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Centro Internazionale di Studi Cateriniani Pagina 1 di 59 Mercoledì Cateriniani 2012 Caterina da Siena. La santa della politica Il testo delle conferenze è quello fornito dai rispettivi relatori Per visualizzarlo cliccare sul titolo. CONFERENZA DEL 15 FEBBRAIO 2012 Il potere come servizio “a tempo” Paolo Asolan Pontificia Università Lateranense Ufficio Diocesano di Pastorale Sociale CONFERENZA DEL 29 FEBBRAIO 2012 Il perseguimento del “bene comune” e il coraggio dei politici Bartolo Ciccardini Giornalista, già Parlamentare CONFERENZA DEL 7 MARZO 2012 Coscienza cristiana e impegno politico Alessandro Forlani già Parlamentare CONFERENZA DEL 14 MARZO 2012 La novità cristiana per una convivenza civile Giuseppe Pedà Vice Presidente Nazionale Giovani Imprenditori Confcommercio CONFERENZA DEL 21 MARZO 2012 L’incarico politico: un servizio “a tempo” – Laboratorio: Lett.123 Rosita Casa Consigliera e Segretaria-Tesoriera del CISC CONFERENZA DEL 28 MARZO 2012 Eucaristia e Città Gerarda Schiavone Consigliera del CISC Luca Diotallevi Università di Roma Tre Vice Presidente del Comitato Scientifico Settimane Sociali dei Cattolici Italiani CONFERENZA DEL 18 APRILE 2012 S. Caterina e l’idea dell’Italia Giancarlo Boccardi già Vice Presidente Associazione Italiana dei Maestri Cattolici

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Mercoledì Cateriniani 2012 Caterina da Siena. La santa della politica

Il testo delle conferenze è quello fornito dai rispettivi relatori

Per visualizzarlo cliccare sul titolo.

CONFERENZA DEL 15 FEBBRAIO 2012

Il potere come servizio “a tempo”

Paolo Asolan Pontificia Università Lateranense Ufficio Diocesano di Pastorale Sociale

CONFERENZA DEL 29 FEBBRAIO 2012

Il perseguimento del “bene comune” e il coraggio dei politici

Bartolo Ciccardini Giornalista, già Parlamentare

CONFERENZA DEL 7 MARZO 2012

Coscienza cristiana e impegno politico

Alessandro Forlani già Parlamentare

CONFERENZA DEL 14 MARZO 2012

La novità cristiana per una convivenza civile

Giuseppe Pedà Vice Presidente Nazionale Giovani Imprenditori Confcommercio

CONFERENZA DEL 21 MARZO 2012

L’incarico politico: un servizio “a tempo” – Laboratorio: Lett.123

Rosita Casa Consigliera e Segretaria-Tesoriera del CISC

CONFERENZA DEL 28 MARZO 2012

Eucaristia e Città

Gerarda Schiavone Consigliera del CISC

Luca Diotallevi Università di Roma Tre Vice Presidente del Comitato Scientifico Settimane Sociali dei Cattolici Italiani

CONFERENZA DEL 18 APRILE 2012

S. Caterina e l’idea dell’Italia

Giancarlo Boccardi già Vice Presidente Associazione Italiana dei Maestri Cattolici

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CONFERENZA DEL 15 FEBBRAIO 2012

Il potere come servizio a tempo

una dimensione della “città prestata”

La città prestata

Allorché Aldo Bernabei mi parlò per la prima volta del titolo di questa conversazione su “Il potere a come servizio a tempo”, tosto mi risuonarono dentro le celebri parole che Caterina da Siena indirizzò

ai suoi concittadini: «con desiderio di vedervi uomini virili, e non

timorosi governatori della città propria e della città prestata» (Lettera 123).

Nell’incontro del 21 marzo prossimo questa lettera sarà posta al centro di un lavoro seminariale (laboratorio) a cura della Prof. Rosita Casa e perciò rinvio a quell’appuntamento l’affrontamento

delle questioni connesse a questa importante lettera dell’epistolario cateriniano.

In questo testo la santa ricorda una verità elementare: la città – una comunità umana organizzata secondo un preciso ordinamento

socio-politico – non è mai possesso esclusivo di chi la amministra, rimane sempre e comunque una

città “prestata”. Non soltanto non coinciderà mai in toto con la vita e gli interessi di chi la governa (continueranno a sussistere in essa interessi altri e relazioni altre che quelle intrecciate da chi governa), ma anche sopravviverà al suo stesso governante quando questi verrà a mancare – il cui governo, dunque, costituirà al massimo un periodo della storia della città. Caterina aggiunge, con

ben altra profondità di prospettiva che quella offerta dai semplici fenomeni (o patti) politici, che la città è qualcosa che ad un certo punto si deve rendere al legittimo Proprietario quando e qualora egli ne richiedesse conto:

«Colui che signoreggia sé, la possederà con timore santo, con amore ordinato e non disordinato; come cosa prestata e non come cosa sua. Guarderà la prestanza della signoria

che gli è data, con timore e riverenza di colui che gliela dié. Solo da Dio l’avete avuta sì che quando la cosa prestata c’è richiesta dal Signore, ella si possa rendere senza pericolo di morte eternale. Or con uno, dunque, santo e vero timore voglio che voi possediate. E

dicovi, che altro rimedio non hanno gli uomini del mondo a volere conservare lo stato spirituale e temporale, se non di vivere virtuosamente: perocché per altro non vengono meno se non per li peccati e difetti nostri. E però levate via la colpa, e sarà tolto il timore; e

avrete cuore vigoroso e non timoroso; e non avrete paura dell’ombra vostra» (Id.).

Nella stessa lettera, poco prima di queste righe, leggiamo:

«Signoria prestata sono le signorie de le cittadi o altre signorie temporali le quali sono prestate a voi e agli altri uomini del mondo, le quali sono prestate a tempo, secondo che

piace a la divina bontà, o secondo i modi e i costumi de’ paesi: unde o per morte o per vita elle trapassano, sì che, per qualunque modo egli è, veramente elle sono prestate» (Id).

Oltre alla Lettera 123 ho trovato perlomeno altri due testi che fanno al caso nostro.

Il primo è la Lettera 28, a messer Bernabò signore de Melano, per certi ambasciatori d’esso signore mandati a lei:

«Adunque per veruna signoria che aviamo in questo mondo ci possiamo riputar signori.

Non so che signoria quella si fusse, che mi può esser tolta e non sta nella mia libertà. Non

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mi pare che se ne debba chiamare né tener signore, ma più tosto dispensatore; e questo è a tempo, e non è sempre, quanto piacerà al dolce Signore nostro. E se voi mi diceste: Non

ci à l’uomo in questa vita niuna signoria? Rispondevi: sì, àlla, la più dolce e più graziosa e più forte che veruna cosa che sia, e questa è la città dell’anima nostra.

Oh, ècci maggior cosa e grandezza che avere una città che vi si riposa Iddio, che è ogni bene, dove si ritrova pace, quiete e ogni consolazione? Ella è di tanta fortezza questa città, e di sì perfetta signoria, che né dimonio né creatura ve la può tòllere, se voi non vorrete».

Il secondo è la Lettera 235, al re di Francia, a ‘stanza del duca d’Angiò:

«Tre cose singulari vi prego, per l’amore di Cristo crocifisso, che facciate nello stato vostro. La prima si è che spregiate el mondo e voi medesimo, con tutti e’ diletti suoi: possedendo voi el reame vostro come cosa prestata a voi, e non vostra, però che voi sapete bene che

né vita né sanità né ricchezze né onore né stato né signoria non è vostra, chè s’ella fusse vostra, voi la potreste possedere a vostro modo. Ma talora vuole essere l’uomo sano, ch’egli è malato; o vivo, ch’egli è morto; o ricco, ch’egli è povaro; o signore, ch’egli è fatto

servo o vassallo. E tutto questo è perché elle non so’ sue; e non le può tenere se no quanto piace a colui che gli l’à prestate.

Adunque bene è semplice colui che possiede l’altrui per suo: dirittamente egli è furo, e degno di morte. E però pregovi che, come savio, facciate come buono dispensatore – possedendo come cose prestate a voi - , fatto per lui suo dispensatore».

Ma perché la nostra conversazione non concluda direttamente/fatalmente nel moralismo (“allora la soluzione è questa: dobbiamo istituire un limite legale alle rielezioni…”) o magari nella denuncia

rassegnata (“sarebbe bello, ma sappiamo che purtroppo non è così: la politica è diventata un mestiere…”), vorrei qui attirare l’attenzione su quella congiunzione “e” con la quale Caterina lega la “città propria” e la “città prestata”.

Il senso della congiunzione è chiaro: secondo la santa, ognuno di noi ha una propria città da governare (se stesso, la propria anima) ed è da questo governo/potere che dipende il rapporto con

la comunità sociale e politica cui appartiene.

In questa prospettiva, il tema del potere “a tempo” riveste a mio giudizio un’importanza che va oltre il puro valore dell’attualità politica, che pure c’è: potrebbe persino ispirare una verifica fondamentale

per tutti e non solo per coloro ai quali è in questo momento “prestata” la città.

La nascita della città

Dobbiamo innanzitutto comprendere questo sostantivo – città.

Dovendo interpretare il pensiero e le parole di una donna cristiana che attingeva il suo vocabolario

dalle Scritture, forse la via di approssimazione migliore rimane la Bibbia.

Il sorgere della città vi è narrato fin dal primo libro, la Genesi. I primi undici capitoli di quel primo

libro sono evidentemente di carattere eziologico: vogliono spiegare il perché delle cose che accadono ora componendo «un panorama permanente della situazione umana nel mondo, una descrizione delle costanti del mondo in cui noi stessi ci troviamo» (E. Bianchi, Adamo, dove sei?, Qiqaion, Magnano 1994, 11).

Nell’Antico Testamento ebraico il termine fondamentale che indica la città è ‘ir, e propriamente

indica un insediamento umano chiuso, spesso “con alte mura, porte e sbarre” (Dt 3,5). Nella Bibbia greca venne tradotto con polis, senza tuttavia che l’uso del termine comportasse quell’ordinamento sociale che è invece implicito nell’uso greco della parola. Quel che è chiaro è che la città si

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differenzia da altri insediamenti in forza della sua maggior difesa, dovuta alla sue mura e ai suoi sistemi di sicurezza.

Ma – e questo è il punto – il bene e la salvezza non coincidono con la sicurezza: non li possono garantire né i muri né alcun’altra costruzione umana. L’uomo non può sperare che una cosa fatta

dalle sue mani si possa sostituire a quel che solo Dio può donare. È questo il tema – decisivo – dell’idolatria: quando Dio è sostituito da un idolo, tutto l’ordine del mondo si corrompe e si ritorce contro l’uomo, trasformando le cose di questo mondo da strumenti di vita a cause di morte, non

solo morale.

Per questo la Bibbia esprime una certa diffidenza verso la città intesa così: autosufficiente e sicura di

sé, delle proprie forze. Un tale giudizio è evidente fin dal quarto capitolo della Genesi, dove si racconta che Caino – dopo il fratricidio – «si allontanò dal Signore, e abitò nel paese di Nod [un paese in realtà inesistente] a oriente di Eden […] poi divenne costruttore di una città» (Gen 4,16-

17).

Ruperto di Deutz non esitò, perciò, a scrivere «come l’omicidio sia la prima causa della costruzione

della città sulla terra» (Ruperto di Deutz, De Sancta Trinitate et operibus eius, I-IX(R. Haacke) CCCM 21, Turnhout 1971, 294). Più recentemente Norbert Lohfink (commentando Genesi 4,19-23 e riferendosi alle note tesi di René Girard) ha ribadito che la Genesi «mostra come la città, e così pure

la musica e le altre forme di cultura suppongono l’uccisione» (Norbert Lohfink, Il Dio violento dell’Antico testamento e la ricerca di una società non violenta, in La Civiltà Cattolica, 135 (1984/II) 44).

Dalla Bibbia viene dunque rivelata una correlazione tra solitudine, paura di morire o di essere uccisi, costruzione della città e delle mura. Quando questi elementi non si aprono all’invocazione e

all’alleanza di Dio – cioè alla speranza/certezza che Dio tiene saldamente nelle sue mani l’esistenza dell’uomo, perché egli stesso l’ha pensata e voluta, ne conosce il significato, l’ha amata e destinata a non finire ma, anzi, a unirsi alla sua – necessariamente devono affidare a un qualche idolo il

compito di creare una vita rassicurante e pacifica. Caterina, nella Lettera 123, chiama questa condizione “amore proprio e timore servile”.

Quando l’uomo è problema/mistero a se stesso, la soluzione non può essere ancora e di nuovo

l’uomo, o quel che l’uomo può costruirsi da sé .

Babele/Babilonia (Gen 11)

Un paradigma del genere riguarda la città di Babele/Babilonia, costruita dagli uomini che “emigrando dall’oriente” si stabilirono “in una pianura del paese di Sennaar”.

Nelle religioni antiche, il luogo da dove sorge il sole – l’Oriente – è sempre stato collegato al luogo dove Dio dimora. Voltando le spalle all’Oriente si compie una prima rottura con l’Origine, propiziata dalla ricerca di una stabilità offerta da un territorio privo di asperità o di ostacoli naturali. La pianura

diventa il luogo che gli uomini ritengono essere la loro meta definitiva, dove possono iniziare a costruire con “mattoni” e “bitume di cemento”.

Avendo tempo e luogo a disposizione, ecco nascere l’idea di “una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (v. 4).

La costruzione della torre assorbe tutte le loro energie e tutto il loro interesse. Si mettono a fare mattoni: un lavoro che gli israeliti faranno solo in quanto ridotti in schiavitù, in Egitto.

La costruzione dovrà “toccare il cielo”, cioè Dio. Fanno questo perché vogliono “farsi un nome”: all’impresa della torre è affidato il compito di dare un’identità a chi la costruisce.

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Dio visita gli uomini di Babele e constata: “quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile”. Non si tratta, tuttavia, del giudizio di un Dio arrogante o geloso, o della reazione

dell’inquilino del piano di sopra, disturbato dai lavori al piano di sotto e infastidito da chi pretende di fare meglio di lui. L’impresa a portata degli uomini non è il raggiungimento del cielo (nessuna costruzione potrà mai conseguire una meta del genere: quando si può dire di aver raggiunto il

cielo?), ma lo spreco della vita, buttata a inseguire un obiettivo insensato e inutile. È questo che Dio non vede impossibile agli uomini: che destinino la loro vita a un’impresa che non darà loro né un nome né una salvezza dalla fragilità di cui hanno paura.

Il medesimo paradigma spiega pure altri fenomeni, meno remoti. È possibile, ad esempio, vivere con l’ossessione di mantenersi un corpo sempre giovane, immune dallo scorrere del tempo e

dall’avvicinarsi della morte? È alla nostra portata dannarsi tutta una vita per accumulare soldi e potere, con la conseguente illusione di essere diversi dai comuni mortali? E, a proposito di muri, è possibile costruirne continuamente di invisibili (non per questo irreali) e tali che ostacolino i rapporti

o l’intimità con il prossimo, tenendo l’anima dentro un carcere di solitudine? È possibile coltivare deliri di onnipotenza, progettare imprese di vasta risonanza mediatica, soltanto per difendersi dal timore che il nostro nome sparisca nel nulla?

Sì, è possibile, ed è quel che capita anche adesso.

Ognuno può edificare la sua città come una Babele, cioè come una città con la quale sarà impossibile comunicare. L’esito ultimo della torre, infatti, fu la confusione delle lingue e l’incomprensione l’uno dell’altro.

Ciò accade ogni volta che si centra l’esistenza su qualcosa che diventa l’unico scopo, l’unica possibilità di farsi un nome. Non ci si capisce più tra di noi e ci disperdiamo nella disunione ogni

volta che qualcuno mette al centro dei suoi pensieri, del suo lavoro, del suo impegno (economico e/o politico) il suo proprio io; ogni volta che si affatica soltanto in vista di se stesso e del suo compimento, a prescindere dalla verità del suo essere creaturale, che invece lo lega a Dio e agli altri

uomini; ogni volta che “farsi un nome” significherà usare delle cose del mondo in vista della realizzazione esclusiva di sé.

Ma la verità della creatura sta fuori di essa: nessuno è stato creato per glorificare se stesso, per

realizzarsi al di sopra o contro gli altri, per usare delle cose del mondo sfidando la parità con il Creatore.

L’uomo è stato creato per amare: per trovarsi perdendosi in quell’amore che è dono di sé.

Scrive Caterina a due nobili di Volterra, impegnati nelle faide intestine della città toscana:

«La virtude della carità e dell’umiltà si truova e s’acquista solo in amare il prossimo per Dio; perocché l’uomo umile e pacifico caccia l’ira e l’odio del cuore suo verso il nemico, e la

carità caccerà l’amore proprio di sé e dilagherà il cuore con una carità fraterna, amando nemici e amici per lo svenato e consumato Agnello, come sé medesimo; e daragli una pazienza contra ogni ingiuria che gli fusse detta o fatta, e una fortezza dolce in sapere

portare e sopportare i difetti del prossimo suo» (Lettera 103).

Gerusalemme

La città costruita come un idolo che non può salvare non è altro che la proiezione di sé su quel che

si fa: una visione di sé trasferita su qualcosa da ottenere o da realizzare a tutti i costi, fosse anche l’eliminazione di Dio o del prossimo. Nasce da questa continua proiezione, mai sazia e spesso rabbiosa, l’impossibilità di governare quella città che è la nostra anima.

Tutti gli idoli sarebbero in se stessi realtà buone, alleate della vita dell’uomo. Quando vengono investiti del compito di definirci e di darci vita, allora rendono schiavi. Così può succedere anche per

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le istituzioni della “città prestata”: create per regolare l’uso del potere legittimo e favorire un’ordinata convivenza tra diversi, se idolatrate possono diventare mondi chiusi e autoreferenziali,

veri e propri moloch che, promettendo di risolvere i problemi della vita, in realtà la risucchiano via.

Ci sarà una via d’uscita, che spezzi il meccanismo?

La Bibbia dice che fu la confusione delle lingue a costringere i costruttori della torre a disperdersi, ad abbandonare un progetto folle e disumano.

Non sarà vero anche per noi oggi? Che, cioè, la persistente crisi antropologica, sociale e politica in cui ci barcameniamo abbia bisogno di nuove partenze?

Proprio da Babele se ne partì Terach, che fu il padre di Abramo, il primo dei credenti. Lo stesso Abramo, chiamato da Dio, dovette partire dalla sua terra e dalla casa di suo padre, verso un luogo

che non conosceva ma che costitutiva il compimento adeguato e non folle del suo desiderio: “egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso” (Eb 11, 10).

Di lui – come di tutti i patriarchi – la Bibbia dice che «nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di

essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi

il loro Dio: ha preparato infatti per loro una città» (Eb 11, 13-16).

Nell’ultimo libro della Bibbia questa città è mostrata: “la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio” (Ap 21,10), adorna come una

sposa pronta per il suo sposo.

Pochi capitoli prima aveva fatto la sua apparizione – ancora –

Babele/Babilonia, presentata come “la grande prostituta”, come la città che si è unita non al suo Signore, ma ad altri amanti (gli idoli), ai quali si è concessa senza che la sposassero.

Questa è la buona notizia che fa da fondamento alla speranza: Dio si sta preparando una città, con la quale vuole vivere in comunione di vita e di amore. Si tratta di acconsentire a questo disegno, con la stessa libertà di una sposa la quale, il giorno delle nozze,

acconsente al suo sposo e lo sceglie per sempre.

La Gerusalemme che scende dal cielo è ancora una città, ma è trasfigurata di bellezza: le sue porte

sono aperte e non chiuse, le mura sono adorne di ognispecie di pietre preziose, il fiume che vi scorre è lo stesso dell’Eden primordiale, emana uno splendore di oro simile a terso cristallo, la piazza è di oro puro. Non possiamoqui decodificare tutte le cifre del linguaggio apocalittico; ci basti

ricordare come queste immagini intendano tradurre in termini umanamente comprensibili l’indicibile realtà della gloria di Dio presente nella città, non più costruita da mano di uomo, ma discesa dal cielo – quel cielo che la torre di Babele tentò inutilmente di raggiungere.

La gloria di Dio, il suo farsi sentire nella vita degli uomini, ha bisogno di quel che l’uomo è e fa per manifestarsi. Il disegno di Dio sulla città non è il suo annientamento, ma la sua pienezza, la quale

non può venire che da Dio stesso, da un mistero di amore e di grazia:

«Che esemplo e che dottrina è questa, che ‘l giusto, che non à in sé veleno di peccato,

sostenga dallo ingiusto, per punire le nostre iniquità! O quanto si debba vergognare l’uomo che seguita la dottrina del dimonio e della sensualità, curandosi più di acquistare le richezze del mondo e di conservarle – che tutte sono vane e passano come el vento – che

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dell’anima sua e del prossimo suo! Ché, stando in odio col prossimo, sta in odio con seco medesimo, perché l’odio lo priva della divina carità. Bene è stolto e cieco, ch’egli non vede

che col coltello dell’odio del prossimo suo ucide sé medesimo.

E però vi prego e voglio che seguitiate Cristo crocifisso, e siate amatore della salute del

prossimo vostro, dimostrando di seguitare l’Agnello che, per fame dell’onore del Padre e salute dell’anime, elesse la morte del corpo suo» (Lettera 235).

Entrando nella vita degli uomini, Egli la trasforma senza annullarla, felice anzi di recuperare con la misericordia e con la verità quel che la paura di morire e il delirio di farsi come Dio avevano distrutto.

Occorre sposare questo disegno di Dio, acconsentirvi liberamente, accettando di ordinare la “città propria” come quella sposa – Gerusalemme – adorna per il suo Sposo.

Questa scelta costituirà un nuovo inizio: l’abbandono consapevole della pianura di Sennaar dalle costruzioni insensate e lo spalancamento fiducioso, senza rimpianti, delle porte di ogni “città

prestata”, presente e futura.

«Provide la bontà di Dio alla necessità dell’uomo, ch’ogni dì perde questa signoria di sé

offendendo il suo Creatore: e però à posto questo remedio della santa confessione, la quale vale solo per il sangue dell’Agnello» (Lettera 28).

Evidenzierò, pertanto, attraverso alcune esemplificazioni, sia la funzione profetica, sia i ruoli ministeriali esercitati da alcune, tanto in età medioevale che moderna.

Paolo Asolan

Pontificia Università Lateranense Ufficio Diocesano di Pastorale Sociale

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CONFERENZA DEL 29 FEBBRAIO 2012

Il perseguimento del “bene comune” e il coraggio dei politici

una dimensione della “città prestata”

1. “Non per l’amore di sé”

L’Italia del XIV secolo si appresta a diventare il Paese emergente della civiltà occidentale, primo nella ricchezza, nell’arte, nella scienza, ma senza una adeguata struttura politica. In questo

panorama si alza la voce di una giovane religiosa che parla con autorità al Papa, ai capi di stato, agli uomini politici, ai condottieri delle arroganti bande militari: Caterina Benincasa, popolana di

Siena.

Essa introduce un concetto nuovo che cambia la regola del vivere

civile: fino ad allora “il mantenimento e l’accrescimento dello Stato” (come lo chiamerà Machiavelli) è inteso come appropriazione di un proprio potere personale e patrimoniale. La

giovane Caterina invece parla di “un bene comune”, fondato sulla santa giustizia, che renda a ciascuno il suo, su cui si fonda una pace gioiosa. Non per l’amore di sé, ma per l’amore di Dio che si

comunica agli altri. È una definizione rivoluzionaria, che va contro il pensiero e la pratica di quel tempo, che avrà alcuni risultati e molti fallimenti ma che giungerà attuale fino ai nostri giorni.

Caterina, con un suo coraggio personale, richiede questo comportamento ai religiosi per il bene della Chiesa. Ma anche ai capi delle comunità politiche e persino ai “lupi”, i professionisti della violenza armata che saccheggiano l’Italia. Questo desterà stupore in quei tempi, stupore che

continua sia per i credenti, sia per i laici, fino al giorno d’oggi.

2. Il “bene comune” come virtù sociale

La concezione di Caterina è in contrasto con la cultura del suo tempo: allora il buon governo era basato sulla legittimità: ogni potere viene da Dio e la legittimità ne garantisce la stabilità, sia che si

tratti di legittimità del sangue, sia che si tratti di legittimità dovuta al possesso.

Il potere è buono quando il suo esercizio è giusto e misericordioso ed adempie ai doveri di carità e

di soccorso ai poveri. Il tutto in un ambito di virtù personali che non prevedono né diritti altrui, né regole.

L’autorità si fonda sull’acquisizione dei beni comuni: i beni della Chiesa nel caso dell’investitura ecclesiastica, i beni feudali nel caso delle autorità politiche. Con la rinascita delle città si formano, con il commercio e con le banche, nuove grandi ricchezze, che costituiscono una base per il sorgere

delle Signorie. In questo contesto storico Caterina introduce il concetto di “bene comune”: l’amore di Dio presuppone la condanna dell’ “amore di sé”, o amor proprio e lo sostituisce con il concetto di “amore per gli altri” che porta la santa giustizia e dà la pace. La coscienza del “bene comune” secondo Caterina porta ad un comportamento amorevole, ma anche coraggioso e virile contro il

modo di sentire di quel secolo.

Già San Tommaso aveva parlato di “bene comune” nella Summa Theologiae scritta un secolo prima,

dicendo che la legge "non è che una prescrizione della ragione, in ordine al bene comune,

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promulgata dal soggetto alla guida della comunità" (I pars, q. 90, a. 4).Questo concetto ricalca la lode di Dio a Salomone, perché aveva chiesto in dono, non la ricchezza, non la potenza, non la

morte dei suoi nemici, ma la sapienza per conoscere il bene ed il male e poter cosi giudicare con giustizia.

Ma Caterina va oltre. Il bene comune non è soltanto il fine della legge promulgata con saggezza dal re, ma è l’amore per gli altri che vince sull’egoismo e su “l’amore di sé”. Non è una virtù del re, ma una virtù sociale.

3. Il rinascimento della figura femminile

Il grande carisma delle “donne consacrate a Dio” illumina di una luce importante questo secolo. La storiografa Claudia Opitz scrive:“E’ un fatto che per tutto il tardo medioevo le donne si pronunciarono anche a proposito di avvenimenti di importantissimo rilievo politico; Caterina di Siena e Brigitta di Svezia furono senza dubbio le più famose, ma certo non le sole. Il tardo medioevo fu dunque un’epoca in cui le donne assunsero un’importanza fondamentale nel campo politico-religioso. Il numero delle donne canonizzate non era stato mai, né mai sarà superiore a quello registrato nei tre ultimi secolo del medioevo: fino a un quarto di tutti i nuovi santi furono in quest’epoca di sesso femminile, una gran parte di esse addirittura mogli e madri”.

