Carta Maite 2018-ital - Istituzione Teresiana

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GRATITUDINE,L’ALTRA FACCIA

DEL DONO

Lettera dell’anno 2018

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Lettera dell’anno 2018, Maite Uribe Bilbao 3

Bilbao, 26 dicembre 2017

PRESENTAZIONE

Lo scorso mese di settembre, nel luogo in cui Pedro Poveda ideò il suo progetto pedagogico che, in seguito, si configurò nell’Istituzione Teresiana, abbiamo posto, sotto lo sguardo della Vergine di Covadonga, la Santina, il sessennio che sta per concludersi.

Un sessennio che, come ogni storia di fede, personale o comunitaria, nel rileggerla con una memoria riconoscente, è un invito ad accogliere il passato con gratitudine, a vivere il presente con passione e a guardare al futuro con speranza.

Con questa lettera si chiude il ciclo che la XVII Assemblea Generale indicò per questa comunicazione annuale, che abbiamo mantenuto negli ultimi sei anni, sui diversi temi proposti da essa: Giustizia, Orazione, Studio, Fiducia e Audacia.

Sono stati punti di riferimento nel nostro camminare evangelico e evangelizzante, e ci siamo lasciati interpellare dalle sfide, dalle ricerche di senso e dai desideri di umanizzazione dei nostri contemporanei, in un mondo che cambia molto rapidamente e in cui si percepisce l’azione dello Spirito che suscita un profondo desiderio di interiorità, di esperienza spirituale, di rispetto alla diversità culturale e religiosa e alla identità di persone, culture e popoli.

Chiudiamo il sessennio con un atteggiamento che ci accompagnerà lungo il 2018, la gratitudine, come invito a guardare l’esperienza vissuta in questi anni, a impegnarci nel presente e a proiettarci verso il futuro.

A partire da esso e con esso ci prepareremo e vivremo un evento importante per tutte le persone che si ispirano al carisma di Pedro Poveda: le Assemblee internazionali previste per il 2018.

GRATITUDINE, L’ALTRA FACCIA DEL DONO

Viviamo in una epoca in cui possiamo sperimentare una certa ambiguità. Da una parte percepiamo delusione davanti a movimenti distruttori e distruttivi che sono una minaccia a valori che consideriamo fondamentali, e, d’altra parte, nelle stesse realtà, convivono desideri di pace, di valorizzazione della diversità, di rispetto dell’essere profondo di ogni persona e di tutta la creazione, sia a livello personale che in differenti organi collettivi.

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Lettera dell’anno 2018, Maite Uribe Bilbao 4

Davanti a questa realtà sentiamo, in noi stessi e nella società, la tentazione di una protezione estrema, forse per paura della violenza, della sofferenza, delle lacerazioni, dei conflitti, e perfino anche per paura del futuro.

Sono realtà effettivamente presenti nella nostra vita quotidiana, e, al tempo stesso, facciamo l’esperienza che niente può, dentro di noi, impedirci il desiderio di stupore, di ammirazione, di gioia, per una dimensione diversa che ci porta a trascendere ciò che vediamo e tocchiamo in modo immediato, perché è dell’ordine della speranza, della fiducia, e della gratitudine.

La capacità di stupirci è dentro di noi, e possiamo sperimentarla e svilupparla contemporaneamente alle controversie, agli interrogativi e alle ricerche. Il fatto stesso di vivere e di dare la vita, di amare e di essere amato, di perdonare e di essere perdonato è, e così lo sperimentiamo, prodigio permanente e fonte di senso, di fascino e di gioia profonda.

Perché, stupirci ed emozionarci per le cose più semplici e quotidiane del nostro vivere di ogni giorno è una disposizione interiore, un modo di guardare le persone, gli avvenimenti che ci invita ad andare oltre l’immediatezza della esperienza e che vogliamo coltivare nel corso di questo anno.

E’ forse ciò che si voleva esprimere ne Il Piccolo Principe quando la volpe diceva: questo è il mio segreto ed è molto semplice: si vede bene soltanto con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.

La gratitudine, come ogni esperienza umana fondamentale, entra in quest’ordine, è un atteggiamento dinamico, non è statico, non paralizza né soffoca, ma sollecita e rende feconda la vita, è un movimento interiore frutto del riconoscimento di tanti segni che abbiamo man mano raccolti nel cammino e che diventano per noi invito ad uscire e a condividere l’esperienza con altri.

La persona umana, e ognuno di noi ha potuto sperimentarlo, può chiudersi e disumanizzarsi davanti al vissuto, ma può, al contrario, aprire il suo intimo, vivere in modo autentico, sentire e accogliere l’emozione e la bellezza, la sofferenza e la gioia, l’amore e il perdono, la gratitudine e la misericordia.

