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n. 146 DOMENICA - 29 MAGGIO 2016 Il Sole 24 Ore 27 Scienza e filosofia di  Sergio Salvi e Roberto Defez F esteggiare 150 anni nel giorno in cui i cristiani celebrano la solen- nità del Corpus Domini e guarda- no al pane come simbolo di re- denzione non è da tutti. Se poi il festeg- giato è un uomo che ha dedicato la pro- pria esistenza a dare più pane al nostro Paese e al mondo, allora la coincidenza di eventi appare non solo portatrice di sug- gestive metafore, ma anche di riflessioni che guardano al problema materiale della disponibilità di cibo per tutti. Riflessioni molto simili a quelle che, un secolo fa, riempivano la mente del festeggiato di oggi, l’agronomo Nazareno Strampelli (1866-1942), pioniere della genetica agra- ria e ormai riconosciuto come il precur- sore della Rivoluzione verde, che a 150 anni dalla nascita è ancora portatore di messaggi di sorprendente attualità. Nato nelle Marche, laureato in Scienze agrarie a Pisa nel 1891, a partire dal 1903 intraprese un percorso che lo portò ad es- sere celebrato, anche all’estero, come il «mago del grano». Le sue varietà di fru- mento ad alta resa, ottenute combinando quanto di meglio la scienza dell’epoca metteva a disposizione di un breeder (di- versità genetica, ibridazione e selezione genealogica, il tutto condito dalle leggi di Mendel da poco riscoperte), furono pri- ma cavalcate dalla propaganda fascista, il che nocque alla sua fama, per poi rivelare la loro vera natura di prototipi eccezionali e insostituibili nei programmi di miglio- ramento genetico attuati nel dopoguerra dai principali paesi produttori di grano. Strampelli riemerge negli anni ’90 e so- prattutto nell’ultimo decennio, a seguito di ulteriori studi sulla sua opera, che ma- tura l’immagine di uno scienziato auten- tico, con una visione “olistica” dell’agri- coltura che, sebbene percepibile come caratteristica di certi grandi uomini di scienza del passato, appare oggi inaspet- tatamente attuale. Che dire, infatti, di uno scienziato che non punta solo al miglioramento geneti- co del frumento, ma anche delle principa- li specie usate nelle rotazioni col cereale? Che si occupa di dry farming nel Meridio- ne d’Italia costituendo varietà tolleranti la siccità, tema di grande attualità in epo- ca di cambiamenti climatici e progressiva desertificazione? E che presta attenzione alle interazioni chimiche a distanza (la cosiddetta allelopatia) tra le specie im- piegate nelle rotazioni e nelle consocia- zioni, le stesse che il moderno breeding sta sfruttando per creare varietà capaci di produrre da sé, in modo naturale, l’erbici- da necessario per contrastare le malerbe? Trattando di miglioramento genetico e di erbicidi naturali viene spontaneo porsi domande alle quali, mancando voce diretta all’interessato, si può solo rispon- dere per congetture, anche se plausibili. Ad esempio, se oggi fosse tra noi, cosa penserebbe Strampelli degli ogm? Sareb- be favorevole o contrario? I fans del bio- logico, che su questo tema spesso tirano per la giacca Strampelli facendone un paladino dei «grani antichi», ignorano che per il genetista le vecchie varietà di grano «...avevano il merito di essere molto diversificate per effetto dell’am- biente in cui erano state coltivate per secoli, ma presentavano delle caratteri- stiche così peculiari da poter essere pre- se poco in considerazione per le miglio- rie in atto e per i nuovi raccolti». Così co- me ignorano che nel 1923, per aver in- franto la tradizione della selezione genealogica dei frumenti, preferendo la nuova via dell’incrocio intervarieta- le, Strampelli fu espulso in malo modo dall’associazione dei coltivatori da lui stesso fondata. A distanza di quasi un secolo, nulla di nuovo sotto il sole. © RIPRODUZIONE RISERVATA astronomia per ragazzi Mappa spaziale (ma incompleta) di  Patrizia Caraveo A lzare gli occhi al cielo e guardare i pianeti e le stelle affascina i grandi ed i piccoli ma i concetti cardine dell’astronomia sono tutt’altro che banali da spiegare. Come si muovono i pianeti intorno al Sole, come si possono pa- ragonare le loro dimensione e le loro distan- ze, quanto sono distanti le stelle? Come si esplora lo spazio? Voi siete qui cerca di fornire risposte a queste (e a molte altre) domande usando una accattivante forma grafica. Per contra- stare il diluvio di immagini e di foto nel quale viviamo, gli autori hanno scelto di veicolare le informazioni attraverso bellissimi dise- gni. Più che una narrazione, la chiamerei una graphic novel perché il disegno ha un’importanza preponderante rispetto alla parole, che diventano fumetti dei personag- gi oppure brevi didascalie. Si inizia con una descrizione del sistema solare si continua con le stelle vicine e il no- stro posto nella galassia per passare alla ricer- ca di vita extraterrestre a cominciare da Carl Sagan ed al disco d’oro a bordo delle sonde Voyager: un vero e proprio messaggio nella bottiglia che l’umanità ha lanciato nello spa- zio, caso mai la sonda attirasse l’attenzione di qualche civiltà aliena. Poi è la volta dell’esplo- razione umana dello spazio con la descrizio- ne della vita degli astronauti, del percorso che devono fare e delle prove che devono supera- re prima di andare a vivere