Catia Giaconi_Nella comunità di Capodarco di Fermo

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Catia Giaconi NELLA COMUNITÀ DI CAPODARCO DI FERMO Dalle pratiche all’assetto pedagogico condiviso Report di ricerca ARMANDO EDITORE

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Catia Giaconi_ Nella comunità di Capodarco di Fermo

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Catia Giaconi

NELLA COMUNITÀDI CAPODARCO DI FERMO

Dalle pratiche all’assettopedagogico condiviso

Report di ricerca

ARMANDOEDITORE

Sommario

Introduzione: Una via per la pratica educativa 11

PARTE PRIMA: PER UNA “ANCORATA” VISIONE PEDAGOGICADI ANNI DI COMUNITÀ 19

Il quadro della ricerca 21La specificità del contesto di ricerca:

una comunità “in movimento” 24L’organigramma e i partecipanti all’indagine 34

L’impianto metodologico della ricerca 41

Il processo operativo della ricerca 45I Step. Individuazione di un ambito di ricerca e focalizzazione

della questione generativa dell’indagine 46II Step. Scelta del metodo e degli strumenti per la ricerca e

condivisione del progetto di ricerca con l’intera Comunitàdi Capodarco di Fermo 47

III Step. L’avvio della ricerca: contesto specifico,campionamento teorico, raccolta dei dati e prima codifica 47

IV Step. La restituzione, l’integrazione delle prime intervistee l’analisi condivisa e comparata di tutti i testi e dei relatividocumenti di analisi e di sintesi 56

V Step. Individuazione delle categorie, delle macrocategoriee delle rispettive proprietà 57

VI Step. Individuazione delle categorie centrali e di una mappa condivisa 59

VII Step. Stesura della descrizione 63VIII Step. Riesame del percorso di ricerca e rilettura dei memo

e dei diari di ricerca e confronto con gli scritti della Comunità di Capodarco. Stesura del report di ricerca 63

IX Step. Valutazione, socializzazione dei risultati epubblicazione dei risultati 64

PARTE SECONDA: L’ASSETTO PEDAGOGICO CONDIVISODELLA COMUNITÀ DI CAPODARCO DI FERMO 65

Il significato del fare Comunità 67

Mettere al centro la persona 73Accogliere la persona 79Prendere in carico e aver cura della persona 83Far star bene 88

Promuovere un clima e uno stile comunitario 91Creare un clima familiare 93Tendere ad uno stile educativo fondato sulla comunità 97Curare la relazione 102

Essere aperti alla progettualità 115Gettare lo sguardo in avanti e “sporcarsi le mani” 115Progettare per e con la persona 123Progettare a livello locale ed internazionale 126

Coniugare passione e professionalità 129Tendere ad un profilo di competenze adeguato senza cadere

nell’iperspecializzazione 132Appassionarsi al progetto di Capodarco e fornire servizi dal lato

umano 133

Riflessioni pedagogiche 137Dalle finalità educative… 137…all’organizzazione del personale 143…all’organizzazione educativa 147

ALLEGATI 153Allegato 1: Quattro tappe significative della storia

della Comunità di Capodarco di Fermo 154Allegato 2: Organigramma della Comunità di Capodarco 162Allegato 3: Organigramma della Comunità di Capodarco

di Fermo 163Allegato 4: Schede didascaliche delle strutture afferenti

alla Comunità di Capodarco di Fermo 164Allegato 4.1: Comunità di Capodarco di Fermo 165Allegato 4.2: Centro socio educativo riabilitativo 166Allegato 4.3: Comunità Sant’Andrea 167Allegato 4.4: Società Solaria cooperativa 168Allegato 4.5: Associazione Mondo Minore Onlus 169Allegato 4.6: Associazione L’Arcobaleno 170Allegato 5: L’assetto pedagogico condiviso dalle Comunità

di Capodarco di Fermo: il significato di fare Comunità 171

Bibliografia di riferimento 173Sulla Comunità di Capodarco 173Statuti 175Periodici della Comunità di Capodarco 175Sulla parte teorica e sulle procedure della ricerca e

dell’analisi qualitativa 183Sui riferimenti allo scenario della pedagogia speciale,

delle comunità e delle professioni educative 189

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IntroduzioneUna via per la pratica educativa

[…] le pratiche dell’educazione forniscono i dati, gli argomenti, che costituiscono i problemi dell’in-dagine; esse sono l’unica fonte dei problemi fonda-mentali su cui si deve investigare. Queste pratiche dell’educazione rappresentano inoltre la prospettiva defi nitiva del valore da attribuire al risultato di tutte le ricerche.

J. Dewey, 1984, p. 24.

Prima di entrare nel cuore di questo report di ricerca, ritenia-mo opportuno tracciare lo stato dell’arte della rifl essione in me-rito allo studio delle pratiche educative per fornire al lettore le coordinate essenziali per comprendere le motivazioni sottese al lavoro che presenteremo in questo testo.

La rifl essione che andiamo brevemente a ricostruire si inseri-sce nel consolidato dibattito scientifi co sul rapporto tra teoria e prassi. Nel tempo, accanto a posizioni che riconoscevano il pri-mato esclusivo della teoria sulla pratica, quest’ultima sempre e comunque in uno stato di subordinazione rispetto alla teoria, si sono consolidati orientamenti che hanno legittimato la validità epistemologica anche della conoscenza pratica accanto a quella teorico-scientifi ca.

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Sul fronte del posizionamento scientifi co e metodologico nelle ricerche in campo educativo e didattico, oggetto di questo lavoro, non è neutro da parte del ricercatore aderire alla visione del moni-smo epistemologico, che identifi ca solo la teoria come conoscen-za epistemologicamente apprezzabile; o, di contro, sostenere la posizione del dualismo epistemologico che riconosce la reciproca validità della conoscenza pratica e della conoscenza teorica.

In altre parole, cambia radicalmente il modo di concepire e di fare ricerca in ambito educativo e didattico. Vediamo in che modo.

Da un lato, nel primato della teoria sulla pratica gli insegnanti, gli educatori e quanti “lavorano direttamente sul campo” sono considerati i detentori delle esperienze, mentre i ricercatori sono ritenuti i possessori delle conoscenze, con un palese rapporto di asimmetrìa a favore del ricercatore-teorico che ha il compito di dir loro come pensare l’insegnamento e l’educazione e di conse-guenza di prescrivere quello che “devono fare” per concretizzare la “sua teoria”.

In questo caso, le ricerche hanno il compito di dar vita a “teo-rie” da cui i pratici possono poi trarre degli orientamenti, molto spesso prescrittivi, per le loro pratiche.

