Carnevali del Sud Italia - Storia, arte e turismo

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CARNEVALI DEL SUD ITALIA Storia, arte e turismo VOLUME PRIMO V. Valter Lindo, Annaeva Detomaso, Luigina Pascale con la consulenza tecnico-scientifica di Pietro Sisto A cura di

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CARNEVALI DEL SUD ITALIAStoria, arte e turismo VoLUmE pRImo

V. Valter Lindo, Annaeva Detomaso, Luigina Pascale

con la consulenza tecnico-scientifica di Pietro Sisto

A cura di

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© 2009 by VERSUS

E’ vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, anche ad uso interno o didattico.

L’editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini e sui testi riprodotti, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere la debita autorizzazione.

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La presente ricerca rientra tra le attività del progetto CANTIERI CREATIVI - Tradizione, Arte, Turismo Sostenibile, progetto finanziato dalla Fondazione per il Sud e che ha, come soggetto proponente, la Fondazione del Carnevale di Putignano e come partner l’Associazione VERSUS, CNA Puglia, il Consorzio Meridia, la Cooperativa La Poderosa, l’Associazione Work in Progress e il Consorzio Moda e Sposa.Il progetto è finalizzato alla riscoperta e alla valorizzazione di arti e di mestieri legati al Carnevale creando delle opportunità occupazionali.

La ricerca è stata realizzata dall’Associazione VERSUS

Coordinamento e Direzione: V. Valter Lindo.Hanno redatto i testi: V. Valter Lindo, Annaeva Detomaso, Luigina PascaleConsulenza tecnico-scientifica: Pietro SistoProgetto grafico: Francesco LippolisRevisione testi: Mirella AmatulliConsulenza nella individuazione itinerari turistici: Coop. La Poderosa

Si ringraziano per il prezioso contributo: Roberto Bianco, Roberta Palmirotta, Rocco Stasi, Rosa Vitanza, Umberto Pagano, Antonio Ferri, Egidio Ippolito.

Un particolare ringraziamento alla Fondazione del Carnevale di Putignano, alla Pro Loco di Castrovillari e di Tricarico ai Comuni di Crispiano, di Misterbianco, di Alba Adriatica, di Villa Literno, di Putignano e alle altre amministrazioni ed enti dei Carnevali del Sud Italia citati nel testo che ci hanno messo a disposizione materiale storico bibliografico e il loro prezioso tempo.

I risultati della ricerca sono disponibili sui siti:www.retecantiericreativi.it - www.associazioneversus.it

Associazione Versus, Via Nino Bixio, 15/a70017 - Putignano (Ba)[email protected]

CANTIERI CREATIVI Tradizione, Arte, Turismo Sostenibile Progetto 2008/SAC/110

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Gli autoriV. Valter Lindo. Esperto di programmi di sviluppo locale, svol-ge attività di consulenza per la pubblica amministrazione e per strutture private. Ha pubblicato numerosi testi sulle tematiche legate allo sviluppo delle risorse umane ed ha collaborato nel-la progettazione di Cantieri Creativi, curandone l’ideazione e la stesura.

Annaeva Detomaso. Esperta in discipline scientifiche e do-cente in tematiche ambientali, collabora con varie strutture in progetti intesi a promuovere, valorizzare e conservare i beni naturalistici. Ha partecipato alla progettazione di iniziative finalizzate allo sviluppo locale attraverso strumenti di finan-ziamento pubblico.

Luigina Pascale. Laureata al D.A.M.S. (Discipline Arte, Musi-ca e Spettacolo) di Bologna con indirizzo cinema, ha lavorato come segretaria di edizione per alcuni cortometraggi girati a Bologna e come segretaria di produzione per una nota emit-tente televisiva del Mezzogiorno. E’ redattrice del portale di Cantieri Creativi.

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Sommario

INTRODUZIONE: IL PROGETTO CANTIERI CREATIVI E IL NETWORK DEI CARNEVALI DEL SUD

1. ALLA SCOPERTA DELLE ORIGINI DEL CARNEVALE 2. IL CARNEVALE E I SUOI MILLE VOLTI NEL NORD E CENTRO DELL’ITALIA

2.1 IL CARNEVALE NEL NORD ITALIA 2.2 IL CARNEVALE NEL CENTRO ITALIA

3. VIAGGIO TRA I CARNEVALI DEL SUD ITALIA 3.1 LE CARATTERISTICHE DEI CARNEVALI DEL SUD ITALIA

3.2 PUTIGNANO: UN CARNEVALE TRA I PIU’ ANTICHI DEL MONDO 3.2.1 I CORSI MASCHERATI 3.2.2 FARINELLA: LA MASCHERA DEI POVERI

3.3 CRISPIANO: CARRI, MASCHERE E FEGATINO3.4 TRICARICO: IL CARNEVALE IN “BIANCO E NERO”

3.4.1 LE MASCHERE3.5 CASTROVILLARI: MASCHERE, FOLKLORE ED EVENTI

3.5.1 VOCI DEL PASSATO3.6 MISTERBIANCO E IL SUO CARNEVALE DAI MILLE COSTUMI3.7 VILLA LITERNO: IL CARNEVALE DEI RIONI3.8 ALBA ADRIATICA: RE CARNEVALE IN PIENO SOLLEONE

4. CARNEVALE E DINTORNI

REFERENZE FOTOGRAFICHE

BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA

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INTRoDUZIoNE: IL pRoGETTo CANTIERI CREATIVI E IL NETWoRK DEI CARNEVALI DEL SUD

Cantieri Creativi è un’idea che prende forma, proprio come la cartapesta. L’idea è che, mettendo insieme gli elementi comuni delle tante manifestazioni carnascia-lesche del Sud, possano essere create opportunità di occupazione per i giovani di questi territori. Il progetto sviluppa numerose azioni, ha il suo fulcro nel cantiere della Cartapesta, ossia un Laboratorio creativo dove si producono prodotti artigia-nali originali e brevettati, frutto della tradizione e dell’ingegno delle maestranze locali, derivante dalla lavorazione della cartapesta. Partendo dal Carnevale e dalle tradizioni popolari ad esso legate, si vogliono valorizzare i mestieri ed i manufatti di artisti non professionisti che, con la loro passione ed attività, contribuiscono alla conservazione e trasmissione di saperi ed usanze. Laboratorio della cartapesta, ma non solo. Cantieri Creativi favorisce la nascita di una rete fra le amministrazioni del Sud che gestiscono eventi legati al Carnevale, sostenendo lo sviluppo di un circuito tu-ristico alternativo e destagionalizzato. Cantieri Creativi vuol favorire, fra i giovani, la riscoperta delle arti e dei mestie-ri legati alla tradizione popolare, riscoperta che può trasformarsi in opportunità lavorative: grazie alla rete dei partner del progetto, i manufatti in cartapesta pro-dotti dai giovani saranno pubblicizzati e proposti sul mercato. Il progetto, inoltre, favorirà, grazie al coinvolgimento di strutture pubbliche, la messa a disposizione di spazi pubblici dedicati. Come, ad esempio, il Laboratorio di cartapesta, spazio dove la creatività dei giovani potrà trovare espressione.Cantieri Creativi è anche un mezzo attraverso il quale favorire l’integrazione di giovani disagiati che potranno, attraverso la creazione di manufatti, ritrovare an-che un ruolo più attivo nella società.Cantieri Creativi è occupabilità. Attraverso partner istituzionali sarà favorito e sostenuto lo start-up di nuove imprese che produrranno, commercializzeranno e venderanno prodotti realizzati attraverso le tecniche acquisite. Cantieri Creativi è contaminazione. Lo scambio di mastro-cartapestai, prove-nienti da Carnevali di tutto il Meridione che svolgeranno nei laboratori attività pratico-didattiche, favorirà il confronto e lo scambio di tecniche di lavorazione della cartapesta e degli altri mestieri tradizionali ad esso collegati. Cantieri Cerativi è supporto alla creatività: sarà realizzato un concorso per pre-miare la migliore opera documentaria che tratti delle tradizioni e delle feste popo-lari nel Sud Italia. Sarà anche messo a punto un concorso di idee per la progetta-zione della “Cittadella del Carnevale”, ossia uno spazio fisico, messo a disposizione

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dal Comune di Putignano, sul quale realizzare strutture alberghiere, attrazioni, museo della Cartapesta, della tradizione locale e del Carnevale. Approfondire le origini del Carnevale, ricercare le varie peculiarità, le tradizioni ad esse legate significa riscoprirne la storia, ricercando, in questa manifestazione solo apparentemente ludica, anche una cultura millenaria.Cantieri Creativi è soprattutto un Network fra i Carnevali del Sud. Un network in divenire, promosso da quei comuni che, insieme a Putignano, hanno condiviso l’iniziativa: Crispiano (Ta), Villa Literno (Ce), Misterbianco (Ct), Tricarico (Mt), Ca-strovillari (Cs). A questi si aggiunge anche Alba Adriatica, un paese in provincia di Teramo che condivide, con gli altri paesi, una interessate manifestazione carna-scialesca. Network fra i Carnevali del Sud significa, in primis, valorizzare elementi condivisi, programmare insieme attività caratterizzate dalla magia del Carnevale e delle feste popolari rituali. Significa, anche, favorire lo scambio di giovani artisti, gruppi mascherati e delegazioni tra i Carnevali del Sud Italia, innescando azioni positive di integrazione, gemellaggi e scambi culturali. La ricerca contiene approfondimenti culturali sulla storia, le origini, le peculiari-tà e le tradizioni di ogni Carnevale del Network. Inoltre raccoglie e classifica altri aspetti della società legati al Carnevale come l’artigianato tipico, l’enogastrono-mia, i costumi e le usanze, ecc.Il Network fra i Carnevali del Sud di Cantieri Creativi non è solo storia e risco-perta delle antiche tradizioni. È anche turismo. Sono stati individuati e descritti percorsi turistici che ruotano intorno ai Comuni del Network. Un turismo che vuol essere “destagionalizzato”, legato non solo al Carnevale ma anche alle bellezze paesaggistiche che le città del network sanno offrire. Le “Vie del Carnevale” è la proposta del progetto che prevede la realizzazione di specifici itinerari e pacchetti turistici, che possano mettere in rete i vari Carnevali, destagionalizzare i flussi turi-stici implementando l’offerta ricettiva e i servizi.Il Network fra i Carnevali del Sud significa anche favorire gemellaggi tra i diversi comuni del Mezzogiorno, individuando temi comuni per indirizzare l’organizza-zione di spettacoli ed eventi legati al Carnevale.Infine il Network darà maggiore visibilità ai Carnevali del Meridione che non sono certamente “minori” rispetto a quelli più blasonati del nord.Cantieri Creativi è, in sintesi, un intervento integrato e strutturato, che sviluppa un processo virtuoso in cui l’identità culturale del territorio costituisce la base sulla quale si innesca un percorso di sviluppo locale duraturo.

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Quando oggi si parla di “Carne-vale”, il pensiero vola subito alle sfilate dei carri allegorici

e dei gruppi mascherati che tra suo-ni e colori riempiono l’atmosfera di allegria, balli, scherzi e burle. Infatti, in questo periodo difficilmente si è affetti da malinconia o tristezza: il Re Carnevale è brio e, come un sovrano, pretende dai suoi “sudditi”che si eva-da dalla realtà, lasciando nel cassetto i problemi di ogni giorno, per dare libero sfogo a cibi, bevande e svaria-ti divertimenti. Anche lo stesso pro-verbio cita: “A Carnevale, ogni scherzo vale”: un piacevole invito a uscire da-gli schemi, ad abbandonare i nostri ruoli per diventare magari qualcun altro, liberare la fantasia e catturare momenti di felicità.Carnevale è una scadenza calendaria-le e un rito di passaggio che interessa interi gruppi di persone; prevede di-versi riti spettacolari e, come succede in questi casi, vengono rappresentati in momenti dell’anno che si potreb-bero definire di “confine”. Altra carat-teristica della festa è il travestimen-to, una sorta di rovesciamento della condizione normale della persona e della società: le donne diventano uomini, i bambini diventano adulti, i poveri si travestono da ricchi. Questo

è un tema che si trova in ogni paese e attraversa tutta la storia. Sono riti di “ribellione”, momenti in cui la classe o il gruppo oppresso può dimostrare la sua umanità ed esprimere il desiderio di egualitarismo. Ma c’è di più. Una parte importantissima di questi riti implica lo scherzo che rompe per un momento la rigidità della gerarchia e dei rapporti fra adulti e bambini, mogli e mariti, animali e uomini. E at-traverso il gioco e lo scherzo, uomini e donne per un “periodo limitato” si comportano come individui liberi e

ALLA SCopERTA DELLE oRIGINI DEL CARNEVALE

1. Bimbi alla sfilata del Carnevale di Putignano del 1968.

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sono finalmente svincolati dai ruoli sociali.Il termine “Carnevale” secondo nume-rosi studiosi deriva dal latino carnem-levare, con riferimento alla prescri-zione ecclesiastica di astenersi dal mangiare carne a partire dal primo giorno di Quaresima, vale a dire dal giorno successivo alla fine del carne-vale, sino al “sabato Santo” prima del-la Pasqua.Esiste anche una diversa origine del termine “Carnevale”, maggiormente accreditata nell’ambito delle tradi-zioni carnevalesche teutoniche e del nord Europa in genere: essa fa deriva-re il termine da Carrus Navalis, simbo-lica imbarcazione che con l’avvento della primavera era usanza per le po-polazioni di pescatori agghindare e preparare per un ideale viaggio verso la città degli dei; Carrus Navalis fa rife-rimento a tutta la vasta mitologia che utilizza la nave e il carro come simboli di morte, come mezzo di traspor-

to delle anime dei morti nell’aldilà. In particolare, il viaggio per acqua è raccontato in diversi miti antichi, ma ancora oggi l’idea persiste nei reso-conti degli anziani pescatori rimasti in qualche lago del nord Italia.Diamo ora uno sguardo alle testimo-nianze storiche, perché possano aiu-tarci a ricostruire la storia delle origini del Carnevale.Già nel Paleolitico, le maschere erano utilizzate dagli uomini, in particolar modo dagli stregoni, durante riti ma-gici e propiziatori. Questi indossavano costumi adornati di piume e sonagli e assumevano aspetti terrificanti grazie a maschere dipinte, nell’intento di scacciare gli spiriti maligni.Nell’antica Babilonia, invece, l’equi-nozio di primavera veniva festeggia-to con una processione solenne in cui il Dio Luna e il Dio Sole, celebrando il loro trionfo sulle tenebre, venivano trainati su una nave provvista di ruote verso il santuario di Babilonia, simbo-lo della Terra, percorrendo in corteo una via che rappresentava il tratto su-periore dello Zodiaco. In Grecia, nel periodo tra febbraio e marzo, si celebravano ad Atene le An-testerie, una festa di tre giorni dedica-ta al culto dionisiaco. In tale festa, in cui si spillava vino novello da vasi di

2. U’ baresidd al Carnevale di Puti-gnano.

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argilla, si celebrava l’arrivo di Dioniso, il salvatore, proveniente dal mare per rigenerare il Cosmo, su una “barca” provvista di quattro ruote, trasporta-ta in processione da personaggi ma-scherati.Si giunge, così ai tempi dell’anti-ca Roma. Il popolo romano teneva delle feste in onore degli dei; Bacco (che in Grecia era Dioniso, il dio del vino che caccia i cattivi pensieri), ad esempio, era uno degli dei onorato con particolari festeggiamenti, detti Baccanali, che si svolgevano lungo le strade della città e prevedevano l’uso di maschere, immersi in un’atmosfera danzante dove non poteva mancare il vino, bevuto in grande quantità che aiutava ad abbandonarsi più facil-mente in gozzoviglie e riti licenziosi. Questa atmosfera euforica, dove tut-to era concesso alla fantasia, è bene espressa dai latini nel detto: Semel in anno licet insanire - una volta l’anno è lecito impazzire - .Nei mesi di marzo e dicembre, inve-ce, era la volta dei Saturnali, le feste sacre a Saturno, padre degli dei. Si tratta di una festività originariamente rurale, da celebrare in famiglia nelle piccole fattorie come anche nei gran-di latifondi, tutti insieme a tavola per festeggiare il ritorno del sole sulle

seminagioni ed il dio italico Saturno ad esse preposto. Secondo gli storici del tempo, questa festa continuò a svolgersi tra le gentes delle campa-gne fino al II secolo a.C.; nel I secolo, invece, si ebbe la trasformazione de-finitiva in festa pubblica. I Saturnalia

3. Disegno su coppa (dettaglio) pre-sente a Villa Giulia (520-510 a.C.).

4. Baccanale (gli Andrii) dipinto di Tiziano (1518-1519).

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si svolgevano nell’arco di circa sette giorni, durante i quali i rapporti ge-rarchici si capovolgevano: gli schiavi diventavano padroni e viceversa, gra-zie ai travestimenti. Così per le strade erompeva la gioia sfrenata della ple-be e degli schiavi che, per una volta all’anno, si concedevano a piaceri di ogni genere. Di qui venne il prover-bio latino che cita: Non semper erunt Saturnalia - Non sempre ci sarà la fe-sta di Saturno. Questi erano giorni di esplosione di rabbia e di frenesia in-controllata, che spesso degenerava in atti di intemperanza e dissolutezza. Negli anni i Saturnali divennero sem-pre più importanti: all’origine, infatti, duravano solo tre giorni, poi sette fin-ché, in epoca imperiale, furono porta-ti a quindici. Ai Saturnali si unirono le Opalia, in onore della dea Ope, mo-glie di Saturno, e le Sigillaria, in onore

5. Romolo e Remo dipinto di Rubens (1616 ca).

di Giano e Strenia. Infine, ricordiamo la festa dei Luper-calia (celebrata nel mese di febbraio) in onore della dea Febris e di Fauno, protettore del bestiame ovino e ca-prino dall’attacco dei lupi. I sacerdoti romani, che si chiamavano “Luperci”, durante questa festa tenevano una processione sino alla grotta sul Pala-tino, dove, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo. Il dio Fauno era rappresentato come un personaggio sbarazzino e allo stesso tempo seducente, tanto da riuscire a far innamorare le ninfe. Inoltre, amava prendere in giro e spa-ventare i pastori nei boschi, oppure nelle “vesti” di folletto o spiritello si intrufolava nelle case per far dispetti. Di qui si evince che già il dio Fauno aveva i caratteri di una maschera; così durante la festa in suo onore, fra riti e preghiere di espiazione, la gente si lasciava andare a banchetti a base di carne ovina (bestiame sacrificato) con l’aggiunta di vino e miele e agli schiavi era concesso godere a proprio piacimento della stessa festa. Più tardi anche in questi riti venne introdotto l’uso delle maschere, come avveniva già durante i Baccanali, probabilmen-te per non essere riconosciuti duran-te i festeggiamenti, il più delle volte

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poco ortodossi.È evidente, quindi, che i festeggia-menti affondano le radici negli anti-chi riti pagani, in un periodo storico anteriore al Cristianesimo, dove il Carnevale era considerato una festa con forti valenze simboliche legate al mondo agricolo-pastorale, in quanto si celebrava la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo. Infatti, attraverso una particolare cerimonia in masche-ra, si salutava la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, la quale, se-condo le credenze popolari, dava vita ad un ciclo di stagione opulenta, fe-conda e fertile per la terra, assicuran-do ottimi raccolti.Questi festeggiamenti, dunque, ave-vano carattere popolare e matrice religiosa, ma avevano anche lo scopo pratico di ritemprare le energie fisi-che, ovvero carnem exhalare, espres-sione che a fine Duecento diede origine a “carnascialare”, nel senso di ritemprare il corpo, scaricando le fati-che e i travagli quotidiani.Questo carattere magico-religioso contraddistinse la festa sino all’av-vento del Cristianesimo, la cui azione modificò radicalmente in senso spi-rituale l’essenza di taluni riti pagani. Il Cristianesimo, dunque, fece ordine nel complicato panorama delle fe-

stività romane e cercò di moderare quelle più smodate e trasgressive. E qui si innesta la seconda probabile interpretazione etimologica del ter-mine Carnevale. Probabilmente risale al XIII secolo, quando certe pratiche devozionali prevedevano l’utilizzo di un particolare carro che per la sua imponenza veniva detto carrus nava-lis, un carro di legno su ruote, che si portava in giro durante le processioni festive nei paesi d’area cristiana. Chia-ramente quel carrus navalis non era altro che figura di nave sotto forma di carro: la nave che fin dai tempi più antichi e in moltissime civiltà è stato

6. La nave dei folli dipinto di Hierony-mus Bosch (1490-1500).

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simbolo di viaggio esperienziale di tipo salvifico. (Grilletto, 2004)Durante l’epoca Medioevale il Car-nevale assume delle connotazioni più precise. È stata definita dagli storici e sociologi la “festa dei folli”: si attuava-no festeggiamenti trasgressivi, baldo-rie senza limiti morali, si consumava-no lauti pasti, ecc.I carnevali medievali sono anche macabri: sui veicoli si esibivano ma-scherati da morte e i carri stessi era-no decorati di rappresentazioni della morte. Il festum fatuorum era un “ac-costamento al disordine, un viaggio compiuto tramite cose morte e pu-trefatte”. (Saba Sardi, 1984)In seguito, nell’età della Controrifor-ma, il Carnevale subì varie resisten-ze da parte della Chiesa e dei diver-si ordini religiosi. Va precisato che la rappresentazione teatrale durante la prima metà del Cinquecento si svolge ovunque, poiché lo spettacolo non ha ancora un proprio luogo, una propria caratterizzazione o una propria strut-tura tipica. Se lo spettacolo nel corso del Cinquecento non ha un proprio luogo, ha però un proprio tempo: “il tempo della festa del Carnevale”. E proprio questo “tempo” che assume connotati di rito purificatorio. Si pensi alla scena culminante della festa che

consiste nel funerale di Re Carneva-le: un fantoccio, che rappresentava allo stesso tempo sia il sovrano di un auspicato e mai pago mondo di “cuc-cagna”, sia il capro espiatorio dei mali dell’anno passato, a cui viene dato fuoco. La sua fine violenta poneva termine al periodo degli sfrenati fe-steggiamenti e costituiva un augurio per il nuovo anno. Nel Rinascimento i festeggiamenti in occasione del Carnevale furono introdotti anche nelle corti europee ed assunsero forme più raffinate, le-gate anche al teatro, alla danza e alla musica: gli attori in maschera, quelli privilegiati, sono poi tenuti a mette-re la loro arte al servizio dei mecena-ti, si esibiscono davanti ad un’élite e organizzano spettacoli nelle suntuo-se sale dei palazzi rinascimentali, nei giardini principeschi e nelle regge dei magnati. Va dunque precisato che il Carnevale nel Cinquecento era una prerogativa dei nobili e tale festa si estese immediatamente in tutta la nostra Penisola, favorendo la nascita e lo sviluppo di splendide scenogra-fie, di maschere regionali e soprat-tutto la diffusione delle compagnie girovaghe. La festa carnevalesca raggiungerà il massimo splendore nel XV secolo,

7. Trionfo di Bacco e Arianna partico-lare del dipinto di Annibale Carracci (1595-1600).

8. Commedianti italiani dipinto di Jean Antoine Watteau (1720).

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nelle strade della Firenze di Loren-zo dei Medici. Danze, lunghe sfilate di carri allegorici e costumi sfarzosi segnano una svolta di questa festa, amatissima nella culla rinascimenta-le. Lo stesso Lorenzo dei Medici, rag-guardevole uomo di stato, scrisse il Trionfo di Bacco e Arianna: una ballata dove la maschera pagana del dio Bac-co ritorna trionfante sulla scena invi-tando a godersi la vita, perché “Quel c’ha a esser, convien sia… di doman non c’è certezza… ciascun suoni, balli e canti… chi vuol esser lieto sia: di do-man non c’è certezza”.In seguito nel corso del Seicento il Carnevale diventa una festa popo-lare e le maschere della Commedia dell’Arte, stabilendo sempre più un diretto contatto con la realtà “bas-sa e volgare”, adottano il linguaggio dialettale-popolare della loro regione d’origine; così il servo Pulcinella rap-presenta Napoli, il servo Arlecchino la regione bergamasca, Pantalone la città di Venezia, Gianduia la società torinese, Meneghino la città di Mila-no, ecc.Oggi, dopo alterne vicende di gloria e decadenza, si registra un forte rilancio delle manifestazioni carnevalesche. Per un certo aspetto, ed in molti casi, esse sono il frutto di un sincero recu-

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pero di tradizioni popolari, da lungo tempo dimenticate, l’appropriazione di un’identità culturale ormai perdu-ta. Per un altro aspetto sono il risultato di un sapiente lavoro imprenditoriale dove il business diventa il volano per iniziative turistiche e per la valorizza-zione di aree geografiche trascurate, con importanti ricadute sui livelli oc-cupazionali e sul benessere delle co-munità.I riti di Carnevale costituiscono l’occa-sione nella quale le pulsioni ancestrali più profonde della civiltà agropasto-rale del Meridione emergono in tutta la loro spettacolarità. Non c’è comuni-tà del Sud nella quale non si rinnovino le tradizioni che mutano da paese a

paese, mantenendo però alcuni sub-strati comuni quali il legame con i riti della fertilità, l’avvio del nuovo ciclo stagionale agricolo, il risveglio della natura, la cacciata del vecchio anno, il rapporto con il bosco, la transu-manza, l’innesto della civiltà cristiana con i rimandi alla morte e soprattutto all’imminente Quaresima. Il ciclo carnevalesco è in genere così scandito:

fase di avvio caratterizzata da •forme di annuncio pubblico del-la festa;fase di massimo sviluppo nei tre •giorni del giovedì grasso, della domenica e del martedì grasso; fase di fine Carnevale; •fase di “ripresa” nella mezza Qua- •resima.

Ciascuna di queste fasi presenta for-me di cerimonialità festiva complesse e varie: travestimenti, maschere, cor-tei, satire, testamenti, falò, canti, dan-ze, eccessi alimentari, finti funerali e bruciature di fantocci.

9. “Martedì grasso” dipinto di Gabriel Bella;

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Le tradizioni, dunque, legate al Carnevale sono innumerevoli e si differenziano non solo per

le maschere e i carri di cartapesta, ma anche per il diverso rapporto che ogni manifestazione ha con il proprio territorio. Il Carnevale si fa in questo modo specchio di quelle che sono state le vicissitudini storiche, le soffe-renze, le tradizioni e i costumi del luo-go. Scopriamole insieme mediante una “passeggiata” virtuale attraverso i carnevali più caratteristici d’Italia. Il

testo, infatti, ci aiuterà a toccare diver-se regioni e ad addentrarci in alcune località che probabilmente abbiamo sentito nominare solo qualche volta. Il protagonista che ci accompagnerà per mano in questo viaggio virtuale sarà proprio il Carnevale che, data la sua natura estrosa, si diverte a cam-biare volto di paese in paese lascian-do, però il suo segno indelebile. A noi non resta che seguirlo, per scoprire i suoi mille volti.

2.1 Il Carnevale nel Nord Italia

IL CARNEVALE E I SUoI mILLE VoLTI NEL NoRD E CENTRo DELL’ITALIA2

La nostra carrellata inizia dal Nord Italia, lato estremo orientale: sia-mo in Friuli Venezia Giulia, preci-

samente in Val di Resia (provincia di Udine), dove l’elemento fondamenta-le del Carnevale è rappresentato dalla danza eseguita con i tipici strumenti musicali resiani, la cïtira (violino) e la bünkula (violoncello). Le danze si pro-traggono per ore ed ore, nelle osterie e negli spazi predisposti per i festeg-giamenti. Si balla, tempo permetten-do, anche all’esterno, in particolare la domenica pomeriggio. Il Carnevale si conclude il Mercoledì delle Ceneri,

con il rogo del fantoccio, segnando così la fine di un ciclo per ricominciar-ne uno nuovo più prosperoso.Le maschere tradizionali resiane sono di due tipi: te lipe bile maškire, le belle maschere bianche, ed i babaci/kukaci [babazi / kukazi], le maschere brutte. Te lipe bile maškire sono composte da una o più gonne bianche ornate da merletti e nastri. Le gonne sono gene-ralmente tre con le seguenti altezze: la più lunga arriva ai piedi, la seconda più corta arriva a metà polpaccio e la terza al ginocchio. Se è una, può ave-re pizzi e nastri che la fanno sembrare

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composta da tre gonne. La camicia è bianca e anch’essa può essere ador-nata da merletti o piccole pieghe. Attorno alla gonna e sulla camicia ci sono nastri colorati; le scarpe sono chiare così come le calze.Come copricapo le maschere si com-pletano con un bel cappello alto, adorno di fiori di carta colorata e pic-coli sonagli. In mano possono avere fazzoletti e campanelli che suonano mentre ballano. I babaci/kukaci [ba-bazi/kukazi] sono molto più semplici e non richiedono particolare cura e attenzione nel confezionamento. È sufficiente camuffarsi con abiti vecchi o semplicemente mettere la giacca a rovescio oppure una vecchia vesta-glia. Qui la fantasia può spaziare. Il viso può anche essere sporcato con fuliggine o con carboncino oppure coperto. Questi due tipi di maschere sono ancora oggi presenti.Ci spostiamo in Veneto, in un comu-ne della provincia di Padova: siamo a Casale di Scodosia. Qui si festeggia il “Carnevale del Veneto” per anto-nomasia. L’organizzazione ed il pro-

gramma dei festeggiamenti all’ori-gine prevedevano “travestimenti... a faccia scoperta apposti sopra ad una colonna di sette carri tirati da animali facendo la sfilata al proprio paese con su la testa un piccolo concerto mu-sicale”... “giochi popolari (corsa con i sacchi, corsa con ‘catiletti di legno’)” e per “ultimo finto processo e condan-na coll’impiccagione di Carnevale alla forca”. Le attuali manifestazioni per la maggior parte ricalcano quelle dei primi anni del Novecento: maschere e mascherine con abiti ricercati fanno da scenografia agli elaborati carri al-legorici.

10. Costumi delle “belle maschere bianche - Te lipe bile maškire” in Val di Resia.11. Particolare del copricapo del co-stume Te lipe bile maškire.

12. Carro allegorico di una delle pri-me sfilate tenute a Casale di Scodosia (Pd).

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Sempre nella regione Veneto, ritrovia-mo un’altra manifestazione di fama nazionale, quella di Venezia. Qui i giorni di Carnevale sono un fiorire di iniziative e di spettacoli, da quelli im-provvisati da numerosi artisti di stra-da a quelli pianificati dagli organizza-tori. Ogni anno viene individuato un tema centrale che funge da filo con-duttore e che viene sviluppato sotto i vari punti di vista, da quello più cul-turale a quello più prettamente spet-tacolare. Negli ultimi giorni, invece, la città pullula di persone in maschera che allegramente invadono calli e campielli. Si vede sfilare di tutto, dalle

statiche e fredde dame del Settecen-to ai più ingegnosi costumi moderni. Uno dei travestimenti più comuni nel Carnevale antico, soprattutto a parti-re dal XVIII secolo, rimasto in voga ed indossato anche nel Carnevale mo-derno, è sicuramente la Baùta. Questa figura, tipica della città veneziana ed indossata sia dagli uomini che dalle donne, è costituita da una particolare maschera bianca denominata larva sotto ad un tricorno nero e completa-ta da un avvolgente mantello scuro, il tabarro, per assicurare il totale anoni-mato. La particolare forma della ma-schera consentiva di bere e mangiare

13. La Baùta, maschera tipica del Car-nevale di Venezia.

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senza doverla togliere.Facciamo ora un salto in Trentino, pre-cisamente nella Val di Fiemme. Lungo il lato sud-ovest della valle è ubicato un piccolo comune che conta poco più di 500 abitanti e caratteristico per il suo carnevale. Siamo in Valfloriana (provincia di Trento): sono le dieci del mattino quando l’intera valle viene risvegliata da stridenti suoni di cam-pane. Non si tratta di un segnale litur-gico: è il Matòcio, che dall’alto della montagna, agitando il suo campa-naccio posto in zona pelvica, avvisa i paesi più a valle del suo imminente e prorompente arrivo e si prepara per la sua missione. Il “Carnevale dei Ma-tòci” ha così inizio. In questo periodo si ripropone l’antica usanza dei “cortei nuziali”, trasformata in manifestazione carnevalesca all’inizio del secolo scor-so. I costumi e le bellissime maschere sfilano in corteo per l’intera giornata,

coinvolgendo la popolazione di tut-te le località della valle. Tantissime e molto particolari le maschere di que-sta festa: i Matòci, gli arlecchini, i so-nadòri, la bèla, gli spósi, i paiàci.Il personaggio principale è il matòcio: il viso nascosto dalla maschera di le-

14. Il Matòcio, maschera del Carneva-le della Valfloriana.

15. Sfilata degli arlecchini, Carnevale della Valfloriana.

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gno (facèra) e con l’abito addobbato di pizzi e nastri colorati, ha il compito di precedere il corteo dei compaesani. All’ingresso di ogni frazione, fermato e interrogato, risponde in falsetto an-che grazie alla maschera di legno che ne camuffa la voce: deve essere tanto abile da non farsi riconoscere. Di fra-zione in frazione il corteo variopinto e sghignazzante (ci pensano i paiàci a combinarne di tutti i colori!) arriva fino alla frazione posta più in basso, dove in genere ha luogo il grande ballo finale.Passiamo in Lombardia, all’estremità settentrionale della comunità mon-tana di Vallesabbia, in provincia di Brescia, per scoprire il “Carnevale Ba-gosso” della cittadina di Bagolino: le attrattive sono rappresentate dai Bal-lerini, dai Suonatori e dai “Maschér” (le Maschere). I Ballerini e i Suonatori si esibiscono solo il lunedì e il martedì di carnevale. I Ballerini cominciano le ballate lungo le strade del paese fermandosi in luo-ghi stabiliti. Una volta era consuetu-dine fare tre suonate sotto le finestre della fidanzata o degli amici. Danzano muovendo le mani in modo persona-lissimo e scherzoso che i bagolinesi chiamano segnacole; i Suonatori che accompagnano i Ballerini sono sei e

suonano due chitarre, due violini, un mandolino (introdotto di recente) e un contrabbasso.Sempre in Lombardia, poco più a sud, in provincia di Cremona, trovia-mo una maschera che caratterizza il Carnevale di Crema, Gagèt co’ l sò uchèt: il Gagèt con la sua oca, il cui carro apre sempre, ritualmente, la sfi-lata dei mastodontici carri allegorici. Col termine Gagi venivano ironica-mente chiamati dai cittadini i conta-dini che si recavano in città il giorno di mercato con la curbèla (cestino) e l’oca, animale tipico d’allevamento in queste zone. Il Gagèt ha l’abito nero, ormai scapàt (stretto e corto), soli-tamente quello di nozze, indossato nelle grandi occasioni, vistose calze e coccarda bianco-rossa, i colori della città. In testa un cappellaccio, ai piedi zoccoli di legno, e fazzoletto al collo. Un tocco di eleganza, indubbiamente

16. Particolare di una facèra, masche-ra di legno tipica del Carnevale della Valfloriana.17. Costume tipico del Carnevale Ba-gosso.