In una tavola del XIV secolo la Badessa e fondatrice delle suore vallombrosiane è ritratta in lettura nella sua cella, poi in refettorio mentre legge dal pulpito ed infine al centro della tavola con in mano

un libro: un attributo di solito maschile nei secoli precedenti. Scrive Chiara Frugoni che la triplice aureola o corona “è tributata a Caterina da Siena, la santa legata all’ordine domenicano, interlocutrice di pontefici: oltre che vergine e martire, per le sofferenze subite e le tentazioni vinte; essa è perciò anche “predicatrice” annientando il divieto paolino che vuole la donna silenziosa in pubblico”. E più avanti: “Caterina da Siena come approdo del suo impegno religioso scelse di essere suora mantellata nel terz’ordine dei domenicani, che della cultura avevano fatto il punto forte per convincere e sgominare gli eretici. Qui la santa trovò la grazia e la possibilità di sviluppare le sue grandi doti in sintonia con le scelte dell’ordine stesso. La diffusione dell’immagine di Caterina da Siena contribuisce a confermare le prerogative della santa, che vengono accettate nonostante sia una donna”.

L’autrice vede in quest’esempio come in altri la conquista di una posizione sociale politica della donna attraverso la santità e la profezia. Questo tipo di santità, secondo l’autrice, esprime una

dimensione civica, sempre più le sante sono rappresentate con l’immagine della città che hanno protetto e a cui hanno rivolto il loro insegnamento: “Esse diventano – è un fatto nuovo – simbolo riassuntivo di coscienza civica (…) La donna dopo tanti secoli in cui il cammino sembrava negato, nel medioevo pieno, inizia a conoscere non solo in cielo, ma anche sulla terra “la strada che porta in città”. (Qoelet 10,15).

4. L’Italia del 1300

Il vuoto del potere moderatore del Papato nel periodo avignonese, la ripresa forte delle pretese dell’Impero e del Regno di Francia di regolare la vita italiana, la guerra fra Angiò ed Aragona per la Sicilia, il crescere delle rivalità fra le repubbliche cittadine e della lotta fra le famiglie della stessa

città per costituirsi a signoria, rendevano la vita politica bellicosa e turbolenta.

Nel frattempo ad Avignone era stato eletto papa il francese Gregorio XI. In questo vuoto politico si

sentiva la necessità di un ritorno dell’autorità pontificia a Roma.

Dice Salvatorelli nella sua “Storia d’Italia” : “Si fece interprete di questo desiderio la popolana senese, Caterina Benincasa, che per la sua fama di santità, per la sua elevatezza religiosa, accompagnata da doni spirituali straordinari, esercitò un prestigio notevole in taluni circoli devoti e fu portata ad occuparsi degli affari politici del tempo”. È il giudizio di uno scrittore laico, che segnala

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un evento straordinario che avrà grandi conseguenze per secoli: il ritorno del papato a Roma, per il coraggio politico di una donna giovane, incolta e di nascita popolana.

Gregorio XI tornò in Italia, in una situazione difficile e disperata e l’anno successivo morì. Venne allora eletto, in un conclave turbolento che si tenne a Roma, Urbano VI.

Ma i contrasti civili ed ecclesiastici ormai erano così incontrollabili ed il carattere del nuovo Papa così autoritario che si arrivò allo scisma. Due Papi si combatterono a lungo, la cristianità si divise fra

un Papa romano ed un Papa avignonese.

Dice sempre il Salvatorelli :“Per la storia politica d’Italia il grande scisma ebbe come suo primo effetto di interrompere per un mezzo secolo il processo di formazione del principato pontificio e di mettere fine ad ogni possibilità egemonica dei pontefici in Italia”.

Il sogno di Caterina sembra essere fallito. Il ritorno del papa non ha portato la pace in Italia e neppure la riforma dei costumi nella Chiesa. La debolezza del Papato, dopo la composizione del grande scisma, avvenuta con il Concilio di Costanza nel (1414-1418), lo fece trovare impreparato di

fronte alla terribile sollevazione della riforma protestante. Ma la visione di Caterina non fu inutile. Il Papato si salverà per il coraggio politico di Caterina e la barca di Pietro supererà tempeste terribili fino ai nostri giorni.

5. Caterina ed il giusto coraggio civile

Così Santa Caterina si rivolge a Gregorio XI quando non si decideva a partire da Avignone per i grandi pericoli che avrebbe corso: “Venite dunque, venite e non più indugiate, e confortatevi, e non temete alcuna cosa che avvenire potesse, però ché Dio sarà con voi” (Lettera 196 a Gregorio XI).

Ora Caterina chiede per il ritorno a Roma un coraggio sovrumano : “I l desiderio di vedervi uomo virile e non timoroso; acciocchè virilmente serviate alla dolce sposa di Cristo, adoperando per onore di Dio spiritualmente, secondo che nel tempo d’oggi questa dolce sposa ha bisogno”. Caterina, come se prevedesse queste difficoltà, invoca un comportamento coraggioso, virile in coloro che devono prendere le decisioni. E’ il ben fare di chi opera per amore

di Dio e confida nel suo aiuto.

A questa ben fare si oppone il timore che Caterina chiama

“servile”: “O quanto pericoloso questo timore! Egli taglia le braccia del Santo desiderio: egli acceca l’uomo che non gli lassa conoscere né vedere la verità, perché questo timore procede dalla cechità dell’amore proprio di sé medesimo”. Ecco che siamo arrivati ad un punto fondamentale del pensiero

di Caterina: l’amore proprio, di sé medesimo, quello che Guicciardini chiamerà due secoli dopo con linguaggio laico “il proprio particulare” si oppone per paura o per profitto all’interesse generale, al bene comune, alla pace ed all’amore per il prossimo, che sono i valori che Caterina individua nel

concetto di “onore di Dio”.

6. Caterina nei tempi della Chiesa

In questo secolo donne autorevoli, grandi sante, grandi mistiche parlano con forza e coraggio sia

alle autorità religiose, sia alla comunità dei cristiani. La cosa ci appare ovvia nella vita di Santa Caterina, ma nella storia di quei tempi non era affatto ovvia. Dice Georges Duby : “Tommaso d’Aquino, Alvaro Pelayo, il “Martello delle Streghe”, denunciano questo flagello(…). Ecco, si indigna Gilberto da Turnè, che le donne hanno l’ardire di parlare in pubblico e ciò che è peggio di dire il loro parere sul dogma e le scritture.” Tommaso d’Aquino ricorda:”Ad esse è permesso di parlare solo in privato; certamente a loro è permessa la profezia perché si tratta di un dono carismatico”.

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In Italia in particolare cresce il numero delle donne consacrate che parlano in pubblico con autorità. Scrive sempre il Duby : “Questa attenzione accresciuta procura all’Occidente delle grandi figure femminili, perché bisogna proporre dei modelli e salvare il salvabile: Brigitta di Svezia, Caterina da Siena, che parlano alto e forte ai potenti e perfino al Papa”.

Io ritengo che le donne acquistassero una così alta autorità perché, non avendo poteri di governo, erano più al riparo dalla lebbra di quei secoli: la simonia.

Anche a proposito del grande significato dell’appello di Caterina, mi piace riferirmi ad una testimonianza laica, quella di Eamon Duffy :“I settanta anni di esilio in Avignone terminarono nel gennaio del 1377, quando Papa Gregorio (1370-1378), l’ultimo francese ad essere eletto Papa fece ritorno a Roma. Uomo profondamente religioso e di temperamento mistico, Gregorio riteneva che solo Roma era il luogo della residenza papale, idea suggeritagli sia dalla precaria condizione dei territori pontifici in Italia, che richiedevano una sua personale attenzione, sia dai più spirituali inviti della veggente domenicana Santa Caterina da Siena. Nelle sue lettere Caterina lo chiama “dolcissimo babbo mio”, ma i suoi consigli sono inesorabilmente esigenti: “Anche se in passato non sei stato del tutto fedele, inizia ora a seguire Cristo, di cui sei veramente vicario. Non temere (…) attendi alle cose spirituali, nominando buoni pastori e governanti nelle città sotto la tua giurisdizione (…) soprattutto, non indugiare oltre a tornare a Roma e a proclamare la crociata”. Il fatto che tali lettere potessero essere indirizzate al Papa e che egli fosse determinato ad agire sulle loro basi, rivela la statura spirituale del papa”.

Giustamente l’autore richiama il fatto straordinario che un Papa, non solo permettesse questo

linguaggio, ma perfino lo ascoltasse e lo considera per questo uomo di alta spiritualità.

Comunque Gregorio tornò a Roma nel marzo del 1377 e l’anno successivo morì. Il Conclave romano

fu tempestoso. I cardinali erano assediati dal popolo romano il quale temeva che i cardinali francesi potessero eleggere un Papa francese. Sotto questa spinta fu eletto Urbano VI, arcivescovo non residente di Bari, che era stato reggente della cancelleria papale di Avignone. Urbano fu un Papa

con un carattere molto forte, autoritario e violento. Caterina non mancò di dargli il suo appoggio, anche se cercava di correggere queste sue inclinazioni. Ma i cardinali francesi, prendendo lo spunto dalla violenta pressione popolare che vi era stata sul conclave, dichiararono nulla l’elezione di Urbano e nominarono un altro Papa (Clemente VII) che fece ritorno ad Avignone.

Ebbe inizio così lo scisma d’occidente, che si concluse solo nel 1417 con il Concilio di Costanza che depose addirittura tre Papi ed elesse il Cardinale Ottone Colonna, Papa Martino V.

In questa prospettiva storica appare ancor più importante e straordinaria la visione di Caterina da Siena. Molte cose sono straordinarie in questa vicenda. La prima è certamente questa: che Caterina

esercitò realmente un’autorità che le veniva riconosciuta da tutti. Questa autorità era comprovata da prodigi che erano sotto gli occhi di tutti. Alcuni di questi prodigi sono difficili ad essere accettati dalla nostra mentalità moderna. Tuttavia dobbiamo registrare che essi davano un‘autorità a

Caterina, accettata dal popolo, dai governanti laici e soprattutto dalle autorità religiose, che non erano molto propense a farsi correggere. Debbo inoltre osservare che una giovane non addottorata scrisse, come per visione divina, un trattato di teologia, in cui coniuga Agostino con Tommaso, con

una dottrina ed un magistero inesplicabili, cosa questa che appare come il suo più grande prodigio fra i molti di cui si tiene memoria.

La seconda osservazione è che il disegno profetico di Caterina sarà fallimentare se confrontato con i risultati politici immediati, ma sarà provvidenziale, se confrontato con i risultati spirituali che, non prima di due secoli, il Papato, restaurato a Roma, seppe produrre. Per l’immediato non si fece la

crociata che Caterina chiedeva; il Papato, dopo il dolorosissimo scisma, riprese la sua autorità nella politica europea, ma non fu in grado di correggere la corruzione che il potere temporale e l’amministrazione dei possedimenti seguitavano a produrre. Tuttavia nel lungo periodo, anche se

aveva perduta l’autorità morale che aveva nel Medioevo, il papato di Roma, solo per il fatto di esistere, di essere legittimo, di mantenere il patrimonio della fede riuscì a superare la grave crisi

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della riforma protestante. E riuscì ad attrezzarsi per la grande prova a cui lo avrebbe sottoposto il mondo moderno.

7. Caterina fonda il concetto di “bene comune”

Caterina Benincasa visse in un periodo storico in cui l’idea di Stato è meno forte di quella che abbiamo noi. Già nel suo significato la parola “stato” significava la consistenza del possesso del proprio patrimonio.

In questo processo storico il concetto il potere coincide con il possesso: all’ufficio corrispondeva l’appropriazione del beneficio. Nella stessa chiesa si aspirava ad una carica ecclesiastica, per

diventare proprietari di terre ed usufruttuari di benefici, spesso senza neppure svolgere, con la presenza, l’ufficio a cui si era nominati. La carica era un titolo di proprietà. Questo stato di cose rendeva molto labile il concetto di “bene comune” e, con esso, il concetto di giustizia e di diritto di

tutti e di ciascuno ad una partecipazione della ricchezza pubblica.

È in questo contesto che bisogna valutare l’importanza del pensiero di Caterina che, su di un

fondamento religioso, costruisce il concetto politico di “bene comune”: “ E se viene da stato di signoria, in lui riluce la margherita della santa giustizia, tenendo ragione e giustizia al piccolo come al grande, ed al povero come al ricco, né per piacere agli uomini, né per desiderio di pecunia, né per amore che egli abbi del suo bene particolare; però chè non attende al suo bene proprio, ma al bene universale di tutta la città, e però apre l’occhio dello intelletto, non passionato per alcune ingiuria che egli abbi ricevuta, ma al bene comune”. (Lettera 113).

Devo far notare che secondo il pensiero di Caterina il principio fondamentale è “la margherita (la perla) della santa giustizia”. Chi ama la giustizia non attende al bene proprio, ma al bene comune.

E qui c’è una forte definizione dello stato che nasce per perseguire la giustizia al fine di un bene comune.

E a questo punto, appare bellissima la definizione di chi si dedica al bene comune, che descrive il modello ideale della vocazione politica: “Questa è quella dolce virtù che pacifica la creatura col suo Creatore, e l’uno cittadino con l’altro perché ella esce dalla fontana della carità e vincolo d’amore ed unione perfetta, la quale ha fatta in Dio e nel prossimo suo”.

Tradotto in termini moderni è il concetto a cui Benedetto XVI si riferisce quando parla della politica come del più grande atto di carità sociale.

8. Caterina, la pace e la guerra giusta

L’assenza di una ferma autorità che rendesse saldi i principi di amministrazione della giustizia per l’assenza del papa, aveva trasformato il patrimonio della Chiesa in una terra feroce di usurpatori

che con la violenza si appropriavano di città e di territori, lottando ferocemente fra di loro. E questa malattia si era diffusa in tutta la penisola, dove signoreggiavano le compagnie di ventura al soldo dei vari signori dedite al saccheggio delle popolazioni senza difesa.

Caterina li chiama “lupi” nella invocazione al Papa: “Rizzate, Babbo, tosto il gonfalone della Santissima Croce e vedrete i lupi diventare agnelli. Pace, pace, pace”. (Lettera 196 a Gregorio XI,

aprile 1376).

E a Niccolò Soderini, Gonfaloniere di Firenze, a proposito della guerra fra Firenze ed il Papa, scrive:

“Studiate, giusta al vostro potere (che senza misterio grande Dio non v’ha posto costì) di fare la pace e l’unione fra voi e la Santa Chiesa … Non mi pare che la guerra sia sì dolce cosa che tanto la dovessimo seguitare potendola levare. Or ècci più dolce cosa della pace? Certo no! (…) Fate loro vedere quanto potete nel pericolo e in malo stato che sono: chè io vi prometto che, se voi non vi argomentate nel ricevere la pace e di mandarla benignamente, voi caderete nella maggior ruina che cadeste mai!”.

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Caterina esorta con forza e con amore gli uomini politici alla costruzione della pace. Ma non è una pacifista. A noi appare, nel nostro concetto moderno di pace, troppo dura nel suo richiedere che

la venuta del Papa a Roma renda possibile una crociata.

Bisogna collocare questo sentimento nella condizione storica in cui viveva la cristianità:la Spagna

meridionale era ancora in mano ai mussulmani ed, in Oriente esplodeva la potenza ottomana, che tenterà sommergere l’Europa balcanica fino a Vienna.

Il pericolo per i cristiani era sentito in maniera forte e la difesa da quel pericolo e dalle sue conseguenze era concepita come un dovere morale. E Caterina si rivolge a un “lupo”, al condottiero di ventura Giovanni Acuto (John Hawkwood), uno dei peggiori e feroci “condottieri” delle bande

armate che saccheggiavano l’Italia per pregarlo di cessare la guerra fra cristiani per rivolgere le sue armi alla difesa dei cristiani: “Or sarebbe così gran fatto che vi recaste un poco a voi medesimo, e consideraste quante sono le pene e gli affanni che avete durato in essere al servizio ed al soldo del dimonio”.

Essere al soldo significava allora essere arruolato, concetto da cui deriva la parola soldato. E

Caterina continua: “Desidera l’anima mia che mutiate modo e che pigliate il soldo e la Croce di Cristo crocifisso e tutti i vostri seguaci e compagni, sì che siate una compagnia di Cristo (…) Parmi che vi dovereste ora in questo tempo disporre a virtù, infino che il tempo ne venga per noi e per gli altri che si disporranno a dare la vita per Cristo: e così dimostrerete di essere virile e vero Cavaliere”. (Lettera 140 a Giovanni Awkwood)

Parlando con un soldato, Caterina parla in termini militari. Prendere il soldo significa arruolarsi; prendere la croce, significa farsi “crociati”, soldati che combattono per una giusta causa; compagnia significa corpo militare; dare la vita per Cristo è segno di coraggio virile e di nobiltà di

Cavaliere. Ed indica i nemici con un vocabolo aspro adatto ad un “lupo”.

Oggi, specialmente dopo il Concilio, pensiamo che il modo dei cristiani per difenderci sia la pace e

che il giudizio pratico sulle vie politiche da seguire sia affidato alle coscienze personali dei cristiani impegnati in politica. Quindi come cristiani siamo per la pace. Ma come “laici” non possiamo non constatare che da quel coraggio con cui fu difeso lo spazio dei cristiani è nata l’Europa, anche se ora non vuole chiamarsi cristiana. E non solo. In quello spazio e da quella libertà sono nate la

scienza, l’idea di progresso, la rivoluzione industriale, la conquista del mondo e perfino l’idea di rivoluzione, di giustizia sociale e di democrazia. Come cristiani non giudichiamo, ma come laici siamo debitori al coraggio politico di Caterina che invitava alla difesa dello spazio cristiano.

Mi piace qui citare il giudizio di un grande uomo politico, Don Luigi Sturzo : “In questo periodo del Papato che fu detto “la cattività di Babilonia”, l’elemento mistico, puro da ogni inquinamento, è rappresentato da due donne di altissimo valore, anche umano: Brigida di Svezia e Caterina da Siena. Audace nel deplorare e nel comandare era Caterina. Essa parla a nome di Dio e manifesta il di lui volere con fermezza straordinaria a Papi, re, principi, popoli e magistrati. La sua è una missione, glielo riconoscono anche gli avversari. Sembra che nella defezione degli uomini Dio abbia suscitato delle donne come sue profetesse, come per iniziare i tempi moderni sotto il loro influsso, mistico ed attivo, religioso e politico”. Mi sembra importante questo giudizio acuto da parte di uno

studioso della società che fu anche un grande politico, che vede fortemente connesso il tratto profetico con il progetto politico e che ritiene di importanza epocale che esso abbia come protagonista il coraggio di molte donne. (Giovanna d’Arco nascerà solo 32 anni dopo la morte di

Caterina.)

9. La Santa giustizia, gli amatori del bene comune la città in pace ed unione

Ma ritengo che la definizione più importante del programma politico sia contenuto nella lettera che Caterina scrisse ai magistrati bolognesi, che si erano ribellati ad Urbano VI ed erano entrati in guerra con lui. Caterina sollecita la pace, ma non lo fa con un discorso teorico ed esortativo.

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Caterina si appella a quella che chiama la virile forza degli uomini, che fiorisce col timore di Dio: “Onde a questi cotali si può dire: invano t’affatichi a guardare la città tua, se Dio non la guarda; cioè se tu non temi Dio e nelle tue operazioni non tel poni innanzi a te”.

In questa stessa lettera Caterina fa un’accurata descrizione dei mali della politica in un periodo in

cui l’Italia cresce mirabilmente ma è anche afflitta da un disordinato emergere di guerre e di conflitti. Caterina investe con un linguaggio forte i prelati che “attendono tanto a loro e stare in delizie”. E richiama con forza quelli che “non si curano di obbedire né alla legge civile, né alla legge divina, né si curano di servire l’un l’altro se non per propria utilità”. E porta ad esempio di quei signori che amministrano malamente la giustizia perché “teme di non perdere lo stato suo e per non far dispiacere sì va mantellando, e occultando i loro difetti, ponendo l’unguento in su la piaga, nel tempo che ella vorrebbe essere incotta ed incesa col fuoco”.

Collega la necessità della pace ad un vero e proprio programma politico, che oggi chiameremmo, in

maniera moderna, ideologia: “Perché se essi cognossero la verità vedrebbero che solo il vivere col timore di Dio conserva lo Stato e la città in pace: e per conservare la santa giustizia, rendendo a ciascuno dei sudditi il debito suo: e a chi debba ricevere misericordia, fare misericordia, non per propria passione, ma per verità: e a chi debba ricevere giustizia, farla condita con misericordia non passionata di ira; né per detto di creatura, ma per santa e vera giustizia: Or per questo modo si conserva lo stato loro e la città in pace e in unione”.

A parte ogni considerazione sullo splendido italiano che emerge dalla dettatura spontanea, forte e popolare di Caterina, va notato come si tratti di un vero e proprio programma politico che è sì

segnato dal riconoscimento dell’amore e dell’obbedienza all’onore di Dio, ma che si rivolge con forza anche alle virtù umane, alle capacità degli uomini di essere maturi e buoni e non fanciulli, capaci di reggere “né per animo, né per lusinghe, ma solo con virtù e modo di ragione”.

10. Perché Dottore della Chiesa?

Caterina basa la presenza “virile” dei cristiani nella vita sociale su due concetti, che hanno un fondamento religioso: il primo è il concetto di “bene comune”, che deriva, secondo Caterina, dalla vittoria dell’amore di Dio sull’amore di se stessi: chi ha l’amore di se stesso porta la città alla rovina;

il secondo afferma che chi ha l’amore di Dio fonda la vera giustizia, dà a ciascuno ciò che gli spetta e fa il bene della città, dimenticando il suo interesse, il suo particolare.

Questo insegnamento formò alcune belle personalità politiche, ma non ebbe seguito nell’atteggiamento politico dei cattolici finché fu presente il potere temporale. E solo alla fine del potere temporale che i cattolici riscoprono il tesoro nascosto di Caterina. L’amore per la patria

terrena, l’amore per i propri concittadini, la responsabilità individuale del bene comune si risveglia nel Risorgimento italiano. È un concetto fondamentale in Vincenzo Gioberti, ispira la visione filosofica e politica di Antonio Rosmini, è presente nell’opera politica di Luigi Sturzo ed arriva fino ai

nostri giorni.

Paolo VI nella proclamazione di Santa Caterina “dottore della Chiesa” nel pieno di una forte

esperienza politica dei cattolici in Italia, scrive nel 1970: “Fu anche politica la nostra devotissima vergine? Sì, indubbiamente ed in forma eccezionale, ma in un senso tutto spirituale della parola. Ella infatti respinse sdegnosamente l’accusa di politicante che le muovevano alcuni suoi concittadini, scrivendo ad uno di loro: “…e i miei cittadini credono che per me o per la compagnia che io meco si facciano trattati. Elli dicono la verità; ma non la conoscono e profetano che altro non voglio fare né voglio faccia chi è con me se non che (…)sconfiggere il demonio e togliergli la signoria che egli ha presa dello uomo, per lo peccato mortale e trargli l’odio dal cuore e pacificarlo con Cristo crocifisso”.

Paolo VI che scrive dopo il Concilio ci tiene a precisare meglio la distinzione fra la politica e le cose spirituali ed aggiunge prudentemente: “La lezione pertanto di questa donna politica “sui generis”

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conserva tuttora il suo significato e valore, benché oggi si sia sentito più il bisogno di far la debita distinzione fra le cose di Cesare e quelle di Dio, fra Chiesa e Stato”.

E’ da comprendere la prudenza di Papa Montini alla fine del Concilio che dettava una nuova autonomia dei cattolici in politica, ma non riesco a vedere in Caterina una ingerenza temporalistica

sulla politica dei suoi tempi. In fondo lei era una popolana (così la definisce Salvatorelli) che esprimeva il suo pensiero politico nella sua repubblica senese, nella comunità italiana e nella cristianità europea, con coraggio politico. E prendeva le sue decisioni politiche in grande autonomia

come è esattamente precisato, sei secoli dopo, dal Concilio

Papa Montini decise di proclamare Caterina “Dottore della Chiesa”, che era invece il riconoscimento

della rilevanza del suo “Libro della Divina Dottrina” (chiamato volgarmente “Dialogo della Divina Provvidenza”) dove Caterina riferisce, come un antico profeta, le parole con cui Dio illustra il suo disegno di amore nella storia dell’uomo. E qui il nostro esame si arresta ed ammutolisce.

11. Attualità di Santa Caterina

Di fronte all’attuale distacco dalla politica, di fronte alla piaga dell’astensione e dell’antipolitica, ci appare chiara l’attualità di Caterina da Siena.

Cosa ci direbbe oggi? Ci pregherebbe con amore ed autorità di muoverci con fortezza e coraggio virile per restaurare il “bene comune”, sostituendo l’amore proprio o di sé (orgoglio, corruzione,

mancanza di spirito di servizio, sete di potere e di ricchezza, evasione fiscale, assoggettamento alla mafia) con l’amore per gli altri (che promuove il“bene comune”, la “santa giustizia”, aiuta i più deboli, difende le famiglie, colpisce chi ruba il bene comune). E tutto questo con coraggio ed

atteggiamento virile, senza preoccuparsi delle conseguenze.

Scriverebbe così al Papa “Rizzate, Babbo, tosto il gonfalone della Santissima Croce e vedrete i lupi diventare agnelli. Pace, pace, pace”. (Lettera 196 a Gregorio XI, aprile 1376).

E rimprovererebbe i cristiani per la loro assenza dalla vita politica, abbandonata ai “lupi”,

tradimento e ordinerebbe con severità ad agire virilmente, come uomini e non come ragazzi,“tenendo ragione e giustizia al piccolo come al grande, ed al povero come al ricco, né per piacere agli uomini, né per desiderio di pecunia, né per amore che egli abbi del suo bene particolare; però chè non attende al suo bene proprio, ma al bene universale di tutta la città”.

Bartolo Ciccardini Giornalista, già Parlamentare

1. Georges Duby e Michelle Perrot. Storia delle donne. Il medioevo a cura di Christiane Klapisch Zuber. Laterza Editori. Bari, Maggio

1994, p. 392. 2. Georges Duby e Michelle Perrot. Storia delle donne. Il medioevo a cura di Christiane Klapisch Zuber. Laterza Editori. Bari, Maggio

1994, p. 452 3. Luigi Salvatorelli. Sommario della storia d’Italia dai tempi preistorici ai nostri giorni. Einaudi Editore. Torino, 25 agosto 1955. p.284 4. Luigi Salvatorelli. Sommario della storia d’Italia dai tempi preistorici ai nostri giorni. Einaudi Editore. Torino, 25 agosto 1955. p.287

5. Georges Duby e Michelle Perrot. Storia delle donne. Il medioevo a cura di Christiane Klapisch Zuber. Laterza Editori. Bari, Maggio 1994, p. 50.