Dall’altro, nella legittimazione epistemologica e scientifi ca anche della pratica come conoscenza, il rapporto tra i conduttori della ricerca e le comunità di pratiche si riqualifi ca in una “Nuo-va Alleanza” (E. Damiano, 2006), dove i cosiddetti “pratici” sono considerati di fondamentale importanza per le indagini in ambito didattico ed educativo, con un conseguente cambiamento di at-teggiamento da parte dei ricercatori, i quali ritengono che solo a partire dalla pratica si possa desumere una teoria. La ricerca dun-que abbandona la presunzione di dire a quanti agiscono concreta-mente e quotidianamente nei diversi contesti educativi e didattici come devono pensare l’educazione e l’insegnamento e cosa de-vono fare. Pertanto, come precisa puntualmente E. Damiano, la necessità che viene a delinearsi in questi studi delle pratiche edu-

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cative e didattiche è quella di “produrre parole – è questo il ‘me-stiere’ proprio del teorico – ma le ‘parole del’ pratico, capaci di dire quello che fanno, possibilmente nel senso che lui (il pratico) assegna loro attraverso la sua azione in contesto” (E. Damiano, in C. Giaconi, 2008, p. 23), al fi ne di “[…] diventare interpreti della conoscenza pratica degli insegnanti, per restituirla agli insegnanti stessi attraverso la formazione iniziale e ricorrente” (ibidem).

In un contesto di crescente richiesta di professionalizzazione, aumenta dunque l’attenzione degli studiosi alle forme di “sapere in azione”, all’agire didattico ed educativo e al “professionista ri-fl essivo in azione” (D.A. Schön, 1993), il quale volge uno sguardo critico sulla propria esperienza e sulle proprie rappresentazioni, credenze, conoscenze tacite che, in modo consapevole o meno, guidano le sue scelte progettuali ed il suo agire professionale.

Ed è così che, in contrapposizione al formato epistemologico del monismo epistemologico che ha dominato per lungo tempo le scene della ricerca in campo educativo e didattico, si fa stra-da un crescente fi lone di studi e di ricerca, in Italia denominato “APRED” (Analisi delle Pratiche Educative), volto ad indagare il pensiero degli insegnanti1 e degli educatori e le loro pratiche didattiche ed educative in ragione anche della rilevanza di queste indagini in rapporto allo sviluppo professionale e in vista di una possibile documentazione dell’agire professionale.

Certamente chi vuole confrontarsi con il “sapere agito” deve fare i conti con una serie di diffi coltà e consapevolezze.

1 Il filone di ricerca dal nome “Il pensiero degli insegnanti” risale agli anni Settanta, quando l’American Educational Research Association (AERA) esor-disce con un gruppo di lavoro nel 1975 coordinato da R. Shuman, che formula alcune ipotesi: 1. gli insegnanti pensano l’insegnamento in modo ricco e arti-colato; 2. il pensiero degli insegnanti ha rilievo sull’agire in classe. Tale mo-vimento diverrà prima una sezione dell’AERA, poi una associazione a sé dal nome ISATT (International Study Association on Teacher’s Thinking). In Italia gli studi in questa direzione vedono coinvolti diversi professori delle Univer-sità italiane organizzati intorno ad un movimento denominato APRED (www.apred.it).

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In primo luogo, le “azioni” che sono al centro del sapere prati-co, dell’agire didattico ed educativo, non possono essere studiate come meri oggetti statici ed immutabili, ma vanno rese nella loro processualità che si svolge nel tempo, contemplando anche la ca-tegoria del cambiamento (cfr. E. Damiano, 2006).

In secondo luogo, chi studia le pratiche educative e didattiche non si può limitare semplicemente a “ri-costruirle” senza sentire direttamente l’attore principale dell’azione stessa, sarebbe come pensare di studiare un’opera d’arte senza studiare l’artista, la sua visione del mondo e dell’arte, il contesto generale in cui è inseri-to. Questo perché, come precisa E. Damiano: “Un’azione è pen-siero incarnato, essa ha un legame immanente con le intenzioni di chi la compie, con i suoi intenti, la sua sensibilità, la sua condi-zione. Per conoscere un’azione, veramente, non ci si può limitare ad osservarla in superfi cie, per quel che si vede, ma comporta rendere conto della parte di soggettività iscritta nella sua fi sicità, cultura, trama di relazioni signifi cative, fase biografi ca… Quel che si presenta allo sguardo come ‘lo stesso comportamento’ può nascondere alla vista signifi cati anche molto diversi, se non oppo-sti fra loro” (cfr. E. Damiano, in C. Giaconi, 2008).

Per questo motivo, la comunità scientifi ca APRED apre la ri-fl essione in merito ad una serie di questioni di grande rilievo per l’analisi delle pratiche educative, come, ad esempio, quali meto-dologie di ricerca siano più appropriate per indagare le pratiche didattiche ed educative che, come abbiamo brevemente illustra-to, per loro natura, sfuggono ai classici schemi di oggettivazione dell’epistemologia positivista. Quindi, i gruppi di ricerca APRED delle diverse Università italiane hanno dato vita a percorsi di in-dagine per studiare le pratiche educative e didattiche; in altre pa-role, per richiamare il titolo di questa introduzione, hanno tentato di trovare delle vie per dar voce alle pratiche educative.

In merito alla cornice di riferimento in cui si inserisce il la-voro che andiamo a presentare, occorre precisare che nel settore

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dell’analisi delle pratiche d’insegnamento, soprattutto di prove-nienza francofona, i diversi tentativi metodologici vengono rag-gruppati in due grandi fi loni (cfr. A. Mercier, M.L. Schubauer, G. Sensevy, 2002).

Il primo, defi nito osservazioni delle pratiche, si fonda sull’os-servazione diretta in contesto delle pratiche didattiche ed educati-ve o sulla registrazione del lavoro (lezione, ecc.) in aula o in altro contesto educativo e dell’analisi a posteriori.

Il secondo, denominato discorsi sulle pratiche, si basa su “di-scorsi”, resi spesso in forma di testi scritti, sulle “azioni”, didat-tiche ed educative, da parte degli attori (insegnanti, educatori, ecc.) che compiono queste pratiche nei diversi contesti educativi di riferimento.

Il lavoro che andiamo a documentare in questo volume è “una via per le pratiche educative” della Comunità di Capodarco di Fermo che si inserisce, anche per il metodo usato dell’analisi dei documenti scritti e delle interviste, sul piano delle rappre-sentazioni verbali dei signifi cati presso i protagonisti delle sedi operative della Comunità di Capodarco di Fermo (fondatori, re-sponsabili, educatori, operatori socio-sanitari, famiglie e persone accolte).

