo fu uno sbaglio e la malinconica profezia di Francesco II di Borbone, all'atto della sua partenza per Gaeta, una realt attuale.Ripeto: anche alti intelletti di patrioti, come il Settembrini, una volta conseguita l'unit e iniziata, dopo la grande stagione di poesia, la pesante, grigia e oscura stagione della prosa cedettero alla delusione e concordarono col giovane e sventurato Re Francesco che a Napoli e al bel Reame incorporato nell'Italia unita non avanzavano neanche gli occhi per piangere .Certamente faticosi e tristi furono gli inizi per la nuova Nazione. Tutto andava male e andr male: al Sud, dove il problema della miseria e del rinnovamento radicale di terre, economia, costumi, non verr attuato e neppure promesso, affiorando talvolta come protesta o sogno; o tenuto dai governi centrali in un perpetuo stato di lentissime realizzazioni e permanente speranza del meglio. Al Nord, dove al grande progresso industriale, civile, tecnico s'accompagner, costante nelle citt e nelle campagne, la questione sociale e un sempre rinnovato organizzarsi di movimenti e mutamenti rivolu-zionari, tendenti sovratutto all'affermazione del primato settentrionale attraverso varie egemonie politiche.Cos Milano capitale morale e il triangolo industriale, con Torino e Genova, diventeranno volta a volta centri del socialismo, del fascismo, del comunismo, del populismo cattolico. Sempre, in sostanza, a scapito del Mezzogiorno, della parte in gi del lungo Stivale, quasi a rinnovare e perpetuare l'iniziativa risorgimentale, assunta dalla parte in su dell'Italia e rovesciatasi, come sostiene Bertoletti, addosso ai poveri meridionali come un diluvio. ben probabile che tutte le analisi, specialmente eco-nomiche, conducano alla conclusione alla quale sembra pervenire il Bertoletti: di una maggiore felicit goduta dai popoli dei vecchi Stati nella confortevole custodia dei regimi paterni, nell'agio delle tranquille citt, nell'abbondanza di una economia agricola basata sulla forza muscolare del contadino e delle bestie e sulla religione della propriet ereditaria, nell'ombra protettiva dei duomi e cattedrali, abbazie e vescovadi, parrocchie e pievi dell'Italia sempre (ed anche oggi) immobile nel suo aspetto medioevale. Ma con ci non si riesce a negare la necessit dei fatti accaduti: della Rivoluzione liberale alla quale venne affidato il compito di preparare lo spazio per la nuova storia, di sempre pi allargate dimensioni; secondo la legge di crescita e il pulsare misterioso dei cicli umani. Cavour, in distanza ci appare appunto come il grande rivoluzionario di quest'epoca.Altro che contrario all'Unit; egli non pensava ad altro e non gi come pura astrazione, ma come tessuto di fatti, avvenimenti, istituti, opere, capaci di tenere in piedi la futura Nazione. Sul suo giornale torinese il Risorgimento il 22 marzo 1848 scrive una anticipatrice professione di fede: l'audacia la vera prudenza ... la temerit pi savia della ritenutezza . Agli elettori di Vercelli, lo stesso anno, parla dell' Italia unita e libera (ma non fu eletto); e ancora sul Risorgimento il 12 novembre 1849 stabilisce, per la prima volta la Sua dottrina di rivoluzionario, d'una specie nuova, che s'armava di prudenza: Sappiasi che la nostra fede nella Costituzione inconcussa: fra i primi l'invocammo; e siccome la difendemmo da repubbliche, dalle costituenti mazziniane, la difenderemo sempre, con ogni nostra possa, contro altri insensati e perfidi suoi nemici. L'idea vera italiana noi la coltiviamo ognora, ma scevra di esagerazione, ed perci che ancora pi sacra ci appare ora, che non fosse nella pienezza della sua esaltazione . gi la dottrina del giusto mezzo, come tattica da praticare durante le imprese unifcatrici del prossimo decennio. Non siamo ancora nel clima delle guerre di indipendenza. Cavour parla, ormai, per conto di un'Italia ch'era per il momento soltanto il Regno sardo, ma gi nella sua mente tutta la Nazione unita: lItalia che aveva interesse a impedire il trionfo russo in Crimea e impedire (sin da allora!) l'ingresso della Russia nel Mediterraneo (seduta alla Camera di Torino, 6 febbraio 1855); l'Italia la cui condizione anormale e infelice '... stata denun-ziata all'Europa, non gi da demagoghi, da rivoluzionari esaltati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito, ma bens da rappresentanti delle primarie potenze di Europa, da statisti che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni sensibili assai sin alla voce della ragione che a seguire gli impulsi del cuore...', ecc; l'Italia a cui, nel 1858, pensava il Cavour con un'amministrazione autonoma delle Romagne, profondi mutamenti nei Ducati e nell'Italia meridionale, cose dice uno scrittore (il Rosi) non facili da ottenersi ma che probabilmente egli chiedeva per mettere bastoni tra le ruote dei diversi governi d'Italia 8.Certamente lo sguardo di Cavour era unitario ed egli pensava in termini italiani; ma non s'allargava nei progetti pratici, all'Italia intera; non raggiungeva, per assenza assoluta di esperienza diretta, i problemi della Penisola, dall'Alpi a Marsala. Cavour non era stato a Napoli, a Palermo, a Bari; non pose mai piede nella Sardegna da cui traeva nome il Regno-prototipo, proposto alla futura Italia. Lui stesso confesser, come ricorda il Bertoletti, di aver idee pi chiare e pronte circa i problemi delle miniere inglesi che di quelli di Napoli e dei territori meridionali. Mancava di esatte informazioni. Nella famosa lettera al Nigra, la Sicilia per lui le arance ; Napoli e le provincie meridionali, i maccheroni ; quelle e questi da servirsi alla imbandigione del Re piemontese.Le provincie del Sud, ai suoi occhi, appaiono avvolte in una nebbia prodotta dalla lontananza. Napoli e l'ex Regno del Sud costituirono per lui qualcosa di simile ad un incubo: 1) per la possibilit di mutarsi in una base, praticamente incrollabile, della dittatura di Garibaldi, con immenso imprevedibile danno per l'idea unitaria; 2) per le potenti insorgenze antiunitarie, legitti-mistiche, centripete. A Napoli, conformemente alla profezia di Re Francesco II non rimasero neppure gli occhi per piangere, ma anche vero che Cavour non ebbe tempo di riparare alla grande depressione dell'antica, gloriosa capitale del Reame sette volte secolare, a citt di provincia. Furono lacrime, rivolte, tumulti e proteste accorate non soltanto di Napoli; ma nella stessa Torino spossessata anche se vincente; ma a Firenze, strappata alle illusioni del suo proprio primato.Il destino drammatico di Cavour si chiude con la travagliata morte, oppressa dal peso terribile e glorioso della nuova realt di Roma, capitale dei due regni; quanto dire sigillo d'un'unit incompiuta o gi divenuta problematica nel momento stesso di compiersi. Quante ombre, nel suo magnanimo delirio, il Conte Camillo non vedeva allungarsi sulle magnifiche sorti e progressive preconizzate del Poeta.8 In Dizionario del Risorgimento nazionale, Vallardi, Milano, 1930, II, 623 e segg.