6. Georges Duby e Michelle Perrot. Storia delle donne. Il medioevo a cura di Christiane Klapisch Zuber. Laterza Editori. Bari, Maggio 1994, p. 52.

7. Eamon Duffy. La grande storia dei Papi, santi, peccatori, vicari di Cristo. Oscar Mondadori. Milano, 2001. 8. Luigi Sturzo. Chiesa e Stato. Vol. I, Zanichelli, Bologna 1958, p. 131.

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CONFERENZA DEL 7 MARZO 2012

Coscienza cristiana e impegno politico

In diverse occasioni mi è stato chiesto di approfondire le radici dell’impegno dei cattolici in

politica, con particolare riferimento all’evoluzione del Movimento Cattolico nel nostro paese e in Europa, a partire dal Risorgimento e dall’unità nazionale e focalizzando, in particolare, lo sviluppo di quella corrente politica peculiare che ha assunto la denominazione di “democrazia cristiana” e che si

è qualificata poi, sul terreno della lotta politica del primo dopoguerra, come “popolare”, con riferimento alla dottrina politica organica elaborata da Luigi Sturzo, la cui matrice culturale restava comunque quella democratico-cristiana.

In questa corrente politica democratico-cristiana e popolare mi sono sempre identificato e

continuo a riconoscermi, pur nelle evoluzioni storiche che le forze ad essa ispirate hanno registrato

nel tempo. Nelle progressioni del pensiero e dei movimenti si colgono i valori fondanti di un’ispirazione e il continuo adattamento alle condizioni congiunturali e culturali che i cattolici si sono trovati ad

affrontare. E maggiore si palesava l’esposizione al confronto politico, con le sue asprezze e i suoi compromessi, rispetto all’impegno limitato alla sfera spirituale e sociale, più accentuato si profilava il rischio di smarrire progressivamente la

consapevolezza dei principi e delle motivazioni, con le conseguenti degenerazioni che sovente hanno caratterizzato anche l’esperienza politica dei cattolici. L’allontanamento

dall’ispirazione e dalla tensione spirituale ed etica determina la mancata riconoscibilità di una posizione politico-culturale da parte di sostenitori ed elettori e quindi il progressivo

esaurimento o comunque svuotamento della stessa che si riduce in tal caso a mera prassi di esercizio del potere. Per questo, ricorrendo costantemente questo rischio, come è normale in ogni attività umana, in particolar modo in quella politica, ritengo

che debba essere sempre assegnata da movimenti e partiti di ispirazione cristiana una particolare priorità all’analisi e alla riscoperta costante delle radici del pensiero che ha indotto i cattolici, ma preferisco dire i cristiani, ad assumere, in quanto tali, sia pure con formule particolari, più o meno

“laiche”, a seconda delle circostanze, l’iniziativa politica nei singoli paesi e sul piano internazionale, confrontandosi con tendenze diverse per concorrere alla soluzione delle grandi questioni civili e politiche del tempo in cui erano stati chiamati a vivere e testimoniare la fede. Generalmente,

esaminando queste “radici” tendo a partire da fasi non troppo lontane, dall’Ottocento, dal Risorgimento europeo e dai movimenti costituzionali e dalla diffusione dei partiti nazionali. Riguardo all’Italia, paese tra quelli in cui più forte si è registrata l’affermazione di una tendenza democratico-

cristiana, considero, ai fini di cogliere i passaggi fondamentali dell’esposizione politica dei cattolici, di particolare rilevanza la tendenza risorgimentale cattolico-liberale, con il “Primato morale e civile degli italiani” di Vincenzo Gioberti, “Le speranze d’Italia” di Cesare Balbo, il pensiero di Antonio

Rosmini. Intellettuali e patrioti che tentarono con passione e senso di responsabilità e della misura di coniugare l’aspirazione ad una patria unita e indipendente con la salvaguardia del ruolo di guida morale della Chiesa cattolica, anch’essa - intesa come gerarchia, come au-

torità pontificia – scossa, in una certa fase, dall’ideale patriottico, ma condizionata dalla preoccupazione delle possibili conseguenze negative – in termini di prestigio e di autorevolezza – della perdita del potere temporale. E il pensiero neoguelfo di quei maestri prefigurava, peraltro, soluzioni pacifiche, mentre all’indipendenza nazionale si arrivò con un percorso, certo glorioso e per

certi versi frutto di strategia geniale, ma certamente sanguinoso.

La linea di opposizione al processo di unificazione, prevalsa all’interno della gerarchia, con il

Sillabo e il non expedit e il rifiuto del Pontefice di riconoscere i “fatti compiuti” provocò nei cattolici

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una dolorosa scissione tra l’amor di patria e la coscienza religiosa e impose loro una forzata astensione, per quasi mezzo secolo, dalla partecipazione diretta all’azione politica e di partito

nell’ambito del nuovo Stato unitario, sia pure con deroghe ed eccezioni che prepararono quella reintegrazione che si verificò poi nel 1919 con la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo. Ma già negli anni precedenti, sul terreno sociale e culturale, un fertile seme era stato

sparso dalle “opere”, le numerose iniziative assistenziali, economiche, mutualistiche, editoriali, educative che fiorirono nel Movimento cattolico per impulso di religiosi e laici organizzati nell’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici. In questa evoluzione da un impegno di carattere più

specificamente sociale e culturale a quello politico troviamo generalmente le premesse della presenza dei cattolici nella conduzione di uno stato moderno, finalizzata alla costruzione di una città per l’uomo.

All’epoca dei sovrani assolutisti, nelle fasi storiche precedenti l’affermazione della democrazia parlamentare, in assenza di forme di partecipazione popolare attraverso i partiti, risulterebbe difficile individuare forme di impegno politico dei cattolici nel senso in cui oggi lo intendiamo. Per questo di

solito le analisi prendono le mosse dall’instaurazione degli ordinamenti costituzionali.

Ho trovato dunque particolarmente suggestivo e stimolante, in occasione di questo vostro

gradito invito, immergermi nel pensiero e negli accorati appelli epistolari di questo straordinario personaggio che già nel tardo Medio Evo sembra quasi gettare le basi, fissare i cardini, di una visione sociale e politica e di un’etica della politica che, a buon diritto, possono annoverarsi tra le

fonti di ispirazione privilegiate dell’impegno civico e pubblico dei cristiani. Ci è stato spesso ripetuto dai nostri maestri che il pensiero democratico cristiano, o cattolico democratico, non può ritenersi un’ideologia organica, ma un complesso di principi etici dai quali i partiti legati a questo

orientamento traggono ispirazione. Una visione etica ispirata ai principi evangelici e alla dottrina sociale della Chiesa. Ma anche al pensiero dei Grandi della Chiesa, di quelli che hanno messo a fuoco anche la dimensione pubblica dell’azione dei credenti.

E tra questi Grandi si colloca la figura di Caterina, di questa giovane di umili natali che con

tanto ardore, abnegazione e sofferenza affrontò coraggiosamente, con impegno indefesso, le grandi sfide del suo tempo, avanzando proposte di soluzione e di convivenza civile che non possono non

collocarla in una dimensione politica. Un’attivista politica nel più autentico significato dell’espressione, oltre ad essere una mistica, una benefattrice, una grande santa!

E pur avendo combattuto battaglie collocate nella cultura e nella dimensione di un preciso contesto storico, legate quindi a peculiari esigenze ritenute prioritarie in quella fase per varie ragioni di carattere storico (ritorno del Papa a Roma, nuova crociata, contrasto dei vari antipapi e delle varie

eresie) il messaggio che dalle sue lettere giunge ai grandi dell’epoca e poi anche ai posteri contiene principi che trascendono il contingente, evidenziando una propria universalità. La pace tra le nazioni, l’unità della civiltà cristiana, la rettitudine dei governanti, la sintonia degli stessi con le esigenze e le

aspirazioni di giustizia dei popoli, il vincolo del diritto naturale in capo a coloro che siano investiti di pubblici poteri, il principio di legalità come contemperamento di quello di autorità. Una lucida, organica e estesa applicazione dei principi evangelici alle esigenze di governo dei popoli, indicativi di

una saggezza, una maturità e una cultura sorprendente in un’umile figlia del popolo senese così giovane e così lontana dai luoghi abituali del potere.

In un’epoca di fosche trame, di violenze e conflittualità infinite, di lotte fratricide e lacerazioni in Italia e nella Chiesa, la Provvidenza elargì in dono al nostro paese e alle nostre genti uno spirito così illuminato e disposto a prodigare ogni propria energia per contrastare processi di disgregazione

tanto frequenti e diffusi all’epoca da suscitare il fondato timore di una possibile distruzione di quel patrimonio di civiltà e di convivenza sociale che il Cristianesimo aveva prodotto nei secoli.

Come ci ricorda Anna Maria Balducci nel suo studio di grande valore “Massime di reggimento civile” (Edizioni Cateriniane 1971), S. Caterina inserisce l’azione politica nell’azione risanatrice e orientatrice della Grazia. Fine della società è il bene comune, cioè il bene di una “pluralità unificata”

di persone che convergono verso un fine unico. Lo Stato e qualsiasi governo devono ordinarsi in modo da agevolare il libero sviluppo esterno e interiore della persona. Il bene comune si armonizza con il fine stesso dell’uomo per aiutarlo a

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santificarsi e a raggiungere la patria celeste cui è destinato. Si avvertono chiaramente le premesse di correnti filosofiche e orientamenti dottrinari che in epoche recenti hanno ispirato l’impegno dei

cristiani in politica (personalismo comunitario di Maritain e Mounier, Rerum novarum di Leone XIII e successive encicliche di contenuto sociale).

Il bene particolare va subordinato al bene comune, ma non tutto, perché non tutta l’attività dell’uomo si esaurisce nella dimensione di cittadino. “Non può ad esempio commettere una piccola colpa per adoprare una grande virtù”. Può dare la vita per il bene del prossimo e della patria, ma

non può commettere un peccato in nome del bene comune (lettera ai Gonfalonieri e agli Anziani di Bologna).

Quanto ci riconosciamo in questa visione come democratici cristiani, la dimensione umana e i corpi sociali che preesistono allo stato e la cui funzione non si esaurisce nello stato ! Questo è al servizio dei cittadini e non deve occupare la società civile o sovrapporsi completamente alle sue

spontanee espressioni, come invece accade sovente se si affermano regimi totalitari.

Importante e centrale è il concetto del bene comune, riferimento costante dei cattolici in

politica e così moderno nella visione della santa medievale: è l’oggetto della giustizia sociale – come nota la Balducci – fine ultimo della società che può perseguirlo solo se è fondato sulla giustizia, intesa come principio ordinatore dei beni e delle parti del tutto ai fini appunto del raggiungimento

del bene comune. La giustizia, a sua volta, per Caterina si identifica con la carità. E anche questo resta un

grande insegnamento per gli operatori politici, tenuti a rendere sempre più contigui due principi che talvolta sembrano discostarsi e tendere in direzione contrastante. Perseguire il bene comune richiede dunque un ordine sociale fondato sulla giustizia, la carità e l’ordine morale e lo stesso

progresso sociale è conseguenza innanzitutto del progresso morale. E alla tensione morale dell’uomo politico Caterina attribuisce il potenziale per la realizzazione del bene comune. L’autorità politica deve unire nella carità i cittadini, in vista della loro salvezza spirituale e temporale, come raccomanda la santa in una lettera a Nicolò Soderini, Priore di Firenze.

E’ soprattutto importante il concetto, evidenziato dalla Balducci, dell’autorità prestata a

tempo, “secondo che piace alla divina bontà e secondo i modi e costumi di paesi” (lettera ai

Difensori di Siena). E continua “sì che quando la cosa prestata ci è richiesta, ella si possa rendere senza il pericolo di morte eternale”.

Sempre la Balducci ricorda che le autorità, secondo il pensiero di Caterina, devono imitare il governo divino. Nella lettere a Messer Gambacorti di Pisa lo esorta a “giustizia santa con vera e profonda umiltà”.

Solo finché rispettino i limiti del mandato divino sono legittimate a esercitare il potere. Come scrive al re di Ungheria, governando e legiferando bene, tutelando i diritti, chi è capo serve Dio, servendo

il suo prossimo.

E ancora il conoscimento della bontà di Dio in sé cui esorta la regina di Ungheria, l’umiltà-

verità che dà la giusta visione e valutazione di sé e del prossimo, delle cose e degli avvenimenti (così la Balducci), coscienza del limite e della fragilità umana. Questa umiltà rende libero il governante da se stesso, dalle sue aspirazioni particolari, dal suo orgoglio, spingendolo a dedicarsi

con amore al servizio dei sudditi e della patria. La legge morale gli darà libertà e obiettività di giudizio, senza che si lasci accecare dall’amor proprio.

Trovo in queste massime una grande lezione per i cristiani che ancora ai nostri giorni sentono il richiamo di un impegno per migliorare le condizioni dell’uomo nella comunità civile. La legge morale come criterio per guidare i giudizi e le scelte, lo spirito di servizio ispirato a un

sentimento di carità e insieme di giustizia, la rimozione di vanità e di interessi materiali, la consapevolezza dei propri limiti e della temporaneità e precarietà delle funzioni di governo, finalizzate agli obiettivi di interesse generale da perseguire per poi “renderle” senza rimpianto

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alcuno, il bene della persona, di ogni persona nell’ambito comunitario come fine ultimo della politica, il diritto naturale come criterio guida per il legislatore, lo Stato rispettoso dei diritti fondamentali che

ad esso preesistono e attento a non occupare spazi indebiti e estranei ai suoi fini che spettino in esclusiva al singolo, alla famiglia, alle formazioni sociali in cui si esprime la personalità dell’essere umano. Ricordiamo al riguardo le battaglie accorate condotte da Sturzo negli ultimi anni della sua

vita, con i suoi articoli su “Il Giornale d’Italia” contro uno statalismo che giudicava eccessivo nelle scelte politiche del secondo dopoguerra, benché adottate da una classe dirigente cattolica.

Credo che i principi contenuti nel magistero di Caterina si cogliessero in larga misura nelle iniziativepolitiche dei democratici cristiani che si sono susseguite nel corso del Novecento, dalla DemocraziaCristianadi Romolo Murri, al Partito Popolare di Sturzo, fino alla DC di De Gasperi. E che

molti giovani, provenientidalle strutture ecclesiali, dai movimenti, dal volontariato sociale, nel susseguirsi delle generazioni, siano pervenuti all’opzione politica in virtù di

principi, entusiasmi e sentimenti che rispecchiavano quelli della santa battagliera che con i suoi appelli e le sue lacrime ricondusse a Roma il Vicario di Cristo e fu generosa di moniti

e di consigli a sovrani e governanti del tempo e ambasciatrice di pace in un tempo di lotte fratricide. L’esercizio del governo, soprattutto ove prolungato per un lungo periodo di

tempo, provoca però inevitabilmente degenerazioni e logoramento e spesso induce a smarrire il senso dei principi ispiratori. Negli ultimi tempi, in particolare, per quel che

riguarda l’Italia, l’attività politica sembra aver registrato una tale perdita di decoro e tensione morale da ingenerare un generale rigetto nella società e la perdita della fiducia nei partiti e nelle istituzioni stesse che della politica sono sovente espressione.

Si discute molto, in particolare in questi ultimi mesi, della necessità di riscoprire il ruolo dei cattolici nella politica e di rilanciarlo, dopo le alterne vicende degli ultimi vent’anni.

Dopo l’estinzione della Democrazia Cristiana, nel 1994, si è riproposto continuamente il tema dell’unità dei cattolici, se sia giusto riaggregarli, in larga misura, in un'unica formazione politica o sia meglio che siano distribuiti equamente in formazioni di diverso orientamento, nelle quali sostengano

i comuni principi e valori derivanti dalla predicazione evangelica. Tale quesito amletico domina da tempo il dibattito tra i cattolici e l’una e l’altra opzione registrano maggiore o minor fortuna a seconda del quadro politico nazionale che volta per volta venga a delinearsi. Non sono certo in

grado di sciogliere il quesito, né questa penso sia la sede più idonea. Resto comunque persuaso che la corrente di pensiero democratica cristiana – quindi l’economia sociale di mercato, l’attenzione ai corpi intermedi e al pluralismo, l’interclassismo, la tutela della famiglia, la libertà della scuola, la

promozione di una società solidale - abbia rivestito una formidabile rilevanza nella storia della democrazia italiana ed europea e che il suo patrimonio culturale e di esperienza possa costituire ancora una risorsa preziosa per la nostra civiltà così esposta, in questa fase, a grandi trasformazioni

e insidie inquietanti. La nostra tradizione politica, che sia testimoniata da un partito o all’interno di più partiti, potrà ancora concorrere a individuare risposte e strategie per affrontare le sfide del nostro tempo. Ma gli uomini che la interpreteranno dovranno riappropriarsi degli appelli di Caterina,

riscoprire lo spirito di servizio e di carità, la priorità del bene comune e il distacco dalla mera esigenza di gratificazione personale, la moralità e sobrietà dei comportamenti, la concezione delle cariche come mero strumento di realizzazione dell’interesse generale, da abbandonare poi senza

rimpianti quando non si rivelino più utili a tale scopo e, infine, quel “cognoscimento”di sé che consenta un rapporto equilibrato con il potere inteso come strumento di bene e non come fine a se stesso e la capacità di giudizio a fronte delle prove difficili che rendono “vischioso” il cammino

dell’uomo politico.

On. Avv. Alessandro Forlani Giornalista, già Parlamentare

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CONFERENZA DEL 14 MARZO 2012

La novità cristiana per una convivenza civile

PREMESSA

Quando sono stato invitato a prendere parte a questo ciclo di conferenze, la mia reazione immediata

è stata di grande perplessità. Al cospetto di un titolo come “Caterina da Siena. La Santa della politica”, non nego infatti che la risposta su un’eventuale mia adesione ai “Mercoledì Cateriniani 2012”, sia stata d’émblée sopraffatta:

da una serie di interrogativi su quale tipo di contributo io

avrei potuto eventualmente dare alla riflessione su questo tema, in che modo mi sarei potuto collocare all’interno di essa, considerate la mia formazione culturale e la mia attività professionale.

Da politico, sono stato poi pervaso da un certo scetticismo circa le possibilità reali di un binomio, come quello fra santità

e politica, che, all’orecchio dell’uomo della strada può suonare distonico, poiché sembrerebbe chiamare in causa due

dimensioni inconciliabili, slegate l’una dall’altra, che non hanno nulla da dirsi.

Evidentemente questo mio primo atteggiamento di dubbio ha risentito dei condizionamenti, sia della tradizione religioso–popolare cui appartengo, che della mia formazione universitaria.

Dalla prima deriva infatti un certo modo di vivere – che credo peraltro comune a molti cattolici – la relazione con la santità, tale per cui la figura del santo è oggetto, da parte del fedele, di grande ammirazione, devozione, venerazione, ma spesso solo in conseguenza di un sentire di cui egli si

appropria appunto per tradizione, e che in pochi casi si innesta, o cresce successivamente, nella conoscenza storica, ravvicinata, dell’uomo divenuto santo.

Nella mia città per esempio il 13 agosto si commemora S. Ippolito martire, con celebrazioni solenni, sontuosi festeggiamenti, ma se chiedete ai miei concittadini chi sia stato, cosa abbia fatto S.

Ippolito, sarà esiguo il numero di coloro in grado di dare conto, o anche solo di collocare temporalmente, quella che è stata, e rimane ancora oggi, una figura controversa, e per certi versi misteriosa della Chiesa primitiva1.

Il mio curriculum studiorum fa poi di me evidentemente, per così dire un “non addetto ai lavori”.

Non ho dimestichezza con la speculazione filosofico – teologica, non sono uno studioso di S. Caterina da Siena, e non sono neanche un caterinato.

L’impeto di questo dubbio iniziale, ha però in un secondo momento suscitato in me, una sorta di necessità–curiosità di conoscere più da vicino la donna, una santa, a cui il titolo dell’evento

riconosceva il prestigio ed il merito di essere stata una “Santa della politica”, e che chi mi ha introdotto, mi presentava come una voce autorevole del tempo in cui visse, ed in grado altresì di parlare con immutata vis all’uomo di oggi, di farsi comunicatrice di una parola che non sia mero

virtuosismo della forma, chiacchiera fumosa come quella che, in questo tempo, è ahimè costume di gran parte di coloro che dicono di lavorare per l’uomo, ma messaggio che suscita conversioni (nel senso proprio della trasformazione radicale dell’esistenza).

La parola di Caterina è parola progettuale, è parola che orienta, indica una via e segna un cammino destinato a non deludere.

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Da qui la decisione di accettare il dono che mi hanno voluto fare la Presidente del Centro Internazionale di Studi Cateriniani, la Prof. Diega Giunta, e i suoi collaboratori, invitandomi ai

“Mercoledì Cateriniani 2012”; e la decisione di vivere questa esperienza, in qualità di giovane cattolico impegnato in politica, come occasione doverosa di crescita e di arricchimento, con il proposito di fare tesoro, in futuro, dei preziosi consigli di Caterina che, come viene ben messo in

evidenza nella presentazione dell’evento, che cito testualmente: «(…) insegna ed esorta ancor oggi a vivere la politica come ricerca del bene comune, nella scrupolosa attenzione per la verità e per la giustizia, nel “governo di sé”, con coraggio e purezza di intenti, nel rispetto degli avversari e nell’aiuto ai più deboli, non evitando il confronto ma affrontandolo con determinazione, con fermezza e con la consapevolezza di ben agire».

Per le ragioni anzidette il mio intervento, non ha alcuna pretesa di atteggiarsi a dissertatio ex cathedra, ma vuole proporsi, con umiltà e semplicità, come cammino di riflessione, che mi auguro

possa dare sostegno nella comprensione profonda di quel versetto 24 del capitolo 10 della Lettera agli Ebrei, che il Santo Padre ha definito, nel suo Messaggio per la Quaresima 2012, «(…) un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l’attenzione all’altro, la reciprocità e la santità personale»2, versetto che a mio avviso riassume in maniera eloquente i contenuti portanti della “novità cristiana per una convivenza civile”:

«Prestiamo attenzione gli uni gli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone». Questo l’insegnamento di Paolo.

Vi offro dunque questo mio contributo:

1. sostenuto dalla fede di cristiano che sa, in ragione di quel limite intrinseco alla natura umana che

Caterina qualifica con l’espressione “esser di non cavelle”, e di cui Ella ci esorta al “vero conoscimento”, (di cristiano che sa, dicevo) di dover lavorare, e tanto, in virtù, affinché la sua vigna possa dare buoni frutti; e

2. animato – e qui mi piace ricorrere ad un termine che mi ha colpito per la forza con cui Caterina

stessa lo utilizza, per comunicare ai “figliuoli”, destinatari degli insegnamenti delle sue Lettere, il suo “singulare amore” di “dolce mamma” – questo termine è “desiderio”; dicevo animato dal desiderio di riuscire a diventare:

«vero rettore della giustizia», prima per se stesso e poi per gli altri; «vero servo e cavaliere di Cristo, combattendo sempre virilmente contra i vizi e peccati, non

con negligenzia, ma con vera e santa sollicitudine»; «osservatore de’ santi comandamenti di Dio, senza i quali neuna creatura può avere in sé la

vita della Grazia».

Questo l’auspicio di Caterina nelle parole che Ella indirizza “A messer Pietro, marchese del Monte”, rispettivamente nelle Lettere 135, 170 e 180.

Da persona che non ha dimestichezza con gli scritti cateriniani, la problematica iniziale con cui mi sono dovuto confrontare, è stata la scelta dei riferimenti testuali, delle fonti a cui attingere.

Al riguardo mi sono tornati di grande aiuto alcuni validi saggi sulla dottrina giuridico – politica

cateriniana. Si tratta nello specifico: delle “Massime di reggimento civile di Santa Caterina da Siena”, della Prof. Balducci, nella pubblicazione fatta dalle Edizioni Cateriniane nel 1971; del testo di Piero Pajardi “Caterina la Santa della politica. Ricerche e riflessioni sul pensiero etico, giuridico, sociale e politico di Santa Caterina da Siena”, uscito per i tipi delle Edizioni Martello nel 1993; e infine di un volumetto a cura di Gianfranco Morra, edito da Città Nuova nel 1990, in occasione del cinquantenario del patronato di S. Caterina da Siena sull’Italia, sotto il titolo di “La città prestata consigli ai politici”.

Ho letto questi testi con vivo interesse, ed essi mi hanno reso più agevole il primo approccio al pensiero, agli scritti e al linguaggio della Santa. E per me è stato questo un aiuto fondamentale, soprattutto alla luce dell’elevato livello di complessità che, in modo particolare il linguaggio di

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Caterina presenta, tanto nella forma quanto per i contenuti che veicola, e che posso assicurare può risultare talora davvero di difficile comprensione per il neofita, per di più se egli non possiede appositi strumenti di decodifica.

A questi testi farò dei rimandi nel prosieguo dell’intervento, tuttavia, per la trattazione del tema, ho voluto seguire una linea metodologica diversa.

Ho scelto di mettere in secondo piano il momento della conoscenza di Caterina, filtrata dall’interpretazione di interposte persone, per privilegiare invece l’incontro personale con Lei, la conoscenza di Lei in prima persona, senza mediatori.

Pertanto, una delle fonti che ho preso in considerazione per orientare la mia riflessione è la cosiddetta “Legenda Maior”, ovvero la vita di S. Caterina da Siena scritta dal suo confessore, il beato Raimondo da Capua3, con una particolare attenzione focalizzata su alcuni Capitoli del Libro II

(secondo), nello specifico: il Capitolo II (due), “Inizio della vita pubblica di Caterina”; il Capitolo III (tre), “Carità verso i poveri”, e il Capitolo VII (sette), “Salvatrice di anime”4.

A questa lettura ho affiancato chiaramente quella di alcuni scritti cateriniani.

Perché questa scelta.

In sintesi le ragioni del metodo e delle fonti.

RAGIONI DEL METODO E DELLE FONTI

Con l’aiuto di Caterina, entrando direttamente nel vivo della sua storia biografica, vorrei tentare di sciogliere alcuni dei nodi problematici che, a mio avviso, costituiscono i fattori genetici di quella

demotivazione e di quel malessere sociale, che hanno determinato la diserzione della politica da parte dei cattolici, e in generale l’indifferenza e il disinteresse delle nuove generazioni nei confronti di essa. E per questa via provare a capire quali debbano essere le risposte di concretezza del

cristiano, alla crisi culturale e antropologica, alla «(…) coltre di oscurità (…) scesa sul nostro tempo (…) [che] non permette di vedere con chiarezza la luce del giorno»5 – sono le parole del Santo Pontefice – e che compromette seriamente le possibilità di una convivenza civile.