18. Maschera ufficiale del Carnevale di Crema.

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fuori luogo, è dato dai guanti bian-chi e dalla gianèta (canna di bambù come bastone). Durante la manifesta-zione non mancano le golosità: nella suggestiva piazza del Duomo, ogni domenica di Carnevale, vengono al-lestite circa cento bancarelle per la degustazione e la vendita di prodotti tipici (dal formaggio da gustare con le piccanti «tighe» agli originali tortel-li, alle immancabili frittelle di Crema).Un altro carnevale lombardo è quello di Cegni, una frazione di Santa Maria di Staffora in provincia di Pavia. Si tie-ne nei giorni del sabato grasso e del

16 agosto. Ha come caratteristica la rappresentazione del matrimonio, evento centrale dell’intera manife-stazione che si avvia con un corteo, costituito da musicisti e ballerini che attraversano le viuzze del paese. Con gli strumenti tipici della valle Staffo-ra, pifferi e fisarmoniche, i musicisti suonano una sestrina, brano da stra-da utilizzato negli spostamenti. Li seguono i ballerini, con il costume montanaro, gilè e cappello per gli uomini, gonne lunghe con grembiu-le e camicia bianca arricciata con gilè nero per le donne. Giunti nello spiaz-

19. Momento delle “danze” durante la manifestazione del Carnevale di Cegni (Pv).

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zo, i musicisti salgono sul tavolo che funge da palco e cominciano le dan-ze, quelle tradizionali della valle, note come danze delle quattro province, ancora oggi diffuse nella zona. Termi-nate le danze arriva la povera donna (un uomo travestito), portata da una slitta di legno (detta lesa) trainata da un cavallo, che indossa abiti contadi-ni, lo scialletto e il fazzoletto in testa. Il pretendente, detto il Brutto, arriva ca-valcando a pelo, con un abito ornato da piccole strisce di stoffa colorate ed in testa un alto cappello fatto a cono con pellicce. La povera donna è ac-compagnata dai genitori, altrettanto poveri, che portano in dono una gal-lina in un cestino. L’uomo brutto, che ovviamente è ricco, è accompagnato dai genitori, elegantemente vestiti da cittadini, e da due testimoni molto particolari, che portano abiti bianchi con cintura rossa (vecchie camicie femminili con ricami e pizzi), calzetto-

ni a righe, cappelli di paglia ornati da fiori di stoffa da cui scendono lunghi nastri colorati.I promessi sposi, con i propri accom-pagnatori, si incontrano e dopo la presentazione viene sancito il rito con una bevuta in osteria. A questo pun-to c’è la parte più importante, il ballo di corteggiamento, una danza antica legata a riti arcaici di morte e resur-rezione, dove si alternano tre parti: l’inseguimento, il corteggiamento, il balletto. Finito il ballo si va verso l’al-tare (un inginocchiatoio) dove il prete benedice le nozze (e tutti i presenti) con l’acqua di una catinella smaltata e uno scopino. Si chiude il rito dan-zando tutti insieme. Oltrepassiamo il confine lombardo per giungere in Piemonte dove è ri-nomata la manifestazione della fa-mosa e discussa Battaglia delle Aran-ce e la più tranquilla fagiolata. Siamo ad Ivrea, in provincia di Torino, dove

20. Momento del “matrimonio” du-rante la manifestazione del Carneva-le di Cegni (Pv).

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i festeggiamenti iniziano il giorno dell’Epifania, annunciati dal suono della banda con il passaggio delle di-sposizioni al nuovo Generale, che ar-bitrerà il Carnevale. Vi sono numerose sfilate in maschera durante le dome-niche e sparo di fuochi d’artificio. Il momento cruciale, però, è la Battaglia delle Arance che avviene lungo le vie cittadine, insolita ma suggestiva non solo per la violenza con cui il combat-timento avviene, ma anche perché si utilizza un frutto che, da queste parti, non ha nulla di tradizionale. Altro carnevale importante è quello di Santhià, in provincia di Vercelli. Tanto tempo fa, quindici giorni prima del Carnevale, si svolgeva la sfilata dei maiali (la Salamada) che, infioc-chettati, venivano condotti al macel-lo. La tradizione, però, non viene più ripetuta. Tra le manifestazioni recenti ricordia-mo quella del lunedì precedente al martedì grasso, quando viene allesti-ta la più grande fagiolata d’Italia. Alle cinque del mattino i pifferi e i tamburi provvedono alla sveglia delle autorità

carnevalesche addette alla erezione delle monumentali cucine da campo in piazza dei fagioli ed alla accensio-ne dei fuochi a legna per la cottura della succulenta specialità. La fagio-lata, preparata secondo una ricetta antica da secoli, verso mezzogiorno, previa benedizione del parroco, vie-ne servita sulle chilometriche tavole che attorniano la piazza. Il martedì grasso, invece, si svolgono i 24 giochi di Gianduja (gare per i bambini) ed il Rogo del Babaciu (si brucia un fantoc-cio che rappresenta il Carnevale), con uno spettacolo di fuochi d’artificio. Questa festa è rappresentata da due maschere storiche, gli sposi Stevulin ‘dla Plisera e Majutin dal Pampardu, che prendono il nome da due cascine

21. Momento della Battaglia delle Arance ad Ivrea (To).

22. La grande fagiolata del lunedì grasso a Santhià (Vc).

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esistenti.Sempre in provincia di Vercelli, nel piccolo centro di Borgosesia, è rino-mato il carnevale la cui prima edizione ufficiale risale al 1854. Si tratta di uno dei carnevali storici italiani, prolun-gandosi per un arco di 3-4 settimane con manifestazioni gastronomiche e balli in maschera, giornate dedicate ai bambini e, soprattutto, con tre sfi-late di carri allegorici che animano il centro cittadino.Nell’ambito delle manifestazioni merita una particolare citazione un evento unico in Europa: il cosiddetto Mercu Scûrot (in lingua piemontese significa Mercoledì oscuro), ovvero il Mercoledì delle Ceneri. Mentre tutti gli altri carnevali di rito romano termi-nano con il Martedì grasso, il carneva-le borgosesiano vive l’atto conclusivo nel primo giorno di Quaresima, per inscenare con un lungo corteo una sorta di funerale del carnevale stes-so. L’idea nacque da un gruppetto di persone che, non rassegnate alla fine delle feste carnascialesche, decisero

il giorno dopo del martedì grasso di celebrare il funerale di carnevale. Ap-prestarono quindi una finta bara su un carro e, seguendo il carro vestiti con gli abiti eleganti usati all’epoca in simili circostanze (solitamente un frac), improvvisarono un corteo fune-bre per il paese, con opportune soste in tutte le osterie incontrate lungo il percorso.Ancor oggi i partecipanti si ritrovano la mattina del Mercoledì delle Cene-ri vestiti di tutto punto: frac, gala (un grosso farfallino bianco di garza), ci-lindro e mantella. Accessori indispen-sabili sono il cassùu, un mestolo di legno utilizzato per bere il vino che viene distribuito in apposite posta-zioni dislocate lungo il percorso del corteo e la scova che entra in azione ogni qualvolta un malcapitato si rifiu-ta di mescere il vinello. Dopo il pranzo (spesso a base di fagiolate), i cilindrati (così vengono definiti i partecipanti alla manifestazione) iniziano un giro della città che si conclude soltanto a sera inoltrata con la lettura del Testa-

23. Sfilata dei “cilindrati” il Mercu Scu-rot a Borgosesia (Vc).

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mento del Peru Magunella, masche-ra cittadina, il rogo propiziatorio del pupazzo che raffigura la maschera ed uno spettacolo di fuochi artificiali.Sempre in Piemonte, a Rocca Gri-malda, in provincia di Alessandria, durante il periodo carnascialesco si può assistere alla rappresentazione della Lachera. Protagonista di questa manifestazione è un corteo nuziale, accompagnato da servitori (i lachè, che danno il nome alla festa), arlec-chini (trapulin), zuavi armati, cam-pagnole e mulattieri. La tradizione vuole che il rito sia nato dalla rivolta del popolo contro il signore del pae-se che pretendeva di esercitare lo jus primae noctis sulle spose del feudo. I personaggi del corteo nuziale dan-zano attorno alla coppia con fiori e nastri colorati, spade, sonagli e fruste. Nella coreografia si fondono elementi guerreschi e nuziali, mentre i costumi portano il segno delle diverse epoche in cui il carnevale è cresciuto. La carat-teristica della Lachera consiste nel fat-to che i personaggi del corteo, e solo loro, indossano maschere facciali. Gli abitanti accolgono il corteo nuziale con offerte di cibo e vino, da legare alla “carassa propiziatoria”, un palo di castagno che viene trasportato dai mulattieri. Le danze proseguono in-

torno al fuoco fino a tarda notte.Lasciamo il Piemonte e, spostandoci più a ovest, ci ritroviamo in Valle d’Ao-sta, in una piccola cittadina nota per i suoi riti che non sono altro che una rievocazione di un fatto accaduto nel lontano 1449 e riproposto ai giorni d’oggi con costumi d’epoca, sfilate nel borgo storico e cene con serate dan-zanti all’interno dell’antico castello. Siamo a Verrès, in provincia di Aosta; il sabato di Carnevale, tra lo sfolgorio delle fiaccole, il rullare dei tamburi, gli squilli delle trombe, il Gran Ciambel-lano, attorniato da armigeri, arcieri, portabandiera, annuncia Caterina ed il consorte Pierre d’Introd e i conti del seguito, che impersonano i nobili della Casa Challant. Il Gran Ciambella-no legge il proclama, invitando tutti all’allegria e a dimenticare i problemi e gli affanni. La sfilata raggiunge il Municipio dove Caterina riceve i pieni poteri dal Sindaco. La schiera di nobili e popolani si dirige poi verso il ma-niero, pronta a trascorrere una lunga nottata tra musiche e balli.L’ultimo giorno di Carnevale, il marte-dì, inizia con la distribuzione di polen-ta, saucisses, fisous, fisous et vin clair de notre, in piazza. Nel pomeriggio, si snoda per le vie del borgo una sfila-ta di gruppi folkloristici e mascherati,

24. Sfilata dei partecipanti alla La-chera durante il Carnevale a Rocca Grimalda (Al).25. Momento della manifestazione del Carnevale a Verrès (Ao).

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carri allegorici, bande musicali, sem-pre accompagnati da Caterina e dal suo seguito. L’ultimo appuntamento è il Veglionissimo di chiusura al Ca-stello, serata con ballo in maschera.Ancora in Val d’Aosta ricordiamo un carnevale spettacolare, tipico dei pae-si della Valle del Gran San Bernardo, la cosiddetta “Coumba Freida” (cioè “valle fredda”, a causa del vento che spira forte per gran parte dell’anno). La prima notizia documentata del carnevale festeggiato risale al 1467, ma è solo dopo il passaggio dell’eser-cito napoleonico nel 1800 che prese il via la tradizionale sfilata della cosid-detta benda, maschere con le caratte-

ristiche landzette, costumi ispirati ap-punto alle divise dell’esercito france-se. Questi abiti costosi, confezionati interamente a mano, sono rifiniti con perline e paillettes e specchietti che ri-flettono la luce. Il volto delle landzette è coperto da una maschera (vesadjie), un tempo di legno, oggi solitamen-te di plastica; in mano tengono una coda di cavallo ed in vita hanno una cintura munita di un campanello, tut-ti elementi simbolici capaci di allon-tanare gli spiriti maligni.Negli ultimi giorni di Carnevale si svol-gono le sfilate ufficiali, ma già nelle settimane precedenti, piccoli gruppi mascherati fanno visita alle famiglie delle diverse frazioni dove vengono accolti festosamente per bere, man-giare, cantare e scherzare. Facciamo ora un salto in Liguria per scoprire uno dei carnevali più belli e meno conosciuti del nord Italia che si tiene in una splendida cittadina a metà strada tra Genova e la Francia. A Loano, in provincia di Savona, la tradi-zione del Carnevale viene festeggiata da secoli con canti, balli e satire. Piut-tosto antichi sono anche i “testoni”, grosse teste di cartapesta dipinte con colori vivaci che raffigurano solita-mente persone ben note della comu-nità; sul berretto portavano il nome

26. Particolare dei costumi carnascia-leschi dei paesi della Valle del Gran San Bernardo (Ao).

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del personaggio preso di mira. Questi testoni, indossati da ragazzi e uomini di tutte le età, sfilavano singolarmen-te o a gruppi e partecipavano a veri e propri concorsi a premi. Nell’Ottocen-to e nel primo Novecento si sono poi aggiunti recite e teatrini improvvisati nelle piazze e negli edifici pubblici.Non si sa, invece, con esattezza quan-do abbia avuto inizio l’usanza dei carri di carnevale. Esistono però foto di quelli del 1925, del 1927, dei 1929 con i palchi per la giuria che assegna-va i premi ai carri e alle maschere più belle e spiritose. Durante la sfilata si recitavano poesie satiriche e filastroc-che particolarmente pungenti che

prendevano di mira i personaggi di spicco della città, sull’onda dell’antica tradizione dei testoni. La maschera ufficiale è “Pue Peppin” (Papà Pep-pino), l’erede di Re Carnevale che, sfilando a cavallo, apriva tradizional-mente la sfilata dei testoni. Da non dimenticare anche la maschera di “Beciancin”, il giardiniere simpatico e burlone, amante del buon vino, che si divertiva a bagnare le coppiette per poi scappare via, sghignazzando, di-vertito.Partiamo ora verso l’Emilia Romagna dove ci sono manifestazioni di fama nazionale e altre meno conosciute, ma di certo singolari per alcune ca-

27. Gli antichi “Testoni” di cartapesta che sfilavano durante il Carnevale a Loano (Ge).28. Beciancin, maschera ufficiale del Carnevale di Loano (Ge).

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ratteristiche. Il nostro viaggio ci porta inizialmente in provincia di Parma, in una piccola cittadina di nome Busse-to che diede i natali a Giuseppe Verdi. Qui il carnevale nacque intorno alla metà dell’Ottocento. Fu interrotto solo durante il periodo di guerra. Da sempre questa manifestazione ha at-tirato dai paesi vicini maschere e carri allegorici artigianali.La tradizione si è mantenuta nel tem-po grazie all’Associazione “Amici della cartapesta”; sono rimasti gli enormi Carri in cartapesta, le Bande e le Ma-jorettes, i Soggetti Speciali e le ma-schere a piedi. Ci spostiamo in provincia di Ferrara, in una cittadina agricola ricca di corsi d’acqua e di maceri, dove del carne-vale si hanno notizie già dal Seicento grazie ad alcuni affreschi del famoso pittore Gian Francesco Barbieri detto il “Guercino”, che raffigurò “il Berlin-gaccio”, una maschera locale, in una festa nel palazzo comunale offerta al popolo nel giovedì grasso dal Ma-gistrato cittadino, con profusione di dolciumi e rinfreschi. Siamo a Cen-to; agli inizi del Novecento i cittadini pensarono di creare un proprio re a simbolo del carnevale: nacque così Tasi, Luigi Tasini, che un tempo era realmente esistito e stimato. La festa

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ha mantenuto i connotati della ma-nifestazione tipicamente locale sino alla fine degli anni ‘80 del Novecento quando è iniziata una vera e propria “rivoluzione”, grazie anche al gemel-laggio con il Carnevale di Rio de Janei-ro, il più famoso del mondo. Lo spirito allegro e giocoso, tipico di questa ma-nifestazione, viene incarnato dai ma-stodontici e colorati carri allegorici di cartapesta che sfilano ogni domenica tra due ali di folla festante e incanta-ta. Ogni associazione carnevalesca ha un gruppo molto variopinto e festoso che conta centinaia di persone. Una parte sul carro, l’altra, più numerosa e scatenata, lo precede a piedi fra i por-tici seicenteschi della città. Sfilano poi bande di gruppi comico-folkloristici ed artisti di strada che coinvolgono il

pubblico in una atmosfera d’allegria. Nella provincia di Reggio Emilia, pre-cisamente a Castelnuovo di Sotto, troviamo una manifestazione che, secondo i documenti storici, nasce con la costituzione di una Società per il Carnevale nel 1885. Scopo dichia-rato della Società, al suo nascere, era quello di “promuovere e coordinare i divertimenti carnevaleschi onde maggiormente favorire il commercio e le industrie locali”; vennero così or-ganizzati due corsi mascherati nell’in-terno del paese con carri, carrozze e maschere. Era permesso, durante il corso, gettare fiori e confetture, men-tre era severamente proibito il lancio di arance. Col trascorrere del tempo questa manifestazione si è consoli-data sempre più, superando anche

29. Particolare di un carro allegorico di Busseto (Pr), sfilata anno 2009.

30. Particolare di un carro allegorico di Cento (Fe), sfilata anno 2009.

31. Proposta della scuderia “Mae-strina” per la sfilata dell’anno 2007 a Castelnuovo di Sotto (Re).

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i tempi più critici (come quello delle guerre) ed è giunto sino ai nostri gior-ni con la costituzione delle “Scuderie”, gruppi di amici che costruiscono i carri. Il lavoro è abbastanza lungo e faticoso, visto che è necessario rispet-tare il regolamento interno inerente le caratteristiche dei carri. Il vincitore riceve, infine, il Gonfalone che conser-verà per tutto l’anno, fino al carnevale successivo.Maschera simbolo di questo carne-vale è il Castlein: ha la berretta cala-ta sulle orecchie, le scarpe grosse da contadino e i calzoni di qualche ta-glia in più rispetto alla propria. Non si vergogna della povera condizione economica, né della sua ignoranza accademica perché a sostenerlo c’è il

buon senso contadino, la solidarietà di tutti i suoi concittadini, la solidità del suo lavoro e dei suoi valori.Spostandoci più a est, giungiamo ad Imola (provincia di Bologna); qui il carnevale, nonostante abbia alle spal-le una tradizione incentrata in parti-colare sulla sfilata dei carri allegorici e sui veglioni, ha deciso, circa una deci-na di anni fa, di reinventare una tradi-zione locale. Nasce, così, il Carnevale dei Fantaveicoli ossia di veicoli che possono mescolare fantasia, creativi-tà, ingegnosità, colore, stravaganza, ironia. Il veicolo può essere creato in modo originale ed unico, come pure essere realizzato assemblando bi-ciclette, carriole o altri veicoli d’uso comune: importante è che abbia un preciso tema e che non utilizzi motori inquinanti. Quindi qualsiasi soluzione senza motori va bene (a spinta, a pe-dali, a traino, a vela, ad elica, ecc.) op-pure con motori ad “emissione zero” (ad energia elettrica, a pannelli solari, ad aria compressa, ecc). Alla sfilata dei fantaveicoli partecipano anche nu-merosi gruppi mascherati che colora-no di originalità questo carnevale. Concludiamo il nostro viaggio in ter-ra romagnola visitando Gambetto-la, piccola cittadina in provincia di Forlì-Cesena, famosa per i mercati di

32. Logo del Carnevale dei fantavei-coli ad Imola (Bo).

33. Carro allegorico di Gambettola (Fc), sfilata anno 2007.

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ferrovecchio, per le piadine appeti-tose e per il suo carnevale. È nato nel lontano 1886 e come allora, anche oggi riempie di allegria gli animi dei partecipanti con i carri, le maschere e i gruppi folkloristici che sfilano per le vie cittadine. Durante le sfilate non manca il lancio dai carri allegorici di dolciumi, uova di cioccolato, palloni e peluche. Particolare attenzione alle date in cui si tengono queste sfilate: a Gambettola, il carnevale si festeg-gia il Lunedì di Pasqua e la domenica successiva; per questo motivo, si par-la anche di Carnevale di Primavera, la nuova stagione che viene salutata nell’allegria più sfrenata e con i mille colori dei coriandoli e delle stelle fi-lanti.

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Scendiamo giù per lo Stivale ar-rivando nelle regioni del cen-tro. Ci spostiamo inizialmente

sul versante occidentale; siamo in provincia di Lucca, a Viareggio, una città rinomata a livello nazionale per il carnevale e per le sue coste che si affacciano sul mar Ligure. In questa città, la tradizione della sfilata dei carri allegorici risale al 1873, quan-do alcuni ricchi borghesi decisero di mascherarsi per protestare contro le pesanti tasse che erano costretti a pagare. Da allora ogni anno si realiz-zano carri trionfali che interpretano alla perfezione il pensiero e il malcon-tento di tanta gente. A far gli onori di casa c’è la maschera Burlamacco, ac-compagnata da Ondina. Il suo nome, probabilmente, deriva dalla “burla” carnevalesca, ma forse anche da “Bur-lamacca” che è il canale che attraversa la città: è assai probabile che derivi da quest’ultimo termine se si considera che il nome della sua compagna si lega al movimento sussultorio delle acque del canale, le piccole onde, da cui appunto il nome Ondina.Spostandoci più a sud, giungiamo ad Arezzo dove è rinomato il carnevale dell’Orciolaia, che prende il nome dal quartiere in cui nasce, ad opera di due parroci che riuscirono ad organizzare

il “carnevale dei ragazzi” nella piazza antistante la chiesa, che si concluse con il falò del pagliaccio di carnevale. Dopo la prima manifestazione, nac-que un comitato organizzativo, che ha voluto lo sconfinamento rionale (la sfilata dei carri percorre strade che vanno oltre il rione dell’Orciolaia), un maggior numero di partecipanti e nuovi gemellaggi con realtà esterne a quella di Arezzo. Di anno in anno la macchina organizzatrice ha fatto passi da gigante, tanto da rendere questa manifestazione un momento importante per gli aretini e non solo; il merito è quello di creare diversi eventi all’interno di quello principale, accrescendo così lo spettacolo e l’in-teresse della gente. I carri allegorici

2.2 Il Carnevale nel Centro Italia

34. Burlamacco, maschera ufficiale del Carnevale di Viareggio (Lu).

35. Carro allegorico di Arezzo, sfilata anno 2009.

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sfilano come veri e propri palcosce-nici in movimento: danze, musiche, lancio di coriandoli sortiscono un ef-fetto spettacolare sui partecipanti e i gruppi mascherati, insieme alle ban-de e alle majorettes, fanno da cornice a questa grande festa. Desta interes-se il fatto che i carri allegorici hanno sfilato per le vie non solo durante il periodo carnascialesco, ma anche per festeggiare alcuni eventi particolari di interesse cittadino. Si pensi alla pro-mozione in serie B della U. S. Arezzo avvenuta nella stagione calcistica 1981/1982, quando sfilò lungo le vie

cittadine un carro con Re carnevale modificato all’uopo. Restiamo in provincia di Arezzo, per giungere a Foiano della Chiana; qui ritroviamo un carnevale nato nel 1539, che si costruisce tutto l’anno, che si vive ogni giorno. Esiste una ri-valità accesa fra i gruppi storici (sono quattro) che lavorano tutti i giorni dell’anno per la realizzazione dei car-ri. Nei primi tempi, i carri non erano di cartapesta e non avevano lo scopo di rappresentare ardite allegorie. Si trattava di semplici carrozze e “carri matti” dai quali venivano lanciati lu-pini, castagne e baccalà sulla gente assiepata. Da allora la manifestazione si è evoluta verso forme più moder-ne di rappresentazione in cui i nobili dispensatori di “leccornie” hanno ce-duto il passo alla satira e all’allegoria di eventi e uomini politici, di film o di fantasie popolari.La festa che si consuma ogni anno trova con molta probabilità le proprie radici nei riti propiziatori medioevali. Tra i diversi riti, infatti, c’è il rogo di Giocondo, il re del Carnevale che vie-ne rappresentano come un fantoccio di cenci e paglia. Prima che Giocondo venga bruciato nella piazza principa-le, la tradizione vuole che si faccia il “testamento”, ovvero che si leggano

36. Carro allegorico di Foiano della Chiana, sfilata anno 2009.

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davanti a tutti i fatti più o meno po-sitivi accaduti durante l’anno da poco finito, e che si proceda ad un vero e proprio funerale, quello dell’inverno che sta per finire. Giocondo, dunque, non è solo una maschera burlona da gettare fra le fiamme, ma un simbo-lo arcaico attraverso il quale la cultu-ra contadina inneggia alla rinascita, all’arrivo della primavera.Il nostro viaggio tra i carnevali del centro Italia prosegue in terra umbra, tra boschi e amene colline, nella citta-dina di Todi, in provincia di Perugia, dove le manifestazioni sono incentra-te su rievocazioni storiche medioevali. Per le strade sfilano oltre 300 figuranti in costume che danno vita a inedite e spettacolari scene medioevali con battaglie combattute da esperti mae-stri dell’arme, giostre di cavalli, sban-dieratori, giochi, arcieri con frecce di fuoco. Non mancano i mangiafuoco sui trampoli, cantastorie, falconieri e

venditori vocianti. Oltre 200 stendar-di, che tappezzano il percorso della sfilata, creano un’atmosfera sugge-stiva che fa tuffare gli astanti in un lontano passato. Il tutto è arricchito dalla festa del maialino arrosto e del vin brulè.Arriviamo, dunque, sul versante orientale della nostra penisola, in un importante centro delle Marche che si affaccia, appunto sul mar Adriatico: siamo a Fano, provincia di Pesaro-Urbino. Qui ha sede il carnevale più antico d’Italia: il primo documento noto nel quale vengono descritti fe-steggiamenti tipici del Carnevale risa-le, infatti, al 1347. Col tempo la festa si è trasformata, tanto che nel 1872 si decise di creare un comitato per l’organizzazione dell’evento che an-cora oggi coinvolge e appassiona mi-gliaia di abitanti e di turisti. Il lancio di quintali di caramelle e cioccolatini dai carri allegorici è, senza dubbio, il

37. Momento della manifestazione del Carnevale a Todi (Pg).

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punto di forza di questo Carnevale. Un altro elemento assolutamente ori-ginale è il caratteristico pupo, detto vulon: si tratta di una maschera che rappresenta i personaggi più in vista della città e che, insieme alla “Musica Arabita”, vanta una lunga tradizione. È una spiritosa banda musicale, nata nel 1923, che utilizza strumenti di uso comune quali barattoli di latta, caffet-tiere, brocche per produrre un’allegra musica, in perfetta sintonia con il cli-ma allegro e spensierato del Carneva-le. Le sfilate dei carri allegorici, tradi-zionalmente realizzati in cartapesta dagli abili maestri, si concludono con un giro assolutamente suggestivo: quello della luminaria, una vera e pro-pria festa di luci e colori.Scendiamo più a sud, fermandoci sul subappennino marchigiano, in un piccolo centro particolare per la sua posizione geografica, dato che sorge su uno sperone roccioso, attorniato

da due rami fluviali. Siamo ad Offida in provincia di Ascoli Piceno; in que-sta manifestazione carnascialesca si ritrovano tracce degli antichi Bacca-nali greci e, più ancora, dei Saturnali romani. Il pubblico viene ogni anno coinvolto in un’autentica festa del po-polo dove, messa da parte ogni rego-la o convenzione sociale, è d’obbligo divertirsi. L’ultimo giorno di Carneva-le tutti si mascherano, sbucando da ogni parte con il tipico guazzarò (saio di tela bianca con fazzoletto rosso al collo), tra urla, danze, scherzi di ogni sorta e lanci di coriandoli. A colora-re l’atmosfera, le varie congreghe e i gruppi mascherati che, al suono delle fanfare, danno vita a piccole farse in-centrate per lo più sui temi della viri-lità e della fertilità. Da non perdere la sfilata dei Vlurd: centinaia di uomini e donne mascherati, con lunghi fasci di canne accesi sulle spalle, sfilano tut-ti barcollanti in fila indiana, tra urla e

38. Foto storica del gruppo “Musica Arabita” al Carnevale di Fano (PU).

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danze selvagge. Il Corso sembra un serpente fiammeggiante. Giunti nella piazza principale dispongono al cen-tro i “bagordi” ancora in fiamme; le maschere come impazzite corrono a cerchio intorno al falò, mentre urla e canti si fondono tra vortici di fumo e miriadi di scintille.Nell’estrema parte meridionale del-le Marche ritroviamo Ascoli Piceno, altra importante città caratteristica per i monumenti e per la vicinanza di due aree naturali protette. In questo angolo delle Marche, il Carnevale si svolge a terra attraverso un continuo scambio di ruoli tra le maschere e gli spettatori, i quali diventano essi stes-si protagonisti dell’azione scenica. In questo modo tutti i presenti sono coinvolti: i cittadini imitano perso-naggi celebri della realtà locale, come il sindaco o un assessore, oppure na-zionale, come il Presidente del Con-siglio o della Repubblica. Accanto ai gruppi organizzati la città si popola di tantissime maschere singole, dette comunemente macchiette, che, con pochi mezzi e tanta inventiva, riesco-no a far vivere l’atmosfera ironica e surreale della manifestazione.Ancora più a sud, varchiamo il con-fine abruzzese per immergerci nella cittadina di Francavilla al Mare in

39. Sfilata dei Vlurd, durante il Carne-vale di Offida (AP).

40. Una macchietta del Carnevale di Ascoli Piceno.

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provincia di Chieti, dove la tradizione nasce nei primi anni del dopoguerra, quando in occasione del Carnevale un gruppo caratteristico del luogo, il complesso “Zazzà in cerca di Zuzzù”, si esibiva lungo le strade del paese; fu così che negli anni successivi ven-ne costituito un Comitato ad opera di alcuni meritevoli cittadini, che an-cora oggi, organizzano la manifesta-zione e la costruzione dei carri. La tipica sfilata è ogni anno ispirata alla caricatura e alla satira di personaggi ed eventi saliti alla ribalta dei media nel corso dell’anno, alla quale parteci-pano gruppi folcloristici, danzatori e piccole orchestre, semplici cittadini e bambini. La manifestazione si snoda lungo uno dei viali principali nel cen-tro città, richiamando un’innumere-vole folla di spettatori.In provincia di Teramo, invece, a Montorio al Vomano, ha luogo il Carnevale Morto, con il quale si rap-presenta la fine dei festeggiamenti e l’imminente avvento della Quaresi-ma. Viene allestito un corteo funebre a cui partecipa tutta la popolazione, accompagnando la salma lungo il percorso che nei giorni precedenti è stato attraversato da festosi carri allegorici. Si tratta comunque di una vera e propria parodia del rito fune-

bre, decisamente sopra le righe, con un turbine di balli, danze e musiche a cui partecipa un nutrito gruppo di figuranti in costume. L’evento rappre-senta quindi una cesura netta col pas-sato, che viene dunque considerato ormai morto. Questo funerale mostra evidenti tutte le caratteristiche di un rito pagano, simboleggiando la rina-scita dopo il rigore invernale e ricolle-gandosi agli antichi riti della fertilità. Esso rappresenta la fine di un periodo e l’inizio, dopo l’avvenuta catarsi, di un nuovo ciclo.Qualche chilometro di strada e rag-giungiamo il Lazio; in provincia di Vi-

41. Carro allegorico del Carnevale di Francavilla al Mare (Ch).

42. Istantanea del Carnevale di Mon-torio al Vomano (Te).

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terbo, nella cittadina di Ronciglione situata su un grosso ciglione tufaceo, l’inizio dei festeggiamenti è indicato dal campanone, percosso da un “cam-panaro”, arrampicatosi fin sulla torre del Comune. Il Re Carnevale, scortato da cavalieri in costume, si insedia nel-la città, prendendo in consegna dal sindaco le chiavi, per assicurare a tutti cinque giorni di baldorie e di follia. Segue la corsa degli Ussari, detta an-ticamente la “Carriera”. È una corsa di cavalli non sellati, lanciati al galoppo senza fantino che percorrono circa un chilometro attraverso le vie cittadine. Nei giorni successivi - con una parti-colare intensificazione la domenica e il martedì grasso - altre corse di cavalli simili alla precedente, nuove danze in piazza, gare di maschere, veglioni e, attesissimo, il Gran Corso di Gala, con una imponente sfilata di carri allego-

rici. Tra le maschere si aggirano i Nasi Rossi, una confraternita di buontem-poni, fedeli seguaci di Bacco. La sera del martedì grasso, con la collabora-zione del complesso bandistico lo-cale, nella piazza principale inizia un grandioso saltarello cui partecipano tutti i presenti, in maschera o meno. Al termine, il Re Carnevale, condan-nato a morte, viene dato alle fiamme.Spostandoci più a sud rispetto a Vi-terbo e alla stessa capitale, ritroviamo un carnevale storico che si svolge nel capoluogo ciociaro. Siamo a Frosino-ne; il culmine dei festeggiamenti lo si raggiunge l’ultimo giorno di carneva-le con la Festa della Ràdeca (altro non è che una foglia d’agave, antico sim-bolo di fertilità), la cui origine si perde in un’epoca remota, molto probabil-mente precristiana e che richiama gli antichi riti di fertilità e del ciclo della

43. I Nasi Rossi, maschere tipiche del Carnevale di Ronciglione (Vt).

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vita, col passaggio dalla morte alla ri-nascita. Durante questa festa devono essere rispettate alcune regole come, ad esempio, quella di avere in mano la “ràdeca” se non si vuole incorrere nella punizione che consiste nel su-bire un certo numero di “radecate”, soprattutto sulla testa; inoltre chi è forestiero o nuovo della manifesta-zione deve essere “battezzato” con il tocco della ràdeca sulla schiena come rito di iniziazione. Caratteristica è an-che la figura del “notaro”, un cittadino in costume su un asino che legge al resto della popolazione un bando in chiave satirica per criticare, senza pe-ricolo di guai giudiziari, le mancanze degli amministratori ed il loro ope-rato, ma anche quello dei cittadini

più in vista, insieme ai loro eventuali meriti. Inoltre questo rito è accompa-gnato dalla sfilata di carri allegorici e gruppi mascherati.Concludiamo il nostro viaggio nel centro Italia ricordando il carneva-le romano. Tempo fa questa festa a Roma era molto attesa e durava ben otto giorni con festeggiamenti di ogni tipo, con la nota ruzzica de li porci (lancio dei maiali attaccati al carretto lungo i pendii del monte). Un appun-tamento annuale di grande successo in particolare tra i più giovani ai quali era consentito almeno in quei gior-ni scherzare, bere e divertirsi senza incorrere in qualche punizione. Non mancavano le corse di cavalli, uomini, ragazzi e donne, sfilate in maschera,

44. Istantanea del Carnevale di Frosi-none durante la festa della Ràdeca.

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carri allegorici, tornei e giostre, lanci di monete e distribuzioni di cibo: una girandola di festeggiamenti che coin-volgeva tutta la popolazione e richia-mava turisti e curiosi da ogni parte. In particolare, come accennato sopra, le manifestazioni più attese erano due: la corsa dei berberi e la festa dei moc-coletti.La Corsa dei berberi era una sfrenata

corsa di cavalli, di proprietà di ricchi aristocratici, attraverso le strade cit-tadine; gli spettatori non facevano altro che aizzare i cavalli con urla e con dolorose punte di ferro. All’arrivo, indicato da un gran telone sospeso, i cavalli venivano trattenuti a fatica dai “barbareschi” (gli stallieri). Questa tra-dizione si mantenne per oltre quattro secoli, finché fu abolita a causa di un incidente mortale avvenuto.L’ultimo giorno di Carnevale, invece, c’era la “festa dei moccoletti”. Ognu-no usciva da casa in maschera e con un moccolo (un lumino, una fiaccola o anche una lanterna) e, una volta in strada, bisognava spegnere il mocco-letto a una persona di sesso opposto, conservando acceso il proprio; chi aveva il moccoletto spento doveva togliersi la maschera.Festeggiato anche ai giorni nostri il Carnevale non ha la stessa importan-za di un tempo, ma consiste solo in fe-ste in alcuni teatri e quartieri di Roma, maschere e coriandoli per i bambini.