Non sempre vediamo la realtà come in verità è, la vediamo come siamo, con il nostro proprio sguardo, e, per allargare l’orizzonte, è molto importante cambiare la prospettiva e guardarla da un altro punto di vista. A questo ci invita la gratitudine.

L’origine della parola gratitudine è “grazia”, che in latino significa dono. La gratitudine, spesso, è preceduta da una esperienza di gratuità, che è proprio del povero, del semplice, dell’umile, che sono quelli che più facilmente riconoscono il dono che hanno ricevuto. Ti rendo lode, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli, ci dice Gesù nel vangelo di Matteo 11,25.

Entrare nella logica del dono e della gratuità significa volere imparare a ricevere, ad accogliere, a riconoscere il dono. Ciò che sono, ciò che siamo, lo dobbiamo agli altri, innanzitutto a Dio: sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo1, leggiamo nel profeta Isaia, e questo riconoscimento è la gratitudine, che è il miglior modo di far fronte a queste spinte distruttrici che tanto ci minacciano e che sono la paura, l’invidia, il narcisismo, il calcolo, la chiusura.

1 Isaia 43,4

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La gratitudine è anche un’altra maniera di uscire da me stesso, dalla mia zona di confort per andare nelle periferie, perché implica riconoscere e integrare chiamate, stimoli, inviti, che ricevo dalla società, dalla gente che incrocio nella mia vita e anche dalla nostra comunità che crede in incontri, comunicazioni e orientamenti di vita.

Gratitudine significa riconoscere nella nostra storia la fedeltà di Dio, la sua presenza sempre discreta e, allo stesso tempo, attraente, perché è la presenza di un amore che vigila, cura, perdona, stimola, incoraggia, accompagna i nostri passi, ci porta per mano senza impazienza, ma con la sicurezza di sentire una mano che ci fa guardare sempre in avanti.

La gratitudine è riprendere il passato e avanzare verso il futuro, come molto bene esprimono queste parole del poeta.

Guardo davanti a me

Guardo il passato,e vedo i miei dolorirecenti e insepolti, e tutta la mia vita ambigua e generosagià sotto la terraseppellita in profusione di giorni e di oblii.

Guardo davanti a me,e mi vedo nella vitache generai ieri nel seminare,che oggi cresce davanti a me stesso,nel sorriso innocente dei bambini,nel ritmo dei giovani che inaugurano orizzonti,nelle comunità che si unisconocontro le forze di morte.

La mia vita riflette tutto ciò davanti a me,più forte di me,segnandomi il cammino,continuando i miei passi.Oggi, in questo istante,scelgo il futuro e risuscito. (Benjamín González Buelta s.j.)

Possiamo applicare alla gratitudine una immagine molto suggerente di Jacques T. Godbout che cita Enzo Bianchi nei suoi libri2:

C’è una specie di legge sociale secondo cui ciò che non circola muore, come succede nel lago di Tiberiade o nel Mar Morto. Alimentati ambedue da un stesso fiume, il Giordano, uno è vivo e l’altro morto, perché il primo dà le sue acque ad altri fiumi, mentre il secondo le conserva solo per sé3.2 BIANCHI E. Dono e perdono, Einaudi Editori, Torino, 20143 T. GODBOUT J.T. L’Esprit du don, Ed. La Decouverte, 2007

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La gratitudine circola, si espande, è generosa, non si consuma, è promessa di corrispondenza, di reciprocità, di amicizia, si approfondisce con il tempo, con le esperienze vissute, con la rilettura della vita, fa crescere la nostra capacità di stupore, di gioia e di contemplazione.

Possiamo pensare che la capacità di ammirare, di stupirci, è un atteggiamento quasi spontaneo della persona umana, ma non è così. Per essere capaci di stupirci, dobbiamo imparare a guardare con gli occhi della fede, a coltivare la sapienza del vedere, dell’udire, dell’ascoltare, per scoprire e comprendere il messaggio che ogni essere umano ci trasmette dal posto che occupa nella creazione.

La nostra capacità di stupore, il nostro rispetto per la creazione acquista così una dimensione teologale. Soltanto lo spirito è capace di farci capire e contemplare l’avventura della creazione e le vicende dell’umanità come una storia dell’azione permanente e dinamica del Dio della Vita, creatore e salvatore. Quando bevi l’acqua, ricorda la fonte, dice un proverbio cinese.

Lo stupore evangelico si coltiva specialmente nell’intimità con Gesù, il primo che seppe discernere l’emergenza del Regno e percepire la presenza amorosa di un Dio Padre.

