Casula mattia-1989

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1 XXVIII Convegno SISP Sezione: «Metodologia della ricerca» Panel: «La pluralità dei metodi nello studio delle politiche pubbliche alla luce di un percorso di ricerca» Chair: Nicola Giannelli Università di Perugia, 11-13 settembre 2014 (Versione provvisoria. Sono graditi commenti e suggerimenti) Il nuovo associazionismo intercomunale. (Nuove) sfide e (vecchie) risposte delle culture politiche locali di Mattia Casula [email protected] Abstract Il recente vincolo dell'obbligatorietà per i piccoli comuni italiani di gestire in forma associata le proprie funzioni fondamentali apre nuove prospettive di analisi per lo studio del fenomeno dell' inter- municipal cooperation. Rispetto alla letteratura europea (Heinelt e Zimmermann 2011; Hulst e van Montfort 2007; Hulst et al. 2009) e italiana (Baldini et al. 2009; Bolgherini 2009; Fedele e Moini 2006; Messina 2009; Salvato 2009) sul tema, il paper propone un'analisi comparata di due contesti italiani (Emilia-Romagna e Veneto), interrogandosi sul ruolo che il singolo policy maker regionale può avere (e può aver avuto) nell'in- centivare forme di cooperazione intercomunale su larga scala. L'analisi intende mostrare come le riforme re- gionali varate in questi anni stiano in realtà seguendo un percorso di natura path dependent, ancora fortemen- te condizionato dalle legacies negli anni consolidatesi. Infine, partendo dall'analisi dei due casi analizzati, il paper propone alcune riflessioni sul policy change italiano in tema di riordino territoriale e sulle implicazioni in termini di policy e di politics che la riforma sta introducendo per il governo del territorio. Indice 1. Introduzione 2 2. Ripensare il luogo e la regione tra indirizzi comunitari e prerogative nazionali 3 3. Il nuovo associazionismo intercomunale in Emilia-Romagna e in Veneto 6 4. Perché la comparazione per contesti? 14 5. I risultati della comparazione dei fattori di contesti 16 6. Evoluzione delle singole policies regionali 18 7. Verso una (apparente) convergenza di policy? 26 8. Conclusioni 31 Bibliografia 33

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XXVIII Convegno SISP Sezione: «Metodologia della ricerca»

Panel: «La pluralità dei metodi nello studio delle politiche pubbliche alla luce di un percorso di ricerca»

Chair: Nicola Giannelli Università di Perugia, 11-13 settembre 2014

(Versione provvisoria. Sono graditi commenti e suggerimenti)

Il nuovo associazionismo intercomunale. (Nuove) sfide e (vecchie) risposte delle culture politiche locali

di

Mattia Casula [email protected]

Abstract Il recente vincolo dell'obbligatorietà per i piccoli comuni italiani di gestire in forma associata le proprie funzioni fondamentali apre nuove prospettive di analisi per lo studio del fenomeno dell' inter-municipal cooperation. Rispetto alla letteratura europea (Heinelt e Zimmermann 2011; Hulst e van Montfort 2007; Hulst et al. 2009) e italiana (Baldini et al. 2009; Bolgherini 2009; Fedele e Moini 2006; Messina 2009; Salvato 2009) sul tema, il paper propone un'analisi comparata di due contesti italiani (Emilia-Romagna e Veneto), interrogandosi sul ruolo che il singolo policy maker regionale può avere (e può aver avuto) nell'in-centivare forme di cooperazione intercomunale su larga scala. L'analisi intende mostrare come le riforme re-gionali varate in questi anni stiano in realtà seguendo un percorso di natura path dependent, ancora fortemen-te condizionato dalle legacies negli anni consolidatesi. Infine, partendo dall'analisi dei due casi analizzati, il paper propone alcune riflessioni sul policy change italiano in tema di riordino territoriale e sulle implicazioni in termini di policy e di politics che la riforma sta introducendo per il governo del territorio.

Indice

1. Introduzione 2 2. Ripensare il luogo e la regione tra indirizzi comunitari e prerogative nazionali 3 3. Il nuovo associazionismo intercomunale in Emilia-Romagna e in Veneto 6 4. Perché la comparazione per contesti? 14 5. I risultati della comparazione dei fattori di contesti 16 6. Evoluzione delle singole policies regionali 18 7. Verso una (apparente) convergenza di policy? 26 8. Conclusioni 31 Bibliografia 33

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1. Introduzione Le riforme istituzionali avviate dal Governo Monti, continuate con il Governo Letta e proseguite con il Governo Renzi prevedono il ridimensionamento dell' ente provinciale e il venir meno dell'e-lezione diretta del suo presidente1, la (definitiva) costituzione delle città metropolitane e l' obbliga-torietà di attivare forme di gestione associata per i comuni con meno di 5.000 abitanti, definendo anche criteri incentivanti per l'avvio di processi di fusione tra comuni. Pur essendo state caratterizzate da quel tratto di incrementalismo disgiunto (Lindblom 1965) tipico del legislatore italiano, le disposizioni contenute nella recente Legge Delrio (n. 56/2014) pare abbiano definitivamente ultimato il lungo e tortuoso percorso di transizione delle autonomie locali verso quel modello autonomistico supplicato dalla Costituzione e cercato di realizzare solo a partire dalla legge 142/1990. In realtà, il testo definitivo approvato lo scorso 3 aprile è stato oggetto nei mesi precedenti di continue revisioni ed aggiustamenti. Ad un certo momento, per esempio, era sta-to presentato un disegno di legge che avrebbe visto la costituzione di Consigli provinciali composti dai soli sindaci dei comuni con più di 15.000 abitanti e dal presidente delle unioni di comuni con ol-tre 10.000 abitanti. Nonostante la sua successiva non previsione nel testo definitivo approvato, l'op-posizione mossa nei confronti di questa disposizione, sia da parte delle associazioni di rappresen-tanza degli enti locali che di alcune regioni, enfatizza la prerogativa della singola comunità locale e regionale nella scelta della dimensione di governo da essa considerata ottimale. Comunque, la totale implementazione di queste riforme, se rispettata, rappresenterà una delle sfide più importanti di sempre a cui il governo locale italiano sarà tenuto a rispondere nei prossimi anni. L’idea di fondo di questo paper è che tale mutamento non avverrà in maniera hard, attraver-so la realizzazione di interventi ex-novo, ma con pratiche e procedure soft che seguano un percorso di natura path dependent. Infatti, si ritiene che, nonostante spesso la retorica del cambiamento (Bat-tistelli 2002) sia improntata verso l'adozione di stili di policy nuovi ed inusuali, le azioni messe in atto dalle singole regioni soffrano ancora delle legacies negli anni consolidatesi.

In secondo luogo, in accordo con la nota affermazione di Lowi «policies determine politics» (1999, 38), si ritiene che l'avvio di specifiche politiche regionali di riordino territoriale e i relativi processi concertativi che ne derivano tra i vari livelli di governo (regionale, provinciale e comuna-le), comportino una revisione della politics regionale storicamente adottata. Allo stesso tempo, l'av-vio di forme stabili di cooperazione intercomunale in un'ottica di area vasta incideranno sulla defi-nizione di nuove relazioni di potere a livello locale. Questo perché la credibilità politica del sindaco sarà sempre più legata non solo ad una erogazione efficiente ed efficace dei servizi pubblici nei con-fronti dei suoi cittadini/elettori, ma anche alla sua capacità di costruire relazioni strategiche con il territorio, soprattutto in vista dell'elezione del presidente della provincia. Pertanto, si apriranno nuo-ve prospettive di analisi sia relativamente all' accountability verticale (Morlino 2003) che alla re-sponsivness (Powell 2004). In terzo luogo, si ritiene che ogni singola Regione possa assumere un ruolo di regia nel (ri)disegno della governance sovracomunale e nella pianificazione strategica di area vasta attraverso un'azione combinata, mirata e ben strutturata di tre strumenti: l'utilizzo della leva degli investimenti finanziari, l'apposizione/non apposizione di specifici vincoli per l'accesso ai contributi, l' uso della persuasione. La policy su cui può far leva è quella di incentivazione all'esercizio associato di fun-zioni e servizi comunali2, al fine di portare al consolidamento sul territorio delle unioni di comuni,

1 Il Presidente della Provincia sarà eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia e scelto tra i sindaci della provincia il cui mandato non scada prima di 18 mesi dalle elezioni. Il suo incarico avrà durata quadriennale, salvo decadere dalla carica qualora cessi di fare il sindaco. Il Consiglio è invece eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della provincia (sono entrambi eleggibili) e avrà durata biennale. Tutte le nuove cariche non riceveranno al-cun tipo di compenso. 2 Partendo dalla tipologia di politiche pubbliche formulata da Lowi (1999), essa assume i tratti di una politica costituen-te di stampo istituzionale.

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forme stabili di cooperazione perché dotate di autonomia finanziaria, statutaria, potestà regolamen-tare e propri organi istituzionali. In virtù di queste considerazioni, sono stati selezionati due contesti regionali (Veneto e Emi-lia-Romagna) notoriamente caratterizzati da tradizioni di governo locale, policy style e connotazioni politico-culturali tra loro eterogenee. Queste due realtà, pur essendo state ampliamente studiate per descrivere i tratti originari e le principali differenze nei meccanismi regolativi delle diverse aree del-la Terza Italia (Bagnasco 1977, Messina 2001), continuano ad essere due osservatori privilegiati per lo studio del governo locale italiano. Infatti, anche se quel «che resta» delle due subculture politiche altro non sono che «briciole» (Caciagli 2009), sono rispettivamente il diverso policy style regionale e l'individualismo amministrativo del singolo comune, ancora particolarmente evidente in diverse municipalità venete (Messina 2009, 25), a rappresentare le loro due principali eredità storiche. Presentata l'evoluzione del quadro normativo italiano di riferimento sulla base di tre steps della riforma individuati, verrà "fotografata" l'attuale situazione del "nuovo" associazionismo inter-comunale nelle due regioni. A seguire, partendo da una più generale comparazione per contesti, ver-ranno analizzate le tendenze evolutive delle politiche regionali di incentivazione all'associazionismo intercomunale dai primi interventi degli anni novanta fino ai più recenti piani di riordino territoriale del Veneto (l.r. 18/2012) e dell’Emilia-Romagna (l.r. 21/2012), al fine di metterne in evidenza so-miglianze, differenze e (eventuali) convergenze. 2. Ripensare il luogo e la regione tra indirizzi comunitari e prerogative nazionali La strategia di sviluppo "Europe 2020" e i recenti orientamenti espressi dalla programmazione dei fondi strutturali 2014-2020 puntano a valorizzare il «place based approach» quale prioritaria pro-spettiva d'azione per le politiche di sviluppo locale. Ripensare l'idea stessa di luogo, di regioni e di stato in senso funzionale significa ridisegnare i confini della programmazione strategica territoriale e accrescere la cittadinanza attiva di ogni territorio e la loro capacità di riconoscere le proprie possi-bilità di sviluppo. Ciò all'interno di una nuova strategia comunitaria che individua nella sostenibilità dello sviluppo, nella crescita intelligente e nello sviluppo inclusivo le tre linee d'azione entro cui le politiche di sviluppo intersettoriale ed integrato dovranno basarsi. Unitamente al modello place based europeo, i territori italiani sono oggi indotti ad una co-mune visione d'insieme da altre sfide apportate dal processo (ancora) in atto di federalismo ammini-strativo che affiderà ai programmi di riordino territoriale un ruolo chiave per il consolidamento del-le reti cooperative di sviluppo strategico. Analizzare l'evoluzione delle singole policies regionali si-gnifica, anzitutto, comprendere l'evoluzione del più complessivo quadro nazionale entro cui le re-gioni sono intervenute, sia per il rispetto dei vincoli nazionali che per la scelta dell'allocazione delle risorse. La tab. 1 espone sinteticamente l'evoluzione della principale normativa nazionale in materia di gestioni associate, sulla base di tre steps della riforma individuati, ovvero: i) l'avvio spontaneo delle prime politiche regionali di incentivazione all'esercizio associato a partire dai primi anni no-vanta; ii ) l'avvio del processo di «regionalizzazione» delle risorse statali di incentivazione a partire dalla Conferenza Stato-Regioni EELL del 2006; iii ) le nuove misure adottate in risposta alla crisi economica e agli obblighi nazionali sempre più stringenti. A partire dai primi anni novanta, l' imposizione di specifici vincoli all'istituto Unione, in primis l'averlo individuato come prodomico alla fusione, ha frenato lo sviluppo di un fenomeno as-sociativo stabile a livello nazionale, favorendo in alcuni contesti l'avvio di misure alternative, meno rigide e meno vincolanti, come le Associazioni Intercomunali in Emilia-Romagna. Il TUEL (D.lgs. 267/2000), nel tentativo di riordinare e razionalizzare le norme varate sugli enti locali in tutti gli an-ni novanta, disciplina tratti e caratteristiche di fusioni (art.15), convenzioni (art.30), consorzi (art.31) e unioni (art. 33), le quali già a partire dalla cd. Napolitano-Vigneri (l. 265/2000) erano sta-te private dei loro precedenti vincoli e identificate come enti locali veri e propri (Quagliani 2006).

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Tab.1. Evoluzione del quadro normativo nazionale in materia di gestioni associate

Step della riforma

Riferimento nor-mativo

Misure introdotte Note

I° Step

L. 142/1990 Introduzione Istituto Unio-

ne di Comuni

Presenza di specifici vincoli: contiguità territoriale, appartenen-za alla medesima provincia, popolazione dei comuni non oltre i 5.000 abitanti con massimo uno oltre i 10.000, obbligo di fu-

sione entro 10 anni L. 265/1999 e TUEL

(art.32) Unione di Comuni come

ente locale Eliminazione vincoli precedenti

Riforma Titolo V Costituzione

Nuove prerogative regio-nali

Rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adegua-tezza

Interno D.M. 289/2004

Riparto dei fondi erariali

-60% Unioni di Comuni -25% Comunità montane

-15% Comuni sorti da processi di fusione - Criteri considerati: popolazione, numero comuni, servizi ge-

stiti

II ° Step

Intesa n. 936 del 01/03/06 - Confe-

renza Stato-Regioni-EE.LL.