45. “La mossa dei barberi”, dipinto di G. F. Perry (1827).

46. “I moccoletti al corso”, dipinto di I. Caffi.

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Abbiamo percorso in lungo e in largo quasi tutto lo Stivale; quel che resta è il sud Italia e

le sue manifestazioni che andremo a scoprire, soffermandoci maggior-mente su alcune cittadine aderenti al network dei Carnevali del sud creato da Cantieri Creativi.

3.1 Le caratteristiche dei Carnevali del Sud Italia

VIAGGIo TRA I CARNEVALIDEL SUD ITALIA3

Il nostro viaggio inizia dalla Campa-nia, a Napoli, dove la maschera di Pulcinella fa da padrone. Dapprima

la festa era riservata ai principi, ai no-bili cavalieri, alle dame, alle duchesse, alle marchese e all’alta aristocrazia napoletana, la quale ben mascherata aderiva ai tornei, ai gran balli, alla cac-cia al toro, alle cavalcate e ai lussuosi ricevimenti organizzati dalla Corte. Solo verso il XVII secolo le mascherate

esercitarono un notevole fascino an-che sul popolo, tanto da indurre pe-scatori, macellai, pescivendoli, conta-dini a scendere in piazza e nei vicoli per festeggiare. Il tutto era arricchito dai costumi tradizionali, da strani tra-vestimenti, da giochi particolari e da canti carnascialeschi.Nel regno dei Borboni, il Carnevale conobbe un momento di grande glo-ria; veniva festeggiato con sfilate, ma-scherate e con bellissimi carri allego-rici che spesso venivano arricchiti con gustosi cibi, tanto da subire violenti saccheggi. Durante i secoli XVII e XVIII era in voga il gioco “dell’albero della Cuccagna”, detto anche comunemen-te “palo di sapone”, dal momento che l’altissimo palo veniva interamente in-

47. Putignano, sfilata del 1986.

48. Dipinto di A. D’Anna che raffigura una festa di Carnevale del 1774 con sfilata di carri a Largo di Palazzo, l’at-tuale Piazza del Plebiscito.

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saponato e reso scivoloso. L’abilità dei giocatori consisteva proprio nel riusci-re a salire in cima all’albero e afferrare tutte le varie delizie che erano state messe in mostra: vini, pietanze, salu-mi, dolciumi, vivande, maiali, capretti, uova, formaggi, ecc; da qui si deduce pure che il termine cuccagna sta per “paese delle meraviglie, dei piaceri e delle delizie”. Questo gioco rispecchia anche la specifica concezione gastro-nomica napoletana dell’“abbuffarsi” abbondantemente prima di iniziare il lungo digiuno quaresimale.Oltre Pulcinella, che è la maschera simbolo sia della cultura partenopea che del Carnevale napoletano, ricor-diamo altre “mezze maschere” popo-lari di vitale spessore: La Vecchia del Carnevale, la Zeza, Don Nicola, Don Felice Sciosciammocca.La Vecchia del Carnevale è precisa-mente una maschera nella maschera, poiché è rappresentata da due figure: una Vecchia e Pulcinella. Tutti la chia-mano la Vecchia ‘o Carnevale. La vec-chia signora ha un aspetto abbastan-za particolare: la testa, il viso, il busto sono deformi e invecchiati, mentre il resto si presenta come un corpo giovane e prosperoso dal seno ab-bondante. Ha un’enorme gobba alla schiena, sulla quale poggia Pulcinella

che balla la tarantella (costringendo in tal modo la vecchia a compiere del-le mosse oscene) e suona le nacchere. I due vagano così insieme per i vico-li e i quartieri di Napoli. Questa ma-schera ha un significato simbolico: la parte deforme del corpo rappresenta il tempo passato, l’inverno e la natura appassita, la parte giovanile rispec-chia la primavera, l’arrivo del nuovo anno ricco e fecondo, la rinascita, la vitalità. Zeza, invece, è il diminutivo di Lucre-zia e non è altro che la moglie di Pul-cinella, nonché una delle protagoni-ste di una antica commedia d’amore. Infatti si diffuse nel Seicento e tratta

49. Maschera della Vecchia ‘o Carne-vale tipica del carnevale di Napoli.

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la storia di un amore contrastato tra Vincenzella (figlia della Zeza e di Pul-cinella) e Don Nicola, uno studente di origine calabrese. Pulcinella è molto possessivo e geloso della propria fi-glia e non gradisce assolutamente la relazione che c’è tra i due giovani, ma alla fine (dopo essere stato minaccia-to dal genero) è costretto a rassegnar-si e ad accettare che Don Nicola sposi Vincenzella. Questa scenetta carne-valesca, ricca di doppi sensi, battute mordaci, oscene e licenziose, propo-ne lo scontro tra vecchi e giovani, tra genitori e figli, tra marito e moglie; uno scontro che tra Otto e Novecen-to sarà sempre più vivo e presente nel repertorio teatrale comico napoleta-no.Restiamo in provincia di Napoli per conoscere il carnevale di Palma Cam-pania, che si contraddistingue per l’esibizione delle quadriglie, gruppi costituiti da un numero variabile di persone (anche 200), che si sfidano in un’avvincente competizione musica-le che ha il suo culmine nel martedì grasso.La prima quadriglia palmese che si ricorda risale al primo Novecento e il suo maestro fu tale Biagio ‘o seggiaro, ma le prime manifestazioni risalgono a molto prima. La quadriglia si com-

pone di un certo numero di fiati (clari-netti, tromboni, sassofoni ecc..), che di solito si aggira intorno ai 15 elementi, e che svolgono il ruolo di strumenti guida, e della cosiddetta piccola ban-da costituita dalla grancassa (‘ranca-scia), dal tamburo (tammuriello) e dai piatti o cimbali. A questi strumenti si aggiungono le tradizionali tam-murelle, triccaballacche, putipù e sce-tavajasse e strumenti a percussione tipici della zona (o’ lignamme). Ogni quadriglia si esibisce suonando il pro-prio canzoniere, comprendente un repertorio che può spaziare dai brani musicali della tradizione classica na-poletana alle canzoni più in voga del momento. Un’altra caratteristica delle quadriglie è rappresentata dai travestimenti rea-

50. Locandina del carnevale di Palma Campania (Na).

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lizzati sulla base di un tema scelto che varia di anno in anno; ogni gruppo si impegna per fornire la rappresen-tazione migliore, utilizzando anche carri allegorici, dando così origine a sfilate colorate e festose. Gli apparte-nenti al gruppo si dispongono nella tradizionale formazione a cerchio con al centro il maestro a far da guida. Ad ogni cerchio corrisponde una giuria che vota i costumi, le musiche, il ma-estro e alla fine decreta la quadriglia vincitrice dell’ambito palio. Infine ricordiamo Saviano, una zona limitrofa di Napoli. Agli inizi del se-colo erano tipiche le sfilate di carret-ti addobbati con motivi floreali, con esibizioni di danze e canti ‘ncoppa a tammorra; negli anni Trenta sfilavano nel Paese bande musicali in costume, quadriglie, esequie di Carnevale e gruppi carnevaleschi che improvvi-savano curiose e divertenti scenette da teatro popolare. Nel dopoguer-ra le tradizioni sono state riprese da Fedele De Marino con un originale corteo funebre africano, con costu-mi arabeggianti. Dal 1979, invece, si è sviluppato un Carnevale con carri allegorici, prima con un solo carro nella contrada di Sant’Erasmo ad opera del maestro Nicola Strocchia e di Radio-A.R.C.I., con un carro deno-

minato “Masaniello” (ripercorreva la sua storia). Col tempo sono sorti vari comitati che ricalcano, grosso modo, i rioni in cui è suddiviso il territorio del comune di Saviano e i carri sono di-ventati tredici. La manifestazione non è solo costituita dalla sfilata dei carri nel giorno di martedì grasso, ma da feste popolari che, nelle tre settimane antecedenti, animano il paese. La particolarità di questa manifesta-zione è costituita dal forte legame con le tradizioni contadine del terri-torio nolano, dall’intento di conserva-re la memoria storica.Lasciamo la Campania per prosegui-re il nostro viaggio verso la Basilicata. Siamo a Potenza; nel periodo di car-nevale, il popolo si lasciava andare a svaghi e divertimenti limitati al ballo, soprattutto la tarantella, che al suono

51. Le Quadriglie di Palma Campania, anno 2008.

52. Carro allegorico di Saviano (Na), sfilata anno 2009.

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de la tammurrièdd’ (del tamburello), piffero, o altro strumento musicale si ballava in ogni casa o ‘int’ la cuntana (nel vicolo). I ragazzi, invece, per bur-la, come se piangessero, nel giorno di carnevale si divertivano per la stra-da cantando il seguente ritornello: “carnvale mie, chiène d’uòglie, stasera maccarone e craie fuòglie” - carnevale mio, pieno d’olio [cioè grasso] questa sera maccheroni e domani verdura.Ci addentriamo ora nell’entroterra lu-cano alla scoperta delle tradizioni car-nascialesche di alcuni piccoli centri della provincia di Potenza. A Satria-no di Lucania il Carnevale è incentra-to su tre figure chiave: l’orso, il romito e la “Quaremma”. La figura dell’orso è presente in molti cortei carnascia-leschi in aree montane e legate alla cultura del bosco, ma anche in tutta la Sardegna ed in qualche paese della Sicilia. Lungo l’Appennino e l’arco al-pino, ed in particolare nelle comunità occitane, l’orso è una delle figure cen-trali del Carnevale, spesso accompa-gnato da una sorta di domatore che lo controlla con una catena o una corda. Con l’avvicinarsi della primavera, l’or-so (la natura) si risveglia dal letargo e si aggira tra gli uomini cercando cibo. A Satriano l’orso è rappresentato da maschere coperte di pelli di capra e

pecore, al piede una catena spezzata ed in mano i campanacci. Ad affianca-re l’orso c’è il romito, altra suggestiva figura appartenente al mondo agro-pastorale. È completamente rivestito di edera fino ad essere irriconoscibile e proviene dalla foresta; in mano por-ta lunghe verghe. La “Quaremma”, come altrove in Ba-silicata, è impersonata da maschere con le fattezze di vecchie in abiti più o meno tetri; porta o in braccio o sul capo, adagiato in una culla, un pupaz-zetto rappresentante Carnevalicchio. I personaggi principali sono accom-pagnati da un corteo nuziale: insieme agli sciagurati sposi incedono il prete e gli amici. A Pietrapertosa il rito segue un’al-tra tradizione ben presente nei pic-coli borghi contadini: il processo a Carnevale. Il corteo è formato dai giudici, dai cancellieri e dalla “Qua-remma”, moglie e prossima vedova di Carnevale che avanza incatenato fra i gendarmi. In piazza si celebra il processo e la condanna è inesorabile. Il fantoccio di Carnevale è prima im-piccato poi bruciato, mentre un’altra maschera, vestita di nero e con le cor-na di caprone sulla testa, raffigurante il demonio, infierisce con un forcone sui resti del condannato.

53. Tarantella al suono de la tammur-rièdd’.

54. I romiti, tipiche maschere del Car-nevale di Satriano di Lucania (Pz).

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A Pedali, frazione del comune di Viggianello sul Pollino, il pupazzo di Carnevale, con la pancia gonfia, è portato in giro su un asino addob-bato con nastri colorati, circondato da questuanti armati di cupa-cupa e organetti. Si cerca l’offerta nelle case e presso i commercianti. Si arriva alla sera ormai ebbri, quando il povero Carnevale espia le colpe di tutti finen-do al rogo.A Trecchina, protagonista del carne-vale è il “Contacronze”: un personag-gio vestito con il tipico giubbone dei pastori ed in testa un cappellaccio scuro che, con versi in rima, canzona i personaggi più noti del paese, accom-pagnato dal ritmo della cupa-cupa.Ci spostiamo ora nei paesi della pro-vincia di Matera. A S. Mauro Forte si vive il rito carnascialesco tra campa-nacci, transumanza, cicli agricoli. Il campanaccio è strumento indispen-sabile nella tenuta delle mandrie: ogni animale ne è provvisto e serve a se-gnalarne la presenza nei boschi e sui pascoli. Il suono, all’orecchio esperto del pastore, aiuta a individuare anche la gerarchia tra gli animali, poiché al momento della transumanza le vac-che seguiranno, aiutate anche dal campanaccio, la femmina riconosciu-ta come “capomandria”.

55. Il pupazzo di Carnevale portato a spasso a Pedali (Pz).

56. La cupa-cupa.

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Le sfilate dei “liberi suonatori”, una sorta di mandria in movimento, ormai impegnano il paese per ben tre gior-ni, ma tradizionalmente il momento centrale della festa è il pomeriggio-sera della vigilia di S. Antonio Abate (17 gennaio). Tradizione vuole che nel pomeriggio si preparino le grandi e profonde cantine-grotte del paese con brace, vino, formaggi e salumi pronti a rifocillare e sostenere la fatica dei “suonatori”. All’imbrunire i vicoli del paese sono invasi da gruppi inta-barrati in mantelli scuri, con in testa cappellacci che spesso nell’antichità erano costituiti dalle coperture in vi-mini dismesse dalle damigiane ed ar-mati dell’immancabile ed imponente campanaccio. Ogni gruppo, quasi come un clan familiare o amicale, può avere qualche distintivo nell’ab-bigliamento e può essere preceduto da personaggi che inalberano lunghi bastoni con appesi campanelli, spi-ghe di grano, nastrini colorati ed altri emblemi tipici della cultura dei mas-sari e dei pastori. In qualche grup-po sono ancora presenti animali da soma, con sul basto la testa tagliata al povero maiale appesa per le orec-chie, vittima sacrificale predestinata dell’antico rito. Ogni gruppo comin-cia la sfilata con i tradizionali e rituali

tre giri intorno alla chiesa di S. Rocco ove è esposta la statua di S. Antonio. Il pesante campanaccio è impugnato sul ventre e ritmato congiuntamen-te dall’intero gruppo. Un incredibile fragore stordisce per ore l’intero pa-ese e cresce all’inverosimile quando le comitive si incrociano e si scatena una sorta di sfida tra suonatori. Tutto il fragore che si crea ha ovviamente un significato: cacciare il malocchio, l’anno vecchio e propiziare l’avvio del nuovo ciclo agrario che dovrà portare messi abbondanti ed un “nuovo” ma-iale ben ingrassato. Anche ad Accettura, il 17 Gennaio i campanacci accompagnano la festa di S. Antonio. Al centro del rito è il falò che ogni rione accende. Se ne conta-no ogni anno tra i 20 ed i 25. La statua del Santo, accompagnata da organet-ti e zampogne, visita i falò intorno ai quali giungono poi i cortei dei cam-panacci.A Cirigliano il corteo celebra la mor-

57. Un campanaccio tipico di S. Mau-ro Forte (Mt).

58. I falò ad Accettura (Mt).

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te di Carnevale e la nascita di nuovi cicli agricoli, collegati all’arrivo della primavera. La sfilata è composta da maschere che rappresentano i mesi dell’anno accompagnati da campa-nacci e maschere cornute. Gennaio vestito di bianco, Aprile colorato e infiorato, Giugno, con le messi in-dorate, Novembre grigio e triste. Tra lazzi e danze, la rappresentazione si conclude con il funerale di Carnevale. Personaggi ricoperti di bianche vesti e falsi preti precedono con una croce ed il teschio di un bovino il feretro di Carnevale, impersonato da un giova-ne in carne ed ossa. Emaciato e ben vestito, come ogni cadavere che si rispetti, il finto morto non rifiuta l’of-ferta di vino. Così pure i portatori del defunto giammai si sottrarrebbero all’assaggio del vino nuovo che si stu-ra proprio a febbraio. Segue la vedova di Carnevale, la Quaremma, che urla e si lamenta, ben sapendo però che il congiunto è già pronto a risorgere. Il feretro è seguito da un pupazzo di paglia e stracci che alla fine del corteo finisce sul rogo.Le maschere cornute di Aliano sono quanto di più arcaico si possa rintrac-ciare in Basilicata. I personaggi sono addobbati con fasce di cuoio dalle quali pendono campanelli e nume-

rosi finimenti usati per muli e cavalli: alla vita hanno una sorta di cintura re-alizzata con crine di cavallo ed in te-sta una orrenda maschera sulla quale spiccano grandi corna, enormi nasi e penne di gallo; come racconta Carlo Levi in mano portano pelli di pecora rinsecchite ed arrotolate, usate come bastoni da “percuotere” sulla schiena di quanti intralciano il corteo. A Montescaglioso si festeggia il co-siddetto Carnevalone, che nasce so-prattutto dalla cultura dei massari e dei braccianti. Anticamente i costumi erano realizzati con pelli di anima-li, ma la festa si è evoluta insieme al mondo contadino. Per realizzare ogni anno i costumi si utilizzano i materiali disponibili come la tela di canapa, di juta e poi anche la plastica dei sacchi per le sementi del grano, carta, carto-ni, stoffe di vestiti in disuso. All’alba del martedì grasso ha inizio il lungo rito della vestizione. Il gruppo ha pre-

59. Il funerale del Carnevale a Ciri-gliano (Mt).

60. Tradizionale maschera del Carne-vale di Aliano (Mt).

61. Costumi realizzati con materiale riciclato a Montescaglioso (Mt).

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cise figure e gerarchie: apre la parca che rotea il lungo fuso tra le gambe della gente, simbolo della ruota del tempo che gira e della morte che pri-ma o poi arriva. Guai a farsi colpire! Seguono i portatori dei campanacci più grossi, sbattuti con l’ausilio del ginocchio: con il fracasso scacciano il vecchio e la malasorte. Vi è anche la tetra figura della “Quaremma”, ve-stita di nero che porta in braccio un neonato. Non manca la carriola con il Carnevalicchio in fasce, ove si depo-sitano le offerte in natura. Il Cuciboc-ca intabarrato in un mantello nero, con una lunga barba di canapa, ha in mano un ago con cui minaccia di cucire le labbra dei presenti, preten-dendo l’offerta. Una maschera, tra le più robuste, controlla gli slanci del caprone, legato ad una robusta fune. La sposa di Carnevalone, più o meno sguaiata, ferma tutti e chiede offer-te in natura e danaro: serviranno a far crescere il Carnevalicchio, ma in realtà a fornire materia prima per la cena e l’ubriacatura notturna. A ruota libera e con i campanacci più picco-li, tante figure sempre suggestive in costumi ogni anno diversi. Si accetta ogni offerta: pane, finocchi, pasta, dolci, frutta, vino e salsiccia. Chiude il corteo il vecchio e massiccio Carneva-

lone. Intabarrato in un mantello nero, in testa un cappellaccio, cavalca un povero asino. Sa che nella notte scoc-cherà la sua ultima ora; non parla, ma accetta tutte le offerte. Sulle spalle di Carnevalone, sui fianchi o sul poste-riore dell’asino, qualche cartello con pillole di saggezza contadina condi-te da aspre critiche, sempre sgram-maticate (Carnevalone non ha avuto tempo per studiare), rivolte per lo più a politici e pubblici amministratori. A notte fonda si avvia il corteo funebre preceduto da mammane, falsi medi-ci, frati ubriachi e incappucciati che come nel medioevo accompagnano il condannato a morte. A mezzanotte in punto, dalla più grande campana della Chiesa Madre, partono i 40 lu-gubri rintocchi che segnano l’inizio della Quaresima. Inizia la peniten-

62. I Cucibocca di Montescaglioso (Mt).

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za, la festa è finita: Carnevalone va al rogo, ma contemporaneamente la vedova partorisce Carnevalicchio già pronto per la prossima annata. Il giorno dopo, mercoledì delle Ceneri, nei vicoli già compaiono le sette figu-re della “Quaresima” appese ad una corda per ricordare a tutti gli obblighi del buon cristiano per la Pasqua che è vicina. A Pomarico la canzone di Zeza rinno-va un’antica tradizione di origine na-poletana spesso nel passato proibita per la sua licenziosità. La rappresen-tazione, di cui si è parlato preceden-temente, si svolge tra i vicoli del pae-se ed i protagonisti sono Pulcinella, la moglie Zeza, la figlia Vincenzella e lo studentello don Nicola, candidato a sposare Vincenzella. Il tutto si svolge secondo una trama costellata da bat-tute a doppio senso, mentre il contra-sto tra il vecchio ed il giovane allude ancora una volta al succedersi ciclico del vecchio-nuovo ed al passaggio inverno-primavera. A Grassano era usanza organizzare cortei di giovani travestiti con lenzuo-la che suonavano strumenti come la cupa-cupa, organetti oppure campa-nacci. Facevano parte di questo cor-teo anche le ragazze che indossavano il costume della “pacchiana”. In piaz-

za la presa in giro di personaggi ed eventi del paese. La conclusione era segnata dal funerale di Carnevale, il cui fantoccio finiva gettato in uno dei fossi intorno al paese. Alla mezzanot-te deI martedì grasso i rintocchi della campana della chiesa madre segna-vano l’avvento della Quaresima e nei vicoli comparivano, appesi ai balconi, le “pupazze delle quaremme”.Ci spostiamo, ora, nella regione Molise in un piccolo paese di nome Tufara in provincia di Campobasso. Le abitudi-ni, le tradizioni e la cultura degli abi-tanti del piccolo borgo si tramanda-no di generazione in generazione la rappresentazione de “Il Diavolo” che, puntualmente, ogni anno si ripete nell’ultimo giorno di Carnevale come evento coinvolgente per tutta la citta-dinanza. Questo giorno è speciale per la piccola comunità di Tufara: il paese,

63. Gruppo di maschere al Carnevale di Grassano (Mt).

64. Il Diavolo di Tufara (Cb).

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infatti, si popola all’inverosimile, è in-vaso da turisti, curiosi, che giungono dai paesi limitrofi; decine di emigranti ritornano, vengono richiamati da un qualcosa di inspiegabile, un vero e proprio ritorno alle origini, un omag-gio alla tradizione dove il sacro e il profano si fondono in una suggestiva rappresentazione.Anche se il suo significato primiti-vo si è in parte perduto, la maschera del diavolo rappresentava un tem-po la passione e la morte di Dioniso, dio della vegetazione, le cui feste si celebravano in quasi tutte le società agrarie. Dioniso, il dio che ogni anno moriva e rinasceva, come la vegeta-zione, è rappresentato dalla masche-ra zoomorfa, il Diavolo, che indossa sette pelli di capra cucite addosso, quasi a voler rievocare un lontano rito di smembramento di cui non si ha più coscienza. Il capro, infatti, era la forma più frequente nella quale il dio si ma-nifestava. La rappresentazione della sua passione, che in tempi lontani era una cerimonia sacra, in periodo cristiano venne declassata a semplice maschera carnevalesca, con l’aggiun-ta di una serie di figure: in questa for-ma è giunta fino ai nostri giorni.Il Diavolo, trattenuto in vita con ca-tene dai Folletti, i suoi guardiani, gira

per le strade del paese, saltella, cade a terra, si rotola, si rialza, corre, cercan-do di sedurre chi incontra per iniziarli ai sui misteri. Le maschere della Morte, vestite di bianco con il volto impiastricciato di farina, che precedono di qualche metro il Diavolo, starebbero a simbo-leggiare la purificazione attraverso la morte. Se il seme muore e il terreno è purificato, la primavera ce lo resti-tuirà in raccolto. Il roteare delle falci, il gesto stesso del falciare che la Mor-te compie indicherebbe il momento del raccolto; queste due maschere compiono anche una funzione co-reografica attraverso salti e grida. La pantomima di Tufara si differenzia da altre simili, in quanto la figura del capro-espiatorio è qui stranamente presentata in duplice aspetto: non solo la si intravede tra il corpo irsuto e le pieghe della maschera del diavo-lo, ma anche tra la paglia e la tela del pupazzo simulacro, identificato con il carnevale, da scaraventare tra le zolle di terra dall’alto di un precipizio. Pu-pazzo-simulacro, che viene processa-to e condannato da una scanzonata Giuria, nonostante gli appelli tragi-

65. Il Diavolo e le Maschere della Morte a Tufara (Cb).

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comici della Mamma e del Padre per salvarlo. Esso morirà, ma non la spe-ranza, poiché la madre ha già pronto un altro neonato-simulacro, portato nella culla del Padre, che dà così con-tinuità al rito.A Casalciprano, sempre in provincia di Campobasso, si festeggia il Carne-vale con il gioco della ruzzola. Due squadre si cimentano lungo un per-corso predefinito nel lancio, a mano libera o con una corda, della ruzzola, una specie di palla di legno dura e resistente. Quello della ruzzola è sta-to da sempre uno “sport dei poveri”, praticato cioè in prevalenza da gente di campagna, ma anche da nobili ed ecclesiastici (quest’ultimi nonostante il divieto dei superiori).In provincia di Isernia, invece, a Roc-camandolfi, il calendario delle ri-correnze carnascialesche inizia il 17 gennaio con la festa di Sant’Antonio Abate. La tradizione vuole che per più sere, da tale data, ragazzi, gio-vani e meno giovani si radunino in piazza con campane e campanacci per dar vita a frastornanti sarabande nelle strade del paese e davanti alle case intonano “Carnval’ Carnvalicch’ mitt’ man’ all’ savcicc’, s’l’ savcicc’ n’ m’ l’vuè dà t’c’pozzan’ mbracdà”. Per evi-tare che la maledizione cada sull’in-

tero paese, nessuno rifiuta di tribu-tare salsicce e vino ai rappresentanti di Carnevalicchio che consumano in fretta quanto ricevuto, prima della tappa successiva. L’ultimo giorno di Carnevale a ognuno è permesso di dare libero sfogo alla fantasia ed alla voglia di divertirsi: bambini, uomini, animali mascherati sfilano per il pa-ese portando in corteo “Carnevale”, un fantoccio di paglia e stracci, che poi viene bruciato in piazza mentre si danza e si brinda col vino novello da poco “travasato”.Lasciamo il Molise per varcare il con-fine pugliese. Ci portiamo lungo la costa del Gargano, precisamente a Peschici. Intorno agli anni Trenta del Novecento, ogni quartiere preparava il suo fantoccio di Carnevale usando paglia, carta e abiti, i più malandati che ci fossero in circolazione. Nella pancia si metteva di tutto (scarpe vec-chie, cipolle, corde, patate, ecc.), lo si caricava su di un asino al cui seguito c’era un chirurgo, accompagnato da un corteo di personaggi mascherati da madre, moglie, figli e parenti di Carnevale. Il dottore tagliava la pan-cia del pupazzo e ne estraeva strac-ci, indumenti, verdure: solo alla fine estraeva il gigantesco maccherone che aveva provocato l’indigestione

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del Signor Carnevale. Questa ope-razione veniva ripetuta in diverse strade del paese, accompagnata da urla, frastuono e risate degli astanti. All’imbrunire, l’asino con il suo carico e tutto il seguito si dirigevano verso il Castello, dove il fantoccio di Car-nevale veniva gettato in mare dalla rupe antistante. I Carnevali appesi nei vicoli, invece, venivano bruciati. Le alte fiamme illuminavano la notte, segnando l’avvento della Quaresima. Fino agli anni Settanta, sempre nella cittadina garganica si usava rappre-sentare la “Zeza Zeza”, un “pezzo” di antico teatro popolare di origine set-tecentesca, importato da Napoli.La maschera ufficiale di Peschici, ispi-rata ad un tipico vestito tradizionale, era la Pacchiana seguita da Carnuàl.Vestiva con una gonna lunga arriccia-ta in vita, una camicetta bianca con un corpino di velluto nero, ricama-to sul davanti e legato con un laccio bianco. Sulla testa portava un largo fazzoletto, piegato a triangolo, che legava dietro alla nuca a castagna-ra; sulle spalle, uno scialle munito di frangia; sulla gonna bianca a strisce rosse spiccava u’ z-nal (grembiule) di solito scuro, ai piedi calzettoni di lana di pecora e i zu-cku-nett (ciabat-te con il mezzo tacco). La Pacchiana

era adorna di alcuni oggetti d’oro (di solito monili), un paio di collane, spille che tenevano fermo lo scialle al seno e lunghi orecchini. Carnuàl era la rappresentazione dell’uomo agiato che aveva mangiato tanto nel perio-do natalizio e aveva ancora i postumi dell’abbuffata.Il giorno del martedì grasso, il menu prevedeva i maccheroni fatti in casa, “tirati” dalle massaie con un ferro a sezione quadrangolare. Si condivano con il sugo di carne per i ricchi e con il sugo di polpette e ventresca per i poveri. Era usanza stendere un mac-cherone più lungo degli altri. Poiché si usava mettere in tavola un unico piatto, chi, per sorte, mangiava que-sto maccherone, veniva canzonato come cannaròute, cioè il “goloso” del-la famiglia. Queste antiche tradizioni si sono per-se con il tempo, ma negli ultimi anni si sta assistendo a un recupero delle stesse; accanto alla sfilata dei carri al-legorici, infatti, si può assistere all’en-comiabile sforzo di alcuni peschiciani di riportare la rappresentazione della Zeza alla ribalta.Continuiamo il nostro viaggio in ter-ra sipontina. Siamo a Manfredonia (provincia di Foggia), dove i riti del Carnevale sono antichi, come antiche

66. La Pacchiana e Carnuàl, maschere tipiche del Carnevale di Peschici (Fg).

67. Bambini che indossano i costumi tipici del Carnevale di Peschici (Fg).

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sono le vicende storiche e i reperti archeologici, testimonianza di una vecchia civiltà. Ad esempio, le rap-presentazioni di scene cultuali sulle Stele Daunie - quelle della piana si-pontina, collocate cronologicamente nei secoli VII e VI a. C. - sono la prima testimonianza di riti che potrebbero far pensare a quelli dionisiaci.Già nei primi decenni del Novecento, il Carnevale era una festa molto sen-tita dal popolo sipontino; contadini e pescatori, soprattutto, approfitta-vano della tregua concessa dal Car-nevale per schernire nobili e padroni. Si racconta, ad esempio, che alcuni di loro si divertivano a rovesciare il contenuto dei pitali all’interno dei cortili nobiliari o lanciavano frutta marcia su coloro che passeggiavano vestiti di tutto punto. Oltre che le vie e le piazze, si tingevano dei colori del Carnevale anche le case, scantinati, sottani, ovunque ci fosse un po’ di spazio dove organizzare feste dan-zanti dette “socie”. Tutti partecipava-no alla realizzazione di questi festini, ma ovviamente non poteva mancare la figura del capo socio, detto u kèpe ndruje al quale spettava il compito di gestire la “socia” nel miglior modo possibile. Queste circostanze erano ideali per stringere amicizie o magari

per litigare, a conferma del detto “U carnevèle guaste e aggiuste” – il carne-vale rovina e sistema tutto. A queste tradizioni di ispira l’odierno Carneva-le Sipontino, già vivo e brillante nel primo dopoguerra e più spettacolare nel secondo, con la denominazione di Carnevale Dauno, dichiarato dalla Regione Puglia “manifestazione di in-teresse regionale” capace di attirare numerosi turisti nella Capitanata. Tuttavia, ciò che da alcuni anni rende ancor più singolare il Carnevale Dau-no è la Sfilata delle Meraviglie, unica al mondo nel suo genere, che coinvolge circa tremila bambini delle scuole ele-mentari e materne e si tiene la prima domenica di carnevale.Ne deriva così, una spettacolare, gran-de parata di carri allegorici e di gruppi mascherati, lungo i due chilometri di percorso.