nella Stazione Spaziale Internazionale, una casa dove gli astronauti lavorano, mangiano, fanno gin- nastica, si rilassano alla finestra e dormono nei loro sacchi a pelo attaccati alle pareti. Molto efficace la descrizione della necessi- tà della tuta per poter uscire a lavorare al- l’esterno della stazione spaziale. Le chiama- no passeggiate ma sono tutt’altro che rilas- santi sia per gli astronauti, sia per il centro di controllo che li deve seguire. Ma la stazione spaziale è solo a 300 km di altezza, il futuro dell’esplorazione umana è Marte: ce lo dice Buzz Aldrin che, dopo essere stato il secondo uomo sulla Luna, vuole andare più lontano. Così gli sfondi delle pagine diventano rossa- stri paesaggi marziani percorsi dalle sonde robotiche che abbiamo inviato, in attesa che atterrino gli astronauti, che troveranno una casa gonfiabile tipo quella che abbiamo visto nel film Il sopravvissuto (The Martian). Ma le nostre sonde sono andate anche più lontano fino a Giove, con la sua fascinosa luna Europa, e Saturno con una fermata straordinaria an- che su Titano dove è atterrata la sonda Huy- gens dell’Agenzia Spaziale Europea. Il libro non trascura l’esplorazione del So- le, delle comete e degli asteroidi. Dal sistema solare è naturale passare alla scoperta e allo studio dei pianeti extrasolari, andando alla ri- cerca di quelli potenzialmente abitabili, ri- cordando che una ipotetica vita extraterre- stre potrebbe non essere identica a quella che noi conosciamo. Un libro gradevole, pieno di spunti di riflessione per un/una giovane let- tore/lettrice che si guarda intorno con curio- sità e voglia di capire. Peccato che sia passato qualche anno dalla pubblicazione della versione originale del li- bro che non è stato aggiornato e, purtroppo, denuncia i suoi anni. L’esplorazione del siste- ma solare procede con ritmo molto sostenuto e spiace notare che in Voi siete qui manca com- pletamente la missione Rosetta ed anche gli spettacolari risultati di Plutone sono solo an- nunciati. Capisco che sia difficile tenere il passo con le missioni scientifiche, ma forse sarebbe stato il caso di fare un ulteriore sforzo per aggiornare la grafica. Avrei anche apprez- zato trovare nella traduzione italiana il riferi- mento a qualche scienziato/astronauta no- stro connazionale. Come dicevo all’inizio, ci sono spesso commenti e spiegazioni sotto forma di fumetti. E’ una scelta molto azzecca- ta, peccato che i personaggi siano per lo più americani, con diversi russi e inglesi, senza dimenticare un polacco ed un armeno. Inse- rire la nostra AstroSamantha sarebbe stato così difficile? La presenza di almeno un per- sonaggio familiare avrebbe sicuramente reso più efficace il messaggio. © RIPRODUZIONE RISERVATA Aleksandra Mizielińska e Daniel Mizieliński, Voi siete qui!, Mondadori, Milano, pagg. 106, € 17 strampelli (1866-1942) Pane e geni «olistici» paul kalanithi (1977 - 2015) Se il medico si prepara a morire di  Arnaldo Benini C ome vivere sapendo che, per una malattia senza scampo, la fine è imminente? Il suicidio non è fre- quente. Nei paesi in cui è consen- tito, si può ricorrere al suicidio assistito, quasi sempre in ambito familiare. La con- cezione della vita, il carattere, le esperien- ze, la cultura, la situazione familiare, le ca- ratteristiche della malattia e la condizione mentale determinano se e come conti- nuare a vivere. Talora gli infermi trovano forze e motivazioni che non sapevano di avere e sono loro ad essere d’aiuto e con- forto ai familiari. La testimonianza del neurochirurgo statunitense d’origine indiana Paul Kala- nithi, morto dopo due anni di sofferenze a 37 anni per un carcinoma polmonare con metastasi diffuse, è il resoconto di come si possa convivere con la morte. Kalanithi usa parole di Samuel Beckett: «I can’t go on. I’ll go on», «Io non posso andare avanti. Andrò avanti». Come? Con iniziative an- che inconsuete. Otto mesi dopo la diagno- si, scrisse un articolo sul «New York Ti- mes» (24 gennaio 2014) dal titolo «How Long Have I Got Left» (Quanto tempo mi re- sta?) che suscitò sorpresa e interesse: la chemioterapia aveva effetto e il malato aveva potuto riprendere ad operare. L’orizzonte, pur senza illusioni, non sembrava ancora chiuso. Nella primavera del 2015, nella rivista della Clinica Stan- ford, pubblicò un lavoro molto singolare sull’esperienza sorprendente di come la consapevolezza della fine non lontana al- teri il senso del tempo («Before I go Time warps for a young surgeon with metastatic lung cancer»).L’analisi di come una malat- tia terminale distorca il tempo riducendo al minimo quel che si riesce a fare per la de- bolezza che provoca, e cancellando il sen- so del futuro, è un saggio di letteratura medica di alta levatura. Non comune è la decisione sua e della moglie di aver il primo figlio, una bambi- na, che sarà orfana del padre a otto mesi. Se non fosse sorta la malattia, probabil- mente Kalanithi e la moglie si sarebbero, almeno temporaneamente, separati. La diagnosi di cancro, dice la moglie nell’epi- logo del libro, «ci ricondusse al nucleo sof- fice e nutritivo del nostro matrimonio». E aggiunge: «Uno dei modi di gestire una malattia terminale è di essere profonda- mente innamorati: essere gentili, premu- rosi, riconoscenti», a conferma che è di gran