«Regionalizzazione» delle risorse statali

Criteri per l'accesso ai contributi statali: a) no limiti temporali di durata degli incentivi per unioni e CM; b) forme di premiali-tà per le gestioni in unioni e CM; c) vengano presi in conside-razione numero e tipologia della gestione associata, popolazio-ne e altri indicatori di disagio; d) effettività nella gestione asso-ciata; e) previsione della concessione dei contributi entro l'anno

di riferimento

Legge Finanziaria 2008

Affidamento alle Regioni dell'obbligo di avviare il riordino delle Comunità

Montane

- Riduzione della spesa corrente per il finanziamento delle CM; - Riduzione del numero complessivo di CM, del numero di componenti degli organi e delle indennità ad essi spettanti

- Soppressione automatica delle CM che non rispettano precisi criteri altimetrici e di quelle con meno di 5 comuni

L. 42/2009 Incentivi per unioni e fu-

sioni - Maggiore compartecipazione ai tributi erariali

- Incremento autonomia impositiva

III° Step

L. 122/2010 Obbligo di gestione asso-ciata per i piccoli comuni

La stagione delle manovre finanziarie e il vincolo dell’ “obbli-gatorietà” (soggetto a continue proroghe)

Legge Delrio (n. 56/2014)

Nuove prerogative per fu-sioni e unioni

Entro il 1° gennaio 2015 obbligo di conferimento a unioni o convenzioni delle funzioni fondamentali ai comuni con meno di

5.000 abitanti. Limiti per la costituzione di unioni: 10.000 abitanti complessivi

(3.000 se in area montana) Misure agevolative di ordine economico e organizzativo per u-

nioni e fusioni

La successiva riscrittura pressoché totale del Titolo V della Costituzione italiana ha identifi-cato i Comuni come i soggetti privilegiati per l'esercizio delle funzioni amministrative, potendo pe-rò allocarle ad un livello territoriale più ampio al fine di assicurarne l'esercizio unitario e nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Ciò ha indotto numerose municipalità ad avviare tra loro forme di dialogo e confronto, al fine di esercitare al meglio le funzioni e raziona-lizzare i centri di spesa. Successivamente, con il D.M. 289/2004 e la L. 42/2009, la normativa statale si è limitata a definire principi e criteri per la ripartizione dei fondi e dei finanziamenti per le unioni dei comuni. Nel mezzo, l'Intesa assunta in Conferenza Unificata Stato, Regioni ed Enti Locali (2006), oltre ad aver dato avvio al processo di «regionalizzazione» delle risorse statali a sostegno dell'associazioni-smo comunale, ha indotto un processo di omogeneizzazione delle politiche regionali (Xilo e Ra-vaioli 2009, 59-60) perché ha previsto il rispetto di una serie di requisiti che le regioni sono tenute a dover rispettare per l'accesso ai contributi statali. Paradossalmente, il quadro normativo che si è venuto a delineare per tutti gli anni duemila ha visto da un lato le Regioni assumere una potestà legislativa sempre maggiore su questa materia ma dall'altra le ha indotte ad adeguarsi ai parametri imposti dall'adesione all'Intesa. In questi termi-ni, le Regioni si sono trovate a dover mediare tra una normativa nazionale sempre più stringente e le

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legacies negli anni consolidatesi, prendendo atto delle volontà delle singole comunità politiche lo-cali. Infatti, spetta alle regioni il compito di: i) trasferire le funzioni amministrative ai comuni; ii) stabilire le forme di incentivazione nell’esercizio associato delle loro funzioni; iii) individuare i li-velli ottimali di esercizio delle stesse, anche in deroga con la soglia minima prevista dallo stato. Nella recente "stagione delle manovre finanziarie", porre un freno alla crescita della spesa pubblica, razionalizzare i servizi, ridurre i costi in ambiti gestionale più "adeguati" ha significato ri-vedere e ripensare il ruolo del comune (specie di quello più piccolo) e del territorio. L'idea è che le funzioni fondamentali spettanti ai comuni3 debbano essere gestite obbligatoriamente in forma asso-ciata dai comuni con meno di 5.000 abitanti, o tramite unione di comuni o tramite convenzione. Dalla L. 122/2010 lo scadenzario che i comuni avrebbero dovuto rispettare è stato più volte rivisto e prorogato; da ultimo, la Legge Delrio ha posto il 31 dicembre 2014 come termine ultimo per il ri-spetto di questo "nuovo" adempimento. Come nel caso delle nove città metropolitane che nasceranno e dei nuovi organi delle pro-vince (considerati come organi di area vasta), anche per le unioni è prevista la gratuità delle cariche negli organi. Non da meno, essa prevede misure agevolative di ordine organizzativo, introducendo la figura del segretario dell'unione scelto tra quelli dei comuni aderenti e un'ulteriore semplificazio-ne della disciplina delle unioni di comuni con l'abolizione di quelle per l'esercizio facoltativo di tut-te le funzioni e i servizi, pur confermando il limite demografico ordinario di almeno 10.000 abitanti (3.000 in caso di zone montane) per le unioni per l'esercizio obbligatorio delle funzioni fondamenta-li. Oggi, dinanzi le prerogative comunitarie e i continui up and down del legislatore nazionale, ripensare il territorio significa ammettere l'effettivo passaggio da una sua visione come semplice supporto di funzioni statiche e passive a un'altra, dinamica e attiva, di risorsa-progetto (Dematteis 1995;2001). Negli ultimi decenni è venuta meno sia l'iniziale concezione del territorio di stampo amministrativo come territorio delle competenze, de iure, sia quella di «territorio come patrimo-nio», inteso come ambito di mobilitazione di attori legati da una comune eredità storica e dalla per-cezione di un destino comune. Ciò a cui stiamo assistendo oggi è piuttosto una concezione di «terri-torio progetto» (Magnaghi 2000), sempre più declinabile in termini funzionali e progettuali. Il terri-torio è così tornato al centro del dibattito corrente. I suoi confini, non più finiti, appaiono oggi sfu-mati e interessati da nuove forme di conflitto tra vecchie e nuove istituzioni, tra poteri tradizionali e nuovi reticoli decisionali. Per questo, oggi, la nuova geometria amministrativa va interpretata non solo in senso istituzionale e materiale ma anche in senso immateriale e identitario, come conserva-zione di profonde tracce della storia passata. In questi termini le Regioni si pongono sempre più come unici soggetti in grado di assicurare una visione d'insieme dei processi di trasformazione in atto della governance sovracomunale.

3 Secondo quanto previsto dall'art. 19 del D.L. n. 95/2012 (convertito in L. 135/2012), le funzioni fondamentali dei co-muni sono: a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizza-zione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comuna-le; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secon-do quanto previsto dall’articolo 118, 4°c., Costituzione; h) edilizia scolastica (per la parte non attribuita alla competenza delle province), organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale (funzione espressamente esclusa dall’obbligo gestione as-sociata); l-bis) servizi in materia statistica (funzione espressamente esclusa dall’obbligo gestione associata).

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3. Il nuovo associazionismo intercomunale in Emilia-Romagna e in Veneto Verranno presentate le caratteristiche dimensionali sia delle forme più flessibili di cooperazione (consorzi, convenzioni, Associazioni Intercomunali), sia di quelle più stabili (le unioni di comuni), al fine di mettere in evidenza come l'utilizzo della cooperazione intercomunale possa rispondere ad una mera esigenza tecnico-economica per la razionalizzazione dei costi, piuttosto che ad un indiriz-zo politico-strategico nella gestione delle politiche di governo del territorio e di area vasta. Si farà pertanto riferimento solo ad una delle due dimensioni individuate da Fedele e Moini (2006, 80)4 en-tro cui l'intercomunalità in Italia può declinarsi, quella relativa all'erogazione dei servizi5. Le Unioni di Comuni. Ad aprile 2014, in Emilia-Romagna le unioni sono 46 mentre se ne contano 27 nel Veneto. Il trend evolutivo delle forme associative emiliano-romagnole (graf. 1) vede un loro scarso radicamento nel primo step della riforma (in cui le Associazioni Intercomunali erano in nu-mero maggiore), un loro consolidamento nel secondo, mentre una loro esplosione a partire dall'ini-zio del nuovo decennio. L'ulteriore aumento dell'ultimo anno è spiegabile anche con la definitiva trasformazione delle precedenti comunità montane in unioni montane. Diversamente, la tab. 2 mostra il trend evolutivo delle unioni di comuni venete dal 1997 a dicembre 2013, a cui vanno ad aggiungersi le due unioni montane costituitesi definitivamente a gennaio 2014. Anche in questa regione, il fenomeno associativo unione si è consolidato a seguito della cd. Napolitano-Vigneri, per poi arrestarsi sulle 31 unità complessive a livello regionale, salvo diminuire di due/tre unità negli ultimi cinque anni. Il dato più significativo arriva però dall'analisi del tasso di turn over dei comuni usciti in seguito alla costituzione di un'unione: di contro una per-centuale di turn-over in ingresso del 14,6% si calcola una doppia percentuale di turn-over in uscita, pari al 30,1%. Graf. 1. Evoluzione delle forme associative in Emilia-Romagna (1996-2014)

Fonte: elaborazione su dati Regione Emilia-Romagna

4 Limitatamente al caso italiano, secondo i due autori l'intercomunalità può riguardare sia la semplice erogazione dei servizi (mediante consorzi, convenzioni e unioni) sia la formulazione e implementazione di politiche pubbliche (con patti territoriali, piani di zona e accordi di programma). 5 Considerando le numerose forme associative sorte negli ultimi mesi nei due contesti analizzati e le proroghe poste in

essere dal legislatore nazionale, ad oggi (agosto 2014) non è possibile avere un quadro comparabile del tipo di funzioni svolte e del livello di integrità di trasferimento delle funzioni da parte dei singoli comuni alle nuove unioni.

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45

50

Comunità Montane

Associazioni Intercomunali

Unioni di Comuni

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Tab. 2. Evoluzione delle unioni di comuni nel Veneto (1997-2013)

Anno di co-stituzione

Unioni costituite

Unioni sciolte

Unioni attive

Comuni alla costituzione

Comuni entrati in seguito

Comuni usciti in seguito

Comuni nelle unioni

1997 1

1 5

5 1998 2

3 7

12

1999 3

6 12

24 2000 4

10 11

35

2001 15

25 49

85 2002 6

31 19 1 -1 104

2003

31

2

106 2004

31

1

107

2005

31

4 -4 107 2006 1 1 31 2 2 -6 105 2007

1 30

1 -5 101

2008 1

31 2 2

104 2009 1 3 29 2

-6 100

2010

1 28

-4 96 2011 1 1 28 2 1 -1 98 2012 3 2 29 12 1 -6 105 2013

1 28

3 -4 104

Totale 38 10 28

18 -37 104

Fonte: Regione Veneto - Direzione Enti Locali Il dato veneto è particolarmente significativo soprattutto se raffrontato con le varie conven-zioni e i vari consorzi che, dal 1999 ad oggi, sono stati oggetto di finanziamento da parte della Dire-zione Enti Locali (tab. 4), la stessa che concede i contributi alle unioni di comuni6. Considerando la durata almeno quinquennale che le convenzioni sono tenute a dover rispettare per poter accedere ai contributi, il quadro appare ancora in evoluzione, con una leggera flessione negli ultimi anni legata sia alle magre finanze regionali che ai nuovi vincoli imposti dalla l.r. 18/2012. Nel complesso, le convenzioni associano un numero ristretto di comuni (tab. 3), con una netta prevalenza di quelle con soli due comuni coinvolti (55,6%), a differenza invece dei consorzi che, seppur di natura mono-funzionale, associano un numero molto più consistente di comuni (tab. 5). Tab. 3. Convenzioni stipulate in Veneto per numero di comuni coinvolti e finanziate dalla Regione Veneto - Direzione Enti Locali (1999-2013)

N° Convenzioni %

Convenzione fra 2 Comuni 95 55,6 Convenzione fra 3 Comuni 38 22,2 Convenzione fra 4 Comuni 16 9,4 Convenzione fra 5 Comuni 10 5,8 Convenzione fra 6-10 Comuni 8 4,7 Convenzione fra più di 10 Comuni 4 2,3

Convenzioni attivate (1999-2013) 171 100,0

Fonte: elaborazione su dati Regione Veneto - Direzione Enti Locali

6 La Regione Veneto prevede che la concessione dei finanziamenti alle convenzioni e ai consorzi venga fatta da ciascu-na delle Direzioni di competenza per la funzione gestita in forma associata. Il dato non è pertanto esaustivo del cospicuo numero di queste forme associative presenti nell'intero territorio regionale ma rende comunque l'idea delle convenzioni e dei consorzi finanziati dalla Regione per la gestione delle funzioni fondamentali.

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Tab. 4. Convenzioni finanziate dalla Regione Veneto - Direzione Enti Locali (1999-2013)

Anno N° Conven-

zioni N° Comuni

1999 2 7 2000 6 19 2001 4 8 2002 2 4 2003 12 28 2004 15 50 2005 13 36 2006 21 91 2007 17 47 2008 16 43 2009 26 76 2010 19 51 2011 0 0 2012 13 48 2013 5 30

Fonte: elaborazione su dati Regione Veneto - Direzione Enti Locali Tab. 5. Consorzi finanziati dalla Regione Veneto - Direzione Enti Locali (1999-2013)

Anno Provincia Consorzio N° Co-muni

Funzioni delegate

2004 Treviso Consorzio di Polizia

Municipale Piave 5

Miglioramento servizio polizia Municipale

2004 Treviso

Consorzio del Com-prensorio Opitergino

9 Miglioramento funzioni consortili 2007 12 Realizzazione SIT 2008 12 Potenziamento SIT

2007 Treviso Consorzio Intercomu-

nale Priula 23 Miglioramento servizi cimiteriali

2008 Treviso Autorità di Bacino

TV2 24

Convenzione con Volpago per servizi cimiteriali e rifiuti

2006

Vicenza Consorzio di Polizia Locale Nordest Vi-

centino

12 Costituzione consorzio polizia

municipale 2008 14

Miglioramento servizio polizia municipale

2007 16 2008 16 2009 17

2008 Treviso Consorzio Intercomu-nale di Bacino TV3

25 Raccolta rifiuti

2008 Verona Consorzio per lo Svi-luppo del Basso Ve-

ronese 3 Information technology

2009 Vicenza Consorzio dei Castelli 7 Costituzione consorzio polizia

municipale

2009 Verona Consorzio Servizi

Tecnici Basso Piave 4 Potenziamento servizi tecnici

2009 Vicenza Consorzio di Polizia

Locale Alto Vicentino 14

Miglioramento servizio polizia municipale

Fonte: elaborazione su dati Regione Veneto - Direzione Enti Locali

9

Tab. 6. Caratteristiche dei comuni veneti ed emiliano-romagnoli in unione (aprile 2014)

Comuni fino a 1.000 ab.

Comuni 1.001-5.000

ab.

