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www.infobuildenergia.it 06 Apr, 06:19Pubblicate in Gazzetta le nuove Linee guida sui Certificati Bianchi

E’ entrato in vigore il 4 aprile il Decreto con le nuove linee guida per la preparazione, l'esecuzione e la valutazione dei progetti di efficienza energetica e per la definizione dei criteri e delle modalità per il rilascio dei Certificati Bianchi     E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n° 78 del 3/4/2017 il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico relativo alla “Determinazione degli obiettivi quantitativi nazionali di risparmio energetico che devono essere perseguiti dalle imprese di distribuzione dell'energia elettrica e il gas per gli anni dal 2017 al 2020 e per l'approvazione delle nuove Linee Guida per la preparazione, l'esecuzione e la valutazione dei progetti di efficienza energetica”.   I “Titoli di Efficienza Energetica” (TEE), o Certificati Bianchi, sono titoli negoziabili che certificano il conseguimento di risparmi energetici negli usi finali di energia attraverso interventi e progetti di incremento di efficienza energetica.Il sistema dei certificati bianchi prevede che i distributori di energia elettrica e digasnaturaleraggiungano annualmente obiettivi di risparmio di energia primaria, espressi in Tonnellate Equivalenti di Petrolio risparmiate (TEP).Le attività di gestione, valutazione e certificazione dei risparmi correlati a progetti di efficienza energetica condotti nell'ambito del meccanismo dei certificati bianchi sono affidate al Gestore Servizi Energetici.   Il Decreto entra in vigore dopo due anni di attesa in attuazione di quanto stabilito dal Dlgs 3 marzo 2011, n. 28 e dal Dlgs 4 luglio 2014, n. 102 e determina gli obiettivi quantitativi nazionali di risparmio energetico attraverso il meccanismo dei Certificati Bianchi, per il periodo 2017/2020, in coerenza con gli obiettivi nazionali di efficienza energetica. La nuova disciplina inoltre determina gli obblighi annui di incremento dell'efficienza energetica degli usi finali di energia a carico dei distributori di energia elettrica e di gas, individua i soggetti che possono essere ammessi al meccanismo e le modalità di accesso allo stesso e aggiorna le disposizioni in materia di controllo e verifica dell'esecuzione tecnica ed amministrativa dei progetti ammessi al meccanismo dei Certificati Bianchi ed il relativo regime sanzionatorio. Gli Obbiettivi quantitativi di risparmio energetico nazionali da raggiungere nel periodo 2017 2020 attraverso il meccanismo dei Certificati Bianchi sono i seguenti: a) 7,14 milioni di TEP di energia primaria nel 2017; b) 8,32 milioni di TEP di energia primaria nel 2018; c) 9,71 milioni di TEP di energia primaria nel 2019; d) 11,19 milioni di TEP di energia primaria nel 2020.   Per gli anni successivi verranno determinati gli obiettivi con decreto interministeriale entro il 31 dicembre 2019.   Per quanto concerne la procedura di valutazione, il GSE trasmette al soggetto proponente la comunicazione dell’esito della valutazione tecnico-economica delle proposte di progetto a consuntivo (PC) o standardizzato (PS) o delle relative richieste di verifica e certificazione dei risparmi RC o RS, entro 90 giorni dalla ricezione delle stesse.   Relativamente ai certificati Bianchi il GSE ha pubblicato i dati aggiornati al primo trimestre 2017 sui procedimenti amministrativi conclusi.Dall’inizio dell’anno al 31 marzo 2017, i procedimenti conclusi con esito positivo sono 1.533, di cui 114 Proposte di Progetto e Programma di Misura (PPPM) e 1.419 Richieste di Verifica e Certificazione dei Risparmi (RVC). L’esito positivo delle istruttorie ha generato il riconoscimento di 1.970.538 TEE, quasi il doppio rispetto al primo trimestre dell’anno precedente (in cui si registravano circa 1,1 milioni di TEE).

www.greenreport.it 06 Apr, 10:07Putin come Trump: il cambiamento climatico non è colpa dell’uomo

Putin come Trump: il cambiamento climatico non è colpa dell’uomo Una storia di rompighiaccio nucleari, petrolio, gas, navi e rotte artiche “lente” [6 aprile 2017] Sul cambiamento climatico il presidente russo Vladimir Putin la pensa come il suo collega statunitense Donald Trump: non è

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colpa dell’uomo. Putin lo ha affermato intervenendo alla grande conferenza The Arctic: Territory of Dialogue che si è tenuta ad Arkhangelsk, dove, nel bel mezzo dell’area del mondo dove sono più evidenti i segni del riscaldamento globale, ha ribadito che l’umanità non è colpevole del cambiamento climatico e che  lo scioglimento dei ghiacci nell’Artico potrebbe essere una buona cosa per lo sviluppo economico della Russia. Secondo Charles Digges di Bellona, per sostenere le sue tesi negazionistiche Putin ha portato come prova la “memoria fotografica”  di un  esploratore austriaco che disse che lo scioglimento dei ghiacciai e della banchisa era iniziata quasi 90 anni fa. Il presidente russo non ha fatto il nome di questo esploratore, ma ha detto che nel 1930 aveva visitato il remoto arcipelago della Terra di Francesco Giuseppe, lo stesso in cui Putin era stato il giorno prima di intervenire alla conferenza di  Arkhangelsk.  20 anni dopo il fantomatico esploratore austriaco avrebbe confrontato le sue fotografie con quelle di un’altra spedizione realizzata nell’area dal «futuro Re d’Italia» (strano, visto che nel 1950 l’Italia era già una Repubblica e la Terra di Francesco Giuseppe era uno dei luoghi più inaccessibili dell’Unione Sovietica) e, secondo Putin, l’esploratore austriaco aveva concluso c’erano meno iceberg rispetto a quando c’era stato lui. Insomma, secondo Putin, qualche foto e una confusa storia di spedizioni di esploratori e futuri re  dimostrerebbero che «Non ci sono stati fattori antropici, quali le emissioni, e il riscaldamento era già iniziato», quindi, non ci sarebbe nulla da fare per fermare il cambiamento climatico, visto che dipende da qualcosa che non è controllabile dall’umanità: «Il problema non si ferma, perché è impossibile, dal momento che potrebbe essere legato ad alcuni cicli globali della Terra o anche di importanza planetaria». Poi Putin ha ritirato fuori uno dei suoi vecchi cavalli di battaglia: se il riscaldamento globale è un male per gli altri, la Russia potrebbe guadagnarci: «Il cambiamento climatico ci mette in condizioni più favorevoli e migliora il potenziale economico di questa regione”- ha detto il 30 marzo alla Cnbc – Oggi, il Pil della Russia è il risultato dell’attività economica di questa regione». Putin non è arrivato a definire i cambiamenti climatici una bufala inventata dai cinesi come ha fatto Trump, ma è chiaro su questo tema utilizzano entrambi la stessa tecnica politica: ignorare le prove scientifiche e il senso comune, citando pareri di amici e conoscenti e inventando una mitologia “scientifica” parallela fatta di aneddoti. Il problema è che gli amici – veri o immaginari – di Vladimir e Donald stanno portando Russia ed Usa ad abbandonare le politiche ambientali e climatiche che si erano impegnati a rispettare. Il Putin sentito ad Arkhangelsk non ha più niente a che vedere con quello che intervenne nel dicembre del 2015 a Parigi alla Cop21 dell’United Nations framework convention on climate change, dove affermò che «Il cambiamento climatico è diventata una delle sfide più gravi alle quali è di fonte l’umanità». Ora le politiche climatiche di Usa e Russia sembrano essersi riallineate sull’ecoscetticismo più bieco e le dichiarazioni dei ministri russi sembrano le fotocopie di quelle del capo dell’Environmental protection agency  Usa, Scott Pruitt, che Trump ha incaricato di rottamare le politiche climatiche e ambientali di Barack Obama. Alla conferenza artica, Putin ha elogiato Pruitt, dicendo che quelli che, come l’amministratore dell’Epa, non sono d’accordo con l’Accordo di Parigi «potrebbero non essere affatto stupidi». Nonostante questo Putin ha ribadito l’impegno della Russia per il raggiungimento degli obiettivi di Parigi, ma intanto liscia il pelo alle tentazioni della Casa Bianca di mandarlo all’aria: «Non vorrei drammatizzare le cose, e non vorrei che si usassero questi fattori globali per la lotta politica interna americana», ha detto alla Cnbc. La prudenza di Putin è comprensibile perché il Senato Usa e il Federal Bureau of Investigation stanno indagando sulla possibile ingerenza del Cremlino nella campagna elettorale Usa per favorire la vittoria di Trump: un loro esplicito accordo in pubblico per minare l’accordo di Parigi sarebbe imbarazzante. Anche perché al centro delle  liaisons dangereuses tra gli isolazionisti repubblicani Usa e i patriottici conservatori putiniani russi  ci sarebbero proprio le vaste riserve di gas e petrolio dell’Artico e i 500 miliardi dollari affare tra Exxon Mobil, allora presieduta dal segretario di Stato di Trump Rex Tillerson, e la compagnia petrolifera russa Rosneft, una delle casseforti della  Stato-mercato russo. Probabilmente dietro la storiella dell’esploratore austriaco e la giravolta climatica di Putin c’è la previsione che i traffici nel Mar glaciale Artico russo