VICommuove, poi, nel libro di Bertoletti lo slancio entusiastico messo nella rivalutazione, nella difesa, nell'apologi dei lazzari, dei briganti, del lumpenproletariat napoletano, insorgente contro lo straniero invasore. una vecchia storia questa dello strenuo eroismo popolare napoletano, emergente nelle plebi masanielliane del 1647; nei combattenti straccioni contro i francesi dello Cham-pionnet, nelle tre giornate dal 21 al 23 gennaio del 1799; nelle masse del Cardinale Ruffo, conquista-trici di Napoli in una marcia imitata da Garibaldi, dal sud della Penisola verso nord; o tra il 28 settembre e il 1 di ottobre del 1943 negli scugnizzi e operai lanciatisi contro i carri Tigre nazisti del colonnello Scholl.Vi si rivela ci che Vincenzo Cuoco chiama la disintelligenza fra le classi colte e quelle popolari che portava quasi al coesistere di due popoli diversi ... per due secoli di tempo e per due gradi di clima . un valore sconfinato quanto estemporaneo, quasi fine a se stesso, anche perch nelle occasioni in cui si libera (le principali le abbiamo dette) gli manca il sostegno di una direzione coerente, di una intelligenza di comando. questa la ragione massima della pallida traccia lasciata da questo eroismo popolare nelle storie: nessun cronista di parte lazzaresca ha fermato i fatti principali delle rivolte e insurrezioni della plebe napoletana in generale; delle lotte di strada contro lo Championnet e i francesi nel gennaio del '99, in particolare. ben giusta la rampogna del Bertoletti alla storiografia liberale per la distratta nota-zione di quell'avvenimento e dei tremila popolani caduti nei combattimenti. Ma debito di verit osservare che non avremmo nozione di quel valore sfortunato senza le ampie, se pure generalizzanti, citazioni proprio dei contemporanei di parte liberale: principale nemico dei lazzari, il generale Championnet stesso.Tuttavia sappiamo poco o niente, nel dettaglio, sui fatti avvenuti in quelle sessantasette ore, tra il 21 gennaio mattina e il 23 pomeriggio dell'ultimo anno delsecolo XVIII 9. Cercheremo, qui, di integrare con qualche nostra ricerca quelle del Bertoletti.Intanto: perch si battevano? Erano migliaia, in una infissabile quantit 10, folle e squadre, gruppi e reparti mutevoli come acque in moto. Erano privi di capi e di organizzazione? Forse ne possedevano in forma embrionale e sempre aleatoria. Non sarebbero state possibili altrimenti le resistenze nei tre forti del Castel dell'Ovo, del Castel Nuovo e del Cannine, quest'ultima protratta dopo la resa degli altri. Del resto dai tempi masanielliani, al Mercato, si eleggeva un capo-lazzaro e il Croce riporta il nome di quell'Antonio Sabato e del suo vice, Fabiano, eletto nel 1789 e che il 18 agosto del 1790 si rec sotto i balconi della Reggia per rassicurare il Re Ferdinando sulla fedelt e il buon ordine di Napoli durante il viaggio dei sovrani alle corti italiane e a Vienna u. Non sappiamo se il Sabato e il Fabiano fossero vivi, in carica e partecipi agli avvenimenti delle Tre Giornate del 1799 e alla Reazione del giugno di quell'anno con le bande del Cardinale Ruffo. Di altri due Lazzari ci trasmette il nome il Croce, Aniello Russo e Francesco Pezzodipane, della contrada Piliero, alla strada della Marina; e sono contenuti nel racconto della tragicomica avventura dell'avvocato giacobino napoletano Nicola Fasulo, impiccato poi nell'agosto al rientro della Corte.Gruppi, grumi, bande, compagnie di quartieri e di contrade questi lazzari si animano di un misterioso sentimento collettivo di difesa della loro terra, della loro citt, di qualcosa che essi non sapevano definire e non era in quei giorni del gennaio 1799 neppure il Re, che era fuggito malgrado le loro proteste di non farlo e affidarsi a loro 12; neppure il sentimento religioso, il fanatismo gennariano e sanfedista sobillato assiduamente tra le loro fila, dice il Cuoco, da preti e monaci fanatici, i quali benedicendo le armi di un popolo superstizioso in nome del Dio degli eserciti accrescevano con la speranza l'audacia e con l'audacia il furore 13. Entrava ma soltanto in parte, nella loro risolutezza, la gelosia delle donne che essi sapevano appetite dai vincitori francesi e questo, dice il Croce, sin dai tempi angioini . Ma non era, in assoluto, soltanto questo impulso e questa reazione. molto probabile trovare nel loro istinto fanciullesco la ragione di quel terribile gusto al gioco della morte. Tutte le cronache descrivono l'incredibile ingenuit dei lazzari, il selvaggio loro candore, la loro credulit. Basti ricordare dal gi citato racconto crociano come l'avvocato Fasulo abbindolasse quelli che stavano per fucilarlo; come il Roccaromana e il Moliterno, chiusi in Castel Sant'Elmo con altri trentun patrioti, si liberarono, con una scoperta astuzia, dei centotrenta lazzari posti a presidio e s'impadronirono della fortezza, il 21 di gennaio del 1799 14; e con quanta entusiastica volubilit passassero da un umore all'altro, spassandosi a far fessi i francesi di Championnet che odoravano le loro mani e i loro denti, per coglierne il tanfo della polvere da sparo e fucilarli subito; ed essi a mondarsi masticando scorze di limone e strofinandosene. Probabilmente il diversivo della guerra, l'uso degli strumenti di essa come i fucili, i cannoni, ai quali in condizioni normali essi non accedevano e dovevano guardarli come i rari, magici mezzi della forza e della potenza, creava quel primo senso di felicit d'esserne in possesso e di poterli adoperare senza controllo.Salvo la cronaca anonima, tratta da un diario anonimo, senza data e senza segni di altra identit scovata dal Croce 15, non si posseggono documenti delle Tre Giornate del '99, con testimonianza dalla parte lazzaresca. Le notizie principali occorre chiederle agli avversari; le troviamo nella lettera del Generale Championnet al Direttorio del 26 gennaio 1799 (6 piovoso, anno VII); nella descrizione, che un vero e proprio reportage , di Eleonora Fonseca Pimentel, nel Monitore repubblicano (primo numero del 14 piovoso, anno VII della libert e I della Repubblica napoletana una e indivisibile), oltre gli accenni nel Saggio del Cuoco, nella Storia del Colletta e in alcune memorie e diari (il De Nicola, il Mannelli, il Palermo, eccetera). Questi documenti non permettono un rigoroso quadro d'insieme della battaglia dei lazzari, ma consentono di vederne dei brani: qua e l.Championnet, da stratega, indica i movimenti delle sue unit (Kellermann a destra, sbuca a Capodimonte; Calvin al centro, scende da Capodichino; Duhesme, viene lungo il mare dal ponte della Maddalena e il Carmine), ma non racconta la battaglia 16.La Pimentel (una grande giornalista!) dispone meglio ambienti e personaggi.Il luned 21 alle 11 del mattino, compaiono le prime colonne francesi, discendendo da Poggioreale e via Foria. Presso a poco sulla attuale piazza