Come far sì che (e qui consentitemi l’appropriazione di una bellissima immagine in cui mi sono imbattuto nelle Orazioni), “il vero sole, entri nell’anima e la illumini”6?

Nello specifico prenderò in esame tre fattori, a cui ho dato il nome di:

1. fattore LINGUISTICO;

2. fattore PROGRAMMATICO – TELEOLOGICO;

3. fattore PROFETICO – TESTIMONIALE.

IL FATTORE LINGUISTICO

Quello che io chiamo FATTORE LINGUISTICO, mette sotto accusa la “parola”, e nella forma e nel

contenuto, ovvero in quelli che tecnicamente vanno sotto il nome di “significante” e “significato”. Viviamo nell’epoca dell’ipercomunicazione (figlia del progresso tecnologico), eppure assistiamo allo svilimento delle relazioni umane; al declino doloroso dell’uomo che sembra aver perso quella “sete di infinito, quella sete di verità, capace di spiegare il senso della vita, e che gli deriva dall’essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio”7, queste le parole del Santo Padre nel “Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace 2012”. Di questo declino dell’umano è testimone, colpevole, proprio la parola.

La parola oggi: non riesce più ad essere parola pedagogica, che conduce, che indirizza la persona; non è parola che si assume l’impegno per l’altro, che ha la responsabilità dell’altro; non è parola che trasmette valori; non è parola portatrice di idee; non è parola di verità.

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La parola è nel nostro tempo funzionalizzata alla strumentalizzazione dell’altro, è diventata medium di distorsione del significato, canale attraverso cui si insinua l’inganno di etichette vuote, che subdolamente propongono diritti, libertà, civiltà, ma che di fatto altro non sono che:

coercizione e sopraffazione del debole e dell’indifeso (basta pensare a quelli che oggi, abusivamente e arbitrariamente, vengono definiti diritti della vita nascente e diritti di fine vita);

istanze liberticide (al malato che versa in condizioni gravi, viene negata la dignità di persona); inciviltà, nel senso proprio di assenza di cittadinanza, smarrimento dell’identità (scelgo di volta

in volta, a seconda dell’utile e dell’opportunità, da che parte stare).

A questa parola vuota Caterina contrappone la sua parola: schietta, a tratti anche ruvida, indisponibile al compromesso ma per contro costantemente, costitutivamente e costruttivamente allocentrica; mossa dalla premura per “la salute de l’anima del proximo suo”; zampillante dalla carità propria di un cuore “largo ed indiviso”.

Con la sua parola Caterina ci ammonisce richiamandoci alla verità della parola, che è la Parola con la P maiuscola; ovvero

- la Parola “ordinata”, cioè per l’uomo e progetto sull’uomo. Con questa consapevolezza si esprime Caterina nell’Orazione XIII (tredici).

CITO:

«O dolce portinaio, o umile agnello, tu sei quello ortolano il quale, avendo aperte le porte del giardino celestiale, ciò è del paradiso, porgi a noi i fiori e i frutti della Deità eterna. E ora certamente cognosco che tu hai detto la verità quando, in forma di peregrino apparendo nella via a due tuoi discepoli, dicesti che così bisognava che patisse Cristo e che per la via della croce intrasse in la sua gloria, (…). E gli dischiaravi le scritture, ma essi non t’intendevano perché era offuscato lo intelletto loro, ma tu medesimo t’intendevi. Quale era la tua gloria, o dolce e amoroso Verbo? Eri tu medesimo: a ciò che intrassi in te medesimo bisognava che tu patissi»8;

- la Parola che è “amore inestimabile”.

Così Caterina nell’Orazione IV (quattro).

CITO:

«Alta eterna Trinità, amore inestimabile, manifestasti te e la verità tua a noi col mezzo del sangue suo, però che allora vedemmo la potenzia tua, che ci potesti lavare dalle nostre colpe in esso sangue; e manifestastici la sapienzia tua, che con l’esca della nostra umanità, con la quale cupristi el lamo della deità, pigliasti el dimonio e tollesteli la signoria che egli aveva sopra di noi. Questo sangue ci mostra anco l’amore e la carità tua, però che solo per fuoco d’amore ci ricomprasti, (…). E così ci è anco manifestata la verità tua, che ci creasti per darci vita etterna»9;

- la Parola che è “La vita che vince la morte”, come titola una delle Orazioni di Caterina, nello specifico la n. XVI (sedici).

Preciso che la scelta di fare in questo frangente riferimento alle Orazioni, non è casuale, ma giustificata dal desiderio che la vera Parola possa, attraverso la sensibilità e la mozione interiore di

Caterina, risuonare con potenza trasfigurante nel cuore dell’uomo contemporaneo, incapace di farsi strada nel caos di voci che popolano, opprimendola e limitandola, la sua anima.

Caterina fornisce dunque al “mercennaio uomo”, le coordinate essenziali per riprendere il discorso bruscamente interrotto su se stesso, lo accompagna, sostenendolo, verso una parola che è

autenticamente antropo – logia, cioè parola sull’uomo, che per essere tale deve cristificarsi, deve mettersi alla sequela del “dolce e amoroso Verbo”, «(…) reconciliatore e riformatore e redentore nostro, [che] s’è fatto tramezzatore, verbo amore, e della grande guerra che l’uomo aveva con Dio [ha] fatta la grande pace; (…)»10.

Citazione testuale dell’Orazione I (uno).

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Con “l’arme” di Caterina, “l’arme della fortezza, unita con l’ardentissima carità” (sono le sue parole nella Lettera n. 169), vado allora a questo punto ad addentrami nel contesto linguistico della

relazione di questa sera, che reca per titolo, come sappiamo, “La novità cristiana per una convivenza civile”.

Alla luce di quanto finora detto, io credo che la parola chiave, su cui è indispensabile concentrare l’attenzione sia: “convivenza”.

Nell’uso comune questa parola è ormai passata secondo un’accezione debole, che ne riduce drammaticamente la portata significante.

Convivenza:

1. è la mera abitudine a trovarsi, fisicamente, in presenza di altri;

2. evoca un tacito accordo per la pace apparente, purtroppo largamente condiviso, nella prospettiva mediocre della sopravvivenza;

3. convivenza è una prassi completamente avulsa da qualsiasi logica progettuale, di responsabilità,

di impegno; 4. convivenza è cammino fatto in presenza dell’altro, ma senza l’altro, perché l’altro non è un mio

problema, e l’unico sentimento che posso eventualmente destinare al suo indirizzo è

l’indifferenza, il sospetto, o al massimo il bene interessato.

Basta prendere un qualunque dizionario della lingua italiana, in un’edizione recente, per avere

ragione di ciò. Alla voce “convivenza” trovate una definizione che suona più o meno in questo modo: si intende per convivenza il “vivere abitualmente insieme con altri”; definizione seguita regolarmente dall’enunciazione di un dato sociologico – che credo abbia ormai assunto un vero e proprio valore

paradigmatico – del seguente tipo: “Oggi è detto specialmente di uomo e donna non uniti fra loro in matrimonio”11. Si tratta della cosiddetta “convivenza more uxorio”, quella dell’unione immobile, che non evolve, non si fortifica, non è direzionata, non ha radici forti, riferimenti sicuri, ed è destinata

per questo a subire la precarietà e l’incertezza del costume dell’abitudine che, in qualunque momento, può repentinamente, farle invertire la rotta.

Di fronte a queste informazioni, che danno conto di un uomo confuso e disorientato, che ha letteralmente smarrito la strada; incompiuto, perché incapace di attuarsi nella sua humanitas di “creatura fatta ad immagine e somiglianza di Colui che è”, la novità cristiana si assume il compito,

ormai improrogabile, di riabilitare la societas humana alla «(…) fiducia nella vita e nell’uomo, nella sua ragione e nella sua capacità di amare»12, (sono le parole di Benedetto XVI), recuperando alla sua ricchezza, alla sua pienezza, il significato della parola “convivenza”, che la stessa derivazione

etimologica, dal latino “convivere”, rimanda ad una condizione costituitiva, ontologica, dell’uomo, cioè quella dell’“inter–esse”, del “vivere con”, dove la preposizione “con” dice: prossimità, solidarietà, unione, condivisione, reciprocità, responsabilità, impegno, ascolto, relazione.

Ecco allora che “convivenza” diventa per il cristiano, indice di un “vivere qualificato”, nella fattispecie

“civile”, che postula cioè l’assunzione coraggiosa della “cittadinanza”, dove “cittadinanza” deve considerarsi equivalente ad “identità”. E si tratta di un’identità nitida, definita, scevra di ambiguità, che non ha zone d’ombra e che non indossa maschere. L’unica a poter rendere l’uomo, al contempo: soggetto di vita e progetto di vita.

Questa identità è quella di coloro che si mettono sulla via di Colui che ci ha voluto precedere, Gesù Cristo, che si è posto “per nostra regola e porta per la quale n’è di bisogno passare”13. Sono parole di Caterina.

Chi si mette in cammino sulla “strada della dottrina di Cristo crocifisso”, non può allora vivere di

distacco, di disinteresse rispetto al mondo, non può far finta di non vedere, ma prendere coraggiosamente e ad alta voce le distanze “dai mali e dalla miserie del mondo”.

La sequela riguarda la dimensione intima, privata dell’uomo, la vigna dell’anima, chiamata a radunare le sue potenze per rafforzarsi nella virtù, ma è questo un momento preliminare, preparatorio dell’altra dimensione, quella pubblica, politica, della relazione.

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Così nel Dialogo, laddove viene esposta la norma del cammino di perfezione:

«(…) queste tre virtù e potenze dell’anima sono adunate insieme, io sono in mezzo a loro per grazia. E poiché l’uomo si trova allora pieno della mia carità e di quella del prossimo, si trova pure subito arricchito della compagnia di molte e reali virtù. L’appetito dell’anima si dispone ad aver sete; sete, dico, della virtù, del mio onore, e della salute delle anime. Ogni altra sete è spenta e morta in loro, cosicché vanno avanti con sicurezza, senza timore servile, (…). Essa [l’anima] si muove con ansia di desiderio, avendo sete di seguire la via della Verità, per la quale trova la fonte d’acqua viva. Per la sete che ha del mio onore e della salute di sé e del prossimo, sente desiderio di questa via, poiché senza la via non si potrebbe arrivare»14.

Un termine ricorrente nella citazione che ho appena fatto, è “via”.

Nel testo troviamo espressioni quali: “l’anima ha sete di seguire la via della Verità”; “su questa via si trova la fonte d’acqua viva”; “l’anima sente desiderio di questa via”; e “senza la via non si potrebbe arrivare”.

Tenendo ben presente proprio questo termine – “via” –, e l’espressione che ho menzionato per ultima, “senza la via non si potrebbe arrivare”, passo al secondo nodo problematico.

IL FATTORE PROGRAMMATICO – TELEOLOGICO

Fattore PROGRAMMATICO – TELEOLOGICO, detto in parole povere significa mancanza di idee e di

progetti e, in conseguenza di ciò, di obiettivi, di aspirazione della politica al risultato. E’ nei nostri tempi palese, è sotto gli occhi di tutti, anche di chi si ostina a non voler vedere, la sterilità della proposta politica.

L’azione politica, lungi dall’affermarsi secondo la propria vocazione, quella di servizio e di speranza

per l’uomo, gli diventa in questi tempi dis-servizio e minaccia. E questo ritengo debba imputarsi proprio al fatto che la “dimensione politica” non è più coincidente con una “dimensione autentica dell’agire”, ovvero l’azione che è rivelazione ontologica dell’uomo.

Fare politica vuol dire «Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare (come indica la parola greca ARCHEIN, “incominciare”, “condurre”, e anche “governare”), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino AGERE)»15. Dice la politologa Hanna Arendt.

L’azione politica è dunque un’azione complessa, che si specifica cioè al contempo come:

capacità di proporre e progettare per la comunità;

capacità di governare la comunità; capacità di condurre, nel duplice senso di orientare ed “educere”, vale a dire sostenere la

comunità in via, in cammino.

Senza questi connotati l’azione politica «(…) perde il suo carattere specifico e diventa una forma di realizzazione tra le altre. (…) è un mezzo rivolto a uno scopo proprio come il fare è un mezzo per produrre un oggetto. E ciò avviene ogni volta che l’essere insieme degli uomini venga a mancare, quando cioè gli uomini sono solo per o contro gli altri, come per esempio nella condizione di guerra, in cui gli uomini entrano in azione e usano la violenza allo scopo di realizzare certi obiettivi per la propria parte e contro il nemico. In questi casi, (…), il discorso [politico] diventa “mera chiacchiera”, un semplice mezzo in più per raggiungere un fine»16. Sono ancora le parole della Arendt.

Questa condizione degenerativa della politica, che la induce ad ego-direzionarsi, che la riduce a progetto utilitaristico, che la costringe al sacrificio del bene comune a vantaggio del “perseguimento del bene particolare”, di cui la Arendt rinviene la causa scatenante nel “venir meno dell’essere

insieme degli uomini”; e le conseguenze estreme nel predominio dell’etica machiavellica del “fine che giustifica i mezzi”, Caterina la attribuisce ad uno stato ben preciso dell’uomo, a cui dà il nome di:

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- “privazione della carità”; “disordine nel cuore e nell’affetto” che rende l’uomo “incomportabile a sé medesimo”.

Così nella Lettera n. 268 indirizzata “Agli anziani e consoli e gonfalonieri di Bologna”:

«La (…) carità, quando è nell’anima, non cerca le cose sue proprie, ma è liberale e larga a rendere il debito suo a Dio; cioè d’amarlo sopra ogni altra cosa, e a sé rendere odio e dispiacere della propria sensualità; e amare sé per Dio, cioè per rendere gloria e loda al nome suo; al prossimo rendere la benevolenza con una carità fraterna e con ordinato amore. (…) quelli che sono privati della carità, e pieni dell’amor proprio di loro, fanno tutto il contrario: e come essi sono disordinati nel cuore e nell’affetto loro, così sono disordinati in tutte quante le operazioni loro».

Ella ne rinviene altresì la causa scatenante

- nel predominio, nella signoria di quello che chiama “l’amor proprio di sé”, una “nuvila” che adombra il cuore dell’uomo, impedendogli la visione del vero bene.

Cito sempre dalla Lettera n. 268:

«Onde noi vediamo che gli uomini del mondo senza virtù servono e amano il prossimo loro, e con colpa; e per piacere e servire a loro, non si curano disservire a Dio, e dispiacergli, e far danno all’anime loro. Questo è quello amore perverso, il quale spesse volte uccide l’anima e il corpo; e tolleci il lume, e dacci la tenebra; tolleci la vita, e dacci la morte; privaci della conversazione de’ Beati, e dacci quella dell’inferno».

Ciò ha conseguenze devastanti per la comunità, quali:

1) l’indifferenza verso le necessità dell’altro.

Sempre dalla Lettera n. 268:

«Onde, da qualunque lato noi ci volliamo, in ogni maniera di creature che hanno in loro ragione; si vede mancare in ogni virtù per questo malvagio sentimento del proprio amor sensitivo. Se noi ci volliamo a’ prelati, essi attendono tanto a loro, e stare in delizie, che vedendo i sudditi nelle mani delle dimonia, non pare che se ne curino. E i sudditi, né più né meno, non si curano d’obedire né nella legge civile né nella legge divina, né si curano di servire l’un l’altro se non per propria utilità»;

2) l’assenza di progetto a vantaggio della rivendicazione degli interessi personali o della propria parte.

Cito ancora dal medesimo testo:

«E però non basta questo amore né l’unione di quelli che sono uniti d’amore sensitivo, e non di vera carità; ma tanto basta e dura l’amicizia loro, quanto dura il piacere e il diletto, e la propria utilità che ne traggono. Onde, s’egli è signore, egli manca nella santa giustizia: e questa è a cagione; perocché teme di non perdere lo stato suo; e per non far dispiacere, sì va mantellando, e occultando i loro difetti, ponendo l’unguento in su la piaga, nel tempo che ella vorrebbe essere incotta e incesa col fuoco»;

3) l’ingiustizia e l’oppressione dei deboli.

Cito:

«(…)! quando egli [il signore] debbe ponere il fuoco della divina carità, e incendere il difetto con la santa punizione e correzione per santa giustizia fatta; egli lusinga, e infingesi di non vederlo. Questo fa verso coloro che egli vede che possono impedire lo stato suo: ma ne’ poverelli, che sono da poco e di cui egli non teme, mostra zelo di grandissima giustizia; e senza alcuna pietà e misericordia

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pongono grandissimi pesi per piccola colpa. Chi n’è cagione di tanta ingiustizia? L’amore proprio di sé»;

4) il conflitto e la divisione.

Sempre dalla Lettera n. 268:

«Sicché vedete, carissimi fratelli e signori, che l’amore proprio è guastamento della città dell’anima, e guastamento e rivolgimento delle città terrene. Onde io voglio che voi sappiate, che neuna cosa ha posto in divisione il mondo in ogni maniera di gente, se non l’amore proprio, dal quale sono nate e nascono le ingiustizie».

In che modo allora rimediare a tale condizione di abbrutimento della comunità umana?

O meglio ancora, come scongiurare il pericolo che la comunità venga fatta ostaggio della legge dell’utilitarismo o degli interessi settari?

Con la sua proposta Caterina sembra anticipare la teoria e il linguaggio della moderna sociologia politica ed organizzativa. Ella infatti non propone un programma, non si mette alla ricerca di soluzioni, ma – è qui mi riallaccio al riferimento terminologico su cui ho posto l’accento nell’incipit del discorso – parla di “cammino”, di “via”.

Edgar Morin (si legge Morén), uno dei nomi più illustri e prestigiosi della riflessione sociologica contemporanea, interpellato sulle problematiche della convivenza e sulle soluzioni attuabili per affrontare meglio la complessità del reale, dà la seguente risposta:

«Ho sempre cercato di combattere questa idea che si possano vendere “delle soluzioni”. In politica l‘idea di programma mi sembra molto secondaria, e gli preferisco l’idea di “via”»17. Ma cosa significa VIA?

La “via” è ciò che:

1. Morin (Morèn) chiama “la nostra fede nella fraternità”;

2. per Raimon Panikkar è «Il dialogo non (…) confinato a uno scambio individuale di idee con i propri vicini»18;

3. per Edith Stein è la comunione interiore che si nutre di quella che lei chiama “empatia”. «(…) dove gli individui sono “aperti” gli uni nei confronti degli altri, dove le prese di posizione dell’uno non rimangono senza effetto sull’altro, ma lo sollecitano e sviluppano la loro efficacia: in questo consiste il vivere comunitario; allora, entrambi i membri sono una totalità e senza questo rapporto scambievole, la comunità non è possibile»19.

Queste le parole di Teresa Benedetta della Croce.

Per Caterina da Siena la “via” è “l’affettuosa e inestimabile carità”, che è quel “vestimento nupziale”

che trasfigura l’uomo perché lo rende capace di autentico slancio allocentrico, di vera apertura all’altro che diventa, necessariamente, questione personale.

Così nel Dialogo:

«In questa vita mortale, mentre che siete viandanti, io v’ho legati con legame della carità: voglia l’uomo o no, egli ci è legato. Se si scioglie dall’affetto della carità verso il prossimo, ci resta legato dalla necessità. Io volli che voi usaste la carità, o nell’affetto del cuore, o almeno negli atti esterni, cosicché se la perdete nell’affetto per causa delle vostre iniquità, almeno siate costretti per vostro bisogno ad esercitarne gli atti»20.

La carità è ciò che rende la società umana “koinonìa”, unità morale, «(…) in cui cioè – come scrive la Professoressa Balducci – le parti non esistono solo in quanto tali; ma (…) hanno una loro

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esistenziale consistenza, sono preordinate ad un fine ultraterreno ed eterno, rispetto al quale la stessa società ha ragione di mezzo»21.

E ciò è possibile perché nella carità l’uomo è spinto alla condivisione, alla com–passione, alla vera comunicazione.

Cito ancora dal Dialogo:

«Conosciuta la mia bontà, l’ama [l’anima] con un amore che è immediato, cioè che prescinde da sé e dalla propria utilità: oppure l’ama col mezzo della virtù, che ha concepito per amor mio, perché vede che in nessun altro modo mi sarebbe gradita o accetta, se non concepisse odio al peccato e amore alla virtù. Dopo aver concepito per amore la virtù, la partorisce subito nel suo prossimo, altrimenti non sarebbe vero che egli l’abbia concepita in se stesso. Se in verità mi ama, fa certamente utilità al suo prossimo; né può essere diversamente, perché l’amore di me e del prossimo sono una medesima cosa; quanto l’anima ama me, altrettanto ama lui, perché l’amore verso di lui esce da me»22.

Le continue parenesi che Caterina indirizza ai destinatari delle sue Lettere, in particolare a coloro su cui grava la responsabilità della res publica, e con cui li sollecita: “a rendere benevolenzia al prossimo con una carità fraterna e con ordinato amore”; a non “perdere il caldo della vera carità e obedienzia”; a governare “con bene universale fondato in su la pietra viva Cristo dolce Gesù”; scaturiscono quindi dal desiderio che essi si mettano, passatemi l’espressione, “in via”, al servizio della “santa giustizia”.

Con le seguenti parole Ella si rivolge pertanto “Agli anziani e consoli e gonfalonieri di Bologna”, per indicare loro proprio la via, e non tralasciando di istruirli sul “come” si diventa homo viator:

«Onde, considerando me, che col vestimento dell’amore sensitivo e particolare non potreste sovvenire a’ servi di Dio; e che colui che non sovviene sé del sovvenimento della virtù, non può sovvenire la città sua fraterna, e col zelo della santa giustizia; dico che è bisogno che siate vestiti dell’uomo nuovo. Cristo dolce Gesù, cioè della inestimabile sua carità. Ma non ci possiamo vestire, che prima non ci spogliamo; né spogliare mi potrei se io non veggo quanto m’è nocivo a tenere il vecchio peccato, e quanto m’è utile il vestimento nuovo della divina carità; però che, veduto che l’uomo l’ha, l’odia, e per odio se ne spoglia; e ama, e per amore si veste del vestimento delle virtù fondate nell’amore dell’uomo nuovo. E conclude: Or questa è la VIA»23.

Al vivere che è mero stato vegetativo, al vivere che è prigionia “delle miserie e de’ diletti del mondo”, al vivere che è sonno, inerzia della sopravvivenza, Caterina propone dunque, l’alternativa qualificata ed impegnativa del con-vivere che fa di ogni uomo un “ESSERCI”, vale a dire:

1. presenza premurosa per l’altro;

2. che si assume la responsabilità dell’altro, nella consapevolezza che «Salvezza, liberazione, beatitudine, realizzazione, illuminazione, redenzione – così come giustizia, pace, pienezza umana o quant’altro – non sono solo problemi individuali. Essi richiedono collaborazione, solidarietà, una crescente consapevolezza dell’umano e cosmica interdipendenza»24. Sono parole di Panikkar.

Così Caterina nella Lettera n. 326 indirizzata ai frati agostiniani “Guglielmo d’Inghilterra e Antonio da Nizza”, responsabilizza il cristiano che, come scrive Morra nell’introduzione ad essa: «(…) è anche cittadino, (…) ha dei doveri politici come ogni altro uomo: il bosco e la selva più meritevole non sono quelle dell’eremo, ma del mondo»25.

Cito testualmente:

«(…) per sovvenirgli [si riferisce alle difficoltà che sta attraversando la Chiesa][il cristiano] è da escire del bosco e abbandonare sé medesimo [deve cioè avere il coraggio di far sentire la sua voce,

di prendere posizione]. Vedendo che si possa fare frutto in lei, non è da stare né da dire: “Io non averei la pace mia”. (…) Su, carissimi figliuoli! E non dormite più: ché tempo è di vigilia».

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Caterina, si badi bene, non sbandiera proclami perché, come si dice oggi “fanno tendenza”; neanche parla sulla base di un sentito dire, ma con la propria storia personale, con l’esperienza vissuta sulla

propria pelle, e che la vede sempre pronta a farsi “serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo”. Come lei stessa ama presentarsi nell’intestazione di ciascuna delle sue Lettere. Caterina si mette, senza timore e con passo sicuro, sulla via della carità.

Queste le parole con le quali il beato Raimondo da Capua, introduce il lettore nella narrazione della “vita pubblica di Caterina”:

«Quando la vergine consacrata a Dio capì bene che la volontà dello Sposo era che qualche volta lei si avvicinasse alle persone, pensò di viverci in modo che la sua conversazione non riuscisse infruttuosa, ma fosse invece esempio di ben vivere a chi parlava con lei. Quindi, fu edificazione del prossimo, insisté prima negli atti di umiltà, e poi, a poco a poco, negli atti di carità, non dimenticando però la devota e continua preghiera unita sempre ad una impareggiabile penitenza»26.

E dall’esempio, dalla testimonianza viva di Caterina arrivo alla trattazione del terzo fattore.

IL FATTORE PROFETICO - TESTIMONIALE

Prima di addentrami in questa parte, ritengo opportuno fare una precisazione sul valore semantico con cui utilizzo, in questo contesto, il termine “profetico”.

Esso va ad assumere qui il senso di “autorevole”, di “conferma significativa”, di “voce che ottiene riconoscimento e favore”; ed è espressamente funzionalizzato a rafforzare il significato dell’aggettivo “testimoniale”.

La testimonianza di cui voglio parlare è la testimonianza che diventa:

1. riferimento qualificato, cioè credibile;

2. durevole, perché non passa di moda, non perde la sua forza persuasiva, non si indebolisce, ma

permane, fortificandosi, nel tempo; 3. universale, che è in grado cioè di parlare alla pluralità del genere umano, perché radicata nella

verità vera.

Questa parola viva, capace di parlare, per convincere e coinvolgere, è oggi diventata una vera rarità.

Benedetto XVI nel “Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2012”, si esprime in questi termini:

«(…) sono più che mai necessari autentici testimoni, e non meri dispensatori di regole e di informazioni; testimoni che sappiano vedere più lontano degli altri, perché la loro vita abbraccia spazi più ampi. Il testimone è colui che vive per primo il cammino che propone»27.

Il testimone è la persona che si realizza, si attua, perché non solo scopre la verità, ma esige, cioè avverte il bisogno di vivere la verità, e l’interpellanza del dovere che richiamandola all’ascolto, la impegna a comunicarne all’altro la conoscenza.

La “Verità”, con la V maiuscola, è una realtà che va vissuta, sperimentata, condivisa.