Comuni fino a

5.000 ab.

Comuni 5.001-20.000

ab.

Comuni fino a

20.000 ab.

Comuni ol-tre 20.000

ab.

Totale Comuni

Emilia-Romagna

Comuni in unione 18 113 131 137 268 21 289 Tot. Comuni ER 21 128 149 157 306 34 340 % unioni su ER 86% 88% 88% 87% 88% 62% 85%

Veneto

Comuni in unione 7 66 73 37 110 1 111 Tot. Comuni VEN 41 273 314 230 544 37 579 % unioni su VEN 17% 24% 23% 16% 20% 3% 19%

Caratteristiche dei comuni associati. La tab. 6 mostra come ben l'85% dei comuni emiliano-romagnoli appartenga ad una unione, di contro una cifra molto meno consistente di comuni veneti (19%). Ad aprile 2014, solo il 23% dei piccoli comuni veneti aveva scelto questo istituto per adem-pire al nuovo obbligo. Le unioni di comuni dell'Emilia-Romagna vedono coinvolti sia comuni pic-coli e piccolissimi, sia comuni di più ampie dimensioni: il fatto che ben l'88% di tutti i comuni con meno di 20.000 abitanti appartenga ad una unione è indicativo del raggiungimento dell'auspicato ef-fetto spillover che le recenti manovre finanziarie vorrebbero veder realizzato. Diversamente, il caso veneto mostra una scarsissima adesione dei comuni di medie dimensioni ad unioni (16%), con un solo comune su 37 con oltre 20.000 abitanti che gestisce in forma associata tramite questo istituto parte delle sue funzioni. Numero di comuni associati in unione. Al fine di comparare le caratteristiche delle unioni presenti nei due contesti analizzati con il più generale contesto nazionale, il graf. 2 riporta i valori percentua-li relativi al numero dei comuni delle unioni di Veneto ed Emilia-Romagna e dell'intero territorio italiano7. Mentre più della metà delle unioni venete (58,6%) è composta da un numero ristretto di comuni (2-3), ben il 41,3% di quelle emiliano-romagnole ha individuato in 7-10 comuni la propria dimensione ottimale di governo del territorio. Questo dato è particolarmente significativo sia se confrontato con quello nazionale (17,8%) che con quello veneto (3,4%). Una maggiore convergenza tra le unioni delle due regioni e quelle nazionali la si riscontra nella classe "tra 5 e 6 comuni". Popolazione, superficie e densità abitativa delle unioni. Relativamente alla popolazione coinvolta in unione (graf. 3) , mentre la maggior parte delle unioni emiliano-romagnole sono unioni molto grandi con oltre 50.000 abitanti coinvolti (il 41,3%), quelle venete sono unioni tendenzialmente più piccole, principalmente incluse (48,3%) nella classe "tra 5.001 e 15.000 ab.". Quest'ultima è anche la classe dove vanno a collocarsi la maggior parte delle unioni presenti sul territorio nazionale (38,6%). Per meglio comprendere le caratteristiche dimensionali delle unioni dei due contesti analiz-zati, al di là della comparazione con il generale caso italiano che pure mostra i suoi limiti per la classificazione adottata da ANCI-IFEL, occorre riferirsi al graf. 4. Esso mostra (in valori assoluti) la popolosità delle unioni venete ed emiliano-romagnole, con riferimento alle soglie demografiche previste nelle varie versioni del decreto Delrio. Al riguardo, si osservi come delle 29 unioni venete ben 13 (il 44,8%) non avrebbe raggiunto la soglia dei 10.000 abitanti, utile ai comuni con meno di 15.000 abitanti per poter entrare a far parte del Consiglio provinciale8.

7 I dati relativi alle unioni italiane tengano conto delle loro caratteristiche ad ottobre 2013 e fanno riferimento ad una indagine condotta da ANCI-IFEL. 8 Considerando le nuove soglie dimensionali previste dal decreto Delrio, queste 13 unioni non sarebbe più accettabili, con esclusione di una di esse (la nuova Unione montana Alpago) che, pur non raggiungendo la soglia prevista (conta 9.983 abitanti), è esonerata dal vincolo perché si trova ad essere in zona montana.

10

Graf. 2. Unioni di comuni (Veneto, Emilia-Romagna, Italia) per numero di comuni coinvolti (valori percen-tuali)

Graf. 3. Numero di unioni di comuni (Emilia-Romagna, Veneto, Italia) per popolazione residente in unione (valori percentuali)

Al contrario, le unioni dell'Emilia-Romagna oltre che coinvolgere un numero medio di abi-tanti per unione molto maggiore rispetto al Veneto (rispettivamente 55.077 di contro i 18.232 della ex regione bianca) e contare ben 19 casi di unione con oltre 50.000 abitanti (graf. 4), si caratterizza-no per una loro maggiore superficie (graf. 5) e una loro minore densità abitativa (graf. 6). Al contra-rio, il Veneto presenta un andamento quasi opposto. Su questa differenza incidono le considerazioni poc'anzi fatte sulla diversa propensione dei comuni emiliani di grande dimensione di gestire in u-nione le proprie funzioni.

17,415,2

23,9

41,3

2,2

58,6

10,3

24,1

3,4 3,4

33,2

16,5

27

17,8

5,4

0

10

20

30

40

50

60

70

Tra 2 e 3

comuni

4 comuni Tra 5 e 6

comuni

Tra 7 e 10

comuni

Più di 10

comuni

Emilia-Romagna

Veneto

Italia

2,2

10,913,0

32,6

41,3

13,8

48,3

6,9

27,6

3,4

8,19,7

38,6

18,415,7

9,5

0

10

20

30

40

50

60

Fino a 3.000

ab.

Tra 3.001 e

5.000 ab.

Tra 5.001 e

15.000 ab.

Tra 15.001 e

25.000 ab.

Tra 25.001 e

50.000 ab.

Più di 50.000

ab.

Emilia-Romagna

Veneto

Italia

11

Graf. 4. Numero di unioni di Comuni (Emilia-Romagna, Veneto, Italia) per classi di abitanti in unione (va-lori assoluti)

Graf. 5. Numero di unioni di comuni (Emilia-Romagna, Veneto, Italia) per classi di superficie (valori asso-luti)

Graf. 6. Numero di unioni di comuni (Emilia-Romagna, Veneto, Italia) per densità abitativa (valori assoluti)

1

32

9

12 12

7

4

9

5

7

3

1

0

2

4

6

8

10

12

14

Emilia-Romagna

Veneto

1

7

38

6

15

53

0

5

10

15

20

25

30

35

40

<50 kmq 50-100 kmq 100-150 kmq >150 kmq

Emilia-Romagna

Veneto

1615 15

6

13

7

3

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

<100 ab/kmq 101-200

ab/kmq

201-500

ab/kmq

>500 ab/kmq

Emilia-Romagna

Veneto

12

Graf. 7. Numero di unioni di comuni in Emilia-Romagna per provincia (valori assoluti)

Graf. 8. Numero di unioni di comuni in Veneto per provincia (valori assoluti)

Distribuzione provinciale delle unioni. Mentre le unioni dell'Emilia-Romagna sono presenti soprat-tutto nelle province della parte occidentale della Regione (graf. 7), quelle venete si concentrano principalmente in tre province (Padova, Verona, Vicenza) e si conta un solo caso nelle province di Rovigo e Treviso (graf. 8). Per meglio comprendere questa differenza è però opportuno analizzare la coincidenza at-tualmente presente tra le unioni emiliano-romagnole, gli ambiti e i distretti socio-sanitari individuati a seguito del processo concertativo avutosi nel 2013 (tab. 7). Mi preme sottolineare come la perfetta coincidenza tra unione e distretto, se da un lato garantisce la massima integrazione tra attività di in-dirizzo e di programmazione, dall'altro potrebbe portare alla creazione di dis-economie di scala in presenza di una superficie totale dell'unione troppo grande da garantire la massima integrazione or-ganizzativa tra tutti i comuni coinvolti. Quindi, più indicativa è la coincidenza tra ambiti e unioni. Si osservi come, nonostante la provincia di Piacenza presenti il numero maggiore di unioni sul terri-torio, solo 5 di esse coincidono con gli ambiti e nessuna con i distretti, i quali tra l'altro non coinci-dono neanche con gli stessi ambiti. È possibile riscontrare gli stessi problemi anche nelle province di Parma e di Bologna. In quest'ultima però la definitiva costituzione della futura città metropolitana porrà fine ai problemi di scarsa sovrapposizione funzionale presenti nell' hinterland bolognese. Ov-

9

6

7

6

8

3

2

3

2

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

Piacenza Parma Reggio

Emilia

Modena Bologna Ferrara Ravenna Forlì

Cesena

Rimini

3

8

1 1

2

7 7

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

Belluno Padova Rovigo Treviso Venezia Verona Vicenza

13

viamente, lo stesso varrà anche per i territori circostanti Venezia, nella cui provincia si contano oggi solo 2 casi di unione9. La situazione è senz'altro migliore nelle province di Reggio Emilia, Modena e Forlì-Cesena dove diverse unioni coincidono sia con gli ambiti che con i distretti, rispetto al ferra-rese dove la trasformazione delle Associazioni in unioni risulta essere più problematica10. Analogamente a quanto già sta accadendo in Emilia-Romagna, tra gli obiettivi della l.r. ve-neta 18/2012 vi è anche quello di garantire nei prossimi anni la massima coincidenza tra le unioni e gli ambiti adeguati ed omogenei, nel rispetto del principio di integrazione tra ambiti di gestione ed ambiti di programmazione. In tal senso, la strada è già stata tracciata dalla Federazione dei Comuni del Camposampierese, sorta dalla fusione per incorporazione dell'Unione dei Comuni del Campo-sampierese e dell'Unione dell'Alta Padovana e che è arrivata a costituire un Intesa Programmatica di Area (IPA)11. Tab. 7. Distribuzione provinciale dei distretti socio-sanitari, degli ambiti e delle unioni di comuni/unioni montane in Emilia-Romagna (aprile 2014)

Provincia N° Distretti N° Ambiti N° Unioni N° Unioni

coincidenti con Ambito

N° Ambiti coin-cidenti con Di-

stretti

N° Unioni coincidenti con

Distretto

Piacenza 3 8 9 5 0 0 Parma 4* 5 6 1 2 0 Reggio Emilia 6* 7 7 7 5 5 Modena 6 6 6 4 6 4 Bologna 7 7 8 4 5 3 Ferrara 3* 5 3 2 1 0 Ravenna 3* 3 2 2 2 2 Forlì-Cesena 3* 3 3 3 3 3 Rimini 2* 2 2 0 1 0

Totale 37 46 46 28 25 17

Nota (*): Distretti che includono anche il capoluogo di Provincia (nel caso di Forlì-Cesena entrambe le città appartengono ad un di-verso distretto)

Fonte: mia elaborazione su dati Regione Emilia-Romagna (2014) Modelli relazionali delle unioni. Prendendo come riferimento i "modelli aggregativi" proposti da ANCI-IFEL in diverse ricerche nazionali sul tema e, da ultima, quella del 2013, è possibile confron-tare le caratteristiche della struttura interna delle unioni emiliane e venete considerando congiunta-mente sia il numero che la popolosità dei comuni coinvolti (graf. 9). Anche in questo caso l'Emilia-Romagna sembrerebbe essere in controtendenza rispetto al resto del territorio nazionale, mentre il Veneto continua a presentare diverse similarità con il resto delle unioni italiane. Anzitutto, il fenomeno delle "unione coppie" formate da due soli comuni è pressoché inesi-stente in Emilia-Romagna (2,2% del totale), mentre continua a rappresentare un fenomeno diffuso in Veneto (25%), ancor più che nel resto d'Italia (15,4%). Analogamente, le unioni venete tendono ad aggregare tra loro solo comuni di piccole dimensioni con una popolazione inferiore ai 5.000 abi-tanti (46,4%). Diversamente, la maggiore diffusione in Emilia-Romagna di "unioni arcipelago"12

9 Si tratta dell'Unione dei Comuni Fossalta di Portogruaro e Teglio Veneto e l'Unione dei Comuni Città della Riviera del Brenta. 10 Sulla base di alcune interviste condotte sul campo nel giugno 2013, le principali difficoltà che le Associazioni Inter-comunali ferraresi stanno riscontrando nella loro fase di trasformazione in unioni sono sia di natura organizzativa, so-prattutto per la messa in rete della funzione di polizia municipale, che politica, per via della presenza di alcuni ammini-stratori locali ancora piuttosto litigiosi. 11 Cfr. Gallo (2009); Fattore e Gallo (2013). 12 Si tratta di unioni in cui comuni di dimensioni diverse si aggregano in base alle specifiche esigenze del territorio.

14

(45,7%) è indicativa del fatto che questo istituto venga sempre più percepito come uno strumento indispensabile per la gestione del territorio, spingendo pertanto i comuni ad associarsi indipenden-temente dalle loro dimensioni ma nel rispetto del criterio della continuità territoriale e della coinci-denza con ambiti e distretti. Infine, l'Emilia-Romagna presenta un numero significativo di "unioni satellitari" (26,1%) composte da comuni di media/piccola dimensione che "gravitano" intorno ad un centro di maggiori dimensioni e quindi capace di esercitare sui comuni circostanti un certo grado di influenza, anche di natura politica. In questi termini, la presenza di un grande comune, anche capo-luogo, può essere letta come una sua volontà di voler garantire un presidio costante sul territorio. Per esempio, oltre il caso di Imola e del Nuovo Circondario Imolese, si osservi come sia Forlì che Cesena abbiano dato vita nel gennaio 2014 a due diverse unioni13, entrambi coincidenti sia con l'ambito che con il distretto. Così facendo, i comuni più grandi (e i rispettivi sindaci) riescono a ga-rantirsi una qualche forma di governance politica a livello sovracomunale, cercando di estendere le loro relazioni di potere anche su amministrazioni di diverso colore politico. D'altro canto, i comuni più piccoli vedono la loro adesione ad una unione di ampie dimensioni come un modo per dar loro "visibilità" agli occhi della Regione14. Graf. 9. Classificazione delle unioni di Comuni (Veneto, Emilia-Romagna, Italia) per modello relazionale adottato (valori percentuali)

4. Perché la comparazione per contesti? Nel contesto della cooperazione intercomunale, Hulst e van Montfort (2007, 12) assumono che gli attori coinvolti siano attori razionali e goal-oriented e che utilizzino il loro potere per raggiungere i propri scopi. Ma allo stesso tempo ritengono che le istituzioni esistenti modellino le preferenze de-gli attori e il modo in cui essi definiscono i loro interessi e i loro obiettivi, oltre che essere portati a

13 Si tratta rispettivamente dell'Unione dei Comuni della Romagna Forlivese e dell'Unione dei Comuni Valle del Savio. Nell'aprile 2014, i restanti comuni della parte orientale della provincia si sono associati dando vita all'Unione Rubicone e Mare, anch'essa coincidente sia con l'ambito che con il distretto. 14 Emblematica una nota del gruppo consiliare di maggioranza Pd del comune di Bagno di Romagna (6.134 abitanti e facente parte l'Unione con Cesena capofila), in cui si legge: «Non saranno toccati dal processo di Unione né i municipi né i loro poteri e la loro autorevolezza. [...] In ogni caso riteniamo sia difficile pensare ad una unione piccola e povera. Secondo noi la partecipazione di Cesena è importante per acquisire peso e ascolto sulla scena regionale. [Inoltre] lo stesso punto nevralgico di Palazzo Pesarini, che si è mostrato più volte di grande importanza per la montagna, difficil-mente potrebbe essere mantenuto da soli 4 Comuni con evidenti difficoltà» (da LaVoce.Forlì-Cesena, 14 agosto 2013 p. 21).