Il Regno di Dio, per Gesù, esprime la manifestazione e la presenza di Dio nella storia. In questo modo, il Regno di Dio è un messaggio di gratitudine per il passato, di fortezza nel presente e di speranza nel futuro, specialmente per i poveri, per coloro che hanno fame, per gli afflitti. In Gesù questo si traduce in atteggiamenti di accoglienza verso i peccatori, in rispetto e contestazione per le donne vilipese, in guarigione degli infermi, in liberazione dagli “spiriti impuri”, e sempre in modo inclusivo, perché annunzia a tutti/e la vicinanza di un Dio misericordioso, di un Dio che si è fatto così vicino che si è incarnato nella nostra storia.

Lo stupore evangelico implica entrare in questa logica di riconoscere il volto di un Dio che vuole generare una vita più sana, più degna e più giusta per l’umanità, specialmente per i più vulnerabili e fragili, e credere che lo ha fatto e continuerà a farlo. Con parole di Papa Francesco, si tratta di credere nell’impegno di Dio che desidera “prendersi cura della fragilità”.

Etty Hillesum, giovane ebrea giustiziata ad Auschwitz, svela il significato dell’esperienza religiosa nell’esistenza umana, e, nel suo diario, scrive:

Amo tanto il prossimo, perché, in ogni persona, amo un poco di te, Dio mio. Ti cerco da ogni parte negli esseri umani e, spesso, trovo un frammento di te. Intenta dissotterrarti dai cuori altrui… Tu, (si dirige al suo amico J. Spier) grande persona comprensiva, cercatore di Dio, che hai incontrato Dio, tu, hai cercato Dio in ogni parte, in ogni cuore che si apriva a te, e in ogni parte hai trovato un piccolo frammento di Dio. Mai ti sei arreso. (Diario di Etty Hillesum, 14 settembre 1942).

La gratitudine alla quale quest’anno ci invitiamo consiste nell’entrare con fermezza in questo modo di guardare la realtà, in questa logica, in questo atteggiamento di rilettura della nostra storia. Non ci invita a rimanere in un immobilismo davanti al vissuto, ma a sentire che perfino nelle nostre fragilità personali e comunitarie Dio è stato tanto vicino che solo a partire da Lui e con Lui potremo oltrepassarle, riempirle di misericordia e proiettarle verso un futuro che ancora si sta costruendo.

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Come dice Rumi, poeta e mistico sufi del XIII secolo: Usa la gratitudine come un manto e alimenterà ogni angolo della tua vita.

Concludere un sessennio implica riconoscere e raccogliere la vita che abbiamo voluto accompagnare, e desiderare che continui a crescere.

Appoggiati nella fiducia e nell’umiltà di chi sa che la fragilità fa parte della nostra realtà umana, la gratitudine implica anche riconoscere che, nel nostro modo di guardare la realtà, qualcosa non ci ha sollecitato a tal punto da introdurre i cambiamenti, gli adeguamenti, le decisioni che la vita ci andava chiedendo.

Questa è la forza della gratitudine, che, come motore interiore, appoggiato sulla fede e sulla fiducia in un Dio che desidera salvare il suo popolo, ci strappa dalla tristezza che paralizza, per portarci a un maggior impegno con il presente e con la forza dello Spirito che non è di timore, ma di fortezza e amore.

La figura di Maria nel Magnificat è la migliore espressione di come rivolgere lo sguardo non solo sul Dio che ha fatto meraviglie, ma anche sul Dio che continua ad accompagnarci perché ci impegniamo a vivere con passione il presente, sicuri che la sua fedeltà è per sempre. Il potente mi ha fatto grandi cose; il suo nome è santo. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome:di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. (Lc 1,49-50).

Vi invito a rileggere, personalmente e nei diversi spazi associativi, con gratitudine, con lo sguardo del Dio che ha fatto grandi cose, questi anni passati nei quali abbiamo voluto interpellarci sugli impulsi e sugli orientamenti che hanno guidato il nostro essere e il nostro agire: giustizia, preghiera, studio, fiducia e audacia.

Come diceva Josefa Segovia4, mettiamoci in un atteggiamento umile e riconoscente, ricordando tutto ciò che abbiamo ricevuto in questi anni, riconoscendo la presenza fedele e discreta di Dio nelle persone, nei progetti, nei sogni condivisi, negli aiuti materiali e spirituali, nei gesti che hanno curato, consolato e risollevato, nelle luci che ci hanno guidato nei momenti di discernimento, di dibattito e di decisioni, che ci hanno fatto crescere, superare stanchezze e sperimentare che il Dio della Vita ci ha dato Vita in abbondanza.