Con queste parole Edith Stein spiega la sua Scientia Crucis:

«Essa non va intesa nel senso abituale solito: non si tratta di una teoria, vale a dire di un semplice complesso di proposizioni vere, reali o ipotetiche, né di una costruzione ideale congegnata da un processo del pensiero. Si tratta di (…) una verità viva, reale ed attiva: seminata nell’anima (…). Di questo stile e da questa forza (…) scaturisce anche la concezione della vita (…)»28.

Quali sono allora le caratteristiche che contraddistinguono il testimone?

Caterina ci insegna che il testimone è l’uomo di virtù.

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Virtù intesa come sinonimo di forza, quella forza che trae nutrimento dalla maturità adulta e consapevole della propria identità. Caterina la chiama “virilità”.

Queste le parole che nella Lettera n. 333, Ella indirizza al suo confessore Raimondo da Capua:

«Perocché il fanciullo il quale si notrica di latte non è atto a stare in battaglia, né si diletta d’altro che di volere stare in giuoco con li suoi simili; così l’uomo che sta nell’amore proprio di sé, non si diletta di gustare altro che il latte delle proprie consolazioni spirituali e temporali, dilettandosi come fanciullo con quelli che sono simili; ma quand’egli è fatto uomo, e levatosi dalla tenerezza e amore proprio di sé, egli mangia il pane con la bocca del santo desiderio, schiacciando co’ denti dell’odio e dell’amore, in tanto che, quanto è più duro e muffato, più se ne diletta. (…)! Egli è fatto forte; e, come forte, piglia la conversazione de’ forti. Tutto maturo, pesato e non leggiero, corre, con loro insieme alla battaglia; e già non si diletta d’altro che di combattere per la verità».

Ma la virtù del testimone è anche il coraggio affermativo della propria identità che lo fa cittadino nella libertà.

Così Caterina nella Lettera n. 123 “Ai signori difensori della città di Siena”:

«E dicovi, che altro rimedio non hanno gli uomini del mondo a volere conservare lo stato spirituale e temporale, se non di vivere virtuosamente: perocché per altro non vengono meno se non per li peccati e difetti nostri. E però levate via la colpa, e sarà tolto via il timore; e arete cuore vigoroso e non timoroso; e non arete paura dell’ombra vostra».

La libertà del testimone è capacità di resistere all’appiattimento verso la “bassezza”, che deriva dalla vera obbedienza. Ovvero l’obbedienza che non è sottomissione, non è abbassare la testa, ma ascolto che inclina all’abbandono fiducioso, di fede, nella braccia di “Colui che è”.

CITO Caterina:

«Questi cotali [gli uomini virili] hanno rifiutato il latte. Rilucono in loro le stimmate di Cristo; seguitando la dolce dottrina sua. Questi, stando nel mare tempestoso, sempre hanno bonaccia; nell’amaritudine gustano la grande dolcezza; con vile e piccola mercanzia acquistano le smisurate ricchezze. Essendo stracciati e dilaniati dal mondo, più perfettamente si raccolgono e si uniscono con Dio; quanto più sono perseguitati dalla bugia, tanto più esultano nella verità; patendo fame, nudità, ingiurie, strazi e villanie, più perfettamente s’ingrassano del cibo immortale. Sono rivestiti del fuoco della divina carità, tollendo via la nudità del proprio amore, il quale dinuda l’anima d’ogni virtù; e nelle vergogne e strazi trovano la gloria loro»29.

Caterina trabocca di queste virtù testimoniali.

«(…) io grido a te per tutto el mondo, in specialità grido per lo vicario tuo e per le colonne sue, e per tutti quegli che tu m’hai dato ch’io ami di singulare amore: ben che io sia inferma io gli voglio vedere sani, e ben che io sia imperfetta per li miei difetti voglio vedere loro perfetti, e per che io sia morta voglio vedere loro vivi nella grazia tua»30.

E’ la sua preghiera tratta dall’Orazione XX (venti).

Tutta la vita di Caterina è un incessante aprire il cuore al bisogno di salvezza dell’altro; assume le vesti di un “ansietato ed infinito” desiderare il bene, fisico, morale e spirituale, per l’altro.

Raimondo da Capua ci racconta che:

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«Quando la vergine si accorse che sarebbe stata più gradita al Signore quanto più fosse caritatevole verso il prossimo, con tutte le forze si preparò e si rese capace di sovvenire ai bisognosi. Ma poiché niente aveva di suo, (…) chiese al padre il permesso di dare, secondo il bisogno, in elemosina ai poveri, quanto il Signore concedeva a lui e alla sua famiglia. Il padre ci acconsentì volentieri, perché vedeva sempre più di buon occhio la figliuola camminare diritta nella via del Signore. E le disse di sì non di nascosto, ma ne fece un comando a tutti quelli di casa, dicendo: «Nessuno si opponga alla mia carissima figliuola, quando vorrà fare elemosina, perché io le do mano libera di distribuire magari tutto quel che ho in casa»»31.

Caterina è dunque testimone che agisce per sovvenire agli altri, ma anche per coinvolgere. Dà la

possibilità agli altri – in questo caso il padre Jacopo e la sua famiglia – di mettersi in via, di sperimentare, assieme a Lei, la via della Carità.

Come il Signore, che si è messo al servizio dei “piccoli”, dei “poveri”, dei “peccatori”, anche Caterina rivolge la sua attenzione ai “veri bisognosi”.

Sempre dalla Legenda Maior:

«Ottenuta una simile facoltà, la santa vergine cominciò a dare largamente i beni del padre; ma poiché possedeva in modo speciale il dono della discrezione, non dava a chiunque si facesse avanti; era invece larghissima con quelli che sapeva veri bisognosi, anche se non avessero chiesto»32.

Il sentimento di prossimità che anima Caterina, non è dunque semplice rapporto di buon vicinato, ma scaturisce dall’ascolto profondo, in termini moderni potremmo dire “attivo”, dell’altro, finalizzato a prendersene cura e alla custodia.

Caterina pertanto non rimane in passiva attesa che il povero e il bisognoso le presentino le loro petizioni, ma li precede, li anticipa, intervenendo con sollecitudine per sostenerli nella difficoltà.

Ad esemplificazione cito uno dei tanti episodi di cui fa menzione Raimondo da Capua:

«Le era intanto venuto agli orecchi che non lontano da casa sua c’erano famiglie bisognose, le quali non bussavano alla sua porta, perché si vergognavano di chiedere l’elemosina, ma soffrivano una grande miseria. Lei non intese a sordo, e imitando San Niccolò, la mattina di buon’ora, portando grano, vino, olio e quanto poteva avere, sola sola, andava alla casa di quei poveretti; (…)»33.

In conclusione, dunque, quale la proposta di Caterina per una convivenza civile?

Ella si fa interprete di una legge che non subisce limiti di tempo, di luogo e di stato: è la LEGGE DELL’AMORE.

«(…) io vi creai per amore, e però non potete vivere senza amore»34.

Queste le parole del Dialogo.

L’amore di cui parla Caterina è materia che qualifica in dignità l’uomo, affermandosi nell’ordine di una reciprocità cosciente e responsabile.

Con questo amore Caterina – e qui voglio concludere con le parole del discorso che la Prof. Cavallini tenne all’Università Cattolica di Lublino nel 1991 –

«(…) ha saputo condurre i discepoli ad attuarsi, valorizzando le proprie doti e superando i punti deboli, perché si è posta al loro fianco con quell’affetto che intuisce le esigenze di ciascuna persona, e sa darle aiuto senza violentarla, nel rispetto del piano di Dio sopra ogni … essere umano»35.

Dott. Giuseppe Pedà Vice Presidente Nazionale

Giovani Imprenditori Confcommercio

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1. Si può vedere in proposito la voce “Ippolito (santo e martire)”, in Il grande dizionario dei Santi e dei Beati. Vol. 3: GIOVOZAN.

Federico Motta Editore: Milano. 2006. Pp. 198–203.

2. Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la Quaresima 2012. Cfr. p. 1. 3. L’edizione qui utilizzata è: b. Raimondo da Capua (1978). S. Caterina da Siena. Vita. A cura di G. Tinagli. Edizioni Cantagalli: Siena.

4. Per una conoscenza di sintesi della vita e delle opere della Santa si può vedere: Cartotti Oddasso A. (1963). Voce “CATERINA

BENINCASA da SIENA, santa”. In:Bibliotheca Sanctorum. Vol. III: BER–CIR. Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università

Lateranense: Roma. Pp. 996–1044. 5. Benedetto XVI (2011). Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2012. Libreria Editrice Vaticana: Roma. Cfr.

p. 4.

6. O VIII “La luce che salva”, v. 73

7. Benedetto XVI (2011). Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2012. Libreria Editrice Vaticana: Roma. Cfr. p. 11.

8. O XIII “Cristo resurrezione nostra”, cfr. vv. 71–84. L’edizione di riferimento è: S. Caterina da Siena (1978). Le Orazioni. A cura di G.

Cavallini. Edizioni Cateriniane: Roma.

9. O IV “L’amore che vince ogni ostacolo”, cfr. vv. 27–38. 10. O I “La missione del Verbo”, cfr. vv. 36–39.

11. Cfr. voce “Convivenza”, in: Cortellazzo M. & Zolli P. (1989). Dizionario Etimologico della Lingua Italiana. Vol. I: A–C. Zanichelli:

Bologna

12. “Sulla questione educativa”. Discorso del Santo Padre Benedetto XVI (2009) ai vescovi italiani della 59ª Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana.

13. O III “Cristo salvezza nostra”, cfr. vv. 35–36.

14. Cfr. D 54, pp. 124–125. L’edizione di riferimento è: S. Caterina da Siena (2001). Il Dialogo della Divina Provvidenza. A cura di T. S.

Centi. Edizioni Cantagalli: Siena. 15. Arendt H. (2009). Vita Activa. La condizione umana. Bompiani: Milano. Cfr. p. 128.

16. Arendt H. (2009). Vita Activa. La condizione umana. Bompiani: Milano. Cfr. p. 131.

17. Morace F. (a cura di)(2003). Dialogo: l’identità umana e la sfida della convivenza. Edgar Morin. Libri Scherwiller: Milano. Cfr. p. 16.

18. Panikkar R. (2001). L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni. Jaca Book: Milano. Cfr. p. 23. 19. Stein E., Beitrage zur philosophische Begründung der Psychologie und Geistaswissenschaften, in Jahrbuch für Philosophie und

phänomenologische Forschung, vol.V, Halle 1922, p. 192, ristampa dell’editore Niemeyer, Tubingen, 1970. Op. cit. in Briganti M. A.

(2009). Amo dunque sono. L’esperienza femminile tra filosofia e testimonianza. Franco Angeli: Milano. Cfr. p. 54.

20. Cfr. D 148 p. 348. 21. Balducci A. M. (1971). Massime di reggimento civile di Santa Caterina da Siena. Edizioni Cateriniane: Roma.

22. Cfr. D 7 p. 40.

23. Cfr. L 268.

24. Panikkar R. (2001). L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni. Jaca Book: Milano. Cfr. p. 60. 25. Morra G. (1990). La città prestata consigli ai politici. Città Nuova: Roma. Cfr. p. 64.

26. Raimondo da Capua (1978). S. Caterina da Siena. Vita. A cura di G. Tinagli. Edizioni Cantagalli: Siena. Cfr. par. 125 p. 143.

27. Benedetto XVI (2011). Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2012. Libreria Editrice Vaticana: Roma. Cfr.

p. 6. 28. Stein E., Vie della conoscenza di Dio. Cfr. pp. 23–24.

29. Cfr. L 333 “A frate Raimondo da Capua”.

30. O XX, vv. 60–66 “Per la santificazione della Chiesa”.

31. Raimondo da Capua (1978). S. Caterina da Siena. Vita. A cura di G. Tinagli. Edizioni Cantagalli: Siena. Cfr. par. 131 p. 149. 32. Ibidem. Cfr. par. 131 p. 149.

33. Raimondo da Capua (1978). S. Caterina da Siena. Vita. A cura di G. Tinagli. Edizioni Cantagalli: Siena. Cfr. par. 131 p. 149.

34. Cfr. D 110 p. 236

35. Cavallini G. (1991). Santa Caterina da Siena e la costruzione della casa comune europea. Edizioni Cantagalli: Siena. Cfr. p. 18.

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CONFERENZA DEL 21 MARZO 2012

L’incarico politico: un servizio “a tempo” Laboratorio Lett. 123:

Prima di dare inizio a questa sessione di lavoro, consentitemi di esprimere il mio grazie alla

Presidente del Centro Internazionale di Studi Cateriniani, la Prof. Giunta, e ai colleghi del Consiglio

Direttivo, per aver confidato in me, assegnandomi il

coordinamento di questo Laboratorio, che in quanto

esperienza inedita rispetto alle iniziative solitamente

promosse dal CISC, presentava evidentemente sin dalle

prime battute organizzative tutta una serie di incognite.

La presenza stasera in sala, oltre che degli affezionati di

questi incontri del mercoledì, di nuovi ospiti, alcuni dei quali

avremo magari modo di conoscere più da vicino nel corso

della serata, vale tuttavia a fugare molti dei dubbi iniziali,

ponendosi a conferma del fatto che l’idea di intercalare la

consueta sequenza di conferenze con un laboratorio

tematico, è buona, ha una sua validità.

E’ d’obbligo allora dare conto, in via preliminare, di almeno due perché sottostanti a tale scelta.

1 – Il perché di un Laboratorio

La scelta di attivare un Laboratorio è stata per così dire “indotta”, nel senso che quando ci siamo

trovati a lavorare al programma di questi “Mercoledì Cateriniani 2012”, e nel momento in cui si è

decisa l’opzione per l’insegnamento politico di Caterina da Siena, ci è sembrato naturale, prevedere

del tempo da dedicare ad una riflessione condivisa e cooperativa, che potesse dare voce alla

sensibilità e alle convinzioni dei partecipanti agli incontri, e al contempo andasse ad affiancare,

supportandola ed integrandola, la specifica riflessione dei singoli relatori. La scelta era insomma

insita nelle ragioni e nell’intenzione del tema stesso.

Le ragioni sono evidentemente quelle di un’attualità politica segnata dal disorientamento, dalla

mancanza di progetto per l’uomo, dalla scarsità di riferimenti credibili e coraggiosi, per niente in

apprensione rispetto alla negazione diffusa di libertà e diritti, avulsa da qualsiasi logica di pro–azione

e di perseguimento del bene comune. Di fronte a questo stato di emergenza socio–antropologica il

cristiano non può far finta di non vedere o addirittura considerarsi parte estranea, ma ha al contrario

il dovere di intervenire in modo serio e consapevole proprio «(…) in ordine all’elaborazione di “uno

specifico cristiano” a servizio di un rinnovamento della vita politica italiana»1.

Ciò richiede l’impegno per il ristabilimento di una convivenza realmente civile, dove cioè l’aggettivo

“civile”, restituito alla sua pienezza semantica originaria, possa davvero considerarsi pertinenza

costitutiva del cittadino e della comunità. Può dirsi infatti vero cittadino solo il soggetto in–azione

per e con la comunità, ed è altresì la natura dell’inter–azione fra soggetti a segnare lo scarto

differenziale fra il mero aggregato umano e la comunità. Nel primo infatti la dimensione relazionale

è dimensione fittizia, poiché il “problema della prossimità”, “dello stare insieme all’altro”, “del noi”,

assume un valore puramente strumentale, asservito com’è all’istanza contingente ed utilitaristica del

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Centro Internazionale di Studi Cateriniani Pagina 34 di 59

“proprio amor sensitivo”, che è preclusiva, per definizione, di qualsiasi possibilità di sviluppo per la

persona e, per conseguenza, per la società a cui essa appartiene2. La seconda invece ha nella

relazione “io–tu–noi” la sua dimensione essenziale, che si afferma quale rapporto di coesistenza fra

parti profondamente unite dal di dentro, ed è scandita da mozioni solidali, sentimenti di com–

passione e spirito di condivisione. Ne deriva che il principio dello “insimul” che fonda la comunità,

diventa attualità viva ed operante solo nel momento in cui l’interesse di essa si traduce in un

effettivo «(…) vivere la politica come ricerca del bene comune, nella scrupolosa attenzione per la

verità e per la giustizia, nel “governo di sé”, con coraggio e purezza di intenti, nel rispetto degli

avversari e nell’aiuto ai più deboli, non evitando il confronto ma affrontandolo con determinazione,

con fermezza e con la consapevolezza di ben agire»3.

Ed è proprio la corresponsabilità la connotazione distintiva della dottrina politica di Caterina che,

prescindendo dallo stato, esorta instancabilmente ciascuno dei suoi interlocutori – siano essi sudditi

o governanti, uomini o donne, religiosi o secolari – a fare la propria parte mettendo al servizio della

comunità, nella misura delle proprie forze, “secondo la propria attitudine”, abilità, competenze,

sapere, virtù, consapevole della non autosufficienza umana:

«A questo io provvidi col non dare a ciascuno il saper fare tutto quello che gli bisogna in vita; ma a

chi una parte, a chi un’altra, affinché l’uno abbia materia, per i suoi bisogni, di ricorrere all’altro.

Così l’artefice ricorre al lavoratore, e il lavoratore all’artefice; l’uno ha bisogno dell’altro, perché non

sa fare quello che fa l’altro. Così il chierico e il religioso hanno bisogno del secolare, ed il secolare

del religioso: l’uno non può fare senza l’altro. E così d’ogni altra cosa»4.

Al fine di stimolare una riflessione proficua e costruttiva su questi temi, l’intreccio fra ascolto attivo

e cooperative learning ci è sembrato sin da subito la soluzione ottimale, e proprio da questa

convinzione ha preso forma il progetto di strutturazione degli incontri del mercoledì sul doppio

binario del momento “informativo–formativo ” e di quello più spiccatamente “didattico”.

Il momento informativo–formativo è rappresentato dalle quattro conferenze precedenti il

Laboratorio, tenute da quelli che mi piace definire i “relatori credibili”, vale a dire non “addetti ai

lavori” rispetto alla materia cateriniana, bensì pragmatici della politica. Essi hanno affrontato il

“tema” portando la testimonianza del proprio personale impegno in ambito politico, resa attraverso

un’ermeneusi del pensiero di Caterina che si è avvalsa degli strumenti dell’esperienza in prima linea,

delle convinzioni da essa plasmate e di una sensibilità affinatasi proprio lungo il dipanarsi di questo

vissuto situazionale. Le quattro conferenze hanno altresì rappresentato un momento “formativo”,

cioè preparatorio e di primo approccio, per coloro che si sono messi, per la prima volta, all’ascolto di

Caterina, e che hanno così avuto occasione di cominciare a familiarizzare con la forma, i contenuti

ed il ritmo del suo personalissimo linguaggio.

Il momento didattico coincide invece propriamente con il Laboratorio, che appella però, in via

preliminare, ad una necessaria precisazione circa il significato che qui va attribuito al termine

“didattico”. La scelta terminologica è infatti motivata esclusivamente da ragioni di familiarità e quindi

di agevolezza del termine in questione, e non dalla pretesa di mettersi in cattedra per insegnare

qualcosa a qualcuno. L’obiettivo precipuo dell’intervento è piuttosto, si potrebbe dire, quello

dell’apprendimento e della comprensione condivisi.

Esso scaturisce quindi da un desiderio di confronto e di condivisione – con l’apporto di Caterina – sui

temi della vera verità, della vera giustizia, del vero bene comune, della sostanza del potere politico,

con l’aspirazione ad uscire da qui, stasera, con un quid plus, fortificati e arricchiti dalle ragioni

dell’altro. Si nutre altresì della speranza in una messa in pratica del “pensiero” affinché esso parli e

agisca per il tramite dei principali attori politici, con l’auspicio che essi trovino la forza e il coraggio di

disporsi all’accoglienza di quei principi politici che sono i soli a poter sostenere un operare

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concretamente rivolto al benessere morale, spirituale e materiale della comunità. Coglie infine

l’opportunità di soffermarsi più in dettaglio su alcune fondamentali tematiche emerse dai contributi

dei diversi relatori.

2 – Il perché del Laboratorio sulla Lettera 123

Leggendo il titolo sotto cui è stato posto il Laboratorio odierno, L’incarico politico: un servizio “a

tempo”, viene immediatamente all’evidenza come esso riprenda, pur con una piccola variante –

“incarico politico” al posto di “potere” – quello della prima relazione, tenuta il 15 febbraio da Paolo

Asolan, e che titolava appunto Il potere come servizio “a tempo”. Ciò pone un immediato

interrogativo, e cioè se tale scelta sia stata frutto della casualità, o guidata da motivazioni precise

che ci hanno determinato a preferirla alle altre tre.

La seconda ipotesi è chiaramente quella da avvalorare, e giustifica l’opzione riconoscendo al titolo in

questione, la capacità di racchiudere in maniera onnicomprensiva, i capisaldi della dottrina politica

cateriniana, oltre che di sintetizzare, sistematizzandoli,

i contenuti delle altre relazioni. Per avere conferma di

ciò basta dare un’occhiata anche solo alla componente

terminologica del titolo stesso, sulla quale mi soffermo

qui brevemente.

Innanzitutto “l’incarico politico” o “il potere”,

nell’accezione cateriniana non rimanda tout court al

mero esercizio dell’autorità ad esso connessa, ma

designa piuttosto un complesso di abilità e virtù, che

devono provvidenzialmente contraddistinguere chi

ricopre l’incarico politico o, se si preferisce, detiene il

potere. Capo virtuoso non è colui che eccelle nella

competenza al comando, ma nel “sapere” della socialità, della prossimità, dell’ascolto, della carità.

Non a caso, con un evidente riferimento tanto alla natura del compito di chi ha potere di governo

quanto alla fonte della sua legittimazione, Caterina afferma che poiché «(…) per veruna signoria che

aviamo in questo mondo, ci possiamo reputare signori»5, il titolo più adeguato per chi detiene il

potere non è quello di “signore” ma di “dispensatore”6.

Essere dispensatore significa amministrare in modo equo e giusto la res publica, coinvolgere tutta la

comunità nel perseguimento del vero bene, mettersi dalla parte dei deboli, avere la forza di

riconoscere i meriti e di svelare e punire l’inganno:

«L’altra cosa, è che voi manteniate la santa e vera giustizia; e non sia guasta né per amore proprio

di voi medesimo, né per lusinghe, né per veruno piacere d’uomo, e non tenere occhio, che i vostri

offiziali facciano ingiustizia per denari, tollendo la ragione a poverelli. Ma siate padre de’ poveri,

siccome distributore di quello che Dio v’ha dato. E vogliate che i difetti che si truovano per lo reame

vostro, siano puniti, e la virtù esaltata»7.

Ciò richiede evidentemente al politico il coraggio di prendere posizioni chiare, senza il timore «(…) di

dispiacere: il quale dispiacere gli tollerebbe la signoria»8. Il politico è allora per Caterina l’uomo

dell’agire maturo, virile, virtuoso. Ella esorta così il suo confessore, Raimondo da Capua ad: «(…)

essere uomo virile (…). Perocché il fanciullo il quale si notrica di latte non è atto a stare in battaglia,

né si diletta d’altro che di volere stare in giuoco con li suoi simili; (…); ma quand’egli è fatto uomo, e

levatosi dalla tenerezza e amore proprio di sé, egli mangia il pane con la bocca del santo desiderio,

schiacciando co’ denti dell’odio e dell’amore, in tanto che, quanto più e duro e muffato, più se ne

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diletta. (…). Egli è fatto forte; e, come forte, piglia la conversazione de’ forti. Tutto maturo, pesato e

non leggiero, corre, con loro insieme alla battaglia; e già non si diletta d’altro che di combattere per

la verità» 9. Prerequisito del politico è una coscienza libera, capace di impegnarsi per la verità e per

il vero bene, poiché: «L’anima che teme di timore servile, neuna sua operazione è perfetta; e in

qualunque stato si sia, nelle piccole cose e nelle grandi, viene meno, e non conduce, quello che ha

cominciato, alla sua perfezione. O quanto è pericoloso questo timore! (…): egli acceca l’uomo, che

non gli lassa conoscere né vedere la verità»10. L’incarico politico impegna pertanto chi lo ricopre, a

dare risposte eticamente fondate e in ragione di ciò, politicamente valide per la comunità che

amministra.

Scrive in proposito Morra che per Caterina «Esistono, (…), due ineludibili “questioni morali”: la prima

è quella del politico, il quale non potrà agire bene, se prima non avrà ordinato moralmente se

stesso: “l’anima non può fare veruna utilità di dottrina, d’esemplo e d’orazione al prossimo suo se

prima non fa utilità a sé” (D 1); la seconda è della politica, la quale non può mai oltrepassare le

norme dell’etica: “fondati nel santo e vero timore di Dio, il quale nutrica uno amore divino

nell’anima. Egli è quello timore santo che si pone Dio dinanzi all’occhio suo; e innanzi elegge la

morte, che offendere Dio o il prossimo suo o che volesse dare una ingiustizia che non la rivolga o

vegga bene da ogni lato prima che la faccia” (L 123)»11. Vista nella sua dimensione attiva quella

della politica – e qui bisogna fare particolare attenzione – non è poi per Caterina una realtà

unilaterale, prerogativa di un’unica parte sociale, ma basata sulla chiamata alla corresponsabilità di

signori e sudditi. Nella concezione cateriniana la “società umana” si definisce infatti come sistema

che funziona in modo sano ed equilibrato, solo nella misura in cui ogni sua parte si fa promotrice dei

valori cardine della giustizia, del bene comune, della solidarietà. Il “sistema” società umana

insomma si afferma come progetto per l’uomo, solo quando si muove secondo quella che altrove ho

definito la “logica della pro–esistenza”, in cui cioè l’uomo si realizza in umanità, è a tutti gli effetti

quel “per e con l’altro uomo”, in una dinamica di identificazione nella reciprocità che conferisce

“all’altro” il valore di: speranza, certezza, riferimento affidabile.

Se ciò non avviene la società si ammala, e iniquità, ingiustizia, attitudine al sopruso e alla

sopraffazione, a–patia, sono solo alcuni dei mali che vanno a giustificare la vigenza della cruda

legge hobbesiana dell’homo homini lupus: «Onde, da qualunque lato noi ci volliamo, in ogni maniera

di creature che hanno in loro ragione; si vede mancare in ogni virtù per questo malvagio vestimento

del proprio amor sensitivo. Se noi ci volliamo a’ prelati, essi attendono tanto a loro, e stare in delizie,

che vedendo i sudditi nelle mani delle dimonia, non pare che se ne curino. E i sudditi, né più né

meno, non si curano d’obedire né nella legge civile né nella legge divina, né si curano di servire l’un

l’altro se non per propria utilità. E però non basta questo amore né l’unione di quelli che sono uniti

d’amore sensitivo, e non di vera carità; ma tanto basta e dura l’amicizia loro, quanto dura il piacere

e il diletto, e la propria utilità che ne traggono»12.