68. Stele Daunia.

69. Gruppo della sfilata delle Mera-viglie.

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La monumentalità dei carri allegorici e la pregevole fattura dei manufatti in cartapesta rivelano la presenza a Manfredonia di maestranze di gran-de esperienza e talento che riesco-no, con l’uso sapiente dei materiali tradizionali, ma anche delle tecniche più innovative, a rappresentare pla-sticamente ed efficacemente i temi più dibattuti della politica e della cul-tura, proponendone una lettura di-sincantata, talvolta irriverente, sem-pre originale ed efficace, supportata dalla ricerca sulle tradizioni popolari dall’analisi delle più importanti te-matiche dell’attualità: l’ambiente, la pace, l’intercultura, la solidarietà.

Queste grandi sfilate vengono repli-cate in notturna e si completano con spettacolari esibizioni coreografiche e con i concorsi per maschere singole, coppie e gruppi in cartapesta.Maschera ufficiale del carnevale dau-no è Ze Pèppe. Un tempo arrivava dalla campagna il sabato preceden-te all’ultima domenica di carnevale; fra canti e balli giungeva in paese, proclamando l’apertura dei gioio-si festeggiamenti. Era accolto da re, tutti gli cedevano il passo, il sindaco gli consegnava le chiavi della città, e lui, sua maestà “Ze Pèppe Carnevè-le”, accettava inviti, rispondendo agli inchini. Da quel momento spadro-

70. Carro allegorico del Carnevale di Manfredonia.

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neggiava, seminando buonumore e spensieratezza. Ze Pèppe altro non era che un fantoccio: un abito logoro, riempito di paglia, con tanto di giac-ca rattoppata, cappello sbrindellato, camicia pacchiana con al suo seguito numerose maschere. Purtroppo, però, dopo tre giorni di follie, veniva tirato giù dal suo trono per allestirgli festosi funerali tra schiamazzi e finti lamenti. Ze Pèppe, bruciato e cremato, chiude così la sua avventura.Spostandoci in provincia di Bari, ci dirigiamo verso Sammichele di Bari. Nel Medioevo, la rappresentazione carnevalesca consisteva essenzial-mente in feste da ballo mascherate nelle case dei nobili. Con il passare del tempo, ai nobili si aggiungono i ricchi borghesi e i grossi proprietari terrieri, che organizzano nelle proprie abitazioni simili feste. A Sammichele, queste feste (i festìne) in passato era-no organizzate da genitori per creare occasioni di matrimonio per le loro figlie. Nel caso dei festini c’erano – e in parte ci sono ancora – da rispetta-re regole ben precise: gli uomini che comunque non possono sedere vici-no alle donne, un maestro di ballo, il caposala, (molto spesso il padrone di casa), detto u mèste de balle, che deve far rispettare le regole: è lui che de-

cide quali e quanti cavalieri possono invitare le dame al ballo, è lui che ha il potere di allontanare dal festino chi non ha tenuto un comportamento consono.Chi non ha la possibilità di organiz-zare feste nella propria abitazione, soprattutto la gente più umile, trova l’espediente di formare delle compa-gnie mascherate e chiedere ospita-lità per qualche ballo nei festini, ma poiché non si sa chi può nascondersi dietro una maschera, nascono altre due figure estremamente importanti, il conduttore, persona conosciuta in paese, che ha la responsabilità delle maschere e il portinaio (u pertenàre), che una volta riconosciuto il condut-tore, permette l’ingresso delle ma-schere.Le prime notizie documentate sul Carnevale di Sammichele di Bari risal-gono al XIX secolo e ci parlano di una ritualità non molto diversa da quella attuale. In un rapporto di polizia, del 4 marzo 1830, all’Intendente di Terra di Bari, così si legge: “... giova intanto marcare, che generalmente le ma-schere in questo distretto, si riducono a cambiamento di sesso, e ad indos-sare degli abiti di vecchi, contadini e massari o altro costume. La classe di basso ceto è quella, che si suole più

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delle altre, mascherare, girando in tutte quelle case, in cui si dà tratteni-mento, d’onde dopo di aver fatto un piccolo ballo, passa in altre, fino a che inoltrata la notte, si ritira nelle proprie case”.Negli anni Cinquanta si è avuta la pri-ma grossa “rivoluzione”, quando il gi-radischi ha sostituito l’orchestrina. E’ nata quindi una nuova figura, quella del motorista (u motorìste), la perso-na addetta alle scelte musicali. L’abi-lità del motorista si vede, oltre che nel mantener viva la festa, anche nel saper indovinare i gusti musicali delle compagnie mascherate, riconoscen-do il solo conduttore. Per una buona riuscita di un festino è necessario un grande affiatamento tra il caposala, il portinaio ed il motorista. Una vol-ta che una compagnia di maschere giunge al festino, il conduttore bussa e chiede il permesso di entrare: “iè per-mèsse a ‘na chempagnìe de màsckere?”. Il portinaio, se riconosce nel condut-tore una persona affidabile, apre e la compagnia entra tra gli applausi de-gli invitati; quindi, il caposala invita le maschere ed il conduttore a ballare. Il conduttore può invitare una persona dell’altro sesso, le maschere, invece, possono invitare esclusivamente gli uomini. I balli sono poi interrotti da

scambi di complimenti o sfottò tra i componenti del festino ed il condut-tore, inderogabilmente a colpi di rima baciata, che molto spesso raggiun-gono livelli apprezzabili di ilarità. La permanenza, più o meno lunga, delle maschere nel festino è ad assoluta di-screzione del caposala che invita poi le maschere ad uscire con il fatidico: “ringraziamo maschere e condutto-re”. I balli sono, molto spesso, infram-mezzati da scenette teatrali cariche di doppi sensi, che, pur basandosi su soggetti fissi e tradizionali, risultano sempre nuove grazie all’improvvisa-zione degli interpreti, i quali, molto spesso, non sono altro che alcuni in-vitati inconsapevolmente coinvolti. Il carnevale si protrae sino al martedì precedente le Ceneri e termina con il rito “du müerte”. Un vero e proprio funerale gira per i festini con tanto di feretro del Carnevale, ed un seguito composto dalla vedova inconsolabile e dagli amici più intimi; questi invita-no tutti a piangere disperatamente per la prematura fine e convincono i più renitenti a colpi di straccio, qual-che volta bagnato. Alla fine c’è però l’invito per tutti a ritrovarsi l’anno successivo: “chiù maggiòve a l’uanne ce vène”. I festeggiamenti continua-no comunque per qualche settimana

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con le “pentolacce”, senza però la pre-senza delle maschere.A Sammichele di Bari esiste una ma-schera tradizionale “l’homene curte”, di tipica estrazione contadina. I più anziani ricordano anche una “fèmena corte”; alcuni personaggi delle sce-nette teatrali, come “u Ceccànduène”, “u chernùte chendènde”.Prima di raggiungere il tacco dell’ita-lia, ci fermiamo in terra tarantina. Sia-mo a Massafra. Anticamente, come attestano alcuni documenti settecen-teschi della Confraternita del Sacra-mento, si usava celebrare il cosiddet-to “Carnevaletto”, che consisteva in un rito riparatore di tre giorni per le offese arrecate a Gesù durante il car-nevale.Il Carnevale di Massafra inizia per tra-dizione il 17 gennaio, giorno in cui ricorre la festa di Sant’Antonio Abate (chiamato a Massafra Sant’Antonio del fuoco, o Sant’Antonio del porco). In questa giornata, i contadini, i mas-sari e le donne di casa conducevano il loro bestiame all’annuale cerimo-nia della benedizione degli animali domestici e da lavoro, che veniva im-partita nello spiazzo antistante l’an-tica chiesa rupestre di Sant’Antonio abate. Un giorno di festa rispettato da tutti, allietato da manifestazioni

popolari, come l’accensione dei falò nelle strade, il “tiro al caciocavallo”, il giuoco della Cuccagna. Nella sera-ta stessa poi, in casa del vincitore, si banchettava e “si menava la scianghe”, come allora si intendeva dire per quei balli troppo focosi, eseguiti tra i fumi di Bacco e di Venere. Dal 17 gennaio, le feste si ripetevano a ritmo serrato tutte le domeniche e i giovedì di carnevale, ognuno dei quali assumeva un proprio nome ed un particolare significato. Nel “giove-dì dei pazzi”, la festa esplodeva in tut-ta la sua magnificenza nelle piazze e nelle strade. I giovani rientravano con qualche ora di anticipo dal lavoro, si travestivano e si mascheravano imi-tando coppie di sposi, gobbi, scianca-ti e, uscendo di casa, si faceva il rituale

71. Carnevale in piazza a Sammichele di Bari (Ba).

72. Carro allegorico del Carnevale di Massafra (Ta), sfilata anno 2007.

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giro per le famiglie. Oggi, caratteristiche sono le sfilate che si svolgono solo l’ultima dome-nica e il martedì grasso poiché non ci sono ricoveri idonei ai carri allegorici. Massafra conta non una, ma ben due maschere ufficiali: il Gibergal-lo e u Pagghiuse. Il Gibergallo è una maschera creata da Gilberto Gallo, il quale per svariati anni sino alla sua morte, si è mascherato con un frac nero con code lunghe, una maglietta a righe gialle e rosse, papillon grande a pois, un pantalone di colore blu a strisce e una paglietta rossa. Il viso è truccato come quello di un clown e porta con sé un gallo al guinzaglio e in una mano regge una scopa di sag-gina agghindata con nastrini colorati e campanellini.U Pagghiuse, invece, ha un aspetto un po’ giullare e un po’ contadino: un copricapo azzurro di lana, un vestito giallo e rosso a righe, braccialetti con campanellini alle caviglie, collana al collo e un ampio mantello marrone rossiccio che avvolge il personaggio dall’aria scanzonata. Porta con sé bi-saccia e cupa-cupa (amante del vino, tipico massafrese, si infiamma di col-po per ogni iniziativa, ma poi brucia subito come fuoco di paglia).Passiamo nella penisola salentina,

precisamente a Gallipoli, dove la tra-dizione affonda le radici in atti e do-cumenti settecenteschi. Il Carnevale inizia il 17 gennaio con il rito propiziatorio del fuoco: sulle pubbliche piazze si bruciano cataste enormi di rami d’ulivo: è il rito delle “Focareddhe” che, dedicate al patrono cristiano del fuoco, S. Antonio Abate, si accendono nei cento crocicchi del-la città.Al primo riverbero delle fiamme vie-ne lanciato il segnale al suono del saraceno tamburello per l’apertura delle danze, cadenzate al ritmo del-la “pizzica” e accompagnate da salaci commenti, con euforia popolaresca, indirizzati verso le giovani coppie. A gruppi le maschere scorazzano per le vie tra gli applausi della gente, tra i coriandoli, i confetti, l’allegria e la spensieratezza.La maschera tradizionale è “lu Tidoru”, Teodoro. Narra la tradizione che Teo-doro, un giovane soldato gallipolino, fosse stato trattenuto, con grande dolore della madre, lontano dalla sua terra pur coltivando la grande speran-za di poter ritornare a casa prima del-la fine del Carnevale, nel periodo cioè in cui tutti potevano godere dell’ab-bondanza del cibo e delle carni prima dell’avvento della Quaresima.

73. Il Gibergallo, una delle due ma-schere ufficiali del Carnevale di Mas-safra (Ta).

74. Le Focareddhe a Gallipoli (Le).

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Ed in questo senso erano state rivol-te a Dio le preghiere della madre, la “Caremma”, che, per tanto suppli-care aveva ottenuto una proroga di due giorni (“i giurni te la vecchia”) al periodo stabilito, affinché suo figlio potesse partecipare di tanta abbon-danza. Il martedì successivo Teodoro ritornato finalmente in patria si tuffa nel turbinio frenetico dei balli e delle gozzoviglie cercando di recuperare tutto il tempo inutilmente perduto. Secondo la leggenda Teodoro con-sumò, in quel tragico martedì grasso, quintali di salsicce e polpette di maia-

le, ingozzandosi tanto da rimanerne strozzato.Con Teodoro moriva anche il Carneva-le, i piaceri terreni e a nulla valevano i gemiti di dolore ed i disperati pianti intorno alla bara: oggi in giro per la città viene portato su di un carro un pupo, spesso di paglia, pianto da pre-fiche scarmigliate e urlanti. Il popolo, radunato ai piedi del quattrocentesco campanile francescano, nel borgo antico, attende, alla fine, lo scoccare della mezzanotte per attestare, in gi-nocchio ed a capo scoperto, il proprio pentimento, nella speranza di un per-dono divino.Con l’inizio del nuovo secolo è com-parso qualche carro allegorico anche nel borgo nuovo, ma “lu carru te lu Ti-doru” ha continuato sempre a passare nelle stradine del borgo antico. Que-sta tradizione ha avuto un poderoso rilancio dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un successo sempre crescente in tutta la penisola salentina.Infine ricordiamo il carnevale di Ara-deo, sempre in provincia di Lecce, dove agli inizi degli anni Ottanta, un numeroso gruppo di amici ha cerca-to di ripristinare i vecchi riti, a comin-ciare dai “festini privati”. Così, pian piano la tradizione riprende vita e

75. Carro allegorico del Carnevale di Gallipoli (Le).

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come d’incanto tutto sembra tornare nell’atmosfera di tanti anni prima. Il gruppo di amici si allarga sempre più perché il desiderio di far rivivere le antiche tradizioni diventa interesse di tutta la cittadinanza. Il passo è breve, dunque, per passare dai numerosi “fe-stini”, che vedevano la partecipazione di tantissimi “masci” (maschere), ad una vera e propria sfilata in maschera per le vie del paese.Il luogo che ha visto il rilancio del Car-

nevale di Aradeo è stata un’officina metalmeccanica: questo è il primo cantiere dove il gruppo di amici, ar-mati di carta di giornale, cartoni, colla, fil di ferro, colori e tanto entusiasmo, realizzano il primo carro allegorico. Da allora in poi la manifestazione cre-sce ogni anno sia in quantità che in qualità. Numerosi sono i giovani che si interessano attivamente duran-te l’anno per creare carri allegorici e gruppi mascherati in un sano e puro antagonismo.Come maschera ufficiale Aradeo ha lu Ssciacuddhruzzi. Diventata mascotte del carnevale nel 1999, rappresenta un famoso spiritello alto un palmo e mezzo con tanto di ventre e di cap-pello largo e pizzuto che, nella fan-tasia popolare, la notte si accoccola sul petto degli uomini e delle donne. Personaggio alimentato dalla leggen-da popolare, molto diffuso nel nostro Salento, è chiamato con nomi diversi a seconda delle zone.Scendiamo più a sud, in Calabria, pre-cisamente ad Amantea in provincia di Cosenza. Le prime notizie, come si legge in un documento d’epoca, risalgono al 1635 dove si accenna a feste in piazza che il più delle volte si trasformavano in risse. Nei secoli successivi a queste feste pubbliche

76. Carro allegorico del Carnevale di Aradeo (Le).

77. Logo del Carnevale aradeino dove c’è lo Ssciacuddhruzzi, la maschera ufficiale.

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si imposero i balli in maschera che la nobiltà e la borghesia organizzavano nei palazzi per distinguersi dalla “for-sennata plebaglia”. Ma il Carnevale, festa di piazza, non sopporta restare molto tempo rinchiuso tra quattro mura e così, agli inizi del Novecento, ritorna ad essere festa popolare: du-rante il ventennio fascista, si celebra-va in tono minore, sia per ragioni di si-curezza, sia per la mancanza di libertà di espressione che non consentiva la satira di costume, specie nei confronti dei gerarchi e del clero.Nel dopoguerra la manifestazione crebbe qualitativamente con la sto-rica sfilata del 1953. Da allora in poi, per iniziativa di un gruppo di artigiani e studenti, si potenziò la rappresen-tazione delle farse, dei canti e delle danze popolari, si introdussero nel corteo dei “mascherati” i carri e, negli anni Settanta si migliorò l’apparato scenografico ed artistico.Nata da una cultura marinara e con-tadina di sussistenza, la settimana grassa amanteana si concentrava,

negli ultimi tre giorni (duminica, luni e marti) nel corso dei quali si sospen-deva ogni lavoro. Tutti gli scherzi era-no leciti e chi non li accettava veniva imbrattato di fuliggine e ridicolizzato dalle maschere.Il Re della sfilata naturalmente era “Carnulevari”, impersonificato da un omone grosso e vorace, accompa-gnato da “Corajisima”, una donna magra, isterica e contraddittoria, che desiderava la morte del marito come una liberazione, ma che poi ne pian-geva con disperazione la dipartita. A queste maschere si aggiungevano quelle raffiguranti “ ’u baruni”, “ ’u mie-dicu”, “l’avucatu”, “ ’u nutaru”, “ ’u sin-nacu”, “ ’u prieviti”, che prendevano in giro i ceti benestanti, le cariche pub-bliche. Fra le maschere popolari, che impersonavano la malizia, l’allegria, la lussuria, l’ipocrisia, l’astuzia, l’inge-nuità, la vanagloria, “ ’u coscinuotu”, “ ’a pacchiana”, “ ’u Jaccheru”, “ ’u taver-naru”, “ ’u politicu” e il classico Jugale (personaggio tipico della commedia dell’arte calabrese del XVII-XVIII seco-lo). Ad aprire e a chiudere il corteo era-no i fratelli, incappucciati in camici bianchi, ora anonimi Pulcinella, ora paurosi fantasmi. Tutti questi perso-naggi erano rappresentati da uomi-

78. Carro allegorico del Carnevale di Amantea (Cs), sfilata anno 2006.

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ni: le donne salirono alla ribalta solo dopo la seconda guerra mondiale per la loro tardiva emancipazione.Prima dell’avvento della motorizza-zione, le maschere, divise in gruppi di quartiere, giravano per le vie a piedi o su carri, trainati da buoi o da muli, e su carrette, spinte a mano, veicoli va-riopinti ed addobbati alla meglio.Il martedì grasso fra i rioni si svolgeva un grande spettacolo. Alle danze, ai canti con accompagnamento di una stonata fanfara seguivano scenette, strofette, basate sull’abilità mimica e la facile battuta, che mettevano alla berlina i maggiorenti e i potenti. La festa terminava con il funerale di Car-nulevari, scoppiato per aver ingurgi-tato troppo vino e cibo, nonostante l’assistenza di grotteschi medici.A mezzanotte, un enorme fantoccio delle stesse fattezze veniva dato alle fiamme fra gli schiamazzi della popo-lazione: così si chiudeva il ciclo della gozzoviglia e si apriva il periodo peni-tenziale della Quaresima. Questa, sot-to forma di una donna-pupazzo, vela-ta di nero, e adorna di sette piume di gallo, veniva esposta sulle finestre e sui balconi, come segno di espiazione (questa tradizione è presente anche in altri paesi della regione).Sotto il profilo culinario, il Carnevale

mantiene l’antico rituale della carne di maiale: si consumano i tipici salu-mi ed altri prodotti di carne suina. Ma il piatto più importante è la frittata confezionata con i vermicelli, salcic-cia, uova e la “resamoglia” (i saporiti residui del grasso cotto del maiale): è d’obbligo il vino rosso.Sempre in provincia di Cosenza, ri-troviamo il tipico Carnevale Albanese di Lungro detto Karnivalli i Ungrës: il paese venne popolato da albanesi nella seconda metà del XV secolo e ne conserva ancora oggi le usanze. Il Carnevale è infatti caratterizzato dai tradizionali costumi albanesi, tra cui le maschere della Vecchia e del Prete. Le varie compagnie mascherate gira-no per il paese e si soffermano presso le case, dove vengono sempre accolti con calore, il tutto con il sottofondo dell’organetto e delle zampogne. Si organizzano, inoltre, tarantelle e ven-gono intonati i famosi vjërshe di Lun-gro, canti della tradizione arbëreshe. La festa si protrae ininterrottamente per tre giorni, richiamando l’attenzio-ne dei centri vicini.Particolare è anche la manifestazio-ne che si tiene a Cassano allo Jonio (provincia di Cosenza). È la tradiziona-le giostra del maiale, ‘u curr’u puorcu, così descritta da Biagio Lanza: “La gio-

79. Primi carri allegorici ad Amantea (Cs).

80. Costume tipico del Carnevale di Lungro (Cs).

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ventù volgare ama poi un altro diver-timento, che sa in vero di barbarie, ed è di vestirsi da turchi, o da guerrieri del Medioevo a cavallo medesimo a tutta corsa, roteare la sciabola per aria, e poi ferire al collo un montone o un vitello appeso pei piedi con una fune legata a due finestre opposte in una pubbli-ca strada. Il premio vien guadagnato da colui sotto il cui colpo cade il capo dell’animale” (Lanza, 1981). Tutto que-sto nell’Ottocento. In seguito, al posto del vitello o del montone fu posto un maiale, già ucciso, con la testa all’in-giù che finiva sulla mensa dei dodici cavalieri che partecipavano al torneo. Il trionfatore, infine, come segno tan-gibile di vittoria, poneva tra i denti un pezzo di orecchio del maiale e girava, accompagnato da altre persone, per tutto il paese. La tradizione era stata

interrotta, ma da qualche anno è sta-ta riproposta.Nella parte meridionale dello Stivale, raggiungiamo Reggio Calabria per fermarci in uno dei suoi quartieri: Pel-laro. La manifestazione carnasciale-sca offre uno spettacolo di grande ef-fetto con carri allegorici in movimen-to, sfilate di danza, artisti di strada che regalano un intrattenimento bizzarro e divertente. Qualcuno ricorda an-cora l’antica abitudine di raccontare indovinelli in dialetto, spesso appa-rentemente lascivi e ricchi di doppi sensi, ma che avevano una soluzione più ingenua di quello che si potrebbe pensare. A ciò si aggiungono le in-dimenticabili pantomime degli anni Cinquanta, e le virtuali “battaglie” di scherno tra i quartieri di Pellaro e Bocale. Tra coriandoli, stelle filanti e

81. Locandina anno 2009 del Carne-vale di Cassano allo Ionio (Cs).

82. Carro allegorico del Carnevale di Pellaro (Rc).

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mascherine colorate, tornano quindi a sfilare nelle maggiori vie del paese i giganti di cartapesta, grandi sculture nate e realizzate dalle sapienti mani dei maestri carristi. I carri hanno subi-to nel tempo importanti innovazioni tecnologiche, grazie soprattutto al coinvolgimento di giovani artigiani del ferro e della cartapesta.Il carnevale pellarese ha una propria maschera, Zi’Berganella, che rappre-senta l’essenza del paese stesso: gli occhi sono foglie di vite, le guance acini d’uva, il mento è fatto di foglie di bergamotto; la bocca è atteggiata ad un sorriso. Fra gli usi che la masche-ra vuole ricordare c’è quello di bere a garganella, ossia senza accostare il fiasco del vino alle labbra, tipico dei vecchi campagnoli, che preferivano mandar giù il vino a gola piena piut-tosto che versarlo nei bicchieri.Oltrepassiamo lo stretto di Messina per approdare nella splendida Sicilia, dove le prime notizie storiche docu-mentate risalgono al Seicento e ri-guardano la città di Palermo. Si pote-va assistere a danze particolari, come quella “degli schiavi” durante la quale i partecipanti, travestiti appunto da schiavi, ballavano per le strade pubbli-che al suono di antichi strumenti tur-chi come i tamburi, o la così chiamata

“Balla-Virticchi” per la quale i parteci-panti si travestivano da pigmei. Tra le maschere siciliane più caratteristiche del passato occorre ricordare quelle dei Jardinara (giardinieri) e dei Var-ca, note soprattutto nella provincia di Palermo, e quelle dei briganti e del cavallacciu note soprattutto nel cata-nese. Nella città di Modica c’era, inve-ce, la Vecchia di li fusa: si trattava di un travestimento caratterizzato da una gonna sgualcita, un mantello che si annodava al collo ed un velo a copri-re il capo, per raffigurare l’imminente morte del Carnevale.Trovandoci in questa terra, è d’obbli-go ricordare la colascionata. Il termine identifica, in modo generico, un bra-no musicale, cantato o strumentale, eseguito col colascione (o calascione), un cordofono che è stato utilizzato nelle più variegate circostanze, tra le quali anche a carnevale. Era usan-za, nell’Ottocento, ascoltare qualche colascionata carnevalesca suonata e cantata generalmente da ciechi. Que-sti, durante le domeniche o anche in altri giorni festivi, andavano a suona-re sul piazzale dinanzi ad una casa o in un cortile. Alcune volte gli isola-ni al canto associavano la danza. Ne è un esempio “La ruggera”: quattro persone (due uomini e due donne)

83. Il colascione, strumento utilizzato in passato anche a Carnevale.

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si uniscono a cantare e a danzare con grande accompagnamento di gesti, al suono d’uno o più strumenti, come il violino, la chitarra, il colascione, il sal-terio (Mastrigli, 1891). Un altro autore racconta che sempre nell’Ottocento si aggiravano per le strade varie ma-schere di Pulcinella, accompagnate da diversi strumenti musicali: chitarre, nacchere, cembali e colascioni. Questi Pulcinella si fermavano innanzi ad un conoscente o ad un amico e gli can-tavano canzoni, a volte improvvisate, adattate alla persona o alla circostan-za. Avevano versi per panettieri, pizzi-cagnoli, fruttivendoli, osti, il tutto col fine di ricevere dagli stessi una ricom-pensa in pane, salame, frutta o vino. Ricevuto il compenso, riprendevano a girovagare sempre cantando e suo-nando (Pitrè, 1940).Prima tappa del nostro viaggio in ter-ra siciliana è Saponara, nella provin-cia di Messina, che tramanda di ge-nerazione in generazione una parti-colare manifestazione che dagli anni Cinquanta continua a essere rappre-sentata il giorno del martedì grasso: “La sfilata dell’Orso e della Corte Prin-cipesca”.Pur avendo subito, nel corso degli anni, una serie di inevitabili cambia-menti (come l’introduzione della sfi-

lata dei carri allegorici), il cerimonia-le carnascialesco conserva intatto il nucleo narrativo principale. Uguali sono pure le maschere a cominciare da quella dell’Orso, dei Domatori, dei Cacciatori, dei Suonatori di brogna (conchiglia sonora), del Principe e della Corte di Cavalieri. Fino al 1968 la figura dell’Orso si ot-teneva utilizzando pelli di capra, cam-panacci legati ai fianchi e al busto e una maschera di cartapesta che ri-produceva la testa del feroce anima-le. Dal 1969, invece, è stato utilizzato un costume molto più comodo con-fezionato con un tessuto chiamato camoscina che ricorda vagamente la pelliccia dell’orso. L’animale è gigan-tesco, agghindato con campanacci e trattenuto con delle corde ed è se-guito dai Suonatori di brogne e corni, dalla coppia principesca, dal giullare, dallo scrivano-consigliere e dal resto della corte. Ci sono inoltre anche tre Domatori o Conduttori, tra i quali uno ha il compito di frenare le aggressioni della belva mediante una catena cui è legata e l’uso di un nerbo per am-mansirla (u lliscia). A completare la scena le maschere di due Cacciatori e Suonatori di brogna. La tradizione ri-collega l’inizio del cerimoniale al Set-tecento quando il Principe Domenico

84. L’orso durante la sfilata a Sapona-ra (Me).

85. Suonatore di brogna.

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Alliata, signore della zona, catturò un temibile orso che viveva lungo le valli e i crinali dei Peloritani e che mette-va in serio pericolo la sopravvivenza della comunità, trascinandolo in ca-tene per le strade del paese. Il princi-pe sfoggia l’alta uniforme militare e la corona, mentre la Principessa indossa l’abito di gran gala e la corona. L’Orso è simbolo del male da allonta-nare dalla comunità. La bestia selva-tica e aggressiva, infatti, incute paura e disturba la vita del paesino. Anche se trattenuto da catene e corde, l’Or-so rincorre e assale ripetutamente le donne, mentre talvolta rivela un ambigua disponibilità all’approccio galante, invitandole a ballare. A fare da sfondo all’esibizione dell’Orso la musica della banda, il suono dei cam-panacci che porta attorno ai fianchi e quelli intonati dei Suonatori di brogna che producono, sostenuti dal battito dei tamburi, un’ossessiva sequenza ritmica.Altro piccolo centro che conserva an-tichi riti è Rodi Milici, sempre in pro-vincia di Messina. La sua storia risale al 1880 quando un poeta, Don Peppe, fece mettere in atto un piccolo spet-tacolo che aveva inizio nelle prime ore dell’ultima domenica di carneva-le fino al martedì grasso e che ancora

oggi consiste in una sfilata di persone mascherate che simboleggiano i do-dici mesi dell’anno. Ogni mese si rico-nosce da una particolarità dell’abito e del trucco; ad esempio, settembre viene rappresentato con grappoli d’uva in testa (è il mese della ven-demmia), novembre ha un cappello di crisantemi e di melograni (rap-presentano la ricorrenza dei morti), dicembre, invece, indossa cappello e abito che sono uno scintillio di colori, (rappresentano il mese delle festività, caratterizzato dagli addobbi natalizi come l’albero di Natale) ecc.Scendiamo in provincia di Catania per fermarci ad Acireale, dove già nel Seicento vi era l’usanza di duellare a suon di uova marce e agrumi per le strade, messa al bando qualche anno dopo per motivi di sicurezza (feriti e danni alle cose). Agli inizi del Sette-cento la manifestazione si arricchì an-cor di più grazie anche agli abbatazzi, poeti popolari abili nell’improvvisare spassose rime per le strade e nelle piazze.Nell’Ottocento il carnevale compì un salto di qualità con l’introduzione della “cassariata”, sfilata di carrozze trainate da cavalli dalle quali i nobi-li della città lanciavano manciate di confetti agli spettatori. Negli angoli

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di ogni strada bizzarri e spiritosi gio-chi popolari, come l’albero della cuc-cagna, il tiro alla fune e la corsa con i sacchi, giochi tornati alla ribalta da diversi anni. Negli anni Trenta, invece, entrano in scena le maschere in carta-

pesta, che poi si trasformano in carri allegorici trainati dai buoi, contornati da personaggi e gruppi satirici in mo-vimento.Un tocco di gentilezza appare in que-sta kermesse nel lontano 1930, quan-do per la prima volta furono allestite autovetture ricoperte di fiori; ma solo nel dopoguerra, viene indetto un vero e proprio concorso con la realiz-zazione di “soggetti”. Ferro, legno, reti metalliche, e successivamente anche il polistirolo, costituivano la base del-la struttura alla quale in ultimo si ap-plicava l’elemento decorativo florea-le. La maestosità e la complessità dei “soggetti” via via richiesero l’apporto di una struttura indipendente da trai-nare e l’introduzione del movimento manuale o meccanico di alcune parti della struttura infiorata. Ai giorni no-stri, alle macchine infiorate si potreb-be dare la denominazione di “carri floreali”, che non sono da meno, per tecnica, elaborazione e bellezza, ai

86. Carro allegorico del Carnevale di Acireale (Ct), sfilata anno 2009.

87. Carro floreale ad Acireale (Ct).

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carri di cartapesta.Passiamo ora ad un’altra manifesta-zione di fama nazionale: il carnevale di Sciacca (provincia di Agrigento), le cui origini risalgono molto probabil-mente al 1616 quando il viceré Ossu-na stabilì che l’ultimo giorno di festa tutti si dovevano vestire in maschera.Le prime manifestazioni sono ricor-date come una festa popolare, in cui venivano consumate salsicce, canno-li e molto vino; il popolo si riversava nelle strade, travestito in vari modi. Successivamente furono fatti sfilare i primi carri, che portavano personag-gi mascherati sulle sedie in giro per le viuzze della città.Negli anni Venti compare una grande piattaforma addobbata, trascinata da buoi o cavalli, che portava comitive in

maschera, che recitavano in dialetto locale, seguite da piccole orchestrine improvvisate. Lo stufato, le salsicce ed il vino distribuito in abbondanza rappresentavano già un importante momento d’incontro.Nel dopoguerra i carri allegorici ve-nivano allestiti con figure sempre più grandi e i movimenti divenivano sempre più sofisticati. La satira politi-ca locale lasciava spazio a personaggi e temi di attualità di carattere nazio-nale.Attualmente la manifestazione ini-zia il Giovedì Grasso con la consegna simbolica delle chiavi della città al re del Carnevale Peppe Nappa, masche-ra messinese della Commedia dell’Ar-te, ma adattata dai saccensi come maschera tipica. Peppe Nappa, che apre la sfilata dei carri allegorici, inizia a distribuire vino e salsicce preparate sulla brace per tutta la durata del car-nevale. Il martedì grasso Peppe Nap-pa chiude la festa e il suo carro viene bruciato in piazza.Concludiamo il nostro viaggio nell’iso-la toccando come ultima tappa la città di Termini Imerese (provincia di Palermo) che ha una manifesta-zione di origini ottocentesche insie-me a quella di Acireale e Sciacca, fra le più note della Sicilia. Un tempo si

88. Carro allegorico degli anni Qua-ranta a Sciacca (Ag).

89. Peppe Nappa, maschera ufficiale del Carnevale di Sciacca (Ag).

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protraeva per un mese intero: oggi la festa si concentra in due sole giorna-te, l’ultima domenica e il martedì che precedono il mercoledì delle Ceneri. Tutto ruota intorno a due maschere locali, “u Nannu cà Nanna”, introdotte da alcune famiglie di provenienza na-poletana stabilite nel territorio di Ter-mini all’inizio dell’Ottocento, che ogni anno scandiscono i momenti centrali della festa: l’attesa dei due tradiziona-li protagonisti, la sfilata delle masche-re e il Testamento “morale” lasciato da “u Nannu”, che conclude simbolica-mente i festeggiamenti. Negli ultimi anni è andata affermandosi una satira diversa, più viva, più pungente, che affida agli enormi pupazzi in cartape-sta il compito di affrontare con ironia i temi più scottanti dell’attualità.Il nostro viaggio prosegue nell’altra meravigliosa isola, la Sardegna. Siamo in provincia di Nuoro, precisamente a Samugheo, dove tutte le maschere cominciano a comparire in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, ri-chiamate in piazza attorno al fuoco e pronte a sfilare per le vie del paese.