Tutto ciò senza dimenticare il dono della fede, della chiamata, della vocazione-missione che ci ha portato a cercare appassionatamente il volto di Dio, a riconoscerlo nella parola e nel silenzio, nei compiti di umanizzazione e nei momenti profondi di interiorizzazione, E poiché, credendo così e agendo in questo modo, lasciamo a Dio tutto il resto senza farci turbare dal risultato né pretendere trionfi né rifiutare sconfitte, resteremo in pace5.

VIVERE CON PASSIONE NEL PRESENTE

La vita cresce quando viene donata con generosità e si debilita nell’isolamento, nell’autoreferenzialità, nella comodità. Coloro che più godono della vita sono quelli che lasciano la sicurezza della ripetizione e la facilità di ciò che è conosciuto per vivere e rischiare con passione il presente, ascoltando e accogliendo le urgenze profetiche.

4 SEGOVIA JOSEFA, Casa de acción de gracia in Cartas, Iter Ediciones, 1970, pag. 4265 POVEDA PEDRO, Creí por esto hablé , Narcea Ediciones, Madrid, 2006, [168]

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Un modo di valutare la qualità evangelica e profetica della nostra vita consiste nella libertà interiore di darci senza consumarci, donarci senza legarci, essere di tutti, essendo solamente di Dio, come diceva Josefa Segovia parlando del cuore di Santa Teresa6.

In ultima analisi, la nostra missione, come quella di tanti cercatori di Dio, è entrare nel progetto di Gesù, cioè annunciare il Regno di Dio e, come discepoli, viverlo e proclamarlo.

La forza e la passione di questo annuncio esige uno stile di vita e alcuni atteggiamenti che riconosciamo in Gesù: una testimonianza di prossimità che implica vicinanza e ascolto, umiltà e solidarietà, dialogo e riconciliazione, impegno con la giustizia sociale e capacità di condivisione. Questo stile di Gesù e dei suoi discepoli continua a convocare, a invitare, a offrire incessantemente il sogno di una vita degna e piena per tutti.

La vita del credente, del discepolo del Risorto, è profetica nella misura in cui traduce nella sua vita familiare e professionale e nelle sue attività quotidiane il paradosso evangelico. Lo stile è sempre quello di Gesù: la tenerezza nella radicalità dell’amore, la determinazione nel servizio agli esclusi, la determinazione in un nuovo senso di impegno.

Questo stile, può fare la differenza, la differenza di chi, ponendo la propria fiducia in Dio, sperimenta l’andare controcorrente perché si allontana dalla cultura dominante, in quanto cultura del possesso oltre misura, del dominio fino alla violenza, dell’esclusione, senza lasciare spazio alla compassione, alla giustizia e alla misericordia.

Per far sì che nella nostra vita si apra uno spazio alla profezia, ci sono urgenze profetiche di fronte alle quali non possiamo né chiuderci né sottrarci. Esse possono riguardare tutta l’umanità, ma soprattutto le persone che, come noi, si sono lasciate toccare dal messaggio del Dio della Vita.

Quali urgenze profetiche possono aiutarci a vivere con passione il presente? Guardando all’intensità dell’anno che cominceremo e all’ascolto delle persone con cui ci incontreremo in diversi contesti, suggerisco le seguenti urgenze profetiche

* Vivere in permanente conversione * Essere testimoni del Dio vivo * Accogliere il mistero pasquale come fonte di vita

Una vita in permanente conversione si esprime e si percepisce nelle nostre opzioni e priorità.

Si tratta di assumere un itinerario di conversione. Un itinerario che si trasforma in un movimento interiore che permette di passare dalla dipendenza all’autonomia e alla libertà, da momenti o esercizi di tipo spirituale a uno stile di vita secondo Dio, dalla quantità alla qualità.

Questo movimento si può esprimere nel modo di vivere ogni giorno il nostro essere e il nostro fare, creando fraternità dove può esserci superiorità, vicinanza dove c’è distanza, compagni di cammino dove c’è esclusione. La conversione implica passare dal protagonismo al nascondimento evangelico, dal centralismo alla corresponsabilità, dal dirigere ad accompagnare e animare. Ci

6 SEGOVIA JOSEFA, Santa Teresa de Jesús, in Cartas, Iter Ediciones, Madrid, 1970, pag. 636

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chiede di passare dalla teoria alla pratica, da una autorità gerarchica escludente a una intesa come servizio, dai gesti che feriscono alla fraternità che unisce.