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aumenteranno di 5 volte entro il 2022. Per questo il governo di Mosca ha annunciato che costruirà più rompighiaccio nucleari di nuova generazione, anche se il progetto sconta già grossi ritardi. Anche questa previsione non sembra avere solide basi, visto che, come dice Bellona, negli ultimi anni le navi che percorrono la rotta artica russa sono diminuite. Ma intervenendo alla conferenza The Arctic: Territory of Dialogue, il vice premier russo Dmitry Rogozin ha promesso che i carichi delle navi che percorrono la rotta europea-asiatica passeranno dai 7,4 milioni di tonnellate del 2016 a 40 milioni di tonnellate entro il 2022 e, per riuscire in questa impresa, il vice ministro russo del commercio e dell’industria, Vasily Osmakov, ha aggiunto che  l’Arktika, il rompighiaccio nucleare di nuova generazione, sarà operativo entro il 2019, dopo aver subito continui ritardi. Infatti, i vantaggi dei cambiamenti climatici per la Russia verrebbero soprattutto dall’apertura della rotta del Grande Nord e dalla maggiore accessibilità a risorse petrolifere e gasiere. Secondo i Russi, se il global warming farà il suo sporco lavoro, la rotta artica consentirebbe di ridurre del 35% i tempi di navigazione tra Rotterdam e Shanghai. Lasciando perdere le colossali conseguenze ambientali e infrastrutturali che la Russia si troverebbe ad affrontare con un aumento delle temperature globali fuori controllo, probabilmente nemmeno i suoi rompighiaccio nucleari potrebbero rendere concorrenziale la rotta artica con il Canale di Suez da poco raddoppiato. «Ed è proprio a causa del ghiaccio – spiega Digges di Bellona –  Il transito attraverso la rotta è regolato dall’Amministrazione federale russa per la rotta del Mare del Nord, che richiede agli armatori di avere la Polar Code certification. Negli ultimi anni, circa il 4% di color che hanno richiesto di passare si sono ritirati per la mancanza di tale certificazione». E’ qui che entrano in scena i rompighiaccio nucleari che aprono la strada ai principali convogli di navi: dei 19 viaggi effettuati nel 2016 attraverso la attraverso la Northern Sea Route, 6 sono stati accompagnati dai due rompighiaccio nucleari Yamal e 50 Let Pobedy. Ma Bellona fa notare che, negli ultimi anni, i rompighiaccio del porto Atomflot a Murmansk sono stati  utilizzati per costruire il progetto delgasnaturaleliquefatto di Yamal e il porto di Sabetta, distogliendoli dal traino dei cargo carichi di merci. Altri rompighiaccio nucleari, come il Sibir, sono stati messi fuori servizio perché troppo vecchi e altri stanno per raggiungerli per lo stesso motivo. Osmakov ha detto che, dopo il varo dell’Arktika  seguiranno quelli di altri due rompighiaccio: i nuovi  Yamal e Sibir. I  rompighiaccio di nuova generazione – che i russi chiamano progetto 22220 – sono attrezzati con lo scafo corazzato più spesso di sempre e saranno in grado di aprirsi la rotta nella banchisa galleggiante spessa 3 metri e di navigare nei fiumi ghiacciati che sfociano nel Mar Artico. Il problema è che, come tutti i grandi progetti economici sbandierati da Putin, la costruzione dei rompighiaccio va al rilento per problemi di bilancio federale russo e per le sanzioni occidentali:   l‘Arktika avrebbe dovuto entrare in funzione nel 2017 e gli altri due rompighiaccio dovrebbero essere varati nel  2020 e 2021. Bellona sottolinea che, anche se le nuove scadenza venissero rispettate – cosa dubbia visto i ritardi accumulati –  non basteranno certo 3 rompighiaccio nucleari a soddisfare il boom di navi che, secondo le ottimistiche previsioni di Rogozin, dovrebbero solcare la rotta artica, «Soprattutto perché le statistiche di Rogozin sono distorte – dice Digges –  Mentre è giusto che 7,4 milioni di tonnellate di merci trasportate da 19 navi hanno navigato lungo la Northern Sea Route nel 2016, solo 6 tra queste hanno effettivamente percorso l’intero passaggio di 6.000 chilometri dall’Europa all’Asia. La maggior parte delle spedizioni lungo il percorso dello scorso anno, secondo il Northern Sea Route Information Office, sono state effettuate tra i porti russi sull’Artico, seguite da una manciata di altre tra i porti russi e quelli europei o asiatici». I boom di trasporti, con un più 35% verificatosi tra il 2015 e il 2016, è dovuto in gran parte alle petroliere, ma i dati di traffico merci, nonostante il rapido declino del ghiaccio marino nell’Artico, sono in forte calo rispetto al 2009, quando dal Passaggio a nord-est transitarono 71 convogli navali, 25 dei quali verso Paesi diversi dalla Russia e che percorsero l’intera rotta artica Europa-Asia. Le difficoltà della rotta artica russa sono dovute in parte al forte calo del prezzo delle materie prime: «Quando questi prezzi scendono – spiega ancora Digges – gli spedizionieri accumulano le loro merci sulle  navi più grandi»,

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preferendo non utilizzare navi più piccole a causa della corazza necessaria per passare indenni lungo la rotta artica. Poi c’è il prezzo del gas: dato che è in calo, nel 2016 un minor numero di spedizionieri ha rinunciato a rifornirsi con navi gasiere utilizzando la rotta artica, anche perché i risparmi sarebbero stati annullati dagli elevati costi dei rompighiaccio necessari per aprire la rotta ai convogli navali. Bellona è convinta che, anche se i i prezzi delle materie prime e di gas e petrolio dovessero aumentare, la Russia punta sempre meno a realizzare un super strada marittima internazionale che unisca Asia ed Europa  e che si concentrerà sempre di più nella trivellazione di gas e petrolio e nella costruzione delle infrastrutture necessarie per trasportarli. Infatti, per quando i nuovi rompighiaccio nucleari entreranno in servizio, Atomflot ha già pronti i  contratti per il gigantesco giacimento di gas di Yamal, la stessa area  dove, per i prossimi 20 anni,  sono già impegnati anche i rompighiaccio russi già disponibili, che secondo gli immaginifici viceministri russi dovrebbero scortare i cargo internazionali. Inoltre, il rapporto “Are the norther sea routes really the shortes” del Danish institute for international studies, mette in discussione il fatto che la rotta antartica russa sia  effettivamente più veloce: per percorrerla ci vorrebbe lo stesso tempo, se non di più, che passando dal Canale di Suez. Quindi, nonostante il cambiamento climatico che piace tanto a Putin e Trump, le navi che passeranno attraverso la Northern Sea Route per raggiungere la Cina continueranno ad essere lente, che la Russia riesca o meno a costruire i suoi rompighiaccio nucleari.

www.auto.it 06 Apr, 10:18Auto a metano, in Italia superato il milione di esemplari

Il parco circolante di auto ametanoin Italia ha superato il milione di unità. E' il più grande d'Europa.  Lo storico traguardo, è il caso di dirlo, è stato raggiunto nel 2016. Quando i veicoli ametanoin circolazione in Italia si sono attestati, per la precisione, a quota 1.005.809. Questo numero nel nostro Paese ha sperimentato una forte crescita negli ultimi anni, passando dalle 723.000 unità del 2010 a superare quota 1 milione di unità nel 2016, con un aumento percentuale del 38,9%. Tale crescita (che emerge da un’elaborazione dell’Osservatorio Federmetano, struttura di ricerca sulmetanoper autotrazione, sulla base di dati Aci) ha però subìto un forte rallentamento negli ultimi due anni, in cui le immatricolazioni di nuovi veicoli ametanosono molto diminuite. E’ per questo che, aprendo i lavori di un workshop sulle “Evoluzione normative del mondo delmetano”, organizzato da Federmetano in occasione di EnergyMed, la presidente di Federmetano Licia Balboni ha voluto ribadire l’importanza strategica delgasnaturalesia per raggiungere gli obiettivi che il nostro Paese si è posto in termini di riduzione dell’impatto ambientale dei trasporti su strada sia perché il settore delmetanoper autotrazione rappresenta un fiore all’occhiello per l’economia italiana che esporta i suoi prodotti in tutto il mondo. Dopo aver ricordato che il 2018 sarà un anno speciale per Federmetano, che festeggerà i 70 anni di attività, Licia Balboni ha affermato che “almetanodeve essere riservata maggiore attenzione, sia nelle sedi istituzionali sia da parte dei media. Per sostenere l’intero comparto, Federmetano ha fatto proposte precise per l’aggiornamento della Strategia Energetica Nazionale, come il mantenimento degli attuali livelli di accisa; la promozione di misure per indicizzare lo sviluppo della rete di CNG e di LNG in aree in cui è carente; modifiche normative per la variazione dei regime penali (CG), per la flessibilizzazione del conferimento della capacità di trasporto, per la semplificazione e la velocizzazione dell’allaccio ai metanodotti e modifiche della tariffa di accesso alla rete di distribuzione; l’armonizzazione delle norme regionali in materia di tassa automobilistica”. Dopo l’intervento di Licia Balboni, il workshop “Evoluzione normative del mondo delmetano” è proseguito con la relazione di Giuseppe Fedele, vice presidente di Federmetano, focalizzata sul trasporto extra rete del biometano. A seguire vi sono stati gli interventi di Aldo Bernardini (di Ham Italia) sulla distribuzione delGNLin Italia, e poi di Enrico Franciosi, responsabile del comparto officine di Federmetano, su “officine, trasformazioni in aftermarket e riqualificazione