Nella storia di questo percorso di indagine la domanda emersa è stata defi nita e puntualizzata all’esplorazione e all’analisi dei signifi cati attribuiti dagli operatori alla “Comunità di Capodarco di Fermo” al fi ne di far emergere dalla pratica un eventuale as-setto teorico pedagogico della Comunità di Capodarco di Fermo. Attraverso l’analisi delle interviste e dalle categorie emerse sono state infatti individuate le relazioni reciproche, che sono state in-tegrate fi no a giungere alla core category della ricerca: l’assetto pedagogico condiviso della Comunità di Capodarco di Fermo. L’indagine si è spinta poi ad apprezzare come la Comunità di Capodarco di Fermo abbia “incarnato” in questi quarantacinque anni le fi nalità educative emerse grazie ad una peculiare organiz-zazione educativa.

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Al fi ne di coniugare la necessità di “partire dal basso”, da un forte ancoraggio all’esperienza e, al tempo stesso, di rendere il senso delle dinamiche dell’agire educativo nelle Comunità di Ca-podarco di Fermo, abbiamo scelto la metodologia di ricerca qua-litativa denominata Grounded Theory.

Il testo che per volere della committenza si presenta come re-port di ricerca, si suddivide in due parti.

Nella prima parte, “Per una ‘ancorata’ visione pedagogica di anni di Comunità”, viene presentato il quadro di ricerca, il con-testo specifi co della Comunità di Capodarco di Fermo, l’impian-to metodologico e il processo operativo della ricerca fase dopo fase.

Nella seconda parte, “L’assetto pedagogico condiviso della Comunità di Capodarco di Fermo”, viene messa in luce la teoria emersa dalla ricerca. Vista la specifi cità della ricerca che si col-loca all’interno delle analisi delle pratiche educative, la nostra scelta è stata quella di fondare la presentazione degli indicatori emersi attraverso le parole dei “pratici” e dunque i passaggi più signifi cativi tratti dalle interviste di coloro che hanno partecipato alla ricerca.

Il testo si chiude con alcune rifl essioni pedagogiche: “dalle fi nalità educative… all’organizzazione del personale… all’orga-nizzazione educativa” delle comunità di Capodarco di Fermo. Lo scopo è quello di rilanciare alcune linee di connessione tra la pe-dagogia di Capodarco, emersa dal percorso di ricerca, e l’assetto epistemologico della pedagogia speciale per giungere a tracciare sinteticamente come le fi nalità emerse si siano “incarnate” in una peculiare organizzazione educativa.

In allegato, si riportano alcune brevi schede didascaliche delle strutture afferenti alla rete di Capodarco di Fermo per permettere agli studenti in formazione, futuri educatori e pedagogisti, di ave-re una panoramica della “geografi a comunitaria” di Capodarco di Fermo.

Si ringrazia il presidente Don Vinicio Albanesi per la possi-

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bilità di condurre questo percorso di ricerca e di scendere diret-tamente all’interno delle comunità. Si ringraziano i comunitari, i referenti di tutti le comunità, gli educatori, gli operatori sociosa-nitari che hanno partecipato al percorso di ricerca e che si sono resi disponibili per le interviste e per i diversi confronti. Al ter-mine di questo lavoro non posso infi ne non ringraziare sia quanti hanno intensamente collaborato nel serrato ed intenso lavoro di lettura incrociata dei materiali sia il Prof. Elio Damiano per i suoi preziosi consigli.

PARTE PRIMA

PER UNA “ANCORATA” VISIONE PEDAGOGI-CA DI ANNI DI COMUNITÀ

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Il quadro della ricerca

Il quadro della ricerca prende corpo essenzialmente, da un lato, dal fl orido fi lone di indagine e di rifl essione orientato all’analisi delle pratiche educative; dall’altro, dalla specifi cità del contesto di ricerca della Comunità di Capodarco di Fermo resa da oltre quarant’anni di azioni educative “sul campo”. Tale connubio ha condotto i ricercatori, i fondatori e la comunità di pratiche di Ca-podarco di Fermo a credere in questo percorso di ricerca volto a far emergere dalla pratica l’Assetto Teorico Pedagogico Condivi-so della Comunità di Capodarco.

La motivazione sottesa a questo progetto attiene l’esigenza di documentare e di formalizzare la teoria pedagogica della Comu-nità di Capodarco, presente da sempre, e depositata nelle pratiche educative quotidiane e diffusa tra le persone privilegiate che ne hanno fatto la storia ed il presente.

La scelta è stata dettata anche dalla rilevanza e dalla specifi cità della valenza educativa della Comunità di Capodarco sia a livello nazionale che internazionale: è stato uno dei primi tentativi negli anni Sessanta, quando la cultura della pedagogia speciale era pro-fondamente diversa da quella attuale, di vincere l’emarginazione, di accogliere la diversità di ogni persona per offrire ad ognuno, attraver-so una vita comunitaria, un riscatto della propria identità personale e una dignitosa qualità della vita. Da questa esperienza è scaturita la realizzazione, in risposta ai tempi ed alla complessità delle devian-ze, delle diversità e delle marginalità (non solo locali), di Comunità Locali, della Comunità Nazionale e della Cominutà Internazionale.

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Tra le Comunità locali si rintraccia la Comunità di Capodarco di Fermo, che nel tempo ha risposto ai diversi bisogni educativi spe-ciali dando vita ad una serie di sedi operative. Da qui nasce questo primo tentativo di provare a dar voce al “vento di Capodarco” con una ricerca che mettesse in gioco tutte le strutture operative della Comunità di Capodarco di Fermo, partendo dai quarantanni di “pra-tica” e quindi dalle persone signifi cative che ne hanno fatto la storia fi no a coloro che tutt’oggi operano attivamente nel presente.

Questo esercizio di ricerca racchiude diverse valenze sia per la Comunità di Capodarco di Fermo sia per il gruppo di ricerca.

Innanzitutto, rispondere all’urgenza di diffondere il patrimo-nio di vita, di valori, le linee di una “Teoria Pedagogica di Capo-darco” e formare le nuove generazioni che intenderanno condivi-dere lo spirito ed il progetto educativo della Comunità, che oggi, come vedremo, si realizzano in diverse sedi operative.

In secondo luogo, apprezzare come la comunità di Capodar-co abbia “incarnato” in una specifi ca organizzazione educativa le fi nalità educative emerse e farla conoscere anche agli studenti e agli operatori in formazione.

