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CLAUDIO CARERI DANILO CHIRICO ALESSIO MAGRO

IL SANGUE DEI GIUSTICiccio Vinci e Rocco Gatto

due comunisti uccisi dalla ’ndrangheta

Con l’intervento di don Luigi Ciotti

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I Tempi della storia / 8Collana Diretta da Pasquale Amato

Reggio Calabria Città del BergamottoMarzo 2007, Anno 2737dalla fondazione di Reghion

© Città del Sole Edizioni s.a.s.di Franco Arcidiaco & C.Via Ravagnese Sup., 60/A89131 RAVAGNESE (RC)Tel. 0965.644464 Fax 0965.630176e-mail: [email protected]

Impaginazione e stampaLitografia Antonino Trischitta - Messina

Questo volume è un lavoro collettivo dell’associazione daSud onlus di ReggioCalabria (www.dasud.it), ma vede la luce anche grazie a due persone.Franco Arcidiaco è un editore di Reggio Calabria, uno di quelli con il gustoper il suo lavoro e il vizio della ricerca e della memoria. Antonio Larosa è un giovane dirigente politico di Gioiosa Ionica, fa l’asses-sore provinciale a Reggio. È cresciuto vedendo scolorire il murales cheritraeva Rocco Gatto. Hanno sostenuto la nostra idea. Sono bastate poche parole, anche per questoli apprezziamo.

Grazie anche a don Luigi Ciotti che su questo lavoro ha voluto mettere la suapenna. E grazie a chi in Libera, ha creduto nel nostro lavoro.

In copertina c’è un’opera che ci piace tantissimo. L’ha realizzata per questapubblicazione Emanuele Scoppola. Grazie Lalli.

Un grazie va anche a Nello Nobile e Alessia Carrozzi, indispensabile il lorolavoro sulle immagini. Ad Alberto e Mario Gatto, per la preziosa collabora-zione. Alle famiglie di Ciccio e Rocco. A Omar, custode di memorie lontane.

Grazie anche a tutte le persone che sono state intervistate, a chi ha contri-buito a costruire queste storie contro la ‘ndrangheta, a chi ci ha dato buoniconsigli, a chi nelle istituzioni combatte davvero la criminalità organizzata.

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“Il nostro è un paese senza memoria e verità,

ed io per questo cerco di non dimenticare”.

Leonardo Sciascia

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Le ragioni della memoria

“Morti per mano della ‘ndrangheta. Colpitiper l’impegno sociale e politico. Uccisi dalladisperazione. Ammazzati più volte, anno do-po anno, quando la memoria cede e resta laverità della mafia. Sono le vittime del sistemadei clan: la delegittimazione per screditare gliavversari, il piombo per eliminare chi sgarra,le minacce per far tacere gli altri, le menzogneper cancellare ogni traccia”.

Siamo partiti da qui, con queste parole, or-mai nel settembre di due anni fa. Scegliendo dilavorare in silenzio, mentre tutt’intorno è pa-role a sproposito e palcoscenici impropri, vele-ni a orologeria e verità occultate, pavidi trave-stiti da intellettuali e carnefici mascherati dacensori. Mentre soldi e sangue non hanno piùodore, mentre un’intera classe politica e diri-gente, da Roma in giù, è in costante crisi di le-gittimazione.

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Lavoriamo per ricostruire memoria. Chenon significa soltanto ricordare stragi, vittimee colpevoli. Ma vuol dire anche distinguere trala memoria esterna, quella troppe volte fuorvian-te e parziale che della Calabria hanno gli (altri)italiani, e la memoria calabrese, quella popolare,conflittuale e spesso colpevolmente impedita.Rendere conto di queste distorsioni attraversole storie delle vittime di mafia, le vittime inno-centi, con sullo sfondo le comunità che con lamafia convivono, è forse un modo per matu-rare una memoria storica un po’ più sincera.Condivisa dal basso e non riconciliata dall’alto.

“Il sangue dei giusti” altro non è che unaparte di questo percorso di dolorosa ricostru-zione avviato dall’associazione daSud nelle vi-scere della Calabria. È un omaggio, certamen-te inadeguato, a Ciccio Vinci e Rocco Gatto.Pubblichiamo adesso questo pamphlet per di-re che non dimentichiamo che sono stati as-sassinati trent’anni fa. Anche le date hannouna loro importanza quando si tratta di rimet-tere insieme le tessere del ricordo.

I fatti che raccontiamo sono frutto dell’ap-passionata lettura di atti processuali, ritagli digiornale, libri comprati in libreria, consultati

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in biblioteca o scovati nel fondo di una canti-na. E del racconto dei testimoni, che hannosofferto e pianto, hanno vinto o sono statisconfitti, hanno resistito o si sono arresi. Tuttoinsieme costituisce un pezzo di verità su que-ste storie complicate.

Ma “Il sangue dei giusti” è anche pieno del-le persone che abbiamo incontrato in questianni. Non per forza parla di loro, ma in questepagine ci sono certamente le rughe del volto diPeppino e l’orgogliosa promessa di Peppe, laspiazzante generosità di Natale e le mani fortidi Raffaele, gli occhi di Deborah e il gelato diStefania, la rara ostinazione di Salvo e la pas-sione gratuita di Pino, la curiosità di Ugo e lapazienza di Fausto, la fierezza di Mommo e ladignità di Samuel, la genuinità di Mimmo e ladisponibilità di Franco, la voce di Totò e le si-garette di Anna, i capelli grigi di Luigi e il bas-so di Peppe. Ci sono tanti altri. Ci sono insom-ma le voci e gli sguardi, le passioni e le paure,la rabbia e il perdono, il coraggio e le speran-ze, di madri e padri, amici e compagni di gio-chi di tante vittime, di politici e sacerdoti, me-dici e musicisti, operai e insegnanti, avvocatie magistrati. Di tutti quelli che non hanno

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cancellato, e che hanno voluto parlare con noi.Anche di chi avrebbe voluto farlo e, alla fine,s’è ritratto.

A loro, tutti e ciascuno, sono dedicati questolibro e il lavoro dell’associazione daSud. Luo-ghi aperti, e quindi sempre incompleti e in di-venire. Come la Calabria.

gli [email protected]

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Per Ciccio Vinci

Un giovane esempio

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“È proprio il vero nuovo potere che non vuole più avere tra i piedi simili padri.È proprio questo potere

che non vuole più che i figlisi impossessino di simili eredità ideali”.

Pier Paolo Pasolini

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Fermo immagine

Tutto immobile, fermo. Dietro quella portarimasta chiusa per oltre vent’anni è tutto co-m’era la sera del 10 dicembre 1976. La signoraTeresa non ha voluto sentire ragioni: nella ca-meretta di mio figlio, aveva detto la sera chel’ha perso per sempre, la sera che gliel’hannoammazzato, non dovete toccare niente. Perchéil dolore è troppo forte e rischi di impazzire,perché vuoi conservare vivo il ricordo, perchéla morte l’hai vista da vicino, da troppo vicino,e non te l’aspettavi. Francesco Vinci, per tuttisemplicemente Ciccio, aveva solo 18 anniquando è stato assassinato dalla ‘ndrangheta.

Nessuno ha mai più messo piede in quellastanza del dolore, solo la signora Teresa ognitanto si è permessa di violare il mondo di Cic-cio. Per lenire l’angoscia, per sentirlo un po’più vicino. Ogni giorno, anche il giorno dellamorte. È per questo che ha preteso che il suocorpo fosse seppellito proprio sotto quello del

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figlio nel cimitero di Cittanova. Di fianco nonsarebbe stato abbastanza.

Dietro quella porta un interminabile fermoimmagine, un’atmosfera drammaticamentesurreale. Sullo scaffale tra i libri, accatastati mageometricamente ordinati, è rimasto al suo po-sto il testo di storia contemporanea di RosarioVillari che aveva voluto a tutti i costi e avevacomprato alla cartolibreria Albanese. Sullascrivania, i quadernoni con gli appunti discuola mescolati con quelli che Ciccio usavaper la politica. Poco di fianco i dischi in vinile,i dischi dei New Trolls e dei gruppi beat cheadorava. E tanti, tantissimi ritagli dell’Unità.Soprattutto quelli su Salvator Allende. PerchéAllende rappresentava il mito in quegli anni eCiccio s’era appassionato alla sua storia, lo sta-va studiando a fondo e stava provando a capi-re com’era stato possibile che Pinochet in Cilefosse finito al potere quel maledetto 11 settem-bre del 1973, com’era possibile che quellostraordinario sogno socialista fosse naufragatonella repressione e nel sangue.

Ed è sempre dolore e sangue quello che sta-va facendo annegare Cittanova, da troppotempo.

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Morire di faida, vivere nella faida

È una storia di intrighi e violenza, di granditruffe e profondo dolore quella della provinciadi Reggio Calabria negli anni 70. È la storiadella strage della Freccia del Sud a Gioia Tau-ro e della Rivolta del boia chi molla, del pac-chetto Colombo che promette e non mantiene.Persino il fallito golpe Borghese ha i suoi pro-tagonisti in punta allo Stivale.

Ma è soprattutto la storia di un’eterna con-tesa: c’è la guerra in provincia di Reggio Cala-bria, in ogni comune, per la conquista del po-tere su ogni singolo centimetro di territorio.Anche di quello più insignificante. Perché senon porta soldi, porterà sempre prestigio. AReggio si scontrano i Tripodo e i De Stefano, aPalmi i Gallico e i Condello, a Taurianova iViola-Avignone e gli Zagari. Dovunque c’èuna faida, perché è tempo di cambiamenti ne-gli assetti della ‘ndrangheta.

Non sfugge, non può sfuggire a quella logi-

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ca Cittanova, la porta che separa la Piana diGioia Tauro dall’Aspromonte, un centro chevive di agricoltura e di un artigianato di gran-de qualità.

Non sfugge, perché in terra di mafia non c’èspazio per la neutralità e nessuno può chia-marsi fuori.

È una faida che attraversa l’intero paesequella tra i Raso-Albanese detti “i tartagni” e ipiù moderni Facchineri, “le bisce”. Provocheràun’interminabile scia di sangue, travolgerà lavita delle persone per decenni.

Agostino Cordova, procuratore di Palmi acavallo tra gli anni 80 e 90, la raccontava così:“La gente che non sta nell’universo mafioso hauna strana idea delle faide, una vecchia idea,che si scannino per ragioni di onore, per cate-ne di vendette. Oggi le faide si svolgono fradue cosche per la conquista del territorio, siuccidono a vicenda finché una delle due si di-chiara sconfitta e passa all’altra i poteri”.1

Il primo omicidio della faida di Cittanova,quello di Domenico Gerace, considerato vici-no ai Facchineri, è del 1964. Questioni di pa-

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1 Giorgio Bocca, L’Inferno, Profondo Sud Male Oscuro, Mondatori, 1993.

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scoli, si dirà. In realtà, di lì a poco, anche le co-sche di Cittanova sperimenteranno che gli af-fari si fanno nel cemento, negli appalti, nelleestorsioni, con la violenza e magari condizio-nando la politica.

I primi a capirlo sono i Facchineri che guar-dano con interesse all’edilizia e sentono giàl’odore dell’affare droga. Nel 1970 mettono inpiedi un impianto per la trasformazione degliinerti. Una scelta che non lascia indifferenti gliavversari: inizierà infatti una faida tra le piùsanguinose della provincia di Reggio Calabria.

La lupara tuona decine di volte, è un’escala-tion di violenza. Crollano anche le antiche re-gole d’onore, e cadono anche i bambini. Comesuccede ai piccoli Domenico e Francesco Fac-chineri, di 9 e 13 anni, colpevoli di appartene-re a una famiglia in guerra e di essere con lozio quando il clan rivale ha deciso di ammaz-zarlo. Francesco alza le mani in segno di resaquando il killer gli punta contro il fucile, Do-menico tenta di nascondersi dietro un cumulodi sabbia. Il commando di cinque uomini, cheferisce anche un bimbo di sei anni, non avrànessuna pietà. È il lunedì di Pasqua del 1975, ea Cittanova non c’è mai stata così tanta paura.

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Altri bambini furono più fortunati, qualcheanno dopo. Lo Stato li trasferì in località se-grete per sottrarli alla guerra. A volte, invece,erano le famiglie a cercare di salvare la pelledei figli. Troppo spesso però significava solouna tregua: giusto il tempo di imparare a spa-rare prima di tornare, e vendicare.

Un decennio di guerra cruenta darà ragioneai Raso-Albanese. Vincono i vecchi padronidei pascoli, che hanno installato il loro moder-nissimo impianto per la produzione del bitu-me, che partecipano alla spartizione della tor-ta per il futuro polo siderurgico di Gioia Tau-ro, che, insomma, conquistano il loro posto neltavolo che conta.