I relatori finora intervenuti, hanno validamente dato conto di quali debbano considerarsi i criteri di

legittimità dell’incarico politico, stabilendo che esso: richiede «La coscienza del “bene

comune” [che] secondo Caterina porta ad un comportamento amorevole, ma anche coraggioso e

virile (…)»13; si specifica come impegno per la comunità, vale a dire per «(…) il bene di una

“pluralità unificata” di persone che convergono verso un fine unico»14; deve direzionarsi verso il

progetto di una società in cui la convivenza «(…) rimanda ad una condizione costituitiva, ontologica,

dell’uomo, cioè quelladell’“inter–esse”, del “vivere con”, dove la preposizione “con” dice: prossimità,

solidarietà, unione, condivisione, reciprocità, responsabilità, impegno, ascolto, relazione»15.

Viene da sé allora che l’altra espressione del titolo di questa sera, il “come servizio”, qualifica nella

sostanza l’esercizio del potere. “Potere come servizio”, equivale a “buon governo”, porta con sé la

preoccupazione, che si traduce in azione, per il benessere e il progresso morale, fisico e spirituale

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della collettività: «Io Catarina, (…) scrivo a voi (…) con desiderio di vedervi fedeli alla santa madre

Chiesa, acciocché siate membri legati e congiunti col capo vostro sì come veri e fedeli Cristiani, con

zelo santo di vera e santa giustizia; volendo che la margarita della giustizia sempre riluca ne’ petti

vostri, levandovi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale della vostra città, e non

propriamente al bene particolare di voi medesimi»16.

Infine l’espressione “a tempo”, che costituisce per Caterina il medium per porre l’accento sulle

connotazioni specifiche della “signoria di questo mondo”.

1. Il potere é temporaneo, da intendere nel duplice senso della provvisorietà e della precarietà.

Esso è provvisorio perché segnato da un tempo di inizio e da un tempo di conclusione: «Signoria prestata sono le signorie delle cittadi o altre signorie temporali, le quali sono prestate a noi e agli altri uomini del mondo; (…) secondo i modi e i costumi de’ paesi: (…)»17. Decorre

sotto l’alea della precarietà, e pertanto è destinato a durare per «(…) quanto piacerà al dolce Signor nostro»18, dato che «(…) le signorie temporali (…) o per morte o per vita elle trapassano»19.

2. Il potere non è proprietà esclusiva di chi lo detiene: «(…); possedendo voi il reame vostro come cosa prestata a voi, e non vostra. Perocché voi sapete bene, che né vita né sanità né ricchezze né onore né stato né signoria non è vostra. Che s’ella fusse vostra, voi la potreste possedere a vostro modo»20.

3. Il potere non è ottenuto ai fini delle propria utilità: «Adunque bene è semplice colui che possiede l’altrui per suo. Drittamente egli è ladro, e degno della morte»21.

Su questo terreno si muove il ragionamento per contrapposizione fra “stato temporale” e “stato

spirituale”, fra la “signoria spirituale” e le “altre signorie temporali”, condotto da Caterina con

l’intento di richiamare l’attenzione dei suoi “figliuoli” alla dimensione autentica dell’uomo, quella che

non subisce limiti di tempo né conosce condizioni provvisorie. E questa è la dimensione interiore,

spirituale, la “città dell’anima nostra”: «E se voi mi dicessi: «Non ci ha l’uomo in questa vita neuna

signoria?» rispondovi: sì, ha la più dolce e la più graziosa e più forte che veruna cosa che sia; e

questa si è la città dell’anima nostra. Oh écci maggiore cosa e grandezza, che avere una città che vi

si riposa Dio, che è ogni bene, dove si trova pace, quiete e ogni consolazione? E è di tanta fortezza

questa città e di perfetta signoria, che né dimonio né creatura ne la può tôrre, se voi non vorrete.

Ella non si perde mai, se non per lo peccato mortale»22.

3 – Articolazione del Laboratorio

Le formule organizzative attuabili sarebbero varie, tuttavia il limite di tempo e la tipologia del

contesto, in modo particolare l’uditorio composito (studiosi di S. Caterina, neofiti, professionisti della

politica, semplici curiosi, ecc.), impone una rigida selezione fra le molteplici modalità di intervento

possibili. Il Laboratorio si articola pertanto in quattro fasi, ciascuna delle quali scandita da attività

di input del coordinatore e di feedback dei partecipanti.

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FASE A: DISTRIBUZIONE DEGLI STRUMENTI DI LAVORO

ATTIVITA’ DEL COORDINATORE

ATTIVITA’ DEI PARTECIPANTI

Distribuisce il materiale di lavoro approntato

in raccoglitori

Aiutano nella distribuzione del materiale di

lavoro

Illustra il materiale fornito e le modalità e i

tempi di utilizzo dello stesso

Seguono le indicazioni del coordinatore,

interagiscono con lui richiedendogli

chiarimenti; verificano la rispondenza del

materiale consegnatogli

STRUMENTI DI LAVORO: testo integrale della Lettera n. 12323; fogli bianchi per appunti; una

Scheda di Lavoro.

FASE B: PRESENTAZIONE DEL DOCUMENTO DI LAVORO

ATTIVITA’ DEL COORDINATORE

ATTIVITA’ DEI PARTECIPANTI

Fornisce informazioni che consentano di

collocare temporalmente la Lettera

Seguono la presentazione fatta dal

coordinatore

Individua gli elementi attraverso i quali è

possibile risalire ad una datazione attendibile

di essa

Prendono appunti sulle indicazioni che gli

vengono fornite

Chiarisce l’identità dei destinatari

Spiega, con riferimenti specifici al contesto

storico–sociale ed istituzionale senese, le

ragioni che hanno motivato il mittente

Intervengono con informazioni integrative

SINTESI DEI DATI STRATEGICI FORNITI CON LA PRESENTAZIONE

Ai fini del presente lavoro il dato storico interessa in modo marginale, ed esclusivamente nella

misura in cui può servire a fare luce su quei fattori che rendono il discorso di Caterina ancora oggi

istruttivo e di profonda attualità, consentendo, a ragione, di riconoscere una portata meta–storica

alla sua parola. I “signori difensori della città di Siena” a cui Ella si rivolge, sono i membri di quel

governo di 13 consoli che, il 2 settembre del 1368, insediandosi segnò l’ennesimo cambiamento

istituzionale per la città di Siena, dopo il governo di estrazione popolare “dei 9” (1287–1355), e la

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formula bipolarista tentata dal governo “dei 12”. A questo “governo dei difensori” Caterina si trova a

scrivere ripetutamente, in un contesto cittadino fatto di tensioni e continui dissapori tra nobili e

popolo.

Il “signori” con cui Ella gli si rivolge non costituisce propriamente un’espressione di riguardo e di

riverenza, ma vale a rafforzare la designazione di coloro che detengono l’ufficio della “Signoria”. Per

quanto concerne la datazione e le ragioni che inducono Caterina a scrivere, esse sono desumibili da

una serie di informazioni che vengono fornite dalla stessa Lettera:

1. si tratta di una lettera con la quale Caterina dice di rispondere ad una precedente lettera

inviatale dai “signori difensori della città di Siena” tramite un certo Tommaso di Guelfuccio (che già in altre circostanze le aveva fatto da corriere): «Rispondovi, carissimi fratelli e signori, alla lettera ch’io ho ricevuta da Tommaso di Guelfuccio per vostra parte»24.

2. Caterina riferisce delle ragioni della lettera inviatale dai signori difensori, che ne invocano un intervento in qualità di mediatrice e operatrice di pace e riconciliazione fra loro e i concittadini: «Ringraziovi della carità che io veggo che avete a’ vostri cittadini, cercando la pace e la quiete loro, e verso di me miserabile, non degna che vi desideriate la venuta mia, né che voi richiediate da me che io sia mezzo a questa pace, (…)»25.

3. Caterina menziona alcune incombenze a cui deve assolvere presso il monastero di S. Agnese a

Montepulciano e che la costringono a ritardare il suo intervento sul posto: «Onde io non veggio che testè a questi dì io possa venire, per alcuna cosa di bisogno che io ho a fare per lo monastero di santa Agnesa (…)». Al contempo fa sapere di dover incontrare i nipoti di un certo

Messer Spinello per una riconciliazione con i figli di un certo Lorenzo: «… e per esse co’ nipoti di messere Spinello per la pace de’ figliuoli di Lorenzo». La data più accreditata della Lettera è la metà del luglio del 1377.

FASE C: LETTURA DELLA LETTERA

ATTIVITA’ DEL COORDINATORE

ATTIVITA’ DEI PARTECIPANTI

Legge il testo ad alta voce sottolineando con

tono enfatico alcune parole chiave

Seguono la lettura evidenziando sul testo

le parole chiave

Interrompe opportunamente la lettura per

scandire le aree tematiche affrontate nella

Lettera

Supportano le argomentazioni del

coordinatore attraverso personali

contributi esplicativi dei lemmi individuati

Sollecita la discussione d’aula su alcune

parole ed espressioni chiave del testo

Propongono interpretazioni sulle parole e

sulle espressioni chiavi suggeritegli

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RESOCONTO DELLE AREE TEMATICHE E DELLE PAROLE ED ESPRESSIONI CHIAVE

INDIVIDUATE

Assieme ai partecipanti sono state individuate quattro aree tematiche ed assegnato, a ciascuna di

esse, il dato terminologico caratterizzante, reso in alcuni casi per vocabolo, in altri riportando

un’intera proposizione:

AREA TEMATICA n. 1: “Lato debole dei governanti senesi”

ESPRESSIONE CARATTERIZZANTE: “timore servile”

“impedisce e avvilisce il cuore”

“non lascia vivere né adoperare come a uomo ragionevole”

“esce e procede dall’amor proprio di sé”

“l’amor proprio di sé è pericoloso in ogni maniera di gente. Perocché non attendono ad

altro che a loro medesimi”

COMMENTI

Caterina sottolinea con questa espressione l’incapacità di apertura , di volgere lo sguardo

all’altro, e di distogliersi quindi dalla preoccupazione per se medesimo. Questa condizione

compromette sia la condizione del suddito, incapace di obbedire e di osservare ciò che gli

viene ordinato dal suo signore; sia quella del signore, che non sarà in grado di “fare

giustizia ragionevolmente”. Egli commette in tal caso molte ingiustizie, per utilità

personale, o per “non dispiacere” ad altri, proprio perché non giudica secondo verità.

Il timore servile espone il signore all’ansia costante di “perdere il potere”. Questa smania lo

rende “incomportabile a se medesimo”, egli vive cioè sempre nella pena.

Il modo di fare politica di questi “timorosi governatori della città propria e della città

prestata”, viene paragonato a quello di Pilato.

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AREA TEMATICA n. 2: “Qualificazione del potere come servizio”

ESPRESSIONE CARATTERIZZANTE: “santo e vero timore di Dio”

“abbiamo bisogno … d’accostarci a Dio col santo timore suo, e a’ servi suoi, non levando

loro le carni con le molte mormorazioni e disordinati sospetti … cercando e adoperando

l’onore di Dio e la salute dell’anime … ”

“Egli è quello timore santo che si pone Dio dinanzi all’occhio suo; e innanzi elegge la

morte, che offendere Dio o il prossimo suo o che volesse fare una ingiustizia o una

giustizia che non la rivolga o vegga bene da ogni lato prima che la faccia”

“nutrica uno amore divino nell’anima”

COMMENTI

Il politico è responsabile del suo operato e sarà chiamato a darne conto non solo davanti

agli uomini. Se vuole operare per il bene comune e la giustizia, deve vivere l’autorità che

gli è concessa con “carità fraterna, pace e unità con Dio e col prossimo suo”.

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AREA TEMATICA n. 3: “Richiamo alla ragionevolezza e alla virtù dell’uomo di governo”

ESPRESSIONE CARATTERIZZANTE: “città propria”

“è la città dell’anima nostra”

“si possiede con santo timore fondato nella carità fraterna, pace ed unità con Dio e col

prossimo suo; con vere e reali virtù”

“non la possiede colui che vive in odio e rancore e in discordia, pieno d’amor proprio”

“Costui non signoreggia la sua città, ma esso è signoreggiato da’ vizi e da’ peccati”

“male possederà la cosa prestata, se in prima non governa e signoreggia se medesimo”

COMMENTI

Per Caterina la vera città non è quella di fuori, quella esterna, ma quella intima, interiore.

Solo l’anima è infatti imperitura, mentre tutte le realtà temporale sono inesorabilmente

destinate a concludersi nel tempo

Il governante non può agire per il bene del prossimo se prima non “signoreggia” se stesso

Chi vuole davvero lavorare per il bene della comunità deve possedere dentro di sé la

consapevolezza del vero bene

Governare significa non solo amministrare la giustizia, ma essere testimone dell’agire retto

e giusto

I valori morali costituiscono il fondamento di ogni valore politico

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AREA TEMATICA n. 4: “Ragionamento sulla città propria e la città prestata”

ESPRESSIONE CARATTERIZZANTE: “città, stato, signoria”

“Signoria prestata sono le signorie delle cittadi o altre signorie temporali”

“le signorie delle cittadi sono prestate a tempo”

“Colui che signoreggia sé, la possederà … con amore ordinato … come cosa prestata, e

non come cosa sua”

CITTA’ PROPRIA: “città dell’anima nostra”; “la sua città”; “lo stato spirituale”; “signoria

spirituale”; “signoria dell’anima propria”.

CITTA’ PRESTATA: “signoria prestata”; “signorie delle cittadi”; “altre signorie temporali”;

“cosa prestata”; “stato temporale”; “potestà temporale”.

COMMENTI

Il governo di sé viene qualificato con il ricorso al termine “signoria”, e l’effettivo esercizio di

tale capacità con il verbo “signoreggiare”

Gli stessi riferimenti si trovano nella L 28 “A Bernabò Visconti”, e nella L 235 “Al re di

Francia”

FASE C: DIBATTITO SUL TEMA DELLA CITTA’ PRESTATA

ATTIVITA’ DEL COORDINATORE

ATTIVITA’ DEI PARTECIPANTI

Sollecita l’avvio di un dibattito ponendo la

seguente domanda: “per quanto riuscite a

cogliere, vi sembra che l’attuale contesto

politico renda attuativi i principi individuati nel

testo della Lettera?”

Partecipano in modo propositivo al

dibattito, interagendo con il coordinatore e

fra loro

Tiene vivo il dibattito attraverso

un’interpretazione stimolante e di rinforzo

delle opinioni espresse

Esprimono le proprie posizioni avvalorando

o dissentendo da quelle espresse dai loro

colleghi

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RESOCONTO SUL DIBATTITO

Ha avuto una durata di circa 15–20 minuti, e nel corso di esso sono emerse le seguenti questioni:

come si possono tradurre nell’attualità politica gli insegnamenti di Caterina; quale modello

contrapporre a quello oggi predominante del politico come prodotto; su che basi il bene comune

può considerarsi vero bene comune; tra le tante proposte di riforma della Costituzione il maggiore

consenso dovrebbe indirizzarsi verso quella che promuove una “Repubblica fondata sulla persona”

(art. 1); il messaggio di Caterina all’uomo politico è universale, poiché ogni livello di relazione deriva

la sua bontà dalla capacità dell’uomo di ministrare se stesso.

FASE D: COMPILAZIONE DELLA SCHEDA DI LAVORO

ATTIVITA’ DEL COORDINATORE

ATTIVITA’ DEI PARTECIPANTI

Legge ad alta voce la traccia della Scheda di

Lavoro

Seguono la lettura del coordinatore

Spiega gli obiettivi della tipologia di lavoro

proposta

Intervengono per ottenere chiarimenti

Illustra i criteri di compilazione Chiedono spiegazioni più precise circa le

possibilità di espressione nella

compilazione di ciascuna delle quattro

colonne, ed in modo particolare per quella

relativa al nesso fra i temi della Lettera e i

problemi propri dell’attualità politica

RESOCONTO SULLA COMPILAZIONE

Per agevolare la compilazione, su suggerimento degli stessi partecipanti al Laboratorio, si è deciso di

evitare la pressione dei tempi stretti della sessione e di consentire lo svolgimento del lavoro a casa,

con consegna delle Schede, debitamente compilate, al successivo incontro. Nonostante l’anonimato

delle Schede, non tutti i partecipanti hanno provveduto alla riconsegna. Il materiale messo a

disposizione consente tuttavia di concludere per un bilancio positivo di questa prima esperienza di

Laboratorio. In particolare nell’esposizione della quarta colonna, in cui è stato chiesto ai partecipanti

di mettere in evidenza i problemi dell’attualità politica che, secondo loro, palesano una stretta

connessione con i temi affrontati nel Laboratorio, è stato osservato per esempio che: «il servilismo,

l’egoismo, l’egocentrismo, la mancanza di critica, il proprio tornaconto, la pavidità, l’essere forte con

i deboli e debole con i forti, sono temi attualissimi, che investono purtroppo quasi ogni ambito della

società che ci circonda».

"Lettera 123" in formato pdf "Scheda di lavoro" in formato pdf

Dott.ssa Rosita Casa Consigliera del CISC

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BIBLIOGRAFIA

Fonti Cateriniane

1. S. Caterina da Siena (2001). Il Dialogo della Divina Provvidenza. A cura di Tito Centi. Edizioni Cantagalli: Siena.

2. S. Caterina da Siena (1987). Le Lettere. A cura di Umberto Meattini. Edizioni Paoline: Milano.

Altre Fonti

1. Balducci A.M. (1971). Massime di reggimento civile di Santa Caterina da Siena. Edizioni Cateriniane: Roma.

2. Ciccardini B. (relazione del 29 febbraio 2012). Il perseguimento del “bene comune” e il coraggio dei politici. www.centrostudicateriniani.it/4/4conferenze.html.

3. Forlani A. (relazione del 7 marzo 2012). Coscienza cristiana e impegno politico. www.centrostudicateriniani.it/4/4conferenze.html. 4. Morra G. (1990). Caterina da Siena. La città prestata consigli ai politici. Città Nuova Editrice: Roma. 5. Pedà G. (relazione del 14 marzo 2012). La novità cristiana per una convivenza civile.

www.centrostudicateriniani.it/4/4conferenze.html.

1. Centro Internazionale di Studi Cateriniani (2012). Mercoledì Cateriniani 2012. Caterina da Siena. La Santa della Politica. Brochure di presentazione. Cfr. 2° di copertina.

2. «Quei tali sono dei veri operai che lavorano la loro anima, traendone fuori tutto l’amor proprio, rivoltando la terra del loro affetto per me. (…). Lavorando la loro, lavorano anche l’anima del prossimo, non potendo lavorare l’una senza l’altra; poiché più volte ti ho detto che tanto il male come il bene si fanno col mezzo del prossimo. (…). Tieni a mente che tutte le creature che hanno in sé ragione, hanno una vigna propria, la quale è unita senza tramezzo alcuno con quella del loro prossimo. Ed è sì grande questa unione, che nessuno può fare bene o male a sé, che non lo faccia pure al prossimo». Cfr. D 24, p. 69–70.

3. Centro Internazionale di Studi Cateriniani (2012). Mercoledì Cateriniani 2012. Caterina da Siena. La Santa della Politica. Brochure di presentazione. Cfr. 2° di copertina.

4. Cfr. D 148, p. 348. 5. Cfr. L 28 “A messer Bernabò Visconti, signore di Milano per certi ambasciatori da esso signore mandati a lei”. 6. «Non so che signoria possa essere quella che mi può esser tolta, e non sta nella mia libertà. Non mi pare che se ne debba

chiamare né tenere signore, ma più tosto dispensatore; (…)». Cfr. Ibidem. 7. Cfr. L 235 “Al re di Francia”. 8. Cfr. L 123 “Ai signori difensori della città di Siena”.

9. Cfr. L 333 “A frate Raimondo da Capua dell’ordine di santo Domenico”. 10. Cfr. L 242 “Ad Angelo da Ricasoli vescovo di Fiorenza”. 11. Morra G. (1990). Caterina da Siena. La città prestata. Consigli ai politici. Città Nuova Editrice: Roma. Cfr. p. 47. 12. Cfr. L 268 “Agli anziani e consoli e gonfalonieri di Bologna”. 13. Ciccardini B. (relazione del 29 febbraio 2012). Il perseguimento del “bene comune” e il coraggio dei politici. Cfr. par. 2. Il

“bene comune” come virtù sociale. E ancora: «Il potere è buono quando il suo esercizio è giusto e misericordioso ed adempie ai doveri di carità e di soccorso ai poveri. Il tutto in un ambito di virtù personali che non prevedono né diritti altrui, né regole. (…). Il bene comune non è soltanto il fine della legge promulgata con saggezza dal re, ma è l’amore per gli altri che vince

sull’egoismo e su “l’amore di sé”. Non è una virtù del re, ma una virtù sociale». Cfr. par. 5.Caterina ed il giusto coraggio civile: «Caterina, (…), invoca un comportamento coraggioso, virile in coloro che devono prendere le decisioni. E’ il ben fare di chi opera per amore di Dio e confida nel suo aiuto».

14. Forlani A. (relazione del 7 marzo 2012). Coscienza cristiana e impegno politico. E ancora: «Lo Stato e qualsiasi governo devono ordinarsi in modo da agevolare il libero sviluppo esterno e interiore della persona. il bene comune si armonizza con il fine stesso dell’uomo per aiutarlo a santificarsi e a raggiungere la patria celeste cui è destinato. (…) gli uomini (…) dovranno riappropriarsi degli appelli di Caterina, riscoprire lo spirito di servizio e di carità, la priorità del bene comune e il distacco dalla mera esigenza di gratificazione personale, la moralità e sobrietà dei comportamenti, la concezione delle cariche come

mero strumento di realizzazione dell’interesse generale, da abbandonare poi senza rimpianti quando non si rivelino più utili a tale scopo e, infine, quel “cognoscimento” di sé che consenta un rapporto equilibrato con il potere inteso come strumento di bene e non come fine a se stesso e la capacità di giudizio a fronte delle prove difficili che rendono “vischioso” il cammino dell’uomo politico».

15. Pedà G. (relazione del 14 marzo 2012). La novità cristiana per una convivenza civile. 16. Cfr. L 367 “A’ magnifici signori difensori del popolo e comune di Siena”. 17. Cfr. L 123 “Ai signori difensori della città di Siena”. 18. Cfr. L 28 “A messer Bernabò Visconti, signore di Milano per certi ambasciatori da esso signore mandati a lei”.

19. Cfr. L 123. 20. Cfr. L 235 “Al re di Francia”. 21. Cfr. Ibidem. 22. Cfr. L 28. 23. Tratto da: S. Caterina da Siena (1987). Le Lettere. A cura di D. Umberto Meattini. Edizioni Paoline: Milano. 24. Cfr. p. 386. 25. Cfr. ibidem.

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CONFERENZA DEL 28 MARZO 2012

Eucaristia e città nel Dialogo

una dimensione della “città prestata”

Nell’introduzione al tema di oggi Eucaristia e città mi sono state chieste alcune indicazioni cateriniane in apertura. Sarò brevissima per non togliere spazio alla relazione del Prof. Luca Diotallevi che ci ha riunitii oggi qui nella “casa” di S. Caterina a Roma (è la casa dove ha abitato

Caterina ed è la casa dove il CISC la fa vivere col suo pensiero). Prendo le indicazioni di Caterina dal Dialogo della Divina Provvidenza o Libro della Divina Dottrina che ci ha consegnato come lettera, una confidenza e un testamento. Inizia come ogni sua lettera “Al nome di

Cristo Crocifisso e di Maria dolce” e si confida “levandosi un’anima ansietata di grandissimo desiderio verso l’onore di Dio e salute delle anime … e perché nella comunione

pare che l’anima più dolcemente si stringa fra sé e Dio e meglio conosca la sua verità … per questo le venne desiderio di giognere nella mattina per avere la messa; il

quale dì era il dì di Maria”.

Tutto il Dialogo tra il Padre e Caterina è centrato si può dire sul dono dell’Eucaristia.

Vi è nel libro una lettura unitaria dell’Eucaristia, della sua vita e della vita della Chiesa e del mondo intesi come luoghi di una stessa donazione. Il dono di Dio alla creatura che “ha in sé ragione” è la dote ricevuta venendo alla vita perché possa liberamente consentire allo stesso dono di vita e di una vita condivisa con Dio; questa è la verità

della creatura umana e il suo destino. Destino nel senso cateriniano di “destinata a … , voluta per …” entrare nella relazione con il suo Creatore e volersi come possibilità e capacità di donazione.

Caterina ci mostra Dio innamorato della bellezza e bontà di questa sua creatura che può condividere il suo operare e la sua signoria in sé e nel mondo perciò non l’abbandona a se stessa quando, esercitata la sua libertà in totale autonomia, si è allontanata nella regione della non-conoscenza di

sé e privata della comunione con Lui. Nel disegno di misericordia vi è la discesa di Dio all’uomo, il Verbo si fa carne e sangue come la sua

creatura umana e il Figlio di Dio è il ponte dal cielo alla terra che restaura la via a Dio; si fa nell’Eucaristia sole che dirada l’ignoranza e le tenebre, cibo e bevanda nella bottiga della Santa Chiesa, posto di ristoro, per noi pellegrini.

Non siamo viandanti solitari, Cristo Crocifisso – Ponte, via unica al Padre non costringe nessuno a “tenere per Lui” ma attira il cuore di ogni uomo mostrandogli nel suo sacrificio, lo splendore della

sua carità. Caterina nel Libro XXX ha un bellissimo inno all’amore di misericordia (pp. 68-69). Nell’Eucaristia ancora Egli comunica il suo ardore, sazia la fame dell’anima e la conforta ad elevarsi

di grado in grado per la via di Cristo-Ponte, la via dell’amore fino alla piena attuazione di sé nella perfetta unione con il Primo Amore.

Caterina chiede che la comunione eucaristica sia comunione con tutta la Chiesa e con tutta l’umanità (vedi anche Orazione IV). Nell’incontro con Cristo siamo trasformati in operatori di giustizia nella città dell’anima nostra e nella città degli uomini.