Metterci in cammino di conversione permanente implica vivere una spiritualità per il cambiamento, che nasce solamente dallo Spirito di Dio. La rilettura del sessennio in chiave di valutazione ha questo tono, ci chiede un cambio di mentalità, molto discernimento, grande disponibilità, rinuncia a sicurezze, desiderio di assumere rischi e una profonda fiducia nel Dio di Gesù, che ha voluto darci la vita e una vita in abbondanza.

La sfida della conversione consiste nel volgersi a Dio, porre lo sguardo in Lui e vivere il quotidiano a partire da Lui e con Lui. Mettere in Dio tutta la nostra sicurezza ci aiuta a vincere tendenze autoreferenziali che ci portano a preoccuparci in modo smisurato delle nostre fragilità e debolezze fino a allontanarci dalla vera sorgente di acqua viva e vivificante.

Questo è il punto fondamentale del processo di conversione. Ancorati fermamente in Dio, accogliamo un nuovo modo di vivere che sveglia la nostra fedeltà creativa, ci fa abbandonare le paure che ci rendono sordi, ciechi, muti e paralitici di fronte alla realtà e ci apre a un amore “di opere e in verità” verso i deboli e gli emarginati.

Nel Vangelo ci sono racconti di conversione che possono illuminare la nostra, quella che lo Spirito suscita in ciascuna persona e in ciascun gruppo. Lasciamoci toccare dalla Parola di Dio attraverso alcuni testi biblici: Conversione di Matteo: Mt 9, 9-13, di Zaccheo: Lc 19, 1-10, di Paolo: At 9, 1- 22.

Anche Santa Teresa racconta nel libro della vita un momento chiave che l’ha fatta entrare in un atteggiamento di conversione definitiva e permanente:

Ormai la mia anima si sentiva stanca e voleva riposare, ma le sue perverse abitudini glielo impedivano. Entrando un giorno in oratorio i miei occhi caddero su una statua che vi era stata messa, in attesa di una solennità che si doveva celebrare in monastero, e per la quale era stata procurata. Raffigurava nostro Signore coperto di piaghe, tanto devota che nel vederla mi sentii tutta commuovere perché rappresentava al vivo quanto Egli aveva sofferto per noi; ebbi tal dolore al pensiero dell’ingratitudine con cui rispondevo a quelle piaghe, che parve mi si spezzasse il cuore. Mi gettai ai suoi piedi in un profluvio di lacrime, supplicandolo di darmi forza per non offenderlo più … Io allora diffidavo molto di me e mettevo ogni fiducia in Dio. E mi pare che gli dicessi che non mi sarei alzata dai suoi piedi, se non mi avesse concesso quello di cui lo pregavo. Certamente Egli mi deve aver ascoltata, perché d’allora in poi mi andai molto migliorando. (Vita 9, 1-3)

Essere testimoni del Dio vivo ed esserlo tra la gente che incontriamo, ci obbliga ad adottare un linguaggio nuovo su Dio, un linguaggio che parla di un Dio personale, un Dio di relazione, che si lascia incontrare e si manifesta nella semplicità di ogni vita umana. Significa imparare ad ascoltare, ad accogliere e a riconoscere nel più intimo di noi stessi e nel più profondo delle persone il volto di Dio, la presenza di Dio. In realtà, è lasciare che Dio ascolti in noi e da noi, perché il più profondo, essenziale e unico di ciascuno di noi e dell’altro mi parla di Dio, è manifestazione di Dio.

Quando Pedro Poveda ha voluto dare un modello alle prime collaboratrici dell’Opera delle Accademie, ha trovato nell’esperienza di Teresa di Gesù, la figura di una donna appassionata,

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innamorata e libera, capace di esprimere la forza di un’amicizia con Gesù che facesse di lei un vero testimone del Dio vivo. Soltanto a partire da questa esperienza S. Teresa ha potuto scrivere poemi nei quali ci introduce in questa verità, che sarà al centro della sua opera maestra, le Mansioni: siamo abitati da Dio ed è lì che sta la nostra forza e la nostra capacità di essere testimoni.

“Cercati in Me” e “CercaMi in te”.7(…)

Ma se non sapessi ove cercarMi non andare vagando inutilmente.Se veramente tu vorrai trovarMiin te devi cercarMi alacremente. (…)Fuori di te non devi cercarmi, perché per trovare Me,basterà solo chiamarmi e andrò da te senza tardare,cercaMi in te.

É la stessa esperienza che Etty Hillesum racconta nel suo diario del 26 agosto 1941:

Dentro di me c’è un pozzo molto profondo. Lì dentro c’è Dio. A volte mi è accessibile. Ma spesso ci sono pietre e detriti che ostruiscono questo pozzo e allora Dio è come sepolto. Bisogna disseppellirlo di nuovo. (…)Immagino che c’è gente che prega rivolgendo gli occhi verso l’alto. Essi cercano Dio fuori da sé stessi. Vi sono altre persone che chinano la testa profondamente e la nascondono tra le mani; credo che queste persone cercano Dio dentro loro stesse. Io sono tra queste.