Qui ritroviamo la maschera zoomorfa di s’Urtzu, un capro che rappresenta la morte e la rinascita della natura (ricor-dando il dio Dioniso, che ogni anno moriva e rinasceva e si manifestava spesso sotto questa forma). S’Urtzu ha la testa di un capro, indossa un in-tero vello di caprone nero, porta sul petto pelli di capretto e un cinturone da cui pende un grosso campanac-cio. Un tempo, dicono gli anziani di Samugheo, si chiamava Ocru. S’Urtzu è la bestia, la vittima da soggiogare: un tempo, sotto le pelli, portava pezzi di sughero che lo proteggevano dalle

90. Le maschere locali di Termini Ime-rese (Pa), u Nannu cà Nanna.

91. S’Urtzu e Su Omadore, maschere tipiche del Carnevale di Samugheo (Nu).

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percosse del suo guardiano, su’Oma-dore, figura di pastore interamente avvolto in un lungo gabbano nero, dotato di soga e bastone, catena e pungolo per i buoi.Altre maschere sono i Mamutzones, vestite di fustagno nero e coperte di pelli di capra, calzano i gambali e cingono gli stinchi di pelle di capra, hanno la vita cinta di trinitos e cam-paneddas e il petto appesantito da due paia di campanacci, in bronzo o in ottone (il suono di quest’ultimi è per tenere lontani dalla cerimonia gli spiriti del male). Hanno il volto an-nerito dal sughero bruciato e alcuni tengono in mano un bastone nodoso e tondeggiante all’estremità avvolto di pervinca o di edera, a somiglianza del Tirso (oggi viene portato solo da colui che conduce il gruppo). L’accon-ciatura della testa è abbastanza par-ticolare: è munita di un recipiente di sughero, su casiddu o, più raramente, su moju, rivestito all’esterno di lana caprina e coronato all’estremità da af-fusolate corna bovine o caprine. I Ma-mutzones (il loro comportamento è simile a quello dei seguaci di Dioniso, così come viene descritto dalle fonti classiche) danzano scomposti intor-no a s’Urtzu (tenuto per la vita da su ‘Omadore) che ogni tanto cade a ter-

ra, fingendo la passione che precede la sua morte.Queste manifestazioni conservano i simboli di antichissimi riti pagani: per poterne capire il significato, infatti, bisogna rifarsi alle credenze, ai miti e ai riti della cultura pastorale tipica della Sardegna centrale. La figura di s’Urtzu, come attestano alcuni gocius (canti sacri rimati e cantati), aveva un tempo un carattere sacro e si chiama-va Santu Minchilleo, nome curioso che ne indicava la sacralità e allo stes-so tempo la semplicioneria. Fa il suo percorso zoppicando, danzando gof-famente e, talvolta, avventandosi su-gli astanti; si voltola nelle pozzanghe-

92. I Mamutzones, del Carnevale di Samugheo (Nu).

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re, si rialza, si scuote e si ributta a ter-ra, muggendo: solo su’Omadore può limitarne l’intemperanza, battendolo fino a farlo sanguinare e pungolando-lo per farlo ridestare. S’Urtzu gronda di sangue e la terra si colora di rosso: ma è solo l’espediente scenico dato da una vescica di sangue e acqua na-scosta sotto le vesti, pronta a spaccar-si alla pressione del corpo che cade. Il suo sacrificio è cruento, ma inevi-tabile: la terra si impregna di sangue, così da diventare nuovamente fertile e prodiga di frutti dopo la “morte in-vernale” (la morte di s’Urtzu). Ad Oristano, invece, è famosa la Sar-tiglia, un’antica giostra equestre, risa-lente al XVI secolo, che si svolge nella città l’ultima domenica di Carnevale e

il martedì grasso. Ci sono due “Gre-mi” o Corporazioni, che partecipano alla Sartiglia, quella dei contadini, la domenica, e quella dei falegnami, il martedì. Secondo la tradizione, la Sar-tiglia della domenica è sotto la prote-zione di San Giovanni Battista, quella del martedì di San Giuseppe.Protagonista assoluto della mani-festazione è Su Componidori, figura enigmatica e affascinante dalla bel-la maschera androgina che guida i cavalieri. La Sartiglia ha inizio con la vestizione del capo corsa (un vero e proprio rituale particolareggiato che avviene su un tavolo allestito come fosse un altare) ad opera di giovani donne in costume, le is massaieddas. Questo succede perché il cavaliere non può toccare terra in quanto deve rimanere puro per gareggiare e vin-cere. Le ragazze gli mettono un ci-lindro nero, la mantiglia, una camicia ricca di sbuffi e pizzi, il gilet, il cintu-rone di pelle e una maschera neutra, androgina, perché deve diventare un semidio sceso tra i mortali per dare loro buona fortuna e mandare via gli spiriti maligni. Così, preceduto dai trombettieri e dai tamburini e seguito dai cavalieri mascherati, Su Componi-dori attraversa la città benedicendo la popolazione con Sa Pippia e Maju (un

93. Su Componidori, protagonista della Sartiglia, tra due cavalieri.

94. Su Componidori cerca di centrare la stella.

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mazzo di violette legato ad uno scet-tro di steli di pervinca, simbolo della fertilità e della primavera). Al cavalie-re spetta il compito di aprire la Cor-sa alla Stella. Dopo che il capo-corsa parte, partono anche gli altri cavalieri nella via del Duomo dove, sospese a fili di seta verde, pendono le stelle di metallo che i cavalieri dovranno infil-zare con la spada correndo al galop-po. Dal numero delle stelle infilzate si traggono gli auspici per l’annata suc-cessiva. Infine ci sono le acrobatiche e spericolate Pariglie e il cavaliere è costretto a percorrere di corsa la pista disteso di schiena sul dorso del caval-lo. Solo allora la Sartiglia viene dichia-rata conclusa e il rito consumato.La Sartiglia è un gioco importato dal-la Spagna nel XIII secolo ed ha avuto molte trasformazioni nel corso del tempo. Al principio era un gioco ese-guito solo dalla classe nobiliare, poi ha coinvolto anche gli strati sociali più bassi, diventando un’espressione di vita quotidiana.Ci spostiamo in provincia di Nuoro, ad Orotelli dove, dal febbraio del 1979, sono state ripristinate le tradizioni carnascialesche, cadute in disuso nel secondo dopoguerra e ripescate gra-zie alle ricerche e agli studi etnologi-ci.

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Le principali maschere sono i Thurpos, cioè i ciechi, rappresentati da giovani i cui visi, spalmati di fuliggine del su-ghero bruciato, si nascondono dietro il cappuccio de su gabbanu, pesante pastrano d’orbace portato dai pastori nelle stagioni fredde. Sopra su gabba-nu portano ad armacollo una cinghia di campanacci che fanno suonare ad ogni movimento del corpo; sotto indossano un abito di velluto e gam-bali. Questi particolari personaggi sfilano per le strade interpretando diverse situazioni riferite alla tradizio-ne cittadina: il contadino (Su Thurpu Voinarzu), che deve dominare i buoi

(Thurpos Boes), i Thurpos seminatori, che spargono crusca, e il fabbro (Su Thurpu Vrailarzu) che con un acciari-no accende il fuoco per le strade.Durante le sfilate camminano a grup-pi di tre: due avanti camminano ap-paiati, rappresentando una coppia di buoi, legati in vita con una fune tenuta da un terzo thurpu (interpreta il pastore) che li guida pungolandoli e cercando di tenerli mansueti. Qual-che coppia di thurpos traina un ara-tro per le vie lastricate (come rituale propiziatorio di fertilità che ricorda le rappresentazioni di altri carnevali barbaricini); altri, invece, interpretan-do la parte di maniscalchi, si fermano a ferrare un thurpu-bue: è un momen-to scenico molto rappresentativo del lavoro e della vita quotidiana dei con-tadini. Questi ciechi, con la scusa di non ve-dere, si lanciano sul pubblico per ren-derli partecipi del gioco. Poi ne cattu-rano qualcuno senza maschera e lo costringono, se vuole essere liberato, ad entrare in qualche bar per offrire da bere. Tutto ciò avviene in tutto il periodo carnevalesco, anche se l’ulti-mo giorno i ruoli si ribaltano: i Thurpos offriranno da bere al pubblico. Que-ste scene avvengono nella piazza del paese dove si conclude la festa con

95. I Thurpos, principali maschere del Carnevale di Orotelli (Nu).

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balli chiamati ballu de Sos Thurpos, che danno vita alla rappresentazio-ne di un antichissimo rito agreste di propiziazione dei raccolti, ispirato ai cicli annuali della natura. La loro dan-za culmina con Sa Tenta (la cattura): seguendo l’ordine del pastore, i buoi caricano una vittima, che potrebbe rappresentare la vittima sacrificale, la legano e la portano in un bar dove dovrà offrire da bere a tutti se vuole essere liberato. Testimonianze ora-li ricordano che oltre ai Thurpos, un tempo c’erano anche altre maschere:

gli Erthajos, i Burraios, i Tintinnajos, le sas Mascaras de caddu e sas Mascaras de pè. Infine vi era s’erithaju (il riccio), una maschera che indossava un saio bianco con cappuccio e portava una collana di tappi di sughero rivestiti di pelle di riccio con aculei; inseguiva le donne, le catturava e le abbracciava così forte da punger loro il seno.Ancora, in provincia di Nuoro, c’è un paese di nome Mamoiada dove pos-siamo ritrovare il carnevale più antico della Sardegna e uno dei più caratte-ristici in Italia. Tra le maschere tipiche ritroviamo i Mamuthones, cioè uomini che na-scondono le loro sembianze dietro una maschera, sa bisera, nera, di le-gno (si usa quello di pero selvatico, o d’ontano) con naso, mento e zigomi fortemente pronunciati e con due fori per occhi e bocca. La testa è coperta da un fazzoletto marrone annodato sotto il mento. Vestono il consueto abito di velluto marrone, ricoperto da pelli nere di pecora; sulle spalle portano sa garri-ga, un sonoro groppo di campanacci (su ferru), trenta chili di strepito che neutralizzano il silenzio dei volti. Da-vanti, poi, un grappolo di campane, tenute insieme da cinghie di cuoio.Poi ci sono gli Issohadores, uomini

96. S’erithaju, antica maschera del Carnevale di Orotelli (Nu).

97. Mamuthones, maschera tipica del Carnevale di Mamoiada (Nu).

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che indossano un giubbetto di panno rosso, abbracciato trasversalmente da una cintura con bubboli di bronzo e ottone. Portano calzoni di tela bian-chi (carzas o carzones, un tempo in velluto scuro), un variopinto scialletto (s’issalletto) sfrangiato sui fianchi, una berritta (copricapo), tenuta legata da un fazzoletto annodato sul viso che il più delle volte è coperto da un’auste-ra maschera bianca. Portano in mano sa soha, una fune di giunco.I Mamuthones si muovono su due file parallele (generalmente a gruppi di dodici), fiancheggiati dagli Issohado-res, molto lentamente, curvi sotto il peso dei campanacci e ad intervalli

uguali danno tutti un colpo di spalla per scuotere e far suonare tutta la so-nagliera.Gli Issohadores, invece, sono in nume-ro massimo di otto e si muovono con passi e balzi più agili; poi all’improvvi-so fanno volteggiare la fune, si slan-ciano, gettano il laccio fulmineamen-te e tirano a sé come un prigioniero l’amico o la donna che hanno scelto nella folla. Il catturare le giovani don-ne è segno di buon auspicio per una buona salute e fertilità. Un tempo ve-nivano catturati i proprietari terrieri per augurare loro una buona annata agraria e, per sdebitarsi dell’onore ri-servatogli, portavano tutto il gruppo a casa loro e offrivano vino e dolci. Oggi l’attenzione spesso viene rivolta alle autorità presenti.Fanno la prima apparizione il 17 Gennaio in occasione della festa di sant’Antonio, sa die de Sant’ Antoni de su ‘Hou (il giorno di Sant’ Antonio del Fuoco), così detto in quanto nello stesso giorno vengono accesi in ogni rione del paese dei fuochi. La rappre-sentazione viene riproposta anche l’ultima domenica di carnevale e il martedì grasso: grande attrattiva per i turisti barbaricini e non solo.L’origine di queste maschere è molto dubbia: alcuni pensano che questa

98. Issohadores, maschere tipiche del Carnevale di Mamoiada (Nu).

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esibizione celebri la vittoria dei pa-stori di Barbagia (gli Issohadores) su-gli invasori saraceni fatti prigionieri e condotti in corteo (i Mamuthones), altri invece vi leggono tra le righe “un rito totemico di assoggettamento del bue”, o una processione rituale fatta dai nuragici in onore di qualche nume agricolo e pastorale. Qualunque sia il significato di questa mascherata, re-sta il fatto che si tratta di un rito che ha il sapore di un tempo lontano. Ma il carnevale a Mamoiada è anche altro: balli in maschera, su passu tor-rau (ballo tradizionale), dolci tipici, sfilata dei carri allegorici nella piazza e per finire, nel giorno del martedì grasso, Juvanne Martis Sero (Giovanni del Martedì sera). È un fantoccio di le-gno vestito con abiti della tradizione sarda (camicia, velluto e berritta) che viene trasportato all’interno di una carretto per le vie del paese da alcuni ragazzi o adulti solitamente apparte-nenti allo stesso gruppo o troppa. Gli accompagnatori di Juvanne vesto-no in vardetta, scialle e mucadore ri-gorosamente neri, impersonificando le donne del paese nei momenti di lutto; infatti il fantoccio è morente e i ragazzi cantano un lamento funebre in mamoiadino. Tradizione vuole che gli accompa-

gnatori di Juvanne bussino di porta in porta per le vie del paese, domandan-do un po’ di vino per fare le “trasfusio-ni” al povero pupazzo di legno nella speranza di salvarlo. Il vino che viene donato finisce all’interno di un’unica damigiana posizionata sul carro che in seguito verrà bevuto, in notevoli quantità, dai ragazzi provocando, a tarda sera, una rilevante stonatura del canto funebre in onore de Juvanne. Al termine del percorso, Juvanne Martis finisce sotto i ferri: con un’operazione, dal ventre del fantoccio vengono tira-te fuori le budella (sas istinas de por’ u); si cerca di rianimarlo, ma il tentativo è vano e Juvanne è destinato a morire. Il fantoccio, a differenza di altri paesi, non viene bruciato o buttato via, ma conservato per l’anno successivo.

99. Juvanne Martis Sero.

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Il nostro viaggio inizia nella terra di Puglia, precisamente in provincia di Bari, nella “Pittoresca cittadina

italiana… famosa per il suo carnevale, le grotte e le tipiche case rurali note come trulli” (si tratta di Putignano il cui nome, il 26 luglio 2000, è stato assegnato al pianeta minore numero 7665, tra le orbite di Marte e di Giove, dall’Unione Astronomica Internazio-nale). Putignano, è una cittadina di antica origine peuceta, oggi vivace centro economico del sud est barese. Secon-do alcune fonti storiche, il suo carne-vale ha origini antichissime. Dobbia-mo andare indietro nel tempo sino ad arrivare al 26 dicembre 1394 per ritrovare le origini di questa manife-stazione popolare. In questa data av-venne la traslazione delle reliquie di Santo Stefano Protomartire dalla città di Monopoli a Putignano per poterle mettere al riparo dalle incursioni dei saraceni. E proprio in questa occasio-ne si racconta che alcuni contadini del luogo, mentre erano intenti a pianta-re le viti con la tecnica della propag-gine, al passaggio della processione che portava le sante reliquie, si sono uniti al corteo sacro con balli, canti e versi satirici in vernacolo. Secondo altri studiosi, il Carnevale

avrebbe origini ancora più lontane, ma non è certo questa la sede per affrontare una questione così com-plessa. Cerchiamo, invece, di girare più volte la clessidra sino ad arrivare a tempi più recenti per osservare come questa festa abbia subìto profondi cambiamenti.In un testo dei primi decenni dell’Ot-tocento si legge che il giorno dopo del S. Natale, inizia il Carnevale di Putignano con una “manifestazione” assai particolare: uomini mascherati da agricoltori che imbracciano i loro utensili e si aggirano per le vie del paese “fingendo di eseguire i loro campestri lavori ora zappando, ora piantando alberi, viti, rapeste, acci, finocchi, carote, ecc. ora innaffiando, ora mietendo, ora facendo merenda,

3.2 putignano: Un Carnevale tra i più antichi del mondo

100. Reliquie di Santo Stefano.

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ora cantando ecc. e così menano alle-gra e divertita la giornata” (Sisto 2002). Questa descrizione fatta da Vitange-lo Morea, si riferisce alle Propaggini, un rito che è riuscito ad arrivare sino ai giorni nostri, anche se il tempo e i personaggi culturalmente diversi che vi hanno partecipato hanno apporta-to delle trasformazioni che andremo a scoprire insieme. Inizialmente, nell’Ottocento si insce-navano in ambito urbano alcune pra-tiche contadine; inizialmente si “zap-pavano” le strade del paese, tant’è che in antico documento si menziona un provvedimento con il quale il sin-daco diffidava l’uso di questi attrezzi in quanto scheggiavano le basole da poco sistemate alla “chiancata”; pro-prio per questo successivamente si ripiegò sull’uso di “zappe finte”, fatte di legno, che non avrebbero potuto arrecar danno. Verso la fine dell’Ottocento, sempre nell’ambito delle Propaggini, si deli-nea un rito che col tempo assumerà sempre più un ruolo centrale: ci rife-riamo all’ “impianto delle vigne”, defi-nito dagli studiosi una sorta di rito di propiziazione agraria. Ancora però, durante questo rito, non si recitavano versi; alcune testimo-nianze orali ci dicono che solo agli

inizi del Novecento qualcuno appar-tenente ai ceti urbani (artigiani e pic-coli commercianti) cominciò ad im-provvisare versi in rima e a rinnovare profondamente questo rito, che ha conservato una straordinaria vitalità. I Propagginanti avevano dei sopran-nomi che richiamavano le loro ca-ratteristiche peculiari: ricordiamo tra questi ’U Cap’ bianc, Propagginante dalla “fluente barba bianca che si agi-tava grottescamente nella foga della declamazione” e Sant’Aruonz, “piccolo magro viso segaligno e bruno, occhio intelligente, sorriso mefistofelico” (Lippolis 1937).

101. Propagginanti, edizione 1977.

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Col tempo, dunque, le Propaggini, perdono il loro carattere prettamente contadino e tendono ad “urbanizzar-si” e a sprovincializzarsi: se in un primo momento i Propagginanti indirizzano i versi satirici ai fatti e ai personaggi locali, successivamente allargano i loro orizzonti ai fatti nazionali e inter-nazionali.Questo rito fa ancora parte della tra-dizione putignanese e, come con-suetudine, viene riproposto il giorno dopo Natale. Gruppi di mascherati, con mani e volti imbrattati di nero-fumo di cucina, salgono su un palco adornato con tralci di viti e grappoli d’uva; qui recitano versetti in rima in vernacolo inerenti a fatti accaduti nel paese nell’ultimo anno, rivolgen-do una pungente satira al mondo politico e sociale. Chiandà u ceppòne significa piantare il tralcio di vite per far nascere una nuova pianta; espres-sione che ha un significato ben più ampio di quello prettamente legato all’azione agreste; ci si riferisce, infatti, attraverso evidenti allusioni sessuali, all’opportunità di criticare anche pe-santemente alcuni episodi e protago-nisti della vita politico-amministrativa dell’anno che sta per chiudersi. In mattinata si tiene un’altra cerimo-nia abbastanza particolare: lo scam-

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bio del cero. Durante questa cerimo-nia, il Presidente della Fondazione Carnevale offre un grosso cero al Pre-sidente del Comitato Feste Patronali, il quale lo porta nella processione di Santo Stefano, protettore del pae-se. Anche la gente dona un cero alla chiesa. Si tratta di un atto devoziona-le con il quale la comunità cittadina in passato cercava di ingraziarsi il clero e chiedeva in anticipo il perdono dei peccati che sarebbero stati commessi durante il Carnevale.Secondo le testimonianze, dunque, il Carnevale di Putignano, come pochi

altri, ha inizio proprio il 26 Dicembre di ogni anno, anche se la data “cano-nica” di inizio è il 17 gennaio, gior-no dedicato dalla Chiesa cattolica a Sant’Antonio Abate (“Sant’Antun’ ma-scare e sun’ ” - Sant’Antonio, maschere e suoni). In questo giorno si svolgeva il rito della benedizione degli animali adornati con nastri e campanelli, in segno di buon augurio. Gli animali non erano protagonisti solo in que-sto giorno, ma per tutto il periodo del Carnevale. In molti Paesi, infatti, era usanza identificare il Carnevale nell’orso, nel tacchino, nel maiale e nell’asino. Testimonianze storiche ci raccontano che intorno al 1930 alcuni artigiani putignanesi vollero riscoprire la festa dell’orso. Si trattava di un rito molto antico, che consisteva nel portare per le vie del paese un orso incatena-to, attorniato da diversi musicanti e giocolieri. Questa festa si svolgeva il giorno della Candelora, il 2 febbraio, data che secondo le credenze popo-lari coincideva con l’abbandono del letargo da parte dell’animale. In quel-la circostanza il gruppo di artigiani scese in piazza con strumenti a per-cussione e a fiato e accompagnarono un uomo ricoperto da una pelle di capra. Questa festa, dimenticata per

102 - 103. Propagginanti.

104. Scambio del Cero.

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circa sessant’anni, è tornata a vivere solo negli anni Novanta grazie ad al-cune associazioni culturali che hanno riproposto la stessa in chiave spetta-colare. Numerosi figuranti, tra attori, musicisti e danzatori, accompagnano un uomo che indossa una grande ma-schera di orso di cartapesta e insce-nano la caccia all’animale, la cattura, il processo, l’uccisione e l’oracolo me-teorologico. Infatti, nella tradizione putignanese si racconta un aneddoto secondo cui l’orso ha la possibilità di darci informazioni utili sul clima del-la restante parte dell’inverno: se il 2 febbraio il tempo è buono, si preve-de ancora un inverno lungo, perché l’orso approfitta del bel tempo della Candelora per costruirsi il pagliaio e difendersi dall’arrivo delle intempe-rie; al contrario, se il tempo è cattivo, resterà nel suo letargo e prevede l’ar-rivo della primavera. Nella tradizione carnascialesca puti-gnanese, oltre alla Festa dell’Orso, si annoverano anche altri riti che, dal 17 gennaio in poi, si tenevano tutti i gio-

vedì fino all’ultima domenica del Car-nevale e al martedì grasso. I giovedì, che ogni anno variavano di numero a seconda della collocazione calen-dariale della Pasqua, erano dedicati a diverse categorie di persone, toc-cando, generalmente, diversi ceti so-ciali: i monsignori, i preti, le monache, i vedovi e le vedove, i pazzi (in riferi-mento ai giovani scapoli), le donne sposate e i cornuti (uomini maritati). Durante queste serate non potevano mancare i mascheramenti, le danze e i canti che riempivano le strade, nonché pranzi ricchi ed elaborati che

105 - 106. Festa dell’Orso.

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imbandivano le tavole di ogni casa. C’era anche l’usanza di organizzare i cosiddetti “festini n’de jos’r” - feste nei sottani, piccoli locali al di sotto del li-vello stradale, presenti nel centro sto-rico; si trattava di momenti conviviali dove il Carnevale, festa pubblica per eccellenza, diventava festa privata e l’ingrediente principale era la voglia di divertirsi e dimenticare, se pur per qualche ora, la quotidianità. I festini prevedevano un’accurata “regia”.Da una parte c’erano gruppi di per-sone che organizzavano balli e buffet nelle case e in locali di fortuna, dall’al-tra vi erano gruppi mascherati che giravano di festino in festino e che, prima di entrare, erano costretti a far-si riconoscere. A Putignano, questa usanza raggiunse proporzioni con-siderevoli nei primi decenni dell’Ot-tocento: si racconta di una parteci-pazione così massiccia di comitive di giovani e meno giovani provenienti addirittura anche dai paesi limitrofi, da richiedere l’invio di forze dell’ordi-ne da altri paesi. E la cosa ancor più strana è che a que-sti festini non si sapeva rinunciare nemmeno durante i periodi di pover-tà, quando la gente a stento riusciva a trovare qualche tozzo di pane per sfa-marsi. I festini, dunque, si tenevano

ugualmente e addirittura si racconta che i “galantuomini” ballavano co-munque e mangiavano sino al suono dei rintocchi della campana: “Luòr bal-lane fin’a campane/i lu paese stie senza pane… Tott’i liecete a’ galantum/nan-ci liegg pì luor” – Loro (i benestanti), ballano fino al suono della campana (dei maccheroni) e il paese muore di fame… Tutto è lecito ai galantuomini, non esiste legge per loro. – Ancora oggi i giovedì, con gli eventi e gli spettacoli organizzati, scandisco-no il tempo di Carnevale e da qualche anno, sempre grazie ad alcune asso-

107. Momento di un rito carnascia-lesco che si tiene il giovedì grasso, detto dei cornuti.

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ciazioni culturali, i festini vengono organizzati proprio nei sottani del centro storico.E così, giorno dopo giorno, si arriva a quelli che sono i momenti più impor-tanti e festosi del Carnevale, l’ultima domenica e il martedì grasso. Si parla, infatti, di una “parabola discendente” che dal “trionfo” porta, attraverso riti ben precisi, all’agonia, al testamen-to e alla morte del Carnevale (Sisto 2007). Questo trionfo era segnato da mascherate e carri allegorici, da gio-chi della cuccagna e a volte da sfar-zosi cortei.

Il giorno del martedì grasso a Puti-gnano la morte del Re Carnevale è stata sempre accompagnata da due riti: u’ndondr e il “Funerale di Carneva-le”. Il primo era un’allegra e chiassosa mascherata che si teneva nel pome-riggio alla quale era invitata tutta la cittadinanza: ci si vestiva da guerrieri o da contadini, ecc. e si andava in giro per le strade del paese ballando al ritmo di suoni prodotti con ogni stru-mento di bronzo, ferro, ottone, legno o creta. Questa “banda” a volte si fer-mava sotto i balconi dove c’era gente affacciata che lanciava loro coriandoli e confetti ed intonava qualche allegro motivo, suscitando l’ilarità dei presen-ti. Quindi proseguiva il cammino per andare ad invitare i nobili, il sindaco e la giunta. Questi, con la maschera sul viso, salutati da battimani e da un rumore più indiavolato, scendevano con solennità per poi confondersi con la massa (Cardone, 1936).Questo rito è stato definito non a caso chiassoso, visto che l’elemento princi-pale, a parte l’allegria dei partecipanti, era proprio il “rumore”. Vengono pro-dotti suoni con ogni sorta di strumen-to (tamburi, trombe, chitarre, nacche-re, coperchi di latta) con l’intento di attirare l’attenzione di coloro che re-stavano fuori del corteo, per poterlo

108. ACAP 79, Sogno di una notte di mezza sbornia, carro allegorico del 1983.

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“ingrossare”. Questo rito fu presente nella tradizione putignanese sino al 1954. Dall’anno successivo, fu sop-presso con le seguenti motivazioni del “commissario unico” dell’epoca, il Dott. D. Elefante: non si potevano più tollerare gli atti poco conformi che venivano commessi negli ultimi anni durante lo svolgimento di questo rito, da parte di gente forestiera che “non comprendendo lo spirito della festa ha esagerato”, finendo per compiere scherzi pesanti, come gettare cenere anziché coriandoli o “sporcare il viso delle ragazze con il rossetto prima, con il lucido da scarpe poi”. “Il secondo rito aveva toni più mesti perché si metteva in scena il funerale del Carnevale. Nell’Ottocento duran-te la mattina tutte le maschere “vesto-no a bruno” e così vanno e vengono per le strade del paese, piangendo e urlando la scomparsa del Carnevale; questi portano con sé un vecchio stro-finaccio e un pezzo di fune. Si servo-no del primo per asciugare le lacrime della gente che incontrano per strada e della fune per legare gli stessi a loro come segno di compianto. Alla sera, poi, viene portato in giro un fantoccio di Carnevale situato sopra un grande carro illuminato, con una grossissi-ma pancia, circondato da fiaschi, da

spiedi e da piatti e accompagnato da molti fanciulli, a suon di tamburo e in mezzo a grandi strida gira tutte le strade del paese” (Sisto, 2002).Anche per questo rito il rumore era l’ingrediente essenziale: il frastuono e il fracasso accompagnano Re Car-nevale nei suoi ultimi minuti di vita; è necessario creare questa atmosfera sonora e chiassosa, perché si renda Carnevale presente, quasi come suc-cede quando c’è una festa religiosa che è sottolineata dal suono conti-nuo delle campane della chiesa. “E non per nulla, la fine del Carnevale e l’inizio della Quaresima è indicato dal suono della campana della chiesa, la sera del martedì grasso” (Sordi, 1982). Diamo ora uno sguardo a cosa resta di questi riti ai giorni nostri. Nel tar-do pomeriggio del lunedì che pre-cede l’ultimo giorno del Carnevale, un’allegra processione composta da falsi preti e chierichetti attraversa il paese impartendo l’estrema unzione a Carnevale che ormai è in fin di vita. Nulla è lasciato al caso: i chierichetti portano incenso, ceri e un ombrello-ne parato a cerimonia come “baldac-chino”; il prete, per l’estrema unzio-ne, si serve di uno scopino bagnato nell’acqua contenuta in un pitale. La processione sosta nei locali e nelle

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cantine dove possa trovar gente e qui prete, chierichetti e gente al se-guito del corteo recitano versi satirici in latino maccheronico e con il ritmo monotono delle preghiere cercano di coinvolgere i presenti, ai quali tocca “l’unzione” con lo scopino.Il Funerale del Carnevale va in scena, come d’obbligo, durante la serata del martedì grasso, al termine dell’ultima sfilata dei carri allegorici. Ancora una volta, ad animare questo rito, c’è un corteo funebre, sempre con prete e chierichetti, “arricchito” dalla presen-za della moglie del Carnevale, una donna affranta che piange la mor-te del marito ucciso, e dal coro delle prefiche che intonano litanie dissa-cranti. Ovviamente il protagonista è Re Carnevale, questa volta presente nelle vesti di un fantoccio (spesso vie-ne rappresentato un maiale) al quale si dà fuoco non appena si giunge in piazza. L’ardere il fantoccio è un rito purificatorio che preannuncia l’arrivo della Quaresima.La storia ci racconta ancora di un ulti-mo importante evento che avveniva al termine della serata del martedì grasso: “un’ora prima della mezza-notte la grossa campana della chiesa, con 366 rintocchi, uno per ogni gior-no dell’anno, avverte che Carnevale è

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finito, che i festini debbano cessare e che non vi è che un’altra ora di tempo per mangiare i maccheroni col filetto, ballare e scherzare” (Sisto, 2002). Que-sto è il rito della Campana dei mac-cheroni, antichissimo e rimasto in vita sino a metà Ottocento, per poi essere riproposto nuovamente solo qualche anno fa. In piazza viene sistemata una campana di cartapesta che con i suoi 366 rintocchi scandisce gli ultimi mi-nuti di vita del Re Carnevale. La gente accorre per non perdersi gli attimi fi-nali di questa scoppiettante festa: tra un bicchiere di vino e un piatto di pa-sta, si canta, si balla per vivere appie-no gli ultimi momenti della festa.Durante la notte compresa tra il mar-tedì grasso e il mercoledì delle Ceneri, le maschere putignanesi mezze ad-dormentate, sazie e tra i fumi dell’al-cool, rientrando nelle proprie case dai festini, auguravano a tutti quelli che avevano preso parte ai festeggia-menti “Buona Quaresima e buon son-no/ buone rape, polpi e tonno”. Frase di buon auspicio per l’avvento del pe-riodo quaresimale: a partire dal mer-coledì delle Ceneri, infatti, formaggi, latticini, uova e carne erano messi al bando; alimenti consentiti erano i le-gumi, le verdure, il pesce (soprattutto baccalà). Come il corpo doveva purifi-

carsi seguendo una dieta prettamen-te quaresimale, così anche pentole e posate erano lavate con acqua, cene-re e aceto per “purificarle” dalla carne e dal “grasso” che avevano caratteriz-zato l’alimentazione carnevalesca.Ma la Quaresima non è solo tempo di digiuno e di preghiera, se è vero che la prima domenica, quella immedia-tamente successiva al martedì gras-so, veniva dedicata alla Pentolaccia. Si organizzavano serate danzanti il cui momento culminante era rappre-sentato dalla rottura di una “pignata” di creta precedentemente riempita

109. Rito dell’estrema unzione.

110 - 111. Funerale del Carnevale.