Carlo III si trovano schierate alcune centinaia di schiavoni o camiciotti appartenenti al disciolto reggimento albanese di Re Ferdinando. V'erano altri soldati, popolani, ragazzi, donne molto probabilmente. I francesi furono accolti da scariche vivacissime e funeste. Arretrarono. Cercavano dice la Pimentel di attirare i lazzari all'aperto, in campagna; per manovrare e stringerli. Da Sant'Elmo (occupato dai repubblicani con l'accennato stratagemma) tirarono a palla sui lazzari di Foria. Costoro si diradarono. Verso sera i francesi vengono avanti. La notte copre col suo cupo gelo i combattenti. Tutto tace. Dall'alto di Sant'Elmo si scorgono file regolari di lumi su Capodimonte: sono i reparti di Kellermann. Nella fortezza, asserragliati, si trovano Gerolamo Pignatelli, Principe di Moliterno e Lucio Caracciolo Principe di Roccaromana, designati dai lazzari come loro capi, per essersi battuti uno in Lombardia (dove perse un occhio) e l'altro a Cajazzo (ferito ad una gamba) contro i francesi, ma passati ai repubblicani, in vista dello scatenarsi d'una spaventosa anarchia e con l'intento di provvedere al minor male della citt. Moliterno e Roccaromana decidono di mandare il tenente Eleuterio Ruggiero (poi colonnello della 'Repubblica, decapitato dalla reazione il 20 gennaio 1800) a verificare la situazione, scrivono ai cinque componenti del governo municipale (si chiamavano La Citt, quattro nobili e un plebeo abbiente) e al Cardinale arcivescovo perch le squadre popolane desistano dalla resistenza. In quest'andirivieni s'arriva alle 6 del mattino. I popolani attaccano. Un segreto di quest'aggressivit risiede, probabilmente, nel gran numero di cannoni in possesso dei lazzari. Provenivano dai parchi di artiglieria del mastodontico, disciolto esercito condotto da Ferdinan-do IV e dal Mack a Roma, e rientrato precipitosamente; sconfitto prima ancora di combattere una battaglia campale contro l'esigua armata di Championnet, torturata del resto dalla valorosa incessante guerriglia degli abruzzesi. I lazzari s'erano spartite le artiglierie e avevano imparato a servirsene, rapidamente e facilmente, istruiti da gente del mestiere. I plotoni francesi credevano di marciare all'assalto di barricate e ostruzioni deboli; si trovarono di faccia a veri schieramenti di cannoni che sparavano con effetto disastrosissimo a zero. Donde infinite manovre aggiranti e assalti per cogliere i difensori alle spalle attraverso strade e vicoli sconosciuti, aperti a tutte le imboscate. Nell'assalto delle posizioni lazzaresche al Mercatello, il Calvin cattur soltanto qui ventisei pezzi d'artiglierian.D'altra parte i repubblicani erano pi istruiti sulla guerra di strada che non gli ingenui popolani del Pendino e del Lavinaio. Essi tiravano dalle finestre e scomparivano; il lazzaro non sapeva lasciare il selciato della via e del vicolo, cos i gruppi popolani vennero decimati dai fuochi provenienti dice la Pimentel quali da San Giovanni a Carbonara, quali dai finestroni dell'Ospedale degli Incurabili ; ed erano a sparare quasi tutti studenti di medicina, in pratica presso l'ospedale e perci detti prattici . Anche in altri luoghi le squadre popolane furono prese alle spalle.Tra le 9 e le 10 di sera del marted 22 gennaio, accompagnato da Ruggiero, un distaccamento francese da Capodimonte si rec a Sant'Elmo. Con altri repubblicani il medesimo distaccamento scese per la strada Madonna dei Sette Dolori, dirigendosi verso il Largo dello Spirito Santo e il Mercatello (l'attuale Piazza Dante). Qui secondo gli accordi si sarebbe dovuto congiungere col grosso di Kellermann in discesa da Capodichino. Ma l'appuntamento fu mancato. I lazzari avevano fermato Kel-lerman presso a poco all'altezza dell'attuale Salita Museo; Duhesme, a Porta Capuana, aveva subito terribili perdite. Repubblicani e francesi dovettero risalire la collina e andare a chiudersi nel forte. L'armata di Championnet, penetrata nel cuore di Napoli era immobilizzata; dovette cercare posizioni preminenti sulle alture di Santa Lucia del Monte e dell'Infrascata.I movimenti di un esercito regolare sono, per il loro stesso raziocinio, pi lenti di quelli di gruppi privi di disegni tattici, di organizzazione. Cos i lazzari corsero la citt, per linee interne come si direbbe battendo ora in questo, ora in quel punto il nemico che s'erano prescelto 18.Nella mattina di mercoled il generale in capo francese dispose le artiglierie per un bombardamento indiscriminato della Citt e ordin da Sant'Elmo di tirare sugli altri tre castelli: dell'Uovo, Nuovo e del Carmine se non avessero abbassati gli stendardi reali. Il Carmine si ostin a resistere; fu cannoneggiato a lungo da Sant'Elmo; in uno con la folla assiepata dinnanzi al Palazzo reale per entrarvi a saccheggiare. Morirono alcuni; gli altri depredarono la dimora del Re e dopo due ore e mezzo (dice la Pimentel) Championnet potette entrare a Napoli, ritirandosi a pernottare nel Palazzo Santobuono.Come agirono i lazzari? Come si divisero, in quanti e quali gruppi occuparono i quattro castelli, tenendone tre? Pochissimi nomi di capi, sono noti. I cento trenta di Sant'Elmo li comandava un Luigi Brandi lazzaro ancor esso e ferocissimo , dice il Colletta 19. Nella tradizione e nella descrizione dell'entrata a Napoli di Championnet, viene notato come capo di tutti i lazzari quel Michele Marino detto il pazzo, accompagnato da altro detto Paggio, questi piccolo mercante di farina , l'altro cos agnominato per giovanili sfrenatezze 20. Ma del Marino, ovvero Michele il pazzo, ci viene tramandato altro attributo onomastico dal cronista Marinelli che nel suo Diario 21, rarissimo, dice: ... fu fatto ufficiale ed ebbe nel tempo repubblicano buon soldo . L'agnome macchiavello , forse per l'astuta pieghevolezza. Era un cassaduoglio o oliandolo (secondo il Marinelli) e si rec a trattare la resa presso il quartier generale di Championnet. Fu conquistato dalle buone maniere del generale francese, ne accompagn l'entrata come certifica Emanuele Palermo nella Memoria ristampata dal Dumas: le truppe francesi erano precedute da un tal Poerio calabrese che veniva con l'armata e tra lui e il generale cavalcava un capolazzaro di nome Michele Macchiavello. Costui era patriota d'inclinazione ed era stato maneggiato dai patriotti di Castel Nuovo. Gridava: 'Viva Ges', Viva Maria, Viva San Gennaro, Viva la libert. Quel popolo poc'anzi cos feroce replicava le stesse parole con trasporti di gioia . Povero Michele! Doveva possedere certamente un raro acume politico e il senso della realt se, dominato dal presagio del peggio, durante il breve periodo della cuccagna repubblicana invitava i suoi figliuoli a profittare dell'aleatoria fortuna, con una frase divenuta poi proverbiale presso i vecchi napoletani: Magnate, magnate, e' 'a cap' 'e tata pav ... cio: Badate a saziarvi che, presto o