conforto per un ammalato sapere che non sarà solo. L’essere stati «recipro- camente partecipi del significato profon- do della vita dell’altro» aggiunge «è uno dei doni più grandi che abbia mai ricevu- to». Kalanithi sentì che il modo migliore di riempire il tempo sarebbe stata la testimo- nianza scritta, quasi nella forma di un dia- rio, di quel che succedeva a lui e alla fami- glia. Premette la storia sua, della famiglia e della moglie prima della malattia. La neu- rochirurgia, dopo studi di letteratura con- clusi con un lavoro su Walt Whitman, di fi- losofia con Richard Rorty, e di neuro- scienze, lo attrae non tanto per la parte manuale, ma per la dimensione morale di un’attività che si svolge prevalentemente nel cervello, cioè nell’organo che fa di ogni uomo quel che esso è. Il ritmo e la mole di lavoro alla Stanford Clinic in California sono descritti con vi- vacità e consenso incondizionato, nono- stante il sacrificio che comportavano: non c’era orario, solo il programma quotidia- no da portare a termine. Nel contratto d’impiego erano fissate 88 ore di lavoro settimanali, mai sufficienti. Nelle grandi scuole di chirurgia il primo criterio di sele- zione è la capacità di lavoro. «Ogni opera- zione al cervello è – scrive – una manipola- zione della sostanza del nostro essere. [...] La neurochirurgia sembra porre un con- fronto più che mai stimolante e diretto con il significato, l’identità e la morte. [...] La neurochirurgia mi attraeva tanto per il suo intreccio di cervello e coscienza, quanto per il suo intreccio di vita e morte». C’è molta enfasi, ma anche del vero in queste osservazioni. Le descrizioni degli interventi chirurgici, in cui avrebbe mo- strato un talento non comune, sono trop- po dettagliate e spesso compiaciute, ma va ricordato che si tratta di una stesura che l’autore non poté rivedere, anche se nel- l’ultimo anno, dice la moglie, scrisse senza sosta. La malattia si manifesta con un tre- mendo mal di schiena per metastasi verte- brali del carcinoma polmonare. Gli indugi e i ritardi con cui si arrivò alla diagnosi so- no incomprensibili. Con disperata disci- plina Kalanithi descrive la crescente soffe- renza e l’inesorabile spegnersi delle spe- ranze suscitate dal sollievo transitorio della chemioterapia. Le punta delle dita gli si riempirono di piaghe per effetto della chemioterapia, e riuscì ad usare tastiera e touchpad solo grazie a guanti speciali. Nell’epilogo, che è la parte più elaborata del libro, la moglie scrive che il marito «Voleva aiutare gli altri a capire [la morte], e a guardare in faccia la loro mortalità. [...] Guardate che cosa vi aspetta in fondo alla strada». Non è detto che in fondo alla stra- da di tutti ci sia lo stesso Calvario. Testi- monianze come questa di Kalanithi con- fermano l’insensatezza della natura, ma non possono aiutare ad affrontare la mor- te. Ogni agonia è irripetibile, e nessuno vi è preparato. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA Paul Kalanithi, Quando il respiro si fa aria. Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita , Mondadori Milano, pagg. 150, € 18 Huntington, un gene di 800 milioni di anni «La verità è appassionata di deserti». Così Elena Cattaneo descriveva il suo modo di fare scienza il 27 giugno 2010. «L’audacia di dubitare e di conoscere attraverso sentieri tracciati sulla sabbia». E per inseguire il gene dell’Huntington, «un viaggio nel tempo di 800 milioni di anni». www.archiviodomenica.ilsole24ore.com in orbita | La Stazione Spaziale Internazionale, illustrazione di Aleksandra Mizielińska e Daniel Mizieliński cent’anni di corea huntington Un gene colpito dai pregiudizi Nel 1916 veniva pubblicato lo studio che dimostrava le basi ereditarie di una malattia fortemente stigmatizzata e poi oggetto di persecuzioni eugeniche di Gilberto Corbellini Illustrazione di Guido Scarabottolo D all’1 al 10 giugno l’Associazio- ne Italiana Corea di Huntin- gton (AICH) Milano Onlus or- ganizza nel capoluogo lom- bardo, ma anche in altre città, eventi scientifici pubblici e iniziative di comunicazione per sensibilizzare l’opi- nione pubblica sulla malattia genetica che più di ogni altra ha condizionato l’im- maginario, e influenzato il pregiudizio e la discriminazione sociale delle malattie ereditarie. Proprio quest’anno ricorre il centena- rio dalla pubblicazione dello studio che dimostrava le basi ereditarie della malat- tia, e allo stesso tempo dava origine a una campagna di propaganda sociale che per decenni trasformava la malattia in uno stigma, e i malati in pazzi e bruti di cui la società doveva liberarsi. Lo studio di Da- venport del 1916, intitolato «Huntingto- n’s Chorea in Relation to Heredity and Eu- genics», era il risultato della prima rico- struzione su larga scala, eseguita con Eli- zabeth B. Murcey, di alberi genealogici che includevano 12 generazioni di discen- denti da soggetti affetti da malattia di Huntington nello stato di New York e nel New England. La corea di Huntington (HD) era stata descritta nei primi decenni dell’Ottocen- to e in modo clinicamente ben definito da George Huntington nel 1872. I risultati di Davenport e Murcey confermarono la tra- smissione autosomica dominante, dimo- strando come numerose persone affette discendessero da pochi progenitori. Se- dici