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con taralli, fichi secchi, noci, mandor-le, dolci, ecc. Un componente della comitiva veniva bendato e munito di bastone con il quale doveva rompe-re il recipiente perché tutti potessero godere delle prelibatezze in esso con-tenute.Presente nella tradizione putignane-se anche il rito del “Serra la vecchia” che aveva modi di rappresentazione differenti. Il primo prevedeva la pre-parazione di un “rustico” a forma di vecchia (spesso accompagnato da un vecchio) fatto di pasta di pane, ripie-no di carne tritata, uova e formaggio e cotto al forno. La peculiarità di que-sto rito era il taglio del “rustico” che avveniva con ogni tipo di sega, da quella usata dai contadini, a quella dei falegnami o dei boscaioli.Una variante del “Serra la vecchia”, ancor oggi esistente in qualche mas-seria putignanese, prevede, invece, la realizzazione con paglia e abiti ormai dismessi di un fantoccio dalle sem-

bianze di vecchia; viene usato come dama con la quale gli invitati alla fe-sta ballano. Al termine della serata, la vecchia viene svestita e smembrata: generalmente dal suo corpo escono lunghe funi (a simboleggiare le bu-della), salsicce, caramelle, dolci, casta-gne e fichi secchi (Sisto, 1993b).

112 - 113. Manifestazione della cam-pana dei maccheroni.

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3.2.1 I corsi mascherati

Non abbiamo una data precisa dell’inizio dei corsi masche-rati. Probabilmente già dai

primi anni del Novecento si costrui-vano piccoli carri allegorici. Abbiamo testimonianza di un gruppo di arti-giani (gli stessi che hanno dato vita ai cambiamenti essenziali del rito delle Propaggini) che realizzò un treno, semplicemente con legno e cartone,

che fosse di buon auspicio per l’arri-vo a Putignano del tratto di ferrovia che avrebbe collegato Bari a Loco-rotondo. Certamente uno sviluppo maggiore di questi corsi mascherati si ebbe durante il regime fascista: il po-destà addirittura stanziava un vero e proprio montepremi e distribuiva “so-lenni encomi” a tutti coloro che con carri allegorici e mascherate avessero dato risalto all’immagine del Regime. Il Principe Romanazzi Carducci conce-deva carrozze e cavalli di sua proprie-tà ai protagonisti delle sfilate: negli anni Trenta, la manifestazione ormai aveva assunto un significato politico. Non mancarono, comunque, i tenta-tivi ben riusciti da parte di qualcuno che riuscì ad eludere i controlli delle autorità con sottili parodie. Un’immagine fotografica risalente al 1933 ci permette di constatare la pre-senza di un piccolo carro allegorico che affronta il tema della polemica antiamericana: un bambino vestito con frak, bombetta e sigaro in bocca, simbolo degli Stati Uniti, siede como-damente su un divano sormontato da un ombrellone ad indicare la “giostra del mondo”. Innanzi al carro è sedu-to un ragazzo dal volto nero, simbolo dell’emarginazione alla quale i popo-li deboli sono costretti a causa dello

114. Piccolo carro allegorico realizza-to nel 1933 da Filomeno Pagliarulo.

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strapotere americano.Nel 1936 alcuni artigiani costruiro-no un carro utilizzando per la prima volta la cartapesta su una struttura realizzata in filo di ferro (fu utilizzata precisamente una rete metallica da pollaio). Con questi nuovi materiali ci si poteva permettere di costruire dei carri più leggeri e dunque più grandi. Si trattava, infatti, di un grosso elefan-te che simboleggiava Mussolini im-pegnato nelle guerre coloniali. L’uti-lizzo della rete rese possibile la realiz-zazione di un movimento meccanico:

all’interno del ventre dell’elefante vi erano dei bambini che muovevano la proboscide attraverso la quale veni-vano soffiati i coriandoli.I carri inizialmente sfilavano lungo la “Chiancata”, l’anello stradale che deli-mita ancora oggi la parte più antica del centro storico; ben presto, però, questo percorso non fu più adatto al passaggio di carri che cominciavano ad avere dimensioni maggiori; così a partire dalle fine degli anni Trenta, le sfilate furono trasferite in corso Um-berto I e lungo l’Estramurale.Durante gli anni della seconda guer-ra mondiale, la festa assunse toni decisamente minori; anche le testi-monianze orali e scritte non sono nu-merose per questo periodo. A partire dalla seconda metà degli anni Qua-ranta, invece, è evidente una ripresa della manifestazione che si presenta con toni più spettacolari, quasi a sot-tolineare il desiderio di voler lasciare indietro il recente passato, per una ri-nascita sociale ed economica. Anche i temi proposti per i carri allegorici si ispirano a temi quali la rinascita e la ricostruzione del Paese, il trattato di pace che imponeva ingiustizie e umiliazioni alla nazione e i problemi economico-commerciali. Ancora una volta gli artigiani sono bravi nel co-

115. L’Elefante di Filippo Pugliese e Marino Genco del 1936.

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struire carri mastodontici con grandi mascheroni di cartapesta; addirittura su un carro allegorico si arrivano a contare ben quattro pupazzi di car-tapesta. E anche il compenso diven-ta abbastanza cospicuo: nel 1947, ad esempio, il primo e il secondo premio avevano un valore rispettivamente di 70.000 e 60.000 lire.Col passare degli anni si va verso un carnevale più consumistico che tenta di superare i confini regionali per farsi conoscere in tutto il Paese. Così, pian piano la manifestazione diventa una piccola industria che produce reddito: il Carnevale di Putignano, intorno agli anni ’50, viene definito la “Viareggio del Sud”. Non mancano, però, i nostal-gici legati all’antico Carnevale; uno di questi è un giornalista dell’epoca che esprime il suo rimpianto e la sua ama-rezza profonda per le antiche “ma-scherate della Chiancata”, lo “Nton-daro” e i veglioni del teatro comunale che sono stati fatti morire da coloro che hanno “le ali per volare verso un radioso avvenire e non possono, né devono di conseguenza attardarsi a contemplare i miseri resti”. È la cartapesta la protagonista di que-sti mastodontici carri; si tratta di un procedimento lungo e laborioso che richiede molta pazienza e soprattutto

passione. Stabilito l’oggetto che il car-ro deve rappresentare e i particolari del manufatto, si crea la sagoma di argilla che deve contenere tutti i det-tagli del manufatto finito. Sulla sago-ma, poi, si esegue una colata di gesso caldo. Il calco di gesso, che si distac-cherà facilmente appena raffreddato, è rivestito d’olio e, successivamente, ricoperto con pezzettini di carta dei quotidiani imbevuti di colla d’acqua e farina. La lavorazione si realizza pla-smando abilmente e modellando ad arte le strisce di carta ammorbidite dalla colla.A questo punto, il manufatto in car-tapesta è rivestito di carta cemento, più resistente e impermeabile e final-mente dipinto e decorato. L’ultimo tocco di magia è l’introduzione dei

116 - 117 - 118. Fasi di lavorazione.

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movimenti, inizialmente generati da un sistema di leve azionato dall’uo-mo e successivamente da movimen-ti meccanici e infine da movimenti comandati da un computer. Come si può osservare, si fondono insieme tecnica e tradizione per ottenere ri-sultati veramente sorprendenti.I temi proposti in occasione delle sfila-te dei carri prendono spunto dalla po-litica o da argomenti di attualità: ecco allora nascere dalle sapienti mani dei cartapestai dei testoni di personaggi politici o uomini di spettacolo che sfilano attorniati da figuranti capaci di trasmettere entusiasmo a tutti gli spettatori. Durante questi corsi ma-scherati è quindi difficile rimanere indifferenti: si viene travolti dai colori e dai suoni che suscitano grandi emo-zioni e lasciano un segno indelebile.L’ideazione, la progettazione e la fab-bricazione dei carri allegorici avviene all’interno dei “Capannoni”. È lì che per mesi i cartapestai lavorano per fondere spettacolo e artigianalità, custodendo gelosamente i segreti di questa difficile arte.Accanto ai Carri allegorici, ritroviamo anche le maschere di carattere; si trat-ta di manufatti sempre in cartapesta di dimensioni molto più piccole ri-spetto ai carri allegorici, spesso ope-

re prime degli artisti emergenti, che trattano vicende più propriamente di ambito locale.Durante il periodo di carnevale si tengono quattro Corsi Mascherati: tre durante le domeniche ed una in notturna, la sera del martedì grasso. A partire dal 2006, poi, si è aggiunta un’altra sfilata, quella estiva, che si tiene il secondo sabato di luglio. Ad animare i corsi mascherati ci pen-sano anche i Gruppi Mascherati, chia-mati a presentare autentici spettacoli itineranti con costumi, musiche e co-reografie studiati per l’occasione.

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119. Franco Giotta, Cresceranno, carro allegorico del 1990.

122. Deni Bianco, L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro… precario, carro allegorico del 2008.

120. Giuseppe Nardelli & C., Avanti miei Prodi, carro allegorico del 1997.

121. Angelo Loperfido e Antonella Dibello, Fuori dal branco, carro allegorico del 2004.

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La maschera simbolo del Car-nevale di Putignano nasce nel 1952 ed è disegnata da un grafi-

co emergente, Mimmo Castellano, di origine pugliese. Dall’anno successi-vo l’immagine di questa maschera di-venta il marchio delle sfilate dei carri allegorici. Viene riprodotta nei ma-nifesti riportanti il programma delle manifestazioni relative agli ultimi tre giorni di Carnevale. La nuova maschera di Farinella, dise-gnata con forme geometriche, angoli vivi e linee rette, è presentata in atto di saltare come eseguendo un ballo; mani in alto all’altezza delle spalle, con indici e pollici nel gesto di schioc-care le dita e le gambe piegate. Come vesti, ha un giubbino e calzoni ade-renti a rombi e losanghe blu e rosse irregolari nelle forme e nella succes-sione; come copricapo ha un cappello con due corni flosci riportanti le stes-se decorazioni a rombi e losanghe e due sonagli. Completa il tutto una mantellina corta con sonagli ai bordi e alla punta delle scarpe. Il viso non ha alcuna maschera, è sorridente, ha un naso grosso ed allungato simile a quello di un pagliaccio ed occhi mol-to vispi. Questa maschera presenta dei parti-colari riferimenti a personaggi reali e

alle realtà locali: Farinella, infatti, è il nome italianizzato del soprannome Farnuodd’ (dato al Sig. Pietro Calisi), personaggio famoso del carnevale putignanese e delle Propaggini. Fa-rinella, però, è anche il nome di un impasto di farina di frumento, orzo e ceci, alimento povero, spesso il principale, se non l’unico, dei conta-dini della Murgia barese. Da qui, per estensione, col termine Farinuodd’ viene definito il contadino povero, che può cibarsi solo di farinella e fave. In un carro dei primi anni Cinquanta la maschera venne raffigurata diver-samente da un cartapestaio: indossa-va un abito bianco e verde e portava un cappello a tre punte, simboli dei tre colli presenti nello stemma di Pu-tignano. Alla cintola portava legato un sacchetto che tradizionalmente, nel mondo contadino, conteneva la farinella ed era raffigurato nell’atto di metter pace tra un cane ed un gatto, ovvero tra i cittadini di Putignano.Farinella, dunque, nasce nel 1952, al-meno come aspetto, ma le origini del nome puntano a spingere più indietro possibile il tipo che questa maschera vuole e deve rappresentare. Nel 1981, l’Amministrazione comuna-le e la Pro Loco bandirono un premio per il miglior elaborato che fosse riu-

3.2.2 Farinella: La maschera dei poveri

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scito a ricostruire le origini e le carat-teristiche di Farinella. E’ Luca Bianco il vincitore di questo concorso; egli spiega che sulla natura agreste della maschera non ci sono dubbi. Il nome, infatti, è quello dell’alimento base dei nostri avi e, di certo, Farinella ha proprio lo spirito di quei contadini temerari che cercavano di mettere a coltura anche gli angoli del nostro territorio più impensati. Attendeva-no lì la primavera, per veder arrivare i frutti e quando questi spuntavano, provavano una grande gioia, la stessa “impressa così efficacemente nel co-stume a losanghe variopinte di Fari-nella”.Alcuni hanno pensato alla masche-ra di Arlecchino come “progenitrice” di quella di Farinella, ma Luca Bian-co sostiene che quanto detto non è vero. Un importante elemento che differenzia Farinella è proprio la man-canza di una maschera che copra il viso: i suoi lineamenti definiscono “un’espressione intelligentemente di-vertita” che, accompagnata dalla “bat-tuta improvvisata”, fanno di Farinella una maschera unica (Bianco, 1981).

123. Farinella, la maschera tipica pu-tignanese.

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Sempre in Puglia, spostandoci a sud di Putignano, arrivando fino alla terra tarantina, troviamo

Crispiano, piccola cittadina particola-re per la sua posizione geografica. Il Comune, infatti, è ubicato su diverse colline la cui cima più alta raggiunge i 529m s.l.m.Originariamente era un piccolo inse-diamento messapico, poi sottomesso ai romani, ai saraceni; nel Medioevo divenne territorio di appartenenza di diversi casati.In questa cittadina il Carnevale non ha storia alle spalle, perché è nato nel 1979. Nel 1999, la Pro Loco decise di mettere in pratica un’idea innovativa: legare il turismo estivo e la tradizione gastronomica di questo paese con il divertimento e la goliardia carneva-lesca… Ed è così che il “Carnevale è della Gente”, tradizionale sfilata inver-nale di carri, che rallegrava le vie del paese fin dal 1979, si trasforma nel “Carnevale estivo del Fegatino”, ma-nifestazione enogastronomica che si tiene nella seconda decade di luglio.Il “Carnevale estivo del Fegatino”, come dice lo stesso titolo, è una mani-festazione che prevede sfilate di carri allegorici e gruppi mascherati, prove-nienti anche dai più grandi Carnevali del Sud Italia e dall’estero, abbinate a

sagre dei prodotti tipici locali (mozza-rella, focaccia, lumache, gelato, bom-betta - ovvero ripieno di carne con prosciutto e formaggio, passata sulla brace - ma soprattutto Fegatino) e a tanta musica, sport, ecc.Tutto ciò si svolge in un’intera setti-mana durante la quale giungono cen-tinaia di migliaia di turisti. Nel 2000, per consolidare il successo di questo Carnevale, è stata presentata la ma-schera ufficiale: Brigantino, con la sua compagna Brigantella, che racchiude in sé tutto lo spirito carnevalesco ed estivo anche nel suo abbigliamento. La maschera prende il nome dal “bri-gante”, che in epoca non molto lon-tana attuava scorribande nelle terre tarantine. A Crispiano ve ne fu uno molto noto, di nome Pizzichicchio. La maschera prende anche il nome da un modo di dire tipico crispianese: per “brigant”, si intende, infatti, una persona gioiosa e scherzosa. Anche nel suo vestire, Brigantino simboleg-gia l’estate e l’allegria: la canotta a strisce è simbolo dell’estate, il man-tello azzurro fa riferimento al mare, il copricapo con il sole è segno di ca-lore; come scettro Brigantino ha una forchetta con un fegatino, prodotto tipico crispianese, sui rebbi.

3.3 Crispiano: Carri, maschere e fegatino

124. Logo del Carnevale di Crispiano (Ta).

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125 - 126. Carri allegorici del Carne-vale di Crispiano (Ta).

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Lasciando alle nostre spalle la terra tarantina, riprendiamo il viaggio verso un’altra cittadina

che da secoli tramanda di generazio-ne in generazione la sua cultura car-nascialesca.Oltrepassiamo il confine regionale pugliese e giungiamo in Basilicata, a Tricarico, una piccola cittadina in pro-vincia di Matera caratterizzata da un territorio prevalentemente montuo-so; è nel cuore della Lucania e ricca di storia e di monumenti.Il Carnevale inizia all’alba del 17 gen-naio, giorno dedicato a S. Antonio Abate, protettore degli animali; è usanza che i fedeli, insieme ai propri animali (per l’occasione vengono ag-

ghindati con nastri, collanine e per-line colorate), per i quali si invoca la benevolenza del Santo, si rechino da-vanti alla chiesa di S. Antonio Abate, compiano tre giri intorno alla chiesa a lui dedicata per poi ricevere, dopo la messa, la benedizione da parte del sacerdote.Lo stesso rituale è osservato dalla “mandria” delle maschere, prima di muoversi verso il centro storico e per-correrne tutti gli antichi rioni; si trat-ta di personaggi che impersonano tori e vacche, neri con nastrini rossi i primi, bianche con nastrini colorati le seconde. Inquadrati secondo un ordine rigoroso che si rifà alla man-dria in transumanza, il corteo è diviso in due gruppi aperti e guidati da un capomassaro, che indossa un man-tello nero lungo fino alle caviglie, un cappello a falde strette, guanti neri di

3.4 Tricarico: Il Carnevale in “Bianco e Nero”

127. Veduta panoramica del paese di Tricarico (Mt).

128. I tre giri fatti attorno alla chiesa di S. Antonio Abate.

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lana e scarponi militari; a tracolla por-ta da un lato un tascapane militare e dall’altro uno spago al quale è fissata una corda arrotolata ad anello, fatta con i peli della coda di un mulo. In mano stringe un bastone da pastore utilizzato per mantenere l’ordine nel-la coloratissima sfilata e per impedire e controllare le intemperanze dei tori che inseguono le vacche, o meglio le giovenche, mimando selvaggiamen-te l’atto della monta.Ogni capomassaro ha alle dipenden-ze un sottomassaro e tre vaccari. Il pri-mo si distingue dal capomassaro per-ché indossa un giubbotto smanicato di pelliccia con il pelo bianco e riccio rivolto all’esterno; i secondi non pre-sentano nulla di particolare nell’abbi-gliamento se non delle bisacce di tela bianca portate a spalla, utilizzate per raccogliere le offerte.Ogni maschera porta con sé un cam-panaccio, diverso nella forma e nel suono, a seconda che si tratti di muc-che o di tori, tanto da creare un ritmo confuso e ripetitivo che genera un grande caos lungo le vie del paese che sembrano essere attraversate da una vera, immensa mandria in movi-mento. Tricarico viene, così, svegliata da questi campanacci. Al gruppo si uniscono altre due figure mascherate,

il Conte e la Contessa, che rappresen-tano le famiglie nobili che seguivano il bestiame nel periodo della transu-manza. Questo gruppo, in maniera più o meno ordinata, concluderà il giro del paese nella piazza dopo aver effettuato il primo giro di questua: anche qui gli abitanti offrono vino, salumi e formaggi che costituiranno la dote per le libagioni notturne pri-ma che il Carnevale muoia a pancia piena. Lo stesso corteo viene riproposto an-che l’ultima domenica: in quell’occa-sione, però, dopo un pranzo di grup-po e una sfilata pomeridiana accom-pagnata da carri, tra i quali quello di Quaremma (Quaresima) che piange la sorte del Carnevale, viene bruciato un fantoccio dalle enormi dimensioni in Piazza Garibaldi.Il carnevale di Tricarico è stato ogget-to di vari studi. Le poche ed uniche

129. Costume del Carnevale di Trica-rico (Mt).

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fonti scritte ci forniscono un’immagi-ne ampia, ma piuttosto indetermina-ta di quello che avveniva in occasione del 17 gennaio, non oltre i primi anni del secolo scorso. Carlo Levi fa una descrizione di quan-to aveva visto il giorno di Sant’Anto-nio, a Tricarico, negli anni Cinquanta, in compagnia di Rocco Scotellaro: “Il paese era svegliato, a notte ancora fonda, da un rumore arcaico, di battiti su strumenti cavi di legno, come cam-pane fessurate: un rumore di foresta primitiva, che entrava nelle viscere come un richiamo infinitamente re-

moto; e tutti salivano sul monte uo-mini e animali, fino alla Cappella alta sulla cima”.Ritrovare le origini di questi riti è abbastanza complesso. Lo scritto-re lucano Enzo Contillo a proposi-to dell’apertura dei festeggiamenti segnata dal suono dei campanacci, scrive: “I vecchi tricaricesi ricollegano la cerimonia ai tempi delle congiure politiche fomentate dai borboni con-tro Gioacchino Murat, allorquando gli affiliati, per mascherare le “chiamate” e gli appuntamenti, ricorrevano alla mascherata delle campane per sfug-

130. Agostino Carlomagno con la ciaramella.

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gire alla vigilanza della polizia”. Ernesto De Martino, invece, a proposi-to del menadismo e dei riti orgiastici femminili, scrive che “Anche le Pretidi, al pari di Io, appaiono nell’atto di ‘’fare le vacche” (Proerides implerunt falsis mugisibus agros), e ad Io che è inse-guita dal bovaro dai cento occhi e che arresterà la sua corsa in un paesaggio

arboreo e acquatico dove si compirà in forma simbolica il suo destino di madre, fa riscontro, nel mito argivo, la terapia del mantis Melampo, che con l’aiuto di giovani robusti organizza un inseguimento delle fanciulle (che imitano le giovenche, n.d.r.), median-te gridi rituali e danze di possessio-ne...”. (De Martino, 1961). E pertanto ipotizza per il Carnevale di Tricarico il permanere di memorie ancestrali di origine greca, italico-enotrie e luca-no-sannitiche. Altri studiosi (Biscaglia, Spera) collo-cano il radicarsi di tali usanze nel me-dioevo quando a Tricarico si sarebbe affermata un’economia basata preva-lentemente sull’allevamento e sulla transumanza che avveniva all’inizio della stagione calda, per trovare pa-scoli verdi per il bestiame. All’inizio della stagione fredda si transumava nuovamente verso la pianura più cal-da. Tutto ciò avveniva tramite sentieri detti tratturi: il viaggio durava giorni e si effettuavano soste in luoghi pre-stabiliti, noti come “stazioni di posta”. È stato proprio il permanere delle condizioni di vita economica basate sulla pastorizia e sull’allevamento allo stato brado a consentire che questi “frammenti” di cultura arrivassero fino a noi.

131. Le maschere verso il paese.

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3.4.1 Le maschere

Simbolo del Carnevale di Trica-rico sono le caratteristiche ma-schere della vacca e del toro.

Come già detto, le vacche e i tori sono impersonati da soli uomini (la parte-cipazione è interdetta alle donne). L’intera rappresentazione non è svin-colata dalla realtà contemporanea poiché, sebbene la cultura locale sia meno “rurale” di un tempo, Tricarico è collocata su una via di transumanza e le mandrie ancora oggi l’attraversano con il fragore dei campanacci.Il costume della vacca è costituito da un cappello di paglia a falda larga, abbastanza rigido, coperto da un fou-lard colorato e da un velo bianco che arriva sino al petto, tanto da nascon-dere completamente il viso. Lo scopo

non è quello di non farsi riconosce-re, ma di rappresentare la completa metamorfosi dell’uomo in animale. Il cappello è riccamente decorato con lunghi nastri variamente colora-ti che scendono fino alle caviglie; la calzamaglia indossata (o, in alternati-va, maglia e mutandoni di lana) è di colore bianco o comunque chiaro. In vita tutti hanno annodato un grande scialle di raso, piegato a triangolo e portato come una specie di grembia-le: non mancano nastri o foulard dai colori sgargianti che decorano il col-lo, i fianchi, le braccia e le gambe.La maschera del toro è identica nella composizione, ma si distingue perché completamente nera (calzamaglia, velo, foulard e nastri del cappello) con pochi nastri rossi, per un aspetto an-cor più minaccioso. Tutti calzano sti-vali ed ogni maschera ha un campa-naccio, diverso nella forma e nel suo-no, a seconda che si tratti di mucche o di tori, per far sì che il capomassaro riesca a riconoscerli anche da lonta-no. Esiste il campanaccio “femmina” (quello portato delle vacche) adorno di nastri colorati, il quale ha una for-ma più tondeggiante ed un’apertu-ra circolare, da cui sporge poco un batacchio arrotondato alla punta. Il campanaccio “maschio”, invece, che

132. Costume della mucca.

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viene portato dai tori, ha una forma più allungata e schiacciata ed il suo batacchio, lungo anche dieci, quin-dici centimetri, è stretto e schiacciato come una lingua.I tori sono gli elementi più attivi ed aggressivi del gruppo, compiono im-provvise incursioni in avanti e all’in-terno delle file di mucche, brevi corse e repentini gesti di monta, accentuati dalla frenesia violenta del suono del campanaccio. Il vaccaro di coda e il sottomassaro, muniti di bastone, ten-

tano di ostacolare le sortite dei tori, fingono di inseguirli, sbattono il ba-stone per terra, emettono gridi gut-turali. Il toro, per risposta, finge di caricarli a testa bassa e li provoca con gesti osceni rivolti al vaccaro, ma soprat-tutto alle vacche, che di tanto in tan-to si voltano per non essere colte di sorpresa.Quella del toro è la maschera più im-portante del gruppo, l’unica in grado di contrastare la volontà del capo-massaro. Spesso è il toro che decide il percorso da seguire, sceglie i locali e le case in cui entrare. A questa ma-schera è affidato un ruolo scenico e rituale, di tipo mimico, e chiaramente allusivo; un ruolo di azioni aggressive e di rivolta, di “licenze” sempre tollera-te: azioni e gesta che nel paese sono apertamente rivolte alle ragazze ed alle donne incontrate per strada o fer-me sulla porta o affacciate alle finestre per assistere al rumoroso passaggio del gruppo mascherato, spettatrici quasi sempre ben disposte a ricevere i ragazzi in casa per offrire vino, taralli,

133. Costume del toro.

134. “Incontro” della mucca e del toro.

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salami o pochi spiccioli.La mandria percorre tutte le vie del paese, accentuando il battito dei campanacci nei pressi dei negozi, del-le case, attenuandolo solo quando si è ricevuta l’offerta, la più gradita delle quali resta il salame. In questo contesto culturale l’uccisio-ne del maiale, che avviene proprio in questo periodo dell’anno, acquista un significato simbolico: il maiale, base proteica dell’alimentazione dei centri montani della Basilicata, è la materia-lizzazione del male e delle influenze negative, e le tentazioni della carne.

Il continuo fragore prodotto dai cam-panacci potrebbe essere letto come il mezzo attraverso cui il paese, percor-so in tutte le sue direzioni, si protegge magicamente con gesti e suoni, che lo purificano. Le maschere avrebbero perciò un’ori-gine arcaica e, secondo l’interpreta-zione più diffusa presso il popolo, ri-corderebbero una lontana pestilenza che causò la morte di molti animali con grave danno per la popolazione che, travestendosi proprio da animali e suonando con violenza, intese scon-giurare simili eventi.Nella seconda parte del Carnevale, con una rappresentazione satirica contro il potere scomparsa da anni, avveniva un dialogo tra il massaro e il signore feudale, nella piazza grande, durante il quale l’amministratore del-la masseria offriva il ricavato dell’at-tività condotta durante l’anno e ne rendeva conto. Si tratta, con molta probabilità di una giunta postuma, che troverebbe ri-scontro nella struttura feudale della società dove i ceti subalterni, proprio nell’unica occasione del Carnevale, potevano esprimersi con gesti e ter-mini licenziosi.

