Centri sociali autogestiti, esempi internazionali · 2010-04-12 · paludi e deserti per fondare...

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Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Civile, Corso di laurea magistrale in Architettura Laboratorio di Progettazione degli Interni 1 _ a.a. 2009/2010 Roberto Rizzi, Stefano Levi della Torre con Marta Averna, Aurelia Belotti, Sara Calvetti, Ilaria Guarino Ricerca di Faccini Emanuele Nuovi spazi per l’intercultura Atlante di esempi Centri sociali autogestiti, esempi internazionali

Transcript of Centri sociali autogestiti, esempi internazionali · 2010-04-12 · paludi e deserti per fondare...

Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Civile, Corso di laurea magistrale in ArchitetturaLaboratorio di Progettazione degli Interni 1 _ a.a. 2009/2010Roberto Rizzi, Stefano Levi della Torre con Marta Averna, Aurelia Belotti, Sara Calvetti, Ilaria Guarino

Ricerca di Faccini Emanuele

Nuovi spazi per l’interculturaAtlante di esempi

Centri sociali autogestiti,esempi internazionali

Utopie, legali e non, per cambiare il mondo partendo da sè

Pensando al tema della casa della cultura, come elemento di aggregazione in una città, spontaneo è associarlo a quando delle città sono state realmente aggregate dalla cultura, a quando gli ideali sono stati motivo sufficiente per creare una comunità, per erigere edifici che fossero forma fisica di essa o modificare edifici esistenti perchè lo diventassero. Le case occupate e i cen-tri sociali nel mondo possono trovare un antenato illustre nel movimento dei kibbut-zim, la spinta ideale di inizio ‘900 che spo-stò un grande numero di giovani ebrei dall’est Europa a una Palestina avvolta dall’aura mistica della terra promessa, ma immersa nella dura realtà di una terra di paludi e deserti per fondare lì luoghi dove vivere in comunità. I pionieri de la coloniz-zazione del futuro Israele ebbero, di contro alle grandi difficoltà insite nel rendere abi-tabile un territorio vergine, la rara possibili-tà di avere carta bianca per dare forma a una nuova società. Gli ideali socialisti si concretaro nel kibbutz nel tentatvo di crea-re villaggi che fossero “grandi case”, fon-date sulla partecipazione di ciascuno al lavoro e alle decisioni, e che come case fossero organizzate, con i luoghi di lavoro nel cerchio più esterno, contatto con la campagna, le abitazioni nel cerchio inter-medio e nel cuore il luogo della socialità e della cultura, che dai primi casi in cui si sviluppò spontaneamente nella forma di una vasta sala da pranzo con un grande cortile associato, si trasformò in seguito, grazie all’iniezione della cultura europea del Bauhaus nello spirito di riforma dei coloni, in blocchi che cercarono di riassu-mere in organismi edilizi unitari e comples-si le molteplici funzioni che il centro dei villaggi di fondazione avevano. La lezione di vita comunitaria del Kibbutz fu spendibi-le fuori dal suo contesto originario in alcu-ne specifiche occasioni, le più importanti delle quali furono gli edifici multifunzionali per grandi campus universitari, luoghi in un cui ancora una volta la comunità era basa-

1. sala delle assemblee, kibbutz Geva;2. Grey hall Christiania;

ta sulla cultura, e che come il modello di partenza godevano di grandi vantaggi rispetto alla città comunemente intesa, fondamentalmente una popolazione omo-genea per ideali e aspirazioni, e un relativo isolamento dalla città esistente. La possibi-lità di vivere a contatto con la città, ma in un microcosmo autonomo, fu ciò che dopo il ‘68 spinse gruppi di hippie a cercare que-ste condizioni in quartieri abbandonati da occupare. La città di Copenhagen fu in questo perticolare momento storico, il luogo dove si presentarono le circostanze per la nascita dalla più grande e longeva occupazione abusiva ad oggi in europa. Nel ‘71 diversi gruppi di hippie sfrattati dalle forze dell’ordine da diversi edifici della capi-tale Danese compirono il loro viaggio verso la terra promessa semplicemente sfondan-do l’alto steccato che separava Christian-shavn, grande quartiere militare in abban-dono da 4 anni, che portava in dote enormi caserme che avrebbero potuto ospitare i coloni e vastissimi spazi verdi affacciati sui canali che ben presto divennero il terreno per edificiare il modello di città che si erano imaginati. Se l’entusiasmo dei ragazzi del kibbutz era stato incanalato nei sicuri binari del socialismo quello della marea hippie di Copenhagen si riversò immediatamente nei mille rivoli di un’anarchia programmatica che, anche se alla lunga insostenibile al punto che anche la autonominatasi città autonoma di Christiania si dotò di proprie autorità, diede alla comune la sua identità fisica. La città nella città è difatti caratteriz-zata dalla assoluta libertà del suo edificato, dall’essere un monumento all’autocostru-zione reazione al grigiore burocratico padre del grigiore fisico del costruito degli edifici del mondo esterno. Con grande coraggio urbanistico Christiania si pose come un grande centro culturale in cui ogni cosa fosse frutto non solo dell’intraprendenza, ma anche della creatività dei singoli, e in cui lo stesso assetto urbanistico è una polemica contro la città in ogni suo aspetto,