anni dopo, lo psichiatra americano Percy R. Vessie usò quegli alberi genealo- gici per risalire alle origini della malattia sul suolo statunitense, imputandola a tre uomini emigrati con le loro mogli nel 1632 in America, dal villaggio di Bures St. Mary, nella contea del Suffolk, in Inghilterra. In questi luoghi era diffusa la stregoneria e le donne furono perseguitate per i loro movimenti coreici e i comportamenti anomali. Sembrava che i tre discendesse- ro, a loro volta, da un progenitore comu- ne, Mary Haste, e avevano dato origine al- la più vasta comunità di persone affette negli Stati Uniti. La comunità più numerosa di malati di HD si trova in Venezuela, nei pressi del la- go Maracaibo, sebbene esistano sacche di alta incidenza in aree geografiche isolate, come la Tasmania, ma anche nelle isole Mauritius. Lo studio della comunità ve- nezuelana ha consentito di spiegare la ge- netica molecolare della malattia e solo per questo meriterebbero di essere compen- sati e non discriminati. Gli ingenti inve- stimenti nella ricerca hanno portato ai test genetici e stanno preparando l’arrivo di terapie geniche per i malati del mondo sviluppato, mentre i poveri malati ve- nezuelani non hanno e si teme non avran- no accesso a benefici medici. La HD divenne dopo il 1916 rapidamen- te il modello di patologia ereditaria, pe- raltro con manifestazioni comportamen- tali socialmente disturbanti, da usare per sensibilizzare l’opinione pubblica circa la validità e praticabilità delle dottrine eu- geniche. Non fu un caso che Davenport, il quale insieme a Harry Laughlin fu il prin- cipale esponente del pensiero eugenico statunitense, avesse scelto di studiare la HD. Con le sue descrizioni, egli influenzò le politiche eugeniche che si diffusero ne- gli anni successivi in numerosi stati fede- rati degli Stati Uniti. Queste prevedevano, ad esempio, una selezione degli immigra- ti, e Davenport giudicava «un’opera di lungimirante filantropia sterilizzare tutti quelli che hanno già sviluppato la corea cronica e assicurare che come la loro pro- genie manifesti precocemente i sintomi non dovrà riprodursi». Numerosi stati fe- derali negli USA adottarono leggi per la sterilizzazione obbligatoria, soprattutto dopo che la Corte Suprema approvò nel 1927 la legislazione che in Virginia la pre- vedeva per diverse condizioni, ma non per la HD. Nella Germania nazista, invece, la malattia era una delle nove che rende- vano una persona idonea alla sterilizza- zione obbligatoria secondo la legge del 14 luglio 1933. Solo i soggetti affetti erano in- clusi, ma gli altri membri familiari dove- vano essere controllati. Le pubblicazioni di Davenport e Vessie rimasero a lungo dei testi di riferimento per la HD, influenzando la percezione culturale e la descrizioni mediche, cioè contribuendo ad alimentare la stigmatiz- zazione. Non furono i soli. Anche un gio- vane neurologo inglese, MacDonald Cri- tchley, nel 1934 sosteneva che tutti i mem- bri delle famiglie in cui era presente la malattia si sarebbero dimostrati «ten- denti a manifestare sintomi di tracce esa- geratamente psicotiche, e la storia di de- menza, insania, suicidio, criminalità, di dipendenza da alcol e droga si presenta ancora e ancora». Dopo la seconda guerra mondiale ge- netisti del livello di James V. Neel difesero questa linea di pensiero. Nel 1969 Thomas H. Gilmore e Mary B. Hans scoprivano che la donna accusata di stregoneria, di cui parlava Vessie, non era l’antenata dei tre uomini emigrati da Bures St. Mary. Inol- tre, Alice Wexler, sorella della genetista Nancy Wexler a cui si deve la creazione del consorzio che scoprì il gene implicato nella malattia, condusse ricerche mirate, trovando che gli atteggiamenti disdice- voli di cui erano accusati i tre uomini e i loro discendenti consistevano in proteste politiche, blasfemia e episodi di ubria- chezza. L’insegnamento più importante che viene dalla storia della HD è che la stigma- tizzazione di cui sono stati a lungo ogget- to i malati è andata scomparendo con l’avanzare delle conoscenze scientifiche. C’è voluta la scienza per disinnescare la cattiveria umana nei confronti di questi malati. Né la religione, né l’etica, né la po- litica, etc, erano riuscite a far nulla. L’avanzamento delle conoscenze scienti- fiche ha dimostrato che gli studi orientati da ideologie eugeniche non erano fonda- ti, che usavano le osservazioni per giusti- ficare pregiudizi. Essi partivano dall’idea che le varianti genetiche patologiche fos- sero prive di interesse conoscitivo, e da eliminare sulla base di un completo frain- tendimento della teoria darwiniana del- l’evoluzione. La malattia di Huntington ha mobilita- to una cooperazione scientifica interna- zionale senza precedenti per una malattia genetica rara, dove il cemento intellettua- le è stata la passione e la dedizione per la ricerca di base. Uno sforzo premiato con successi di portata storica. La comunità scientifica, e chi pianifica la politica della ricerca biomedica dovrebbero guardare a questa impresa umana come a un esem- pio cui ispirarsi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Non la religione né l’etica hanno abbattuto le discriminazioni, ma la scienza di base e una comunità di ricercatori che in questi giorni si ritrova a Milano