135. Dipinto delle maschere in “bian-co e nero” di Tricarico.

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Lasciata la Basilicata e le carat-teristiche maschere di Tricarico, viaggiamo a sud per circa 200

chilometri sino ad oltrepassare il con-fine lucano per raggiungere la Conca del Re. È una piana alluvionale forma-tasi ai piedi del versante meridionale del massiccio del Pollino. Proprio in questo avvallamento naturale, a circa 360 metri d’altitudine s.l.m., ritrovia-mo Castrovillari (provincia di Caserta), circondata dagli Appennini calabresi, e centro più grande del Parco Nazio-nale del Pollino.La cittadina fu fondata dagli Arago-nesi, a cui si deve lo splendido Castel-lo. È divisa in due parti separate dal celebre Ponte della Catena; la parte vecchia, detta Civita, è edificata su uno sperone calcareo; la parte nuova, detta “Casale”, molto più estesa della precedente, si sviluppa su un decli-vio.In questa cittadina si tiene il carnevale più famoso della Calabria, inizialmen-te definito “Il carnevale del Pollino”, poi di Castrovillari; in tempi antichi era la festa che consacrava l’ugua-glianza, il superamento delle diffe-renze sociali, economiche e familiari: il povero diventava ricco, il contadino nobile, gli uomini si travestivano da donne, i giovani da vecchi; il mag-

giore divertimento stava proprio nel ribaltare i ruoli. Il Carnevale di Castrovillari è nato uf-ficialmente nel 1959, sebbene le sue radici sembrerebbero risalire al lonta-no 1635: secondo lo studioso di teatro dialettale calabrese, Giulio Palange, in quell’anno, proprio a Carnevale, la Commedia dell’Arte approda anche a Castrovillari con il primo testo tea-trale. Fu messa in scena la farsa dialet-tale di Cesare Quintana “Organtino”, che da allora divenne una maschera. Organtino è un semplice pastore che, baciato dalla fortuna, diventa massa-

3.5 Castrovillari: maschere, folklore ed eventi

136. Veduta panoramica del paese di Castrovillari (Cs).

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ro e poi padrone. Pian piano sopra-vanzano in lui atteggiamenti boriosi tanto da fargli dimenticare le sue ori-gini. I suoi ex compagni, pastori misera-bili ed oppressi, vengono sfruttati. Organtino teme le rivalse degli sfrut-tati, soffre al pensiero di poter essere derubato nella conta giornaliera del-le pecore, degli agnelli, delle ricotte, dei formaggi. Dall’altra parte, i sotto-messi, i pastori che, probabilmente, ridotti allo stremo ed alla fame dalla avida e persecutoria occhiuta vigi-lanza dell’intransigente sfruttatore, qualche cosa hanno da nascondere. E con furbizia inventano eventi per giustificare gli ammanchi: un assalto di lupi, una tempesta ecc. Alla fine, il tentativo di liberarsi di Organtino, con un agguato fallito, e poi, l’esito furbesco per aggirare la sua vendet-ta. Si tenta di convincerlo a sposarsi; l’idea lo sollecita, il tranello funziona, i servi stanno per realizzare un disegno machiavellico nel proporgli uno spo-salizio con una novantenne truccata e imbacuccata. La farsa non ha un preciso epilogo per l’incompletezza del manoscritto. Ma non importa: i ritmi di una pia-cevolissima narrazione, moderna nell’impianto e nella trama, ci sono

tutti. Questo è Organtino, maschera calabrese nata a Castrovillari nel 1635, in un mondo tutt’altro che idilliaco e pastorale; un mondo di tensioni so-ciali, di ascese e di vendette, di diffi-denze e di inganni, di brutale gioco con la vita per un pezzo di formaggio e per un agnello mancante.L’opera di Quintana, però, non è unica nel suo genere; infatti, ritroviamo lo spirito carnevalesco anche in un’altra commedia intitolata Lo sfratto e testa-mento di Carnevale, di Don Orazio Pu-gliese (1696).Nel 1959 il prof. V. Vigiano ebbe l’in-tuizione di organizzare a Castrovillari un Carnevale che superasse la fase dello spontaneismo per diventare il “Carnevale calabrese per eccellenza”, capace di imporsi sempre più anche all’attenzione nazionale. Sin dalla prima edizione, il Carnevale nella città del Pollino si è caratterizza-to per il contemporaneo svolgimento del Festival Internazionale del Folklo-re. L’intreccio maschera-folklore, con la conseguente valorizzazione delle antiche usanze calabresi e la creazio-ne di una sinergia con popoli dalle culture differenti, in realtà proviene da lontano. Castrovillari, infatti, dedi-ca da sempre particolare attenzione alle tradizioni popolari e svolge un

137. Organtino rappresentato da un maestro cartapestaio.

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ruolo-guida nella storia folklorica me-ridionale, tanto da essere stata defi-nita a pieno titolo “Città del Folklore”. A conferma di ciò, basti pensare che il gruppo folkloristico nato in seno alla Pro loco del Pollino, vincitore di importanti premi internazionali, con i suoi ottanta anni di vita alle spalle, è il più longevo della Calabria e ha con-tribuito non poco al rafforzamento della manifestazione, inserita nell’as-sociazione “Carneval Forum”, che rac-coglie i primi venti Carnevali d’Italia.Il Carnevale di Castrovillari, dunque, è unico nel suo genere; connotato da una fortissima partecipazione popo-lare, ha il suo tratto caratteristico e il suo punto di forza nella capacità di coniugare la varietà e la pregevole manifattura delle maschere, la satira e la mordace allegria con il folklore internazionale e il suo vivace calei-doscopio di costumi, musiche, canti e danze.Nel 1959, dopo l’affissione dei mani-festi-programma del Carnevale, ci fu una grande risposta da parte di im-portanti artisti locali. Ci riferiamo a Riccardo Del Bo e Riccardo Turrà: le migliori realizzazioni allegoriche sono venute fuori proprio quando i due ar-tisti hanno collaborato insieme. Altra figura castrovillarese importante è

quella di Luigi Manco: non appena si trasferisce in questo paese, partecipa come organizzatore e progettista a diverse edizioni della festa. Nel 1991 rielabora la figura di Organtino.Nel 1965 (siamo alla settima edizio-ne), il Carnevale del Pollino si avvia a divenire una manifestazione di im-portanza e di risonanza notevoli. Lo attestano le cronache dei giornali e della R.A.I. TV, che trasmise alcune scene della sfilata del martedì pome-riggio, registrando i commenti entu-siastici dei forestieri.A farla da padrone, nell’edizione del 1972, è il gruppo congolese di Braz-zaville. Il Festival Internazionale del Folklore varca così i confini dell’Eu-ropa per spostarsi nel cuore dell’Afri-

138. Prime sfilate del carnevale di Castrovillari (Cs).

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ca. I congolesi, nei loro tradizionali costumi, al ritmo ossessionante del tam tam, eseguono danze selvagge e primitive che ricordano il rituale della circoncisione, il coro dei pescatori, la danza dei piaceri e la danza dei guer-rieri.Il 1983 segna, invece, le nozze d’ar-gento per il Carnevale del Pollino e per il Festival Internazionale del Folklore. La Pro Loco, presieduta dal dr. Vittorio Minasi, che organizza la manifesta-zione con il patrocinio della Regione Calabria, dell’E.P.T. di Cosenza e della locale amministrazione comunale, in occasione della 25a edizione, prepara un programma con manifestazioni che durano 10 giorni con gruppi, carri e maschere ed altre iniziative collate-rali nei comuni viciniori.Nel 1990, la manifestazione cambia

formula. Rimangono i carri allegori-ci, ma al posto dei gruppi folkloristi-ci, italiani e stranieri, si promuove un concorso per gruppi mascherati. Una innovazione apprezzata dalla città e dai visitatori. Tredici gruppi masche-rati, composti ciascuno da decine di persone, sfilano in variopinti e fanta-siosi costumi, mentre centinaia di al-tre maschere spontanee scorazzano allegramente per le vie della città.Nell’anno 1997 il grande afflusso di visitatori non viene compensato da uno spettacolo all’insegna delle mi-gliori tradizioni. La mancanza di carri allegorici si fa sentire: i gruppi spon-tanei, tranne un paio, non creano, nel complesso, una scenografia adegua-ta. Lo si considera un Carnevale di transizione verso il 40°.Passano gli anni, la manifestazione invecchia, non mostra però una sola ruga. Per le strade cittadine imper-versa l’euforia: tanta gente ad ammi-rare non solo i gruppi organizzati e partecipanti al concorso indetto dalla Pro Loco, ma anche quelli spontanei e le tante maschere che colorano le splendide giornate.Arriviamo al 2006. L’inizio della 48ª edizione avviene, come nelle migliori tradizioni, con un brindisi, a cura de “I Vignaioli del Pollino”: si alzano i ca-

139. Ballerini del Gruppo Pro Loco di Castrovillari (Cs).

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lici per Re Carnevale a Villa Bonifati, settecentesca dimora nobiliare del-le Vigne. L’appuntamento, atteso da tutti, è la sfilata mattutina che apre ufficialmente l’edizione, salutata da circa 10.000 persone. Lungo il percor-so si possono ammirare le maschere (più di 500 figuranti) ed i carri iscritti al concorso.Nel 2008, Castrovillari ha festeggiato la sua 50ª edizione; in dieci giorni di festa si sono tenute quattro sfilate in cui gente del luogo e numerosis-simi turisti hanno potuto ammirare gli oltre venti gruppi mascherati e i carri allegorici iscritti al concorso or-ganizzato dalla Pro Loco, ma anche numerosi gruppi spontanei (fuori concorso). Non poteva mancare il Festival Internazionale del Folklore, riproposto nella sua formula tradizio-nale, con gruppi provenienti da ogni

parte del mondo, in onore del fonda-tore dell’evento, il Prof. Vigiano (cui è stata dedicata l’edizione).Il richiamo di questo Carnevale è ve-ramente forte: entusiasmo e allegria si respirano nell’aria lungo le vie cit-tadine, canti caratteristici a ritmo di tamburello sono eseguiti dinanzi agli usci delle case, la gente si veste con “pacchiane” e “cuzzi”. Per molti mesi, prima della manifesta-zione, le case si trasformano in sarto-rie, per dar vita ai vestiti più fantasiosi e più allegri, da mostrare al pubblico e alla Giuria. Tutto è un richiamo alle origini, a quella civiltà contadina e popolare che ha ispirato la farsa dia-lettale che ha per protagonista Or-gantino.Dopo la “prima uscita”, in program-ma la mattina della domenica ante-cedente il Giovedì grasso, grandi e piccini si mascherano nuovamente nel tardo pomeriggio del Giovedì, per partecipare al suggestivo corteo storico che si conclude con la teatrale diatriba tra Re Carnevale e Quaresima e con il tradizionale rito dell’incorona-zione, accompagnato dalla consegna simbolica delle chiavi della città, da parte del sindaco. Le ultime sfilate si tengono lungo le vie cittadine l’ulti-ma domenica e il martedì grasso.

140. Gruppo della Transilvania pre-sente al Carnevale di Castrovillari (Cs), anno 2009.

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3.5.1 Voci del passato

Dalle testimonianze raccolte in questi anni da anziani, pro-tagonisti del Carnevale degli

anni Trenta e Quaranta a Castrovillari, apprendiamo che alcuni rituali ecces-sivamente licenziosi furono aboliti. Comitive di giovani mascherati, per lo più incappucciati con lenzuola, con in testa corna di bue, giravano per i rioni del paese, facendo baldoria al suono dell’organetto. In mano bran-divano forconi con cui infilzavano i salumi appesi ai graticci nelle case degli amici presso cui si recavano per portare la serenata, con un motivo del genere: “Scinni cumpàru e scinni a sa-vuzìzza/Ca sumu quattr’amici e non vulìmu nenti./Scinni cumparu e scin-ni avaramente/Ca sumu quattr’amici e non vulimu nenti”.Col tempo, però, il rituale degenerò in violenza: i forconi venivano utilizzati contro persone per atti di violenza e per vendetta. E così “La Pro Loco ha disciplinato e corretto il Carnevale tradizionale, eliminando tutte quelle forme scorrette che abbassavano il tono della manifestazione popolare” – ci tiene a ribadire Aldo Schettini che del Carnevale castrovillarese è stato un validissimo organizzatore. Ma fino alla fine degli anni Cinquanta, il ritua-le si ripeteva annualmente con le ca-

ratteristiche della farsa spontanea, tra l’esultanza della folla.Il martedì grasso per le vie principali del paese si snodava il corteo funebre di Re Carnevale. Su un carretto era di-steso il moribondo; a fianco stava la moglie (Quaresima) vestita di nero, che lanciava imprecazioni e grida di dolore. Precedeva il carro un uomo mascherato da prete che, intingendo un pennello in un barattolo colmo d’acqua, dava la benedizione alla fol-la. Il Carnevale, cui si attribuivano tutti i mali della comunità, doveva essere processato e condannato a morte. Allora faceva testamento, prima di es-sere ucciso: un antichissimo rito che ricorda il testamentum asini in cui un “asino morente” detta le sue ultime volontà, lasciando i suoi beni a tutti quelli che assistono alla rappresenta-zione.Una farsa di cui ancora oggi rimane il ricordo è quella rappresentata alla fine degli anni Quaranta. Ciccillo ‘u crujjanìso, un uomo alto e robusto, travestito da donna, con al collo una collana di peperoni secchi e accom-pagnato da Micuzzo Chiarelli, che faceva la parte del marito, portava a passeggio nella carrozzina il “bam-bino”, impersonato da Biasìno ‘u mu-

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ranìso, un ometto di bassa statura che gli arrivava appena alla cintola. Il bambino, con la cuffietta in testa ed il ciuccio in bocca, se ne stava così ran-nicchiato; ogni tanto frignava e dime-nava le “gambe pelose” tra l’ilarità del pubblico. Il Carnevale del Pollino ed il Festival Internazionale del Folklore hanno portato Castrovillari nel mondo. E gran parte del merito va al gruppo Folk della Pro Loco (denominato ini-zialmente Gruppo di Canterini), co-stituito da Aldo Schettini nel 1929. “Originariamente fecero parte del gruppo poche ragazze, appartenenti alle migliori famiglie di Castrovillari, e ciò era dovuto al fatto che, negli anni Trenta non tutte le donne riuscivano a liberarsi da taluni tabù del passato

sì che, recitare o ballare in pubblico, costituiva motivo di scandalo e quin-di non adatto alle ragazze per bene. Le prime famiglie che reagirono a questa stupida formazione di pen-siero, incontrarono, certo, ostacoli e critiche, ma finirono poi per vincere ogni contrasto”(Schettini, 1996).In seguito il gruppo fu denominato Gruppo folkloristico del Pollino ed alla fine degli anni Settanta dalla sua scissione nacque il gruppo Città di Castrovillari e il gruppo Pro Loco del Pollino. In settant’anni di attività ha partecipato ad importanti manife-stazioni nazionali ed internazionali, portando per il mondo il prezioso co-stume da pacchiàna, i canti e le danze popolari.Ancora oggi è intatta nei castrovillare-si la voglia di far festa, accompagnan-do le danze e i canti con qualche fetta di savuzizza (il tipico insaccato della zona) e con un robusto bicchiere di vino, gustati in onore del “re burlone”.

141. Gruppo di Canterini, ora Gruppo Folk della Pro Loco di Castrovillari (Cs).

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Lasciamo la vetta del Pollino alle nostre spalle per andare incon-tro ad un’altra imponente vetta

che può essere considerata la conti-nuazione della catena appenninica al di là del breve tratto di mare dello Stretto di Messina: parliamo dell’Etna, o meglio a’ Muntagna. Ai suoi piedi, ad un’altezza di circa 210m s.l.m. tro-viamo la città di Misterbianco (pro-vincia di Catania): il toponimo deriva da un monastero dalle mura bian-che, Munasterium Album, che venne distrutto, assieme all’antico borgo, dall’eruzione del 1669. Il paese, infat-ti, inizialmente sorgeva su una vetta alle pendici dell’Etna; dopo l’eruzione è stato ricostruito più a valle.Esempio unico nel suo genere per estro, fantasia e creatività, il Carnevale di Misterbianco ha vissuto un lungo e laborioso tragitto prima di approdare ai “Costumi più belli di Sicilia”. Nasce negli anni Quaranta da un’an-tica tradizione legata alla “Maschera” (‘a Mascara), una sorta di commedia dell’arte alla siciliana, che impegnava improvvisate compagnie locali in re-cite di vere e proprie “farse”. ‘A Masca-ra veniva rappresentata nei quartieri più antichi della città e sin dal suo debutto (la domenica di carnevale) era accolta da migliaia di paesani che,

dopo il tradizionale pranzo a base di maccaruni a setti puttusa - macche-roni con sette buchi –, sugo di carne e cutini di maiale, con scarpetta con pane fatto in casa e qualche nodo di salsiccia arrostita “ ‘ndo cufuni”, si river-savano nelle strade per non perdere il tanto atteso spettacolo. Erano gli anni del dopoguerra e la gente sentiva for-te il bisogno di vivere, di divertirsi, di incontrarsi e di conoscersi. I bambini si divertivano in strada a fare ‘a callà: dopo aver colorato con i gessetti un pezzetto di stoffa circola-re, tenuta in mano per mezzo di uno spago, lo appoggiavano furtivamen-te sulle spalle dei passanti sporcando loro gli abiti. Gli adulti, invece, preferivano diver-tirsi tra musiche e danze: nascono in questo particolare periodo I tambu-reddi, locali da ballo realizzati all’inter-no delle povere case di allora messe a disposizione dai proprietari i quali

3.6 misterbianco e il suo Carnevale dai mille costumi

142. Veduta panoramica di Mister-bianco (Ct).

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sgombravano le stanze dai mobili e accoglievano giovani e meno giovani, rigorosamente mascherati, che balla-vano al suono di un grammofono. Girando un po’ per le strade, si poteva notare sul tetto di molte case, sedu-to su una vecchia sedia, a personifi-care il Carnevale, un pupazzo vestito da uomo con al collo una collana di salsiccia, che stava lì fino alla mezza-notte del martedì, quando veniva poi bruciato.

Negli anni Cinquanta I tambureddi sono stati soppiantati da I fistini o ve-glioni. Sono sale da ballo, approntate per l’occasione in tutti i quartieri del paese, addobbate con festoni, stelle filanti e mascherine di carta, dove, al suono di un’orchestrina, l’uomo in-vitava la dama a danzare. Al termine del ballo, poi, per ringraziare dell’ono-re concessogli, l’uomo portava la sua dama al buffet per offrirle un cioc-colatino o magari per farle qualche dichiarazione d’amore. Infine, nella parte più importante della serata, gli organizzatori facevano il “gettito delle camelie”: il pubblico presente veniva inondato da centinaia di camelie tra gli applausi dei presenti. Arriviamo così agli anni Sessanta e Settanta, quando il ballo che si tene-va nei veglioni veniva preceduto dal “ballo in piazza”. La “Piazza” per un bel po’ di anni sarà protagonista assoluta del carnevale, un palcoscenico senza confini pronto ad accogliere mister-bianchesi e forestieri. Addirittura, in quegli anni, il Comune, già un mese prima dei giorni canonici del Carne-vale, metteva a disposizione della “Piazza” grandi e potenti altoparlanti. Ogni sera, i giovanotti del paese, come esposti in vetrina, aspettava-no che le ragazze, chiuse dentro un

143. Istantanea scattata in uno dei fistini.

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dominò di raso nero, con cappuccio, maschera e veletta, venissero ad in-vitarli a ballare. Indossando questo tipico costume che le rendeva asso-lutamente irriconoscibili, in questo “speciale” periodo dell’anno le donne potevano condurre il gioco e prende-re qualunque iniziativa. Di solito “le babbalute” (così venivano chiamate queste donne incappucciate) sfrut-tavano questa occasione per meglio conoscere qualche uomo, per met-tere in gioco tutta l’arte seduttiva di cui erano capaci, per liberarsi da ogni forma di inibizione, per rivendicare la loro libertà spesso mortificata.In quel “carnevale d’altri tempi” si aspettava il giovedì delle comari (il giovedì antecedente a quello gras-so), quando “le donne” andavano in giro a farsi visita, per spettegolare e mangiare assieme, ma soprattutto per progettare nuovi amori, per con-solidare vecchie amicizie e crearne di nuove. Un fascino particolare assumeva il martedì grasso, quando i paesani che avevano innato il senso dell’allegria e dell’improvvisazione si scatenavano nella cuppiata di l’ova – lancio delle uova marce -, oppure di altro materia-le imbrattante, cannoli e panzerotti. Una vera battaglia che iniziava nelle

prime ore pomeridiane del martedì grasso e si concludeva all’imbrunire, mietendo vittime soprattutto fra gli ignari forestieri e imbrattando i muri delle case. Alla fine degli anni Settanta compar-ve qualche sporadico gruppo che co-minciò a organizzare meglio le “ma-schere spontanee” e a farle girare per le strade del centro storico, soprattut-to in Via Garibaldi, percorsa a salire e a scendere. Si lasciò ben presto il pas-so alle sambe e alle prime donne che con coraggio soppiantavano i vecchi travestimenti. Nascevano i primi ru-

144. Il Dominò.

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dimentali carri e i prototipi dei primi costumi. Gli anni Ottanta segnarono la svolta storica: sfavillanti e fantasiosi costumi rimpiazzarono, in maniera quasi in-dolore, le recite della mascara, i “festi-ni” e pian piano le serate in dominò. Il 1981 si può identificare come l’anno zero dell’odierno carnevale mister-bianchese e da allora le mura cariche di fascino del centro storico del paese hanno fatto da cornice a carovane di sfilate di carri e costumi.Dopo un breve periodo di oblio (1990-1993), rispettoso silenzio derivato dai tragici fatti della Guerra nel Golfo, nel 1994 l’Amministrazione Comunale

con un apposito regolamento permi-se ai gruppi spontanei di costituirsi in associazioni culturali ed usufruire di un contributo. Nel 1997 arrivò il riconoscimento uffi-ciale della Provincia di Catania e qual-che anno dopo la Regione Siciliana iscrisse il Carnevale di Misterbianco tra le manifestazioni di particolare in-teresse turistico regionale ed assegnò a questo evento un cospicuo contri-buto. Dal 2000 si è aggiunto alle sfilate un altro momento di particolare spetta-colarità, la sera dedicata al “defilèe”: un tappeto rosso lungo circa 400m è la passerella dove vanno in scena i

145. Costume anno 2007.

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“Costumi più belli di Sicilia”. Una se-rata dedicata all’attenta visione di un centinaio di vestiti, considerati dalle stesse associazioni i migliori per creatività, qualità e tecniche di realizzazione. Sfilano da piazza della Repubblica fino a via Gramsci, attra-versando le vie del centro storico, al riparo da coriandoli e stelle filanti, in una atmosfera di magica festosità; i tantissimi spettatori sono allietati da un continuo brulicare di colori e mu-siche, mentre sul palco non mancano ospiti d’eccezione provenienti dal mondo dello spettacolo e della tele-

visione che danno maggiore spesso-re alla serata. L’appuntamento con il “defilèe” nel 2004 si trasforma in un momento di cultura internazionale con l’assegna-zione del premio “Turismo & carne-vale” a personalità, che, a vario titolo, lavorano per rendere la festa un “vei-colo trainante di cultura, economia e turismo”. L’ambito premio è stato conferito negli anni al Ministro della cultura di Malta, al Governatore della Tunisia, al Ministro per il turismo del Montenegro ed al Presidente della F.E.C. (Federazione Europea del Car-nevale).Sempre il 2004 è un anno importante per il carnevale di Misterbianco che sfrutta le prime occasioni di scambio e di confronto con altre realtà carna-scialesche. I costumi misterbianchesi sono stati ospiti ad Ancona, Venezia, Roma, Taranto e Malta. Il carnevale di-venta così ambasciatore della terra di Sicilia e motore di sviluppo turistico, una vera e propria occasione di svilup-po dell’isola, un segno tangibile della crescita culturale di una città che non manca di stupire con un evento unico nel suo genere.

146. Appuntamento col defilèe a Mi-sterbianco (Ct).

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3.7 Villa Literno: Il Carnevale dei rioni

Dopo la scorpacciata di colori fatta tra i costumi più belli di Sicilia, ripercorriamo la strada

del ritorno, salendo nuovamente lo Stivale per raggiungere questa volta il confine campano. Lo oltrepassiamo per arrivare alla nostra meta, Villa Li-terno. Antica colonia romana Liternum, dove viveva Cornelio Scipione l’Afri-cano, questa cittadina assunse ri-levanza con l’apertura della Strada Domiziana. Numerosi e significativi reperti archeologici ne testimonia-no l’importanza sino al medioevo. La sua popolazione, una volta, traeva il sostentamento dall’agricoltura, men-tre oggi principalmente dal terziario, dall’industria e dal settore edilizio. Rimane, comunque, rinomata nella Regione Campania per la produzione di un pomodoro, che contiene una quantità maggiore, rispetto a quelli di altre zone, di zuccheri, tanto da esse-re utilizzato da industrie conserviere del Nocerino-Sarnese e richiesto da noti e grandi stabilimenti di prodotti alimentari.Villa Literno ha un carnevale che af-fonda le radici in epoca pre-romana, quando già gli Oschi, abitanti della “Terra Leboria”, festeggiavano i Satur-nali con manifestazioni molto simili

a quelle che vengono organizzate tutt’oggi.In passato, il primitivo villaggio liter-nese si trovava nel cuore di una gran-de foresta paludosa, estesa da Cuma fino ad Atella (Silva Gallinara) dove, durante le feste rurali, si improvvisa-vano anche farse o scenette comico-satiriche (fabulae atellane) dove vari attori mascherati interpretavano i di-versi ceti sociali e personaggi popola-ri, mettendone in risalto i loro difetti. Il Gallo, simbolo di fierezza e resurre-zione, era il personaggio o maschera locale ed era chiamato KiKirro. Il suo nome deriverebbe appunto da un’an-tica voce onomatopeica osca che in-dicherebbe proprio il “chicchirichì” del gallo, ma si riferisce nello specifico agli schiavi di Liternum che, per sfug-gire al supplizio nel circo di Capua, si rifugiarono nella Silva Gallinaria (tan-to decantata da Plinio, Stazio e Stra-bone) e seppero rinascere dando vita al Vicus Fenicolense, conosciuta dopo come “Terra Leboria”, attuale Villa Li-terno. Proprio in base a queste radici storiche, il presidente della Provincia Riccardo Ventre ha definito quello di Villa Literno il “Carnevale di Terra di Lavoro”.Queste tradizioni sono riuscite a so-pravvivere attraverso il medioevo

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e si sono conservate fino agli anni Cinquanta. In quel tempo sfilavano per le strade del paese asini abbelliti da “copertini di seta di S. Leucio” con cavalieri vestiti di antiche armature luccicanti. Dopo il corteo degli asini, sfilavano, con incedere regale, altri personaggi a cavallo, ciascuno mo-strando le varietà del raccolto, sim-boli allegorici dei vari mesi dell’anno; si faceva riferimento ai cicli della ter-ra, del sole e della luna e non manca-vano allusioni e vezzeggi recitati con l’accompagnamento di rudimentali strumenti musicali. La folla che si as-siepava lungo il percorso offriva dol-ci e focacce e appiccicava u’ncienzo, cioè bruciava incenso in segno propi-ziatorio. Quando il corteo si fermava nei punti principali del paese, la folla

offriva polpette di pane e fichi ai ca-valieri, lanciando petali, foglie smi-nuzzate e cartine colorate tagliate in pezzetti (erano gli antichi coriandoli). Nei cortili delle case, si costruiva un grande pupazzo con abito cerimonia-le su un trono. Alla fine della festa, si metteva il fantoccio su un letto fune-bre simulando con straziante dispe-razione il funerale dell’anno vecchio che muore. Nel periodo della seconda Guerra Mondiale queste usanze scomparve-ro per essere riprese nel 1946. A par-tire dagli anni Sessanta, fino al 1984, l’entusiasmo e la passione per la festa si persero e il Carnevale si affidò solo all’improvvisazione dei ragazzi: nel 1984 un gruppo di giovani volontari del rione Baracca, riprendendo l’anti-ca tradizione, fece sfilare un carro al-legorico riscuotendo ampi consensi. E l’anno seguente furono introdotti suggestive coreografie e balli di grup-po. Dal 1985 l’organizzazione è andata sempre più perfezionandosi fino a di-ventare una istituzione vera e propria, tanto che l’affluenza turistica che si ha in quei giorni trasforma il paese in una città multietnica.Come da tradizione, una settimana prima delle sfilate, si tiene la manife-

147. Gruppo mascherato del Carne-vale di Villa Literno (Ce).

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stazione d’apertura. Le sfilate dei carri, poi, iniziano il giovedì e il venerdì con gli spettacoli delle scuole elementari e poi proseguono il sabato e la dome-nica, quando entrano in scena i rioni per aggiudicarsi il titolo messo in pa-lio. La serata finale e la premiazione si tengono, come da tradizione, il mar-tedì grasso. La domenica prima del Carnevale, in piazza il Sindaco riceve i Gonfaloni delle contrade che intendono parte-cipare. Ogni caporione, scortato dal corteo rionale, dopo aver percorso le strade cittadine, arriva in piazza. Il rione detentore del titolo consegna a Re Carnevale il quadro con lo stemma del Comune, che viene messo in pa-lio, e presenta insieme agli altri rioni il carro allegorico, spiegandone il titolo e le simbologie principali ed illustran-do il significato di ciascuno dei corpi di ballo. Così il Sindaco dà il via ai fe-steggiamenti. I carri che si realizzano sono quelli dei Rioni Baracca, Via Roma, Castel-lo, Ferrovia, Pagliarelle, Via Aversa; si è aggiunto da poco anche il Rione Madonna del Loreto (nei primi anni concorrevano altri due carri apparte-nenti al Rione S. Sossio e Via San Tam-maro).Ogni carro ha un corteo che conta mi-

gliaia di figuranti sulla base di diver-se discipline artistiche: si inizia con i bambini di età prescolare e termina con gli adulti divisi in sezioni, che, pur indossando diversi costumi, trattano tutti lo stesso tema.Oltre ai carri allegorici di ottima fat-tura, vengono presentati al pubblico presente, da parte dei figuranti del corteo, brani musicali e costumi tipi-ci, suggestive coreografie di gruppo, scenette comico-satiriche ispirate al recupero di tradizioni medioevali, sempre sull’impronta delle antiche fa-bulae atellane: si tratta di veri e propri spettacoli itineranti, molto particolari e unici, lungo le strade del paese. La preparazione degli spettacoli im-pegna centinaia di giovani per ben due mesi. Fin dall’autunno, dopo aver individuato il tema, in ogni rione c’è il lavoro preparatorio: scelta delle mu-siche, disegni dei vestiti, preparazio-ne dei bozzetti dei carri. Questa fervente attività rappresenta una vera e propria scuola artistica “sul campo”: i giovani vengono spronati a manifestare le loro attitudini espressi-ve nel campo del disegno, della reci-tazione, del ballo e, più in generale, la loro creatività.Nel 2001 si è avuta la presenza del Dottor Francesco De Carlo, allora Pre-

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sidente nazionale della F.I.C. (Federa-zione Italiana Carnevali), già Consi-gliere europeo della F.E.C. (Federazio-ne Europea del Carnevale) e Provve-ditore dell’Ente Nazionale Assistenza “Misericordia”. Una persona che ha lasciato un segno nella storia del Car-nevale di Villa Literno, che con i suoi consigli e la sua squisita disponibilità ha fatto nascere negli animi dei liter-nesi il desiderio irrefrenabile di fare sempre meglio e di fare in modo che negli anni a venire questa manifesta-zione non venisse abbandonata a se stessa. Inoltre, ha gemellato i migliori cartapestai d’Italia con i costruttori dei carri liternesi organizzando visite significative e frequenti sui luoghi di lavoro. Da questo sodalizio si evince il grande impegno della Pro-Loco sul piano sociale, turistico e culturale che con tali riconoscimenti ha portato l’immagine del Comune alla ribalta nazionale.Ormai il carnevale di Villa Literno scon-fina dalla sua regione: il suo gruppo folkloristico, infatti, riscuote ammi-razione e apprezzamenti in tutt’Ita-lia. I costumi, tutti rigorosamente originali e creati dagli stessi ragazzi,

richiamano la tradizione, la cultura e la gastronomia napoletana. Davanti a tutti, Pulcinella balla con i personaggi del Carnevale di Villa Literno, Villina e Pantanello (maschere che richia-mano le radici storiche del paese), che insieme alla maschera ufficiale di Pummarustiello, portano il carnevale campano in giro per l’Italia.Villina rappresenta la semplicità e la spontaneità della ragazza di cam-pagna: il vestito è ricco di merletti e accessori vari, molto colorato, con il bianco che predomina (segno di aspi-razione al matrimonio). Al collo porta una maschera di quelle veneziane: per Villina non è altro che un sempli-ce accessorio, perché la presunzione suggerisce che il suo volto è già per-fetto e basta solo questo per essere ammirata. Pantanello, invece, rappresenta il pe-

150 - 151. Carri allegorici del Carne-vale di Villa Literno (Ce).

148. Particolare di un carro allegorico del Carnevale di Villa Literno (Ce).149. Villina e Pantanello, maschere ufficiali del carnevale di Villa Literno (Ce).

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scatore della palude, povero ma ge-neroso e pieno di speranza. Gli abiti presentano gli orli sfrangiati, segno di usura, ma sono gli unici che possiede e allora si presenta dalla sua amata con qualche accessorio che lo abbel-lisce: fiocchi, campanellini, nastri e bottoni ed un cappello ornato di un ciuffo fatto con fili di canapa. Queste due maschere con caratteri di iden-tità popolare, improntati alla forza espressiva dei costumi, rendono più tangibile quella che è la realtà stori-ca, rurale e culturale del territorio. Per questo motivo sono state affiancate a Pummarustiello il quale, comunque, conserva il significato di maschera logo del Carnevale. Con la sua im-magine, infatti, mette insieme quelle che sono le peculiarità di Villa Literno: corporatura a forma di castello (un tempo esistente e tutt’oggi ridotto a rudere) con il disegno sul “ventre” di tre dune con tre pini (rappresenta-no lo stemma del paese) e la testa a forma di pomodoro (prodotto tipico dalle qualità speciali tanto da essere esportato). Alle mani Pummarustiello ha dei guantoni e ai piedi scarponi da lavoro, il tutto a rappresentare l’iden-tità rurale del paese: il nome insolito non è altro che la fusione delle due parole pomodoro e castello.

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Situata a nord della regione Abruzzo, vicino al confine con le Marche, troviamo Alba Adria-

tica, la località balneare più rinomata del litorale teramano-abruzzese con le sue argentee spiagge e il suo mare cristallino.La più celebre manifestazione di Alba è il carnevale estivo, che si svolge ogni anno dal 1993. Sicuramente è uno dei carnevali più giovani d’Italia, ma di certo il primo carnevale della costa adriatica e dell’Italia centrale a svolgersi in pieno solleone. La sua na-scita si deve grazie alla passione di un gruppo di persone che, appunto, nel 1993, facevano parte dell’Associazio-ne “PromoAlba”. L’intento era quello di caratterizzare, con una manifesta-zione specifica, l’estate albense. Già dalla sua prima edizione ha riscosso un grande successo e un’enorme par-tecipazione sia fra le persone del luo-go sia fra i turisti che frequentano la riviera adriatica.Nella prima manifestazione del 1993 furono previsti due cortei maschera-ti: uno a luglio ed uno ad agosto. È stato così anche per la seconda edi-zione del 1994 che ha fortemente in-crementato la presenza di spettatori lungo tutto il percorso: un “serpente umano” di circa tre chilometri si sno-

dava sul Lungomare Marconi. Dal 1995 al 1999, con il rinnovo delle cariche ai vertici dell’Amministrazio-ne Comunale, non si sono tenute ma-nifestazioni, ma nel 2000 il Carnevale estivo è stato riproposto in una forma ancora più arricchita proprio nella prima decade di agosto.La festa, ricca di suoni e colori, oltre all’allegria dei carri allegorici e dei gruppi mascherati, sia locali che pro-venienti dai paesi viciniori (Martin-sicuro e Sant’Egidio), è allietata da gruppi di percussionisti e ballerine brasiliane, da una “madrina del Car-nevale”, scelta fra i personaggi più in voga del momento e dalla Banda “La Racchia” di Sarnano (MC), costituita da un gruppo di gente spensierata e scanzonata (40-45 elementi) che per la maggior parte ignora il più semplice rudimento di musica. For-

3.8 Alba Adriatica: Re Carnevale in pieno Solleone

152. Veduta panoramica di Alba Adriatica (Te).153. Particolare di un carro allegorico durante la sfilata estiva di Alba Adria-tica (Te).