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dei serbatoi di CNG4”.

www.agenzianova.com 06 Apr, 11:49Energia: sussidiaria di Gazprom firma accordo con l'Uzbekistan per l'acquisto di gas | Agenzia Nova

Mosca, 06 apr 11:14 - (Agenzia Nova) - La russa Gazprom ha firmato un contratto di cinque anni con l'Uzbekistan per l'acquisto digasnaturale. È quanto si apprende da un rapporto della società russa. "Il presidente del Consiglio di amministrazione di Gazprom, Aleksej Miller, e il vice primo ministro della Repubblica dell'Uzbekistan, Gulomjon Ibragimov, hanno chiuso un contratto per l'acquisto da parte di Gazprom di gas uzbeko. Il documento prevede l'acquisto di 4 miliardi di metri cubi di gas all'anno per un massimo di cinque anni a partire dal 2018", si legge nel un comunicato, ripreso dall'agenzia "Prime". La cerimonia della firma si è svolta a Mosca alla presenza del presidente russo Vladimir Putin e del Presidente della Repubblica dell'Uzbekistan, Shavkat Mirziioev. Alla fine di marzo Miller ha annunciato che Gazprom aveva concordato con l'Uzbekistan un contratto quinquennale per l'acquisto digasnaturalenel paese. Stando all'agenzia di stampa russa "Rbk", l'accordo prevede la cooperazione tra Gazprom e Uzbekneftegaz per l'esplorazione e per i lavori ingegneristici, oltre che per la formazione e la riqualificazione del personale. Inoltre, tra il ministero russo dell'Energia e Uzbekneftegaz è stato firmato un accordo quadro per la fornitura di 500 mila tonnellate di petrolio russo. (Rum) © Agenzia Nova - Riproduzione riservata

www.qualenergia.it 06 Apr, 12:05Economia circolare e inadeguatezza degli attuali strumenti per l’analisi dell’energia

Il tema dell’energia si svolge da decenni guidato da alcuni messaggi che evidenziano un aspetto molto evidente per il pubblico e che fanno da traino a tutto un bagaglio di dati, concetti, progetti e prospettive. Se riesamino la mia esperienza personale si è passati dal messaggio di autarchia dell’anteguerra, alla povertà degli anni ‘40, all’espansione dei consumi degli anni ‘50 e ‘60, alla crisi dei rifornimenti degli anni ‘70, agli interventi dimostrativi degli anni ‘80, alle potenzialità delle rinnovabili degli anni ‘90, all’allarme sul clima globale degli anni 2000 e poi alla necessità di valutare la sostenibilità delle scelte nel decennio attuale. Il messaggio di oggi presenta la necessità e le potenzialità di una “economia circolare” di tutte le risorse, compresa anche l’energia. Sono questi degli slogan facili da orecchiare, solo in parte capaci di riassumere e sintetizzare la complessità dei vincoli della natura e dei desideri delle persone.  Se ricordiamo però che in un sistema chiuso l’energia utilizzata non si distrugge, ma evolve in forme sempre meno utilizzabili, con l’entropia sempre crescente, ci si rende facilmente conto che è velleitario cercare di affrontare le nuove sfide avendo come strumenti quantitativi e qualitativi sempre e solo i vecchi corredi di dati e di interpretazioni dei fatti che usavamo quando l’economia e la società erano molto più parcellizzate in tante monadi indipendenti, quali erano i vecchi Stati nazionali. L’individuazione e l’organizzazione di strumenti interpretativi adeguati a comprendere e governare la transizione è una operazione complessa e costosa ed è ostacolata dal tentativo delle strutture esistenti di partecipare all’evoluzione mantenendo ruoli e poteri. A partire dal 2000 la UE ha programmato una serie di interventi per il controllo dei cambiamenti climatici basati sulla decarbonizzazione dell’energia attraverso tre principali direttive: la valorizzazione di fonti energetiche rinnovabili la penalizzazione dell’uso di combustibili fossili la riduzione della domanda di fonti energetiche attraverso il miglioramento dell’efficienza nel loro impiego. Il primo tema ha prodotto impegni precisi con obblighi per ogni paese, ugualmente anche il terzo obiettivo ha prodotto impegni precisi anche se senza obblighi, accompagnati da meccanismi incentivanti, in

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Italia i TEE. Il secondo tema fu affrontato all’inizio degli anni 2000, quando i consumi erano ancora in espansione, prima della crisi finanziaria della seconda metà del decennio; il meccanismo denominato “ETS”, Emissions Trading Scheme, prevedeva l’assegnazione iniziale di quote gratuite alle imprese grandi emettitrici, quote commerciabili per favorire interventi in impianti più obsoleti in paesi fuori UE. Le quote si sarebbero ridotte progressivamente con previsione di penalizzare i superi con penalità di 30-40 €/ton di CO2. Questo meccanismo, più complesso di una Carbon Tax diretta, ha perso la sua efficacia per la forte crisi dei consumi e per il livello troppo alto delle quote, per cui il valore commerciale della CO2 naviga da anni attorno ai 4-5 €/ton, livello del tutto insufficiente a produrre effetti sulle scelte delle imprese. Gli effetti della mancanza di una carbon tax efficace non sono importanti solo a livello di analisi strategica ma hanno una ricaduta diretta sulle tariffe pagate dai consumatori dei vari paesi UE. In Italia in particolare nel decennio 2004-2014 la generazione elettrica dalle “nuove” fonti rinnovabili, solare eolico e biomasse, è aumentata di circa 50 TWh, grazie agli incentivi a carico dei consumatori (dai circa 12 c€/kWh dei certificati verdi ai circa 30 c€/kWh del conto energia). Questa nuova produzione ha sostituito quasi tutta la generazione da prodotti petroliferi e parte della generazione dametano, mentre ha penalizzato solo marginalmente sia la generazione da carbone, sia le importazioni dall’estero. Infatti la generazione da carbone presentava, nel periodo, costi minori di qualche c€/kWh rispetto ai 5-6 c€ del prezzo di Borsa, così come i 45-50 TWh importati, prima delle chiusure di centrali francesi a fine 2016, da Francia (nucleare) e da Germania (lignite e carbone), godevano di un margine dello stesso ordine indicato dalle differenze di prezzi fra il mercato italiano e quelli di questi paesi. Come risultato globale si sono ridotte le emissioni di CO2 di circa 40 Mton, mentre sostituendo la generazione a carbone, almeno negli impianti meno recenti e meno efficienti, le emissioni sarebbero state ridotte di ulteriori 19 Mton, quasi il 50% di più. I consumatori civili e industriali hanno accettato di pagare costi, dell’ordine dei 12 miliardi/anno di € per l’impiego delle rinnovabili, mentre le imprese dell’industria dell’elettricità, in assenza di una tassazione efficace delle emissioni, hanno scelto di far funzionare gli impianti esistenti con i più bassi rendimenti anche se con le emissioni specifiche più elevate, marginalizzando così l’efficacia dell’impegno economico dei consumatori. Riconsiderando tutta la questione a distanza di un po’ di anni si può valutare che i consumatori hanno accettato di ridurre i loro consumi (sia per convinzione, sia grazie all’innovazione, sia infine per impossibilità di reagire), mentre le imprese, specie quelle energy intensive avevano la possibilità o di accettare le penalizzazioni riducendo la loro forza sul mercato mondiale, o reagire delocalizzandosi in altri paesi o infine chiudendo le attività. Questi temi non erano apertamente considerati nelle scelte della UE, pensando che fosse possibile condurre una funzione di leadership e di esempio per tutti gli altri paesi; le reazioni sono state lasciate agli stati membri. La Germania ha da subito separato il peso per i consumatori da quello per le imprese, promuovendo le rinnovabili, ma mantenendo lignite e carbone. L’Italia si è accorta del problema solo quando si è manifestata in tutta la sua gravità la crisi della nostra manifattura, con reazioni per ora limitate. Un altro esempio della inadeguatezza degli strumenti attualmente esistenti per gestire la transizione, è quello dei bilanci energetici nazionali, quali il nostro B.E.N. con le sue convenzioni legate al contesto prevalentemente industriale degli anni ‘60, o quello Eurostat con le sue maggiori attenzione alle fonti rinnovabili termiche, al calore recuperato e al settore degli impieghi domestici. Questi bilanci nazionali mettono in ingresso sia le fonti fossili estratte nel paese o importate, sia quella parte di fonti rinnovabili interne utilizzate, valutandole sulla base dei vettori energetici generati. L’insieme delle fonti fossili e dei vettori energetici ottenuti dalle rinnovabili viene trasferito al settore dell’industria dell’energia; queste imprese gestiscono le trasformazioni nei vari vettori che distribuiscono agli utilizzatori finali, principalmente elettricità,metano, carburanti per il trasporto. Gli utilizzatori finali poi impiegano i vari vettori sia per servizi (quali il trasporto di persone e merci, il riscaldamento e l’illuminazione degli ambienti e anche la cura delle persone e l’intrattenimento culturale e del tempo libero), sia per la produzione di beni e infrastrutture. Questo schema rappresentava abbastanza bene la situazione nel primo dopoguerra, invece nella società globalizzata e in forte evoluzione