Senza dimenticare che i “tartagni” hannoorganizzato un efficientissimo sistema di ta-glieggiamento e sanno terrorizzare come po-chi i propri concittadini. Con le minacce e learmi, certo. Ma anche grazie alle cosiddettevacche sacre. Duemila bovini, ufficialmente dinessuno, si muovono infatti indisturbate perla Piana, distruggono coltivazioni, provocanoincidenti stradali, bloccano persino i treni.Senza che mai nessuno denunci nulla. Nei pri-missimi anni 90 diventeranno note al grande

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pubblico le vacche sacre, quando a “Domenicain” ne parlerà il ministro dell’Interno Vincen-zo Scotti, rispondendo alle domande di PippoBaudo2.

I Raso-Albanese restano i padroni incontra-stati fino al 1987. Quando i Facchineri, i giova-ni del casato che per alcuni anni hanno ripara-to lontano da Cittanova, tornano in paese. Efanno rumore, molto rumore. Un micidialegruppo di fuoco si presenta alla villa comuna-le del paese e fa una vera e propria carneficinauccidendo cinque esponenti del clan nemico.

È di nuovo faida, i Facchineri sono tornati ehanno dimostrato subito che fanno sul serio.Cittanova ripiomba nella paura. Si uccide co-me e peggio che in passato, i meccanismi diestorsioni si fanno più stringenti ed efficienti, iregolamenti di conti avvengono anche lontanodai confini della Calabria. Il potenziale degliarsenali delle cosche è spaventoso: nelle cam-pagne vengono trovati armi e ordigni in dota-zione all’ex patto di Varsavia. C’è stato un sal-to di qualità che rischia di travolgere una città

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2 L’episodio è raccontato in: Francesco Forgione e Paolo Mondani, Oltre lacupola, Rizzoli, 1994,

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che cerca lentamente di risalire la china. Allafine, in un perverso meccanismo di offesa evendetta, si conteranno più di cento morti.

La faida va avanti fino al 1992, quando le co-sche sono costrette a fare un passo indietrocolpite dalla scure della magistratura e delleforze dell’ordine. Che hanno raccolto le de-nunce di un gruppo di imprenditori e cittadi-ni pronti a parlare. Non è affatto vero che aCittanova è tutto buio, è tutto mafia. Il sacrifi-cio di Ciccio Vinci, quindici anni prima, nonera stato inutile.

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Attorno a un giubbotto

È il 10 giugno 1976, l’Ansa batte l’ennesimo,drammatico, flash da Cittanova: “Alcuni sco-nosciuti hanno sparato con un fucile a cannemozzate da un’auto in corsa contro FrancescoVinci, diciottenne, e Carmela Bottiglieri (50 an-ni). Il giovane è morto poco dopo all’ospedale,mentre la donna è ricoverata con una progno-si di 30 giorni”. S’è spenta così, in questo mo-do assurdo, la breve parabola di un giovane dicui la Calabria avrebbe avuto bisogno.

Ciccio Vinci era nato a Cittanova il 27 gen-naio del 1958. Frequentava il liceo scientifico“Guerrisi” ed era un militante della FGCI, lagiovanile del Partito comunista. Era un ragaz-zo, ma era già una sorta di icona tra i coetanei:il suo carisma innato ne aveva fatto subito unleader per amici e compagni. Il fisico prestan-te e lo sguardo penetrante, con un paio di oc-chi color azzurro cristallino, ne facevano inve-ce un sogno proibito per tante ragazzine.

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Era la vigilia del 1977, erano gli anni dei de-creti delegati e al “Guerrisi”, come negli altriistituti italiani, infuriava la contestazione. ECiccio la capeggiava. Era animato da un ribel-lismo non di facciata, non era un masanielloanarcoide con velleità luddiste. “Mettiamo indiscussione non già i professori, ma l’appara-to, il sistema, il rigore degli insegnanti” disseun giorno alla professoressa Clemente che glichiedeva i motivi della contestazione studen-tesca, criticavano un sistema asfissiante e im-permeabile ai cambiamenti.

Una scuola borghese, gentiliana nell’orga-nizzazione, restia all’innovazione, in cui resi-stevano elementi di arretratezza e faticavano afiltrare gli aspetti di modernità della riforma edei precetti di don Milani. La battaglia politi-co-sociale nella scuola completava il suo im-pegno. Ciccio infatti si era già avvicinato alPCI, aveva aderito per un’inclinazione natura-le verso le sofferenze e i deboli, per la sua ab-negazione costante, e assolutamente inusualeper un diciottenne, per gli altri. Non era una fi-lantropia fine a se stessa. Nella sua indole l’al-tro giustificava l’ego, lo spendersi, il farsi cari-co delle sofferenze per rinunciare al sé una ra-

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gione di vita. C’era un certo ascetismo laiconel suo modo di rapportarsi al prossimo, unsenso etico profondo nella dedizione verso icompagni. Nonostante l’età, nonostante il con-testo sociale in cui viveva.

Accanto all’impegno, la vita di un ragazzonormale, fatta di amicizie e simpatie, risate epartite di calcio. Perché, come dice una canzo-ne di Leo Ferrè “non si può essere seri a di-ciassette anni / locali rumorosi di luci sgar-gianti / con bicchieri di limonata fresca e sot-to i tigli verdi a passeggiare e basta”.

Tanto più era rigoroso nell’approccio in po-litica, quanto più era allegro e spensierato nel-la vita privata.

Merito anche della famiglia nella quale, co-me ricorda la sorella Tita, “sembrava metteredisordine e portare scompiglio”. Non potevaessere altrimenti: “In casa erano tutti democri-stiani”, dice Tita. Ciccio no, Ciccio era di sini-stra. “Era la pecora nera, ma lo stavamo adascoltare e anche lui capiva”, raccontano conaffetto i familiari. Ed era una famiglia salda-mente ancorata alle tradizioni, umile, ma fiera.La sua salvezza, forse: essere cresciuto soppor-tando dei sacrifici non gli ha permesso di ri-

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fuggire le tentazioni delle cosche, “non gli hadato la possibilità di montarsi la testa”, dicedon Giuseppe Borrelli. Neanche quando gli al-tri lo consideravano un leader, e Ciccio un lea-der lo era davvero.

Era un ragazzo buono, dal cuore apertoverso gli altri. Dalla mamma aveva ereditatol’umiltà (“aveva profondo rispetto di tutti”,dice la nipote Teresa Scullari), ma anche l’or-goglio e il rigore: “Non rinunciava mai a direla sua, Ciccio”, e non temeva le differenze diceto né si lasciava travolgere dalle convenzio-ni sociali.

Era animato da un affetto particolare per lapiccola Concetta Giovinazzo, la mascotte dellaclasse, e una profonda amicizia lo legava a Sa-ra Molina, con cui divideva anche l’impegnopolitico. Aveva in comune la passione calcisti-ca con Pasquale De Pietro e l’impegno nellaFGCI con Franco Morano, che era un po’ piùgrande e in quegli anni era già all’università.Tanti altri facevano parte di quel gruppo diamici.

Era l’amico sincero, che indossava i pannidel comandante in jefe. Comandante di unacomitiva che sapeva divertirsi come poche, e

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che era unita come una pigna. Dall’amicizia, eanche da un giubbotto attorno al quale nacqueuna piccola leggenda. Era una di quelle giac-che retrò che oggi farebbero tendenza, unasorta di tratto distintivo del gruppo. E la cosastrana è che nessuno sa davvero (tuttora) chil’avesse comprato, chi fosse il proprietario.Quel che è certo è che divenne il giubbotto ditutti, il pezzo forte da indossare a turno. Nes-suno immaginava che solo qualche tempo do-po sarebbe diventato un simbolo del dolore:indossa proprio quella giacca “vintage” Ciccionella sua foto storica. Lo conservano i familia-ri, ultimo regalo degli amici. Postumo.

Erano anni felici, nonostante tutto, gli anni70. D’estate poteva capitare allora di essere in-vitati al matrimonio di una compagna di clas-se e di presentarsi in perfetta tenuta balneare,con indosso solo il costume da bagno e unamaglietta. E, tra lo stupore e le risate degli in-vitati, preferire un tuffo a mare al banchetto.Francesco era così, un vulcano che irradiavapositività. E ancora lo ricordano i suoi amicinel carnevale in cui si prestò a quel comicotravestimento da Dante Alighieri in calzama-glia, così come non dimenticano i suoi discor-

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si appena al limite tra il serio e il faceto. E lebattute fulminanti.

In fondo, Ciccio Vinci era un ragazzo nor-male, un diciottenne che come tutti i diciotten-ni aveva tanta voglia di vivere, desiderava ab-bandonarsi alle emozioni, coltivare le amici-zie, vivere in un mondo migliore. Forse piùdegli altri aveva una spiccata sensibilità, unarara bontà d’animo e una spiazzante generosi-tà. Soprattutto sapeva entrare in sintonia congli altri e stringere rapporti intensi: dispensa-va sorrisi al momento giusto, era capace diascoltare, riusciva a dialogare con i suoi com-pagni di scuola per i quali era diventato unpunto di riferimento. Offriva sempre un aiuto,anche quando non era richiesto. Era anchequello che organizzava i pomeriggi di studioassieme, per dare una mano a chi era rimastopiù indietro. Uno dei suoi assassini aveva stu-diato con lui fino a qualche giorno prima del-l’agguato. Perché Ciccio sapeva che ne avevabisogno. E non si sottraeva mai, “faceva sem-pre un passo in più rispetto agli altri”, raccon-tano con orgoglio misto a rimpianto le sorelle.

“Riusciva a trascinarci e a coinvolgerci - ri-corda Concetta Giovinazzo - I suoi occhi me-

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ravigliosi riuscivano a farti tirare fuori qualco-sa di intimo”. Un ragazzo “speciale, che conci-liava in sé due aspetti bellissimi: quello dell’a-dolescente e del ragazzo molto maturo e pro-fondo, in possesso di grandi ideali”, le fa ecoSara Molina.

Ideali che non erano solo chiacchiere. Era in-fatti molto rigoroso anche nella vita quotidia-na. Così, ricordano le sorelle, a tavola nonmangiava mai più del dovuto “perché dall’al-tra parte del mondo qualcuno non ha di chesfamarsi”. Non era un gran bevitore, ma ognitanto qualche bicchiere di troppo ci scappava.

Non beveva mai, però, prima di una partitadi calcio: non voleva rammollirsi, voleva rima-nere lucido. Sì, perché Ciccio Vinci era un cal-ciatore promettente. Era un pilastro della Cit-tanovese, giocatore dal fisico aitante, dalla bel-la corsa e dalla buona tecnica. E con un paio discarpe con i tacchetti “a metà”. Erano bellissi-me, e costose. Le aveva comprate in compro-prietà con l’amico Pasquale De Pietro. Per cui,per usarle entrambi, dovevano giocare untempo ciascuno e avvicendarsi, con buona pa-ce della squadra. Il comunismo dei beni appli-cato alle scarpe da calcio. Originale.

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Atteggiamenti semplici in contrasto forsecon un viso straordinariamente comunicativo,un look da pasdaran dell’oltranzismo dall’ani-mo buono e baffi curati e affilati a contraddi-stinguere un volto glabro.

Sembrava una figura scapigliata, ma elabo-rava pensieri ponderati. Frutto anche di unagrande curiosità e di buone letture che servi-vano a placare la sua sorprendente sete di co-noscenza. La frequentazione della biblioteca,che la preside del liceo Augusta Torricelli Fri-sina aveva messo a disposizione nelle ore po-meridiane, era un modo per curare ricerche edivorare libri: stava lavorando alla ricostruzio-ne della storia del Cile, delle vicende del 1973,dell’esperienze di Allende e del golpe di Pino-chet.

La biblioteca diventava anche un modo perinterpellare i classici e avere consigli su qualitesti leggere e quali saggi soffermare l’atten-zione ed era interessato naturalmente alle pro-blematiche di tipo politico. “Abbeverava poi ilsuo intelletto nel giardino della storia e dellafilosofia”: la libertà però non era un algoritmoo la libertà astratta della Ragion critica kantia-na, la libertà era liberazione dal giogo del bi-

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sogno. Non un assioma dunque, un itinerarioda conquistare. Nel periodo delle Leghe perl’occupazione si svelava la personalità di ungiovane affamato di letture severe, che poteva-no servirgli a interpretare il presente con stru-menti utili a cogliere il divenire tumultuosodegli anni del riflusso e della contestazione.