tardi, papa pagher con la testa . Infatti, Michele il pazzo, con un altro capo lazzaro Antonio Avella detto pagliuchella , membro plebeo della prima Municipalit provvisoria di Napoli insediata il 26 gennaio da Championnet, fu impiccato il 29 agosto 1799 22. Altro capo della plebe nomina il Croce, nella persona del negoziante Verrusio, gi deputato del popolo. Le sue bande contrastarono tenacemente il possesso di Castelnuovo ai repubblicani durante la battaglia delle Tre Giornate. Non sappiamo chi fosse l'intrepido difensore del Carmine. Rifiut di abbassare lo stendardo del Re quando tutti lo abbassarono; n sappiamo cosa seguisse al rifiuto. Il Cilibrizzi cita, forse sulla scorta del Colletta, come capo lazzaro quello stesso Paggio, Giuseppe, farinaio 23.Va osservato, a questo punto, come i capi dei lazzari, per quanto ne sappiamo, non erano lazzari veri e pro-pri, non appartenevano al ceto cos chiaramente delimitato dal Croce: facchini, commessi, inservienti di negozi principalmente, funaioli, ferrari, cotonieri, stagnini, chiavettieri, ferri vecchi, conciatori di pelli, sarti, calzolai24 (ma il Croce non nota i cacciavino , cio i garzoni di vinaio; i commessi dei farinai o vammaciri , gli uomini di fatica degli oliandoli e salumai). I lazzari, in gran parte, componevano la manovalanza addetta al commercio all'ingrosso e al minuto e perci i padroni di bottega, per il loro prestigio e autorit, diventavano i naturali comandanti delle loro bande, gruppi, masse, eserciti. Non si deve escludere una legittima motivazione di difesa delle botteghe e del loro contenuto in questa embrionale organizzazione. E si capisce anche, a questo punto, l'accanimento a resistere sovratutto per stornare il pericolo maggiore: il saccheggio dei negozi e depositi, esposti per primi alla cupidigia del vincitore.Quanti ne caddero? Il Bertoletti nel commosso e bel capitolo dedicato ai lazzari e a Championnet, narrato con movimento di favola vera , assume la cifra di altri storiografi: tremila. Forse furono di pi. Nel rapporto di Championnet al Direttorio si parla della terrible boucherie fatta da Duhesme, che aveva avuto il suo campo di Porta Capuana sbaragliato dalle cannonate e dagli assalti dei lazzari. E lo stesso generale in capo racconta come un gruppetto di questi eroi della plebe assale un brigadiere e tre granatieri serventi di un pezzo di artiglieria, strappa il cannone dalle loro mani, lo volge ai francesi facendo strage a sua volta. Per ottenere la capitolazione del forte del Carmine fu necessario ordinare l'incendio dei quartieri Mercato, Pendino, Lavinaio. Gli assediati uscirono, in traccia delle loro donne, dei loro bambini. Nessuno ha descritto con mano d'artista queste scene. Esse sono perdute con il ricordo di tanto valore.Fu una inutile epopea? I grandi gesti non sono mai inutili. Cuoco dice ch'essi, i lazzari, anche dopo la resa si ritirarono meno avviliti dei vincitori che indispettiti contro coloro che ritenevano traditori. Anzi, il Botta ipotizza persino che essi avrebbero potuto rendere dubbio l'evento vittorioso dei francesi, senza la quinta colonna dei giacobini operante alle loro spalle. Poveri napoletani, coraggiosi, ingenui e sempre traditi25.9 Maurice Faure, Souvenirs du Generai Championnet, Flam-marion, Paris, s.d., 281.10 La popolazione probabile di Napoli superava i 500.000 abitanti e l'esercito di lazzari valutato da Championnet da 40 a 60.000 uomini. Erano, per, masse capaci di dilatarsi e di fondere nel giro di minuti: ora accaniti combattenti, ora festanti, ridanciani compagnoni del soldato francese, in una infinita serie di mutazioni e di episodi tragici e farseschi. Erano davvero ces hommes tonnants del Rapporto di Championnet al Direttorio; comandati da chefs intrpides .11 Croce, Variet di storia letteraria e civile, serie prima, Laterza, 1935, pp. 192 e segg.12 Id., id., pp. 180-189.13 Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, con intr. note e app. di Nino Cortese, Vallecchi, Firenze, 1926, XV, pp. 105 e segg.14 L'inganno narrato da Colletta, Storia del Reame di Napoli, Ist. Ed. It. Milano, Voi. primo, XLIV, 249. Nicolo Caracciolo, fratello del Roccaromana, d'accordo con i repubblicani di fuori, fece venire un folto gruppo di gente inerme, per stornare i sospetti, a offrirsi al Castello per rafforzare la difesa contro i Francesi. Mand nella notte il Brandi, capolazzaro, di scolta fuori delle mura e accanto ad ogni sentinella popolana, pose, pretesto di raddoppiare la sorveglianza, uno dei congiurati. Brandi, richiamato d'urgenza durante l'ispezione, fu subito messo in catene chiuso nei sotterranei, le sentinelle ammazzate o catturate dai compagni , gli altri lazzari rimasero sbandati e tagliati fuori.15 Croce, /. e, pp. 193 e segg.16 II rapporto nel citato Faure, Souvenir^, ecc. ma non integralmente riportato. Contiene il brano: Les Lazzaroni, ces hommes etonnants, les rgiments trangers et napolitains, chap-ps des dbris de l'arme qui avait fui devant nous, sont de hros, renferms dans Naples. On se bat dans toutes le rues, le terrain se dispute pied pied; les Lazzaroni sont commands par des chefs intrpides: le Fort Saint-Elme le foudrois, la terrible baion-nette les enfonces; ils se replient, reviennent la charge, s'ava-cent avec audace, gagnant souvent du terrain ... , ecc.17 Nel bilancio della vittoria di Napoli, Championnet comunica di aver preso 300 cannoni, tutti i parchi del nemico, 5 cittadelle, 100 bandiere. Una gran parte dei cannoni era passata nelle mani dei lazzari che dice Colletta, /. e, p. 248 sguernivano le artiglierie dei castelli e gli arsenali .18 curioso notare come la topografia delle rivolte napoletane segua itinerari obbligati. Si confrontino le azioni antinaziste svolte durante le Quattro giornate, dal 28 settembre al 1 ottobre 1943 (e per queste v. Le Quattro Giornate, Scritti e testimonianze, con una premessa di G. Leone, Marotta, ed. Napoli, 1953) con il disegno approssimato della battaglia dei lazzari contro Championnet.19 l. e, p. 249.20 Lo dice il Colletta, id. id.21 Luigi Conforti, Napoli nel 1799, Anfossi, Napoli, 1899, p. 167, trascrive dal Diario del Marinelli e riporta la notizia su Michele il Pazzo.22 Antonio Avella (d'Avella), ora vinaio, ora rigattiere ora venditore ambulante di castagne al forno. Marinelli, citato da Conforti, dice: Per essere contrario alla Corte fu applicato della Repubblica avendo l'ufficio di grasciere nella citt. Sebbene non sapesse n scrivere, n leggere pure avea buona testa . Si veda anche, Gino Doria, Storia di una capitale, Ricciardi, Napoli, 1958, p, 226, in nota. Avella fu impiccato il 28 agosto 1799, con Michele Marino.23 Cilibrizzi, II pensiero, l'azione, il martirio della Citt di Napoli, ecc, Conte ed., 1961, I, p. 184. 24 Croce, /. e, pp. 189-190.25 C. Botta, Storia dei popoli italiani, Nistri, Pisa, pp. 134 e segg.