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organizzativa, attenta al clima globale e alla sostenibilità nell’uso delle risorse, si presenta fortemente inadeguato. Una carenza globale è costituita dalla mancata presa in conto, né dell’energia inglobata nei prodotti e nei servizi che sono importati, né di quella inglobata nei prodotti e servizi esportati. L’Italia è un paese quasi privo di materie prime quindi forzatamente trasformatore non solo per le produzioni meccaniche e chimiche, ma anche nel settore alimentare materie prime che importa e che rivende trasformate in prodotti a maggior valore aggiunto. Le attività industriali nel 1982 assorbivano il 38% dei consumi finali italiani, allora pari a 94,6 Mtep, nel 2015 esse si erano ridotte al 22% dei consumi finali saliti a 116 Mtep: c’è stato un spostamento dei consumi dall’industria ai servizi e ai trasporti, non tanto per il ben noto invecchiamento della popolazione, ma soprattutto per la delocalizzazione e/o chiusura di molte attività produttive labour intensive e energy intensive e a maggior ragione, aumento delle importazioni di prodotti e semilavorati con energia inglobata quali le automobili. Nello stesso periodo si sono ridotte le nostre esportazioni di prodotti con contenuto di metalli quali gli elettrodomestici bianchi, sostituite da esportazioni di prodotti quali moda e vini, a contenuto energetico molto più ridotto. Volendo quindi valutare il contributo italiano al consumo delle risorse, alla evoluzione del clima ed alla produzione di inquinanti a larga diffusione si dovrebbe tener conto anche delle lavorazioni fatte, al nostro servizio, in altri paesi. Quando queste lavorazioni avvengono in paesi con normativa, ambientale e di protezione dei lavoratori, meno stringente nasce anche un fenomeno di dumping ambientale e sociale che danneggia le nostre imprese. La scelta della UE di assumere una posizione di leader nel settore delle normative ambientali, finisce per danneggiare sia l’ambiente del globo sia le imprese europee meno in grado di spostarsi su produzioni a maggiore valore aggiunto. Appare necessario rivedere il meccanismo ETS, penalizzando anche l’energia inglobata nei prodotti importati, tema molto complesso e interconnesso con le mille facce della globalizzazione; indubbiamente questa ha fatto uscire uno-due miliardi di asiatici dal sottosviluppo ma alla fine non sarà un pranzo gratuito. La UE non ha ancora affrontato la questione che rischia di incancrenire nelle polemiche del populismo anti-unione e degli Stati sempre meno sovrani. Un’altra inadeguatezza deriva dall’interesse all’economia circolare. Gli schemi di bilancio energetico in atto conteggiano, a consuntivo, l’energia prelevata dalle risorse e trasferita ai consumi. L’attenzione alla conservazione delle risorse con lo sviluppo di una economia circolare porta a predisporre una possibilità di riconsiderare, come regola base, la modifica dei comportamenti, il riuso dei prodotti, il riciclo dei materiali, la valorizzazione energetica dei materiali a fine vita, con una serie di rimessa in circolo, dagli usi finali verso le risorse primarie. In alcuni casi più semplici, ad esempio per i “CSS”, i combustibili solidi secondari, prodotti dalle imprese di gestione dei rifiuti, è possibile usare lo schema tradizionale dei bilanci energetici, riportandoli in ingresso al paese, come una fonte primaria denominata “rifiuti non rinnovabili”; in molte altre situazioni il ricircolo avviene all’interno degli usi finali, riutilizzando i prodotti e le materie, oltre all’energia in esse inglobata, in modi difficilmente formalizzabili e documentabili, a seconda della qualità e regolarità del recupero.  L’Italia aveva una lunga tradizione di economia circolare con riuso delle materie prime in molti settori produttivi, tradizione in parte mantenuta. Le nostre imprese siderurgiche nel 2014, hanno prodotto 23,7 Mton di acciaio rifondendo circa 18 Mton di rottami e prodotti a fine vita. La produzione della carta è partita dal riciclaggio degli stracci di cotone, recupero oggi basato sulle raccolte differenziate dei rifiuti urbani, delle 9 Mton di carta prodotte nel 2012 ben 5,2 Mton originavano dal macero; nel vetro 2 Mton di involucri in vetro cavo hanno utilizzato 1,4 Mton di rottame; è invece scomparso il riciclaggio della lana dai vestiti usati, la “lana meccanica di Prato”. Queste quantità di energia non consumate, non sono prese in considerazione dai bilanci energetici redatti nei modi tradizionali, nonostante la UE abbia preso impegni non solo sulla valorizzazione di nuove fonti rinnovabili di energia, quantità generalmente ben misurabili, ma anche sulla riduzione dei consumi e sull’aumento dell’efficienza, parametri spesso meno definibili e fortemente interconnessi con il riciclo delle materie e il riuso dei prodotti. Invece abbiamo avuto molte difficoltà nell’affrontare nuove filiere di riciclo, per continui conflitti con le normative e le paure legate all’inquinamento. A

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partire dall’incidente di Seveso nel 1976 la produzione legislativa e l’attenzione delle popolazioni si è focalizzata sulla formalizzazione del concetto di rifiuto e la definizione delle relative responsabilità, finendo così il privilegiare la formalizzazione dello smaltimento come destinazione finale, rispetto al riuso o alla valorizzazione energetica. La complessità delle regole e della documentazione richiesta, insieme alla carenza di controlli non formali, finiscono per costituire quasi un alibi alle attività della criminalità organizzata, ben capace di muoversi in questo ginepraio. Abbiamo così una nuova “linea gotica” al nord della quale la quota non riciclabile di rifiuti urbani è valorizzata energeticamente per elettricità e teleriscaldamento, mentre a sud di questa linea una quota rilevante dei rifiuti urbani è spedita in inceneritori nordeuropei o in discariche di paesi meno fortunati o meno attenti, con spreco evidente di risorse e di potenziale occupazione qualificata. La situazione del trattamento dei reflui solidi e liquidi degli allevamenti animali non è molto diversa; impianti per biogas da una parte, spandimenti non sempre oculati dall’altra. Le attività manifatturiere italiane, caratterizzate da una larghissima presenza di PMI, con forte specializzazione produttiva in piccole unità disperse nel territorio, richiedono che gli scarti e i residui delle attività principali escano dal recinto dell’azienda per entrare in quello di un’altra azienda; in questo passaggio sul suolo pubblico si formalizza il carattere di rifiuto, sia pure non pericoloso, con tutto il suo carico di vincoli e di norme anche penali. Ben diversa è la situazione dei grandi complessi industriali nordeuropei dove tutte le lavorazioni e le trasformazioni avvengono all’interno della recinzione senza nessun formalizzazione di rifiuto. Solo alla fine del 2016 è stato emesso dal MATT il decreto sulle materie seconde, atteso da anni. Il decreto individua una moltitudine di flussi di materiali, specie nelle aziende agricole e nelle aziende del settore alimentare, indicando come si può formalizzare il loro stato di materie seconde, il loro trasporto e il loro utilizzo. Basti citare due esempi. Ci sono ogni anno milioni di tonnellate di rami e ramaglie, derivate dalle potature dei viali alberati nelle città, che non dovranno più essere inviate, pagando i costi dello smaltimento, agli impianti di compostaggio, ma potranno essere vendute alle aziende di teleriscaldamento. Ugualmente il sangue raccolto nei mattatoi non dovrà più essere inviato allo smaltimento per la trasformazione in farine animali da usare poi come CSS, potrà essere direttamente venduto a digestori dei reflui degli allevamenti per la produzione di biogas.