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3. Metelkova ingresso ai club sulla corte;4. i ragazzi di Can Masdeu;

dagli edifici irrispettosi di ogni norma, fatti di materiali riciclati, dalle forme bizzarre e spesso dagli impianti assenti, alle strade rigorosamente sterrate perchè tanto a Christiania non sono ammesse macchine. L’utopia della città che vuole essere moto-re culturale, che vuole cambiare il mondo attraverso l’esempio piuttosto che attraver-so la predicazione si è negli anni a più riprese scontrata con l’amministrazione della città, che preme ai suoi confini per normalizzarla, fagocitarla nel tessuto urba-no, nel 2007 il primo edificio è stato abbat-tuto, ma la cittadinanza, ufficialmente circa 900 squatters ha promesse che tre edifici verrano edificati per ciascuno che verrà abbattuto. Costruire diventa un atto cultu-rale di per se un atto di sfida con cui questi luoghi sottolineano il loro statuto di spazio altro, che al là di come le funzioni verranno in esso distribuite dichiara la sua libertà rispetto alle convenzioni della città. Il feno-meno dell’occupazione, associato alla costruzione come presa di possesso di un luogo è ritornato anche in esempi recenti, uno dei più celebri è il Metelkova Mesto, unico centro sociale rimasto in Lubiana. In una posizione incredibilmente vicina al cuore della città il centro è il risultato dell’ occupazione di un quartiere dello scom-parso esercito yugoslavo, avvenuta nel ‘93 seguita da un lavoro di restauro bizzarra-mente decorativo, quì infatti, non avendo a disposizione lo spazio e le risorse naturali che hanno caratterizzato gli eventi prima citati, l’appropriazione estetica del luogo è avvenuta più che per costruzione di nuovi edifici, attraverso l’apposizione all’esistente di decorazioni di ogni genere e di trabal-lanti strutture su cui caminare all’esterno, sotto cui sostare e, cosa più importante, su cui esporre opere d’arte. Il centro sociale è nato a Lubiana caratterizzato da una esi-genza di spazio per esprimersi forte quan-to se non più di quella di uno spazio in cui vivere, e si è caratterizzato negli anni per un rapporto di forte scambio, pur se inter-vallato da fasi di profondo conflitto, con la città. Metelkova nasce come una cittadella di artisti, come un insieme di studi per pittori e di locali in cui suonare chiusi attor-no a una corte che è in realtà direttamente comunicante con la città che invita a entra-re per accogliere, oltre le facciate esterne in un quartiere che trova nella densità delle attività e nel contatto visivo reciproco degli edifici le ragioni del suo successo. L’esem-pio di Lubiana promette di diventare anco-ra più interessante nei prossimi anni, dato che al termine dei vari conflitti con gli