Anche i docenti conservano un buon ricor-do di Ciccio Vinci. E con loro spesso ingaggia-va lunghe discussioni e confronti dialettici.Proverbiali quelli con il professore di religio-ne, don Molina, con cui non andava affattod’accordo: litigate costruttive, interessanti, suaspetti teologici controversi, sul libero arbitrio.Tanto che, quando Ciccio morì, il suo profes-sore disse rammaricato: “Ho perso oltre cheun alunno uno stimolo, uno con cui si potevaavere uno scambio di idee”.

Tanti i sogni dell’epoca. Anche quello diiscriversi a scienze politiche, una volta diplo-mato. Non ce la fece.

Ricorda Pasquale De Pietro, che all’epocastava nella giovanile della DC: “Francesco cre-deva fortemente negli ideali di giustizia. Nonha mai accettato compromessi bassi. La suanon era una ribellione fine a se stessa, ma mo-

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tivata, chiaramente inserita in un contesto sto-rico-politico. Se non riusciva ad aiutare qual-cuno ne faceva un cruccio. Ha trovato una suacollocazione naturale a sinistra”. Voleva cam-biare il mondo, Ciccio. A partire da Cittanova.

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La ragnatela

La scelta politica di Francesco Vinci era con-sapevole: a Cittanova c’era la faida e servivaun mezzo per reagire. Nella sua militanza c’e-ra quindi il ripudio della ‘ndrangheta, la vive-va come arma per prendere coscienza dellamorsa che attanagliava la società calabrese, co-me rifiuto netto e concreto della violenza edell’aberrante logica mafiosa.

Non era facile, certo, trovare un equilibriocon il terrore. Come ricorda il professore Rosa-rio Monterosso, che ai piedi dello Zomaro havissuto per diversi anni: “Due alunni miei so-no stati ammazzati durante la faida. Uno, Do-menico Facchineri, nel 1975. Un altro, cuginodi Domenico, qualche anno dopo, sul marcia-piede di Corso Italia”. Eccolo il racconto diquella sera quando Monterosso stava con al-cuni amici davanti alla sede del Partito sociali-sta in piazza Marvasi. “Non sentimmo alcunosparo - ricorda - Ma un tipo dall’aspetto preoc-cupatissimo ci passò davanti a passo svelto e

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ci avvertì: ‘Hanno ammazzato un altro Facchi-neri’. Siamo andati a vedere e lo abbiamo tro-vato coperto. Purtroppo era un ragazzo, erastato un mio alunno”. E quando sei un inse-gnante “animato da buone motivazioni” ti af-fezioni ai tuoi alunni e “queste cose ti segnanodentro”.

Ricorda ancora un altro episodio Monteros-so per descrivere il clima di quegli anni: “Erostato invitato a un dibattito organizzato dallaCgil e a cui partecipavano anche il professoreFrancesco Adornato, l’attuale presidente delconsiglio regionale Peppe Bova, che all’epocastava nel sindacato, e Gigi Malafarina, il ‘ma-fiologo’ per eccellenza della Gazzetta delSud”. Proprio Malafarina sembrava avere uncomportamento strano nel corso del dibattito:“Durante la discussione, spesso si voltava allespalle e si guardava attorno”. Dopo qualchetempo Malafarina, “profondo conoscitore del-la ‘ndrangheta calabrese e reggina”, gli confes-so “che lui quella sera aveva avuto paura, pro-fonda paura”.

A Cittanova si viveva nel terrore. E ci si po-teva persino aspettare che durante una mani-festazione pubblica in cui si discuteva a visoaperto contro la mafia le cosche facessero un

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assalto, almeno una qualche azione dimostra-tiva di disturbo. Era questo il contesto nel qua-le si consolidò la personalità di Francesco Vin-ci. Che era consapevole della situazione e ave-va scelto di battersi per cambiarla.

Con ragionevole ostinazione. “Eravamomolto fermi nelle convinzioni - ricorda France-sco Morano che oggi di Cittanova è sindaco -nella tensione morale e ideale. Era aperto, conuna visione lungimirante: non guardava le co-se con integralismo, era molto disponibile aparlare e a capire”.

Grandi slanci che si alternavano a momentiin cui si incupiva, si ammutoliva. I suoi eranolunghi silenzi meditativi. Silenzi assordanti incui parlava il linguaggio dei suoi occhi vispi.Visse attivamente la campagna elettorale del1976, con l’Unità sotto braccio: “Non si stanca-va mai, non saltava un appuntamento, nonmancava mai ad una riunione ed ogni sera melo ritrovavo di fronte, pronto con il pacco deivolantini e dei fac-simile. Cominciava a perde-re quella timidezza che gli adolescenti hannoquando affrontano problemi più grandi di lo-ro, e tuttavia non volle mai parlare in pubbli-co. Non volle mai fare un comizio, neppureuno di quelli che chiamavamo di quartiere in

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quanto improvvisato all’angolo di una stradao in una piazza, così alla buona, a braccio, co-me suol dirsi. Invece, entrava in tutte le case,discuteva con tutti senza fare distinzioni disorta e se mi capitava di saltare qualche portaperché sapevo che lì abitava qualche famigliademocristiana, e non era il caso di perderetempo, allora lui ci andava ugualmente e simetteva a discutere con la sfrontatezza e l’in-coscienza che solo la gioventù può dare. Maera cortese, gentile, non alzava la voce, lascia-va che il suo interlocutore esponesse le proprieragioni, anche se il più delle volte non riuscivaa ribattere efficacemente. Allora al ritorno insezione chiedeva spiegazioni, ti esponeva iproblemi con semplicità, si informava; secon-do lui ci doveva essere necessariamente unaspiegazione per ogni cosa. Soprattutto non sirassegnava al fatto che la gente potesse conti-nuare a votare dei governanti inetti e corrotti.Cercava di portare degli esempi semplici lega-ti alla vita di tutti i giorni, magari si trattava dicose che aveva discusso in famiglia e che lui,per l’occasione, elaborava e generalizzava.Mai che qualcuno gli avesse chiuso la porta infaccia o si fosse rifiutato di discutere; credo chequegli occhi di un azzurro intenso e quella

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grande serenità incantassero tutti”3.Eppure un intervento pubblico lo aveva fat-

to Ciccio Vinci, e aveva lasciato il segno. Erastato nella sala del consiglio comunale, duran-te un’assemblea partecipatissima. Fu “un in-tervento passionale, di grande trasporto”, Mo-rano lo ricorda bene ancora oggi. Non c’eraspazio per le mediazioni, sui principi e sullalegalità non ci sono mediazioni. “Mio fratelloera un tipo che si esponeva”, dice Tita, la so-rella più grande. “Era un ragazzo che si facevasentire, che cominciava a dare fastidio”, ricor-da don Pino De Masi, oggi sacerdote di Poli-stena e vicario del vescovo di Palmi, vicino dicasa di Ciccio Vinci.

Così come Peppino Impastato - ucciso il 9maggio del 1978 per mano del boss Tano Ba-dalamenti - in un piccolo paese della Sicilialanciava il suo grido “la mafia è una montagnadi merda” dalle frequenze di Radio Aut, cosìCiccio Vinci aveva ben chiaro in mente che“bisogna spezzare questa ragnatela che oppri-me tutta la Calabria”. Una frase pronunciatanel corso di quell’assemblea in municipio, che

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3 Antonio Orlando, Il partito che non c’è più. Riti e miti del vecchio P.C.I., Vir-gilio Editore, 1985.

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rimane come una pietra miliare, un monitoche fa vibrare ancora, se si pensa che fu pro-nunciata da un diciottenne. Non era così scon-tato nella Calabria degli anni 70 che i giovanisi opponessero alla ‘ndrangheta a viso aperto,non era facile che la politica prendesse netta-mente le distanze dalle cosche. Neppure a pa-role, come magari fa oggi.

C’è molto di rivoluzionario (e talvolta di dram-matico) in alcune scelte, personali e politiche, chedirigenti e militanti del PCI compivano tra gli an-ni 70 e 80 nella sperduta provincia di Reggio Ca-labria. C’è qualcosa di rivoluzionario se un di-ciottenne in un microcosmo in guerra è capace didire con nettezza da che parte sta, se Peppino La-vorato e Peppe Valarioti (che pagherà con la mor-te il suo impegno antimafia) chiedono trasparen-za nell’attività amministrativa e nell’economia ese attaccano frontalmente le cosche di Rosarnonei comizi, se Mommo Tripodi a Polistena capeg-gia la battaglia e testimonia in tribunale contro lecosche, se il sindaco di Gioiosa Ionica FrancescoModafferi si costituisce (è la prima volta in Italiaper un Comune) parte civile nel processo per l’o-micidio del mugnaio comunista Rocco Gatto, ches’era opposto, fiero e rigoroso, allo strapotere del-le cosche ed era stato ammazzato.

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L’hanno ammazzato. Un nuovo inizio

Il delitto di Ciccio Vinci è una cesoia che ra-de al suolo una vita piena di speranza. È unmacigno incomprensibile che si abbatte su unafamiglia impreparata a un’afflizione così lanci-nante. È una lacerazione dolorosissima per itanti che con Ciccio Vinci sognavano di cam-biare Cittanova. “Era convinto che dovevamoessere noi a dare una svolta - dice ConcettaGiovinazzo - a cambiare le cose. Non poteva-no più fingere di non vedere e di non sentire.Lui credeva nelle sue idee e ci credevamo unpo’ tutti. Con lui - confessa - sono morti i no-stri ideali. Rivivo quei momenti con un’ango-scia forte, che non riesco a scrollarmi di dossoancora oggi, dopo trent’anni”.

Fu un maledetto giorno, quel 10 dicembre.Ciccio in mattinata era stato a Reggio, in ca-serma. Aveva rinviato il servizio militare permotivi di studio. C’era l’ultimo anno di scuolada fare, poi l’università: insomma non era an-

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cora tempo di consegnarsi per un anno all’e-sercito. Era tornato a casa un po’ stanco e do-po pranzo aveva deciso di dedicarsi a suo ni-pote. In quel tragico pomeriggio Francescogiocava con il biberon, lo stuzzicava. Gli avvi-cinava la bottiglia all’altezza della bocca, e poigliela allontanava. Il bambino s’indispettiva,piangeva. Ciccio si divertiva, nonostante irimbrotti della mamma.

Poi all’improvviso, la decisione di uscire. Fuun caso, un tragico gesto di generosità: decisedi accompagnare la zia a prendere il maritonelle campagne. Salirono sulla Fiat Campa-gnola e andarono verso la zona del Vacale, vi-cino al torrente. Pochi minuti dopo, l’agguato,proprio mentre stavano per imboccare la stra-dina che costeggia il cimitero.

Il commando era composto da tre persone,spararono in due, con una pistola e un fucile.Uno stava di vedetta e la mamma di Ciccio -che poco prima era passata di là e aveva vistoquella figura - suggestionata dalla vicinanzadel cimitero, racconterà che nella penombragli era sembrato un fantasma. Agirono quandoormai era diventato buio. Lo colpirono a mor-te: la carrozzeria non trattenne neppure un

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proiettile e gli fu recisa un’arteria vitale.Una quotidianità infranta come un fulmine

a ciel sereno. L’algida grammatica dei verbaliriportati nelle carte processuali: “Verso le ore18 del 10 dicembre del 1976 i carabinieri di Cit-tanova venivano informati che in località Ci-mitero di detto centro abitato, poco prima,persone ignote avevano sparato dei colpi diarma da fuoco che avevano ferito a morte Vin-ci Francesco e attinto la di lui zia BottiglieriCarmela mentre gli stessi, a bordo di una FiatCampagnola, unitamente al nipote della don-na, Catanese Salvatore, rimasto illeso, si stava-no dirigendo alla contrada Vacale per preleva-re il marito della donna medesima, GuerrisiGirolamo. A questa notizia i militari si porta-vano sul luogo del delitto ma nulla potevanorilevare data l’incombente oscurità. [...] Rinve-nivano un cappuccio color bleu ricavato da unmaglione di piccola taglia con due fori all’al-tezza degli occhi”. Cittanova, venerdì 10 di-cembre 1976.

Ma dietro le parole asettiche dei carabinieri,abituati ai fatti di sangue, ci sono persone incarne ossa, ci sono dolori e drammi. Quel cri-mine fu vissuto dalla famiglia come una trage-

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dia insopportabile, e fu consumata comprensi-bilmente come una catastrofe. A pagarne leconseguenze maggiori fu la mamma di Ciccio,la signora Teresa Bottiglieri. Non l’accettò maiquel delitto la signora Teresa, non riuscì mai ametabolizzare fino in fondo che suo figlio erauscito di casa per caso e non c’era mai più tor-nato. Viveva in una specie di simbiosi imma-ginaria con lui. Sul crinale dell’instabilità. Co-me se lui fosse in vita. “Rinunciava a mangia-re alcuni pasti particolari. Progressivamentemodificò le sue abitudini, trasformando radi-calmente la propria esistenza. Non si alimen-tava più in modo naturale. Per lei era un sacri-ficio persino sedersi a tavola per mangiare”,ricorda con dolore la nipote, che si chiama Te-resa anche lei. Fu una scelta dettata dall’osses-sione quasi morbosa di non poter pranzarecon Ciccio.