In terzo luogo, l’importanza di questo progetto di ricerca in questo ambito di studi si rintraccia anche nella constatazione, ad una prima azione di ricognizione dello stato dell’arte di prece-denti o similari tentativi di esplorazione, dell’assenza di organici assetti di indagine sulla Comunità di Capodarco di Fermo; così come emerge l’assenza di una sistematica letteratura scientifi ca della Comunità di Capodarco, che comunque è rintracciabile da-gli scritti dei fondatori o dalle riviste e dai periodici realizzati dalla stessa comunità negli anni. Pertanto, questa indagine viene a costituirsi come un primo tentativo organizzato volto ad esplo-rare il patrimonio condiviso di valori pedagogici con una azione estesa in tutte le Comunità di Capodarco di Fermo.

Inoltre, la signifi catività di questa esperienza per il gruppo di ricerca che si è attivato sia per realizzare una reale “Alleanza” con la comunità di pratiche di Capodarco di Fermo, sia per la

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scelta e per la realizzazione di una procedura di indagine che po-tesse dar voce al loro agire professionale.

La natura stessa dell’oggetto di ricerca, ovvero il pensiero e le pratiche educative di quanti lavorano nelle Comunità di Capodar-co, e dunque il delicato avvicinamento a queste questioni e a realtà così consolidate nel tempo, ha richiesto, da un lato, un solido mo-mento iniziale di condivisione con tutta la Comunità; dall’altro, la scelta di una metodologia di ricerca, all’interno dell’ambito delle metodologie qualitative, che l’attuale ricerca educativa propone per la validità nell’esplorare e nel cogliere le specifi cità del mon-do dell’esperienza e delle pratiche educative (L. Mortari, 2010).

In questo caso, tra le diverse proposte, il gruppo di ricerca ha optato per la metodologia qualitativa denominata Grounded Theory (B.G. Glaser, A.L. Strauss, 1998, trad. it. A. Strati, 2009, B.G. Glaser, 1978; A. Strauss, J. Corbin, 1990; M. Tarozzi, 2008) al fi ne di coniugare la necessità di “partire dal basso”, da un forte ancoraggio all’esperienza e, al tempo stesso, di rendere il senso delle dinamiche dell’agire educativo nelle Comunità di Capodar-co di Fermo.

Seguendo la stessa procedura della Grounded Theory la do-manda generativa della ricerca, che si è declinata e sviluppata lungo il processo di indagine partendo da alcuni concetti sensibi-lizzanti, è stata quella di apprezzare se fosse possibile o meno far emergere dalla pratica un condiviso Assetto Teorico Pedagogico della Comunità di Capodarco, nonostante la presenza di diverse sedi operative, le quali si riconoscono sotto l’alveo di Capodarco, ma si differenziano per tipologia di interventi educativi con rife-rimento all’accoglienza sia di persone con disabilità fi siche, con disabilità psico-fi sica grave e gravissima, con patologie psichia-triche, con disagi e devianze varie; sia di minori italiani, stranieri non accompagnati, adolescenti fi no a 21 anni, ragazze in diffi col-tà, ragazze madri e persone con tossicodipendenze.

Di seguito, andiamo dunque a presentare il contesto e l’im-pianto metodologico della ricerca.

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La specifi cità del contesto di ricerca:una comunità “in movimento”

Per permettere al lettore di questo testo di comprendere sia la complessità e la specifi cità di questa Comunità, sia quanto poi potenzialmente emergerà dalla ricerca, abbiamo deciso di stila-re, parallelamente al report di ricerca, il contesto specifi co della Comunità di Capodarco di Fermo con particolare attenzione al “processo di costruzione” e quindi all’evoluzione temporale delle relazioni fra le diverse sedi operative della Comunità di Capodar-co di Fermo.

I criteri procedurali seguiti per la ricostruzione del contesto sono rappresentati essenzialmente dalle seguenti fasi.

Nella prima fase sono stati individuati ed intervistati i fonda-tori e le persone signifi cative della storia della Comunità; nella seconda fase sono stati raccolti e successivamente analizzati i materiali scritti (personali, autobiografi ci, testi, statuti originali della Comunità, ecc.).

Di seguito l’elenco delle persone signifi cative e dei materia-li (materiali narrativi, scritture private, interviste trascritte, ecc.) utilizzati per l’approfondimento del contesto di ricerca.

1. Don Franco Monterubbianesi (fondatore): analisi del testo La Comunità di Capodarco.

2. Don Vinicio Albanesi (attuale presidente della Comunità, personaggio signifi cativo per lo sviluppo della Comunità e delle sedi operative locali): intervista con il ricercatore; analisi del testo Fare Comunità. Rifl essioni conseguenti a convegni, seminari, ecc., tratti dal sito della Comunità di Capodarco di Fermo.

3. Don Angelo Maria Fanucci (sacerdote che incontrò la Co-munità di Capodarco e sullo stesso input fondò la Comu-nità di Capodarco di Gubbio): intervista. Analisi dei testi

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La logica dell’utopia. Quando nasce la Comunità di Capo-darco; La casa di tutti. La condivisione diventa realtà: la Comunità di Capodarco si presenta (con F. Bondì).

4. Comunitari storici sin dagli anni sessanta, tra i quali Marisa Galli (una delle prime comunitarie con disabilità, ora nella Comunità di Capodarco di Roma) autrice dei testi esami-nati dal ricercatore quali Il Lato Umano e La Tentazione di un sogno (Il lato umano trent’anni dopo).

5. Interviste ai comunitari “storici” della Villa.6. Interviste ai responsabili delle sedi operative di Capodarco

di Fermo: Comunità Santa Elisabetta, Comunità Sant’An-drea, Comunità San Claudio, Comunità San Girolamo, Comunità educativa Mondo Minore, Comunità educativa Sant’Anna, Comunità alloggio San Giuliano, Comunità fa-miliare Beato Giovanni della Verna, rete di famiglie affi da-tarie, Casa Betesda, Associazione L’Arcobaleno.

7. Analisi e ricostruzione dai periodici assemblati, ma non ancora archiviati della Comunità di Capodarco dal 1983 al 2001.

8. Analisi dei diversi statuti e documenti storici tratti dal sito della comunità.

Nella terza fase, grazie a questi strumenti epistemici è stato possibile individuare una prima “punteggiatura” della storia della Comunità di Capodarco stilata dal ricercatore, poi negoziata e co-costruita con il Presidente e con la Comunità di Capodarco di Fermo. Infi ne, la storia di Capodarco di Fermo è stata riletta, in-tegrata nuovamente in seguito alle osservazioni e ai diversi punti di vista dei “protagonisti” e resa nella versione defi nitiva.