15,2

10,9

2,2

45,7

26,1

3,6

46,4

25,0

10,7

14,3

5,9

41,6

15,4

28,9

8,1

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

Solo grandi Solo piccoli Coppie Arcipelaghi Satellitari

Emilia-Romagna

Veneto

Italia

15

Contesto istituzionale nazionale

Quadro normativo regionale e strutture di incentivi

Policy Legacies

seguire le regole del gioco definite (sia formali che informali) ed embedded nel contesto di riferi-mento. Limitatamente al caso italiano, è però opportuno cogliere l'identità politica degli attori coin-volti (amministratori provinciali e locali, società civile e associazioni di rappresentanza) come fa-centi parte di un contesto territorialmente e storicamente definito. Occorre, insomma, ricostruire quel sistema concreto di azione (Crozier e Friedberg 1978) che contribuisce a regolare il comporta-mento degli attori nel singolo contesto culturale ed istituzionale di riferimento. Pur dovendo agire entro un quadro normativo comune, al singolo legislatore regionale è richiesto di confrontarsi con una pluralità di contesti provinciali e locali tra loro non sempre omogenei e le cui eredità storiche continuano a rappresentare una «inerzia istituzionale» al cambiamento. Pertanto, ai concetti base dell'istituzionalismo sociologico (March e Olsen 1989; Powell e Di Maggio 1991; Scharpf 1997) utilizzati da Hulst e van Montfort, si preferiscono quelli ascrivibili alla sua matrice storica (Krasner 1984, Evans, Rueschmeyer e Skocpol 1985, Granovetter 1985, Steimno, Thelen e Longstreth 1992), con un chiaro rimando all' historical institutionalism di Rokkan (1980;1984). In virtù di queste con-siderazioni si spiega la scelta della comparazione per contesti. Distinguendosi dalla comparazione di dati statistici decontestualizzati, la comparazione per contesti (Gangemi 1990;2009, Messina 2001;2012) necessita della conoscenza il più approfondita e densa possibile (thick description) degli oggetti di ricerca (Geertz 1973). Essa consiste nel confron-tare due o più casi attraverso uno studio approfondito di ciascuna istituzione all'interno del proprio campo organizzativo e, mediante la costruzione di un (indispensabile) framework teorico (fig. 1), far «assumere, a volte anche a un piccolo dettaglio, il valore decisivo di stabilire una analogia o una differenza» (Gangemi 2009, 2). Utilizzando congiuntamente variabili istituzionali e variabili culturali, permette di coniugare l'approccio neo-istituzionalista con l'analisi delle culture politiche locali proponendo un' approccio ecologico all'analisi delle politiche pubbliche (Messina 2006). Pertanto, la comparazione per conte-sti può tornare utile ai fini dell' analisi delle politiche regionali di incentivazione all' associazioni-smo intercomunale perché permette di comprendere persistenze e mutamenti delle logiche d'azione degli attori coinvolti nel contesto della cooperazione, mediante un'analisi approfondita delle culture politiche ad essi correlate, della cultura di governo locale e delle prassi amministrative consolidate, oltre che dei gradi di libertà entro cui i singoli attori si sono trovati tradizionalmente ad agire. Fig. 1. La costruzione di un framework teorico

Fattori di contesto regiona-li:

- Aspetti geo-morfologici e demografici - Cultura civica - Rendimento Istituzionale - Policy style

Dimensioni della cooperazione inter-comunale:

- Funzione degli accordi; - Scopo della cooperazione; - Grado di istituzionalizzazione; - Rappresentanza e accountability.

16

Sulla base del framework elaborato, si ritiene che esistano diversi elementi contestuali che possano spiegare l'andamento e le performance delle pratiche di cooperazione intercomunale. Ap-purato che le istituzioni tendono a consolidarsi nei contesti in cui sorgono (Granovetter 1985), lo studio delle policy legacies e delle pratiche di associazionismo intercomunale (per lo più volontario) radicate nel tempo nei singoli contesti è condizione necessaria per la comprensione delle linee di sviluppo futuro entro cui la cooperazione intercomunale tenderà ad articolarsi. Nella selezione dei fattori di contesto sono state selezionate sia variabili politico-istituzionali che socio-culturali, oltre che quelle più generali relative alle caratteristiche geo-morfologiche e de-mografiche delle due regioni. Questa scelta nasce dalla necessità di mostrare non solo in che modo i singoli contesti locali si possano differenziare in termini di ampiezza demografica e di presenza di piccoli e piccolissimi comuni, ma anche al fine di interrogarsi sul diverso ruolo assunto dalla Re-gione nel predisporre scelte strategiche mirate in chiave di rifunzionalizzazione e rivitalizzazione dei singoli territori. Considerazioni di questo tipo non possono però essere isolate dalla più ampia comprensione del diverso stile decisionale-amministrativo (policy-style) radicato, sia a livello re-gionale che provinciale. La thick description dei (due) casi intende guardare anche alle tradizioni di civiness radicate nel tempo e all'effettivo rendimento istituzionale delle singole regioni. 5. I risultati della comparazione dei fattori di contesti I riferimenti intorno a cui si strutturano le principali differenze tra i due contesti analizzati rimandano indubbiamente alle due diverse matrici subculturali (rossa e bianca) intorno a cui, stori-camente, la politica locale veneta ed emiliana è stata costruita negli anni. Una prima differenza riguarda la diversa relazione che intercorre tra città e campagna. Men-tre in Emilia-Romagna si registra una maggiore concentrazione della popolazione nei centri urbani medio-grandi, il Veneto presenta una dispersione dei centri abitati nella campagna industrializzata. Come noto, la risultante è una dicotomia "saldatura/frattura" che ha contribuito a produrre due di-versi modi di sviluppo urbano, di gestione della governance delle politiche di area vasta e di conce-zione delle moderne city regions (Scott 2001; Kantor 2010). L'insediamento prevalentemente rurale dell'associazionismo cattolico e il localismo antistatalista di matrice bianca continuano a rappresen-tare una certa «inerzia istituzionale» al cambiamento nella classe politica locale dei numerosi picco-li comuni periferici dell'area del Veneto centrale, specie di fronte ad una nuova idea di metropoliz-zazione della Regione. Di contro, la radicata tradizione del socialismo municipale a cui è seguita a partire dagli anni Ottanta la costruzione di un'articolata rete tra i vari enti locali regionali, ha reso possibile una maggiore centralità del ruolo assunto dalle città e una progressiva espansione urbana intorno al suo hinterland. Rispetto al Veneto, questo è stato reso possibile soprattutto grazie alla presenza di una maggiore omogeneità di colore politico tra i vari livelli di governo interessati. Ciò ha recentemente permesso la promozione di una politica di incentivazione alla cooperazione di sca-la intercomunale con la presenza determinante del Comune principale (Regione Emilia-Romagna 2010, 68). Infatti, la Regione ha voluto evidenziare la necessità di governare in modo unitario le relazioni e le esternalità dei sistemi urbani attraver-so forme di cooperazione intercomunale, lungo la linea dei processi di unione e di associazione fra Comuni sviluppati nel recente passato in Emilia-Romagna. Tali processi, volti a dare razionalità ed efficienza al go-verno del territorio, hanno trovato una significativa diffusione nella fascia centro-orientale della regione e nello spazio montano e, in taluni casi, ci si è spinti fino all’elaborazione in forma associata degli strumenti di pianificazione. È importante che queste esperienze positive si diffondano e, in particolare per quanto riguar-da la pianificazione urbanistica, si allarghino ai Comuni capoluogo che sono di fatto le core areas delle ri-spettive città effettive (ibidem, 67). Inoltre, è possibile riscontrare una maggiore capacità programmatoria della Regione Emilia-Romagna nelle diverse fasi di implementazione del federalismo amministrativo e fiscale, attraverso

17

uno stile di governo incentrato interamente sulla concertazione. Di contro, il cambiamento più for-male che sostanziale registrato in Veneto a partire dalle riforme Bassanini degli anni Novanta è spiegabile soprattutto con la debolezza della società politica e della classe amministrativa, per via di quella peculiarità delle matrici subculturali cattoliche e antistataliste che hanno individuato nel «go-vernare mediando, ma senza programmare» il loro modus operandi (Messina 2001; 2012). Analogamente, diversi autori hanno recentemente sottolineato la persistenza di un diverso policy style regionale (interventista/non interventista) e di una maggiore capacità programmatoria della Regione Emilia-Romagna in diversi settori di policy: nelle politiche sociali e nelle politiche per i servizi reali alle imprese (Messina 2012), nelle politiche di accesso ai fondi comunitari e al lo-ro uso (Profeti 2013), nelle politiche per gli immigrati (Caponio e Campomori 2013) e nelle politi-che sanitarie (Pavolini e Vicarelli 2013). Inoltre, questa diversa cultura di governo locale sta alla base di una diversa interpretazione del concetto di programmazione negoziata e di governance, pre-valentemente di natura politica nel caso del «modello emiliano» e di natura economica nel caso del Veneto (Messina 2001;2012), a cui seguono livelli di rendimento istituzionale più elevati (Putnam 1993; Vassallo 2013) ed un maggiore stock di capitale sociale in tutte le province dell' Emilia-Romagna (Cartocci 2007). Al riguardo, un dirigente regionale intervistato ha dichiarato: Nonostante tutte le varie peculiarità culturali e geografiche dell'Emilia-Romagna, la Regione ha sempre lavo-rato in sinergia con i comuni per la creazione di una governance del territorio moderna. Questo rientra nella storia dell’Emilia-Romagna dove si vede la differenza tra la parte Nord (la parte di Parma e Piacenza) che gravitò nella tradizione lombardo-veneto… e invece l’esperienza del resto della regione della Romagna dove l’influenza napoleonica fu il vero grande ridisegnatore dei confini dei nostri comuni che aveva già adottato in origine il territorio regionale di un ossatura non micro. Negli anni le scelte politiche della Regione e dei par-titi politici che hanno governato questo ente e gli enti locali è stata quella di non affidarsi al caso... lo spirito della Regione è sempre stato quello di guardare in avanti...di accompagnare e trascinare in un certo senso. La storia degli amministratori dell’Emilia-Romagna a tutti e tre i livelli è una storia molto coerente che ha porta-to avanti questo stile amministrativo, anche rispetto non solo alla regioni del Sud ma anche al lombardo-veneto, che pure ha un tessuto molto simile al nostro di piccola media-impresa e di benessere, pur avendo sempre avuto un’attenzione maggiore alla coesione territoriale e alla coesione sociale. Questo è il modello emiliano, Guido Fanti lo chiamava così. La forza di quel modello non è fossilizzarsi ma cercare di governare il cambiamento (ER, 2). Pertanto, le maggiori difficoltà attualmente riscontrate nel parmense e nel piacentino si spie-gano sia per la maggiore presenza in questi territori di piccoli e piccolissimi comuni prevalentemen-te montani rispetto alle altre province della regione15, sia per la radicata concezione di federalismo antropologico, tra l'altro ereditata dalla Lega, e in antitesi con un'idea di federalismo fondata sugli enti locali, ancora prevalente nelle province centro-orientali della regione. Continuando l'analisi da un'ottica provinciale, occorre menzionare il caso della provincia veneta di Treviso che presenta una distribuzione delle forme associative più ordinata e meno caratterizzata da sovrapposizioni funzio-nali. Come visto, in questa provincia sono presenti cinque dei dieci consorzi finanziati dal 1999 al 2013 dalla Regione Veneto-Direzione Enti Locali mentre si registra la presenza di una sola unione di comuni16. Alcuni autori (Jori 2009, Liverta e Zagato 2009, Messina 2013) hanno posto l'accento sul ruolo di guida e sostegno ai piccoli comuni storicamente svolto dall'ente provinciale. Quest'ul-timo è stato per lungo tempo governato dalla corrente fanfaniana della DC, notoriamente più laica rispetto a quella clericale della corrente dorotea e caratterizzata da un modo di regolazione diverso rispetto a quello dominante nel resto della regione. Al di là della diversa interpretazione che può essere data ai casi provinciali menzionati, essi mostrano come alle singole Regioni sia sempre più richiesto un lavoro d'insieme, capace di gover-

15 Nelle sole province di Parma e Piacenza sono presenti il 39% dei piccoli comuni emiliano-romagnoli con meno di 5.000 abitanti. 16 Si tratta dell' Unione dei Comuni Cimaldono, Ormelle e San Polo di Piave costituita nell'ottobre 2012.

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nare l'eterogeneità dei singoli contesti locali e provinciali e le diverse tradizioni di governo locale presenti.