Ma con una drammatica lucidità di fondo:agli amici che andavano a trovarla periodica-mente, e che per anni non l’hanno lasciata so-la, raccomandava di non mettersi “troppo inmostra”: aveva paura che potessero fare la fi-ne di Francesco.

Ma la morte fu avvertita come un colpo da

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tutta la Piana migliore, la Piana pulita. Fu“l’apparir del vero”, la linea di demarcazioneper una generazione sul limitare dell’età adul-ta. Come si poteva porre fine ingiustamente aduna giovane vita, come avrebbe reagito l’inci-piente movimento contro la criminalità?

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In silenzio non si può, non più

Fece scalpore la morte di Ciccio Vinci, anchea livello nazionale. Per “Repubblica”, “la mor-te di Francesco Vinci è un atto di sconvolgentecoraggio”. “L’Unità” del 19 dicembre lo cele-brava così: “Francesco Vinci rappresenta ciòche di nuovo in termini di volontà di rinnova-mento, di convivenza civile, di elevamentoculturale, sta emergendo in Calabria. Questonuovo è la forza più possente di cui in questomomento dispone la Calabria”. Persino lo sto-rico quotidiano francese “Le Monde” si occu-pò del delitto.

Ma il clamore non serve a lenire il dolore, asottrarsi alla paura. “In quei momenti - ricor-da Morano - sentivamo solo l’esigenza di stareinsieme. Quella stessa sera abbiamo fatto il gi-ro delle case per non restare divisi”, per farequadrato, riorganizzare le idee.

Il giorno dopo era già tutto diverso: stavanoper perdere la speranza, ma resistettero. La

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reazione fu furente: scesero in piazza i giovanidi Cittanova, per gridare tutta la loro rabbia.“Migliaia e migliaia di giovani studenti [...]per le vie di Cittanova dimostrarono, esaspe-rati e dolenti, per la morte di un loro collega,lo studente Francesco Vinci, coinvolto anchelui, senza colpa e volontà, nella spirale di san-gue”4.

La mobilitazione fu imponente, eccezionale.Fu il più grande corteo di studenti contro lamafia della storia della Piana: non meno dicinquemila giovani a manifestare, a scagliarsidirettamente contro le cosche, a pronunciareslogan pesanti contro le famiglie dei mamma-santissima, proprio sotto le loro case. C’erauna genuina voglia di denunciare, un inco-sciente coraggio di esporsi, ricorda chi scese inpiazza.

Fu un momento di intensa partecipazione,vissuto anche come un rituale iniziatico dimassa. “Vinci aveva aperto e indicato una stra-da a tutti”, commentava Vincenzo Fusco daimicrofoni di Radio Eco Sud. Tanto che una mi-riade di giovani in autostop o con pullman au-

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4 Sharo Gambino, Ndranghita dossier, Frama Sud, 1986.

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togestiti sciamarono alle falde dello Zomaro, ilmonte che sovrasta la cittadina: Francesco erainnocente e la sua morte non poteva passaresotto silenzio.

Il funerale fu un intenso momento di raccol-ta nel dolore, e una straordinaria risposta de-mocratica al terrore mafioso. Ci fu una “parte-cipazione imponente al suo ultimo saluto”, ri-corda Morano. Fu un evento epocale, per donPino De Masi, che nel frattempo ha scelto dianimare in Calabria “Libera”, l’associazionecontro le mafie di don Luigi Ciotti. “La mortedi Ciccio Vinci provocò un’ondata di sdegno.C’era moltissima indignazione per un delitto,maturato in tragiche circostanze”. E se fu net-ta, forte e decisa la risposta di tutti i giovani,“fu stridente l’assenza di autorità politiche eistituzionali. Lo stesso PCI non aveva capito inun primo momento la portata del movimen-to”, denuncia don Pino. Il funerale segnò unospartiacque: “Quelle esequie furono una delleprime grandi manifestazioni antimafia dellaPiana. E da lì probabilmente cominciò a matu-rare quella classe politica che negli anni 90produsse nuovi sindaci”, commenta il sacer-dote. Ma la conseguenza più immediata e di-

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retta fu un’altra grande manifestazione di stu-denti provenienti da tutta la provincia. Unagrande, ulteriore, risposta la diedero ancora ipiù giovani, i compagni di scuola di Ciccio: loelessero rappresentante d’istituto con una va-langa di voti. Erano le prime elezioni dellascuola italiana quelle del 1976, Ciccio parteci-pò da morto.

Ebbe un’onda lunga quel movimento, cam-biò la vita di molte persone e anche gli scenaridi quei territori. Fu un processo lento, ma inar-restabile. Costruito pezzo per pezzo.

Alla manifestazione per il primo anniversa-rio dell’omicidio partecipò anche Emilio Argi-roffi, acuto poeta siciliano che aveva trovatorifugio nella vicina Taurianova, un militantecomunista che sarebbe diventato senatore.Sentenziò: “Non abbiamo inteso celebrare unaoccasione di morte, che pure sarebbe stata diper sé esaltante date le ragioni che hanno por-tato al sacrificio il nostro giovane compagnoFrancesco Vinci, quanto riaffermare la nostravolontà di procedere con maggiore coraggio,se possibile, con questo grande esempio, conquesta luminosa capacità di sacrificio che Vin-ci ha dimostrato, la nostra strada, la nostra lot-

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ta, la battaglia per l’emancipazione e il riscattodella Calabria”.

Ai due anni dalla morte erano ancora induemila in piazza a Cittanova nella sala Or-chidea, per la manifestazione organizzata dal-la FGCI. E ci fu un cambio di passo: erano pre-senti anche le amministrazioni comunali, coni gonfaloni, che cominciavano ad “appro-priarsi” di Vinci come di un simbolo dell’au-todeterminazione cosciente contro la ‘ndran-gheta. Forse si può intuire il clima dell’epocae il senso di quelle giornate, rileggendo la cro-naca di un giornale locale: “È stato ricordato ilgiovane studente Francesco Vinci che eraestraneo alle faide e al gioco delle cosche ma-fiose ed è rimasto vittima della violenza e del-lo strapotere mafioso. Tutti gli oratori hannoevidenziato che la giornata di protesta nonpuò essere considerata una semplice comme-morazione ma deve rappresentare la continui-tà con l’azione d’impegno e di lotta contro ilsistema mafioso. Hanno quindi ribadito che ègiunto il momento di passare ad un impegnoconcreto per rompere la logica che rischia per-fino di travolgere i valori più elementari dellaconvivenza civile”.

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E due anni di battaglie erano un periodosufficiente anche per avviare una riflessionetra i giovani comunisti e democratici e traccia-re un bilancio dei risultati della loro lotta allamafia, che li aveva visti in prima linea nellemanifestazioni di Taurianova e di Gioiosa Io-nica, nello sviluppo di iniziative di massa perla crescita sociale e civile. Il comunicato dellaFGCI di Cittanova, di cui Ciccio era stato se-gretario prima di morire, iniziava com’era co-minciata l’esperienza antimafia, con le paroledi Ciccio: “Bisogna spezzare questa ragnatelache ci opprime”.

Ricordavano i giovani della FGCI: “Due an-ni fa veniva ucciso in un agguato mafioso ilcompagno Francesco Vinci. Non vogliamo faredi questo anniversario doloroso e tragico unacelebrazione rituale e scontata. Non si possonocertamente cancellare i sentimenti spontanei didolore e di rabbia che suscita il ricordo di que-sta crudele e barbara uccisione, in tutti i citta-dini, i lavoratori, i giovani specialmente. Noicome comunisti non possiamo e non vogliamosoffocare questi sentimenti, per questo ci unia-mo più che mai al dolore dei familiari ai qualirinnoviamo ancora una volta tutta la nostra so-

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lidarietà. La morte di Francesco Vinci ha se-gnato una svolta importante nella lotta controla mafia nella Piana e in Calabria. Il tragico ri-cordo della uccisione di Francesco sia sempredi stimolo per tutti noi in questa difficile batta-glia”. E si chiudeva con il ricordo e la citazionedi una straordinaria esperienza di resistenzaalle cosche e di dolore: “Ricordiamo, come so-leva ripetere Rocco Gatto, che: ‘Essi sono fortidella nostra debolezza e della nostra paura’”.

A Cittanova si era creato un gruppo di gio-vani che aveva fatto la scelta di sinistra, di mi-litanti agguerriti che lavoravano per diventarela nuova classe dirigente. Si gettavano le basiper un solido movimento che diede nuova lin-fa alle sezioni dei partiti. Questi giovani, col-piti nel cuore, avevano reagito e spingevanoper il cambiamento, per il rinnovamento dellaclasse politica e anche del PCI.

Il Partito comunista a Cittanova era un par-tito “terranoviano”, dall’ex sindaco RaffaeleTerranova che aveva rotto con la DC dalla leg-ge truffa del 1953. Volevano una riforma dellapolitica fatta nella chiarezza delle posizioni: secompromessi andavano fatti, si potevano farealla luce del sole.

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Cittanova fu un laboratorio sperimentale,un microcosmo seguito a ruota da altri centridella Piana. Scriveva il giornalista Enzo Laca-ria: “Nonostante il naturale incremento demo-grafico, la popolazione (di Cittanova) è in con-tinuo regresso per il massiccio esito migrato-rio: in questa situazione difficile, la parte piùconsapevole dei giovani reagisce contrastandoil ‘vecchio’, rompendo la gabbia di antiche tra-dizioni, dandosi strutture democratiche di lot-ta di lavoro. Francesco Vinci fu uno di loro:gridò la sua rabbia contro le cause politiche esociali dell’arretratezza”. Vinci ruppe, con al-tri, l’emarginazione e l’isolamento e combattécontro la mafia con decisione e coraggio. Qual-cosa dopo la sua morte sarebbe cambiata.

Rievoca quei momenti, Francesco Morano:“La vicenda di Ciccio Vinci ha provocato un ri-cambio all’interno del PCI”. Anche il Partitocomunista non capiva bene cosa stesse acca-dendo e non offriva “pieno sostegno alla lot-ta”. Non certo per “complicità, per un fatto diprudenza”. La capacità dei giovani di alloradi reagire alla morte di Ciccio, di mettersi ditraverso alla sanguinosa faida di Cittanovadeterminò una “fase complessiva di risve-

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glio”. Andò avanti per diversi anni, nonostan-te “il mondo politico e istituzionale non abbiamai partecipato”, nonostante i ragazzi che sta-vano nelle piazze, che chiedevano rispostenon avvertissero “una solidarietà a più alto li-vello”.

Ma le cose stavano cambiando, il processoera ormai partito. Non solo nella FGCI e nelPCI. “Il confronto è stato positivo anche con igiovani della Democrazia cristiana, anche coni ragazzi di destra”.

Il risultato più evidente, plastico, fu che “gliorganismi dirigenti furono cambiati” anchecon l’assenso del “comitato provinciale chepuntò su questo forte movimento di lotta - ciriflette Morano - per farne la nuova classe di-rigente”.

Furono anni tumultuosi, quelli a cavallo tragli anni 70 e 80. Erano gli anni successivi aimoti per Reggio capoluogo, il periodo del pac-chetto Colombo che avrebbe portato l’univer-sità a Cosenza e il capoluogo di Regione a Ca-tanzaro. E che per la provincia di Reggio ave-va immaginato la grande industria: chimica aSaline Ioniche, siderurgica sulla Piana. En-trambi si rivelarono progetti fallimentari, en-

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trambi non entrarono mai in funzione. Mai.In ogni caso, a Gioia Tauro si iniziavano a

sbancare i terreni per far spazio al sogno delquinto centro siderurgico. Uno dei leader dellapolitica calabrese, il socialista Giacomo Manci-ni puntava molto sull’industrializzazione e laformazione di una classe operaia come elemen-to di rottura, di discontinuità tra la Calabriavecchia e la Calabria che doveva svilupparsi.

Era il fulcro della teoria degli stadi o dei pa-li di sviluppo di François Perroux, applicata inun contesto depresso economicamente. Laclasse operaia è elemento di cesura storica conquesta realtà. Anche perché la classe operaiaaveva dato segni eclatanti di una capacità dimobilitazione straordinaria. Molto spesso inprima linea nelle lotte per l’emancipazioneerano operai del Sud trapiantati al Nord.