Trascriviamo nel riquadro di approfondimento (Tab. 1) le quattro tappe signifi cative della storia di Capodarco di Fermo, al fi ne di tracciare alcuni passaggi importanti per comprendere il contesto generale della ricerca e per inserire signifi cativamente le rifl essioni emerse dalla ricerca.

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Tab. 1. Approfondimento: Quattro tappe signifi cative della storia dellaComunità di Capodarco di Fermo

Prima tappa della Comunità: superare la cultura dell’emarginazio-ne attraverso la vita comunitaria.Il clima era quello del post Concilio che preparava al Sessantotto, uno scenario segnato da fi gure come Kennedy, M. Luther King, Papa Gio-vanni e dai movimenti di liberazione in Africa e in America Latina. Sul versante della disabilità eravamo di fronte ad una gestione della disabilità fi sica da parte di grandi associazioni (invalidi civili, di guerra, eccetera). Quella della disabilità era una “pentola che iniziava a bollire”: una so-cietà che relegava le persone con disabilità fi sica, viste semplicemente come malati, nelle istituzioni chiuse, nei ricoveri, negli istituti con una distinzione tra maschi e femmine. Eravamo, inoltre, di fronte alla pro-cedura dei pellegrinaggi degli “invalidi” a Lourdes e a Loreto, luoghi di incontro e di conoscenza. A questo scenario si univa la vicenda personale del protagonista di questa prima fase storica della Comunità, il giovane sacerdote fermano Don Franco Monterubbianesi, il quale, dopo diverse esortazioni a lasciare il seminario, decise di dedicarsi alle persone con disabilità fi sica, a quel tempo ammassati nell’Istituto di Santo Stefano di Porto Potenza Picena e in altri istituti.I tempi erano dunque maturi e con l’incrocio di questi elementi scoppiò l’ipotesi e la tensione ideale di superare questa cultura dell’emarginazio-ne delle persone disabili attraverso un’alternativa: la vita comunitaria. Questa motivazione fu fortemente ancorata nel gruppo iniziale di per-sone, che fu molto coeso e guidato dalla personalità carismatica di Don Franco Monterubbianesi accanto al quale, come motore fondatore, vi fu la fi gura di Marisa Galli, ragazza disabile sin dalla nascita, che giocò un ruolo fondamentale nella spinta continua a credere e a realizzare questo progetto. Dunque, si credeva in una via per superare lo stato di emargina-zione puntando sull’accoglienza, sul protagonismo delle stesse persone disabili che nel mettersi insieme potevano realizzare una vita nel segno della solidarietà e dell’uguaglianza. Certamente una prospettiva utopica per il tempo che impiegò sei lunghi anni prima di concretizzarsi fi sica-mente in una “casa comune”.

Si forma il primo gruppoIl primo gruppo si formò grazie ai pellegrinaggi a Loreto, prima, e ai

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viaggi a Lourdes poi. Il segnalibro fondamentale per la nascita del pro-getto e della futura Comunità fu il viaggio del 1965 a Lourdes di Don Franco con una ventina di giovani con disabilità fi sica provenienti da diverse zone d’Italia, soprattutto da Porto Potenza Picena. In questi gio-vani Don Franco non vedeva né la malattia né la “croce”, ma apprezzava il loro essere “Persone”. Dal famoso “basta” di Lourdes di Don Franco a questa condizione dei ragazzi con disabilità fi sica, che in realtà non ve-nivano visti realmente per quello che erano, si tornò con questo progetto, che sarà anche approvato dal vescovo, che celava il messaggio di una vita autonoma per le persone con disabilità fi sica e di un futuro diverso da quello degli istituti. Ciò diede speranza e tensione, ma allo stesso tem-po pressione per la nascita della Comunità da parte dei componenti del gruppo, tra i quali Marisa Galli, che sottoscrissero il progetto nel ritorno in treno da Lourdes. Questa idea della nuova comunità si fondava sostan-zialmente sull’idea di dare anche a chi era disabile una dimensione di “normalità” che era rappresentata dal rispetto della persona, dagli affetti familiari, dal lavoro. In più vi era una “vera rivoluzione”, cambiare la società, un mondo nuovo “dal lato umano”.

La ricerca della casaIniziò la ricerca del luogo ideale dove dare vita al progetto della Comu-nità. Dopo la vana ricerca di una casa a Loreto, nel 1960 venne avvistata una villa abbandonata nel fermano, costruita già nei primi del Novecento e che era stata precedentemente acquistata dal Centro Turistico giova-ni dell’Azione Cattolica. Dopo alcuni anni dediti ad accogliere i campi scuola (tra il 1961 e 1962) scattò la richiesta della villa da parte di Don Franco all’amministratore del tempo Enrico Dossi, presidente Cts, vil-la che peraltro presentava dei problemi dovuti al terreno molto friabile. Dopo l’approvazione da parte del consiglio di amministrazione del Cts e un’azione di personale relazione e convinzione con l’ancora indeci-so presidente Dossi, nel novembre del 1966 venne concesso il contratto d’affi tto della villa. Presto circolò la voce tra i giovani disabili delle varie parti dell’Italia che fi nalmente la “casa c’era”. Il gruppo in quei sei anni (1960-1966) aveva maturato l’idea di “villaggio della felicità”, di “caset-ta dell’amicizia e della serenità”. Don Franco, in prima persona, iniziò il giro per l’Italia per organizzare il primo gruppetto. In parallelo, grazie agli alunni dell’istituto tecnico industriale “Montani” di Fermo, dove Don Franco insegnava religione, iniziò la ripulitura e la ristrutturazione della villa dopo sei anni nei quali era stata lasciata all’abbandono.