www.autoblog.it 06 Apr, 12:39Fiat 500 elettrica: come si trasforma

Fiat 500 elettrica: come si trasforma Di Paolo Sperati giovedì 6 aprile 2017 La Fiat 500 elettrica torna in auge grazie al decreto Retrofit e alla proposta di Officine Ruggenti. Quando si parla di Fiat 500 elettrica viene in mente il modellino di auto per bambini o quella in vendita negli Stati Uniti, resa famosa dalla celebre battuta di Sergio Marchionne: "Spero che non compriate una Fiat 500 elettrica, perché ogni volta che ne vendo una perdo 14.000 dollari". Era il maggio 2014 e l’ad di FCA si riferiva a quanto fosse antieconomico produrre auto elettriche visto che le leggi di alcuni stati degli USA impongono ai costruttori una percentuale di vendite a zero emissioni. Nel frattempo la visione di Marchionne e del costruttore è cambiata anche se nel nostro Paese della Fiat 500 elettrica continua a non esserci traccia se non in un car sharing di Torino e una vendita in Italia non è mai stata in programma. Ciò nonostante, tra qualche anno potrebbero essere migliaia le icone di casa Fiat a zero emissioni sulle strade italiane. Come? Grazie al decreto Retrofit, in vigore dal 1 gennaio 2016, secondo cui tutte le auto possono essere trasformate in elettriche senza la necessità di una nuova omologazione. Basta sostituire l'originale motore endotermico con un propulsore elettrico e aggiungere le batterie, con un peso della vettura che può variare al massimo del 10% rispetto a quello originale. Tra i player del settore punta in alto Officine Ruggenti, progetto presentato al Fuorisalone della Milano Design Week 2017. Insieme all’azienda italiana Newtron Engineering, produttore di kit retrofit omologati a livello europeo, la start-up milanese punta a diventare il primo atelier italiano di motori

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che restaura e trasforma in auto elettrica qualunque vettura storica. Come dimostra la Fiat 500 elettrica del 1963, arrivata alla presentazione in 5 esemplari. Grazie a una batteria di 15 kWh, l’azienda assicura fino a 150 km di autonomia ma è possibile montarne anche una più piccola (fino a 7,5 kWh) con autonomie chiaramente più contenute. Per avere una Fiat 500 elettrica d’epoc achiavi in mano bisogna investire almeno 13.000 euro anche se esiste una formula a noleggio che contiene i costi. Officine Ruggenti propone anche city car elettriche in piccola serie con un listino che parte da 23.500 euro più IVA. Presto il progetto sarà allargato anche alle auto moderne con dei kit disponibili sulle vetture di nuova immatricolazione, simile a quanto avviene attualmente per le trasformazioni di auto aGPLe ametano. Sarà interessante capire se il kit di elettrificazione sarà più conveniente, affidabile, pratico e duraturo rispetto a un’auto elettrica progettata e prodotta dalla casa. Chissà se Renault Zoe, Nissan Leaf, BMW i3 e smart dovranno fronteggiarsi anche con la Fiat 500 elettrica, che sia d’epoca, usata o di ultima generazione. Ai posteri l’ardua sentenza.

m.qualenergia.it 06 Apr, 12:50Economia circolare e inadeguatezza degli attuali strumenti per l’analisi dell’energia

Giuseppe Tomassetti Oggi si parla di necessità e delle potenzialità di una “economia circolare” di tutte le risorse, compresa anche l’energia. Ma nella realtà questa nuova e complessa sfida manca di strumenti quantitativi e qualitativi e se ci sono sono spesso superati. Un articolo di Giuseppe Tomassetti di FIRE. Immagine Banner:  Il tema dell’energia si svolge da decenni guidato da alcuni messaggi che evidenziano un aspetto molto evidente per il pubblico e che fanno da traino a tutto un bagaglio di dati, concetti, progetti e prospettive. Se riesamino la mia esperienza personale si è passati dal messaggio di autarchia dell’anteguerra, alla povertà degli anni ‘40, all’espansione dei consumi degli anni ‘50 e ‘60, alla crisi dei rifornimenti degli anni ‘70, agli interventi dimostrativi degli anni ‘80, alle potenzialità delle rinnovabili degli anni ‘90, all’allarme sul clima globale degli anni 2000 e poi alla necessità di valutare la sostenibilità delle scelte nel decennio attuale. Il messaggio di oggi presenta la necessità e le potenzialità di una “economia circolare” di tutte le risorse, compresa anche l’energia. Sono questi degli slogan facili da orecchiare, solo in parte capaci di riassumere e sintetizzare la complessità dei vincoli della natura e dei desideri delle persone.  Se ricordiamo però che in un sistema chiuso l’energia utilizzata non si distrugge, ma evolve in forme sempre meno utilizzabili, con l’entropia sempre crescente, ci si rende facilmente conto che è velleitario cercare di affrontare le nuove sfide avendo come strumenti quantitativi e qualitativi sempre e solo i vecchi corredi di dati e di interpretazioni dei fatti che usavamo quando l’economia e la società erano molto più parcellizzate in tante monadi indipendenti, quali erano i vecchi Stati nazionali. L’individuazione e l’organizzazione di strumenti interpretativi adeguati a comprendere e governare la transizione è una operazione complessa e costosa ed è ostacolata dal tentativo delle strutture esistenti di partecipare all’evoluzione mantenendo ruoli e poteri. A partire dal 2000 la UE ha programmato una serie di interventi per il controllo dei cambiamenti climatici basati sulla decarbonizzazione dell’energia attraverso tre principali direttive: la valorizzazione di fonti energetiche rinnovabili la penalizzazione dell’uso di combustibili fossili la riduzione della domanda di fonti energetiche attraverso il miglioramento dell’efficienza nel loro impiego. Il primo tema ha prodotto impegni precisi con obblighi per ogni paese, ugualmente anche il terzo obiettivo ha prodotto impegni precisi anche se senza obblighi, accompagnati da meccanismi incentivanti, in Italia i TEE. Il secondo tema fu affrontato all’inizio degli anni 2000, quando i consumi erano ancora in espansione, prima della crisi finanziaria della seconda metà del decennio; il meccanismo denominato “ETS”, Emissions Trading Scheme, prevedeva l’assegnazione iniziale di quote gratuite alle imprese grandi emettitrici, quote commerciabili per favorire interventi in impianti più obsoleti in paesi fuori UE. Le quote si sarebbero ridotte progressivamente con previsione di penalizzare i superi con penalità di 30-40

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€/ton di CO2. Questo meccanismo, più complesso di una Carbon Tax diretta, ha perso la sua efficacia per la forte crisi dei consumi e per il livello troppo alto delle quote, per cui il valore commerciale della CO2 naviga da anni attorno ai 4-5 €/ton, livello del tutto insufficiente a produrre effetti sulle scelte delle imprese. Gli effetti della mancanza di una carbon tax efficace non sono importanti solo a livello di analisi strategica ma hanno una ricaduta diretta sulle tariffe pagate dai consumatori dei vari paesi UE. In Italia in particolare nel decennio 2004-2014 la generazione elettrica dalle “nuove” fonti rinnovabili, solare eolico e biomasse, è aumentata di circa 50 TWh, grazie agli incentivi a carico dei consumatori (dai circa 12 c€/kWh dei certificati verdi ai circa 30 c€/kWh del conto energia). Questa nuova produzione ha sostituito quasi tutta la generazione da prodotti petroliferi e parte della generazione dametano, mentre ha penalizzato solo marginalmente sia la generazione da carbone, sia le importazioni dall’estero. Infatti la generazione da carbone presentava, nel periodo, costi minori di qualche c€/kWh rispetto ai 5-6 c€ del prezzo di Borsa, così come i 45-50 TWh importati, prima delle chiusure di centrali francesi a fine 2016, da Francia (nucleare) e da Germania (lignite e carbone), godevano di un margine dello stesso ordine indicato dalle differenze di prezzi fra il mercato italiano e quelli di questi paesi. Come risultato globale si sono ridotte le emissioni di CO2 di circa 40 Mton, mentre sostituendo la generazione a carbone, almeno negli impianti meno recenti e meno efficienti, le emissioni sarebbero state ridotte di ulteriori 19 Mton, quasi il 50% di più. I consumatori civili e industriali hanno accettato di pagare costi, dell’ordine dei 12 miliardi/anno di € per l’impiego delle rinnovabili, mentre le imprese dell’industria dell’elettricità, in assenza di una tassazione efficace delle emissioni, hanno scelto di far funzionare gli impianti esistenti con i più bassi rendimenti anche se con le emissioni specifiche più elevate, marginalizzando così l’efficacia dell’impegno economico dei consumatori. Riconsiderando tutta la questione a distanza di un po’ di anni si può valutare che i consumatori hanno accettato di ridurre i loro consumi (sia per convinzione, sia grazie all’innovazione, sia infine per impossibilità di reagire), mentre le imprese, specie quelle energy intensive avevano la possibilità o di accettare le penalizzazioni riducendo la loro forza sul mercato mondiale, o reagire delocalizzandosi in altri paesi o infine chiudendo le attività. Questi temi non erano apertamente considerati nelle scelte della UE, pensando che fosse possibile condurre una funzione di leadership e di esempio per tutti gli altri paesi; le reazioni sono state lasciate agli stati membri. La Germania ha da subito separato il peso per i consumatori da quello per le imprese, promuovendo le rinnovabili, ma mantenendo lignite e carbone. L’Italia si è accorta del problema solo quando si è manifestata in tutta la sua gravità la crisi della nostra manifattura, con reazioni per ora limitate. Un altro esempio della inadeguatezza degli strumenti attualmente esistenti per gestire la transizione, è quello dei bilanci energetici nazionali, quali il nostro B.E.N. con le sue convenzioni legate al contesto prevalentemente industriale degli anni ‘60, o quello Eurostat con le sue maggiori attenzione alle fonti rinnovabili termiche, al calore recuperato e al settore degli impieghi domestici. Questi bilanci nazionali mettono in ingresso sia le fonti fossili estratte nel paese o importate, sia quella parte di fonti rinnovabili interne utilizzate, valutandole sulla base dei vettori energetici generati. L’insieme delle fonti fossili e dei vettori energetici ottenuti dalle rinnovabili viene trasferito al settore dell’industria dell’energia; queste imprese gestiscono le trasformazioni nei vari vettori che distribuiscono agli utilizzatori finali, principalmente elettricità,metano, carburanti per il trasporto. Gli utilizzatori finali poi impiegano i vari vettori sia per servizi (quali il trasporto di persone e merci, il riscaldamento e l’illuminazione degli ambienti e anche la cura delle persone e l’intrattenimento culturale e del tempo libero), sia per la produzione di beni e infrastrutture. Questo schema rappresentava abbastanza bene la situazione nel primo dopoguerra, invece nella società globalizzata e in forte evoluzione organizzativa, attenta al clima globale e alla sostenibilità nell’uso delle risorse, si presenta fortemente inadeguato. Una carenza globale è costituita dalla mancata presa in conto, né dell’energia inglobata nei prodotti e nei servizi che sono importati, né di quella inglobata nei prodotti e servizi esportati. L’Italia è un paese quasi privo di materie prime quindi forzatamente trasformatore non solo per le produzioni meccaniche e chimiche, ma anche nel settore alimentare