squatter l’amministrazione comunale sem-bra ora indecisa tra mozioni di sgombero e un effettivo riconoscimento del valore del centro, riconoscimento che sembra anche avere una indiretta affermazione nel’edifi-cazione, nel quartiere gemello, anch’esso fatto di caserme abbandonate a sud del Metelova, di un grande museo di arte contemporanea, anch’esso affacciato sull’interno dell’analoga corte, quasi ad essere un tentativo gestito dalle istituzioni di riprodurre ciò che a due passi è avvenu-to naturalmente. Nel quadro di queste lotte dagli esiti incerti, si è da pochi anni inserito un altro esempio di casa occupata, Can Masdeu, a 5 minuti a piedi dalla cir-convallazione esterna di Barcellona. Occu-pato nel 2002 questo centro sociale è anagraficamente giovanissimo, eppure nelle sue caratteristiche rimanda proprio ai primi esempi di comunità autonoma, è infatti come Christiania vicino alla città, ma in un paesaggio fortemente naturale, pro-fonde un vasto impegno nella produzione di attività culturali, legate alla musica e alla danza, ma più di tutto è una cascina attiva nello sfruttamento del suolo, e che coinvol-ge oltre agli occupanti gli abitanti dei quar-tieri vicini. Costantei rimangono quindi le necessità di avere uno spazio che comuni-chi con la città, ma che al contempo sia da essa riparata, che sia una stanza a parte, uno spazio che dia le libertà che non si trovano altrove, libertà di fare rumore, di costruire cose ingombranti e forse perico-lose, di riunire molte persone senza ce queste si sentano sotto controllo di nessu-no, ma anche in questo come in altri casi di recuparare un rapporto diretto con il suolo e con la natura in genere a cui la città ha tolto spazio. Gli esempi delle case occupate come centri di cultura sono forti tanto in ragione del fatto che appaiono al confronto col macchinoso iter ceh porta lla costruzione di un museo o di un teatro, quasi eventi naturali, e soprattutto che sono esempi in cui progettista, realizzatore e fruitore sono la stessa persona, che sono esempi di forze vive da imitare, come Arieh Sharon, uno dei primii architetti ufficiali del movimento dei kibbutzim aspirava ad imitare le api. Lo stesso Sharon scrisse che, in visita ai cantieri di alcune residenze da lui progettate, un bambino gli chiese chi fosse, e alla risposta un po’paternalista “I’m building this house for you” il bambi-no, figlio di uno dei manovali che in quel momento stavano sudando al sole rispose a sua volta “that’s not true, my father is building it, you’re only speaking the hou-se”.

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I kibbutzim, Israele, dal 1908

La madre delle utopie sociali e architettoniche del 900, è la miracolosa esperienza dei kibbutzim. Nel 1908 nasce Degania, la prima di queste comunità ebraiche in suolo palestinese che vogliono rioccupare la ter-ra promessa ed edificare su essa una società basata su ideali di proprietà comune e giustizia sociale, a lei ne seguirono altre arrivando nel ‘40 a 82, nel ‘50 a 214, nel ‘90 a 270. L’ideale necessariamente cercò delle forme fisiche che facessero da scheletro alla nuova società. Gruppi di ragazzi dell’est europa arrivavano in terra santa senza alcuna competenza specifica e diedero vita a esperimenti di architettura spontanea mera-vigliosamente riassunti dalla risposta che negli anni venti diede alla domanda “come immagina i suoi edifici residenziali?” uno dei primi pionieri:”cosa intende con come? Siamo un kibbutz o no? Viviamo e lavoriamo insieme o no? E allora vogliamo una grande casa in cui possiamo vivere tutti insieme. Una nuova vita in Isra-ele amico mio!”*. E la forma che il kibbutz prese fu quella di una grande casa con al centro una corte-salotto e una grande sala da pranzo, costante di ogni kibbutz, in cui a turno si lavora e si serve, in cui si mangia tutti insieme e si conversa e si proiettano film e si discute, perchè il kibbutz è una democrazia diretta e tutte le decisioni vanno approvate dalla comunità. La lezione fu trasfigurata e trasformata in una costruzione teorica coerente da uno dei suoi figli, Arieh Sharon, non Ariel Arieh, un ragazzonato nel 900 e insediato con altri 18 ragazzi in Palestina, a imparare l’agricoltura da autodidatti e l’architettura da sperimentatori senza maestri, che in cerca di questi ultimi andò in Germania dove si imbattè nel Bauhaus da cui tornò progettista a servizio del nascente Israele e del vecchio kibbutz. La missione di un figlio di kibbutz con la capacità di progettare divenne dare una forma definita agli ideali “estetica fondata sull’etica e nutrita da essa”**, il percorso del kib-butz è oggi una testimonianza di come gli ideali architettonici e sociali delle utopie del 900 si siano realizzati nel deserto, ben sapendo oggi che purtroppo non è vero che “non ci sono gatti in America”*** e che l’ideale non si può calare nella realtà senza venire a patti con essa. La sperimentazione del kibbutz ha tuttavia portato gli architetti israeliani e in primis Arieh a cercare di porre in tutto ciò che costruivano una grande attenzione agli edifici della socializzazione nella convinzione che gli edifici della società avrebbero creato una società.