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Dall’utopia alla vita comunitariaLe prime persone arrivarono a mezzanotte del 21 dicembre, gli altri da Roma condotti a Fermo da Don Franco che aveva fatto il giro dei vari istituti con un vecchio pulmino “Romeo” con il motore della Giulietta che gli era stato regalato da un amico. Arrivarono a Capodarco, non sen-za vicissitudini, alle sette del mattino. Alla fi ne il gruppo era composto da 13 persone con disabilità fi sica che avevano fatto la scelta della vita comune, metà di queste erano ragazze. Tra i comunitari Luciano Menca-roni, Lucio Marcotulli, Marisa Galli, Michele Rizzi. L’inizio è segnato dalla messa di Natale di mezzanotte del 1966, dove Don Franco Mon-terubbianesi, tra amici e persone con disabilità fi sica provenienti dalle diverse zone dell’Italia, realizzò il “battesimo della casa”. Il gruppo si chiamò “Comunità Gesù Risorto” per sottolineare la volontà di risor-gere dalla precedente situazione, mentre la casa fu denominata “Casa Papa Giovanni”, richiamando il “Papa buono”, che nel tempo prenderà il nome di “Comunità di Capodarco”. L’utopia aveva preso forma: giovani disabili, uomini e donne, vivevano insieme e autogestivano il proprio presente progettando il proprio futuro. Certamente resta nella memoria di chi fece il primo ingresso la paura di fronte ad una struttura sicuramente meno attrezzata rispetto agli istituti, da dove molti provenivano, ma al-trettanto forte è il ricordo dei valori comunitari: il rispetto profondo della persona; l’uguaglianza; l’apertura senza riserve alle persone bisognose, nella convinzione che, dalla vita comune, ogni persona avrebbe potuto tirar fuori le proprie risorse e riscattare la propria esistenza. L’inizio po-vero e precario di questo gruppo, combattuto tra partecipazione attiva e adattamento, è segnato da un basso tasso organizzativo e da un forte co-esivo nella fi gura dell’“animatore-fondatore” che rappresentava il punto di riferimento, di accoglienza, di gestione e garanzia di sopravvivenza. All’interno la vita era estremamente collettiva, in comune, “tutti sotto lo stesso tetto”, condividevano tutto: dal cibo agli affetti, dai momenti di festa alle diffi coltà, dalla cassa comune al lavoro. Il lavoro infatti sin dall’inizio si qualifi cò come una via vincente per il riscatto della dignità: il 13 gennaio del 1967 il gruppo di persone disabili lavorava nel settore del calzaturiero e trasformava la sala da pranzo in laboratorio. Nel frat-tempo da 13 il gruppo passò a 20 poi a 30 e in breve, sempre nel 1967, dal settore calzaturiero la Comunità si orientò al settore elettronico. Questo non senza le diffi denze del territorio che guardava alla casa con timore perché accoglieva “persone non affi dabili”.

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Seconda grande tappa della Comunità: l’apertura ai giovani e al “fare comunità nel territorio”.Siamo in un anno di grande svolta: il 1970.Innanzitutto, perché il gruppo della Comunità salì a 100 raccogliendo ragazzi dagli istituti italiani anche a Salerno dove 6 ragazzi erano in uno stato vegetativo nell’istituto di Eboli e alcuni volontari si “trasformaro-no” in comunitari trasferendosi alla villa. In secondo luogo, perché nel 1970 la Comunità si aprì ai giovani del servizio civile internazionale e ai volontari, una notevole risorsa per la comunità che segnò la scelta comunitaria di un “fare comunità nel terri-torio”, nella società. I giovani frequentavano la Comunità in un clima di grande entusiasmo (nell’estate del 1970 dormivano in tenda, mangiavano e discutevano insieme). Nonostante alcuni giovani in quel periodo siano approdati a strade di rivolta, lo spirito di Capodarco rimaneva quello del valore comunitario, ritenuto una vera alternativa rispetto agli istituti e ad altre realtà per i disabili fi sici. Altri giovani del servizio civile si fecero testimoni, in un convegno internazionale a Geneva, del modello di Ca-podarco. In terzo luogo, il 1970 fu l’anno della defi nitiva trasformazione della vec-chia fattoria, adiacente alla villa. In quest’anno furono organizzati anche i primi corsi di formazione in Italia per persone con disabilità fi sica ad opera di Capodarco. Sempre il 1970 è segnato dalla venuta a Capodarco in Comunità del ministro Ripamonti che riconobbe la Comunità come forma delle autogestioni. Infi ne, nell’agosto del 1970, Don Franco celebrò, con grande scalpore nella società, i primi matrimoni tra persone con disabilità fi sica, tra Mi-chele Rizzi ed Emma, tra Lucio e Natalia, tra Memmo e Milli. Venne ad istituirsi così la famiglia come paletto forte della comunità: “La comunità dava loro la possibilità di far nascere la famiglia e la famiglia rafforzava la comunità”.In seguito, le famiglie comunitarie aumentarono e la comunità si arricchì di famiglie di persone con disabilità e di famiglie di comunitari non disa-bili che nel tempo diedero la spinta a nuove forme di convivenza in nuo-ve strutture. Questo segnò anche la necessità di emigrare da Capodarco con la volontà per alcuni di portare lo spirito di Capodarco nella propria terra d’origine. Iniziarono così i decentramenti e certamente anche gli ac-cesi dibattiti. In questa direzione, si ebbero esperienze, più o meno felici ed effi caci nel tempo, a Fabriano con don Angelo di Gubbio, a Udine, a Domodossola e in Sardegna. Si ricorda nella memoria la volontà di don

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Franco di “Andare a Roma”, nei quartieri della periferia, dove solo negli anni Settanta s’insediò il primo gruppetto di comunitari che dette vita al Centro Ricerche Inserimento Handicap (C.R.I.H.).Questi furono anche gli anni delle contestazioni e di dibattiti intorno alle tematiche dell’handicap e della sessualità, dell’allargamento del concetto di emarginazione come fenomeno sociale primario, della posizionatura delle comunità locali. In questi anni la Comunità, a contatto con perso-ne di provenienza ideologica diversa, si laicizzò senza rinnegare la sua matrice religiosa. Altrettanto viva fu la partecipazione di Capodarco al dibattito politico-istituzionale (chiusura dei manicomi, nascita dell’as-segno di accompagnamento, eccetera) e all’ascolto dei problemi e delle risorse del territorio. Tutto questo spinse verso la terza grande tappa della storia della Comunità di Capodarco.

Terza grande tappa. L’emarginazione a livello sociale: il fare comu-nità a livello locale.La terza tappa ebbe inizio con l’impostazione della questione dell’emar-ginazione come fenomeno non solo strettamente connesso alla disabilità fi sica, ma signifi cativamente più vasto a livello sociale. La Comunità dunque iniziò ad interrogarsi sul cosa fare e presero vita altre forme co-munitarie: dalla disabilità fi sica a quella mentale, psichiatrica, all’univer-so del disagio minorile e della tossicodipendenza.Il punto che restò fermo, anzi che venne ad essere rilanciato, fu lo stile comunitario dove la persona in diffi coltà veniva accolta nel rispetto della sua singolarità e della sua storia irripetibile. La vita comunitaria avrebbe fornito ai “nuovi emarginati” la possibilità di riappropriarsi della propria storia e di far emergere e promuovere le potenzialità sommerse. Il fare comunità si qualifi cava ancora come “alternativa all’alienazione” e una via possibile per riappropriarsi della propria vita. In questa fase fi gura centrale fu Don Vinicio Albanesi che rilanciò il senso di fare comunità e lavorò attivamente per la formazione e lo sviluppo della rete delle comu-nità locali. Questa tappa fu segnata da fasi signifi cative: dal cambiamen-to dello statuto, alla nascita di comunità locali, alla riorganizzazione di quelle esistenti, alla presenza di collaborazioni professionali (dipendenti), al rapporto più stretto con le istituzioni, al rilancio della partecipazione delle famiglie, alla Comunità Nazionale e alla Comunità Internazionale di Capodarco (organizzazione non governativa). Nel tempo prese forma, nel fermano, la seguente “geografi a comunitaria”.