In un primo momento, il movimento ope-raio accettò l’idea del governo. Non sapevanoin Calabria della crisi dell’acciaio, che già ilquarto centro a Taranto viveva una crisi strut-turale. Lo sapevano invece i governanti, ne eraperfettamente a conoscenza anche il buonGiulio Andreotti, allora ministro del Mezzo-giorno, che nel 1975 arrivò a Gioia Tauro per la

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posa della prima pietra di uno stabilimentoche prometteva 7.500 posti di lavoro, ma chenon avrebbe mai visto la luce. Quella primapietra, i reggini che sono orgogliosi gliela ri-portarono ad Andreotti: fecero un pullman egliela riconsegnarono a Roma.

Ma il sogno svanito creava disillusione. Nonsolo, la storia di quell’araba fenice servì a ca-pire, tardivamente purtroppo, che il lavoronon sarebbe arrivato e gli agricoltori perseroanche i loro agrumeti. Ne furono espropriati edistrutti mille ettari, in cambio di pochi spic-cioli. Fu completamente rasa al suolo la zonadi Eranova. Il vero lavoro, i soldi, la ricchezzaerano arrivati per le cosche.

Si dismetteva, finalmente, l’idea letterariadella ‘ndrangheta, tara storica del brigantag-gio, la narrazione di capibastone mitici o dalvolto buono, come se usciti direttamente daromanzi d’appendice. E, nello stesso tempo,cresceva la consapevolezza e la forza del mo-vimento dei giovani per il lavoro e l’occupa-zione, figlio del movimento bracciantile chenella piana negli anni 40 era riuscito a conqui-stare oltre mille ettari di terreno.

Con il passare del tempo si capì anche come

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fosse essenziale spostare l’asse dell’azione,dalla lotta per il lavoro alla lotta contro l’op-pressione mafiosa. Fu un grosso paradosso: laclasse bracciantile, i sindaci che difendevano ilterritorio, i sindacati, i giovani disoccupaticompresero che dovevano schierarsi contro la‘ndrangheta prima ancora di poter rivendicareil diritto al lavoro. Anche perché, con la com-plicità della classe dirigente, la ‘ndrangheta siera inserita nella gestione del flusso di denaropubblico e dei finanziamenti, nell’assegnazio-ne di appalti e subappalti.

Furono anche gli anni delle due correnti nelcomitato dei sindaci: da una parte il comuni-sta-antimafia Mommo Tripodi a Polistena,dall’altra il democristiano Vincenzo Gentile aGioia Tauro, medico personale dei boss dellacosca Piromalli e assassinato forse dalla stessacosca per uno sgarro.

La connivenza era palpabile già da allora.Perché, altra antinomia del pensiero, a un cer-to punto la classe politica di fatto non mandòpiù soldi in Calabria perché “si finanziava lamafia”.

Si notavano insomma i prodromi di un cam-biamento di sistema della criminalità organiz-

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zata, un mutamento di pelle. Non più la‘ndrangheta come associazione di ribelli, se-condo la tesi dello storico J. Eric Hobsbawn, nétanto meno la mafia come povertà recuperabi-le nell’accezione della vulgata comunista deglianni 60. L’immagine bucolica e rassicuranteveniva rimpiazzata dalla concezione della ma-fia imprenditrice e finanziaria, che impegnavai propri capitali nello smistamento di grossepartite di stupefacenti.

Furono anni difficili perché la Piana, da so-la, non avrebbe mai potuto farcela. Ed era for-te la sensazione che il problema della ‘ndran-gheta non venisse preso in considerazione se-riamente. Furono però anni positivi in quantomolte persone maturarono una coscienza criti-ca, di nuovo impegno per lo sviluppo del ter-ritorio, per il lavoro, contro la mafia.

Emblematica, in questo senso, è proprio lavicenda di Gioia Tauro, dall’inizio alla fine. Fucon l’illusione del centro siderurgico che, conColombo e Andreotti, si consumò l’ennesimotradimento nei confronti di un territorio in dif-ficoltà, fu con gli appalti del porto che i lavo-ratori capirono che le cosche si stavano arric-chendo (i magistrati sono riusciti a fare un

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quadro preciso, lira per lira, di come le cosche,su iniziativa dei potentissimi Piromalli diGioia Tauro, hanno diviso la torta). Fu la con-seguenza di questa scoperta la trasformazionedel movimento per il lavoro in movimento an-timafia. E fu proprio attorno a Gioia Tauro chematurò una straordinaria battaglia: quellacontro la centrale a carbone, la prima grandeaffermazione del movimento ambientalistaitaliano. Fallito il sogno dell’acciaio, l’Enelpensò di costruire una mega centrale a carbo-ne usando il porto come terminal. È ancoraAndreotti a dare l’ok per decreto.

Si aprì anzi una stagione di lotte politiche eproficue collaborazioni tra società civile e isti-tuzioni locali. “Lo scontro sulla centrale non fusolo tra chi voleva imporre un impianto deva-stante e chi lo rifiutava - ricorda Nuccio Baril-là, uno dei protagonisti di quei giorni - di fron-te ci furono due linee opposte di politica ener-getica e due diverse, e inconciliabili, visionidella democrazia, dello sviluppo, del ruolo edel futuro della Calabria”5. La battaglia culmi-nò il 22 dicembre 1985, giorno del referendum

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5 Dichiarazione resa a Diario nel dicembre 2005.

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autoconvocato sulla centrale: andarono alleurne quasi 36mila cittadini su 67mila aventidiritto, più che al referendum sulla scala mo-bile di sei mesi prima6. Non si è votato a GioiaTauro, proprio il comune che, oltre ad essere ilcentro maggiore della Piana, avrebbe dovutoospitare la centrale. L’amministrazione delsindaco Gentile, l’unica con quella di Rizzico-ni (su 36 comuni) ad accettare la decisione go-vernativa, si rifiutò di allestire i seggi elettora-li. Si scrolla di dosso l’etichetta di “nemico”Giacomo Mancini, schierato per il no, con l’al-lora segretario provinciale del PCI GiuseppeBova, con Edo Ronchi e Antonio Bassolino, Er-mete Realacci e Roberto Musacchio, con Rena-ta Ingrao e Saverio Zavettieri.

Ci fu una grandiosa mobilitazione per rifiu-tare una struttura che avrebbe dato lavoro acentinaia di giovani, ma che avrebbe compro-messo irrimediabilmente il territorio della Pia-na. Fu commovente l’andirivieni di studentiche facevano la spola tra un comune e l’altro,per informarsi sull’andamento della consulta-zione popolare.

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6 Nuccio Barillà, Calabria, dicembre 2005

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Alla fine, i no superarono il 97%. Al succes-so di sindaci capeggiati da Mommo Tripodi,associazioni, cittadini, studenti, pezzi impor-tanti di partiti e sindacati, Enel e governo ri-sposero in maniera tracotante. Ne nacqueroanni di tensioni che nel 1988 ebbero momentidi scontro anche fisico tra i movimenti che pic-chettavano i cantieri e la polizia che li avevaaggrediti. Fino a quando il tribunale di Palmiaccertò l’avvilente mosaico dell’intreccio poli-tico-affaristico-mafioso che si era cementatoattorno alla centrale. E l’Enel fu costretta a to-gliere il disturbo. Oggi a Gioia Tauro, dove sa-rebbe dovuta nascere la centrale, c’è uno deipiù grandi porti di transhipment del mondo. Eil merito è anche di quei movimenti.

Era anche questa la Piana di Gioia Tauro inquegli anni. “Storicamente nella Piana - spiegadon Pino De Masi - noi abbiamo una forte pre-senza della ‘ndrangheta e di una componenteche combatte la ‘ndrangheta. La compresenzadi questi due elementi determina che, in alcu-ni momenti, la contrapposizione divenga piùaspra, mentre in altri momenti più sotterranea.A fasi alterne: quest’antinomia ha segnato lastoria della lotta tra i due movimenti”.

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La verità, che fatica

Si disse che avevano assassinato Ciccio Vin-ci perché volevano colpire la sua famiglia, cheuna parentela alla lontana li avrebbe obbligatia entrare nella faida. Si disse anche che la suamorte era dovuta all’impegno politico alla lu-ce del sole contro le cosche. Al fatto che Ciccioera un ragazzo che si faceva sentire e che i clanvolevano spegnere questa voce contro. E partìsubito il tentativo mafioso di mettere in girodelle voci per insabbiare e depistare. Fa sem-pre così la mafia: uccide per rimuovere, gettadiscredito sulla vittima per cancellarne la me-moria. Insinuazioni basse e pettegolezzi tenta-vano di demolire un protagonista di grandelevatura della rinascita giovanile. Un diciot-tenne, impegnato in politica. Non era una mo-sca bianca, ma come raccontano le sorelle“Ciccio faceva sempre un passo in avanti inpiù rispetto agli altri”. Questo poteva renderloantipatico, inviso agli uomini d’onore, perché

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scoperchiava con la potente semplicità di alcu-ni ragionamenti il sistema che le cosche ave-vano creato con uno scontro efferato. In conte-sti del genere l’ignoranza e l’ignavia rendonopiù forti i criminali.

“Il meccanismo creato ad arte ha creato pro-blemi”, ha sostenuto recentemente Morano.“Era come se lo si volesse assassinare per la se-conda volta. Si è cercato di imbastire un’altracosa”.

Alla lunga la verità è venuta fuori, con net-tezza. Fu chiaro che Ciccio Vinci era estraneonon solo alla mafia, ma alla cultura mafiosa,alla mafiosità. Considerava la ‘ndrangheta uncancro contro cui schierarsi e lottare, una ra-gnatela da cui liberarsi. E pensava che si do-vesse prendere atto che la lotta per espungerladal tessuto sociale era prioritaria rispetto aqualunque altra cosa, se davvero l’obiettivoera lo sviluppo della Calabria. Ma fu chiaroanche che la morte di Ciccio Vinci non fu unomicidio politico-mafioso, e quindi una ven-detta delle cosche per il suo impegno.

Fu un drammatico errore il suo omicidio, ikiller avevano sparato pensando di colpireun’altra persona.

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Le indagini dei carabinieri arrivarono a unaconclusione il 24 marzo del 1979 quando furo-no arrestati Vincenzo Marvaso, Romeo Marva-so, Francesco Trimarchi e Gerardo Galluccio,tutti giovanissimi, con l’accusa di aver uccisoFrancesco Vinci. Uno degli arrestati era statoanche suo compagno di scuola. Secondo gli in-quirenti, l’agguato non era rivolto a CiccioVinci che “quella sera si era trovato occasio-nalmente a bordo della Campagnola”, si leggenel rapporto dell’Arma. Si scoprì anche, conrapporti confidenziali, che a sparare i colpi difucile era stato Vincenzo Marvaso e che la pi-stola l’aveva utilizzata Francesco Trimarchi. Icarabinieri erano giunti alla conclusione che ildelitto era maturato all’interno del contestodella faida, al quale Francesco “era estraneo”.Completamente estraneo.

Completata la fase istruttoria, il 10 febbraio1981 il rinvio a giudizio per i quattro indagati.In primo grado, nel giugno 1982, la Corte d’as-sise di Palmi condannò a 90 anni di reclusionetre dei quattro imputati. Fu assolto Romeo Mar-vaso. Il rappresentante dell’accusa, SalvatoreBoemi, che aveva chiesto 120 anni di carcere peri 4 imputati, aveva escluso la motivazione poli-

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tica dell’omicidio, sostenendo che il delitto do-veva essere inserito negli episodi della faida eaveva anche ricordato che in istruttoria i fratel-li Luigi e Vincenzo Facchineri, considerati i ca-pi del clan omonimo, erano stati prosciolti perinsufficienza di prove. In appello le pene ven-nero ridotte. La Corte valutò infatti che si trat-tava di giovani cresciuti in un ambiente di vio-lenza e saturati di continui insegnamenti e inci-tamenti alla sopraffazione e alla illegalità. Lacondanna a 24 anni ciascuno fu quindi ancheun invito a riflettere sui propri trascorsi e a ri-farsi una vita nella legalità e nel lavoro. Era ilprimo febbraio 1984: otto anni dopo l’omicidiosi chiudeva la parentesi processuale, le tesi del-l’accusa avevano tenuto. La guerra di mafia,per una triste fatalità, aveva provocato una vit-tima innocente, che peraltro, per attitudine na-turale e scelta consapevole, si era schierato con-tro il tracotante potere mafioso.