1. Degania Aleph e Beth;2. Hatzerim;3. Nahal;4. modello di kibbutz di Fein-meisser ;5. relazioni tra fattorie e zone sociali;6. schema sugli anelli sociali;7. piano per la prima Dega-nia;

*. da Architecture and utopia the Israeli experiment

Di Michael Chyutin,Bracha Chyutin;

**. Arieh Sharon in Kibbutz+Bauhaus;

***. da Fievel sbarca in America (An American tail)

di David Kirschner;

a cura di Emanuele Faccini

bibliografiabibliografia:kibbutz+architectureArieh SharonArchitecture and utopia the Israeli experiment Di Michael Chyutin,Bracha Chyutinla repubblica, diario, del 3 Aprile 2004

sitografia:http://www.jewishvirtuallibrary.orghttp://en.wikipedia.org/wiki/Kibbutzhttp://www.givathaviva.org

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bibliografiabibliografia:kibbutz+architectureArieh SharonArchitecture and utopia the Israeli experiment Di Michael Chyutin,Bracha Chyutinla repubblica, diario, del 3 Aprile 2004

sitografia:http://www.jewishvirtuallibrary.orghttp://en.wikipedia.org/wiki/Kibbutzhttp://www.givathaviva.org

Arieh Sharon, Sala delle assemble, kibbutz Geva, Israele 1940

Una grande sala multi funzionale, che può servire da teatro, cinema, palestra e so-prattutto da sala da pranzo in occasione di feste. La sala del Geva è composta da 4 elementi: un auditorium da 500 perso-ne, un anfiteatro da 800, un palco che li serve entrambi, oltre al cortile di ingresso. Quando le grandi porte sono aperte, tutti gli elementi creano un unico spazio archi-tettonico. Questo edificio rappresenta un tentativo di creare una sintesi dell’elemen-to-cortile e degli edifici pubblici abitual-mente affacciati su esso sviluppandoli dal nucleo storico della socialità e della cultura nel kibbutz, la sala da pranzo, cercando in oltre di creare uno spazio che pur nella sua multifunzionalità possa suddividersi in am-bienti ben definiti e adatti a una funzione specifica. Le linee dell’edificio sono testi-monianza dell’intento di dare alla nuova società un linguaggio nuovo, non c’è nes-suna ricerca di imitazione di forme storiche o dell’architettura spontanea del kibbutz.

1. Ingreso alla sala;2. esterno della sala;3. dettaglio di un pranzo;4. schemi delle varie combi-nazioni d’uso; 5. pianta; 6. dettaglio delle finestre ;7. utilizzo come sala da pranzo con massima occu-pazione;8. ingresso;

a cura di Emanuele Faccini

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Arieh Sharon, forum del Technion, Haifa, Israele 1965

Il forum del Technion, istituto di tecnologia, ad Haifa è un esempio di ulteriore formaliz-zaione architettonica delle forme di socia-lità spontanee nel kibbutz essendo centro di una comunità ancor più pianificata come quella di un campus universitario, il com-plesso comprende l’auditorium, la libreria centrale e il senato,serve per le attività cul-turali e sociali dell’università, è situato sula pendenza et del monte Carmel, affacciato sulla baia e sul porto di Haifa. I tre edifici poggiano su una piazza sopraelevata con-nessa da rampe e scale. la piazza superio-re cosituisce un ingresso per l’auditorioum Churchill, connesso con scale alla piazza principale ceh è l’ingresso alla biblioteca e al senato, da questa piazza una rampa porta al giardino interrato e all’area delle università. Il punto di forza di questo pro-getto è il sistema di piazze che tiene insie-me le varie funzioni e si pone esso stesso come spazio con differenti caratterizzazioni per varie attività.