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n. 146 DOMENICA - 29 MAGGIO 2016 Il Sole 24 Ore 27

Scienza e filosofia

di Sergio Salvi e Roberto Defez

Festeggiare 150 anni nel giorno incui i cristiani celebrano la solen-nità del Corpus Domini e guarda-no al pane come simbolo di re-

denzione non è da tutti. Se poi il festeg-giato è un uomo che ha dedicato la pro-pria esistenza a dare più pane al nostroPaese e al mondo, allora la coincidenza dieventi appare non solo portatrice di sug-gestive metafore, ma anche di riflessioniche guardano al problema materiale delladisponibilità di cibo per tutti. Riflessionimolto simili a quelle che, un secolo fa,riempivano la mente del festeggiato dioggi, l’agronomo Nazareno Strampelli(1866-1942), pioniere della genetica agra-ria e ormai riconosciuto come il precur-sore della Rivoluzione verde, che a 150anni dalla nascita è ancora portatore dimessaggi di sorprendente attualità.

Nato nelle Marche, laureato in Scienzeagrarie a Pisa nel 1891, a partire dal 1903intraprese un percorso che lo portò ad es-sere celebrato, anche all’estero, come il«mago del grano». Le sue varietà di fru-mento ad alta resa, ottenute combinandoquanto di meglio la scienza dell’epocametteva a disposizione di un breeder (di-versità genetica, ibridazione e selezionegenealogica, il tutto condito dalle leggi diMendel da poco riscoperte), furono pri-ma cavalcate dalla propaganda fascista, ilche nocque alla sua fama, per poi rivelarela loro vera natura di prototipi eccezionalie insostituibili nei programmi di miglio-ramento genetico attuati nel dopoguerradai principali paesi produttori di grano.Strampelli riemerge negli anni ’90 e so-prattutto nell’ultimo decennio, a seguitodi ulteriori studi sulla sua opera, che ma-tura l’immagine di uno scienziato auten-tico, con una visione “olistica” dell’agri-coltura che, sebbene percepibile comecaratteristica di certi grandi uomini discienza del passato, appare oggi inaspet-tatamente attuale.

Che dire, infatti, di uno scienziato chenon punta solo al miglioramento geneti-co del frumento, ma anche delle principa-li specie usate nelle rotazioni col cereale?Che si occupa di dry farming nel Meridio-ne d’Italia costituendo varietà tollerantila siccità, tema di grande attualità in epo-ca di cambiamenti climatici e progressivadesertificazione? E che presta attenzionealle interazioni chimiche a distanza (lacosiddetta allelopatia) tra le specie im-piegate nelle rotazioni e nelle consocia-zioni, le stesse che il moderno breeding stasfruttando per creare varietà capaci diprodurre da sé, in modo naturale, l’erbici-da necessario per contrastare le malerbe?

Trattando di miglioramento geneticoe di erbicidi naturali viene spontaneoporsi domande alle quali, mancando vocediretta all’interessato, si può solo rispon-dere per congetture, anche se plausibili.Ad esempio, se oggi fosse tra noi, cosapenserebbe Strampelli degli ogm? Sareb-be favorevole o contrario? I fans del bio-logico, che su questo tema spesso tiranoper la giacca Strampelli facendone unpaladino dei «grani antichi», ignoranoche per il genetista le vecchie varietà digrano «...avevano il merito di esseremolto diversificate per effetto dell’am-biente in cui erano state coltivate persecoli, ma presentavano delle caratteri-stiche così peculiari da poter essere pre-se poco in considerazione per le miglio-rie in atto e per i nuovi raccolti». Così co-me ignorano che nel 1923, per aver in-franto la tradizione della selezionegenealogica dei frumenti, preferendola nuova via dell’incrocio intervarieta-le, Strampelli fu espulso in malo mododall’associazione dei coltivatori da luistesso fondata.

A distanza di quasi un secolo, nulla dinuovo sotto il sole.

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astronomia per ragazzi

Mappa spaziale (ma incompleta)di Patrizia Caraveo

A lzare gli occhi al cielo e guardare ipianeti e le stelle affascina i grandied i piccoli ma i concetti cardinedell’astronomia sono tutt’altro

che banali da spiegare. Come si muovono ipianeti intorno al Sole, come si possono pa-ragonare le loro dimensione e le loro distan-ze, quanto sono distanti le stelle? Come siesplora lo spazio?

Voi  siete  qui  cerca di fornire risposte aqueste (e a molte altre) domande usandouna accattivante forma grafica. Per contra-stare il diluvio di immagini e di foto nel qualeviviamo, gli autori hanno scelto di veicolare

le informazioni attraverso bellissimi dise-gni. Più che una narrazione, la chiamereiuna graphic  novel  perché il disegno haun’importanza preponderante rispetto allaparole, che diventano fumetti dei personag-gi oppure brevi didascalie.

Si inizia con una descrizione del sistemasolare si continua con le stelle vicine e il no-stro posto nella galassia per passare alla ricer-ca di vita extraterrestre a cominciare da CarlSagan ed al disco d’oro a bordo delle sondeVoyager: un vero e proprio messaggio nellabottiglia che l’umanità ha lanciato nello spa-zio, caso mai la sonda attirasse l’attenzione diqualche civiltà aliena. Poi è la volta dell’esplo-razione umana dello spazio con la descrizio-ne della vita degli astronauti, del percorso chedevono fare e delle prove che devono supera-

re prima di andare a vivere nella Stazione Spaziale Internazionale, una casa dove gliastronauti lavorano, mangiano, fanno gin-nastica, si rilassano alla finestra e dormononei loro sacchi a pelo attaccati alle pareti.