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1. Comunità di Capodarco di Fermo (disabilità fi sica e centro di riabi-litazione): ubicata a Capodarco di Fermo è sia “casa abitata” per per-sone con disabilità e famiglie, sia struttura riabilitativa per l’insuffi -cienza respiratoria ed il trattamento della sclerosi laterale amiotrofi ca (Sla).

2. Centro socio educativo riabilitativo. Comunità Santa Elisabetta: cen-tro diurno attivo dal 1996 per disabilità psico-fi sica medio-grave, sito nella Contrada Abbadetta di Fermo.

3. Comunità Sant’Andrea, centro diurno fondato nel 2004 per disabilità psico-fi sica grave e gravissima.

4. Solaria società cooperativa a r.l. che gestisce strutture protette per persone con problemi psichiatrici come la Comunità di San Claudio nata nel 1998 ed ubicata nella Contrada San Claudio di Corridonia (Mc) e la Comunità di San Girolamo fondata nel 1999 e sita presso la Contrada San Girolamo di Fermo.

5. Associazione Mondo Minore Onlus, nata nel 1999, coordina le se-guenti sedi operative volte all’accoglienza di minori italiani, stranieri non accompagnati, adolescenti fi no a 21 anni, ragazze in diffi coltà e ragazze madri.• Comunità educativa Mondo Minore (minori maschi dai 13 ai 17

anni) che si trova a Capodarco di Fermo. • Comunità educativa Sant’Anna (minori femmine da 9 a 13 anni e

ragazze in diffi coltà, ragazze madri), ubicata nel fermano. • Comunità alloggio San Giuliano (adolescenti maschi 16-21 anni)

sita a Macerata.• Comunità familiare Beato Giovanni della Verna (minori 7-12

anni) collocata a Corridonia di Macerata.• Rete di Famiglie affi datarie (affi do di bambini 0-12 anni) sita a

Capodarco di Fermo.6. Associazione L’Arcobaleno (tossicodipendenze) ubicata a Porto San

Giorgio (Fm).7. Cogito società cooperativa a d.l. (Formazione e opportunità lavorati-

ve per persone socialmente deboli) nata nel 1998 e Agenzia Redatto-re Sociale (Informazione, Comunicazione sui fenomeni del disagio e dell’impegno sociale) nata nel 2001, site a Capodarco di Fermo.

Capodarco ed il territorioIl territorio ora non guardava più alla casa con timore, ma, al contrario, vi riconosceva sia un insieme di persone specializzate per rispondere alle

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emergenze locali, sia una importante fonte lavorativa per le persone del posto. Nel tempo il rapporto con il territorio si consolidò, trasformando gli iniziali pregiudizi. Capodarco diventò un affi dabile “datore di lavoro”, ma non solo. Le porte della villa si aprirono al territorio: accolsero ed ospitarono le famiglie e i parenti delle persone accolte che provenivano dalle diverse regioni d’Italia, donando un posto per dormire e un pasto caldo tutti insieme in comunità; accolsero e svilupparono le iniziative “ludiche” del territorio (feste, ricorrenze, ecc.), trasformando il grande salone della Villa in una stanza per la condivisione con le persone locali. Furono azioni semplici, di vita quotidiana, ma intenzionali da parte della Comunità di Capodarco di Fermo che vedeva in questi momenti delle importanti occasioni per far vivere concretamente al territorio il loro spi-rito di accoglienza e di condivisione.

Quarta grande tappa: Il fare comunità a livello internazionale.Continui momenti di confronto e di discussione animarono la vita della Comunità di Capodarco soprattutto sul senso di “fare comunità oggi”, perché continuare a fare comunità, con chi e come. Il fare comunità era partito dalle persone con disabilità fi sica ed era giunto alle altre emar-ginazioni fi no ad approdare al fare comunità a livello internazionale. Nel1992 il movimento di Capodarco si era dato anche una dimensione internazionale attraverso la costituzione della Comunità Internazionale di Capodarco (CICa), di cui la Comunità di Capodarco di Fermo era una comunità associata.La CICa si proponeva di promuovere lo sviluppo integrale della persona con particolare attenzione agli emarginati; di rimuovere ogni ostacolo alla salute fi sica e psichica delle persone, al pieno dello sviluppo della personalità; di favorire la partecipazione alla vita sociale delle persone più emarginate attraverso tutta una serie di iniziative (salute, servizi, la-voro e animazione), caratterizzate dalla condivisione e dalla base comu-nitaria intese come “valori portanti” della vita. Un fare comunità con i poveri della terra, soprattutto con le nuove generazioni, oggi in crisi, che metteva in evidenza la tensione di sempre di Capodarco alla Mondialità e ai Giovani. Sulla base di questi presupposti la CICa dal 1992 si è impegnata a la-vorare a benefi cio dei gruppi sociali più emarginati, con particolare at-tenzione alle persone portatrici di handicap soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Un elemento che era alla base di ogni tipo di intervento era

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la valorizzazione delle potenzialità locali: il soggetto riceveva strumenti e mezzi per emanciparsi nella società del Paese in cui viveva. Il primo approccio di partenariato si realizzò alla fi ne del 1992 in Ecuador con i responsabili del centro socio-sanitario Cebycam di Penipe che cercava di far fronte ad una povertà diffusa e ad una percentuale elevatissima di persone disabili. L’iniziativa riuscì non solo dal punto di vista tecnico-operativo, ma soprattutto servì a defi nire un nuovo modello di operare.Dal 1993 ad oggi la CICa ha esteso il suo intervento attraverso un pro-getto che tocca 4 province dell’Ecuador e coinvolge una rete di soggetti locali: da quelli istituzionali come il Ministero della Salute e la Chie-sa, alle organizzazioni locali e di base. L’area di intervento è cresciuta esponenzialmente coprendo più soggetti (emarginati, disabili, bambini a rischio, donne, indigeni) attraverso programmi integrati (salute – educa-zione – formazione – lavoro) di base comunitaria.Nel contempo, è emersa la necessità di identifi care e di attuare politiche e strategie di cooperazione internazionale in grado di valorizzare le in-crementate capacità dei cittadini ad attivarsi e ad autorganizzarsi. Attual-mente la Comunità di Capodarco di Fermo interagisce organicamente in Ecuador con un coordinamento e un progetto che ha come scopo il mi-glioramento sostanziale delle condizioni di vita dei minori svantaggiati (disabili, orfani, bambini e ragazzi di strada, ecc.) e delle loro famiglie. Dal 1999 ad oggi sono state attivate una rete di adozioni a distanza, una Comunità di Capodarco a Penipe ed un ambulatorio pediatrico qualifi ca-to dal punto di vista medico. Oltre all’Ecuador, le opere della comunità di Capodarco si sviluppano in Albania, dove è funzionante un centro diurno denominato “Primavera”, destinato all’accoglienza e alla presa in carico di bambini con gravi handicap fi sici e sensoriali ed in Camerun, dove è attivo un progetto di accoglienza dei “minori” abbandonati. L’azione co-munitaria internazionale si estende anche in Guatemala, Kosovo, Brasile e Guinea Bissau.