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Come la persona umana anche la società ha per legge l’amore e Dio dice a Caterina che per costringere l’uomo ad osservarla ha provveduto ad una ineguale distribuzione dei beni necessari alla

vita fisica e a quella dello spirito: non li ho posti tutti in uno acciocché abbiate materia, per forza, d’usare la carità l’uno con l’altro; ché bene potevo fare gli uomini dotati di ciò che bisognava, e per l’anima e per lo corpo, ma Io volli che l’uno avesse bisogno dell’altro e fossero miei ministri a

ministrare le grazie e i doni che hanno ricevuti da me: voglia l’uomo o no non può fare cheper forza non usi l’atto della carità (D. VII, 19)

L’amore, legge della società umana esige l’impegno responsabile di tutti i suoi membri (Giuliana Cavallini, Santa Caterina da Siena e la costruzione della casa comune europea, Lublino aprile 1991). Attenzione: il pane eucaristico, dice Caterina, sazia ogni affamato non chi non ha fame, così solo chi ha sete cerca la

fonte da cui dissetarsi che è per Caterina “il costato di Cristo aperto dalla lancia”, costato che rimaneaperto e vi può entrare come ebbe in una visione “il popolo fedele” e assieme

“il popolo infedele” (lettera 219) Il sangue di Cristo non solo è bevanda ma è calcina che

unisce l’uno all’altro, come mattone amattone, coloro che ne attingono e se ne lasciano inebriare sì da costruire il muretto che argina il ponte su cui siamo incamminati perché nessuno cada nella via di sotto (al ponte) che è via di egoismo, superbia, ecc.. di morte.

Il sangue è ancora la “chiave” che disserra la porta alla “vita durabile” nella stabilità dell’amore di unione con Dio e tutti i Beati nella Città Celeste.

Prof. Maria Gerarda Schiavone

Consigliera del CISC

Luca Diotallevi Università di Roma Tre

Vice Presidente del Comitato Scientifico Settimane Sociali dei Cattolici Italiani

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CONFERENZA DEL 18 APRILE 2012

S. Caterina e l’idea dell’Italia

Non c’è stato senza nazione

Abbiamo ormai alle nostre spalle il 2011, l’anno durante il quale si è celebrato nel nostro Paese

il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, o meglio “dell’unificazione politica” dell’Italia, che il 17 marzo

1861 – a detta di Vittorio Emanuele II, che ne era stato proclamato Re –diventava“libera e unita quasi tutta”: un evento senza alcun dubbio di enorme importanza,“perché politicamente divisi – così

il Presidente Napolitano aprendo i festeggiamenti –

saremmo stati spazzati via dalla storia”. Ma anche un evento, secondo il giudizio storico di molti, del tutto riducibile ad un fatto “geo-politico”, ad “una conquista

regia” e poco più, giusta l’estensione dei confini dello Stato sabaudo”. E ciò in quanto gli “unificatori”– mentre palesavano, quasi ostentavano i loro congeniti vizi ( il rigido

centralismo con la “piemontesizzazione dello Stato”; il malevolo pregiudizio nei confronti delle regioni meridionali, destinandole all’abbandono; l’ostilità verso la Chiesa ) – non hanno saputo, forse non hanno voluto, assumere – e

questo è il loro distintivo peccato originale che è ragione degli altri – l’idea e il sentimento dell’identità nazionale : per farla diventare “coscienza di nazione”, mediante un serio

disegno statuale socialmente motivato, culturalmente aggregante e democraticamente organizzato. Eppure, senza far leva su questa “identità”, sui suoi valori intrinseci, non è possibile edificare un vero Stato: sino al punto di poter dire, come da non pochi è stato detto, che, se può darsi “una

Nazione senza o con poco Stato” – come nel caso, o quasi, del nostro Paese -, non può esistere invece “uno Sato senza Nazione “. Perché di uno Stato, della organizzazione del suo potere politico-statuale, la Nazione è l’“imprescindibile fondamento naturale”. Di uno Stato, insomma, la Nazione –

e non il nazionalismo ! - è, sul piano valoriale, la realtà assolutamente costitutiva: in quanto essa - per darne soltanto una sommaria definizione – è “il complesso delle persone le quali, pur nella pluralità e diversità delle espressioni, hanno naturale comunanza di origini, di lingua, di cultura e di

arte, di storia, di tradizioni, di costumi, ma soprattutto di valori etici e spirituali, e di religione, insomma di civiltà; e che di tali legami, di tale sostanziale affinità, avvertono il sentimento che li spinge ad una concreta solidarietà e ad affrontare un comune destino. Mentre qualcosa può ben

dire anche il risiedere tutti, pur se in differenti realtà politiche, all’interno di una terra geograficamente circoscritta quale la nostra: quella che “Appennin parte,/ e il mar circonda e l’Alpe… “.

Non è difficile ritenere che questo “sentire”, questo “sentirsi cresciuti in forza di medesime

profonde radici – pur se sullo stesso ceppo si sono sviluppati nel tempo rami e fronde diverse su cui

ha attecchito anche il vizio della chiusura e dell’egoismo localistici – abbia alimentato, nel corso dei secoli, e più decisamente a partire dal ‘300, la coscienza popolare delle “genti italiane”: costituendole a priori - ben oltre la un po’ retorica rappresentazione manzoniana dell’Italia “ una d’arme, di lingua, d’altare, / di memoria, di sangue, di cor” - come un unico “popolo di popoli”. E’ difficile, insomma, non convenire con Benedetto XVI che, all’inizio delle celebrazioni per l’Unità, ha affermato che essa “è stata fatta non come un’artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di un’identità nazionale che sussisteva da molto tempo”. Ma dovrebbe

essere anche difficile, nel prendere atto di questo processo, ignorare, o voler misconoscere, o addirittura marchiare di valenze negative, il contributo che, alla promozione della “coscienza nazionale” e dello stesso “pensiero politico nazionale”, ha dato “il sentimento religioso”. Per dover

rilevare che, se questa “coscienza” e questo “pensiero politico” nazionali non sono oggi pienamente

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raggiunti , anzi si vanno assai degradando , è perché - siamo d’accordo con Tommaseo -, “tra noi” a prevalere “è la continua tentazione di dividersi, se non si affermano e si promuovono i valori comuni, a cominciare da quelli religiosi”.

I Santi – e i Patroni d’Italia in particolare -

per l’identità unitaria del Paese Invece, si è dovuto costatare che il riconoscimento del valore di questo sentimento, anche in

questa occasione, non ha trovato alcuna eco nella comune informazione e nella pubblica opinione. E, così, tanto meno poteva trovare accoglienza la sottolineatura del Card. Bagnasco - al X Forum del Progetto culturale per il 150° dell’Unità d’Italia - circa l’apporto che alla “formazione e all’accrescimento dell’identità unitaria del nostro Paese” è venuto “dal cristianesimo, dall’opera della Chiesa con le sue istituzioni, e dalle esperienze di santità”: insomma dalle “innumerevoli figure - e, in prima fila tra esse, quella di S. Francesco d’Assisi e di S. Caterina da Siena, Patroni

d’Italia -, che hanno dato, con la loro saggezza, un incisivo contributo alla crescita religiosa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra Penisola”. E, anche da un punto di vista laico, “le verità spirituali e psicologiche di cui sono portatori i Santi – osserva non un teologo ma uno psico-

terapeuta, Robert H. Hokpe nel suo libro “La saggezza dei Santi”– mi danno la convinzione che essi contribuiscono ad aumentare la nostra consapevolezza, troppo spesso languida, di cosa significhi appartenere all’umanità, e sentirsi uniti e in pace. Perché, allora, la nostra vita diventa più completa e più piena!”.

Già, la coscienza più profonda di appartenere alla comunità degli uomini, a cominciare da

quella dei più prossimi, e il sentimento dell’unità e della pace, in noi e tra noi. Nel Signore! Questa è la speciale testimonianza dei santi. E S. Caterina da Siena ne è stata, ne è tutt’oggi, specialissima portatrice, messaggera! Pregando, operando, soffrendo. Offrendo se stessa con tutta se stessa. E

riversando la sua profezia, “le sue divine ispirazioni in una straordinaria operosità apostolica, sino a raggiungere una mirabile sintesi tra contemplazione e azione” : così Giovanni Paolo II nel Motu Proprio per la proclamazione di S. Caterina da Siena, S. Brigida di Svezia e S. Teresa Benedetta della Croce- Edith Stein – a Compatrone d’Europa.

E’ proprio nel riconoscimento di questi carismi, riversati in particolare sull’Italia, che Caterina ,

insieme a Francesco d’Assisi, era stata proclamata da Pio XII – nel drammatico momento che

preludeva alla 2.a Guerra mondiale, il 19 luglio del 1939 - Patrona d’Italia : “perché la fortissima e piissima vergine valse efficacemente a ricondurre e stabilire la concordia agli animi delle città e contrade della sua Patria e che mossa da continuo amore, con suggerimenti e preghiere, fece tornare alla sede di Pietro in Roma i romani Pontefici che quasi in esilio vivevano in Francia, tanto da essere considerata a buon diritto il decoro e la difesa della Patria e della Religione”.

L’Italia e l’Europa ai tempi di Caterina A questo punto possiamo domandarci: “Quale conoscenza, quale “coscienza” ha Caterina di

questa patria? Che idea può arrivare a farsi dell’Italia in base alle opinioni e alle informazioni che corrono mentre lei cresce nella casa paterna facendo vita ascetica e pregando di diventare Mantellata ?”. Ma quando, a 16 anni, ottiene di indossare l’abito delle Sorelle di penitenza di San

Domenico – pur amando il nascondimento – comincia a vivere dentro il “circuito” della comunicazione e della cultura domenicana ( più tardi, il suo confessore, poi suo biografo, sarà Raimondo da Capua, che conosce bene il mondo) e i discepoli che le saranno via via vicini , come

ad una “mamma”, e i suoi “estimatori, come l’agostiniano Guglielmo Fleete, sono tutti molto colti e informati. Le stesse “gentili Signore” delle importanti famiglie senesi – come i Salimbeni – che amano conversare con lei cercando la sua saggezza, “fanno da gazzetta”. Così, a Caterina non

possono di certo mancare le notizie riguardanti - in quel declinante autunno medioevale - la situazione e gli avvenimenti delle terre e delle genti italiane. E anche di ciò che succede in Europa, la quale – per limitarsi agli accadimenti più importanti - è sconvolta dai conflitti per la sete

insaziabile di dominio : dal 1337 infuria la guerra , che diventerà dei Cent’anni, tra i francesi e gli inglesi, per il possesso del trono di Francia, mentre il Re d’Ungaria, Luigi I il Grande ( cui la Santa invierà una lettera e una alla regina madre ) , è teso ad espandere la sua signoria sino alla Polonia

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di cui diventerà re nel 1370; mentre si fa sempre più accesa la competizione tra i regnanti e signori delle città e la Chiesa in ordine al “potere temporale”; e mentre tutto il continente soffre un’estrema

miseria sulla quale infierisce più volte la peste. + Perciò Caterina non ignora certo che la penisola italiana – quasi l’emblematico “luogo” dei

“troni”, dei “principati”, delle “potenze” e delle “dominazioni” - è spezzettata in innumerevoli possedimenti e domini : che le terre del sud sono divise tra gli Aragonesi di Spagna in Sicilia e gli Angioini nel Regno di Napoli, con Roberto e poi con Carlo duca di Calabria, e dopo con la dissoluta

nipote di quest’ultimo Giovanna che, succedendogli, e sposandosi da vedova 4 volte, affretterà da despota la decadenza del regno, per finire strangolata ( e la mantellata le invierà 7 lettere, per esortarla invano a sostenere la Crociata e a non aderire allo scisma ). E sa che nelle altre terre

italiane, al di là di quelle possedute dalla Chiesa, è definitivamente tramontata la stagione dei liberi comuni, sotto il prepotere dei Principati e delle Signorie ( I Visconti, con il famigerato crudele Barnabò, a Milano, gli Scaligeri a Verona, i Gonzaga a Mantova, gli Estensi a Ferrara ) che

s’impongono come stati regionali; mentre, accanto a Genova e Venezia, si formano alcune altre repubbliche, e solo poche città indipendenti sopravvivono.

+ Caterina sa anche che le città sono in perenne conflitto tra loro ( come quello tra Siena e Firenze, che aveva portato, nel 1260, alla battaglia di Montaperti, vinta dai senesi , a costo de “il grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso” – Inf. X,85 ). E che sono anche dilaniate da trame

e lotte intestine – tra famiglie e fazioni, guelfi e ghibellini, opposte corporazioni –, mentre quel che resta è tiranneggiato dagli eterni signori feudali e dagli stessi governi popolari, alla Cola di Rienzo. Mentre- “feroce contorno” - le Compagnie di ventura spadroneggiano ovunque.

+ Caterina, soprattutto, può partecipare della comune opinione chel’Italia è così divisa,

lacerata dalle prepotenze e ammorbata dai vizi, anche perché è senza una guida politica: le

speranze del ritorno di un’autorità imperiale – invocata da molti, pur se l’idea di un grande Stato italiano era ormai invisa dalla maggior parte dei vari “reggitori”,“tutti cupidissmi dei loro poteri e l’un dell’altro aspramente gelosi” – stanno cadendo: Arrigo VII di Lussemburgo - …l’alto Arrigo, ch’a drizzar Italia /verrà in prima ch’ella sia disposta”( Par. XXX, 137 ) - era morto a Buonconvento

presso Siena, nel 1313, quando si era già cinto della Corona di ferro a Milano e di quella imperiale a Roma, ma senza essere riuscito, anche per essersi schierato con i ghibellini, a portare la pace tra le fazioni, ed essendosi inimicato il Papa Clemente V e il re di Napoli; e anche il tentativo di Ludovico il

Moro, il Bavaro, incoronato a Roma nel 1328, era fallito. E così il Paese deve rinunciare a tornar ad essere “il giardin dell’Impero “!

La “serva Italia di dolore ostello” e la triste condizione della Chiesa

In proposito è piuttosto facile che siano sulla bocca di molti e circolino tra la gente le storie della “Cronica” che Dino Compagni aveva scritto proprio in occasione della discesa di Arrigo VII ( l’aveva addirittura definito “ l’agnol di Dio” che doveva abbattere i tiranni ), raccontando lo

scandaloso divario tra la realtà politica e i tradizionali ideali etico-religiosi del Paese. E, non è difficile udir ripetere le dolenti “rime” di Dante ( che è commentato persino in Chiesa, a Firenze addirittura da un domenicano, ricorda Tommaseo, ) e di Petrarca, e sentir evocare i loro vibranti messaggi

civili e politici e i loro auspici per un Paese unito, in pace, guidato da una vera autorità. Avendo i due poeti al centro del loro sogno la ricostruzione di un mondo di cui Roma diventi capitale, con il “populus romanus”, vero monarca, a designare tutti gli italiani, e il Papa a tutelarlo,

“reinsediato”nella sua legittima sede petrina. + Così, anche Caterina sentirà ridire gli accorati versi danteschi sulla “serva Italia di dolore

ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie ma bordello” ( Purg. VI, 76 ): con le contrade che “tutte piene/ son di tiranni, e un Marcel diventa /ogni villan che patteggiando viene”( Purg. VI, 126 ).

+ E udrà rammentare le addolorate rime petrarchesche:“Italia mia benché il parlar sia indarno/ a le piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sì spesso veggio,/ Piacemi almen che i miei sospir sian quali/ spera ‘l Tevere e l’Arno “ ( Canz. CXXVIII )? E richiamare i sospiri dell’aretino per

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l’Italia dalle belle contrade dove “nulla pietà par vi stringa”, dove ci si domanda : “che fan qui tante pellegrine spade?”, e perché “verde terreno/ del barbarico sangue si dipinga?”, pur se :”Ben provide natura al nostro stato,/ quando de l’Alpi schermo/ pose tra noi e la tedesca rabbia”.

Del resto, a Siena – frequentata da tanti letterati e illustri maestri d’arte ( e basterà citare

Ambrogio Lorenzetti che, quando Caterina nasce, già da 7 anni aveva dipinto, c’è da dire celebrato, nelle sale del Palazzo comunale “Il Buon Governo” ) – le notizie arrivano continuamente e rapide, attraverso la stessa rete dei commerci che animano la

città, l’interscambio artigianale, la continua itineranza dei pellegrini provenienti dalle più diverse terre che transitano verso e da Roma. E le idee e le opinioni

circolano arricchite dalla fervida narrazione popolare. Mentre non è sicuramente difficile sentir citare dai più colti i versi sul Bel Paese dei poeti minori di quegli

anni: come Fazio degli Uberti, con la erudizione geografica del suo Dittamondo: “L’Italia è tratta in forma d’una fronda/ di quercia, lunga e stretta , e da una parte/ la chiude il mar e percuote con l’onda” ; come il senese Bindo di Cione Del Frate, che - mentre la sua canzone cerca “il talian giardino/ chiuso da’ monti e dal suo proprio mare,/ e più in là non passare” – invoca per l’Italia ( che vede “guastare con gli italiani addormentati” ) un’autorità imperiale che metta fine ai conflitti e “meni il Papa a casa sua”, a Roma; come il concittadino

Simone Sardini, detto il Saviozzo , che chiama l’Italia “la dolce vedovella dell’Imperatore”; come l’altro senese Neri di Landoccio Pagliaresi, scrittore assai colto e personaggio pubblico, che sapeva bene di politica, divenuto poi prezioso discepolo della Santa ( uno dei tre che scriverà sotto la sua

dettatura il Dialogo ), alla quale - “fatta mamma da la divina pace”- dedicherà in morte una lauda ( “Istoria di S. Eufrosina ) per “la sposa che su al ciel è ritornata al verace sposo”.

+ Caterina, insomma, è informata certamente sulla triste condizione dell’Italia. E anche su

quella dolorosa della Chiesa – con il Pontefice da molti anni ( dal 1306 ) in esilio in Francia, ad Avignone, e sempre più succube di quel regno –, mentre sta montando il dissidio tra il Papato e le città che sono nei suoi domini, specialmente in Romagna, e la corruzione è dilagante. E la

mantellata – che già all’età di 6 anni è stata rapita dalla visione, sopra il tetto della basilica di S. Domenico, del Cristo-pontefice che le ha sorriso benedicendola – va sicuramente maturando la convinzione che la Chiesa di Cristo, “per essere fedele al suo Sposo”, debbaessere profondamente

riformata. E ciò vanno affermando le coscienze più profetiche. Come Brigida di Svezia, che ormai da tempo – essa era arrivata a Roma quando Caterina aveva 2 anni - è fortemente impegnata – sono in molti a saperlo - nella missione per il ritorno del Papa a Roma e per la riforma dei costumi

ecclesiali. + Ma Caterina – essendo la fama della santità di S. Francesco diffusa ovunque - sente

sicuramente ricantare da quelli che gli sono più vicini “ il laudato siimi, mi’ Signore” , il “Cantico delle Creature” e della “perfetta letizia” nella povertà e nella sofferenza, in cui il poverello d’Assisi ha trovato la gioia di “seguire nudo il Cristo nudo”, e la forza di annunciare la fraternità. E tra i

Domenicani è risaputo che, mettendo insieme Francesco – con la povertà - e Domenico – con la scienza –, Dante aveva poetato ( Par. XII ) che essi sono le due colonne della Chiesa, dediti a “mantener la barca/di Pietro in alto mar per dritto segno”. Con Domenico, il quale “fu detto: e io ne parlo / sì come dell’agricola che Cristo / elesse all’orto suo per aiutarlo”. Sino a manifestarsi come “messo e famigliar di Cisto”.

+ E a Caterina di sicuro non può mancare neanche la conoscenza delle idee che circolano

circa il problema sempre più spinoso, ben presente in Dante, della “divisione dei poteri” ( Purg. XVI): “Soleva Roma che ‘l buon mondo feo / due soli aver che l’una e l’altra strada / facean veder e del mondo e di Deo” . Ma ora, essendo per disgrazia che “l’uno e l’altro ha spento” ed è giunta “la spada col pastorale”, bisogna rimediare : con “l’Impero tornato grande da una parte ( così nel De Monarchia ) “e il Papato, purificato del suo potere temporale, dall’altra”.

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Però non tutto reca “sofferenza”: tra i senesi non fa certo difetto l’interesse per le bellezze

dell’arte di cui Siena e la Toscana, ma tutte le terre italiane sono ricolme, acquistandone fama crescente: sì che ogni cosa, compresa la splendida natura ( che – “per amore, per noi ordinata dall’Eterno Padre –così nel Dialogo ), “è un sorriso di Dio”.

Caterina nel mondo: le sue “petizioni” politiche

Dunque, la giovane mantellata, povera popolana illetterata – in una realtà pervicacemente

ostile alla donna, disprezzata dal mondo dei maschi, per i quali l’onestà femminile consiste nel non

trattare con essi, considerata dalla Chiesa un soggetto appena “discens” e mai “docens”, esclusa da qualsiasi spazio pubblico e, cioè, da ogni possibilità di conoscenza e di azione – avendo l’opportunità di ascoltare tutte queste “cose”, discernerle e meditarle, comincia a farsi un’idea non astratta del

Paese, della sua situazione, dei gravissimi mali che l’affliggono e così strettamente legati con quelli che opprimono, “”infradiciandola”, la Chiesa . Ma Caterina non si forma quell’idea semplicemente grazie all’ informazione: perché è illuminata dalla divina ispirazione – da cui lei è guidata sin da

bambina – e dal discernimento dell’amore – di cui il Signore , diventando il suo mistico Sposo e scambiando il suo cuore con quello di lei, la ricolma. E’ un’idea che – crescendo in lei “il cognoscimento di Dio in sé “ e “il cognoscimento di sé in Dio “- diventa “partecipazione”,“dono

totale di sé”( il paolino “culto spirituale”, con “l’offerta del corpo in sacrificio vivente gradito a Dio”) : quando la vergine ( è il 1367, e lei ha 20 anni ) - comandandole il suo mistico Sposo di uscire dal “nascondimento della sua cella interiore” e da quella conventuale, affinché essa “coniughi l’amore di Dio con la carità verso i fratelli e si compia il lei ogni giustizia” –, entrerà con coraggio, “emancipata” dal suo Signore che mai l’abbandonerà, in mezzo al mondo, per andare di città in città, tra la moltitudine della gente. Perché è qui che “si deve fare gli “ortolani” : nella “vigna del prossimo nostro”- dove “cresce l’arbore della perfettissima carità” e “si coltiva la salvezza dei fratelli” -; e nella “vigna della Santa Chiesa”, in cui tutti siamo chiamati ;mentre si deve attendere alla “ vigna propria dell’anima nostra”: la quale, senza le altre due vigne , inaridirebbe .

Potremmo dire che mentre Dante e Petrarca “hanno deprecato”, lei prega – vivendo anche

diverse mistiche esperienze – e opera,appassionatamente: avendo fiducia nella misericordia del Signore, si fa essa stessa misericordia e soccorso ai bisognosi ( poveri, infermi, lebbrosi, appestati,

ossessi, carcerati, condannati a morte ). Così vivrà direttamente la tragedia della grande epidemia di peste bubbonica, il cui primo flagello si era abbattuto sull’Europa quando la santa aveva appena un anno di vita ( ed erano morti quasi 2/3 dei cittadini senesi e, tra essi, assistendo gli ammalati, il

Santo Bernardo Tolomei ), mentre “l ‘allegra brigata – di cui al “Decameron” di Boccaccio – si rifugiava a “novellare” in una ridente villa della campagna fiesolana. La mantellata, durante l’epidemia del 1374, per tutta l’estate assisterà con amore gli appestati, tra le cui vittime dovrà

contare molti suoi familiari. E conoscerà da vicino le enormi piaghe sociali, spirituali, che la “morte nera”, con lo sterminio di più di 20 milioni di europei, porterà con sé: accrescendo la recessione economica, le carestie, la disumana miseria delle popolazioni, la quale non mancherà, peraltro, di

provocare rivolte contro il popolo “grasso” da parte del popolo “minuto” – contadini, manovali, salariati – ( come la Jacquerie, già dal 1358, in Francia, e il tumulto dei “Ciompi”, nel 1378, a Firenze, quando Caterina, lì in missione di pace, rischierà la vita ).

Ma la Santa è madre e sorella di tutti quelli che hanno bisogno – con la vicinanza, il

consiglio, l’esortazione, l’ammonimento, la preghiera – di carità spirituale, morale, intellettuale ( che

è quella, alla fine – possiamo dire con Rosmini -, che “tende ad un bene più grande e più vero” ). La Santa diventa così incomparabile benefattrice, salvatrice di anime, instancabile ambasciatrice di amore e di verità, di riconciliazione, di giustizia e di pace tra la gente, dentro la Chiesa, nel campo

dei rapporti umani e dei problemi sociali e politici della realtà italiana; e madre spirituale, sagace maestra e consigliera. E sempre con “ piglio sicuro e parole ardenti”, che lei - con una lingua talvolta amorosamente aspra, o arditamente semplice da sembrare tolta dai Cantici di S. Francesco, ma

sempre dolcemente espressiva al pari della pittura senese, e che ha dato un grande contributo alla crescita dell’idioma italiano – è capace di “significare” “al modo che le ditta dentro” . Affidandosi allo

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Spirito. Al quale lei chiede, appassionata – avendo da Cristo preso il sigillo delle stimmate -, “carità con timore” e l’”amorosa fiamma” “sì che “ogni pena” le paia “leggiera”.