Molto efficace la descrizione della necessi-tà della tuta per poter uscire a lavorare al-l’esterno della stazione spaziale. Le chiama-no passeggiate ma sono tutt’altro che rilas-santi sia per gli astronauti, sia per il centro dicontrollo che li deve seguire. Ma la stazionespaziale è solo a 300 km di altezza, il futurodell’esplorazione umana è Marte: ce lo diceBuzz Aldrin che, dopo essere stato il secondouomo sulla Luna, vuole andare più lontano. Così gli sfondi delle pagine diventano rossa-stri paesaggi marziani percorsi dalle sonderobotiche che abbiamo inviato, in attesa che

atterrino gli astronauti, che troveranno una casa gonfiabile tipo quella che abbiamo vistonel film Il sopravvissuto (The Martian). Ma lenostre sonde sono andate anche più lontanofino a Giove, con la sua fascinosa luna Europa,e Saturno con una fermata straordinaria an-che su Titano dove è atterrata la sonda Huy-gens dell’Agenzia Spaziale Europea.

Il libro non trascura l’esplorazione del So-le, delle comete e degli asteroidi. Dal sistemasolare è naturale passare alla scoperta e allostudio dei pianeti extrasolari, andando alla ri-cerca di quelli potenzialmente abitabili, ri-cordando che una ipotetica vita extraterre-stre potrebbe non essere identica a quella chenoi conosciamo. Un libro gradevole, pieno dispunti di riflessione per un/una giovane let-tore/lettrice che si guarda intorno con curio-sità e voglia di capire.

Peccato che sia passato qualche anno dallapubblicazione della versione originale del li-bro che non è stato aggiornato e, purtroppo,denuncia i suoi anni. L’esplorazione del siste-ma solare procede con ritmo molto sostenuto

e spiace notare che in Voi siete qui manca com-pletamente la missione Rosetta ed anche glispettacolari risultati di Plutone sono solo an-nunciati. Capisco che sia difficile tenere il passo con le missioni scientifiche, ma forsesarebbe stato il caso di fare un ulteriore sforzoper aggiornare la grafica. Avrei anche apprez-zato trovare nella traduzione italiana il riferi-mento a qualche scienziato/astronauta no-stro connazionale. Come dicevo all’inizio, cisono spesso commenti e spiegazioni sottoforma di fumetti. E’ una scelta molto azzecca-ta, peccato che i personaggi siano per lo piùamericani, con diversi russi e inglesi, senzadimenticare un polacco ed un armeno. Inse-rire la nostra AstroSamantha sarebbe statocosì difficile? La presenza di almeno un per-sonaggio familiare avrebbe sicuramente resopiù efficace il messaggio.

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Aleksandra Mizielińska e Daniel Mizieliński, Voi siete qui!, Mondadori, Milano, pagg. 106, € 17

strampelli (1866-1942)

Pane e geni«olistici»

paul kalanithi (1977 - 2015)

Se il medico si prepara a moriredi Arnaldo Benini

Come vivere sapendo che, per unamalattia senza scampo, la fine èimminente? Il suicidio non è fre-quente. Nei paesi in cui è consen-

tito, si può ricorrere al suicidio assistito,quasi sempre in ambito familiare. La con-cezione della vita, il carattere, le esperien-ze, la cultura, la situazione familiare, le ca-ratteristiche della malattia e la condizionementale determinano se e come conti-nuare a vivere. Talora gli infermi trovanoforze e motivazioni che non sapevano diavere e sono loro ad essere d’aiuto e con-forto ai familiari.

La testimonianza del neurochirurgostatunitense d’origine indiana Paul Kala-nithi, morto dopo due anni di sofferenze a37 anni per un carcinoma polmonare conmetastasi diffuse, è il resoconto di come sipossa convivere con la morte. Kalanithiusa parole di Samuel Beckett: «I can’t goon. I’ll go on», «Io non posso andare avanti.

Andrò avanti». Come? Con iniziative an-che inconsuete. Otto mesi dopo la diagno-si, scrisse un articolo sul «New York Ti-mes» (24 gennaio 2014) dal titolo «HowLong Have I Got Left» (Quanto tempo mi re­sta?) che suscitò sorpresa e interesse: lachemioterapia aveva effetto e il malatoaveva potuto riprendere ad operare.

L’orizzonte, pur senza illusioni, nonsembrava ancora chiuso. Nella primaveradel 2015, nella rivista della Clinica Stan-ford, pubblicò un lavoro molto singolaresull’esperienza sorprendente di come laconsapevolezza della fine non lontana al-teri il senso del tempo («Before I go Timewarps for a young surgeon with metastaticlung cancer»).L’analisi di come una malat-tia terminale distorca il tempo riducendoal minimo quel che si riesce a fare per la de-bolezza che provoca, e cancellando il sen-so del futuro, è un saggio di letteraturamedica di alta levatura.

Non comune è la decisione sua e dellamoglie di aver il primo figlio, una bambi-na, che sarà orfana del padre a otto mesi.Se non fosse sorta la malattia, probabil-

mente Kalanithi e la moglie si sarebbero,almeno temporaneamente, separati. Ladiagnosi di cancro, dice la moglie nell’epi-logo del libro, «ci ricondusse al nucleo sof-fice e nutritivo del nostro matrimonio». Eaggiunge: «Uno dei modi di gestire una malattia terminale è di essere profonda-mente innamorati: essere gentili, premu-rosi, riconoscenti», a conferma che è digran conforto per un ammalato sapere che non sarà solo. L’essere stati «recipro-camente partecipi del significato profon-do della vita dell’altro» aggiunge «è unodei doni più grandi che abbia mai ricevu-to».