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L’organigramma e i partecipanti all’indagine

Per comprendere la complessa organizzazione della Comunità di Capodarco proponiamo una rappresentazione schematica sia del contesto più generale dove si inserisce la Comunità di Capo-darco di Fermo, quale comunità locale della generale Comunità di Capodarco e struttura afferente alla Comunità di Capodarco Internazionale (Tab. 2); sia dell’architettura specifi ca della Co-munità di Capodarco di Fermo che nel tempo ha dato vita a diver-se strutture afferenti a vario titolo alla Comunità di Capodarco di Fermo2 e che rispondono a diversi domini di emergenza sociale e di intervento qualifi cato (Tab. 3).

2 Per comprendere l’organigramma della Comunità di Capodarco di Fermo si precisa che alcuni servizi, come il centro socio-educativo riabilitativo Santa Elisabetta e la Comunità Sant’Andrea, fanno capo direttamente alla Comunità; altre strutture operative sono collegate alla Comunità tramite la costituzione di apposite associazioni (come per la Cooperativa Solaria per l’ambito della psi-chiatria; l’associazione Mondo Minore onlus e l’associazione L’Arcobaleno, rispettivamente per i servizi ai minori e alla tossicodipendenza). Ci sono infi-ne sedi operative direttamente riferite all’opera della comunità di Capodarco come Cogito società cooperativa a d.l., che ha la finalità di creare formazione e opportunità lavorative per i soggetti socialmente deboli; Agenzia Redattore Sociale, che si dedica all’informazione quotidiana sui fenomeni del disagio e dell’impegno sociale. Fanno riferimento all’opera del Presidente tre scuole dell’Infanzia situate sempre nel territorio del fermano e Casa Betesda, volta all’accoglienza e alla presa in carico di adulti con devianze e marginalità so-ciali.

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Tab. 2. Organigramma della Comunità di Capodarco

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Tab. 3. Organigramma della Comunità di Capodarco di Fermo

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Di seguito trascriviamo le strutture ed il numero dei parteci-panti e dunque delle interviste tralasciando, per questioni di pri-vacy, i nomi di coloro che hanno aderito alle interviste.

In realtà, come vedremo nell’impianto metodologico, la se-guente schematizzazione ripercorre, in retrospettiva temporale, quello che l’approccio metodologico della Grounded Theory defi nisce “campionamento teorico” (theoretical sampling), che dunque non è stato scelto a priori, ma si è allargato in sinergia con l’emergere della teoria ed è terminato con la saturazione delle categorie emerse.

Nel complesso sono state effettuate 83 interviste. Essendo una analisi di “sistema”, la ricerca si è estesa anche alle rappresenta-zioni “esterne” identifi cate in un gruppo di 10 persone dell’“am-biente esterno” alla Comunità di Capodarco di Fermo, ma resi-denti sempre nel territorio del fermano.

Nel seguente elenco vengono riportati il nome della comunità e tra parentesi l’ambito di presa in carico a cui si riferisce, il nu-mero e la qualifi ca degli intervistati.

1. Comunità di Capodarco di Fermo (disabilità fi sica e cen-tro di riabilitazione): 25 intervistati tra cui il responsabile e coordinatore della Comunità, comunitari – persone che abitano nella Comunità (persone disabili e famiglie che abitano in comunità) – ed operatori (infermieri).

2. Centro socio educativo riabilitativo. Comunità Santa Eli-sabetta (disabilità psico-fi sica medio-grave): 5 interviste (responsabile e coordinatore della Comunità, 4 educato-ri).

3. Comunità Sant’Andrea (disabilità psico-fi sica grave e gravissima): 7 interviste (1 responsabile e coordinatore, 1 psicologa, 3 educatori, 1 operatore socio sanitario e 1 genitore).

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4. Società Solaria cooperativa a r.l.:• Comunità di San Claudio (psichiatria): 8 interviste

(responsabile e coordinatore della comunità, psicolo-ga, 3 educatori, 3 operatori socio-sanitari).

• Comunità di San Girolamo (psichiatria): 9 interviste (2 responsabili e coordinatori, psicologo, 4 educatori, 2 operatori socio sanitari).

5. Associazione Mondo Minore Onlus:• Comunità educativa Mondo Minore (minori maschi

dai 13 ai 17 anni): 3 interviste (1 responsabile e coor-dinatore della Comunità, 2 educatori).

• Comunità educativa Sant’Anna (minori femmine da 9 a 13 anni e ragazze in diffi coltà, ragazze madri): 3 in-terviste (responsabile e coordinatore della comunità, 2 educatrici).

• Comunità alloggio San Giuliano (adolescenti maschi 16-21 anni): 3 interviste (responsabile e coordinatore della comunità, 2 educatori).

• Comunità familiare Beato Giovanni della Verna (mi-nori 7-12 anni): 2 interviste (2 responsabili e coordi-natori della Comunità familiare).

• Rete di Famiglie affi datarie (affi do di bambini 0-12 anni): 1 intervista (responsabile e coordinatore della rete).

6. Associazione L’Arcobaleno (tossicodipendenze): 3 inter-viste (responsabile e coordinatore dell’associazione, psi-cologa, educatore).

7. Cogito società cooperativa a d.l. (Formazione): 1 intervi-sta (responsabile).

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8. Agenzia Redattore Sociale (Informazione, Comunicazio-ne): 1 intervista (responsabile).

9. Comunità Internazionale: 2 interviste (presidente e re-sponsabile della Comunità di Capodarco di Fermo).

10. “Ambiente esterno alla Comunità”: 10 interviste (persone inserite nel fermano).