1. planivolumetrico;2. sezione longitudinale;3. piano primo;4. piano terra ;5. l’auditorium ;6-7. l’edificio del senato;8. corte del senato;9-11.il sistema di piazze;12. la corte della biblioteca;

a cura di Emanuele Faccini

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bibliografiabibliografia:kibbutz+architectureArieh SharonArchitecture and utopia the Israeli experiment Di Michael Chyutin,Bracha Chyutinla repubblica, diario, del 3 Aprile 2004

sitografia:http://www.jewishvirtuallibrary.orghttp://en.wikipedia.org/wiki/Kibbutzhttp://www.givathaviva.org

Arieh Sharon, Istituto di educazione, Ife, Nigeria 1968-72

La lezione israeliana, trova applicazioni anche fuori da israele nell’università di Ifa in Nigeria con un altro edificio multifunzio-nale situato su un pendio al disopra del del nucleo centrale dell’università. L’im-pianto è il risultato di una forma a piramide rovesciata e della distribuzione attorno a una lunga corte centrale. Questo fornisce una ventilazione attraverso il piano terra aperto attraveso la corte fino all’apertura nel tetto. L’edifico contiene grandi labora-tori di fotografia, meccanica, linguaggio, audiovisivi,archivi al piano terra, al primo piano uffici e al secondo sale di lettura e laboratori. Il blocco pare quasi essere la sintesi in un edificio del sistema di attività sociali studiate nelle precedenti occasioni. L’aspetto esteriore dell’edificio è ridotto alla semplice esposizione della struttura.

1. piante;2. sezione trasversale;3. vista complessiva del blocco;4. ingresso ;5. corte interna;

a cura di Emanuele Faccini

1-2. proiezioni audiovisivi;3-4. stanze di lavoro;5-7. fotografia e camere oscure;8. elettro meccanica ;9. laboratori di linguaggio;10. archivi;11. uffici;12. stanze di lettura e laboratori;

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bibliografiabibliografia:kibbutz+architectureArieh SharonArchitecture and utopia the Israeli experiment Di Michael Chyutin,Bracha Chyutinla repubblica, diario, del 3 Aprile 2004

sitografia:http://www.jewishvirtuallibrary.orghttp://en.wikipedia.org/wiki/Kibbutzhttp://www.givathaviva.org

Free town of Christiania, Copenhagen, Danimarca 1971

Parlando di comunità fondate su un ideale e cementate soprattutto tramite l’espres-sione di cultura e la creazione di spazi per essa non si può omettere dal discorso la “città libera di Christiania” l’esperienza di “casa occupata”, in realtà un intero quar-tiere, più longeva d’europa. Questo pezzo di Copenhagen, sede della marina danese fino alla fine degli anni 60, abbandonato dall’esercito e cintato venne dichiarato sta-to indipendente da una comune di hippie nel 71, quando abbattuto lo steccato si insediarono nelle caserme vuote. La co-mune si dimostrò da subito interessata a dare una forma fisica e architettonica alle proprie idee. Christiania si pose da subito come avanguardia dell’ architettura senza architetti opponendo alle accuse da parte del comune di abusivismo, pericolosità e mancato rispetto di qualsiasi norma che nella comunità si trova “solo ciò che l’uo-mo crea senza ordini dall’alto”, questo an-golo di Danimarca è considerabile come

1-2. estratti green plan ‘91 (gp);3-4. l’inizio dell’occupazione;5. I confini di Christiania;6. l’ingresso a Christiania;7-12. case sul canale;

a cura di Emanuele Faccini

bibliografia- “guide to christiania” suhttp://www.christiania.org- “greenplan” ‘91http://www.christiania.org/modules.php?name=NukeWrap&page=/inc/GreenPlan- http://wapedia.mobi/en/Freetown_Christiania

video- Christiania, you have my heart (‘91)- http://www.youtube.com/watch?v=7Z5Uvfxd8A0