Kalanithi sentì che il modo migliore diriempire il tempo sarebbe stata la testimo-nianza scritta, quasi nella forma di un dia-rio, di quel che succedeva a lui e alla fami-glia. Premette la storia sua, della famiglia edella moglie prima della malattia. La neu-rochirurgia, dopo studi di letteratura con-clusi con un lavoro su Walt Whitman, di fi-losofia con Richard Rorty, e di neuro-scienze, lo attrae non tanto per la partemanuale, ma per la dimensione morale di

un’attività che si svolge prevalentementenel cervello, cioè nell’organo che fa di ogniuomo quel che esso è.

Il ritmo e la mole di lavoro alla StanfordClinic in California sono descritti con vi-vacità e consenso incondizionato, nono-stante il sacrificio che comportavano: nonc’era orario, solo il programma quotidia-no da portare a termine. Nel contrattod’impiego erano fissate 88 ore di lavorosettimanali, mai sufficienti. Nelle grandi scuole di chirurgia il primo criterio di sele-zione è la capacità di lavoro. «Ogni opera-zione al cervello è – scrive – una manipola-zione della sostanza del nostro essere. [...]La neurochirurgia sembra porre un con-fronto più che mai stimolante e diretto conil significato, l’identità e la morte. [...] Laneurochirurgia mi attraeva tanto per ilsuo intreccio di cervello e coscienza,quanto per il suo intreccio di vita e morte».

C’è molta enfasi, ma anche del vero inqueste osservazioni. Le descrizioni degliinterventi chirurgici, in cui avrebbe mo-strato un talento non comune, sono trop-po dettagliate e spesso compiaciute, ma va

ricordato che si tratta di una stesura chel’autore non poté rivedere, anche se nel-l’ultimo anno, dice la moglie, scrisse senzasosta. La malattia si manifesta con un tre-mendo mal di schiena per metastasi verte-brali del carcinoma polmonare. Gli indugie i ritardi con cui si arrivò alla diagnosi so-no incomprensibili. Con disperata disci-plina Kalanithi descrive la crescente soffe-renza e l’inesorabile spegnersi delle spe-ranze suscitate dal sollievo transitoriodella chemioterapia. Le punta delle dita glisi riempirono di piaghe per effetto dellachemioterapia, e riuscì ad usare tastiera etouchpad solo grazie a guanti speciali.

Nell’epilogo, che è la parte più elaboratadel libro, la moglie scrive che il marito«Voleva aiutare gli altri a capire [la morte],e a guardare in faccia la loro mortalità. [...]Guardate che cosa vi aspetta in fondo allastrada». Non è detto che in fondo alla stra-da di tutti ci sia lo stesso Calvario. Testi-monianze come questa di Kalanithi con-fermano l’insensatezza della natura, manon possono aiutare ad affrontare la mor-te. Ogni agonia è irripetibile, e nessuno vi èpreparato.

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Paul Kalanithi, Quando il respiro si fa aria. Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita , Mondadori Milano, pagg. 150, € 18

Huntington, un gene di 800 milioni di anni«La verità è appassionata di deserti». Così Elena Cattaneo descriveva il suo modo di fare scienza il 27 giugno 2010. «L’audacia di dubitare e di conoscere attraverso sentieri tracciati sulla sabbia». E per inseguire il gene dell’Huntington, «un viaggio nel tempo di 800 milioni di anni». www.archiviodomenica.ilsole24ore.com

in orbita | La Stazione Spaziale Internazionale, illustrazione di Aleksandra Mizielińska e Daniel Mizieliński

cent’anni di corea huntington

Un gene colpito dai pregiudiziNel 1916 veniva pubblicato lo studio che dimostrava le basi ereditarie di una malattia fortemente stigmatizzata e poi oggetto di persecuzioni eugeniche

di Gilberto Corbellini

Illustrazione di Guido Scarabottolo

Dall’1 al 10 giugno l’Associazio-ne Italiana Corea di Huntin-gton (AICH) Milano Onlus or-ganizza nel capoluogo lom-bardo, ma anche in altre città,

eventi scientifici pubblici e iniziative dicomunicazione per sensibilizzare l’opi-nione pubblica sulla malattia geneticache più di ogni altra ha condizionato l’im-maginario, e influenzato il pregiudizio ela discriminazione sociale delle malattieereditarie.

Proprio quest’anno ricorre il centena-rio dalla pubblicazione dello studio chedimostrava le basi ereditarie della malat-tia, e allo stesso tempo dava origine a una

campagna di propaganda sociale che perdecenni trasformava la malattia in unostigma, e i malati in pazzi e bruti di cui lasocietà doveva liberarsi. Lo studio di Da-venport del 1916, intitolato «Huntingto-n’s Chorea in Relation to Heredity and Eu-genics», era il risultato della prima rico-struzione su larga scala, eseguita con Eli-zabeth B. Murcey, di alberi genealogiciche includevano 12 generazioni di discen-denti da soggetti affetti da malattia diHuntington nello stato di New York e nelNew England.