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materie prime che importa e che rivende trasformate in prodotti a maggior valore aggiunto. Le attività industriali nel 1982 assorbivano il 38% dei consumi finali italiani, allora pari a 94,6 Mtep, nel 2015 esse si erano ridotte al 22% dei consumi finali saliti a 116 Mtep: c’è stato un spostamento dei consumi dall’industria ai servizi e ai trasporti, non tanto per il ben noto invecchiamento della popolazione, ma soprattutto per la delocalizzazione e/o chiusura di molte attività produttive labour intensive e energy intensive e a maggior ragione, aumento delle importazioni di prodotti e semilavorati con energia inglobata quali le automobili. Nello stesso periodo si sono ridotte le nostre esportazioni di prodotti con contenuto di metalli quali gli elettrodomestici bianchi, sostituite da esportazioni di prodotti quali moda e vini, a contenuto energetico molto più ridotto. Volendo quindi valutare il contributo italiano al consumo delle risorse, alla evoluzione del clima ed alla produzione di inquinanti a larga diffusione si dovrebbe tener conto anche delle lavorazioni fatte, al nostro servizio, in altri paesi. Quando queste lavorazioni avvengono in paesi con normativa, ambientale e di protezione dei lavoratori, meno stringente nasce anche un fenomeno di dumping ambientale e sociale che danneggia le nostre imprese. La scelta della UE di assumere una posizione di leader nel settore delle normative ambientali, finisce per danneggiare sia l’ambiente del globo sia le imprese europee meno in grado di spostarsi su produzioni a maggiore valore aggiunto. Appare necessario rivedere il meccanismo ETS, penalizzando anche l’energia inglobata nei prodotti importati, tema molto complesso e interconnesso con le mille facce della globalizzazione; indubbiamente questa ha fatto uscire uno-due miliardi di asiatici dal sottosviluppo ma alla fine non sarà un pranzo gratuito. La UE non ha ancora affrontato la questione che rischia di incancrenire nelle polemiche del populismo anti-unione e degli Stati sempre meno sovrani. Un’altra inadeguatezza deriva dall’interesse all’economia circolare. Gli schemi di bilancio energetico in atto conteggiano, a consuntivo, l’energia prelevata dalle risorse e trasferita ai consumi. L’attenzione alla conservazione delle risorse con lo sviluppo di una economia circolare porta a predisporre una possibilità di riconsiderare, come regola base, la modifica dei comportamenti, il riuso dei prodotti, il riciclo dei materiali, la valorizzazione energetica dei materiali a fine vita, con una serie di rimessa in circolo, dagli usi finali verso le risorse primarie. In alcuni casi più semplici, ad esempio per i “CSS”, i combustibili solidi secondari, prodotti dalle imprese di gestione dei rifiuti, è possibile usare lo schema tradizionale dei bilanci energetici, riportandoli in ingresso al paese, come una fonte primaria denominata “rifiuti non rinnovabili”; in molte altre situazioni il ricircolo avviene all’interno degli usi finali, riutilizzando i prodotti e le materie, oltre all’energia in esse inglobata, in modi difficilmente formalizzabili e documentabili, a seconda della qualità e regolarità del recupero.  L’Italia aveva una lunga tradizione di economia circolare con riuso delle materie prime in molti settori produttivi, tradizione in parte mantenuta. Le nostre imprese siderurgiche nel 2014, hanno prodotto 23,7 Mton di acciaio rifondendo circa 18 Mton di rottami e prodotti a fine vita. La produzione della carta è partita dal riciclaggio degli stracci di cotone, recupero oggi basato sulle raccolte differenziate dei rifiuti urbani, delle 9 Mton di carta prodotte nel 2012 ben 5,2 Mton originavano dal macero; nel vetro 2 Mton di involucri in vetro cavo hanno utilizzato 1,4 Mton di rottame; è invece scomparso il riciclaggio della lana dai vestiti usati, la “lana meccanica di Prato”. Queste quantità di energia non consumate, non sono prese in considerazione dai bilanci energetici redatti nei modi tradizionali, nonostante la UE abbia preso impegni non solo sulla valorizzazione di nuove fonti rinnovabili di energia, quantità generalmente ben misurabili, ma anche sulla riduzione dei consumi e sull’aumento dell’efficienza, parametri spesso meno definibili e fortemente interconnessi con il riciclo delle materie e il riuso dei prodotti. Invece abbiamo avuto molte difficoltà nell’affrontare nuove filiere di riciclo, per continui conflitti con le normative e le paure legate all’inquinamento. A partire dall’incidente di Seveso nel 1976 la produzione legislativa e l’attenzione delle popolazioni si è focalizzata sulla formalizzazione del concetto di rifiuto e la definizione delle relative responsabilità, finendo così il privilegiare la formalizzazione dello smaltimento come destinazione finale, rispetto al riuso o alla valorizzazione energetica. La complessità delle regole e della documentazione richiesta, insieme alla carenza di controlli non formali, finiscono per costituire

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quasi un alibi alle attività della criminalità organizzata, ben capace di muoversi in questo ginepraio. Abbiamo così una nuova “linea gotica” al nord della quale la quota non riciclabile di rifiuti urbani è valorizzata energeticamente per elettricità e teleriscaldamento, mentre a sud di questa linea una quota rilevante dei rifiuti urbani è spedita in inceneritori nordeuropei o in discariche di paesi meno fortunati o meno attenti, con spreco evidente di risorse e di potenziale occupazione qualificata. La situazione del trattamento dei reflui solidi e liquidi degli allevamenti animali non è molto diversa; impianti per biogas da una parte, spandimenti non sempre oculati dall’altra. Le attività manifatturiere italiane, caratterizzate da una larghissima presenza di PMI, con forte specializzazione produttiva in piccole unità disperse nel territorio, richiedono che gli scarti e i residui delle attività principali escano dal recinto dell’azienda per entrare in quello di un’altra azienda; in questo passaggio sul suolo pubblico si formalizza il carattere di rifiuto, sia pure non pericoloso, con tutto il suo carico di vincoli e di norme anche penali. Ben diversa è la situazione dei grandi complessi industriali nordeuropei dove tutte le lavorazioni e le trasformazioni avvengono all’interno della recinzione senza nessun formalizzazione di rifiuto. Solo alla fine del 2016 è stato emesso dal MATT il decreto sulle materie seconde, atteso da anni. Il decreto individua una moltitudine di flussi di materiali, specie nelle aziende agricole e nelle aziende del settore alimentare, indicando come si può formalizzare il loro stato di materie seconde, il loro trasporto e il loro utilizzo. Basti citare due esempi. Ci sono ogni anno milioni di tonnellate di rami e ramaglie, derivate dalle potature dei viali alberati nelle città, che non dovranno più essere inviate, pagando i costi dello smaltimento, agli impianti di compostaggio, ma potranno essere vendute alle aziende di teleriscaldamento. Ugualmente il sangue raccolto nei mattatoi non dovrà più essere inviato allo smaltimento per la trasformazione in farine animali da usare poi come CSS, potrà essere direttamente venduto a digestori dei reflui degli allevamenti per la produzione di biogas. Contenuto Riservato Riservato:  OFF Contenuto a Pagamento A Pagamento:  OFF

www.agenzianova.com 06 Apr, 14:37Speciale energia: Bulgaria, governo critico su speculazioni politiche in merito a prezzi del gas | Agenzia Nova