Meditate in quella “abbondante luce di verità”, tutte le “cose”si sostanziano nella Santa in

un’ idea fattiva, che concepisce una “missione di salvezza”, per il servizio ai fratelli, alla “città degli

uomini”, alla santa Chiesa: attraverso un puntuale progetto per il raggiungimento di alcuni obiettivi concreti, strettamente interdipendenti, che diventano – come è noto – quelle sue speciali petizioni che possiamo definire “politiche”:

+ la “reformazione della santa Chiesa : una profonda riforma morale e spirituale, non già

nella sua “ricchezza interiore”, ma nei membri del clero, i quali sono “demoni incarnati”- piangerà

più volte la Santa – “spine nel suo corpo”, “piante fradice” nel suo giardino, radicate in perversi vizi”,”pieni di immondizia e cupidità, immersi nell’impurità, nella lussuria sacrilega, nelle ingiustizie, nella simonia, nel nepotismo” ( sembra di sentire Dante, quando - nel Par. XXVII, 55 – dice: “In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua su per tutti i paschi : /o difesa di Dio, perché pur giaci?”) ; e bisogna allora sostituire tutto questo “fradiciume” con “fiori odorosi”, con “buoni e virtuosi pastori e governatori”. E la riforma esige ormai il superamento del potere temporale:

perché “meglio è lassar andare l’oro delle cose temporali, che l’oro delle spirituali”, essendo che “ il tesoro della Chiesa è il sangue di Cristo dato in prezzo per l’anima”, che “non è pagato per la sostanzia temporale, ma per la salute dell’umana generazione” ( L. 171 e L. 209, a Gregorio XI ) ( e

qui, ancora una volta, riecheggia Dante – Par. XXVII, 40 -:” Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere d’acquisto d’oro usata”. ). E si tratta di una riforma che richiede, quale condizione primaria, il ritorno del Papa a Roma ( e la missione della Santa ad

Avignone sarà provvidenzialmente determinante al riguardo ); una riforma che è anche condizione perriconciliare il Papato con le genti italiane;

+ la pacificazione dell’Italia, così funestata dalle guerre, dilaniata dalla “maladetta divisione”, e oppressa dalle prepotenze e dalle ingiustizie, sopraffatta dalla cupidigia dei potenti e dal “malgoverno” ; e con la violenza che sta diventando sempre più crudelmente insidiosa, là dove a quella comune della spada si aggiunge quella del denaro, degli interessi bancari e delle speculazioni

commerciali senza scrupoli; una pacificazione che ha bisogno, perciò, soprattutto , della riforma della città, del ritorno del governo degli uomini alle virtù cristiane, affinché la politica guardi al suo vero fine – “il bene comune universale” - e diventi ”un vero servizio al servizio di Dio”;

+ la crociata : una “petizione” questa che non ha certamente in sé, come sigillo, il desiderio

della guerra e tanto meno di dominio, volendo invece cogliere una duplice occasione

provvidenziale: “dare il condimento della fede agli infedeli”, “che non sono cani rognosi e ringhiosi, ma uomini”, e così unire nella stessa fede l’un popolo e l’altro” e portare ad essi “la croce in collo e l’ulivo in mano ( L. 206 e L. 218 A Gregorio XI ); e , ad un tempo, distogliere gli stati europei (e anche i Signori d’Italia ) dalla perenne guerra tra loro per spingerli verso una causa più alta e meritevole.Mentre alla Chiesa si presenta contestualmente l’opportunità di riaffermare la sua assai indebolita autorità sovrannazionale e “ricomporre l’equilibrio della cristianità” . Ma il progetto di

Gregorio XI (già con la prima bolla del 1371 ) cade alla morte del Pontefice, mentre è in corso il tentativo di dargli il via al congresso di Sarzana. Ormai, dopo 7 “guerre sante” ( la prima risaliva ai primi dell’anno 1000 e l’ultima, la VII , al 1270 ) il fervore per il”santo passaggio”si è quasi spento e,

dagli stessi domenicani – in questo caso in accordo con i francescani – viene predicato un apostolato pacifico. E, a quel punto, c’è semmai da difendersi dalle nuove invasioni dei musulmani che già si avvicinano minacciosi, essendo essi ormai saldi ad Adrianopoli ed avendo fatto di Gallipoli una testa

di ponte per la conquista della Balcania . L’unione nella carità e nella pace:

l’Italia e l’idea universale di salvezza E’ dentro a queste petizioni che Caterina nutre l’idea dell’Italia: non un’idea che cova

grandi sogni politici, neanche un’idea andante, come da inconsapevole patriottismo popolare, mossa cioè semplicemente dal generico sentimento dell’italianità, ma un’idea “alta”, guidata dalla fede e dalla ragione, dalla forza delle “potenze dell’anima”, nutrita dall’idea universale di salvezza,

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che concepisce la società come un’unione di tutte le creature ragionevoli, affratellate dal legame della carità e, per questo, destinate a rivestirsi di una nuova dignità .

Anzi, è molto più di un’idea: è “un ansietato desiderio” di amore, di carità sociale, che assume la forza di un obiettivo per cui spendersi.

Caterina ama tutti i fratelli i quali, in quanto tali, devono stare insieme: perché “ogni uomo è fatto per stare insieme agli altri uomini per poter esercitare meglio la carità ed essere costretto” a praticarla “ a causa del proprio bisogno”, dovendo – non essendogli stato concesso “di saper fare tutto” – “ricorrere all’altro” ( Dial. VII ). Ma la Santa non può non amare con affetto particolare i fratelli più prossimi: ama i senesi ai quali scrive :”Io vi amo più che vi amiate voi!”; ama i toscani; e ama tutti gli altri fratelli della penisola, i quali, per lei, sono semplicemente italiani. E lei li ama

profondamente, sentendoli “fatti deboli per divisione” ; e li sprona: “Amatevi, amatevi insieme: chè se tra voi vi fate male, niuno sarà che vi faccia bene” .

Li ama, e li desidera in pace, perché, come lei dice spesso, “ama lo stato pacifico”! Ed è

sempre pronta a “portare l’ulivo” in mezzo ad essi, a cominciare dalle terre di Toscana. “ Sono stata a Pisa e Lucca – scrive accorata la Santa a Gregorio XI ( L.185 ) – infino a qui

invitandoli quanto posso che la lega non faccino con membri putridi, che son ribelli a voi”. E’ angosciata, infatti, per la guerra ormai in atto della Lega antipapale, di cui Firenze è

capofila, contro il Papa: E la grave ingiustizia di certi legati pontifici nei confronti delle popolazioni

colpite dalla carestia provocheranno nel 1337 numerose ribellioni, con dure repressioni, tra cui quella sanguinosa di Cesena, ad opera dei Bretoni del Card. Roberto di Ginevra il quale, pur tanto …inclemente, diventerà l’antipapa “Clemente” VII.

Così Caterina si appella con forza a chi ha il potere per promuovere la pacificazione . “E non dubito – scrive ancora a Gregorio XI ( L.285 ) – che facendosi questa pace , sarà

pacificata tutta l’Italia, l’uno con l’altro. Oh, quanto sarà beata l’anima mia, ch’io vegga per mezzo della santitate e benignitate vostra legati l’uno con l’altro per unione d’amore… Avanzi la benignità, Padre,: ché sapete che ogni creatura che ha in sé ragione, è più presa con amore e benignità che con altro; e specialmente con questi nostri italiani di qua ( cioè i senesi, di cui

doveva ricevere un’ambasceria ): “i quali, se gente è al mondo che si possono pigliare con amore, sono essi !”. Dunque, come osserva Tommaseo, “dalla pace de’ singoli Caterina fa riuscire la pace dell’intera nazione. Non Siena, non Toscana, non Roma, ella abbraccia nel suo pensiero; si sente cittadina d’Italia!”.

E alla pace e all’unione nella carità e nella verità, Caterina chiama il Card. di Ostia, Pietro

d’Estaing, Legato pontificio in Italia, Vicario di Gregorio XI e Camerlengo di S. Pietro. La Santa conosce bene il prelato, essendo stata peraltro da lui assecondata nella sua missione provvidenziale per il ritorno del Papa a Roma, e lo esorta a portare a buon fine le trattative per la pace ( è il 1374

e la contesa per le terre romagnole è già aspra ). Con il desiderio di vederlo legato nel legame della carità”, per attendere “solo all’amore di Dio e alla salute del prossimo suo”, gli scrive ( L. 11 ): “… Voi siete posto ora nel temporale e nello spirituale; e vi prego per l’amore di Cristo crocifisso che facciate virilmente; e procuriate l’onore di Dio, quando e quanto potete, consigliando e aiutando che li vizi siano spersi, e le virtù siano esaltate. Sopra l’atto temporale, il quale alla santa intenzione è spirituale, fate virilmente: procacciando quanto potete la pace e l’unione del Paese. E per questa santa operazione, se bisognasse di dare la vita del corpo, mille e mille volte, se fusse possibile, si dia…”.

E medesime esortazioni - avvertendo tutta l’importanza delle sorti di quella pace sia sul piano religioso- ecclesiale, sia su quello politico -, Caterina aveva rivolto all’aragonese Card. Pietro di Luna. Elettore di Urbano VI, questo prelato rimarrà fedele al Pontefice sino alla secessione di Fondi,

quando passerà con l’anti Papa Clemente VII, che lo nominerà Legato della S. Sede in Portogallo, per diventare poi l’anti Papa Benedetto XIII . La Santa gli scrive per invitarlo ad “innamorarsi della verità” e a “suonarla all’orecchio di Cristo in terra“ ( il Papa ), sicchè in essa verità riformi la sposa sua”,provvedendo con “santi e buoni pastori”. …Voglia dunque, per amore di Cristo crocifisso, con la speranza e con la dolcezza di barbicare ‘e vizi e piantare le virtù, giusta al suo potere. E piacciagli di pacificare l’Italia… E pregatelo che non lassi passare le colpe impunite, specialmente

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di coloro che sono contaminatori della fede santa per amore proprio di loro”. E gli aveva scritto anche ( L. 293 ) per scongiuralo di pregare “ Cristo in terra e gli altri, che tosto si faccia questa pace “.

E poi nella lettera ( la 370 ) a Urbano VI – a volte troppo aspro ( tanto che lei gli aveva

mandato in dono cinque arance forti addolcite con miele ) - richiama il Pontefice, che doveva ricevere la delegazione dei Signori Banderesi di Roma, ad “essere tutto virile, con un timore santo di Dio, tutto esemplario nelle parole, nei costumi e in tutte le operazioni”, ponendogli alla coscienza “la ruina che venne in tutta Italia per non provvedere alli cattivi Rettori, che governavano per sì fatto modo, che essi sono stati cagione d’aver spogliato la Chiesa di Dio”.

L’unione e la pace del Paese nella “vera e santa giustizia”

E’ evidente che, per Caterina, la pace e l’unione del Paese – che sono per lei, alla fine, la sostanza del “bene comune” - dipendono dal “buon governo”, da una politica, a tutti i livelli, temporale ed ecclesiale, fondata sulla “vera e santa giustizia”: la quale “non attende al suo bene proprio, ma al bene universale di tutta la città ( L.377 Ai Signori di Firenze ); e che, dunque, è “la base del trono” di ogni governante. E che è tale se “è sopra di sé”, perché “colui che non la tiene sopra di sé, non può con buona faccia farla sopra gli altri“; e se “è accompagnata dalla misericordia, altrimenti sarebbe piuttosto ingiustizia che giustizia“ ( L 135 A Pietro Marchese del Monte).

La dottrina di Caterina non è un “trattato” e non impartisce indirizzi di governo, e tanto meno

distribuisce prescrizioni: richiama invece ad una visione veritiera dell’uomo e del mondo ed esorta all’intelligenza delle cose nuove : perché, intervenendo sulla realtà dei “fatti”, illumina, compenetrandoli di sapienza giuridica, i valori e i principi morali per “rettamente” governare e

“ordinare la convivenza civile”, al lume del Vangelo e della ragione. E, inverata dalla sua sublime testimonianza di “Santa e di Mistica della politica”, questa dottrina - “peculiarmente eccellente”, come l’ha definita Paolo VI - ci è ben nota.

Le parole “politiche” di Caterina hanno una perenne forza profetica:

+ quando pongono, come premessa, che: “Adunque a lui ( al Signore ) doviamo rendere

onore e amore: ma utilità a lui non potiamo fare, sì che la doviamo fare al prossimo nostro, sovvenendolo secondo la possibilità nostra, rendedoli el debito della dilezione, sì come ci è comandato, e non nel contrario che pare che noi facciamo, sì come ladri e malvagi debitori, tollendo l’altrui con molta ingiustizia: cioè che l’onore e l’amore che doviamo dare a Dio e al prossimo nostro noi el diamo a noi medesimi ( L. 311 A’ Signori Difensori del popolo e città di Siena );

+ quando - affermando che “la città propria è la città dell’anima nostra - definiscono ogni

signoria soltanto “una cosa prestata”, e “prestata a tempo”: “chè bisogno c’è di rendere e di lassare quello che non è nostro (L. 235 al Re di Francia ); una cosa di cui chi governa è soltanto “amministratore”, ”distributore di quello che Dio ha dato”, perché chi se ne fa possessore , “senza timore di Dio”, “egli drittamente è ladro e degno di morte”;

+ quando avvertono che la “margarita lucida della vera e santa giustizia” deve sempre

spingere il reggitore “a rendere a ciascuno il debito suo”, “mantenendo ragione e giustizia al piccolo come al grande, al povero come al ricco” ( L. 350 Al Re di Francia), ”governando secondo giustizia e i poveri secondo il diritto” ( L.138 Alla Reina di Napoli ); sapendo il reggitore di dover “farsi padre dei poveri” , i quali “sono quelle mani che ci fanno andare a vita eterna”; e facendo “leggi giuste, e facendole rispettare anco con atto d’autorità, che non è tale per il suo fine” ; e, “senza timore servile”, “dando sempre una parola”,”regolando sempre le promesse”, e “dicendo la verità in servizio del prossimo senza essere pagato o soprappagato” ( L 123 Ai Signori della città di Siena ); e mettendosi “a livello del popolo, per ben conoscere la condizione del cittadino”; e riformando la città” per farla sentire migliore: mantenendola “in pace”, conservandola nella santa giustizia, “ ché solo per la giustizia, la quale è mancata, sono venuti e vengono tanti i mali” ( L 358 A Andrea di Vanni depintore, essendo Capitano del popolo di Siena ) ) :sapendo che “lo stato non si può conservare nella legge civile e nella legge divina, senza di essa” ( L. 370 A Urbano VI );

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+ quando, insomma, facendo eco al Signore ( l Dial. CXIX, 881), ammoniscono con fermezza

che: ”Neuno stato si può conservare nella legge civile e nella legge divina in stato di grazia senza la santa giustizia”; e che “invano s’affatica colui che guarda la città, se Dio non la guarda” ( L.207 A’ Signori di Firenze );

+ e quando insistono affinché si voglia coltivare le evangeliche virtù : dell’umiltà “ per non fare

ingiustizia”, della “pazienza”- che è “il mirollo della carità” -, della fortezza e della “lunga perseveranzia”, della “prudenza”, della “fedeltà”, della “gratitudine”, dell’” esemplarità nelle parole, nei costumi e in tutte le operazioni”, “da uomini maturi e buoni e non fanciulli”, “esperti e non fanciulli”, “da uomini virili, e non timorosi governatori”, ”da uomini virtuosi, saggi e prudenti”; e

senza mai “vivere a sette”: “gittando l’odio e il rancore del cuore e l’amor proprio” (L.121 A’ signori difensori del popolo e della città di Siena) ; e quando la Santa quasi grida che “ colui che abbi a regere, sì come egli è osservatore de la legge in sé così vuole che sia osservata per li sudditi” ; e

che “non si può governare gli altri” , “signoreggiare le città e le castella” se, innanzi tutto, “ non si sa governare se stessi”,” se non si signoreggiano i vizi e i peccati” (L. 358 ).

Si potrebbe dire che Caterina possiede e ci comunica – in forza della carità – il senso originario

del significato della “polis” e, insieme, della “civitas”. Della “legge” e del “diritto”! Su cui la vera “natio” si costituisce!

“Escire dal bosco”: per la salute di tutti e “mettere fuoco in tutta Italia”

Caterina, mentre afferma con questa dottrina i diritti dell’uomo, non dimentica di richiamare i

fratelli ai loro doveri civili e politici. Allacittadinanza della storia. E ammonisce, così, che non si può

essere operatori di pace e di unità se non si assumono le proprie responsabilità “al lume della ragione” e “con l’amore acquistato nell’affetto della carità”. E se, perciò, non si decide, esercitando pienamente la propria libertà, “di tirar fuori il capo”, “di escire dal bosco”, “per andare in mezzo al mondo per partecipare alla vita dei fratellI”, perché Dio non si trova solamente nel bosco, nel tempo delle necessità e delle avversità”: quando, dunque, c’è l’obbligo di prendersi a cuore la “salute di tutto quanto il mondo” e “combattere per la verità” (L. 326 A Frate Guglielmo d’Inghilterra ), non permettendo che per nostra indifferenza e irresponsabilità accadano cose che non devono accadere.

In quel tempo Caterina soffre sino allo spasimo per il grande Scisma – che durerà ben 39 anni, aggiungendo la guerra nella Chiesa alle guerre nel Paese – subito dopo l’elezione, contro Urbano VI, dell’antipapa Clemente VII. La Santa geme per la lacerazione della Chiesa: con i seguaci della Rosa

bianca ( gli urbaniani ) e quelli della Rosa vermiglia ( i clementisti ); e con “il gregge dei fedeli disperso e senza pastore”. E la mantellata andrà ogni giorno, sofferente pellegrina, in S. Pietro “ a lavorare per questa navicella”, che è la Chiesache “grava sulle sue spalle”, e sulla quale chiederà di

“spremere il suo cuore”, e per la quale griderà che “bisogna spendersi sino alla fine”. E perciò la Santa scrive a Stefano di Corrado Maconi - il suo discepolo e segretario, che si farà

certosino per volontà di lei - con il desiderio di vederlo “morire spasimato per onore di Dio”, perché “tempo è da perdere sé, e non curare cosa veruna, pur che noi facciamo l’onore suo”. Per cui gli dice ( L. 324 ) che “virilmente io ti vegga correre in qualunque parte tu possa meglio compire la volontà sua” ( lo sprona cioè a raggiungere Roma in aiuto di Urbano VI ). E gli grida più forte, allo stesso scopo, in una successiva lettera ( L.368 ): “Scrivo a te…., con il desiderio di vederti levato dalla tiepidezza del cuore tuo, acciocchè tu non sia vomitato dalla bocca di Dio, udendo quello rimproverio : Maladetti voi tiepidi! Che almeno fuste voi stati pur giacciati ! …Fa che tu sia fervente, e non tiepido, in questa operazione, e in stimolare i fratelli ( i signori del Senato senese ) e Maggiori tuoi della Compagnia ( quella della “Vergine Maria” ), che facciano la loro possibilità in quello che io scrivo. Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutta Italia, non tanto costì”. Dove, in quest’appello, Caterina fa emergere, con passione, e ancora una volta in forza della fede e della ragione, il senso delle istituzioni, ecclesiali e civili ! L’idea del Paese Italia dei “diritti” e

dei “doveri”, che si esprimono concretamente con la “presenza”, con la “partecipazione” nella comunità . Come “doveri” e come “dono di sé” !

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Ma Caterina ammonirà spesso ( come nella L.76 ) che :“Non potremo giugnere a perfezione senza molto sostenere”: senza “dare la fatiga del corpo”. “Perché questa vita non passa senza fatiga; e chi volesse fuggire la fatiga fuggirebbe il frutto” . E, come “la fatiga” si deve dare ( L.116 ) per le necessità della famiglia, “sovvenendogli e aiutandogli quello che può”, così si deve fare per le necessità della famiglia sociale, “nutricando il corpo e l’anima”.

La vera passione della patria

non è l’amor proprio E, per finire, Caterina esprime in modo più esplicitamente compiuto l’idea e il sentimento

dell’italianità della patria nella celebre Lettera ( L. 310 Ai Tre Cardinali italiani ). Essi sono gli unici superstiti italiani del Collegio cardinalizio in cui predominano i francesi : uno, Simone, è di Borzano, ed è stato Vescovo di Milano; l’altro è fiorentino, Pietro Corsini, già Vescovo di Volterra e poi di

Firenze, detto “il Cardinale Portuense” in quanto diventato il Vescovo di Porto Santa Rufina; il terzo, Giacomo Orsini , figlio del Conte di Nola, è romano. Nella fortissima missiva inviata ad essi – i quali in modo quasi emblematico rappresentano l’Italia tutta – risuona accoratamente perentoria

l’esortazione della Santa a che ritornino - dopo l’elezione dell’ anti Papa -“alla luce della verità”: stando uniti “in fede e perfetta obbedienza” a Papa Urbano VI, Bartolomeo Prignano – anch’esso italiano, di Napoli, e proveniente da Bari dove è stato Arcivescovo -. Li chiama “ingrati, villani, mercenari”, perché stanno tradendo il legittimo Pontefice, che pur hanno eletto – certo “con elezione ordinata, più per ispirazione divina, che per vostra industria umana” – al trono pontificio: al quale ciascuno di essi tacitamente aspirava. E li redarguisce: “Pur naturalmente parlando - chè, secondo virtù, tutti dobbiamo essere eguali – ma parlando umanamente: Cristo in terra italiano, e voi italiani, che non vi poteva muovere la passione della patria, come gli oltramontani ( cioè i francesi) : cagione non ci veggo – il giudizio è tranciante - se non l’amore proprio”. Che è quello che

“rende laida la nostra vita corporale”,… sì che in tal modo vivendo, da ogni parte del corpo gittiamo puzza”!

Insomma, Caterina vuol dire: come potevano essi, pur se nati in luoghi diversi della stessa

terra di qua dalle Alpi, ignorare di essere italiani ? E questa comune origine - dice Tommaseo - non avrebbe dovuto giovare “non a fomite di vanità, ma sì al bene insieme della patria comune e all’unità della Chiesa” ?

Per un’Italia unita, in “stato pacifico”

Dunque, per Caterina, la patria italiana non è racchiudibile , per effetto delle condizioni politiche, entro i ristretti confini di questa o quella terra locale: la Santa li oltrepassa, perché è il comandamento della fraternità e del “bene comune” – intrinsecamente accompagnato dalle comuni

radici spirituali, religiose, culturali, – quello che deve legare tutta la gente che abita la penisola italiana. Così la Santa concepisce nel suo pensiero e nel suo cuore un’Italia unita: unita e in “stato pacifico”. Dove non c’è guerra, non ci si fa la guerra : “chè la guerra è solo grande confusione dinanzi agli uomini e abominazione dinanzi a Dio”, essendoci soltanto “una guerra da guerreggiare: quella contro il dimonio infernale dell’amor proprio”.

La Santa vuole un Paese che si regga sulle colonne della verità edella carità – che

finalmente “si incontreranno”, portando “il diritto alle nazioni” -, della libertà – per la quale “non si è soggetti ad alcuna cosa , se non a Dio” - edella giustizia e della pace - che finalmente “si

baceranno”-: le colonneche reggono la casa comune, dove nella solidarietà, nella condivisione, nella partecipazione, nella legalità, possono abitare insieme “tutti gli uomini di buona volontà”. Un Paese del quale la Chiesa – riformata e rigenerata dalla rinuncia al potere temporale – sia l’”anima”

spirituale e la fonte della “salvezza”. Saldamente stabilita a Roma: “il luogo suo”, “il luogo delli gloriosi Pietro e Paolo”, dove , camminando, si“sente bollire sotto i piedi” il sangue dei martiri !

Verrebbe da dire che Caterina è, per l’Italia, la promotrice di uno speciale “Risorgimento ante

litteram” !

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Caterina “la più santa delle italiane

e la più italiana delle sante” Cosa si può concludere. allora? Se non riconoscere con devozione che Caterina – a buon

diritto chiamata “la più santa delle italiane e la più italiana delle sante” - è “la memoria profetica” che viene a denunciare con pena il nostro presente di italiani in ?

Lei è davvero il “modello esemplare” per ricostruire il Paese, oggi in profonda crisi – economica, morale, sociale, politica - su queste “colonne”, alla luce della sua dottrina , la quale ha costituito – così Benedetto XVI scrivendo a Napolitano per il 150° -“ un stimolo formidabile alla elaborazione del pensiero politico e giuridico italiano”. E per riconvertirci, dunque, a quelle “ragioni di vita e di speranza” che possono renderci capaci di aspirare ad un’ Italia rinnovata, di lottare per il cambiamento e di affrontare con coscienza e coraggio i nostri problemi e impegnarci a risolverli, e

“pensare legittimamente al futuro “ ( Gaudium et Spes. ,31 ). Ed per agire come “gli uomini non del passato, bensì dell’avvenire, mai in disparte di fronte ai problemi sociali, a vantaggio soprattutto delle classi inferiori” – così ci esorta Giuseppe Toniolo, il grande sociologo cattolico che sarà

canonizzato proprio il giorno della festa di S. Caterina, il prossimo 29 aprile, mentre ci ricorda che “l’essere viene prima dell’operare” -. E, dunque - potremmo aggiungere – sentendoci coscienti di dover lavorare per una nuova stagione della democrazia - alla guida non alle dipendenze

dell’economia e della finanza, e per un modello di sviluppo equo e sostenibile -: una democrazia “sociale”capace di investire sui valori profondi della Nazione ( diventando di essi – direbbe Mario Luzi – “concittadini” ) e sulle energie vitali del Paese, per crescere nella libertà e nella responsabilità della partecipazione. E farsi garante - per il “bene comune”e dentro un vero Stato di diritto -, della giustizia, dalla solidarietà e della coesione sociali – che passano anche per la concordia intergenerazionale e per la effettiva parità uomo-donna -, come dell’integrazione. Dando

concretezza a queste parole con la forte volontà di promuovere - nel rispetto dei diritti e dei doveri di tutti e nell’equilibrio dei poteri istituzionali - la legalità, il lavoro, la cultura, l’educazione e la scuola, la ricerca, l’arte, l’ambiente. E, insieme, la famiglia. Ela vita, per tutto l’arco dell’esistenza! E intenzionati ad essere strumenti di fraternità tra i popoli e a contribuire alla costruzione dell’ Europa,

come vera unione di popoli: un’unione “democratica”, “sociale” e “politica” ! Che Caterina aiuti noi italiani – per questo la preghiamo – ad “assidersi sulla sedia della

coscienzia” ( L.69 A Sano di Maco in Siena ) e a“tenersi ragione” per trovare la forza , propria di ogni uomo, di “salire sopra di sé”, “fatti liberi e potenti sopra di sé”! E provare a diventare “profeti”!

Allora è davvero il tempo di “destarci dal sonno della negligenza“. E “non dormire più”!

Giancarlo Boccardi già Vice Presidente

Associazione Italiana dei Maestri Cattolici

Su S. Caterina e temi cateriniani S. Caterina da Siena, Il Dialogo (a cura di G. Cavallini), Edizioni Cantagalli, Siena, 1995. S. Caterina da Siena, Le Lettere, Edizioni Paoline, Milano, 1993. N. Tommaseo, Lo spirito, il cuore, la parola di S. Caterina da Siena, Edizioni Logos, Roma, 1979. G. Cavallini, Caterina da Siena. La vita, gli scritti, la spiritualità, Città Nuova Editrice, Roma, 1998. G. Cavallini, La verità dell’amore, Città Nuova Editrice, Roma, 2007. A.M. Balducci, Massime di reggimento civile di S. Caterina da Siena, Edizioni Cateriniane, Roma, 1971. P. Pajardi, Caterina, la Santa della politica, Edizioni Martello, Milano, 1993.

AA.VV.,Cinquantenario dei Patroni d’Italia, Quaderni Cateriniani (54 – 55), Edizioni Cantagalli, Siena, 1989. AA.VV.,Francesco e Caterina, Quaderni del Centro Internazionale di Studi Cateriniani (5), Roma, 1991. AA.VV., La Santa Patrona Caterina e la rinascita politica dell’Italia, Quaderni Cateriniani (70 – 71), Edizioni Cantagalli, Siena,

1993. M.J. Castellano, Lo stato pacifico ( la pace sociale ) secondo S. Caterina da Siena, Quaderni Cateriniani (96 – 97), Edizioni

Cantagalli, Siena, 1998. A. Bernabei, La carità deve animare l’attività politica vissuta come carità sociale (in “Deus Caritas Est in S. Caterina da Siena), Quaderni del Centro Internazionale di Studi Cateriniani, Roma, 2008.

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Su temi storici, politici, sociali L.Salvatorelli, Profilo della storia d’Europa, Edizioni Einaudi, Torino, 1944.

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S. Cassese, L’Italia : una società senza Stato ?, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 2011.