Credere questo, viverlo, condividerlo è essere testimoni del Dio vivo presente nella storia. La fede cristiana è anzitutto un’esperienza che deve essere vissuta, interiorizzata per poterla offrire e comunicare come Buona Notizia di Dio. Ciò significa, in primo luogo, evocare, condividere, suscitare e aiutare a vivere l’esperienza originale dell’incontro con Gesù. Senza testimoni non è possibile la trasmissione dell’esperienza di Dio vissuta in Gesù Cristo. Perciò quando Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la Buona Notizia, non ordina loro di trasmettere una dottrina, non raccomanda loro lo sviluppo di una organizzazione religiosa, ma li chiama a essere testimoni di un’esperienza nuova, di una vita trasformata: Riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (At 1,8).

Oggi, come ai tempi di Gesù, non mancano scribi, dottori e gerarchi, ma saremo testimoni capaci di comunicare l’esperienza salvifica del Dio vivo e incarnato, che Gesù chiama Abba, Padre?

Accogliere il mistero pasquale nelle nostre vite, significa accogliere il Dio che, nel farsi uomo in Gesù, ha conosciuto la sofferenza, la solitudine e la morte, ma senza lasciare che siano l’ultima parola. Il sigillo inequivocabile della nostra fede, ciò che la rende profetica, è che solo l’amore è la parola ultima e definitiva.

Per accogliere il mistero pasquale non possiamo fuggire dalla realtà, al contrario dobbiamo affrontarla. Accogliere il lavoro gradevole o sgradevole, l’avvenimento che mi cambia i piani, la situazione che mi viene imposta, perché è lì che Dio mi parla, si manifesta e soprattutto mi accompagna. E lo fa nella sorpresa della realtà quotidiana non in una vita progettata, definita, programmata.

7 TERESA DI GESÙ, Poesie

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Non parliamo di un’azione umana, ma di una sapienza spirituale, incarnata, di una sapienza che viene dallo Spirito e che solo lo Spirito può insegnarci.

É l’esperienza del distacco, dell’abbandono, della non dipendenza, o detto in un altro modo dell’abbandonarsi al Dio della vita. Come diceva Teresa de Lisieux, abitare la nostra vita è accoglierla, è amarla.

I meandri della nostra storia, i fallimenti delle nostre relazioni, le fragilità, i limiti, i nostri errori, personali e comunitari, forse più dei nostri successi, è la legna che può accendere di nuovo il fuoco di un amore e di una donazione che avranno l’ultima parola.

Pedro Poveda in un’esposizione orale del 1926, conosciuta come “Crocifissi viventi”, afferma: Cristo crocifisso è fonte perenne di pace, luce e fortezza8.

Molti credenti incarnano queste urgenze in modo profetico e con espressioni molto diverse, credenti che trovano la loro fonte d’ispirazione in altre religioni diverse dal cristianesimo, in altre convinzioni e soprattutto attraverso usi e linguaggi molto diversi.

Vivere con passione il presente ci chiede di avanzare in una maggior conoscenza, comprensione e apertura verso queste persone e sperimentarlo in relazioni puntuali o stabili, esprimendo vicinanza a tante persone di buona volontà che sono testimoni del Dio vivo nella ricerca di pace e di giustizia, nell’esperienza silenziosa della preghiera, nel desiderio di servizio e di donazione alla carità.

Le beatitudini: urgenze profetiche

Gesù, come frutto della sua esperienza di cercatore di Dio e con un linguaggio che ha attraversato culture e secoli di storia, ha trovato nelle beatitudini espressioni e gesti concreti per queste urgenze profetiche.

Gesù di Nazareth è l’uomo delle Beatitudini, perché in lui riconosciamo il povero, l’afflitto, il mansueto, l’affamato, l’assetato di giustizia, il misericordioso e il puro di cuore, il perseguitato a causa della giustizia e l’operatore di pace.

Le Beatitudini non sono un’ideologia né un’utopia, neppure una dottrina spirituale: attraverso di esse Gesù ci rivela la sua esperienza umana e uno stile di vita che dà volto alla felicità, una felicità molto diversa da quella che siamo soliti sentire raccontare. Sono urgenze profetiche che esprimono nel vissuto quotidiano ciò che è prioritario nel nostro modo di essere e di agire.