La corea di Huntington (HD) era statadescritta nei primi decenni dell’Ottocen-

to e in modo clinicamente ben definito daGeorge Huntington nel 1872. I risultati diDavenport e Murcey confermarono la tra-smissione autosomica dominante, dimo-strando come numerose persone affettediscendessero da pochi progenitori. Se-dici anni dopo, lo psichiatra americanoPercy R. Vessie usò quegli alberi genealo-gici per risalire alle origini della malattiasul suolo statunitense, imputandola a treuomini emigrati con le loro mogli nel 1632in America, dal villaggio di Bures St. Mary,nella contea del Suffolk, in Inghilterra. Inquesti luoghi era diffusa la stregoneria ele donne furono perseguitate per i loromovimenti coreici e i comportamentianomali. Sembrava che i tre discendesse-ro, a loro volta, da un progenitore comu-ne, Mary Haste, e avevano dato origine al-la più vasta comunità di persone affettenegli Stati Uniti.

La comunità più numerosa di malati diHD si trova in Venezuela, nei pressi del la-go Maracaibo, sebbene esistano sacche dialta incidenza in aree geografiche isolate,come la Tasmania, ma anche nelle isoleMauritius. Lo studio della comunità ve-nezuelana ha consentito di spiegare la ge-netica molecolare della malattia e solo perquesto meriterebbero di essere compen-sati e non discriminati. Gli ingenti inve-stimenti nella ricerca hanno portato ai test genetici e stanno preparando l’arrivodi terapie geniche per i malati del mondosviluppato, mentre i poveri malati ve-nezuelani non hanno e si teme non avran-no accesso a benefici medici.

La HD divenne dopo il 1916 rapidamen-te il modello di patologia ereditaria, pe-raltro con manifestazioni comportamen-tali socialmente disturbanti, da usare persensibilizzare l’opinione pubblica circa la

validità e praticabilità delle dottrine eu-geniche. Non fu un caso che Davenport, ilquale insieme a Harry Laughlin fu il prin-cipale esponente del pensiero eugenicostatunitense, avesse scelto di studiare laHD. Con le sue descrizioni, egli influenzòle politiche eugeniche che si diffusero ne-gli anni successivi in numerosi stati fede-rati degli Stati Uniti. Queste prevedevano,ad esempio, una selezione degli immigra-ti, e Davenport giudicava «un’opera dilungimirante filantropia sterilizzare tuttiquelli che hanno già sviluppato la coreacronica e assicurare che come la loro pro-genie manifesti precocemente i sintominon dovrà riprodursi». Numerosi stati fe-derali negli USA adottarono leggi per la

sterilizzazione obbligatoria, soprattuttodopo che la Corte Suprema approvò nel1927 la legislazione che in Virginia la pre-vedeva per diverse condizioni, ma nonper la HD. Nella Germania nazista, invece,la malattia era una delle nove che rende-vano una persona idonea alla sterilizza-zione obbligatoria secondo la legge del 14luglio 1933. Solo i soggetti affetti erano in-clusi, ma gli altri membri familiari dove-vano essere controllati.

Le pubblicazioni di Davenport e Vessierimasero a lungo dei testi di riferimentoper la HD, influenzando la percezioneculturale e la descrizioni mediche, cioècontribuendo ad alimentare la stigmatiz-zazione. Non furono i soli. Anche un gio-

vane neurologo inglese, MacDonald Cri-tchley, nel 1934 sosteneva che tutti i mem-bri delle famiglie in cui era presente la malattia si sarebbero dimostrati «ten-denti a manifestare sintomi di tracce esa-geratamente psicotiche, e la storia di de-menza, insania, suicidio, criminalità, didipendenza da alcol e droga si presentaancora e ancora».

Dopo la seconda guerra mondiale ge-netisti del livello di James V. Neel difeseroquesta linea di pensiero. Nel 1969 ThomasH. Gilmore e Mary B. Hans scoprivano chela donna accusata di stregoneria, di cuiparlava Vessie, non era l’antenata dei treuomini emigrati da Bures St. Mary. Inol-tre, Alice Wexler, sorella della genetistaNancy Wexler a cui si deve la creazione delconsorzio che scoprì il gene implicatonella malattia, condusse ricerche mirate,trovando che gli atteggiamenti disdice-voli di cui erano accusati i tre uomini e iloro discendenti consistevano in protestepolitiche, blasfemia e episodi di ubria-chezza.

L’insegnamento più importante cheviene dalla storia della HD è che la stigma-tizzazione di cui sono stati a lungo ogget-to i malati è andata scomparendo conl’avanzare delle conoscenze scientifiche.C’è voluta la scienza per disinnescare lacattiveria umana nei confronti di questimalati. Né la religione, né l’etica, né la po-litica, etc, erano riuscite a far nulla.L’avanzamento delle conoscenze scienti-fiche ha dimostrato che gli studi orientatida ideologie eugeniche non erano fonda-ti, che usavano le osservazioni per giusti-ficare pregiudizi. Essi partivano dall’ideache le varianti genetiche patologiche fos-sero prive di interesse conoscitivo, e daeliminare sulla base di un completo frain-tendimento della teoria darwiniana del-l’evoluzione.

La malattia di Huntington ha mobilita-to una cooperazione scientifica interna-zionale senza precedenti per una malattiagenetica rara, dove il cemento intellettua-le è stata la passione e la dedizione per laricerca di base. Uno sforzo premiato consuccessi di portata storica. La comunitàscientifica, e chi pianifica la politica dellaricerca biomedica dovrebbero guardare aquesta impresa umana come a un esem-pio cui ispirarsi.

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Non la religione né l’etica hanno abbattuto le discriminazioni, ma la scienza di base e una comunità di ricercatori che in questi giorni si ritrova a Milano