VIIQuante giuste rivendicazioni, nel libro del Bertoletti, quanti accenni e abbozzi di sentenze di appello; comprensibili oggi; ieri, quasi assurde. Il luogo comune della ferocia reazionaria del Cardinal Ruffo; la sempre sottaciuta infamia del Nelson, nel processo al Caracciolo, nell'annullamento dei patti di capitolazione con gli uomini della Repubblica napoletana; la crudelt di Ferdinando II; l'opera delle sette e societ segrete, contro le quali il Bertoletti non si scaglia con minor veemenza d'un de Sivo e d'un Butta.Il nostro Autore possiede la facolt del furore. Gli avvenimenti in mano sua riacquistano uno scottante calore di vita; riescono a spingerlo all'ira; a farlo uscire dalla sua scorza di storico ed entrare nella pelle di qualche personaggio o di qualche sia pure comparsa, ma viva e operante; per decidere forse a favore di ci che non avvenne o vendicarsi di ci che avvenne, almeno con una invettiva.E in questo appassionarsi perviene, talvolta, come nell'efficace e bel capitolo sul Regno di Sardegna nel 1821 a comporre il suo amore meridionalista e napoletanista che l'orienta contro quella unificazione della Patria, iniziata da Carlo Alberto quasi sul ritmo dell'ode manzoniana: Soffermati sull'arida sponda volto il guardo al varcato Ticino ...con la sua natura sempre vigile, ventenne, di combattente della prima guerra mondiale. Per quella guerra, nei suoi rovesci e nelle sue fortune gli italiani lo abbiamo detto vissero il loro pi bel momento. Il Bertoletti non pu rompere l'invisibile legame e teme, per elogiare una dinastia e un regno scomparsi nel dramma del Risorgimento, di tradire in qualche modo i sentimenti, la passione, la fedelt alla poesia di tutto ci che nel passato (dal quale tutti proveniamo e del quale impossibile liberarsi) gli fu sommamente caro. E, dunque, eccolo a scusarsi con la dinastia di Savoia delle responsabilit ch'egli costretto ad addebitarle per la caduta del Reame di Napoli e per tutto ci che di deviato avvenne durante il processo risorgimentale.Ma il suo scopo principale, del resto, ben preciso e onesto: vuoi restituire a Napoli e al Mezzogiorno se non quelli reazionari, almeno i meriti che Napoli e il Mezzogiorno vantarono nel mandare avanti l'idea liberale, nell'arricchirla del pensiero napoletano, nel nobilitarla nel sangue e nelle sofferenze dei Martiri e dei condannati napoletani. Gino de Sanctis mi raccont di un suo zio, cospiratore pugliese per il Risorgimento, carbonaro e ospite delle fosse della Favignana e dell'ergastolo di Montefusco; si chiamava Sigismondo di Castromediano 26. Una volta ritornato a libert, col nuovo Regno, il Castromediano pose le catene, trascinate per tanti anni, come un trofeo di fiori a capo della sua scrivania. E quando andavano a parlargli delle sue traversie di carcerato politico, rifiutava; limitandosi ad indicare la strana decorazione parietale.Ho pensato a quest'episodio a proposito del presente libro. Ho pensato ch'esso sar letto da moltissimi, che figurer in chiss quanti scaffali a Napoli e nel Mezzogiorno; e che ai suoi possessori capitando di dover discutere o disputare sulla sempre presente e dolorosa condizione di disparit, di giustizia tradita, di menomazione storica, di cui l'antico Reame soffre dal 1860, baster un gesto; baster indicare questo volume di Cesare Bertoletti, scritto come abbiamo gi detto, col cuore in mano da un piemontese appassionato.26 Sigismondo Casttomediano, duca di Morciano, marchese di Cavallino, signore di sette baronie fu liberale, moderato, alieno da stte e congiure. Era nato nel 1811 e nel 1848 partecip ai moti in provinvia di Lecce. Perch nobile (e con castello avito) fu punito severamente dalla reazione: trent'anni di lavori forzati, nelle peggiori galere: Montefusco, Montesarchto, ecc. Entr nell'amnistia, con Settembrini e altri; fu trasportato a Cadice e imbarcato per New York, ma per il fortunato colpo del figlio di Settembrini, approd con gli altri in Manda e poi a Londra. Pass nell'emigrazione napoletana a Torino e nel salotto della baronessa Savio lesse la prima redazione delle sue Memorie. La citt di Lecce le pubblic a spese del municipio e le bozze del primo volume gli vennero presentate pochi giorni prima della morte, al suo letto, in una camera del suo diroccato castello. Si spense il 26 agosto 1895. Conservava in cassaforte la casacca rossa di forzato. Le memorie si intitolano Carceri e galere politiche .

Roma, 1 novembre 1966Giovanni Artieri

A Perzechellacon riconoscenza !

DEDICA

In omaggio alla verit e alla giustizia, dedico questo studio di storia patria agli Italiani dell'Italia meridionale e, sopratutto, alla memoria del napoletano Enrico De Nicola che di verit e giustizia stato fedele assertore durante la sua intemerata vita, sia come principe del Foro, sia come insigne uomo politico.E dell'insigne uomo politico napoletano mio dovere ricordare come, in questa epoca nella quale la politica spesso si confonde con l'affarismo, Egli esempio imperituro per i contemporanei e per i posteri ricopr le pi alte cariche dello Stato, donando sempre, da gran signore al servizio della Patria, cuore, ingegno e cultura, chiudendo infine la propria esistenza in nobile povert.