Di Ciccio restava il ricordo e il rimpianto.Morire a diciotto anni (“una vita troncata, tut-ta una vita da immaginare”, avrebbe dettoFrancesco Guccini), sfiorati dal “dubbio chevivere onestamente sia inutile” come scrivevaCorrado Alvaro. Oggi come allora.

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Vinci oggi, e domani

“Una rilettura attenta che parta dalle condi-zioni socio-economiche di quegli anni non èstata ancora fatta. Il paese ha risposto, l’omici-dio di Ciccio Vinci ha preparato un humus cul-turale e sociale per chi ha trovato la forza di ri-bellarsi”, commenta oggi Franco Morano. Cer-tamente da quell’esperienza di movimentonacque una generazione di amministratori im-pegnata contro le cosche, e certamente il brododi coltura fervido di quegli anni ha prodottofrutti rigogliosi.

Straordinaria fu l’esperienza di commer-cianti e imprenditori di Cittanova che denun-ciarono i tentativi di estorsione, si opposero al-le pressioni delle cosche, parlarono facendonomi e cognomi. Stava nascendo la prima as-sociazione antiracket d’Italia, l’Acipac.

Raccontava il procuratore di Palmi AgostinoCordova: “I soldati delle cosche a Cittanovaesagerano, mettono taglie insostenibili, i com-

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mercianti con il coraggio della disperazione cifanno sapere che sono pronti a resistere, di noisi fidano, li riforniamo di registratori, di mac-chine fotografiche micro, i volti e le voci deimafiosi vengono registrati, si fanno anche i ri-conoscimenti a futura memoria che salvano lavita ai testimoni, vivi o morti le loro testimo-nianze sono incancellabili e magari al giudiceCarnevale non basteranno, ma intanto noi chesiamo qui e li abbiamo mandati in galera ri-schiamo la pelle”7.

Persone normali, gli imprenditori che si ri-bellavano. Dodici imprenditori locali, stanchidi subire i taglieggiamenti, decisero che eragiunto il momento di dire no al pizzo e di de-nunciare. Nello smarrimento e nell’abisso del-la solitudine, scelsero di non arrendersi.

Furono scelte di disperazione forse, ma an-che di grande passione civile. Come quella diMaria Concetta Chiaro che tenne fuori dallaporta di casa gli estortori, che non permise lo-ro di entrare. Aveva appena 21 anni. MariaConcetta, era una studentessa di architettura eaveva deciso di ribellarsi ai taglieggiatori di

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7 Giorgio Bocca, op. cit.

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suo padre, un imprenditore ortofrutticolo. Fuquello uno dei momenti decisivi di questa sto-ria che anticipava in qualche modo l’antimafiasociale.

“Era una posizione necessaria - ha raccon-tato quasi 15 anni dopo Maria Concetta - ciabbiamo creduto tutti. Eravamo un gruppocoeso: siamo stati capaci di indicare una stra-da alternativa”. Non era mai capitato. I 12 im-prenditori cittanovesi fecero associazione, an-darono tutti in tribunale a denunciare e testi-moniare: ottennero le condanne dei loro aguz-zini. In primo grado e in appello. Non fu faci-le, allora: “Ci sono stati momenti di solitudine- confessa - Questa nuova situazione creavasmarrimento, per noi e per gli altri”. Resistet-tero, anche grazie alla “grossa mano avutadalle forze dell’ordine, dal pm Francesco Ne-ri, dal commissario Pino Cannizzaro e, neglianni a seguire, da Tano Grasso”. Fu la sceltagiusta, come spiegarono anche su giornali e tvnazionali: “Rappresentavamo l’esempio di co-me dovrebbe funzionare un’associazione anti-racket”, insiste Maria Concetta. E poi: “Dopole denunce mai nessuno di noi ebbe più pro-blemi”.

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Poi a cascata, la reazione. E anche oggi l’A-cipac gode di buona salute, raggruppa una ot-tantina di imprenditori non disposti a piegarsial racket. Ha raccontato Rocco Raso, commer-ciante di prodotti in edilizia e primo presiden-te dell’associazione: “Possiamo dire di non co-noscere il racket. Ci abbiamo guadagnato tut-ti, le nostre attività sono cresciute e non c’è sta-ta nessuna forma di ritorsione. Né da partedella gente né da parte della malavita”8.

Una grande lezione di civiltà veniva da que-sto pezzo di Calabria, proprio mentre in Sici-lia, nasceva l’esperienza dei commercianti diCapo d’Orlando e Libero Grassi insegnava che“pagare il pizzo significa dare forza ai mafiosi,non faccio accordi con i criminali per salva-guardare la mia attività”.

Oggi a Francesco Vinci è stata intitolata unavia di Cittanova e proprio su una delle piazzeprincipali del paese si affaccia la sezione deiDs che porta il suo nome. Omaggi sinceri, inun certo senso dovuti.

Infatti la capacità di Cittanova, nella qualerestano forti le contraddizioni e le difficoltà

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8 La Nuova Ecologia, ottobre 2006.

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per antichi e mai sopiti retaggi, di essere oggiriferimento nel suo territorio è anche eredità diun trentennio importante, del lavoro di tantiche sono stati protagonisti di pagine di resi-stenza civile, taciturna, portata avanti quandoancora i mass media non capivano cosa acca-deva in Calabria e i professionisti dell’antima-fia dovevano essere clonati.

Così oggi a Cittanova si avvertono le traccedi un impulso sociale lungo trent’anni che,certo, s’è innestato in un paese dal prestigiosopassato e dall’elevato livello di civiltà. Ma an-che in una realtà in cui resta sempre alto il ri-schio di perdere la bussola della legalità.

Che cos’altro resta di Francesco Vinci? Co-me avrebbe vissuto e raccontato i ragazzi diLocri? Cosa avrebbe pensato nel vedere il suoamico, Francesco Morano, sindaco? Come sisarebbe schierato nelle lotte contro l’elettro-dotto o il raddoppio del termovalorizzatoredella Piana? Cosa penserebbe della crisi di le-gittimazione del sistema istituzionale? Do-mande retoriche, e ovviamente senza risposta.

Era curioso e studioso, interessato ai feno-meni sociali e quindi Ciccio Vinci avrebbe sa-puto dare un contributo di elaborazione,

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avrebbe saputo offrire una chiave di letturadella Calabria di oggi. Di questo territorio, de-gli omicidi eccellenti e dei superpoteri ai pre-fetti, degli annunci di attenzione (tutti da va-lutare) del governo, delle tre università chesfornano a ciclo continuo laureati (ma che so-no troppo spesso disoccupati intellettuali), dellavoro nero e della disoccupazione, del disagiosociale e del ritardo culturale, del calcio dilet-tantistico in cui spesso prolifera la mafia, di uncarente senso di appartenenza, della legalità edella trasparenza, categorie troppo spessoastratte e di cui ci si appropria nelle parate dipiazza.

Forse starebbe a guardare con il risolino sar-donico e la maglia della Cittanovese, con la fa-scia di capitano stretta al braccio, come lo im-mortala una foto d’epoca. Per usare la metafo-ra calcistica, potrebbe essere forse un centro-mediano metodista o un fantasista della politi-ca. Magari si collocherebbe in mezzo al cam-po, generoso: instancabile centrocampista dilotta e di governo. Ma potrebbe anche preferi-re un posto per sfruttare i suoi spunti di crea-tività ed essere diventato un’ala sinistra allaGeorge Best.

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“Maledetto il popolo che ha bisogno di eroi”sosteneva Bertold Brecht. Ciccio non era affat-to un eroe. Era un ragazzo comune, non un ti-po rigidamente alternativo, preparato, ma nonsupponente. Francesco Vinci non fu un predi-catore solitario antimafia, un apologo del mar-xismo, un eroe o un fanatico del martirio. Eraun giovane come tanti in quegli anni, con unaformazione imbevuta di ideali solidaristici,che trovò la morte in maniera del tutto incon-sapevole. Ma fu ucciso dal piombo e dalla vio-lenza inammissibile dei clan, e non bisognadimenticarlo.

A Francesco Vinci è stato dedicato un monu-mento funebre, che si trova nel cimitero di Cit-tanova, che raffigura la tela di ragno, il coacer-vo di interessi torbidi che si aggrovigliano inmaniera contorta. Difficili da districare e daspezzare. Le mani che si agitano quasi spasmo-dicamente simboleggiano lo sforzo inesausto,il tentativo di liberarsi della cappa soffocante edi ottenere la rottura di una ragnatela, costrui-ta su cilindri di ferro non saldati ad indicareche, per quanto rigido, qualsiasi legame si puòrecidere. Mentre il cubo senza appoggio nell’a-ria è la vita sospesa, la griglia e l’esistenza

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spezzata, in una costruzione che ha qualcosa dipostmoderno, nella mancanza di uniformitàdello spazio. C’è anche un garofano, rosso ac-ceso, a creare un affascinante contrasto croma-tico. Un simulacro pieno di pathos, struggentenel metasignificato, più di alcuni faraonicimausolei.

Ci prova la Calabria, a realizzare il suo “bi-sogna spezzare questa ragnatela che ci oppri-me”, al di là di questo monumento che ne hadato una raffigurazione artistica. Così, dopotrent’anni, è stato possibile compiere anchenella Piana di Gioia Tauro, un atto eversivo, diuna potenza impressionante: trasformare unterreno di proprietà dei mafiosi in una fonte direddito per giovani delle cooperative. Una ri-voluzione antropologica e culturale avviatanel 2004 grazie a Libera e a don Pino De Masi,che ha promosso l’esperienza della cooperati-va sociale “Valle del Marro” e ha dato il “la”allo sfruttamento a fini produttivi (e positivi, elegali) dei terreni liberati dalle cosche dellaPiana, la prima esperienza in Calabria di lavo-ro su terre confiscate ai boss. Come Libera ave-va già fatto in Sicilia, con la cooperativa “Pla-cido Rizzotto”.

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Sono 11 i soci, firmatari dell’atto costitutivodella “Valle del Marro”, che si stanno occu-pando dei terreni agricoli confiscati ai clan neicomuni di Oppido Mamertina, Gioia Tauro,Rizziconi e Rosarno e che hanno cominciato avendere i prodotti con il marchio “Libera Ter-ra”. Coltivazione per eccellenza del territorio èl’olivo, pianta che caratterizza suggestivamen-te, con uliveti secolari, il territorio della Pianae che è anche un simbolo di pace. Ancor di piùnelle sacche martoriate dalla violenza della‘ndrangheta.

“È un lavoro lento che comincia a portaredei frutti”, dice don Pino. È un percorso natostando insieme ai ragazzi, provando ad aiu-tarli a essere protagonisti del cambiamento.Dal sogno ai segni, in un’accezione che non èsemantica o legata a giochi di parole. “Si è vi-sto che era il caso di esportare - puntualizzadon Pino - l’esperienza siciliana del riutilizzodei terreni, da strumento di sopraffazione amezzo di sostentamento”. Che qui in Cala-bria può creare altri “sintomi di emulazioni”,perché i terreni confiscati e riutilizzati sono“un segno positivo se non rimangono un ca-so isolato”.

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I segnali sono interessanti. “Abbiamo messoin pratica un’idea affascinante” che il territorioha vissuto “positivamente”. Viceversa, am-mette, “questa esperienza non poteva certo so-pravvivere”. E invece la Piana ha risposto be-ne. “Don Italo Calabrò - don Pino richiama ilprete dei poveri di Reggio Calabria - sostene-va che ‘nel coraggio delle istituzioni e dei pa-stori la gente ritrova il coraggio’”. Che signifi-ca che “se aiutata a schierarsi - insiste il sacer-dote di Libera - la galassia giovanile produceuna ricaduta sociale positiva nel territorio.Questi ragazzi non sono soli: è questo il mes-saggio lanciato ai mafiosi”. E non restano soli“neppure quando ricevono attacchi diretti del-le cosche”, come il sabotaggio dei macchinariavvenuto nell’ultimo scorcio del 2006.

Attorno all’esperienza della Valle del Marroè nata poi l’idea dei campi di lavoro antimafia,ancora sulle terre confiscate ai boss: un micro-cosmo che può essere un’incubatrice di impre-sa sana, un moltiplicatore di energie positive.Fare sentire la presenza dello Stato, non ab-bandonare i ragazzi che ci vogliono provare èun antidoto efficace alla protervia mafiosa. Equesti campi servono anche a fare rete con le

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realtà migliori del resto del Paese e a metterein piedi una sorta di marketing low cost moltoproduttivo, con risultati certamente più inte-ressanti, utili e duraturi di certe faraonichecampagne pubblicitarie. I partecipanti scopro-no, sovvertendo i pregiudizi di base, l’esisten-za una Calabria diversa, che non finisce nellecopertine dei giornali e sul palco del festival diSanremo, più silenziosa, diversa anche se dal-la voce flebile. Può cambiare la percezione ne-gativa stagnante e di assoluta superficialità neiconfronti della ‘ndrangheta o di totale incom-prensione del fenomeno malavitoso, che poiculmina nelle semplificazioni speculative bru-tali.