154. Fuochi d’artificio al Carnevale estivo di Alba Adriatica (Te).

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niti di occasionali strumenti ricavati da vecchi arnesi e pentole, riescono ad emettere suoni molto gradevoli e perfettamente modulati e con la loro travolgente simpatia coinvolgono e divertono il pubblico. Il nome deriva proprio dal modo in cui sono stati “co-struiti” gli strumenti, così brutti, ma stranamente armonici. Molte edizioni sono state arricchite da uno spettacolo pirotecnico, in più punti della spiaggia, in apertura e in chiusura della sfilata.Durante gli anni ci sono state diverse forme di collaborazione con i Carne-vali di Cento, lombardo-cremasco, di Putignano, Crispiano e Villa Literno.Il carnevale di Alba Adriatica non ha una maschera ufficiale e sia il logo sia il nome sono cambiati, a seconda del-le diverse associazioni che hanno ge-stito la manifestazione (CarnavalAlba, Carnevale del mare, AlbaCarnaval per le ultime edizioni a cura dell’associa-zione “ALBAMICI”).

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CARNEVALE E DINToRNI4Grazie al forte appeal turistico,

in diverse zone d’Italia, il Car-nevale rappresenta un vero e

proprio volàno dell’economia. Spesso si tratta di forme di turismo culturale, responsabile e sostenibile, che innescano sul territorio dei circo-li virtuosi nei quali, pur aumentando le entrate e i livelli di produzione di diversi settori economici (artigiana-to, enogastronomia, abbigliamento,

ecc.), la domanda “impone” a questi di mantenere, anzi valorizzare, le tra-dizioni locali.Inoltre puntare su beni immateria-li (quali la cultura, le feste popolari, le sagre, il Carnevale) come risorse turistiche, vuol dire favorire la desta-gionalizzazione dell’incoming e una maggiore distribuzione sul territorio dei flussi turistici.

putignano

Immersa nel territorio della “Murgia dei Trulli”, Putignano offre un meraviglio-so centro storico ad impostazione normanna, ricco di bellezze architettoni-

che e chiese imponenti come S. Pietro e Santa Maria la Greca. A Putignano è possibile visitare anche la Grotta del Trullo (prima in Italia ad essere aperta al pubblico). Di notevole interesse e suggestiva bellezza è anche il territorio rura-le, ricco di trulli (detti “casedde”) e splendide masserie settecentesche.

... e dintorni

Definita la “Capitale dei trulli”, Alberobello è patrimonio dell’UNESCO dal 1996. Unico al mondo, il centro storico offre uno spettacolo architettonico

che immerge il turista in tempi antichi, dove l’ingegno architettonico del con-tadino si mescolava ad usanze popolari e riti pagani. La passeggiata si sviscera tra le viuzze del paese, tra botteghe di artigiani e negozi di prodotti tipici. Da visitare il Trullo Sovrano (il trullo più grande del paese) e la Chiesa di Sant’An-tonio.

Alberobello

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BARI

Putignano

Alberobello

Conversano

Polignano a Mare

Ostuni

Taranto

Castellana Grotte

CrispianoCastellaneta

Locorotondo

Martina Franca

Massafra

Cagliari

Messina

Catanzaro

BARI

L’Aquila

Città del Vaticano

Roma

Ancona

Perugia

Firenze

San Marino

BolognaGenova

Foggia

Taranto

Brindisi

Lecce

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Castellana è nota al mondo intero per le sue grotte che costituiscono il più grande complesso carsico italiano mai esplorato dall’uomo. Oltre 3 km di

percorso che si snodano tra stalattiti e stalagmiti di unico fascino, sino a rag-giungere la Grotta Bianca, definita la più bella grotta del mondo. Ma Castellana offre anche un meraviglioso centro storico, ben conservato, con stradine che si fanno largo tra case di pietra e piccole piazzette molto suggestive.

Castellana Grotte

La città sorge su una collina delle Murge alta 219 m e dista circa 7 km dal Mar Adriatico. Di origine preromana, nell’XI secolo divenne sede di una contea

estesa su una parte significativa della Puglia centro-meridionale, la cui impor-tanza non venne sminuita che con il tramonto della struttura feudale. Impor-tante centro religioso sin dal Medioevo, la cittadina è oggi sede della Diocesi di Conversano-Monopoli. Da visitare il Castello situato sul punto più alto della collina su cui sorge la città, l’antico largo della Corte, un’ampia piazza dalla forma irregolare da sempre fulcro della vita cittadina. Nelle vicinanze vi è la Cattedrale, esempio di romanico pugliese e il monastero di S. Benedetto. A circa 1 km fuori del centro abitato, invece, si può visitare la chiesa di S. Caterina la cui caratteristica principale è la pianta quadrilobata con una cupola centrale internamente emisferica.

Conversano

Paese natio del celebre cantautore Domenico Modugno, Polignano a Mare ha uno dei più bei centri storici della Puglia: a picco sul mare, offre scorci

affascinanti con piazzette che si aprono ad un panorama mozzafiato. Di note-vole interesse naturalistico sono le grotte marine, visitabili in barca e scenario ideale per immersioni subacquee.

polignano a mare

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Conosciuta come la “Città Bianca” o “Città Presepe”, Ostuni è uno dei più rinomati centri turistici pugliesi. Peculiare è infatti l’impatto visivo del cen-

tro storico, dove le case sono imbiancate con calce bianca e le stradine che lo percorrono, offrono squarci caratteristici con piccole botteghe di artigiani ed importanti monumenti. Nel 2009 ha ricevuto la Bandiera Blu e le cinque vele di Legambiente per la pulizia delle acque della sua costa e per la qualità dei servizi offerti.

ostuni

Crispiano è un comune della provincia di Taranto, situato al centro di una serie di colline, tra cui il monte della Gravina (204 m), il monte dell’Angelo

(242 m), il monte Specchia (211 m) e il monte Calvello (228 m). Il suo territorio è detto delle “Cento Masserie” per il gran numero di strutture agricole residen-ziali, ricche di connotazioni storiche e artistiche rilevanti (sec. XV-XVI). Molto suggestivo è il presepe vivente: per l’occasione ci sono oltre 300 figurati in co-stume e caduta di neve artificiale.

... e dintorni

Crispiano

Castellaneta è situata nel cuore dell’area che costituisce il Parco Regiona-le delle Gravine ed occupa la posizione mediana nella parte occidentale

della provincia di Taranto. La frazione di Castellaneta Marina offre ai turisti un mare cristallino, una sabbia finissima e dune fossili di grande interesse natura-listico e scientifico.

Castellaneta

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Locorotondo appartenente all’associazione de “I borghi più belli d’Italia”, è situata nell’area della Valle d’Itria. Locorotondo è famosa, oltre per il tipico

vino che lo caratterizza, anche per le numerose contrade (in tutto 138) e per la particolare conformazione del centro storico: un insieme di piccole case bian-che disposte su anelli concentrici. Questo dà origine al suo nome.

Locorotondo

Una delle aree pugliesi di maggiore attrazione turistica, nonché uno dei pa-esaggi più belli della nostra Puglia, è la meravigliosa Valle d’Itria, cuore

della Murgia dei trulli, il cui comprensorio abbraccia le cittadine di: Locoroton-do, Martina Franca, Alberobello, Cisternino e Ceglie.

martina Franca

Questa cittadina in provincia di Taranto é famosa per il carnevale e presenta notevoli luoghi di interesse turistico. Lungo le gravine sono presenti vari

insediamenti rupestri, di origine sia preistorica, sia alto-medievale. Sono visita-bili anche numerose chiese, cappelle e monasteri di monaci basiliani.

massafra

Situata sull’omonimo Golfo sul mar Ionio, Taranto presenta sul territorio architetture che testimoniano la sua importanza storica e culturale: dagli

antichi luoghi di culto, ai palazzi appartenuti alle famiglie nobili ed alle perso-nalità illustri della città, alla varietà architettonica delle chiese.

Taranto

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Giulianova

Roseto degli Abruzzi

CorropoliAlba Adriatica

Colonnella

Tortoreto

Teramo

Napoli

L’AQUILA

Roma

Ancona

Perugia

Firenze

San Marino

Teramo

Chieti

Pescara

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Ad Alba Adriatica si trovano importanti monumenti storici, tra i quali spic-cano la Torre, edificata lungo la costa nel XVI secolo e le numerose ville

gentilizie edificate nel corso dei secoli da facoltosi che desideravano trascor-rere le loro vacanze immersi nella natura. Tra queste ricordiamo: Villa Chiarugi, costruita sul finire del XVIII secolo sui resti di un Castello; Villa Gianluca Palma, eretta all’inizio del XX secolo in stile ottocentesco; Villa Zanoni, progettata ne-gli anni Venti del Novecento in stile eclettico.

... e dintorni

Alba Adriatica

Il Centro storico, dominato dalla Chiesa e dalla Torre dell’Orologio, è ricco di numerose piazzette e strette vie, dette in dialetto rue. La chiesa dei Santi Ci-

priano e Giustina, opera di Pietro e Giacinto Maggi e il Palazzo Municipale ri-salgono alla prima metà dell’Ottocento. Nelle zone limitrofe si può osservare il patrimonio di case di terra, dette pencire, indubbiamente pregevole. Nel ter-ritorio comunale è oggi possibile rintracciarne circa 20. Alcune di queste sono conservate in modo dignitoso ed in un paio di casi sono ancora utilizzate come abitazione. Interessanti anche le cisterne di epoca romana e la Fonte Vecchia e la Fonte Ottone da ricondursi sempre all’epoca romana.

Colonnella

Arroccato su un colle da cui si possono ammirare il mare Adriatico e il grup-po montuoso del Gran Sasso, a Corropoli si può visitare la piazza Piè di

Corte e Fontana ultimata nel 1836, la Torre Campanaria del XV-XVI secolo uno dei famosi quattro campanili “fratelli” della provincia di Teramo, l’Abbazia di S. Maria di Mejulano del 108, la Chiesa Parrocchiale di Sant’Agnese di epoca

Corropoli

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Giulianova, situata tra le foci dei fiumi Salinello e Tordino, vanta un paesag-gio marittimo e collinare perfettamente armonioso. Il litorale è sicuramen-

te la meta di molti: giovani, famiglie ed anziani. Nota per il turismo balneare (qui fu realizzato nel 1873 uno dei primi stabilimenti balneari in Italia, il Ve-nere), Giulianova offre un sistema integrato di beni culturali pubblici e privati davvero unico in Abruzzo. Ben quattro sono le biblioteche istituzionali, di cui la più antica è la Biblioteca Civica “V. Bindi”, e ben otto i musei di piccola e me-dia categoria, di cui cinque costituiscono il Polo Museale Civico nelle sezioni di pittura, scultura e archeologia. Rinomata la qualità dei prodotti delle aziende vinicole, la freschezza del pesce e la fragranza dei piatti tipici locali.

Giulianova

Roseto degli Abruzzi è al centro di un sistema turistico che porta dal mare alla montagna. Con un turismo nato dall`ospitalità dei pescatori che agli

inizi del Novecento mettevano a disposizione le proprie dimore marine, oggi Roseto vanta la bandiera Blu ininterrottamente dal 1999. La città ha un roman-tico pontile che chiude un lungomare prezioso, ricco di viali immersi nel verde delle palme e dei pini marittimi, ma offre molto anche agli amanti di arte e cul-tura, grazie alle chiese presenti in città e nelle frazioni, al “Museo della cultura materiale” di Montepagano e alla “Civica raccolta d`arte”, ospitata all`interno della Villa Comunale. Ricchissimo ogni anno il calendario delle manifestazioni, delle sagre e degli eventi culturali.

Roseto degli Abruzzi

barocca con notevoli affreschi ottocenteschi, il Convento di Santa Maria degli Angeli, il Monastero di Gabbiano del XII secolo.

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Posto lungo la costa adriatica, Tortoreto è una delle stazioni balneari più fre-quentate di tutta la regione abruzzese. La cittadina è divisa in due borghi

distinti, Tortoreto Alto (la parte più antica) e Tortoreto Lido (la stazione balne-are, Bandiera Blu dal 1998). Le origini del borgo sono molto antiche, anche se incerta è la data della sua fondazione. Il Centro Storico di Tortoreto è un siste-ma di piccole piazze, di viuzze strette, di archi e torri caratterizzate dalle calde tonalità del mattone. La pesca è il settore tradizionale dell’economia locale. A Tortoreto Lido è possibile ancora oggi ammirare le Vongolare, tipiche imbar-cazioni per la pesca delle vongole (alla quale è dedicata anche una rinomata sagra).

Tortoreto

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San Mauro Forte

Castelmezzano

Accettura

POTENZATricaricoBrindisi

Montagna

PietrapertosaMessina

Catanzaro

POTENZA

Napoli

CampobassoCittà del Vaticano

Roma

Foggia

Matera

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Situata sopra un colle a 698 m di altitudine, Tricarico domina le valli del Ba-sento e del Bradano. La sua origine si fa risalire probabilmente al V-VI secolo

d.C., quando nasce come roccaforte longobarda nel sistema difensivo del du-cato di Salerno.Subì diverse dominazioni nel corso della sua storia: Saraceni - di cui restano come testimonianza il “borgo rabatano” e quello “saraceno”, divenne città for-tificata dei Bizantini, ma nel 1080 fu occupata dai Normanni. Di questi passagi storici, oggi resta la Torre Normanna e l’imponente Palazzo ducale. Tricarico è anche il paese natio del grande poeta Rocco Scotellaro.

... e dintorni

Tricarico

Le origini di Accettura risalgono al periodo della Magna Grecia, quando ve-niva chiamata Acceptura. È sede del Parco naturale di Gallipoli Cognato che

offre uno spettacolo di vegetazione unico costituito da alberi, fiori e specie di rara e a volte unica natura. Il Parco essendo un ecosistema dalla notevoli risor-se, ospita numerose specie di mammiferi, volatili, rettili, insetti a volte molto rari. Tra i mammiferi sono presenti il cinghiale, il lupo, la volpe, il tasso, l’istrice, il gatto selvatico, la lepre, il riccio, ghiri e scoiattoli, donnole e faine e, nei corsi d’acqua, la lontra.

Accettura

Caratteristico paese di origine albanese che sovrasta il Parco con la sugge-stiva torre diroccata. Interessante è la chiesa di San Nicola del XIV sec. e

riedificata nel XVII sec., nel cui interno sono conservati bellissimi dipinti del Pietrafesa vissuto tra il XVII e XVIII secolo, ed un coro intarsiato del XVIII secolo.

Brindisi di montagna

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A due passi dal borgo, troviamo il Parco della Grancia: il primo parco storico-rurale e ambientale d’Italia. Si estende su 12 ettari, in uno straordinario scena-rio naturale: un sentiero che attraversa il bosco conduce in un ampio anfiteatro dove, in estate, è possibile assistere al Cinespettacolo “La Storia Bandita”, una grande rappresentazione, animata da oltre 400 volontari, che mette in scena le vicende delle rivolte contadine in Basilicata, passate alla storia come Brigan-taggio.

Meraviglioso borgo, incastonato tra le Dolomiti Lucane, offre suggestivi scenari paesaggistici. L’antico centro fu una potente roccaforte Longo-

barda. Interessante è la chiesa Madre (XIII sec.), nel cui interno è custodita la stupenda statua lignea della Madonna col Bambino, detta “Madonna dell’Ol-mo” del XIV sec.Il territorio è ideale per escursioni attraverso paesaggi di suggestiva bellezza, come la vallata del torrente Caperrino, che segna il confine tra il paese e Pie-trapertosa. Lungo il corso del torrente si possono ammirare i ruderi di vecchi mulini.

Castelmezzano

Pietrapertosa sorge sulle pendici del monte Impiso, nelle “Dolomiti Lucane”, così chiamate perché le cime assomigliano a quelle alpine e assumono al

tramonto la colorazione rosata tipica delle Dolomiti vere e proprie. Arrocca-ta fra cime dal nome suggestivo come “l’aquila reale”, “l’incudine”, “la grande madre” e “la civetta”, Pietrapertosa è costruita interamente sulla nuda roccia. Fu fondata dai Saraceni come fortezza e acquistò importanza con i Normanni, che vi costruirono il castello. Dalla primavera 2007 è possibile effettuare il “Volo dell’angelo”: un’attività turistico-sportiva che unisce i paesi Castelmezzano a Pietrapertosa per mezzo di due cavi d’acciaio su cui i temerari che ne desidera-

pietrapertosa

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no provare l’ebbrezza possono scivolare a 120 km orari librandosi per circa un minuto, ad un’altezza di circa 400 m, ammirando il paesaggio sottostante da un punto di vista insolito.

Centro di antiche origini (1060 d.C.) sorto intorno ad una comunità monasti-ca benedettina da cui trasse il toponimo, “San Mauro Forte” fu una rocca-

forte normanno-sveva. Appartenne alla Contea di Montescaglioso e dopo nu-merosi signori che si avvicendarono nei secoli successivi si rese libera dal giogo feudale nel 1751. Nel paese è possibile ammirare i resti del Castello costruito nel periodo normanno-svevo, ristrutturato dagli Angioini e di cui attualmente resta solo la torre cilindrica a tre piani. Attraverso le vie del paese è possibile vedere diversi palazzi nobiliari, tra cui palazzo Arcieri, (sede del municipio) e palazzo Lauria, con portale barocco del 1770. Particolare, durante i riti della Settimana Santa, è la processione dell’Addolorata, il cui percorso è caratterizza-to da un antico lamento funebre. Nei dintorni dell’abitato vi sono due sorgenti d’acqua: una sulfurea in contrada “Rumolo” e l’altra ferruginosa in contrada “Fo-resta”, entrambe raggiungibili percorrendo vie mulattiere.

S. mauro Forte

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NAPOLI

CasapesennaAversa

Villa Literno

Casal di Principe

Castel Volturno

Avellino

Città del Vaticano

RomaBenevento

NAPOLI Salerno

Caserta

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A Villa Literno non può mancare una visita ai resti dell’antica città come il Foro, il Capitolium, la Basilica ed il Teatro, e l’Ara di Scipione l’Africano, por-

tati alla luce nel 1932. Nel grazioso centro storico è possibile ammirare la Chie-sa dell’Assunta, di antica fondazione, che è stata in parte ricostruita nel XIX secolo e ancora oggi conserva opere provenienti dal vecchio edificio religioso senza dimenticare, prima di andar via, di dare uno sguardo ai ruderi dell’antico Castello di Villa Literno, che un tempo dominava tutta la zona e che fu anche proprietà ecclesiastica.

... e dintorni

Villa Literno

Al centro dell’agro aversano, Aversa è nota come la Città dalle cento chiese. Il Duomo possiede un capolavoro unico: San Giorgio e il drago, tra le po-

che sculture preromaniche presenti nell’Italia meridionale ed è inoltre carat-terizzato da una delle più grandi cupole ottagonali del mondo, in stile arabo-normanno. Al suo interno è visitabile l’interessantissimo museo diocesano che contiene argenti sacri del Seicento e del Settecento di importanti botteghe na-poletane - tra cui quella dei Guarriniello -, diversi documenti di epoca norman-na, la Madonna con il Gonfalone - tela datata e firmata da Francesco Solimena e considerata un “exemplum” del pittore di Canale di Serino -, nonché alcune tavole della seconda metà del Quattrocento di Angiolillo Arcuccio, tra cui il ce-lebre Martirio di San Sebastiano. La chiesa di Santa Maria a Piazza, anche essa eretta intorno all’anno Mille, che custodisce affreschi e frammenti della prima scuola giottesca; la ex chiesa di San Audeno (Prima in Italia dedicata al Santo) con il relativo chiostro. Sito ufficiale del chiostro di Sant’Audeno in Aversa oggi magnificamente recuperato e visitabile; l’Arco dell’Annunziata (l’antica “porta” della città chiamata appunto “Porta Napoli”, che dà inizio a Via Roma). Nel 1650, a spese di privati cittadini fu costruita, la chiesa dell’Immacolata fuori le mura

Aversa

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di San Nicola, attuale sede della omonima Arciconfraternità. Ospita una delle più belle oasi verdi in territorio urbano di tutta la provincia di Caserta, il parco urbano “Salvino Arturo Pozzi”.

Nel borgo di casal di Principe è interessante da visitare la Chiesa del S.S. Salvatore risalente al XVI secolo in cui è conservato un crocefisso ligneo

della scuola napoletana del XVIII secolo e una tavola raffigurante la vergine del 1725.

Casal di principe

Si inserisce all’interno della pianura campana in un territorio intensamente abitato fin dall’antichità come dimostrato dai ritrovamenti archeologici. Da

visitare la Chiesa Santa Croce donata dal Conte normanno Roberto Sant’Agata nel 1097. Alla fine del Cinquecento l’edificio venne completamente rifatto in stile barocco. La chiesa conserva poi le statue lignee ottocentesche di Sant’An-tonio, dell’Addolorata e dell’Assunta o Madonna delle Rose. Gli affreschi di An-tonio Sicurezza da Formia e Gennaro Guarino di Napoli decorano le cappelle laterali e un artistico presepe con pastori in stile Settecento napoletano che si trova alle spalle dell’altare maggiore. Inoltre interessante è il Tempio Mia Madonna e Mia Salvezza. L’edificio rappresenta uno splendido esempio di ar-chitettura religiosa contemporanea; il progetto venne realizzato su ispirazione dello stesso parroco don Salvatore Vitale come celebrazione in terra della glo-ria di Maria. L’edificio è sovrastato dalla gigantesca statua della Madonna, alta 7m e illuminata.

Casapesenna

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Deve il suo nome al castello e al fiume Volturno. Il centro storico sorge sulla sponda sinistra del fiume, sull’ultima ansa che questo forma prima di sfo-

ciare nel mar Tirreno. I siti di interesse sono diversi: il Castello e borgo san Ca-strese, la cappella di san Castrese, la cappella di S. Maria della Civita, la Chiesa dell’Annunziata, la Torre di patria.

Castel Volturno

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Bari

Camporotondo Etneo

Misterbianco

San Pietro Clarenza

Motta Sant’Anastasia

CATANIA

AgrigentoCatania

PALERMO

Siracusa

Messina

Ragusa

Enna

Caltanissetta

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Misterbianco è un paese ricco di storia che sorge, a pochi chilometri da Catania, sulle falde meridionali dell’imponente Etna.

Il territorio del paese è circondato dalle correnti laviche dell’eruzione del 1669 che distrusse l’antico casale e dalle ricche terre delle valli coltivate a vigneto e a uliveto. Di notevole interesse architettonico sono la Chiesa Madre che conserva una splendida statua della Madonna delle Grazie opera del Gagini (1478-1536), la Chiesa di S. Nicolò con all’interno diverse tele seicentesche, la Chiesa Madonna degli Ammalati che custodisce un bell’affresco del 1740 con l’immagine della Piazza dell’antico paese.

... e dintorni

misterbianco

Oltre al caratteristico centro storico, di forma circolare, possiamo ammirare alcuni palazzi storici (Signorello e Natali) e la Chiesa di sant’Antonio Abate,

di epoca barocca.

Camporotondo Etneo

Città dalla storia millenaria, è ricca di monumenti e di tantissime cose belle da vedere, inoltre nel 2002 il suo centro storico e sette comuni della vicina

Val di Noto sono stati inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco. Tra le tante cose da vedere a Catania ricordiamo: i monumenti antichi, come il Teatro Romano, l’Anfiteatro e le Terme, tutte risalenti alla dominazione romana.Per gli amanti del verde, si può visitare il Giardino Bellini, vero polmone verde della città e il Boschetto della Plaia che copre gran parte del litorale catanese.

Catania

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Da visitare anche il Rettilario Mediterraneo, dove sono ospitate numerose spe-cie europee ed esotiche.

Paese dai tipici tratti medioevali, Motta ha come simbolo cittadino il Castello Normanno, edificato nel 1070 per volere di Ruggero I per difendersi dagli

attacchi degli Arabi.Motta diventa luogo di attrazione turistica in occasione delle Feste medievali (dall’ 11 al 19 agosto circa per i giorni della Festa “Grande” in onore di Santa Anastasia). Le feste fanno rivivere fra le pittoresche vie, parate di drappi, fio-ri, stendardi e vessilli, squarci di vita borghigiana fra gli ultimi decenni dell’XI secolo e i primi del XV. Nell’ambito delle feste medievali si inserisce il Palio dei Martino, un torneo cavalleresco che racchiude le prove del colpo al saracino, tiro al cinghiale con giavellotto, colpo al bersaglio mobile con la mazza chio-data e gara degli anelli. Segue la consegna del Palio al cavaliere primo classi-ficato.

motta Sant’Anastasia

Passeggiando nel centro storico si rimane immediatamente colpiti dalla bel-lezza dell’abitato, caratterizzato da basse case edificate in pietra lavica e i

davanzali intonacati di bianco.Il monumento più importante del borgo è la Chiesa Madre, eretta nel XVIII se-colo e dedicata a santa Caterina, con una scenografica scalinata all’esterno e opere di artisti locali all’interno.

San pietro Clarenza

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Messina

Catanzaro

Cosenza

Napoli

Campobasso

L’Aquila

Città del Vaticano

Roma

Foggia

Brindisi

Lecce

Crotone

CATANZARO

Vibo Valentia

Acquaformosa

Castrovillari

Altomonte

Cassanoallo Ionico

CivitaMoranoCalabro

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Posta in un avvallamento naturale denominato “Conca del Re”, Castrovillari è circondata dagli Appennini calabresi, ed è il centro più grande del Parco

Nazionale del Pollino. Monte Pollino, nei pressi della cittadina, è la seconda vet-ta più alta degli Appennini meridionali dopo Serra Dolcedorme. Interessanti da visitare: la Chiesa di S. Maria del Castello sul colle omonimo, alle cui pendici sono presenti, oltre ai nuclei di antiche costruzioni, alcune grotte eremitiche (VII-VIII sec. d.C.); il Convento di S. Francesco d’Assisi e la Chiesa della SS. Trini-tà, l’imponente complesso, situato sul colle del Lauro, venne fondato nel 1220 da Pietro Cathin, discepolo di S. Francesco d’Assisi; la chiesa, originariamente dedicata a S. Maria di Costantinopoli, ora a S. Giuseppe che risale alla seconda metà del XVI secolo; il Castello Aragonese.

... e dintorni

Castrovillari

Il paese è di origine albanese. L’abitato è sulla cresta di un contrafforte tra le valli dei torrenti Fiumicello e Grondo. Il sottosuolo è ricco di giacimenti mine-

rari e in particolare di argento, rame e mercurio. I primi albanesi si insediarono, intorno al 1500; prese così l’avvio un paese che si denominò Acquaformosa dal nome della chiesa dello stesso monastero, e che forse derivava dalla sua prossimità ad una fonte di purissima acqua. La costruzione della Chiesa par-rocchiale di S. Giovanni Battista risale, probabilmente, all’arrivo di nuovi gruppi di albanesi: al suo interno, sono conservate delle tavole cinquecentesche di Marco Pino, pittore senese, assai attivo anche a Napoli. Molto importante è la porta intagliata che mostra in una formella una superba aquila, simbolo de-gli albanesi. Altre opere d’arte sono racchiuse nel suo centro storico. Situato a 1400 metri di altitudine, si trova il Santuario di S. Maria del Monte, che costitui-sce un bell’esempio di architettura religiosa rurale, nelle cui vicinanze è situata la “Grotta della Madonna” dove, secondo la tradizione locale, fu rinvenuto il

Acquaformosa

Messina

Catanzaro

Cosenza

Napoli

Campobasso

L’Aquila

Città del Vaticano

Roma

Foggia

Brindisi

Lecce

Crotone

CATANZARO

Vibo Valentia

Acquaformosa

Castrovillari

Altomonte

Cassanoallo Ionico

CivitaMoranoCalabro

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busto della Vergine.

Altomonte è un piccolo centro della provincia di Cosenza, famoso in tutta Italia per la ricchezza del suo patrimonio artistico - culturale recentemente

riportato alla luce. La Chiesa Santa Maria della Consolazione (gotico-angioina sec. XI; il Convento dei domenicani (1440) oggi sede del Museo Civico; il Castel-lo dei Sangineto di origine Normanna (sec. XII), la Torre Normanna (sec. XIII); la Chiesa San Giacomo Apostolo (sec. XI); la Chiesa San Francesco di Paola e il chiostro annesso (sede del Palazzo Municipale sec. XVI); l’Anfiteatro esemplato su antichi modelli dei teatri Greco- Romani.

Altomonte

Qui, una natura generosa ed imprevedibile ha disegnato paesaggi e scena-ri di abbagliante bellezza all’interno dei quali appare, come incastonata,

la preziosa testimonianza di un popolo antico: Cassano. I sette colli, il centro storico ed il complesso termale rappresentano un carosello di emozioni che, attraversando i centri di Lauropoli, Doria e Sibari, ci guidano per mano fino alla splendida Baia della Luna, in cui si fondono, in un perfetto equilibrio armonico e cromatico, i nuovi siti turistici con gli antichi reperti archeologici, testimo-nianza di una gloriosa civiltà.

Cassano allo Ionio

In questo piccolo, attraente paese si rivelano degli aspetti culturali e paesag-gistici di sicuro interesse, frutto di un patrimonio culturale e naturale. Su di

un terrazzo naturale, in una delle più belle vallate del Pollino di Sud-Est, Civita è incrociata da un paesaggio superbo con montagne verdi e rocciose dalle mo-

Civita

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dellazioni variegate ed aperture visuali verso il Mare Jonio. Il Paese ammira da un lato il composito e vario esempio di associazione vegetale di tipo mediter-raneo, dall’altro lo spettacolo suggestivo del “Canyon” del Raganello. Il paese conserva le caratteristiche tipiche del borgo; le case per lo più costruite sulla roccia, i vicoli stretti tra i quali si scoprono odori genuini e antichi mestieri. Motivi d’attrazione principale: la visita e l’attraversata delle spettacolari Gole del Raganello; la possibilità di esercitare attività di trekking fino alla vetta del Massiccio del Pollino.

Uno dei centri più importanti e suggestivi del Parco Nazionale del Polli-no. Morano Calabro si trova in posizione ottimale per abbracciare con lo

sguardo il versante calabrese del massiccio del Pollino, le vette del Dolcedor-me e della Serra del Prete.

morano Calabro

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Referenze fotografiche1. ALLA SCOPERTA DELLE ORIGINI DEL CARNEVALE1. Fondazione Carnevale di Putignano (Ba); 2. Giovanni Laterza; 3. www.cerchiodelloracolo.splinder.com; 4-5-8. www.wikipedia.org; 6. www.louvreparigi.com; 7. www.utenti.romascuola.net; 9. www.comune.venezia.it

2. IL CARNEVALE E I SUOI MILLE VOLTI NEL NORD E CENTRO DELL’ITALIA10. www.udine20.it; 11. www.benvenutinelsitodigraziella.blogspot.com; 12. www.carnevaledelveneto.it; 13. www.thevenetianmask.com; 14-15-16. www.girovagandointrentino.it; 17. www.eventiesagre.it; 18. www.carnevaledicrema.it; 19-20-24. www.wikipedia.org; 21. www.acmos.net; 22. www.panoramio.com; 23. www.carnevalediborgosesia.info; 25. www.ristorantelachatelaine.com; 26. www.naturaosta.it; 27-28. www.carnevaloa.it; 29. www.carnevaledibusseto.com; 30. www.carnevale-cento.it; 31. www.alcastlein.it; 32. www.carnevalefantaveicoli.it; 33. www.carnevaledigambettola.org; 34. www.topsecretbar.it; 35. www.carnevalearetino.it; 36. www.carnevaledifoiano.it; 37. www.carnevalandia.com; 38. www.carnevaledifano.eu; 39. www.flickr.com;

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40. www.fotoascoli.net; 41. www.cultura.360gradi-abruzzo.it;42. www.pro-montorio.blogspot.com; 43. www.prolocoronciglione.it; 44. www.ciociariaturismo.it; 45-46. www.comune.roma.it

3. VIAGGIO TRA I CARNEVALI DEL SUD ITALIA47-102-103-108-109-110-111-112-113-119. Fondazione Carnevale di Putignano (Ba); 48. www.guidecampania.com; 49. www.guide.supereva.it; 50. www.mybee.it; 51. www.carnevalepalmese.eu; 52. www.comune.saviano.na.it; 53. www.artigrafichefalcone.com; 54-59-61-132. www.montescaglioso.net; 55-87-91-137-147-148-153-154. www.flickr.com; 56. www.giovanilucani.forumfree.net; 57. www.tracieloemandarini.blogspot.com; 58. www.basilicatanet.com; 60. www.aliano.it; 62. www.duemilanodi.it; 63. www.prolocograssano.it; 64-65. www.viaggiomolise.it; 66. www.foggiaweb.it; 67. www.mondimedievali.net; 68-69-70. www.carnevaledauno.it; 71. www.web.tiscali.it; 72. www.wikipedia.org; 73. www.chiacchierefrutte.splinder.com; 74. www.gallipolivirtuale.com; 75. www.ilgiardinonelsalento.it; 76. www.lisfaticati.blogspot.com; 77. www.carnevalearadeino.it; 78. www.amanteacarnevale.it;

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