6. Evoluzione delle singole policies regionali Per ciascuno dei tre steps della riforma istituzionale individuati, la comparazione verrà svolta sulla base di sei diverse dimensioni analitiche: le forme associative ammesse a contribuzione, la leva de-gli incentivi finanziari, l'apposizione/non apposizione di vincoli normativi per l'accesso ai contribu-ti, l' integrazione tra ambiti di gestione e ambiti di programmazione, la gestione della sovrapposi-zione tra forme associative diverse, l'uso della persuasione. Ciascuna di esse è indicativa del diverso ruolo che la Regione può assumere in questo settore di policy e permette di riempire di significato il framework teorico costruito. Le forme associative ammesse a contribuzione Analizzare i diversi tipi di forme associative che, attualmente o in passato, le regioni hanno ammes-so a contribuzione significa interrogarsi sul diverso grado di istituzionalizzazione che si intende da-re alla cooperazione intercomunale, massimo nel caso delle unioni, intermedio nel caso delle Asso-ciazioni Intercomunali e minimo nel caso delle convenzioni e dei consorzi monofunzionali. Emilia-Romagna. Non avendo mai previsto alcuna forma di contribuzione per i semplici consorzi e per le convenzioni, già con la l.r. n. 3/1999 aveva previsto la creazione delle Associazio-ni Intercomunali, una soluzione intermedia tra la semplice convenzione (spesso monofunzionale) e l'unione di comuni perché caratterizzata da un'insieme coordinato di più convenzioni, pur priva di personalità giuridica (Parmentola 2005, 208). La sua "invenzione" ha risposto alla necessità di accompagnare l’avvio di politiche comuni di associazioni-smo su tutto il territorio attraverso l’utilizzo di uno strumento nuovo, più flessibile e che rispecchiasse le rea-li esigenze delle amministrazioni locali (ER, 3). Il secondo step della riforma, con la l.r. 10/2008, ha visto progressivamente il venir meno dei finanziamenti sia alle Associazioni Intercomunali che alle comunità montane, individuando at-tualmente l'unione di comuni quale unica forma associativa ammessa a contribuzione. Per le prime, era stata prevista per il solo 2009 la concessione di contributi straordinari, qualora avessero previsto una loro trasformazione in unione entro il 31/12/2009. Invece, nel caso delle comunità montane la Regione ha scelto di incentivare esclusivamente quelle di nuova istituzione, in vista di una loro tra-sformazione in unioni montane. Come emerge dal graf. 10, queste previsioni hanno contribuito all'incremento della percentuale del numero di comuni associati in unione negli anni. Veneto. Al contrario, l'evoluzione della policy regionale veneta ha seguito un percorso più lineare e meno soggetto a variazioni significative all'interno del sentiero intrapreso, anche in virtù delle legacies negli anni consolidatesi. Infatti, attualmente le forme associative ammesse a contribu-zione continuano ad essere di diversa natura e di carattere più o meno stabile: unioni di comuni, u-nioni montane, convenzioni e consorzi. La ratio di quest'ultima scelta, squisitamente regionale e non contemplata nella legislazione nazionale17, nasce dal riconoscimento della natura dei consorzi quali strumenti diffusi di gestione dei servizi, soprattutto da parte delle piccole realtà comunali. In-fatti, la “prerogativa” legislativa presente dentro l'art. 6 della legge 18 che dice che i Consorzi monofunzione co-stituiti prima dell'entrata in vigore della norma continueranno ad essere finanziati, nasce dalla necessità di

17 Piuttosto, la L. 191/2009 aveva previsto una soppressione dei consorzi su scala nazionale.

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prendere atto della storia particolare del Veneto dove sono presenti i più vecchi consorzi di polizia locale d'I-talia, quello di Schio e Tiene a Vicenza...tra l'altro molto ben funzionanti (VEN, 12). Dopo tutto, fino a poco tempo fa la Lega non vedeva con favore le unioni e riteneva che l’associazionismo intercomunale fosse da esplicitarsi esclusivamente mediante convenzioni o consorzi [...] perché più appropriati alla cultura di governo dei comuni veneti (VEN, 3). Graf. 10. Distribuzione delle diverse forme associative intercomunali in Emilia-Romagna (anni 2009, 2010, 2014, valori percentuali)

Criteri di erogazione dei contributi e criteri incentivanti: la leva degli incentivi finanziari Anche la scelta dei tipi di incentivi concessi, delle forme associative ammesse ai vari contributi pre-visti, nonché la previsione di specifici criteri incentivanti, deve essere interpretata guardando con-temporaneamente alle previsioni normative nazionali e alle specificità dei singoli contesti oggetto di analisi. Emilia-Romagna. Già con la l.r. 3/99, la Regione Emilia-Romagna aveva previsto la conces-sione di un duplice canale di contribuzione: un contributo straordinario per la fase di prima costitu-zione e uno ordinario, di natura decennale. Successivamente, con la l.r. 11/2001, è intervenuta pre-vedendo criteri di maggiorazione degli incentivi a favore di realtà di minore densità demografica e in presenza di modelli organizzativi associativi che realizzassero la massima integrazione tra perso-nale e strutture. Con la successiva delibera di giunta regionale n. 629/2009 era stato previsto, per il solo 2009, un ulteriore contributo per le forme associative in trasformazione, come le unioni di nuova i-stituzione e nate o da fusione di due precedenti unioni o da trasformazione da comunità montane. Allo stesso modo si spiega la scelta di voler continuare a finanziare tramite questo tipo di contribu-zione anche le Associazioni Intercomunali che avessero dato promessa di trasformazione in unione entro l'anno. Pertanto, la delibera n. 629 si è trovata ad intervenire in una fase di transizione nelle politiche regionali di incentivazione alle forme associative, che già a partire dal 2008 mirava verso il consolidamento di forme stabili di cooperazione in una logica di area vasta. Per queste ragioni, la Regione ha previsto la concessione massima dei contributi straordinari iniziali per quelle unioni che coinvolgessero più di otto comuni, rispetto alle 4-6 unità previste dal Prt del 2001.

21,412,9

3,7

36,1

26,1

32,0

47,4

83,0

10,5 13,5 12,0

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

2009 2010 2014

Comuni non associati

Comuni in Uc

Comuni in CM

Comuni in Aic

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Analogamente, anche l'erogazione del contributo ordinario annuale è stato rivisto in maniera significativa. Questo è stato possibile affiancando al precedente (e unico) criterio della densità de-mografica anche quello relativo alla popolazione dell'ente e al numero dei comuni coinvolti, al fine di premiare forme associative più popolose (con oltre 50.000 abitanti coinvolti) e formate da oltre 9 comuni, pur conservando il criterio premiale per le forme con minore densità demografica (al di sot-to dei 100 ab./kmq). Questa rimodulazione è stata l’esito di un processo di concertazione avviato con i comuni emiliani e quelli romagnoli…che presentano una grande eterogeneità al loro interno. Quella attuata dalla Regione è stata una scelta squisitamente politica, alla ricerca di un compromesso tra le parti. Questa scelta ha trovato l’apprezzamento dei comuni montani per quel che riguarda il criterio della densità demografica perché si dava un contributo leggermente più elevato ai comuni con densità demografica minore. Il criterio della popolazione ha invece trovato più d’accordo gli ambiti grandi e quelli di pianura perché l’ingresso di un comune popoloso incide favorevolmente per l’accesso ai contributi. Già con questa delibera si è cercato di creare degli strumenti di incentivazione che iniziassero ad indirizzare le forme associative a “rincorrere” i distretti, in una logica di efficienza (ER, 3). Infine, pur non prevedendo la possibilità di accesso ai contributi alle unioni nate da trasformazione da comunità montane, al fine di sostenerle nel loro percorso di ampliamento e consolidamento la norma ha previsto per le unioni neoistituite e per quelle che ampliassero il loro ambito territoriale, includendo nuovi comuni che non appartenevano ad alcuna unione, la possibilità di scelta tra l'erogazione del contributo straordinario nella sua totalità e tra il contributo ordinario, con una maggiorazione del 40% del contributo straordinario regolarmente previsto. Così facendo, la Regione è riuscita a consolidare già nel 2009 la diffusione delle unioni sul territorio, attualmente le uniche forme associative che possono ricevere entrambe le forme di finanziamento previste. Veneto. La politica regionale veneta segue perfettamente i tre steps della riforma individuati. Anzitutto, fino al 2005 la Regione Veneto erogava solo contributi in conto investimento o per le spese di primo impianto per convenzioni, consorzi e unioni o per quelle che prevedessero ad estendere o il numero delle funzioni svolte o il numero di comuni coinvolti dal processo associativo. Per esempio, la delibera di giunta regionale n. 1616 del 52 maggio 2004 poneva come criterio prio-ritario quello di finanziare le unioni sorte in quell'anno, prevedendo la copertura dell'80% delle spe-se sostenute e di forme di maggiorazione pari al 5% per quelle unioni che coinvolgessero almeno tre comuni con meno di 5.000 abitanti. La medesima raccomandazione è contenuta anche nella delibera relativa a convenzioni e consorzi18 che andava a premiare anzitutto le forme associative sorte nell'anno e con comuni con meno di 5.000 abitanti. Insomma fino al 2005, il policy maker veneto si è interessato esclusivamente a finanziare lo start-up (Salvato 2009, 156) di tutte le forme associati-ve regionali che a macchia di leopardo sono sorte in tutto il territorio. L'adesione all'Intesa Stato-Regioni-EE.LL. ha obbligato la Regione a rivedere la natura del contributo da concedere alle forme associative, al fine di poter accedere ai finanziamenti statali e poterli «regionalizzare». Pur mantenendo la possibilità che consorzi e convenzioni potessero essere beneficiari dei finanziamenti in conto capitale, ha previsto che solo le unioni di comuni e le comuni-tà montane potessero accedere ai contributi ordinari, annualmente concessi. Anche in relazione alle caratteristiche dei territori veneti e delle diverse forme associative che in quegli anni iniziavano a consolidare il proprio esercizio, la Regione ha previsto che solo il 30% dei singoli incentivi venisse erogato in relazione all'esercizio associato di funzioni certificate, come risultanti dai bilanci. Il re-stante 70% avrebbe dovuto prendere in considerazione specifici criteri di aggregazione determinati da parametri quali il numero di comuni coinvolti, l'entità demografica della popolazione coinvolta e il tipo e il numero di funzioni svolte.

18 Cfr. delibera di giunta regionale n. 1615 del 26 maggio 2004.

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Analizzando i principali orientamenti di policy emersi dall'analisi delle delibere di giunta regionali che vanno dal 2006 al 200919 si può osservare come il contributo ordinario sia stato utilizzato in via prioritaria per l'incentivazione di unioni di comuni e in secondo luogo per le comunità montane. Relativamente al punteggio maggiore previsto tra i vari fattori di aggregazione, maggiore priorità è stata data alla costituzione di unioni di media dimensione (tra i 10.000 e i 20.000 abitanti), con più di 5 comuni coinvolti, con minore densità demografica e in prevalenza sotto i 3.000 abitanti20. In sintesi, dal 2006 la Regione Veneto ha optato per un unico orientamento comune di policy in relazione all'utilizzo sia del fondo regionale per il contributo ordinario sia del contributo statale che viene effettuato sulla base degli stessi criteri regionali stabiliti dalla giunta regionale per beneficiare del contributo ordinario21. La priorità viene anche in questo caso data alle unioni, alle quali spetta una quota pari al 60% dell'ammontare del fondo. Ma il dato più significativo arriva dall'analisi dei contributi in conto investimento previsti nelle varie delibere di giunta regionale dal 2004 al 201022. Essa permette di spiegare l'elevato turn-over delle unioni e i diversi casi di potenziamento dei servizi e di investimento per il miglioramento dei consorzi monofunzionali finanziati dal 2004. Infatti, per tutte e quattro le forme associative la Regione aveva posto come criteri prioritari e incentivanti per l'accesso ai contributi sia l'adesione di nuovi comuni, il trasferimento di nuove funzioni e/o un loro miglioramento, sia l'appartenenza all'ente di comuni di piccole dimensioni. Per convenzioni, consorzi e comunità montane almeno due con meno di 2.000 abitanti mentre per le unioni la priorità è stata data a quelle che associassero il maggior numero di comuni con meno di 5.000 abitanti. Questa scelta ha comportato il venir meno di una chiara distinzione tra la natura dei due diversi tipi di contributi concessi e, inevitabilmente, tra le stesse forme associative presenti. Ha inoltre indotto verso il consolidamento (e potenziamento) della gestione in consorzi e convenzioni e ha portato alla creazione di unioni piccole e piccolissime e con un numero limitato di funzioni gestite e di comuni coinvolti. Inoltre rispetto all' Emilia-Romagna, se fino al secondo step della riforma la Regione Veneto non aveva previsto il vincolo dell'integralità delle funzioni svolte per l'accesso ai contributi pre-miando le unioni unicamente sulla base della somma dei fattori di aggregazione assegnati, sarà solo con la l.r. 18/2012 che inizierà a prevedere la possibilità che i contributi vengano erogati solo se al-meno una funzione (nel caso di unioni montane o convenzioni) o almeno due (nel caso delle unioni) vengano trasferite in maniera integrale al nuovo ente, non lasciando in capo ai singoli comuni alcu-na funzione residuale. Ma la l.r. 18, pur prevedendo che a regime saranno quattro le funzioni fon-damentali che in maniera integrale tutte le forme associative dovranno svolgere, non prevede come ulteriore vincolo quello del trasferimento integrale e obbligatorio del personale alla nuova forma as-sociativa. Inoltre, nel caso delle unioni la quota relativa a tale vincolo23 è pari a solo il 30% dell'ammontare della quota totale, concedendo il restante 20% di contributo a tutte le unioni in parti uguali e continuando ad attribuire un 50% sulla base dei fattori di aggregazione. Quest'ultimi pre-mieranno maggiormente le unioni di medie dimensioni (tra i 20.000 e i 30.000 abitanti), con oltre 5 comuni coinvolti, con una propria autonomia finanziaria rispetto ai contributi ordinari e statali re-gionalizzati e con un valore demografico coincidente con l'area di riferimento.

19 Cfr. delibere di giunta regionale n. 1386 del 10 maggio 2006, n. 1055 del 17 aprile 2007, n. 1106 del 6 maggio 2008, n. 1070 del 21 aprile 2009. 20 In riferimento al tipo di funzioni (sia proprie che delegate) maggiormente incentivate, è stata data priorità alle funzioni amministrative, ai servizi sociali e domiciliari, al trasporto e alle mense scolastiche, alle attività legate al turismo, allo sportello per le imprese, all'urbanistica, ai lavori pubblici, alla gestione ambientale, al servizio informatico e al sistema informativo territoriale. 21 Cfr. delibera di giunta regionale n.1106 del 06 maggio 2008. 22

Cfr. delibere di giunta regionale n. 1614/1615/1616 del 26 maggio 2004, n. 1335 del 7 giugno 2005, n. 1702 del 30 maggio 2006, n. 1383/1384/1385 del 10 maggio 2006, n. 1056/1057/1058 del 17 aprile 2007, n. 1334/1335/1336 del 26/05/2008, n. 1068/1069 del 21/04/2009, n. 539/540/541 del 02/03/2010. 23 Cfr. delibera di giunta regionale n. 1660 del 07 agosto 2012.