Così nel luglio 2006, Libera ha organizzatouno dei suoi campi di lavoro nella Piana diGioia Tauro (che ha avuto il quartier generalea Cittanova) e l’ha dedicato proprio a CiccioVinci. Segno che, malgrado il trascorrere deglianni, il suo sacrificio non è stato dimenticato.E anche a parziale risarcimento alla sua me-moria, visto che solo quest’estate il nome diCiccio Vinci è stato inserito da Libera nell’e-lenco delle vittime innocenti delle mafie, cheviene letto per la prima volta il 21 marzo 2007

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a Polistena in occasione della giornata nazio-nale della memoria delle vittime.

L’idea è quella di rovesciare il pregiudizio difondo: “Sui terreni confiscati - racconta donDe Masi - sono già passati 250 giovani”. Sonoarrivati da tutta Italia, credenti e non credenti,dagli scout dell’Agesci ai gruppi parrocchiali,fino all’Arci e alle associazioni laiche. “Di Ca-labria avevano solo sentito parlare ed eranoincuriositi - racconta ancora il sacerdote di Po-listena - vogliosi di capire le dinamiche socia-li, non con una mentalità colonialistica, di ca-pire il nuovo che sta nascendo in Calabria”. Laconclusione è stata realistica ma incoraggian-te: “Se ne sono andati convinti che esista un’al-tra Calabria, pur notando lo sfacelo esistente”.Se ne sono andati conoscendo un pezzo di sto-ria in più di questo territorio, quella di Ciccio:“Era importante che le nuove generazioni -sentenzia De Masi - conoscessero il sacrificiodi questo ragazzo, in un’epoca in cui tutto ciònon era affatto scontato. Per questo gli abbia-mo dedicato il campo di lavoro”. Per questoha ancora un senso l’esercizio della memoria.Magari condivisa e dal basso.

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Per Rocco Gatto

Storia di un uomo onesto

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“Non ci è mai indifferente- e non potrà mai esserlo -

la contrada dove siamo stati gettati” Mario Alcaro

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A dieci passi

Nati nello stesso paese, vissuti lì nelle stessevie e piazze, nelle campagne e nelle scarpatedella Vallata del Torbido. A pochi passi, sem-pre. Costretti a incontrarsi al bar, durante le fe-ste, lungo le strade. I Gatto e gli Ursini, due ca-sate diverse, entrambe di origini contadine,ma con storie che si allontanano presto. Vicen-de che sembrano non doversi mai incontrare,sovrapporre, incrociare: da un lato la cosca cheguida le ‘ndrine di Gioiosa Ionica e si fa largonella Locride, dall’altro una famiglia patriar-cale, di gente che vive del sudore, del lavoro,di gente onesta.

Eppure Rocco Gatto l’ha sentito da sempreil fiato sul collo, le occhiate del capobastone,gli sguardi degli affiliati. Sempre lì, a non dar-gli tregua. Non c’era giorno che, affacciandosidalla porta del mulino di via Gramsci, non livedesse gli ‘ndranghetisti, fermi a controllare,a vigilare, a studiare nuove forme di sfrutta-mento. Fermi in piazza Vittorio Veneto, la

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piazza del mercato, teatro della sfida del clanalle istituzioni e della resistenza del mugnaiocomunista. Anche durante il lavoro, mentrecon il suo furgone andava a prendere i sacchidi grano da macinare e poi li riportava pieni difarina, Rocco ne sentiva la presenza. Nelle con-trade periferiche, fatte di campi e valloni. AdArmo dove ha trovato la morte, a Prisdarello, aCessarè tra i castagneti, le vigne, le villette e levacche sacre del clan. E addirittura al cimitero,lì l’una di fronte all’altra le cappelle delle duefamiglie. A neanche dieci passi. Quella dei Gat-to, con Rocco che riposa con la madre e daqualche anno con il padre. E quella degli Ursi-ni, con i morti ammazzati della cosca.

Da vivo e anche da morto, su Rocco Gattoincombe sempre la presenza della mafia. Diquella mentalità totalizzante, invadente e pre-varicatrice. Lui non ha mai accettato di piegar-si, di far finta di nulla, di cedere un metro alnemico. Anche se la logica conseguenza - percalcolo razionale, per le minacce ricevute e peri consigli e gli avvertimenti degli amici - nonlasciava altra alternativa che una conclusionetragica come quella del 12 marzo 1977. Rocconon ha mai nemmeno pensato di lasciare latrincea, di abbandonare il mulino, che aveva

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messo in piedi con anni ed anni di sacrificieroici. O magari di lasciare quel paese cheamava, Gioiosa Ionica, profonda Calabria,estrema periferia reggina. Era la sua terra, c’e-ra la sua famiglia, che amava forse al di sopradi se stesso. C’erano i suoi amici, per i qualiRocco era disposto a togliersi il pane di bocca.Lì c’era la sua vita, fatta di lavoro onesto. Sen-za compromessi. Un mix fatale, una costantenelle storie di uomini come Rocco: l’amore perla propria terra e per le proprie origini, l’attac-camento alla famiglia e ai luoghi, il senso del-la giustizia. Non te ne vai neanche se tutto tidice di farlo, non molli neanche se spesso nonci sarebbe realmente altra alternativa.

Rocco era così. Un uomo buono, altruista,ma tutto d’un pezzo. Un comunista maturatonel primo dopoguerra, con quel senso dell’im-pegno quotidiano, con la mentalità da conta-dino. Si era iscritto al PCI, forse seguendo l’in-dole battagliera del padre Pasquale. Le virtùdi Rocco non emergevano magari alle riunioniin sezione, nella vita di partito o nelle discus-sioni sulla politica. Ma nell’esempio. Portatofino alle estreme conseguenze, senza calcolo,nel bene e nel male.

Un atteggiamento naturale che lo ha porta-

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to a schierarsi al fianco dei cristiani “dissiden-ti” raccolti attorno alla figura di don NataleBianchi, che lo ha visto considerare amici i ca-rabinieri e nemici acerrimi gli ‘ndranghetisti.Un dato di fatto forse banale oggi, non sconta-to nel passato. Perché la mafia dello Ionio reg-gino ha una tradizione di contrapposizione al-lo Stato che l’ha portata spesso sulle posizionipolitiche del PCI. Perché la leggenda della‘ndrangheta vuole le cosche animate da un fie-ro spirito popolare. Perché le forze dell’ordineavrebbero potuto rappresentare se non un ne-mico comune - e spesso lo sono state, anche inCalabria - quantomeno un qualcosa di cui nonfidarsi troppo. Mistificazioni e contraddizionisono poi venute a galla. E Rocco ha saputo dis-farsi di zavorre e arnesi arrugginiti, vederenella ‘ndrangheta il padrone e nei carabinieridel mitico capitano Niglio gli alleati.

Rocco è un uomo che emerge perché impa-vido nel portare avanti quella che dovrebbeessere la normalità. Un esempio che, per unavolta, restituisce l’orgoglio di essere calabresi.Fieri, testardi e giusti. Che dà il giusto meritoa chi è stato comunista in Calabria, in queglianni di guerra.

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Il paese, la famiglia, il clan

Settemila anime, un piccolo centro agricolo,uno snodo commerciale in un’area non riccadella non ricca provincia di Reggio Calabria. Èquesta Gioiosa negli anni 60 e 70, un piccolopaese che lascia lo sbocco al mare Ionio alla ge-mella Marina di Gioiosa. Un altro luogo, un al-tro comune, un’altra cosca.

Nascono e vivono nella Locride i Gatto. Pri-ma di partire in cerca di fortuna, qualcuno alNord per lavoro, qualcun altro per studio. Conla famiglia come epicentro, come forza di gra-vità attorno a cui far ruotare la vita. PasqualeGatto è un uomo di granito. Anche lui comu-nista, stalinista convinto dirà. Ma di quelli de-gli anni 30, del sogno e del mito. Un proletarioin senso stretto: da povero, mette su una fami-glia che conta quindici nati. Solo dieci supere-ranno lo svezzamento. Il primo è Rocco, laguida, l’ultimo Mario “u cotrareddu”, un mo-do affettuoso per dire che sarà sempre il ra-

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gazzino, il più piccolo, anche da adulto abile earruolato.

Pasquale, il capostipite, è della classe di fer-ro 1907. Tempi duri. Lui tiene, a 19 anni è giàpadre di Rocco, che nasce il 28 agosto ’26. Glialtri fratelli seguono a ruota. La famiglia s’al-larga, la fame bussa. Pasquale di mettere la ca-micia nera non ne vuole sapere, il fascismo locombatte. Fierezza di famiglia. Anche i premi,quelli per le famiglie numerose, li rispedisce almittente, la roba del Duce non la vuole. È unpersonaggio incredibile, dalla biografia ecce-zionale. Orgoglioso, ma non tanto stupido danon abbassarsi al commercio clandestino digrano, in tempi di tessera alimentare, per sfa-mare la prole numerosa. E così fu arrestato perun sacco da dieci chili, racconta Ciccillo, il fra-tello che più degli altri ha vissuto accanto aRocco. Erano gli anni 40. La guardia che lo sor-prese, lo portò a piedi da Santo Stefano d’A-spromonte a Grotteria, poi di lì a Gioiosa equindi al carcere di Locri. Sei mesi. Ciccillo ri-corda che insieme a Rocco andavano ai collo-qui ogni giovedì. A piedi e scalzi. Magari sen-za nulla da mangiare. Ciccillo aveva quattroanni. Poco dopo cominciò a frequentare i cam-

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pi, sempre con il fratello Rocco ad istruirlo al-la vita.

Da piccolo, dunque, Rocco ha questo ruolodi chioccia, di guida, che svilupperà fino a di-ventare iperprotettivo verso la famiglia. Tantoche la madre racconterà a Mario un episodiosingolare: andavano a lavare i panni e Rocco,che aveva fame, non si lamentava. Piuttosto sipreoccupava della mamma, dicendo che dagrande avrebbe fatto in modo di non far man-care il pane neanche agli altri. Il gesto di unbambino che però è rivelatore, data l’originedel suo altruismo. Una persona generosissima,nel ricordo degli amici, dei fratelli, di chi lo co-nobbe. “Lavorava per tutti”, a parlare è Ciccil-lo. “Tutto quello che faceva lo faceva per la fa-miglia prima e per gli amici poi, mai per sé”,conferma Mario. Dagli orologi, la sua grandepassione, alle auto, il suo pallino, Rocco nonbadava ai soldi. Riparava le cipolle d’epocanel suo laboratorio nel retro del mulino, leportavano da tutta la Calabria. E lo faceva peramore della tecnica, magari senza prendereuna lira. I mezzi, poi, li acquistava per gli altri.Tante autovetture prese e consumate sullastrada da amici e parenti. Tanto che l’ultima

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auto, una Lancia 2000, era un po’ il mezzo dirappresentanza del paese: quando venivaqualcuno di importante, ci si faceva prestare lamacchina da Rocco per accoglierlo. E lui era lìpronto, raccontano, a dare le chiavi dopo averriempito il serbatoio di benzina.

“Un fratello dalle mani bucate”, dice conbonarietà Mario. “Aveva una fiducia immensanegli altri. A volte litigavano con Ciccillo, melo ricordo bene, perché Rocco consegnava lafarina senza appuntare le quantità e i creditivantati. Non aveva neanche un taccuino, an-dava così, sulla fiducia”.

Iscritto di vecchia data al PCI, amante dellacaccia e della montagna, appassionato di vec-chi orologi. Al mulino di via Gramsci tuttoparla ancora oggi di Rocco. Ci sono le bandie-re rosse e i manifesti comunisti. Ci sono gliopuscoli dei cacciatori e le preziose scatole coni cimeli dalle lancette d’altri tempi. In un an-golo ci sono ancora gli stivali di gomma, quel-li che usava per andare a funghi. Ciccillo, chedel mulino è l’altra anima, mostra tutto con or-goglio, così come fiero - anche lui si dice stali-nista - tira fuori la cipolla donata dal PCI allamemoria di Rocco.

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Rocco era soprattutto un lavoratore infatica-bile. Ha lavorato sempre, dopo aver conclusole elementari e magari anche prima. Da garzo-ne aiuta il padre nel mulino di Pirgo di Grot-teria. Nel ’40 passa nel libro paga dei Panuc-cio, che lavorano il grano nello stabile di piaz-za Dogali a Gioiosa. Da dipendente, diventeràsocio nel ‘56. E infine nel ’64 proprietario, in-sieme al fratello Ciccillo, ex sarto e grandesuonatore di tromba per banda. È la vetta, maanche l’inizio dei guai, dei tormenti, della lun-ga guerra fatta di tredici anni di angherie e re-sistenza.