Cesare Bertoletti

PREFAZIONE noto da sempre che la storia ufficiale delle guerre e delle rivoluzioni la scrive la parte vincitrice, mentre la parte soccombente, appunto perch tale, non ha alcuna possibilit di chiarire o di rettificare tempestivamente le affermazioni dei vincitori.Solamente dopo vari decenni, e a volte dopo secoli, gli avvenimenti e le conseguenze politiche economiche e sociali che da essi derivano, si possono esaminare obiettivamente e serenamente alla luce di documentazioni storiche tenute nascoste o ritenute per lunghissimi anni non degne di considerazione.Ma il tempo galantuomo e passato il periodo passionale, legato alla vita degli attori degli avvenimenti storici e alla vita dei loro immediati successori, inevitabilmente eredi, anche se solo in parte, delle passioni politiche dei predecessori, la verit viene poco a poco a farsi luce permettendo cos, a chi di storia si interessa, la giusta messa a fuoco di quanto realmente accadde in un determinato periodo storico., pertanto, con doloroso stupore che milioni di Italiani abbiano dovuto constatare come, celebrandosi ufficialmente il primo centenario dell'Unit, tutto sia stato fatto dai promotori d tale celebrazione tranne la ricerca della verit storica di tutti gli avvenimenti che portaronoalla felice e gloriosa conclusione. In conseguenza di ci nell'animo degli Italiani in buona fede, e di qualsiasi regione, ma sopratutto nell'animo dei meridionali, rimasto un senso di amarezza che, unitamente alla propaganda di un regionalismo del cui sviluppo ancora non s vede quale sar la conclusione, non potr certo portare ad una unione pi stretta e pi intima tra gli Italiani del sud e quelli del nord. E questo, soprattutto, si sarebbe dovuto realizzare celebrandosi il centenario dell'Unit nazionale.Dal punto di vista storico doveroso ricordare come le idee politiche, i moti e le richieste di innovazioni costituzionali per il governo dei popoli, ebbero origine in Sicilia fin nel lontano 1812 e poi, nel 1820 e nel 1848, anche a Napoli; e dopo, come conseguenza, nell'Italia settentrionale.Sta di fatto che la storia dell'Italia meridionale dalla met del 1700 ad oggi, e quindi la storia del Regno Borbonico, delle qualit del suo esercito, della sua marina (sia da guerra che mercantile), delle ricchezze o meno delle sue regioni e soprattutto dell'importanza nazionale ed europea del pensiero dei filosofi, degli economisti e dei politici meridionali, sempre stata falsata, sia ufficialmente, sia dai singoli, e in modo tale da fare apparire tali regioni come misere, arretrate e d peso, morale e materiale, per le altre provincie italiane, mentre invece, vero esattamente il contrario.Ossia vero che con l'unione dell'Italia meridionale al resto della penisola, tale regione ha dato enormi ricchezze e ne ha ricevuto in cambio la rovina delle proprie industrie e della propria agricoltura facendo sempre la parte della Cenerentola, subendo anche la mortificazione di ricevere aiuti dai vari governi che si sono succeduti in Italia, come un parente, povero e svogliato, ne pu ricevere da un parente ricco che sa far pesareil suo dono; mentre, invece, l'Italia meridionale ha pieno diritto di riavere quanto le stato tolto sia moralmente che materialmente.Chi scrive ha piena coscienza della gravita di quanto afferma, ma ha altrettanta piena coscienza di poter dimostrare come quanto afferma sia rispondente a verit, sicuro che, riconosciuta tale verit, si potr con animo sereno giudicare fatti, personaggi e popolazioni in modo pi vicino alla realt, rendendo cos giustizia ad un buon terzo della popolazione Italiana.E inoltre chi scrive tiene a far sapere di non essere un meridionale, ma di appartenere ad una famiglia piemontese e di non essere quindi spinto al presente studio da sentimenti o da interessi regionalistici, ma solo dall'amore per la verit storica e per la giustizia.A questa non lieve fatica hanno portato conforto gli incoraggiamenti di varie persone colte ed intelligenti nate e viventi in varie regioni Italiane. Tali persone sono convinte che questa opera, che soprattutto un faticoso lavoro di ricerche e di esame di documenti, potr se non altro richiamare Vattenzione di tutti gli studiosi di storia patria sulla necessit di rifare la storia del Risorgimento .Come del resto quaranta anni or sono lo scrittore, senatore ed infine Ministro Ferdinando Martini, fiorentino arguto ed intelligente, affermava con le seguenti parole: La storia del Risorgimento d'Italia non solo da fare ma da rifare, e conviene riconoscere che le passioni politiche, lo spirito cortigianesco, l'ignoranza di documenti che gli archivi tenevano celati, indussero per lungo volgere di tempo gli scrittori delle patrie storie ad approvare o a criticare, ad esaltare o a condannare uomini e cose che non meritavano ni cet excs d'hon-neur ni cette indignit .L'Autore

Capitolo I LA DINASTIA DEI SAVOIA E L'UNIT D'ITALIADopo la caduta di Napoleone, e la conseguente restaurazione degli antichi Stati, tra le varie dinastie la Casa di Savoia era la pi antica; regnante da circa un millennio e l'unica che vantasse, da secoli, una visione politica e un passato politico militare di carattere europeo; ed era naturale che ci fosse, data la posizione geografica della sua sede.Infatti per secoli i conti, i duchi, i principi di Savoia (poi re di Cipro, di Sicilia e infine di Sardegna) avevano partecipato da attori o da spettatori interessati a tutte le vicissitudini europee e agli scontri militari e politici che nei vari secoli si ebbero tra le maggiori potenze, ossia: Francia, Inghilterra, Spagna, Paesi bassi, Austria.Quindi, mentre gli altri regnanti nelle varie province o stati italiani ragionavano in termini regionali o provinciali o addirittura campanilistici, la Casa di Savoia, da sempre, ragionava e operava in termini europei.Oltre a questo, i membri della Casa di Savoia avevano dato luminoso esempio di qualit militari e, senza risalire a Umberto Biancamano o al Conte Rosso o al Conte Verde, baster ricordare il grande Emanuele Filiberto, detto testa di ferro, e il grande condottiero europeoprincipe Eugenio ( salvatore di Vienna dall'invasione ottomana), per avere la spiegazione storica delle virt militari di tali Principi.Ci furono nella storia risorgimentale italiana degli illusi (forse Ciro Menotti e i di lui seguaci) che proposero al re di Napoli Ferdinando II, che, ventenne, era salito al trono, di mettersi a capo di un movimento italiano di indipendenza e diventare cos re d'Italia .Ma il giovanissimo Ferdinando II, tutto preso dal grande lavoro di risanamento delle piaghe ereditate dalle guerre e dalla dominazione napoleonica, non prese nemmeno in considerazione tale proposta e la mise in ridicolo dicendo che il suo regno era per tre quarti limitato dall'acqua salata, ossia dal mare, e per un quarto (a nord) dall'acqua santa, ossia dai domini pontifici.E se nel 1848 mand in Lombardia il valoroso generale Guglielmo Pepe alla testa di 10.000 uomini che si coprirono di gloria a Curtatone, a Montanara, a Goito e in altri fatti d'arme, riportando ferite, morti e decorazioni al valore, lo fece, unitamente al Granduca di Toscana, senza entusiasmo e solo per seguire l'esempio di Pio IX, le cui truppe partirono contemporaneamente per la pianura lombarda agli ordini del generale Durando.Dopo Novara, Guglielmo Pepe, con pochi volontari, corse a difendere la repubblica di Venezia, rimandando a Napoli il rimanente delle truppe borboniche. E vedremo poi le vere ragioni di questo rinvio, avvenuto unitamente a quello delle truppe toscane.Carlo Alberto gi da principe ereditario aveva sofferto il dramma risorgimentale, quando, nel 1821, essendo reggente del trono, in assenza del re, d'accordo con un gruppo di militari carbonari, elarg la Costituzione di Spagna. Ma il re Carlo Felice sconfess Carlo Alberto che dovette andare in esilio.L'Austria, chiamata dal re Carlo Felice, mand le suetruppe e tutto fu rimesso nello stato di prima, ossia nello stato nel quale il Piemonte, come tutte le Nazioni d'Europa, si trovava prima delle conquiste napoleoniche.Naturalmente, condanne a morte, carcere ed esilio ce ne furono in abbondanza. Come ce ne furono in abbondanza nel 1833, quando, salito al trono Carlo Alberto, si ebbero nuove congiure e sommosse, e in tale occasione, come vedremo in appresso, furono condannati a morte anche Mazzini e Garibaldi i quali espatriarono clandestinamente.Ma superata tale crisi, l'orientamento liberale di Carlo Alberto, se non sempre evidente e deciso, fu fermamente ed inaspettatamente rivelato a Massimo d'Azeglio, da lui ricevuto alle sei del mattino di un giorno del 1845. Dopo che d'Azeglio gli aveva esposto le sue impressioni circa le opinioni dei liberali dell'Italia centrale e settentrionale, raccolte in un lungo viaggio in carrozza da Roma a Torino, Carlo Alberto cos gli parl: Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendoci per ora nulla da fare. Ma siano certi, che presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sar speso per la causa italiana .E Carlo Alberto mantenne la parola data a Massimo d'Azeglio, in segreto senza testimoni e senza esserne sollecitato, pagando poi con l'abdicazione e l'esilio il disastro della fatal Novara .Il figlio di Carlo Alberto fece poi meglio e di pi del padre, pur non pensando, unitamente al suo ministro Cavour, alla riunione di tutta l'Italia in un solo Stato.L'Unit d'Italia era l'idea di Mazzini e veniva ritenuta un'utopia dallo stesso Cavour. Solo la folgorante marcia garibaldina da Marsala a Napoli fece comprendere in Piemonte che il sogno di Mazzini poteva diventare una realt; e allora, dimenticando diplomazia e correttezza,senza nessun preavviso, l'esercito piemontese invase gli Stati pontina e borbonici. E per l'Unit della Patria ci voleva veramente quello che il destino dette all'Italia: ossia una grinta dura e una volont decisa e altrettanto dura, quanto quella di Vittorio Emanuele II e il di lui coraggio unito alla sottile diplomazia del conte di Cavour.Tutto questo ho desiderato esporre affinch sia ben chiaro che se nel corso di questo studio si troveranno critiche ed osservazioni pesanti nei confronti del governo piemontese, dei suoi generali o di altre figure del Risorgimento, tali critiche ed osservazioni saranno fatte solo in omaggio alla verit, non per sminuire per partito preso la gloria e i meriti risorgimentali del Piemonte e dei membri di Casa Savoia. Gloria e meriti indiscutibili che si debbono riconoscere ad una dinastia di Principi religiosissimi, tra i quali si annoverano santi e anche delle sante, riconosciute almeno per tali dalla tradizione popolare (come Maria Cristina sposa di Ferdinando re di Napoli e Maria Clotilde sposa di Gerolamo Bonaparte). Ciononostante tale dinastia, nell'interesse supremo della Patria, non esit ad assumere un atteggiamento non conformista nei confronti della Chiesa, anzi un atteggiamento laico, giungendo alla abolizione del Foro ecclesiastico e alla confsca dei beni degli istituti religiosi.Atteggiamento che ebbe fine ufficialmente solo con la firma dei Patti Lateranensi. E a questo proposito bene ricordare il vero spirito col quale Mussolini li aveva sottoscritti, riportando le parole da lui pronunciate alla Camera dei Deputati il 13 maggio 1929: nello Stato la Chiesa non sovrana e nemmeno libera. Non sovrana per la contraddizione che non lo consente; non nemmeno libera perch nelle sue istituzioni e nei suoi uomini sottoposta alle leggi generali dello Stato ed anche sottoposta alle clausole speciali del Concordato .Ma solo chi non fa non sbaglia e gli atti di chicchessiapossono prestare il fianco alle critiche. E sarebbe poco intelligente e contrario alla logica se, volendo sviscerare determinati avvenimenti in omaggio alla verit, non si cercasse il vero anche se diverso da quello messo in circolazione dalla storia, inevitabilmente romantica e romanzata, dei vincitori.A questo punto, dopo un secolo di esaltazione della Casa Savoia e di denigrazione dei Borboni di Napoli, opportuno ricordare una frase scritta il 13 dicembre 1860 dall'eroico re Francesco II in una lettera diretta all'imperatore Napoleone III, che invano lo sollecitava ad arrendersi abbandonando la fortezza di Gaeta alle poderose forze assedianti. Francesco II non voleva arrendersi e scriveva: i Re che partono difficilmente ritornano sul trono, se un raggio di gloria non abbia indorato la loro caduta . Questa veramente regale frase, letta oggi, dopo oltre un secolo e dopo avvenimenti storici pi recenti, ha la potenza di un monito e il valore di una profezia.Vedremo poi a quale altezza di valore seppero giungere soldati ed ufficiali borbonici e la stessa moglie di Francesco IL II nome di quest'ultima, che riempiva di ammirazione gli stessi avversari, passer poi alla storia oltre che per il coraggio indomito, anche per una risposta veramente regale, data all'assediante generale Cialdini, che si era offerto per proteggerla dai bombardamenti dei cannoni piemontesi di lunga gittata.