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la bandieradi Christiania

13. (gp)modello di residenza;14. (gp)residenze per studenti;15. Til muro per controllare lgi ingressi;16 uns strada verde ;17. Christiania bike;18. un bar all’aperto;19. (gp)mercato modulare;20. (gp) abitazioni ipogee;21. (gp) porto;

a cura di Emanuele Faccini

un unico grande spazio di cultura, un museo a cielo aperto di forme libere di abitazioni, bar, mercati, officine e molto altro, in cui in diversi casi, come la banana house, casa di una comune di artigiani tedeschi costruita con materiali riciclati, o come per tutte le case autocostruite sul canale esterno, il valore dell’edificio viene ancor prima dell’uso dalla costruzione, spesso sperimentale e continua. Christiania ha nel ‘91 redatto un piano per il proprio sviluppo da presentare alla città, mostrando chiaramente i propri obbiettivi riassumibili nel contatto e nell’integrazione tra insediamento urbano e natura e, all’interno della città, nel contatto tra persone, nella creazione di organismi edilizi che avessero, quando destinati all’educazione grandi spazi comuni di espressione e con-divisione, quando destinati alla residenza grandi spazi di contatto tra loro o di contatto con la strada che nella città di Christiania è il vero teatro di manifestazioni di ogni gene-re. La vita comune ha anche generato spazi di condivisione atipici, Pusher street, cen-tro della città noto nel passato per la presenza di chioschi per la vendita dell’hashish, il grande bagno comune, dove stufe a legna scaldano l’acqua per docce unisex, neces-sità più che bizzarria dato che gli impianti sono un prolema irrisolto in molte delle case, e le molte officine per biciclette che assemblano le famose Christiania bikes, bici dotate di un grande cassone portaoggetti sul davanti, anch’esso una necessità dato che la comunità ha dalla sua fondazione interdetto la circolazione alle automobili. Significati-vo è anche che la città nella città abbia a fine degli anni 80 abbia deciso di erigere un muro e limitare le entrate a pochi passaggi controllabili, sentendo la sua esistenza in pericolo, tanto a causa della polizia quanto della criminalità, uno spazio di libertà, che trova i principali motivi della sua esistenza nella possibilità di fare cose che in città non sono possibili, a finito col sentire la necessità di difendersi dal mondo

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(gp)esempi di produzione di energia pulita

22-25. grey hall;25-27. banana house;28-29. green hall;

Metelkova Mesto, Lubiana, Slovenia, inizio 19esimo secolo occupata nel 1993

1,1b.panoramica del com-pleso dal cortile a sud2. vista dall’alto;3. collocazione in Lubiana;4. Bar, alkatraz,ingresso club;5,7. edificio sulla corte sud; 6. il bar da nord ;8. la scuola piccola;9. l’alcatraz da nord;10. torretta nel cortile;11,12,14,15. facciata ovest

a cura di Nome Cognome studente

sitografia- http://www.metelkovamesto.org/- http://www.kudmreza.org/alkatraz/- http://www.kulturnicenterq.org/- http://www.klubmonokel.com/- http://www.souhostel.com/en/- - -

Nel centro di Lubiana, a pochi passi dal nucleo storico sul fiume, accanto alla stazione, una grande complesso militare dell’esercito yugoslavo ha visto succede-re alle uniformi delle repubbliche cacciate nella guerra dei 10 giorni del 91 gli abiti informale di un gruppo di hippie che nel 93 hanno occupato gli edificic fatiscenti, impedendo la creazione di un grande par-cheggio per la capitale della neoindipente Slovenia. Il grande complesso (si parla di 7 edifici e di un notevole spazio aperto per un totale di 12500 metri quadri) è sta-to all’arte, alla vita notturna e ovviamente alla lotta politica. Il complesso è articolato in una grande corte a nord cinta da mura, che ospita residenze per gli occupanti un mercato dell’usato nei giorni di festa e sale per incontri e un affaccio del grande bar, che serve a sud anche le tre stecche che trovano tra loro spazi all’aperto, vivificati soprattutto nelle ore notturne dall’affac-ciarsi su di essi di ben 7 club, che offrono musica dal jazz al heavy metal passando per l’elettronica. I club che fanno parte del metelkova non possono essere però assi-miliati a semplici locali notturni, sono infatti dotati di forti connotazioni sociali, trovia-mo un gay-club, un lesbian-club, e anche un ritrovo rivolto ai disabili, luoghi questi

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dell’edificio a sud-est, con le tettoie e i camminamenti costruiti dagli occupanti;13. facciata est dell’edificio nel centro a sud;