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Durante il periodo transitorio, quale criterio premiale per l'erogazione dei servizi la giunta regionale ha individuato la fusione quale soggetto a cui con maggior auspicio i comuni dovranno tendere. Per le forme associative, invece, la Regione si impegna a finanziare solo quelle che rispet-tino le dimensioni territoriali ottimali delle forme associative previste nel piano di riordino territo-riale (e i rispettivi standard demografici, di comuni associati e di funzioni gestite previsti). Quanto alle premialità previste, la l.r. 18/2012 intende incentivare quelle unioni che coinvolgano sempre più sia i comuni obbligati che quelli non obbligati, che gestiscano in forma associata il numero maggio-re delle nuove funzioni fondamentali e il cui ambito territoriale coincida con uno o più distretti di settore o con un IPA (Intesa Programmatica d'Area), in conformità all'area ULSS. L'apposizione/non apposizione di specifici vincoli normativi per l'accesso ai contributi La comprensione dell'evoluzione delle singole politiche regionali di incentivazione all'esercizio as-sociato sarebbe incompleta se non si prendessero in considerazione anche i vincoli normativi impo-sti dalla Regione per poter accedere ai contributi, in termini di funzioni minime trasferite all'ente, natura del trasferimento, numero minimo di comuni coinvolti e popolazione complessiva minima coinvolta. Emilia-Romagna. L'analisi dell'evoluzione della policy regionale emiliano romagnola mostra come la Regione sia intervenuta già a partire dai primi anni duemila nella predisposizione di una se-rie di vincoli a cui le forme associative ammesse a contribuzione sarebbero state tenute a dover ri-spettare, tra cui la gestione della sovrapposizione territoriale. Per esempio, già con la l.r. 11/2001 erano state escluse dai finanziamenti le unioni endoco-munitarie, fenomeno che al tempo riguardava circa un terzo delle unioni nazionali. Successivamen-te, in attuazione ai principi di differenziazione ed adeguatezza sanciti dal nuovo Titolo V della Co-stituzione, la l.r. 6/2004 ha previsto che le funzioni venissero conferite non in maniera indistinta ma solo ai comuni capoluogo, ai comuni e alle unioni di comuni con una popolazione superiore ai 50.000 abitanti, spingendo pertanto verso il consolidamento o la nascita di enti di dimensioni me-dio-grandi. Altre due significative misure introdotte già a partire dal primo step della riforma hanno riguardato il venir meno di due vincoli precedentemente apposti. Il primo intervento ha introdotto la gestione associata interregionale e ha permesso che comuni tra loro non limitrofi e separati da un comune con una popolazione al di sopra dei 50.000 abitanti potessero dar vita ad un'Associazione Intercomunale. In questo modo la Regione ha cercato di allargare le possibilità di ricorso a tale strumento associativo. Analogamente, il secondo intervento, dopo una forte spinta bottom-up pro-veniente dalle varie realtà associative presenti, ha previsto a partire dal Prt 2002 di scorporare la macro voce "polizia municipale" entro tre sottovoci, ovvero "sicurezza urbana","polizia stradale" e "polizia amministrativa", apportando un incremento superiore al 600% nella sola funzione di polizia municipale dal 2001 al 2004 (Regione Emilia-Romagna 2005, 105). Nel secondo step della riforma, con la l.r. 18/2008, ha previsto il rispetto di quattro principi per l'accesso ai contributi, ovvero: i) una durata minima pari ad almeno cinque anni; ii ) un numero di comuni pari a quattro o pari a tre con popolazione superiore ai 15.000 abitanti; iii ) una giunta co-stituita da soli sindaci; iv) l'evidente raggiungimento di obiettivi di efficacia e di efficienza nella ge-stione associata. A ciò va ad aggiungersi anche il trasferimento integrale delle funzioni al nuovo en-te. Le deroghe poste in essere per i soli anni 2009 e 2010 miravano verso una trasformazione delle precedenti realtà associative in enti unione. Ciò ha reso possibile, attraverso la l. 21/2012, la possibilità per la Regione di porre come vincolo per l'accesso ai contributi quello della perfetta coincidenza tra ambito e unione, fermo restando la possibilità di erogare risorse ulteriori alle unioni coincidenti anche con i distretti. A ciò si sono accompagnati ulteriori e nuovi vincoli legati al trasfe-rimento di personale e risorse al nuovo ente e, con la l.r. 9/2013, anche l'obbligo di gestire in forma associata i sistemi informatici e le tecnologie dell'informazione, oltre ad ulteriori tre funzioni fon-damentali. Gli unici obblighi dimensionali attualmente posti dalla Regione riguardano i parametri

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minimi dei 10.000 abitanti per le unioni in territorio di pianura e degli 8.000 per quelle in territorio montano. Se nel secondo step della riforma le deroghe previste hanno reso possibile la trasformazione delle numerose Associazioni e Comunità montane in unioni di comuni, nel 2013 il legislatore re-gionale ha riposto le medesime deroghe anche per quegli enti che avessero proposto alla giunta re-gionale un'iniziativa legislativa per la fusione dei loro comuni. Pertanto, la virtuosità del policy maker regionale è legata alla sua indiscussa capacità di utilizzare in maniera armonica e mirata la leva dei vincoli normativi, rimodulando scelte precedentemente prese su richiesta delle singole amministrazioni locali e prevedendo deroghe per accompagnare il percorso evolutivo delle forme associative da meri enti economico-gestionali ad enti di indirizzo politico-strategico. Veneto. Di contro, la Regione Veneto ha iniziato a prevedere la presenza di vincoli normati-vi per l'accesso ai contributi regionali solo a partire dall'adesione all'Intesa del 2006. Per esempio, per l'erogazione dei contributi in conto investimenti era stato previsto il vincolo della durata quin-quennale per tutte le forme associative ammesse a contribuzione. Rispetto a convenzioni e consorzi, per le unioni di comuni iniziarono ad essere previsti requisiti minimi relativi al numero di funzioni gestite in forma associata, che nel 2009 passarono da 2 a 3, prevedendo inoltre che le singole fun-zioni dovessero essere gestite da tutti i comuni facenti parte l'unione. Con la l.r. 18/2012, in deroga rispetto alla normativa statale, la Regione Veneto è intervenu-ta ponendo a 5.000 il limite demografico minimo che le forme associative ammesse a contribuzione sono tenute a dover rispettare, prevedendo inoltre una specifica proroga per i comuni dell'area mon-tana e parzialmente montana che esercitino almeno 5 funzioni e per i comuni alloglotti. Quanto alle unioni montane (l.r. 40/2012), la Regione Veneto ha previsto una proroga al limite dei 5.000 abitan-ti qualora le funzioni siano esercitate da almeno 5 comuni; prendendo atto delle caratteristiche di al-cuni territori regionali, la Regione ha pertanto ipotizzato un processo soft di trasformazione per que-sti comuni, inibendo la possibilità di un loro accorpamento tramite fusione. I vincoli attualmente presenti per l'accesso ai contributi continuano ad essere quelli relativi al numero di funzioni gestite e alle dimensioni demografiche minime degli enti, non prevedendo ancora nessun vincolo per il numero minimo di comuni coinvolti in unione. Questa scelta aiuta a spiegare la proliferazione nel Veneto di unioni composte da soli 2-3 comuni. Quanto alle funzioni, se ne specificano almeno quattro fondamentali per le unioni e una per convenzioni e unioni monta-ne. Quanto alla popolazione complessiva, la norma fa riferimento ai livelli demografici previsti per ciascuna area omogenea, ovvero:

o Area montana, almeno 5.000 ab.; o Area elevata urbanizzazione, almeno 20.000 ab.; o Area basso Veneto, almeno 8.000 ab.; o Area Veneto centrale, almeno 10.000 ab.

Integrazione tra ambiti di gestione e ambiti di programmazione Un indicatore del livello di maturità di una politica regionale di incentivazione all’esercizio associa-to di funzioni e servizi è rappresentato dalla capacità della regione di far coincidere ed integrare gli ambiti di gestione ed erogazione dei servizi pubblici e i più generali ambiti di programmazione del-lo sviluppo a livello locale e che individuano nelle politiche di settore, in primis quelle socio-sanitarie, i principali ambiti di riferimento. Emilia-Romagna. Già con la l.r. 3/99 la Regione Emilia-Romagna aveva previsto la possibi-lità per gli enti locali di concordare autonomamente, seppur in raccordo con la regione, gli ambiti sovracomunali e la rispettiva forma associativa. Successivamente, la l.r. 22/2001, aveva previsto un raccordo tra l'individuazione degli ambiti ottimali e la disciplina dei criteri di concessioni dei con-tributi, pur prevedendo ancora che le forme associative strutturate sovracomunali ammissibili potes-sero essere sia quelle volontarie (Associazioni e unioni) sia le comunità montane. L'impianto nor-mativo all'interno del quale queste prime misure di integrazione iniziarono a prendere piede aveva

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visto una prima previsione del Piano di Riordino Territoriale a partire dalla l.r. 24/1996. Successi-vamente, esso ha visto uno spostamento di competenze dal Consiglio alla giunta al fine di accelera-re le tempistiche di approvazione, pur mantenendo in capo al Consiglio il compito di individuare gli indirizzo sulla base dei quali il Programma viene annualmente formulato. Seguendo una prassi negli anni ormai consolidata dalla Regione Emilia-Romagna, la legge n. 21 del 2012, ha ulteriormente previsto la volontà che fossero i comuni a formulare le proprie pro-poste d'ambito, seppur sulla base di criteri predeterminati atti ad assicurare un adeguato livello di gestione delle funzioni amministrative e nel rispetto delle specificità presenti nella regione rossa. La complessità della gestione delle funzioni e l'evidente eterogeneità geomorfologica dei territori inte-ressati ha indotto la Regione nel 2013 a costituire sub-ambiti all'interno di un ambito più grande, salvo obbligare ogni unione ad aderire ad uno solo di questi per poter accedere ai contributi. Veneto. Su questa dimensione, la Regione Veneto è intervenuta a partire dal 2005 preveden-do una prima forma di integrazione tra i distretti di polizia e la rispettiva gestione della funzione di polizia municipale entro i suoi confini tramite unione, convenzione o consorzio24. Ciò ha indotto numerose municipalità a dar vita a consorzi monofunzionali con un ampio numero di comuni coin-volti. Da ultimo, con la delibera di giunta regionale n. 1417 del 2013 è stato previsto un raccordo tra le zonizzazioni di settore individuate dalla normativa nazionale (distretti di protezione civile, so-cio-sanitari e di polizia locale) e le rispettive funzioni fondamentali dei comuni, così come indivi-duate nel DL 95/2012. Inoltre, la l.r. 18 prevede che, dopo un primo triennio e eventuali aggiusta-menti del Prt, gli attuali quattro livelli di governance individuati dovranno essere diminuiti, fissando l'ambito dell'ULSS come ambito prioritario e al quale gli ambiti di settore dovranno conformarsi. Questo nel rispetto di quattro principi base, così declinabili: semplificazione dei livelli, modularità e flessibilità della zonizzazione, integrazione tra ambiti di programmazione e ambiti di gestione. Cio-nonostante, la Regione ha preferito non intervenire direttamente nella rimappatura dei confini dei singoli distretti, ancora non perfettamente coincidenti tra loro. Gestione della sovrapposizione tra forme associative diverse Riflettere sul come e sul quando ogni Regione sia intervenuta nella gestione delle problematiche di sovrapposizione territoriale fra le varie forme associative significa, anzitutto, riflettere sulla sua di-versa capacità di programmazione. Il Piano di Riordino Territoriale, laddove utilizzato, è lo stru-mento attraverso cui è possibile garantire una visione complessiva d’insieme dell’intero fenomeno associativo regionale. Si è infatti osservato come nel primo step della riforma lo sviluppo delle for-me associative sia avvenuto perlopiù in maniera spontanea e su base convenzionale nelle varie real-tà regionali. Emilia-Romagna. Già la l.r. 11/01 della Regione Emilia-Romagna aveva escluso dai finan-ziamenti le unioni endocomunitarie e aveva previsto che per l'accesso ai contributi finanziari regio-nali i comuni dovessero rispettare il principio di non sovrapposizione tra più forme associative: ogni ente locale non avrebbe potuto aderire a più di un ente associativo, tranne nel caso di consorzi isti-tuiti o resi obbligatori da leggi regionali o nazionali. La normativa regionale emiliano-romagnola in materia di gestione della sovrapposizione tra forme associative diverse si è poi negli anni consolidata in relazione all'istituzione degli ambiti/sub-ambiti ottimali prevedendo che anche i comuni appartenenti a comunità montana si impegnassero a costituire, in coincidenza dell'ambito proposto, una o più unioni di comuni o ad aderire ad una u-nione già esistente.

24 Ha inoltre previsto l'impossibilità per gli stessi comuni, all'interno di una medesima funzione, di poter accedere al

doppio canale di contribuzione, ovvero quello relativo alla legge di settore e ai contributi statali o regionali negli ultimi 5 esercizi.