Capitolo IIINGHILTERRA, FRANCIA, AUSTRIA E IL RISORGIMENTO ITALIANODopo aver reso omaggio all'apporto dato dai Savoia al Risorgimento italiano e alla regalit di Francesco e di Maria Sofia di Borbone, prima di accingerci ad esaminare i vari avvenimenti che si susseguirono in Italia dalla rivoluzione francese al 1870, necessario porre la nostra attenzione sui vari atteggiamenti politici, assunti di volta in volta dalle potenze europee gravitanti con i loro interessi nel mare Mediterraneo, attorno alla penisola italiana.Si vedr allora come l'amore patrio di pensatori e di eroi italiani, le doti guerriere o le debolezze di case regnanti, l'acutezza d'ingegno di politici, gli entusiasmi e gli odi popolari, venissero di volta in volta utilizzati da Francia e Inghilterra, solo e sempre dal punto di vista dei loro interessi nel mare Mediterraneo. Interessi ben lontani dalle romanticherie e dai romanzi politici con i quali attorno alle suddette Potenze si sbrigliata la fantasia degli Italiani da pi di un secolo ad oggi.Francia ed Inghilterra, come del resto l'Austria, nel diciottesimo secolo e poi nel diciannovesimo, aiutando od osteggiando il movimento risorgimentale dell'Italia, hanno solo e sempre mirato ad un unico scopo, che questo: fare cose utili alla propria potenza.E cos vedremo la stessa Inghilterra e la stessa Francia favorire o meno l'Unit d'Italia osteggiandosi fra di loro; e vedremo l'una o l'altra di queste due potenze identificare talvolta i propri interessi con quelli della stessa Austria, nemica del Risorgimento Italiano.In politica non c' posto per la poesia e il romanticismo. Talvolta anche i poeti si sono commossi esaltando o denigrando atteggiamenti politici altrui; ma si tratta di poeti e appunto perch tali vedevano le cose dietro il velo del sentimento. Ma sollevando tale velo, la realt politica, ossia il freddo e cinico interesse altrui, appare nella sua cinica e disumana realt.L'Inghilterra al Congresso di Utrecht, che nel 1713 aveva messo fine alla guerra di successione di Spagna, volle che al principe di Savoia venisse dato il possesso della Sicilia (poi cambiato col possesso della Sardegna) col titolo di re. E questo affinch sulle Alpi occidentali ci fosse uno stato forte abbastanza per ostacolare una espansione della Francia verso la penisola italiana.Nello stesso tempo per l'Inghilterra seguiva una politica filoasburgica, per favorire l'allargamento del potere austriaco in casa nostra, ostacolando cos la potenza dei regnanti borbonici gi padroni della Spagna e della Francia e quindi del Mediterraneo.In appresso, durante la guerra dei sette anni, quando cio si verific un riavvicinamento franco-austriaco, l'Inghilterra cerc di attirare la Spagna nella propria area politica col miraggio di aiutarla a farle riprendere il possesso delle provincie italiane passate all'Austria.L'Inghilterra, poi, ridivenne amica dell'Austria durante le guerre napoleoniche sostenendo contemporaneamente i Borboni di Napoli per l'evidente necessit di poter usare i porti meridionali per la sua flotta mediterranea.Dopo la caduta di Napoleone si vide, al Congresso di Vienna, l'Inghilterra sostenere efficacemente l'ingrandimento del Piemonte, mediante l'assorbimento della repubblica di Genova, e nello stesso tempo sostenere il consolidamento della potenza Austriaca in Italia.L'ingrandimento del Piemonte favoriva la compattezza di tale Stato che doveva costituire una barriera all'espansione francese e con la scomparsa della repubblica di Genova (che aveva a suo tempo ceduto la Corsica alla Francia) si toglieva un punto di appoggio agli eserciti francesi.D'altra parte la Francia, se pure non volle avere un atteggiamento favorevolissimo all'ingrandimento del Piemonte, fin di vederlo con un occhio non malevolo, considerando il regno di Sardegna un utile ostacolo ad una ulteriore avanzata austriaca verso le Alpi occidentali.Nel trentennio susseguito ai Trattati di Vienna, l'azione politica dell'Austria della Francia dell'Inghilterra nella penisola Italiana fu la seguente: Austria e Francia si fronteggiavano e l'Inghilterra fiancheggiava l'Austria in funzione antitaliana.Cos quando nel 1821 si ebbero i moti liberali prima a Palermo, a Napoli e poi in Piemonte, l'intervento delle truppe austriache nei due Stati fu appoggiato dal governo britannico. Lo stesso fece l'Inghilterra nel 1831 quando le truppe austriache fiaccarono i moti della Romagna e nei Ducati, mentre la Francia assisteva passiva disilludendo cos i liberali che contavano su un intervento francese, almeno politico, in loro favore.D'altronde la conquista dell'Algeria da parte della Francia non aveva certo suscitato entusiasmi e consensi inglesi, dato che tale conquista faceva aumentare il prestigio e la potenza francese nel Mediterraneo.Si inizi cos una politica antifrancese da parte dell'Inghilterra, mentre la collaborazione anglo-austriaca apparve chiarissima dalle stesse dichiarazioni di Mettermeli, ministro austriaco; il quale non si perit di affermare che in caso di guerra provocata dalla Francia, l'Inghilterra era stata incaricata di vegliare sulla sicurezza degli Stati italiani e di garantirli contro ogni attacco.Esposto quanto sopra e sperando di avere dato una abbastanza chiara idea del come si formassero e si modificassero, di volta in volta, simpatie e inimicizie tra le maggiori potenze europee, prima di accingerci ad esaminare gli avvenimenti svoltisi dal 1848 al 1870, bene considerare sia la situazione politica che quella economica del regno delle Due Sicilie, ossia dell'Italia meridionale. Ci perch lo scopo di questo faticoso studio di rendere giustizia ad una parte cos importante della nostra Patria, mettendola storicamente nella sua giusta luce, da sempre offuscata da leggende e da falsit, purtroppo tuttora erroneamente ritenute valide da una notevole parte degli stessi Italiani.

Capitolo III IL REGNO DELLE DUE SICILIE CON CARLO IIIII lettore non pi giovane, che avr la pazienza di seguire questo nostro studio sull'Italia meridionale, non sempre potr essere in grado di riesumare dalle sue memorie scolastiche e universitarie come quando e perch si stabil in Napoli la reale dinastia dei Borboni spagnoli. Il lettore giovane, e pi ancora quello giovanissimo, seguendo i moderni programmi di studi non avr avuto nemmeno modo di soffermarsi su tale periodo di storia patria. quindi utile ricordare rapidamente come avvenne la ascensione al trono di Napoli di Carlo III, primo re della dinastia borbonico-napoletana, e cosa furono il suo governo e quello dei suoi successori fino alla rivoluzione francese.Dopo due secoli di vicereame spagnolo e ventisette anni di triste dominazione austriaca, Don Carlos, infante di Spagna, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, sua seconda moglie, giunse a Napoli il giorno 10 maggio 1734, dopo aver sconfitto le truppe austriache che avevano tentato di resistergli dalla Val Padana fino ai confini del regno.Il viaggio non fu semplice; anzi fu molto movimentato ed anche drammatico.Carlo, congedatosi dai suoi genitori a Si viglia, raggiunse, per via terra, Antibes dove si imbarc su di un vascello scortato da una squadra anglo-spagnola e da tre galee toscane.Il 27 dicembre 1733 sbarc a Livorno e poi si rec a Firenze, dove fu informato che le truppe austriache avevano evacuato pacificamente Parma e Piacenza e dove regnava un ra