16-23. decorazioni varie;24. pianta dell’alkatraz;25. facciata dell’akataz;26,27. biblioteca mobile;28-30. l’ostello celica31-33. camere del celica34-38. il club monokel;

a cura di Nome Cognome studente

che svolgono numerose attività anche diurne, in piccoli spazi come le due salette collegate del monokel (lesbian-club)trovano po-sto lezioni, presentazioni di libri, esposizioni di opere d’arte, lezioni volte a rafforzare la coscienza sociale dei vari gruppi, oltre a promuovere le manifestazioni che hanno reso il centro sociale bersaglio di skinhead e fonte di preoccupazione per la pur sinistrorsa amministrazione comunale di Lubiana. L’altra metà dell’anima del centro oltre ai club sono le gallerie d’arte, la più importante delle quali è la galleria Alkatraz, nata nel 1996, con l’idea di recuperare il più fatiscente degli edifici del complesso, sventrato e crollante per farne una serie di studi per artisti, merce rarissima nella lubiana che dagli anni 80 ha visto un blocco immobiliare che solo nel-gi ultimi anni si parzialmente sciolto. Dalla produzione delle proprie opere alla esposizioni di artisiti affermati, lo spazio per artisti si è trasformato in una vera e propria galleria con curatori ufficiali e, dal 98, sponsorizzata dalla città di Lubiana e dal ministero della cultura Sloveno. La vocazione all’internazionalita e la volontà di ospitare artisti dal mondo del centro ha anche portato al concepi-mento dell’ostello della gioventù Celica, ideato da Janko Rožič, architetto tra i primi squatter, che ha dato vita al bizzarro progetto di trasformazione del carcere militare del complesso in un albergo dove ognuna delle 20 celle è stata affidata a un designer diverso. Tratti distintivi dell’estetica del centro sono una furia decoratrice che ha coperto pressochè ogni superficie muraria, ogni finestra e ogni porta del complesso con motivi realizzati con ogni genere di tecnica e totalmente e volutamente privi di una organizzazione unitaria, altro marchio di fabbrica, è la tradizione dell’autocostruzione, risposta irridente degli squatter alle ingiunzioni di sgombero motivate dal dissesto statico degli edifici, con un gioioso disordine e un sapere prevalentemente empirico gli occupanti hanno co-struito pergolati e tettoie dalle forme follemente espressioniste, oltre che balconi e camminamenti in quota dall’aspetto sconnesso e traballante. La decorazione e l’autocostruzione diventano nel metelkova gli strumenti della sfida sociale del centro, gli edifici adottati non sono stati restaurati, ma ogni loro crepa è stata piastrellata, dipinta, smaltata, scolpita fino addirittura a ingrandirla, quando nel ‘97 il comune fece abbattere uno degli edifici, la “scuola piccola” gli squatter, subito il colpo, chiamarono degli artigiani tedeschi per aiutarli a costruire un edificio equivalente, quando nel 2006 il comune fece abbattere anche quello, motivando la cosa col fatto che fosse un fulgido esempio di abusivismo, gli squatter iniziarono i lavori per rifarlo con la promessa alle autorità che per ogni edificio da esse abbattuto loro ne costruiranno un altro.

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-http://www.ljubljana-life.com/ljublja-na/metelkova

video- http://www.dnevnik.si/video/4308

Can Masdeu, Barcellona, Spagna, 17esimo secolo occupato nel 2002

Appena a 5 minuti a piedi dall’ultima fer-mata della metro di Barcellona, oltre lo sprawl urbano nel bosco del parco di col-lserola si incontra una grande masia, edi-ficio rurale tipico della catalogna, costruita nel 1600 e adattata nel 900 a ospedale per lebbrosi prima di restare nel dopoguerra vuota, salvo per lo spettro della malattia sufficiente a tenere lontani nuovi abitanti per 53 anni, fino a quando cioè un gruppo di squatter provenienti dai centri socia-li Barcellonesi non l’hanno occupata nel 2001 e ribattezzata Can Masdieu. Dopo aver opposto una strenua resistenza pas-siva ai tentativi di sgombero gli occupanti si sono organizzati in una comune basata su tre “pilastri”: 1-Essere una comunità sostenibile, cioè che accetta tutti e rifiuta il consumismo 2- Raggiungere l’autosuf-ficienza tramite l’agricotura 3 -Essere un centro sociale per il quartiere e la città. La Can Masdieu oppone oggi ad altra sca-1. la masia rispetto alla città;2. la masia e gli orti;3. i cardini del complesso; 4. dalla strada per la città;5. prati con gli impianti solari;6.entrata con le regole di convivenza nella comune;7. panetteria;8. toilette secca;9. forno solare;10. lavatrice a pedali;11. insegna squatter;12. forno per il pane;