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Veneto. In maniera del tutto opposta, la Regione Veneto non ha affrontato il problema della gestione della sovrapposizione territoriale tra le diverse forme associative fino alla l.r. 18/2012. In realtà, all'interno di una legislazione a maglie piuttosto larghe, è intervenuta disciplinando solo lo smantellamento delle unioni endocomunitarie. Inoltre, in virtù della complessità nella gestione delle diverse forme associative presenti all'interno dello stesso territorio, la l.r. 18 ha introdotto un ulte-riore limite non presente nel TUEL: le convenzioni stipulate dalle unioni di Comuni (tra loro o con singoli Comuni) devono necessariamente prevedere che gli enti responsabili dell'esercizio associato siano le unioni. Così facendo, pur sottolineando il ruolo delle unioni nel complessivo processo di riordino, la Regione ha ancora una volta permesso ai singoli comuni la possibilità di poter accedere ai finanziamenti anche in presenza di diverse forme associative a cui un singolo comune può con-temporaneamente appartenere, tutelando pertanto l'individualismo amministrativo delle municipali-tà venete. Pare ovvio che una tale previsione, difficilmente riuscirà a modificare la complessa etero-geneità e le numerose aree di sovrapposizione funzionale ancora presenti in questa Regione. Ulteriori strumenti di sostegno alla policy: l'uso della persuasione Gli strumenti della leva degli incentivi finanziari e quello normativo, da soli, non sono sufficienti a garantire nascita, sviluppo e consolidamento del fenomeno associativo su ampia scala. Infatti, esso necessita di azioni di supporto e di accompagnamento alle singole realtà comunali che vanno dal semplice finanziamento aggiuntivo di azioni mirate a livello organizzativo (come gli studi di fattibi-lità e i supporti tecnici), fino alla previsione di tavoli di concertazione e di un presidio costante di tecnici e politici regionali nei singoli territori. Attraverso questo strumento, ancora di più rispetto a quello economico, è possibile ridurre le frequenti diffidenze dei singoli amministratori locali verso il consolidamento di forme stabili e multifunzionali di cooperazione, particolarmente marcate in quei territori dove l’individualismo amministrativo comunale continua ad essere un tratto fortemen-te accentuato. Emilia-Romagna. Le politiche regionali dell'Emilia-Romagna hanno individuato in questo strumento il principale volano per la promozione dell'associazionismo intercomunale. Infatti, la po-licy emiliano-romagnola si è caratterizzata per aver utilizzato in maniera assidua ed articolata questa leva già a partire dalla metà degli anni novanta attraverso la totale partecipazione e il coinvolgimen-to degli enti locali in relazione al procedimento di adozione del Programma annuale di Riordino Territoriale. Questo è avvenuto sia nella fase di iniziativa - attraverso la predisposizione di contenu-ti della sua discussione sulla base delle istanze provenienti dal basso - sia in quella decisoria, pur prevedendo un passaggio necessario attraverso la Conferenza Regione-Autonomie Locali. Non da meno, già a partire dalla l.r. 24/96 aveva previsto i primi incentivi per la predisposizione dei proget-ti di fattibilità per le unioni visto il loro scarso radicamento in quegli anni, fissando il co-finanziamento al 70% delle spese totali sostenute. Ad essi vanno ad aggiungersi una serie di previ-sioni aggiuntive a partire dai primi anni duemila, sia relative alle azioni di supporto della policy sia inerenti la concertazione tra enti locali, Regione e associazioni di rappresentanze. Tra i primi ricor-diamo: la creazione di un nucleo di supporto di esperti alle forme associative, la creazione di un portale web integralmente dedicato alle gestioni associate, una consulenza costante che veniva assi-curata dal servizio affari istituzionali e sistema delle autonomie territoriali (Regione Emilia-Romagna 2003, 106). Tra i secondi25, già con l.r. 11/2001, la costituzione di un “Comitato regionale per lo sviluppo delle gestioni associate tra enti locali” (poi trasformatosi dal 2012 in “Comitato dei Presidenti delle forme associative”) e la previsione di un passaggio obbligato con le associazioni di rappresentanza degli enti locali. Inoltre ancor prima della costituzione del CAL era presente in Emi-lia-Romagna un analogo strumento, la CRAL, ulteriore passaggio obbligato di concertazione prima della presa d’atto di qualsiasi misura attuativa di interesse dei comuni. A questi strumenti vanno ad

25 Cfr. Intervista ER, 3

26

aggiungersi azioni mirate di presidio sul territorio fin dai primi anni duemila, “vallata per vallata, comune per comune”26. Veneto. L'attività di consulenza agli enti locali in materia di forme associative è stata svolta in un primo momento dal CORECO (Comitato Regionale di Controllo) e, dopo la sua soppressione, dalla Direzione Regionale Enti Locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, al cui interno presenta-va uno specifico staff a cui i comuni potevano rivolgersi per chiedere consulenze per le attività i-struttorie di costituzione e/o consolidamento dei nuovi enti. Ad essa, già dal 2009 si sono affiancati una serie di corsi di formazione per i cd. manager di rete, condotti dal Centro di Ricerca e Servizi "Giorgio Lago". Ma, se fino al 2012 le azioni di supporto erano sì previste ma non strutturate, solo a partire dalla l.r. 18/2012 si iniziano a prevedere, ed utilizzare di frequente, tre diversi strumenti. Anzitutto gli studi di fattibilità, che fino a quel momento avevano avuto un uso blando e sui quali la Regione non aveva previsto contributi ben specificati e quantificati: si calcola che dal 2012 ne abbia finanziato per un valore intorno ai 100.000 euro. Seguono poi un'attività di formazione più specifica guidata dallo stesso Centro "Giorgio Lago", con anche la creazione di un master mirato alla formazione di manager di rete e di una leadership tecnica quanto più pre-parata e competente possibile, oltre che la creazione di un servizio online di consulenza e di assistenza giuri-dica a cui la Regione risponde, come previsto dalla nuova legge regionale27 (VEN, 1).

7. Verso una (apparente) convergenza di policy? L’analisi dell’evoluzione delle singole policies regionali, per ciascuna delle dimensioni analitiche considerate, ha mostrato come le azioni messe in atto dalla Regione Veneto a partire dalla l.r. 18/2012 stiano evidenziando un certo grado di innovazione e di deviazione dallo status quo e una convergenza verso le prassi amministrative tradizionalmente adottate dalla Regione Emilia-Romagna. La spiccata capacità programmatoria della regione rossa ha visto il venir meno dei finanzia-menti di forme associative semi-strutturate sul finire dello scorso decennio, riuscendo a far convo-gliare tutti i comuni, obbligati e non, verso il consolidamento di forme stabili di cooperazione, strut-turate in unioni di comuni con un elevato numero di comuni coinvolti e capaci di garantire una ele-vata coincidenza con gli ambiti e i distretti socio-sanitari. Questo è stato possibile grazie alla pre-senza di una lungimirante leadership, sia tecnica che politica a livello regionale, che si è ben disco-stata dagli iniziali indirizzi nazionali, poi rilevatisi fallimentari, elaborando strategie alternative e ben adattabili al contesto politico-culturale di riferimento. Inoltre, i frequenti aggiustamenti e ritoc-chi avvenuti nei vari steps della riforma, sono indicativi di un presidio dei vertici politici regionali sul territorio, capaci di percepire la presenza di difficoltà riscontrate in fase di implementazione in alcune realtà ancora restie al cambiamento. Nel complesso, le misure negli anni varate hanno sem-pre anticipato molte delle indicazioni poi adottate dal legislatore nazionale, ponendosi come una best practice verso cui tendere. Definire solo “apparente” la convergenza delle due policies significa interrogarsi sulle diver-se ombre che tuttora caratterizzano l’implementazione della l.r. veneta 18/2012. La retorica del cambiamento avviata dalla recente normativa regionale sembrerebbe essere improntata verso un ra-dicale cambiamento di prospettiva e un ripensamento delle prassi amministrative negli anni conso-lidatesi. Essa è declinabile sia nella volontà del policy making veneto di volere “guidare” un percor-so concertativo con i singoli enti locali, sia nella previsione di un ripensamento complessivo della

26Cfr. Intervista ER, 6. 27 Il riferimento è all'art. 11 della l.r. veneta 18/2012 in cui la Regione si impegna a garantire un «supporto formativo e tecnico-organizzativo, per fornire assistenza qualificata e formazione per amministratori e dipendenti degli enti locali».

27

governance sovracomunale che, a regime, vedrà consolidato il rispetto dell’area vasta e di pro-grammazione. Tab. 8. Esito del processo concertativo in Veneto

Provincia Ambiti proposti per

l'esercizio in conven-zione

Ambiti proposti per l'esercizio in unione di

comuni Comuni obbligati Comuni non obbligati

Venezia 1 -- 4 0

Rovigo 6 -- 23 1

Padova 3 4 24 11

Treviso 1 -- 1 1

Vicenza 3* 1 11 0

Verona 1 3 12 4

Totale 15 8 75 17 Nota (*): Include l'ambito formato dalla convenzione stipulata fra un comune e un' unione di comuni

Fonte: Regione Veneto (2013,12) Considerando che ad oggi il cammino intrapreso dalla Regione Veneto è solo agli inizi, ciò che deve essere analizzato sono le reali previsioni della l.r. 18/2012 e le prime risposte date dagli amministratori locali. Sul primo punto, la prolungata politica di laissez faire veneta ha creato delle legacies ancora fortemente visibili nella mancanza di una concreta gestione delle sovrapposizioni funzionali tra forme associative diverse ammesse a contribuzione e nella salvaguardia dei consorzi monofunzionali sorti dai primi anni 2000. Inoltre, la scelta di tenere divisa la l.r. 18/2012 dalla nor-ma di riordino territoriale delle future unioni montane (l.r 40/2012) è un chiaro segno di come, an-cora una volta, la mancanza di organicità tra i vari Assessorati e le divisioni politiche esistenti ab-biano inibito la creazione di un ridisegno organico e complessivo dell’intero riordino territoriale. Tab. 9. Politiche regionali di incentivazione all'esercizio associato a confronto

Dimensione Variabile Emilia-Romagna Veneto Range

Innovazione della policy (ruolo della Regione nel governo del

cambiamento)

Presenza vs. assenza di politiche strutturate già nei primi anni 2000

2 0 0-2

Coincidenza vs. non coincidenza con le disposizioni con-tenute nell'Intesa del 2006

1,5 0,5 0-2

Capacità vs. incapacità di elaborare soluzione nuove e al-ternative adattabili al contesto di riferimento

2 0,5 0-2

Aggiornamento vs. riproposizione annuale delle disposi-zioni contenute nelle delibere (2003-2014)

2 1 0-2

Capacità vs. incapacità di adeguare in maniera tempestiva le disposizioni regionali alla normativa nazionale

1,5 1 0-2

Totale 9 3 0-10

Capacità della Regione di

(ri)disegnare la governance

territoriale

Presenza vs. assenza di efficienti politiche di supporto ai comuni

2 0,5 0-2

Efficacia vs. non efficacia di programmi strutturati incen-tivanti gli studi di fattibilità

2 1 0-2

Presenza vs. assenza di un’ integrazione tra ambiti di ge-stione e ambiti di programmazione

1 0,5 0-2

Coincidenza vs. non coincidenza tra disposizioni normati-ve e incentivi finanziari

2 1,5 0-2

Presenza vs. assenza di norme strutturate di gestione della sovrapposizione tra forme associative diverse

2 0,5 0-2

Totale 9 4 0-10

Totale Generale 18 7 0-20

28

Sul secondo, invece, i principali segnali arrivano anzitutto dall’esito del processo concertati-vo che ha visto i comuni, ancora una volta, scegliere la convenzione quale forma di governo ideale per il governo del territorio (tab. 8). Inoltre i 23 ambiti proposti hanno riguardato un totale di 92 comuni, con appena 17 di essi non obbligati e nessun comune con oltre i 20.000 abitanti. Le ulterio-ri indicazioni arrivano sia dall’elevato tasso di turn-over ancora visibile nei comuni appartenenti ad unioni, sia dalle richieste di finanziamento per la creazione di convenzioni28. Graf. 11. Esperienze regionali a confronto: indici di innovazione della policy e di capacità della regione di (ri)disegnare la governance territoriale nei due contesti regionali considerati

Inoltre, il graf. 11 sottolinea le differenze tra le due diverse esperienze regionali sulla base di due diversi indici costruiti come risultanti dell’analisi qualitativa svolta. Il primo indice, quello rela-tivo al ruolo della Regione nel governo del cambiamento, tiene conto della sua capacità di predi-sporre misure innovative di policy adattabili al singolo contesto regionale di riferimento e di inter-venire prontamente a modificare parte delle disposizioni normative da essa previste, prendendo atto delle richieste di natura bottom-up, magari anche anticipando le previsioni del legislatore nazionale. Per ciascuna delle sotto dimensioni costruite (tab. 9) si è scelto di assegnare un punteggio crescente compreso tra 0 e 2, indicanti rispettivamente una totale assenza e una massima adesione. Ovviamen-te, è stato assegnato un punteggio pari ad 1 laddove si è registrata una parziale adesione. Lo stesso è stato fatto anche per la costruzione del secondo indice, relativo alla capacità della Regione di assu-mere un ruolo di regia nel (ri)disegno complessivo della governance sovracomunale. In questo caso,

28 Per il solo 2013 (DDR n. 248 del 30/12/2013) le richieste di finanziamento per la costituzione di nuove convenzioni sono state 20: 6 ammesse e finanziate con contributo una tantum, 3 ammesse e finanziate con contributo per spese di investimento, 7 considerate ammissibili ma non finanziate e 4 non ammissibili.