Sofia, 06 apr 14:30 - (Agenzia Nova) - Speculare sulle scelte energetiche della Bulgaria per fini politici è pericoloso. Questa la posizione espressa dal governo di transizione bulgaro, in una nota pubblicata sul sito del Consiglio dei ministri di Sofia, in riferimento alle critiche emerse nelle scorse settimane sui prezzi del gas nel paese. “Ogni tentativo di ottenere guadagni politici dalla questione crea un pericolo per la sicurezza del sistema energetico nazionale e per le aziende che operano nel settore”, si legge nella nota. Il prezzo delgasnaturalein Bulgaria è determinato da un authority indipendente, la Commissione regolatoria per l’energia e l’acqua (Ewrc); i ministri e i governi non hanno il potere per influenzare i prezzi del gas o di interferire nel lavoro dell’authority. I membri della Ewrc sono scelti dall’Assemblea nazionale di Sofia. (Bus) © Agenzia Nova - Riproduzione riservata

www.allaguida.it 06 Apr, 14:59Auto GPL in vendita nel 2017 a meno di 20.000 Euro

Citroen C3 A voi la galleria fotografica che riporta tutte le Auto aGplin commercio nel 2017 a meno di 20.000 Euro. Se pensate che a questa cifra si trovino solamente citycar o comunque vetture di piccole dimensioni in listino con motorizzazione aGpl, vi sbagliate. C'è anche altro, tanto da poterci spingere fino al segmento dei SUV e Crossover di piccole e medie dimensioni. Indubbiamente ilGplè uno dei carburanti migliori se si vuole risparmiare sulle spese di gestione dell'auto per via del suo prezzo contenuto ed aver altresì un propulsore che rende in termini di

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prestazioni con consumi ridottissimi. I vantaggi delGplin termini economici quindi, sono senza dubbio forti, complici anche le Case automobilistiche che studiano e montano direttamente in fase di produzione gli impianti dedicati. Andiamo ora a scoprire tutte le auto aGpl2017 in vendita in commercio in Italia sotto i 20.000 Euro e scopriamo quali possono essere considerate le nuove migliori in arrivo.

www.rinnovabili.it 06 Apr, 17:11Biometano dagli scarti di cucina: un’alternativa pulita per i trasporti

  (Rinnovabili.it) – Per vincere la più importante sfida del nostro secolo, cioè limitare l’incremento della temperatura globale per prevenire gli effetti catastrofici del cambiamento climatico in atto, occorre assolutamente ridurre le emissioni di gas serra. Come fare? I dati sulle emissioni in Italia non sono recentissimi. Dall’ultimo rapporto dell’ISPRA pubblicato nel 2014 si evince che dal 1990 al 2012 le emissioni CO2 eq sono diminuite dell’11% passando da 435 a 387 milioni di tonnellate per la riduzione delle emissioni prodotte dal settore industriale. La CO2 proveniente dal settore trasporti – che rappresenta circa il 27,4 % del totale delle emissioni – è invece aumentata passando da 103 milioni di tonnellate del 1990 a 106 milioni di tonnellate nel 2012, di cui ben 98 provenienti dal trasporto su strada.   Le problematicità del settore trasporti sono anche evidenziate dal mancato raggiungimento degli obiettivi fissati nel Piano di Azione Nazionale per le Energie Rinnovabili redatto nel 2010 per attuare la della Direttiva 2009/98/CE. Infatti mentre il nostro Paese già nel 2014 ha superato l’obiettivo, fissato per il 2020, di ricavare da fonti di energia rinnovabili il 17% del fabbisogno nazionale nel settore trasporti non è stato raggiunto il target minimo fissato nel 2014 al 5,98%, ci si è infatti attestati al 4,5%. Il ritardo è ancora maggiore rispetto al 2020 con circa 5,6 punti in meno. In sintesi – pur avendo ridotto le emissioni complessive – il settore trasporti continua ad essere quello che impatta maggiormente anche per il minor apporto di energia da fonti rinnovabili. Una delle soluzioni possibili è intervenire sull’alimentazione degli automezzi, incentivando l’uso di biocarburanti con ridotte emissioni di gas serra al posto dei carburanti di origine fossile. Non tutti i biocarburanti hanno però lo stesso impatto: il biometano riduce dell’80% le emissioni di gas a effetto serra, non genera emissioni di composti tossici e cancerogeni né di polveri fini ed è il più economico. L’Italia ha un’ottima rete di distribuzione delmetanoper auto, è infatti il primo paese europeo in Europa con 1.164 impianti attivi, e  circolano già circa 800.000 auto ametanoquindi il suo utilizzo è facilitato e contribuirebbe alla riduzione dell’approvvigionamento dimetanoda altri Paesi.     Un ulteriore vantaggio rispetto a biocarburanti come il biodiesel o il bioetanolo è che il biometano può essere usato liquido al 100% quindi non dev’essere miscelato con i carburanti classici. Ovviamente è possibile anche il “dual fuel”, cioè il sistema di alimentazione combinato biometano-gasolio.   Il biometano può derivare sia dalla Frazione Organica dei Rifiuti Solidi Urbani (FORSU) che da altri scarti di origine organica come fanghi provenienti dalla depurazione delle acque reflue urbane,  residui agricoli ed effluenti zootecnici, attraverso la digestione anaerobica un processo biologico per mezzo del quale, in assenza di ossigeno, la sostanza organica viene trasformata in biogas costituito principalmente da biometano. Nella composizione merceologica dei rifiuti urbani la frazione organica (umido + verde) rappresenta il 35%, nel 2015 ne sono state prodotte circa 170 kg/abitante e di questi circa 100 kg/abitante – pari a 6.071.510 tonnellate – sono stati raccolti in maniera differenziata (dati fonte Ispra). Ad oggi la maggior parte della FORSU proveniente dalla raccolta differenziata è conferita in 201 impianti di compostaggio aerobico per la produzione di solo compost mentre ci sono solo 20 impianti dedicati alla sola digestione anaerobica che però producono quasi esclusivamente biogas usato per la produzione di energia elettrica.  Da 1 tonnellata di FORSU si possono ricavare circa 70 kg di biometano (95 mc) che permetterebbero a un’utilitaria ametanodi percorrere circa 1.000 km. Abbiamo quindi a disposizione una fonte di materia rinnovabile che potrebbe produrre – considerando la sola

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quantità di organico proveniente dalla raccolta differenziata – circa 576.792.500 milioni di mc di biometano e chiuderebbe in maniera efficiente il ciclo rifiuti in linea con i  principi dell’Economia Circolare. Si aggiunge poi il biogas da effluenti zootecnici, residui agricoli e agroindustriali, colture energetiche e dai fanghi di depurazione proveniente da 1.924 piccoli impianti e attualmente destinato alla produzione di  energia elettrica, ca. 1.400 MWe (fonte GSE).   Certo il biometano non può ancora soddisfare totalmente il fabbisogno dei circa 980 milioni di veicoli circolanti in Italia poichè occorre agire su diversi piani come la riduzione del trasporto su gomma e l’incentivo all’uso del trasporto pubblico, ma il suo sfruttamento può sicuramente contribuire alla riduzione delle emissioni di CO2   L’Accordo sul clima di Parigi (COP 21) è stato un passo in avanti, ma occorre passare dalle strette di mano e dalle firme dei trattati alle azioni concrete, intervenendo su più fronti per andare verso una sostanziale riduzione della dipendenza da fonti fossili, puntando a massimizzare l’uso di fonti energetiche rinnovabili. Purtroppo, quando si passa ai fatti spuntano i soliti problemi di carattere normativo. In Italia il Decreto Ministeriale 5 dicembre 2013, detto “Decreto Biometano”, che norma operativamente le modalità di incentivazione alla produzione del biometano, non ha funzionato per diversi motivi. Ora, dopo la fase di consultazione, durata dal 13 dicembre 2016 al 13 gennaio 2017, si attende la pubblicazione del nuovo “Decreto Biometano bis”, che dovrebbe contenere semplificazioni e interessanti novità volte ad agevolarne e incentivarne l’uso. Speriamo sia la volta buona.   di Ing. Francesco Sicilia – www.francescosicilia.it

www.allaguida.it 06 Apr, 18:52Auto a Gpl più economiche 2017: le migliori a meno di 20.000 Euro [FOTO]