a cura di Emanuele Faccini

sitografia- http://www.canmasdeu.net/- http://www.inthefield.info/rurba-no_revolution.pdf- http://ecosistemaurbano.org/inve-stigaciones/- http://sites.google.com/site/euro-commune/can-masdeu- http://sites.google.com/site/euro-commune/can-masdeu- http://greenexplorer.ovi.com/getin-spired/europe/spain/barcelona/can-masdeu-says-yes-we-can/- http://www.free-soil.org/index.php?post_id=584&cat_id_rel=21&feat=1

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la verso la città, la stessa resistenza passiva che gli abitanti hanno opposto alla polizia, si è cioè collocata in una zona di prevista espansione e la ha traformata in un giardino, o per meglio dire in un orto sociale, la collina attorno alla grande casa è stata orga-nizzata in tre terrazze, di cui la più alta è il giardino originale, quella in mezzo è coltivata a turno dagli occupanti e serve all’autoso-stentamento di coloro che vivono nella masia, mentre la terza e più bassa è divisa in piccoli appezzamenti per chiunque voglia un orto, con la possibilità di usare risorse e attrezzi della casa e prendere parte a tutte le attività e le lezioni che il centro sociale offre, molte delle quali riguardanti l’agricoltura, pagandole col proprio lavoro. Le attività culturali che si svolgono nel centro sono molte-plici, dalla danza alle assemblee politiche, nello spirito della condivisione dei saperi che si declina ad esempio nella consuetudine di fare degli interventi sulla la casa delle lezioni, in cui chi ha le capacità di operare un intervento sull’edificio deve mostrare agli altri come si fa. La comune si è nel tempo dotata di strutture compatibili con l’obbiettivo di avere il minor impatto possibile, i bagni sono all’esterno, “secchi” per non sprecare acqua e compostare i rifiuti organici da usare poi nei campi, pannelli solari scaldano l’acqua e forniscono energia elettrica, quella in maggior quantità che occorre per feste e serate musicali viene generata in parte da genera-tori a pedali, a pedali è anche al lavatrice e per pasti per pochi si usano un forno solare e stufe a legna, sono stati allestiti nella casa un bar che vende cibo vegano e prodotti biologici, un forno per il pane, una biblioteca, un freeshop, negozio in cui non si paga ma si prende ciò che serve e porta ciò che non serve più, e ovviamente come centro della vita una grande sala politifunzionale. Carat-teristica di questo centro culturale è fondamentalmente quella di essere proiettato all’esterno, l’edificio è la struttura di appoggio per manifestazioni che avvengono per lo più all’esterno, cene in cui all’interno si preparano vivande che vengono poi poste su un grande tavolo a ferro di cavallo davanti all’ingresso, riunioni con gruppi da altri luoghi provenienti per i quali diventa ostello nel caso di e più in genere deposito di strumenti, per il lavoro per quanto riguarda l’attività agricola, ma anche per il divertimenento essen-do frequente l’organizzazione di avvenimenti musicali nel giardino o nel cortile. La straordinaria quantità di declinazioni possibili dell’edificio occupato è il risultato diretto, otlre che dello spirito di inziativa degli occupanti, dalla posizione così vicina alla città e nel contempo tanto isolata da consentire lo svolgersi di attività ricreative che prevedano rumore e folle ospitandoli però in un contesto naturale che diventa fulcro di un altra sfera di attività “produttive e culturali” che restituiscono a chi vive in città il perduto rapporto con il territorio.

13. sala principale;14. festa nel cortile più alto;15,17. La biblioteca18. pranzo all’aperto ;19. attività di grupponel prato principale;20,21,22. lavori-lezione sulla casa;23. costruzione temporanea e nel prato principale;

a cura di Emanuele Faccini

sitografia- http://www.formes-vives.org/blog/index.php?2007/12/02/130-les-senti- http://alongwayfromeden.blogspot.com/2009/03/can-masdeu.

video- http://www.youtube.com/watch?v=_AAQzwEQBbU- http://www.youtube.com/watch?v=D7BoHdNg31U- http://ryanedit.blogspot.com/2008/03/can-masdeu-squat-community-barcelona.html

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