Quando Gesù annuncia le Beatitudini, non presenta un programma morale, bensì un messaggio teologico: si tratta del volto di Dio che promette la liberazione dei poveri, perché, in mezzo alle difficoltà e senza rassegnazione, trovino speranza e forza. Non c’è nessuna idealizzazione della povertà. Al contrario, Gesù denuncia la povertà, la fame e la sofferenza, e al tempo stesso annuncia che nel Regno di Dio si troverà la liberazione da tutto ciò e, ancora di più, invita a trovare consolazione, forza e speranza in un Dio che opera nella storia.

8 POVEDA PEDRO, Creí, por esto hablé . Narcea Ed. Madrid, 2006 [222]

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Gesù trasforma una moltitudine entusiasta, ma anonima, in una comunità profetica e pioniera. La relazione personale con Gesù è importante per la persona fragile, malata, emarginata; tuttavia Gesù va oltre e lancia un invito ampio perché tra le persone si crei solidarietà, perché esse reagiscano insieme di fronte alle situazioni di precarietà. Questo è il senso delle Beatitudini.

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. ] Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi9.

Nel nostro impegno per l’umanizzazione delle culture e dei popoli, nei compiti e le attività più quotidiane, dovremmo essere cercatori e testimoni del Dio incarnato che dice a noi, come ai discepoli: Voi stessi date loro da mangiare10.

Il gruppo dei giovani di “IT Youth Filippines” diceva nel Messaggio di Avvento:

Il mondo di oggi è assillato da innumerevoli prove e difficoltà. Lo sfruttamento e il degrado ecologici continuano senza controllo; i conflitti in varie parti del mondo producono lotte armate e guerre, facendo fuggire dalle proprie case famiglie e comunità. C’è una continua violazione dei diritti umani. Qui, nelle Filippine, molti giovani sono morti per aver lottato contro la droga, ciò che i media chiamano “assassinii extragiudiziali” e che mai hanno trovato soluzione. Questo è il mondo in cui viviamo. Questo è il tipo di società alla quale noi giovani siamo esposti: ciò può generare demoralizzazione e disperazione anche per i più forti di noi. Tuttavia Gesù ci chiama a unire le nostre forze per costruire una società più giusta e umana. Costruire una società umana è responsabilità di tutti11.

Viviamo il presente con passione, siamo uomini e donne che offrono uno sguardo nuovo, una giustizia nuova, una fraternità nuova, una apertura nuova al Dio vivo con la certezza che Gesù, che conosce le nostre capacità e ricchezze personali e comunitarie, insufficienti e povere, le moltiplicherà.

In un testo attribuito al poeta e drammaturgo tedesco Johan Wolfgang Goethe si dice:

Finché uno non si impegna, persistono i dubbi, la possibilità di fare marcia indietro, la paura della sconfitta, e tutto ciò ci rende alquanto inefficaci. Però c’è una verità elementare e non possiamo ignorarla: nel momento in cui uno si impegna veramente, lo fa anche la Provvidenza. A partire da questa decisione si mettono in movimento una serie di accadimenti: gesti e incontri insperati, aiuti materiali che nessuno avrebbe sognato che potessero giungere. Se sai che puoi, o credi che puoi, mettiti in cammino. L’audacia ha inventiva, potere e magia. Però bisogna incominciare.

9 Mt 5,3-1210 Lc 9, 1311 Messaggio di Avvento di IT Youth Philippines, 2017

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GUARDARE AL FUTURO CON SPERANZA

Viviamo un momento della storia molto interessante, la storia dell’umanità, della Chiesa, e sicuramente la storia di ciascuno di noi; un momento in cui ci sentiamo chiamati a fronteggiare domande e cambiamenti, a riconoscere risultati positivi nelle cose che facciamo e forse anche, perché è parte della nostra realtà umana, a superare fallimenti.

Nel nostro caso il momento di forte impegno che ci tocca vivere è un momento istituzionale interessante: le Assemblee che celebreremo nel 2018. Sono spazi di corresponsabilità ai quali si giunge dopo un forte processo di preparazione, di confronto e quindi di “inquietudine”. L’inquietudine di chi cerca creativamente cammini di pace e di giustizia per il nostro mondo.

Ma la domanda fondamentale che possiamo porci per guardare al futuro con speranza è: manteniamo nel cuore l’inquietudine per la ricerca? Senza inquietudine la nostra vita può essere sterile. Se oggi vogliamo essere ponti che mettano in relazione e frontiere che umanizzino, dobbiamo avere una mente e un cuore inquieto. Ci hai creato, Signore, per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te ci dice Sant’Agostino nel libro delle Confessioni12.