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

VEN

ER

RUOLO DELLA REGIONE NEL (RI)DISEGNARE LA GOVERNANCE

TERRITORIALE

Non interventista Cabina di Regia

RUOLO DELLA REGIONE NEL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO

Proattivo

Reattivo

29

ancor più che nel precedente, si è tenuto conto della diversa propensione nel tempo delle due regio-ni ad usare i tre strumenti a lei a disposizione e, sulla base della ricerca qualitativa svolta, del loro effettivo utilizzo, oltre la semplice previsione normativa regionale e la retorica del cambiamento in essa contenuta. In ragion di ciò si spiega l'attribuzione per entrambe le dimensioni di un mezzo pun-to qualora nelle fasi della ricerca si sia registrata una parziale implementazione delle previsioni normative. Come detto, la scelta di adottare una prospettiva diacronica nello studio delle politiche regionali nasce dalla presa d'atto che solo una solida politica di accompagnamento nel tempo alle singole forme associative sia in grado di garantire nascita, sviluppo e consolidamento del fenomeno associativo su scala sovracomunale, in termini di efficacia, efficienza, economicità e partecipazione. Complessivamente, la maggiore capacità della Regione Emilia-Romagna nel (ri)disegnare la governance territoriale deriva sia dall’uso più articolato negli anni fatto della leva degli incentivi fi-nanziari, spingendo verso una naturale evoluzione delle forme associative e l’attuale consolidamen-to di forme stabili di significative dimensioni, sia dalla presenza di un complesso e articolato siste-ma di supporto alla policy capace di andare oltre la dimensione micro della semplice municipalità. Inoltre, l’analisi delle previsioni normative e la sua evoluzione dai primi anni novanta ad oggi ha mostrato una maggiore capacità della regione rossa di modificare ed intervenire di frequente nelle proprie previsioni legislative regionali, accompagnando un percorso naturale di evoluzione della po-licy che già dal 2009 è stata in grado di “guidare” le singole municipalità verso le due principali sfi-de poste in essere ai comuni italiani: il definitivo accorpamento tramite fusione delle piccole e pic-colissime realtà locali e, più in generale per le forme associative, una perfetta coincidenza tra gli ambiti di programmazione e gli ambiti di gestione. Unica ombra delle (tante) luci del processo asso-ciativo emiliano-romagnolo riguarda i recenti e ambiziosi progetti della Regione di predisporre in-centivi finanziari per le sole unioni che rispettano alti standard dimensionali. Fino a che punto il ri-spetto di questi vincoli per l'accesso ai contributi sarà in grado di garantire la sostenibilità istituzio-nale del modello? Si tratterà realmente di forme associative che riusciranno a garantire efficienza, efficacia, economicità e partecipazione o la loro costituzione nasce semplicemente per poter inter-cettare i cospicui incentivi regionali? A darci queste risposte potrà essere solo il tempo e un monito-raggio costante e continuo delle numerose forme associative nate nel 2014. Esso dovrà riguardare sia il computo delle funzioni realmente affidate al nuovo ente e l'ammontare delle eventuali funzio-ni residuali lasciate in capo al singolo comune, sia la frequenza di utilizzo dei canali di comunica-zione istituzionale e di nuove forme di partecipazione dei cittadini alle attività del nuovo ente. Infine, l’analisi svolta ha reso visibile due diverse modalità di utilizzo del Prt, della delimi-tazione dell’ATO e degli strumenti di accountability e rappresentanza interni alle unioni nei primi due steps della riforma, per poi vederle successivamente convergere verso il modello emiliano-romagnolo, anche a seguito di una normativa nazionale che ricalca il sentiero intrapreso negli anni dalla regione rossa. Sul primo punto, mentre la Regione Emilia-Romagna, su indicazione della normativa nazio-nale, ha utilizzato lo strumento del piano di riordino territoriale fin dalla metà degli anni novanta, modificandolo e aggiornandolo annualmente anche grazie allo spostamento di competenza dal Con-siglio alla Giunta, la Regione Veneto è intervenuta solo a partire dal 2013 a seguito dell’introduzione delle misure che hanno inaugurato la “stagione delle manovre finanziarie”. Ana-logamente, nel caso della delimitazione dell’ATO nei primi due steps della riforma la Regione Ve-neto non ha avuto alcun ruolo di guida nella determinazione degli ambiti, lasciando liberi i comuni di delimitare gli ambiti dei servizi comunali e la rispettiva forma associativa. L’unica eccezione era rappresentata dalla polizia locale e, in minima parte, dalla protezione civile dove invece veniva a esserci un recepimento formale da parte della Regione. Diversamente, a partire dal 2012, in maniera del tutto analoga con quanto tradizionalmente fatto dall’Emilia-Romagna, l’ambito oltre che essere definito dai singoli comuni viene anche recepito in maniera formale dalla Regione, attraverso la previsione di una nuova integrazione con le altre tipologie, in primis quelle socio-sanitarie. Infine, ancor prima che la spendig review (D.L. 95/2012) lo rendesse obbligatorio su tutto il territorio nazionale, la Regione Emilia-Romagna era intervenuta a partire dalla l.r. 18/2008 anche

30

sull’annoso problema dell’accountability verticale del nuovo ente unione: data la non previsione di un’elezione diretta del suo presidente, aveva iniziato ad ammettere a contribuzione solo le unioni il cui presidente fosse esclusivamente uno dei sindaci dei comuni presenti e la cui giunta fosse inte-ramente formata dai soli sindaci dei comuni coinvolti. Sembrerebbe che la medesima lungimiranza la regione rossa la stia attualmente avendo anche nella scelta di incentivare meccanismi partecipati-vi per progetti di fusione, sia prima del referendum popolare che una volta sorto il nuovo comune29. Ancora una volta, si tratterà di azioni capaci di dispiegare effetti spillover su scala nazionale. Ciò a ragion del fatto che, se gli enti locali italiani (al pari di quelli tedeschi) hanno dato avvio negli anni novanta all'adozione su scala nazionale di un modello manageriale (Gualmini 2003;2008), di-venendo il «laboratorio privilegiato» (Lippi 2011, 180) per la sperimentazione di un fitto program-ma di riforme aziendalistiche, oggi il governo locale si candida sempre più a divenire un nuovo la-boratorio di sperimentazione di nuove forme di democrazia partecipativa e deliberativa. Ciò a di-spetto del ruolo residuale a cui per troppo tempo lo studio del governo locale italiano è stato arena-to. Resterà da osservare non solo l'effettivo utilizzo di queste pratiche nei prossimi anni ma anche il modo in cui verrà declinato dai soggetti promotori (gli amministratori). Pertanto, occorrerà osserva-re se verrà utilizzato come un reale strumento di coinvolgimento ed ascolto delle istanze provenienti dal basso oppure come una sorta di "manipolazione" dei meccanismi partecipativi, creando piutto-sto un surrogato alla partecipazione. Per queste ragioni è opportuno che le singole Regioni inter-vengano attraverso l'utilizzo della leva degli incentivi economici, al fine di creare strumenti parteci-pativi che abbiano un «certificato di qualità»30, allontanandoli da ipotetici amministratori che inten-dano utilizzarli per fini opportunistici.

29All'interno della legge regionale sulla partecipazione (L.r. 3/2010) che prevede la possibilità per i comuni di attivare forme di coinvolgimento e di confronto con la popolazione su materie di interesse collettivo, la Regione Emilia-Romagna, con deliberazione n. 141 del 1/10/2013, ha stabilito di approvare annualmente un bando per il finanziamento di processi di partecipazione dei cittadini alla costituzione di un nuovo comune sorto da fusione di due o più comuni. Quest'ultimi possono riguardare processi partecipativi o nella fase di discussione che si pone prima dell'approvazione nei singoli consigli comunali oppure nel caso di quelli dove sia stata già deliberata l'istanza da presentare alla Giunta regionale, nella fase di discussione e di informazione che precede il referendum consultivo, oppure per l'elaborazione partecipata di atti normativi come gli Statuti e i regolamenti del nuovo comune, prima che l'amministrazione assuma qualsiasi atto definitivo. In fase di stesura della graduatoria finale per l'erogazione dei contributi, solo i progetti che ot-tengono il cd. rilascio della certificazione di qualità (come previsto dall'art. 8 della l.r. 3/2010) possono accedere alla graduatoria finale. In quest'ultima verranno assegnati 3 punti per i processi di informazione antecedenti il referendum, 2 per i processi ex-post la costituzione della fusione e 1 per il finanziamento dei progetti di partecipazione nella fase di discussione prima dell'approvazione dei singoli consigli comunali. Nell'anno 2013, dei quattro progetti presentati, tre hanno ottenuto il cd. rilascio della certificazione di qualità. I primi due progetti per l'avvio di un processo di partecipati-vo nella fase di informazione e discussione che procederà il referendum consultivo e che ha visto come proponenti il comune di Porretta Terme (BO) e l'Unione dei Comuni Alto Appennino Reggiano. Un terzo attiene invece ad un «per-corso di consultazione [che] riguarda gli indirizzi per la stesura dello Statuto del futuro Comune di Fiscaglia e le indica-zioni operative per la riorganizzazione della nuova struttura organizzativa» (dal protocollo 44303/2013 della Regione Emilia-Romagna). 30

Secondo il bando 2013 della Regione Emilia-Romagna per il finanziamento di progetti partecipativi per fusioni, gli elementi di qualità tecnica che il progetto deve contenere per la certificazione sono individuati sulla base di quelli elen-cati dall’art. 13 della legge regionale n.3/2010 e precisamente tengono conto: a) delle modalità di sollecitazione delle realtà sociali, con attenzione particolare alle differenze di genere, di abilità, di età, di lingua e di cultura; b) delle moda-lità per l’inclusione di soggetti sociali organizzati in associazioni o comitati già presenti oppure sorti conseguentemente all’attivazione del processo; c) delle modalità di selezione dei partecipanti al Tavolo di Negoziazione, del ruolo del Ta-volo di negoziazione nella condivisione e nello svolgimento del processo, nonché dei metodi di conduzione del Tavolo di Negoziazione; d) dei metodi previsti per la mediazione delle eventuali divergenze e di valutazione di eventuali accor-di tra i soggetti partecipanti, anche attraverso l'uso di strumenti di democrazia diretta o partecipativa e deliberativa, sia nella fase di apertura del processo, che nella fase di chiusura del processo partecipativo; e) delle forme con le quali si intende rendere accessibile la documentazione del processo.

31

8. Conclusioni Per concludere, occorre partire dalla classica definizione di autonomia comunale data da Massimo Severo Giannini31. Essa attribuisce ai comuni la posizione di enti indipendenti, capaci di ricevere dalla comunità un proprio indirizzo autonomo e di tradurlo in scelte di politica amministrativa. La duplice natura di questa nozione sta sia nella sua capacità di garantire un univoco ed autonomo indi-rizzo politico all'ente, quindi indipendentemente dalle sue dimensioni, sia in quella di elaborare nuove soluzioni organizzative al fine di dare risposta alle domande provenienti dalla comunità di cittadini. In questi termini, ripensare il governo locale oggi significa anzitutto prendere atto dell'inevi-tabile componente politica insita nel concetto di autonomia comunale, oltre che dare attuazione ai principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà costituzionalmente garantiti. Ed è proprio la duplice dimensione di quest'ultima (verticale ed orizzontale) che tutt'oggi rappresenta un punto di partenza fondamentale per la comprensione delle "forme spaziali" entro cui i reticoli organizzativi comunali si articolano, soprattutto in riferimento ad una normativa incerta, disgiunta e non sempre vicina alle reali esigenze del "territorio". Ma, l' analizzare il timing e le modalità attraverso cui sussidiarietà e decentramento ammini-strativo potranno definitivamente articolarsi all'interno del complesso quanto eterogeneo "territorio" italiano, ci costringe a partire dal ruolo che il legislatore statale ha in questi anni assunto e le scelte da esso adottate. Ciò che realmente è mancata, è stata la tenacia e la volontà chiara ed univoca di raggiungere gli obiettivi che inizialmente ci si era posti. E questo in ragione dei numerosi cambi di governo che si sono avuti negli ultimi anni e delle frequenti opposizioni provenienti sia dagli am-ministratori regionali che dalle comunità politiche locali per alcune previsioni che sono apparse come anticostituzionali o comunque come limitanti l'autonomia comunale, soprattutto dopo decenni di immobilismo. I continui aggiustamenti e i passi indietro hanno senz'altro allentato la credibilità stessa del policy maker italiano, creando anche una situazione di incertezza e di preoccupazione per i piccoli comuni italiani, le cui finanze risultano essere sempre più colpite dalla galoppante crisi economica internazionale. E questo vale sia per il fenomeno associativo intercomunale che per quello più gene-rale relativo alla gestione dei servizi pubblici locali. Basti pensare alla norma di dismissione delle società per i comuni con meno di 30.000 abitanti (D.L. n. 78/2010) e alla svendita di azioni avute in numerosi comuni italiani prima che una nuova norma intervenisse e abrogasse quanto precedente-mente affermato a ridosso della scadenza prevista. Ma quanto bastasse affinché diversi comuni di alcune realtà regionali (ligi al dovere) rivedessero il proprio assetto statutario e svendessero parte del proprio patrimonio. Analogamente, il decreto Delrio sembra mostrare chiari segni di "ritorno al passato", allentando gli obblighi delle gestioni associate più strutturate, e reintroducendo la possibi-lità per i comuni sotto i mille abitanti di poter prevedere la figura dell’assessore. Queste indicazioni hanno senz'altro inibito i comuni più piccoli a compiere quel passo irreversibile verso la fusione, che molti di essi avevano iniziato ad ipotizzare. Ciò che è cambiato nell'ultimo anno è stato l'assetto e lo scenario complessivo all'interno del quale le scelte dei comuni italiani si sono mosse, specie di quelli più piccoli. Il trade off è stato tra una modifica, radicale e discussa, della Costituzione che potesse prevedere il venir meno dei comu-ni con meno di 5.000 abitanti e tra un progetto più ambizioso che "obbligasse" verso la costituzione di unioni di grandi dimensioni su tutto il territorio nazionale. Entrambe le soluzioni, poi rivelatesi fallimentari, avrebbero fatto venir meno il principio stesso di autonomia comunale così come defini-to, sul versante politico nel primo caso e su quello funzionale nel secondo.

31 Cfr. Giannini, M.S. (1959), voce Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, p. 356 ss., Milano, Giuffrè.

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Alla fine, ad un punto di vista di «città capoluogo», che pure si è cercato di adottare dal 2010, è invece prevalsa una visione territoriale che tenesse conto sia delle peculiarità storico-culturali del singolo "luogo", sia delle prerogative regionali nella scelta della propria dimensione ot-timale di governo. Ciò che è rimasto, invece, è il carattere inderogabilmente obbligatorio dell'eser-cizio associato delle funzioni fondamentali per i comuni con meno di 5.000 abitanti, quasi il 75% dei comuni italiani. È inoltre venuta meno la possibile, quanto discussa, abolizione dell'ente inter-medio "provincia" che pure ha perso la rappresentatività politica diretta, attualmente spettante solo all'ente locale comune. Fortunatamente, il problema del mantenimento o della soppressione di que-sto ente non è stato posto solo in termini di tagli alla politica o di (generalizzate) inefficienze del si-stema amministrativo locale italiano, come fatto per tutto il 2012, ma anche di una sua effettiva uti-lità, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale. Anche in questo caso, ci si è trovati a preferire una logica "territoriale" che tenesse conto delle specificità dei singoli contesti locali e nei quali la presenza di un ente intermedio di coordina-mento potesse risultare vitale per la loro sostenibilità istituzionale. Si pensi ai piccolissimi quanto numerosissimi comuni di alcune regioni del Nord Italia (come Piemonte, Lombardia e Veneto) che ancora mostrano evidenti difficoltà nelle gestioni associate delle funzioni fondamentali e che senza la presenza di un ente di raccordo e di coordinamento con la rispettiva Regione difficilmente sareb-bero in grado, in un futuro, di raggiungere alti standard qualitativi nei servizi offerti. In termini di efficacia, ancora prima che di efficienza. Il trade-off sembrerebbe esser stato risolto salvaguardando il profilo culturale del Comune italiano, la più antica istituzione di autogoverno del territorio, ma agendo su quello economico-gestionale attraverso l'obbligatorietà ad attivare reti intercomunali sul territorio. Questo all'interno di un quadro normativo che pare abbia definitivamente risolto l'annoso problema delle rispettive funzioni spettanti ai vari livelli di governo. Eppure, tutt'oggi, le motivazioni ad associarsi non sem-pre sono in grado di compensare le resistenze ancora presenti, specie in presenza di una Regione as-sente o tutto sommato propensa a lasciare liberi i comuni di auto-determinare la propria dimensione ottimale di governo. Quindi, riformare e deliberare significa anzitutto conoscere, capire, interpretare la realtà, i comportamenti degli attori e le (inevitabili) differenze storico-culturali presenti. Prima...ma anche durante con interventi continui e monitoraggi costanti, per evitare che i tentativi di riforma restino quel che sono. Dei tentativi per l'appunto. O operazioni di pura immagine.

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