Auto aGplpiù economiche 2017 a meno di 20.000 Euro. Se pensate che a questa cifra si trovino solamente citycar o comunque vetture di piccole dimensioni in listino con motorizzazione aGpl, vi sbagliate. C’è anche altro, tanto da poterci spingere fino al segmento dei SUV e Crossover di piccole e medie dimensioni. Indubbiamente ilGplè uno dei carburanti migliori se si vuole risparmiare sulle spese di gestione dell’auto per via del suo prezzo contenuto ed aver altresì un propulsore che rende in termini di prestazioni con consumi ridottissimi. I vantaggi delGplin termini economici quindi, sono senza dubbio forti, complici anche le Case automobilistiche che studiano e montano direttamente in fase di produzione gli impianti dedicati. Andiamo ora a scoprire tutte le auto aGpl2017 in vendita in commercio in Italia sotto i 20.000 Euro e scopriamo quali possono essere considerate le migliori nel rapporto qualità prezzo in arrivo. Citroen C3 1.2 PureTech 82 cavalli Feel 15.750 Euro Citroen C3 1.2 PureTech 82 cavalli Shine 17.000 Euro Dacia Sandero 0.9 TCe 90 cavalli Ambiance 9.850 Euro Dacia Sandero 0.9 TCe 90 cavalli Lauréate 11.150 Euro Dacia Sandero Stepway 0.9 TCe 90 cavalli 12.450 Euro Dacia Logan MCV 0.9 TCe 90 cavalli Ambiance 11.100 Euro Dacia Logan MCV 0.9 TCe 90 cavalli Lauréate 12.400 Euro Dacia Dokker 1.6 102 cavalli Ambiance 11.500 Euro Dacia Dokker 1.6 102 cavalli Lauréate 12.800 Euro Dacia Lodgy 1.6 102 cavalli Ambiance 11.600 Euro Dacia Lodgy 1.6 102 cavalli Lauréate 13.100 Euro Dacia Lodgy 1.6 102 cavalli Prestige 14.400 Euro Dacia Duster 1.6 114 cavalli Ambiance 4×2 12.700 Euro Dacia Duster 1.6 114 cavalli Lauréate 4×2 14.200 Euro Dacia Duster 1.6 114 cavalli Black Shadow 4×2 15.100 Euro Fiat Panda 1.2 EasyPower 69 cavalli Easy 14.050 Euro Fiat Panda 1.2 EasyPower 69 cavalli Pandazzurri 14.600 Euro Fiat Panda 1.2 EasyPower 69 cavalli Lounge 15.150 Euro Fiat 500 1.2 EasyPower 69 cavalli Pop 15.350 Euro Fiat 500 1.2 EasyPower 69 cavalli Lounge 16.850 Euro Fiat Punto 1.4 EasyPower 77 cavalli Street 16.300 Euro Fiat Punto 1.4 EasyPower 77 cavalli Lounge 17.300 Euro Fiat Tipo 1.4 T-Jet 120 cavalli Easy 17.800 Euro Fiat Tipo 1.4 T-Jet 120 cavalli Lounge 19.200 Euro Fiat Tipo 5 porte 1.4 T-Jet 120 cavalli Pop 18.500 Euro Fiat Tipo 5 porte 1.4 T-Jet 120 cavalli Easy 19.200 Euro Fiat Tipo Station Wagon 1.4 T-Jet 120 cavalli Pop 19.700 Euro Ford Fiesta 1.4 16V 95 cavalli Plus 3p 14.250 Euro Ford Fiesta 1.4 16V 95 cavalli Business 3p 15.750 Euro Ford Fiesta 1.4 16V 95 cavalli Titanium 3p 15.750 Euro Ford

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B-Max 1.4 87 cavalli Plus 18.750 Euro Ford B-Max 1.4 87 cavalli Business 19.550 Euro Hyundai i10 1.0 Econext 67 cavalli Classic 12.100 Euro Hyundai i10 1.0 Econext 67 cavalli Comfort 13.700 Euro Hyundai i10 1.0 Econext 67 cavalli Login 14.300 Euro Hyundai i20 1.2 Econext 73 cavalli Classic 15.450 Euro Hyundai i20 1.2 Econext 83 cavalli Comfort 17.250 Euro Hyundai ix20 1.4 Econext 88 cavalli Classic 18.200 Euro Hyundai ix20 1.4 Econext 88 cavalli Comfort 19.250 Euro Kia Picanto 1.0 eco 67 cavalli City 11.550 Euro Kia Picanto 1.0 eco 67 cavalli Active 12.050 Euro Kia Picanto 1.0 eco 67 cavalli Active Collection 12.050 Euro Kia Picanto 1.0 eco 67 cavalli Glam 13.050 Euro Kia Picanto 1.0 eco 67 cavalli Glam Collection 13.050 Euro Kia Rio 1.2 eco 83 cavalli City 14.100 Euro Kia Rio 1.2 eco 83 cavalli Active 14.600 Euro Kia Rio 1.2 eco 83 cavalli Active Collection 15.000 Euro Kia Rio 1.2 eco 83 cavalli Cool 16.100 Euro Kia Venga 1.4 eco 90 cavalli Active 17.750 Euro Kia Venga 1.4 eco 90 cavalli Cool 18.950 Euro Lancia Ypsilon 1.2 Ecochic 69 cavalli Silver 15.100 Euro Lancia Ypsilon 1.2 Ecochic 69 cavalli Gold 16.400 Euro Lancia Ypsilon 1.2 Ecochic 69 cavalli Mya 17.400 Euro Lancia Ypsilon 1.2 Ecochic 69 cavalli Platinum 18.700 Euro Mitsubishi Space Star 1.0 bi-fuel 71 cavalli Invite 14.140 Euro Mitsubishi Space Star 1.0 bi-fuel 71 cavalli Intense ClearTec 17.100 Euro Nissan Note 1.2 76 cavalli Visia 15.150 Euro Nissan Note 1.2 76 cavalli Comfort 16.450 Euro Nissan Note 1.2 76 cavalli Acenta 17.150 Euro Nissan Note 1.2 76 cavalli Acenta Plus 17.965 Euro Nissan Juke 1.6 116 cavalli Visia 19.200 Euro Opel Karl 1.0Gpl-Tech 73 cavalli Advance 13.700 Euro Opel Karl 1.0Gpl-Tech 73 cavalli Innovation 15.000 Euro Opel Adam 1.4Gpl-Tech 87 cavalli Jam 15.200 Euro Opel Adam 1.4Gpl-Tech 87 cavalli Unlimited 15.600 Euro Opel Adam 1.4Gpl-Tech 87 cavalli Glam 16.350 Euro Opel Adam 1.4Gpl-Tech 87 cavalli Slam 16.350 Euro Opel Corsa 1.4Gpl-Tech 90 cavalli Advance 3p 15.350 Euro Opel Corsa 1.4Gpl-Tech 90 cavalli b-Color 3p 16.350 Euro Opel Corsa 1.4Gpl-Tech 90 cavalli Innovation 3p 16.350 Euro Peugeot 208 1.2 PureTech 82 cavalli Access 3p 14.550 Euro Peugeot 208 1.2 PureTech 82 cavalli Active 3p 15.950 Euro Peugeot 208 1.2 PureTech 82 cavalli Allure 3p 17.450 Euro Renault Clio 0.9 TCe 90 cavalli Life 15.350 Euro Renault Clio 0.9 TCe 90 cavalli Zen 16.850 Euro Ssangyong Tivoli 1.6 bi-fuel 128 cavalli Easy 2WD 19.900 Euro Suzuki Celerio 1.0 68 cavalli L 10.590 Euro Suzuki Celerio 1.0 68 cavalli Easy 12.090 Euro Suzuki Celerio 1.0 68 cavalli Country 12.890 Euro Suzuki Celerio 1.0 68 cavalli Style 13.090 Euro Suzuki Swift 1.2 VVT 94 cavalli B-Easy 3p 15.150 Euro Suzuki Swift 1.2 VVT 94 cavalli B-Cool 5p 16.550 Euro Suzuki Swift 1.2 VVT 94 cavalli B-Cool Bi-Color 5p 17.450 Euro Suzuki Swift 1.2 VVT 94 cavalli B-Unique 5p 19.350 Euro Suzuki Baleno 1.2 DualJet 90 cavalli B-Easy 15.700 Euro Suzuki Baleno 1.2 DualJet 90 cavalli B-Cool 16.700 Euro Suzuki Baleno 1.2 DualJet 90 cavalli B-Top 18.200 Euro Suzuki Jimny 1.3 VVT 85 cavalli Evolution 19.300 Euro

www.staffettaonline.com 06 Apr, 21:40Carburanti alternativi, Scania: nel 2016 +40% mezzi venduti

Nel 2016 il produttore svedese di veicoli industriali Scania ha raggiunto quota 5.000 veicoli acarburantialternativie ibridi venduti, con un incremento del 40% rispetto all'anno precedente. Lo annuncia in una nota la stessa società, che lo scorso anno ha celebrato i 125 anni di attività. "Tali valori risultano da una crescente richiesta di veic ... © Riproduzione riservata