Papa Francesco, nel dialogo inedito che ha mantenuto per due anni con l’intellettuale francese Dominique Wolton “Politica e società”, espone con grande libertà la sua visione sulla Chiesa e sulla società. Circa la memoria dice:

L’uomo non può vivere senza memoria. Senza memoria la vita non procede. Perché il pericolo è cadere in un passato piatto, che non elabora il vissuto; e che neppure sa guardare avanti. Per me i tre pilastri della realtà storica dell’uomo sono la memoria del passato, del mio passato, il passato della mia cultura, la memoria come dato che ricevo e accolgo, la realtà presente e la promessa del futuro, la speranza che si fa promessa 13.

Sappiamo come credenti, che la fede è un fondamentale motore della ricerca, dell’inquietudine, della preoccupazione per la realtà che ci circonda. Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo. Per questo dobbiamo domandarci: abbiamo solo una visione o abbiamo anche la spinta necessaria per portarla avanti? Siamo audaci? Vogliamo esserlo? Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo della realtà così com’è?

In questo momento e con sguardo di gratitudine per quanto vissuto, abbiamo bisogno di immaginazione, di discernimento, di un cuore inquieto radicato nella speranza e anche di comunità e gruppi inquieti e, oserei dire, di una Associazione internazionale inquieta e viva, ansiosa, nel significato più pieno del termine, nel desiderare di servire meglio la Chiesa e il mondo.

Il discernimento di cui abbiamo bisogno si realizza sempre guardando i segni, ascoltando le cose che succedono, i sentimenti delle persone che conoscono il cammino umile della realtà e specialmente dei poveri. La sapienza che viene dal discernimento ci preserva dall’ambiguità della vita, dal proprio sistemarci e dalla mancanza di speranza.

12 SANT’AGOSTINO, Confessioni I, 113 PAPA FRANCESCO, Politique et société, Rencontres avec Dominique Wolton, Editions de l’Observatoire, 2017

Page 14: Carta Maite 2018-ital - Istituzione Teresiana

Lettera dell’anno 2018, Maite Uribe Bilbao 14

Paolo Freire, pedagogo brasiliano, esprime con sicurezza la speranza di cui abbiamo bisogno con queste parole:

È necessario avere speranza, però la speranza del verbo “esperanzar”, perché ci sono persone che hanno la speranza del verbo “esperar”. E la speranza del verbo “esperar” non è speranza ma attesa. Avere speranza è mettersi in piedi, seguire qualcosa, costruire, non desistere. Avere speranza è andare avanti unirsi con altri per operare in modo diverso14.

Per questo mi sembra tanto importante aiutarci a guardare il futuro con speranza, perché la speranza fa sì che il pensiero sia agile, intuitivo, flessibile, acuto. Le persone e i gruppi che hanno immaginazione non sono rigidi né inflessibili, hanno ironia, sguardo di misericordia e libertà interiore. L’immaginazione, come la creatività, aiutano a comprendere che la vita non è un quadro in bianco e nero. È un quadro a colori: alcuni chiari, altri scuri, alcuni tenui, altri vivaci. Però in ogni caso prevalgono le sfumature. E questo è lo spazio privilegiato per il discernimento, lo spazio nel quale lo Spirito agisce nelle persone, nei gruppi, nelle famiglie, nei progetti, in tutte le realtà nelle quali siamo presenti. Immaginazione, creatività e, quindi, visione di futuro.

Il maggior pericolo non è che il nostro obiettivo sia troppo alto e falliamo, ma che sia troppo basso e lo raggiungiamo, diceva Michelangelo.

Il periodo delle Assemblee è un periodo che ha bisogno della fantasia di tutte le persone che condividono il sogno di Poveda. Un sogno che deve continuare a incarnarsi nella storia e che ha bisogno di mezzi, strumenti e modelli nuovi, perché l’umanizzazione delle realtà che vivremo aspetta questo da un carisma nato per meglio servire il mondo che oggi abitiamo e le generazioni future.

“L’Opera non è mia, è della Chiesa, diceva Pedro Poveda. In qualche modo anche noi, che oggi viviamo questo carisma, dobbiamo far nostra questa riflessione e sentire quella fiducia totale e assoluta che l’Opera non è nostra, è di Dio e ciò che ci si chiede è vivere con passione il presente e guardare con speranza il futuro.

Quindi, quest’anno, la preghiera che accompagnerà in modo speciale un momento forte di gratitudine, di passione e di speranza sarà:

Signore, sei stato grande con noi! Mandaci il tuo Spirito di gioia e di speranza!

Un abbraccio affettuoso

14 FREIRE PAULO. A resignação como cumplicidade. Folha de São Paulo 8/11/2001