Anche gli Ursini vengono dalla povertà del-le campagne. Anche questa una famiglia rura-le e numerosa: dieci i figli messi al mondo daPasquale Ursini e Maria Teresa Femia9. Duecognomi che si sentiranno spesso nelle crona-che reggine degli anni 70, insieme all’altro ra-mo della cosca, i Macrì. Un particolare può es-sere indicativo: neanche i membri del clan,questa volta in senso letterale, sanno con cer-tezza quale sia la dizione corretta del loro co-

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9 La storia del casato è ricostruita in Cessarè di B. Gemelli, P. Melia, FramaSud-Ursini Editore 1980.

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gnome, Ursini o Ursino? La prima sembraquella giusta. Ma in alcuni casi fratelli e nipo-ti si ritroveranno addirittura registrati all’ana-grafe col cognome diverso.

Vengono dalle campagne ed è lì che voglio-no spadroneggiare, dedicandosi presto all’abi-geato, alle guardianie, al pascolo abusivo nellecampagne di Cessarè, la contrada collinare diGioiosa. Cominciano a imporre il pizzo in pae-se, a dedicarsi alla vendita dei prodotti casea-ri, rafforzando l’influenza nell’area grazie al-l’alleanza coi Gallizzi di Martone, le parentelecoi Cotrona, l’inglobamento nella cosca dei Si-monetta e dei famigerati Ierinò, quelli che poinegli anni 90 prenderanno in mano la fiorenteindustria dei sequestri in Aspromonte.

È nel ’74 che gli Ursini decidono il salto diqualità, vogliono entrare nel business delle si-garette e nel nuovo affare della droga. Sentonoil profumo dei soldi veri, che già scorrono afiumi nelle casse degli altri clan della provin-cia, meglio organizzati e pronti a cavalcarel’onda. Sono anni importanti, decisivi. La‘ndrangheta va verso la prima grande trasfor-mazione, la prima vera guerra, l’ingresso nelmondo degli appalti pubblici e della politica.

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Gli Ursini non vogliono restare al palo, ma perpartire servono i capitali, l’accumulazione ori-ginaria. E allora si fa come fanno gli altri, coisequestri di persona. O meglio provano a far-lo, collezionando una serie di insuccessi.

Altra questione da affrontare, quello delpredominio territoriale. Come ogni aziendache vuole espandersi, puntano a far fuori laconcorrenza locale. E s’alleano con gli Scali-Aquino di Marina di Gioiosa Ionica per mette-re a riposo i Mazzarella. Scelgono il clan gio-vane, emergente, rampante. Una filosofia im-personata dal bandito Scali, la primula rossadella Vallata del Torbido. Un altro passo falso:il capobastone rivale morirà, ma Nicola Scaliverrà presto arrestato, così come Turi Aquino,e morirà suicida nel manicomio criminale diBarcellona Pozzo di Gotto. Insuccessi, sceltemal calibrate, decisioni azzardate per gli Ursi-ni, tanto che alla fine degli anni 70 si moltipli-cheranno i lutti, gli arresti e le azioni giudizia-rie nei confronti della famiglia. A partire dal’75, quando a morire è Rocco Ursini, duranteun tentativo di rapina a Serra San Bruno. Pas-sando per la morte di Vincenzo Ursini, uccisoin un conflitto a fuoco dai carabinieri e vendi-

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cato con il raid al mercato di Gioiosa per im-porre il lutto cittadino. Una vicenda che porte-rà Rocco Gatto alla morte. E il clan alla sbarrasu tre fronti, con addosso gli occhi dell’opinio-ne pubblica nazionale, mobilitata dopo l’as-sassinio del mugnaio rosso: il processo per lamafia dei prati, quello per il raid e appunto ilprocedimento per l’omicidio Gatto.

Tanto basta per far passare il bastone del co-mando alle ‘ndrine subordinate, quelle deiGallizzi e dei Cotrona prima, quelle dei Macrìe degli Ierinò dopo.

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Guerra di ‘ndranghetaguerra alla ‘ndrangheta

Il 20 gennaio ’75 accade l’impensabile, o for-se l’inevitabile: esce di scena il boss dei boss, ilpadrino di Calabria, don ‘Ntoni Macrì da Si-derno, settant’anni d’età e cinquanta di domi-nio. Lo falciano sulla sua Renault R-5 con mi-tra e pistola insieme al suo guardaspalle e so-dale, Giuseppe Commisso, che resterà grave-mente menomato. Avevano appena finito digiocare a bocce, come facevano spesso. È l’attoche dà una dimensione internazionale alla pri-ma guerra di ‘ndrangheta. Perché u zi ‘Ntoninon è solo un capobastone rispettatissimo, maè anche un affiliato a Cosa nostra, uno dei pez-zi da novanta ascoltato anche dai comparid’America e d’Australia. La sua morte sanci-sce la fine della vecchia mafia, il potenziamen-to dei traffici internazionali di droga, l’intensi-ficazione dell’industria dei sequestri. Ma an-che il sodalizio tra la ‘ndrangheta e i veri po-

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tenti, quelli con cappuccio, la squadra e il com-passo. Tutto si rimescola, insomma. Ancheperché, oltre alla droga, bisogna spartire l’e-norme torta degli appalti pubblici, dall’auto-strada ai raddoppi ferroviari, dalle trasversalialla statale 106, ma soprattutto ci sono i lavoridel quinto centro siderurgico - proprio nel ’75Giulio Andreotti arriva a Gioia Tauro per laposa della prima pietra - e degli stabilimenti diSaline Ioniche, i frutti avvelenati della Rivoltadi Reggio del ’70 e del conseguente pacchettoColombo. D’oltreoceano è arrivato probabil-mente il placet per fare tabula rasa dei vecchicapibastone. Quel che è certo, comunque, èche il cosiddetto Siderno group, la holding in-ternazionale del malaffare made in Locride,diventerà ben presto una delle principali mul-tinazionali della droga.

Il primo della vecchia guardia a pagare è ilpresidentissimo del summit di Montalto, Giu-seppe Zappia. Ne è passato di tempo dal ’69,da quando sedeva sul trono di legno in Aspro-monte, a reggere le fila dell’assemblea plena-ria della ‘ndrangheta calabrese. Nel gennaio’75 vede con i propri occhi un figlio morireammazzato e l’altro rotolarsi in terra, grave-

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mente ferito dalle pallottole. E più di una vol-ta vede la morte in faccia, attentati falliti perun soffio.

Il prologo è a Reggio, dove matura lo scon-tro alla morte tra il vecchio mammasantissimadon Mico Tripodo di Sambatello e gli emer-genti De Stefano di Archi. Si scannano per ilpredominio. Prima lo scontro è a bassa inten-sità, con le provocazioni, le vendette trasver-sali. Sono i ribaldi di Archi a mordere il freno,forti della gioventù, dei traffici di droga e ar-mi, dei rapporti coi massoni, con l’estrema de-stra, del rispetto dell’altro grande della‘ndrangheta, don Mommo Piromalli da GioiaTauro. L’unico dei vecchi che dice subito sì al-la droga, ai sequestri, alla verticalizzazionedelle cosche, alle logge coperte, al potere sen-za confini e ai fiumi di denaro da spartire conchi ci sta.

La guerra esplode il 24 novembre ’74, con lastrage del Roof Garden, il salotto buono dellacittà, il bar con vista sul Lungomare, il palazzopiù bello della città, oggi abbandonato senzamotivo. Quel giorno ammazzano come un ca-ne Giovanni De Stefano e feriscono Giorgio.Non l’avessero mai fatto. Fino al ’79 è una ca-

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tena di morti, omicidi, sparatorie, stragi, bom-be, proiettili, di tutto. Cadono altri big, comePaolo Equisoni, boss di Bova Marina. Ma so-prattutto cade il rivale degli arcoti, don Mico.Prima finisce nella rete dei carabinieri in pro-vincia di Caserta. Poi nell’agosto ’76 è giusti-ziato in carcere, a Poggioreale, da due sicari ar-mati dal leader della Nuova camorra organiz-zata, Raffaele Cutolo. Un omicidio su commis-sione, per fare un favore ai compari De Stefa-no, che ricambiano con duecento milioni sul-l’unghia e appoggio incondizionato al profes-sore.

Non pago, don Paolino De Stefano - coluiche prenderà il ruolo di “Garibaldi”, reggentedi tutta la ‘ndrangheta calabrese - ad armi de-poste vorrà la testa del killer di suo fratelloservita su un vassoio d’argento. E gliela porte-ranno davvero. Si dice che sia stato proprio luiad ordinare l’assassinio di Antonino Macrì.Forse è una leggenda, ma qualcosa di vero c’èsenza dubbio. Perché don Macrì c’aveva mes-so la sua parola per garantire la tregua a Reg-gio. Lui, amicissimo di compare Tripodo, ave-va imposto alle armi di tacere, forte del suoprestigio. E il conflitto nascente avrebbe forse

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potuto prendere un’altra piega se don ‘Ntonifosse rimasto in vita. Ma il blitz del Roof Gar-den - i tripodiani diranno si sia trattato di unatto non ordinato dalla cosca - dà al re di Archila legittimazione ad osare la scalata al poteremafioso.

Un contesto fluido, magmatico, incande-scente. È in questi anni che gli Ursini pensanodi imporsi nella zona, approfittando del ciclo-ne reggino. Ed è in quegli anni che il movi-mento antimafia si estende dalla Locride e dal-la Piana all’intera Calabria. Perché è proprio lìche nasce la reazione, nelle campagne dellaprovincia, con le lotte contadine per la terra,contro i latifondi dove a fare da campieri sonogli ‘ndranghetisti. Con le lotte delle gelsomi-naie. E poi con i primi movimenti giovanili,dagli anarchici di Africo Nuovo ai militantidella sinistra reggina, che durante la Rivoltascoprono le trame che legano mafia ed ever-sione nera. Passando per il movimento per illavoro di Rosarno, ben presto anima dell’anti-mafia. Raccoglieranno il testimone, scendendoin piazza perfino a Gioia Tauro al grido di “Pi-romalli fuori dalla Piana”. Daranno del filo datorcere ai mafiosi. Uomini come Peppe Vala-

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rioti, caduto per mano della ‘ndrangheta, ePeppino Lavorato, grande sindaco antimafiadi Rosarno.

Sono storie poco raccontate. Di ragazzi giu-sti ed eroici, come i cinque anarchici regginiammazzati sulla strada per Roma10, come l’a-narchico Giovanni Palamara e il prete del dis-senso Natale Bianchi, fieri avversari del pretefilo-mafioso don Giovanni Stilo l’africoto11.Storie che arrivano ad avere una eco naziona-le, ma che non lasciano traccia nella biografiaufficiale dell’antimafia italiana né tanto menocalabrese, soprattutto dopo che la comunitàcomunista cesserà di esistere in quanto tale edisperderà il proprio patrimonio di valori,identità, memoria. Eppure si tratta di vicende

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10 Si tratta di Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso,Annalise Borth, morti il 26 settembre ’70 in seguito ad un incidente stra-dale sull’A1, nei pressi di Ferentino. Stavano per raggiungere Roma, ave-vano a bordo un dossier sulla Rivolta, probabilmente con le prove dei le-gami tra i neofascisti, la ‘ndrangheta e la strage del 22 luglio ’70, sei mor-ti a causa del deragliamento della Freccia del Sud, provocato dall’esplo-sione di cariche di tritolo sui binari, nei pressi di Gioia Tauro. L’auto deiragazzi finisce contro un camion di una delle ditte del principe nero Ju-nio Valerio Borghese. Una storia raccontata da Fabio Cuzzola nel libroCinque anarchici del Sud, Città del Sole Edizioni, 2001.11 Personaggi e vicende sono raccontati nel libro Africo, Corrado Stajano,Einaudi, 1979.

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drammatiche, di personaggi di spessore, diprese di posizione radicali in un contesto difrontiera estrema. Quel che è oggi l’antimafiain Calabria passa da lì, dall’opera democraticadel PCI, dall’impegno dal basso degli onesti eda poco altro.

Gioiosa sembra essere il cuore pulsante del-la battaglia, il laboratorio della resistenza alla‘ndrangheta. Nel piccolo centro della Locrideil PCI è sempre stato forte, la sinistra governadal dopoguerra quasi ininterrottamente. E ne-gli anni 70 emerge la figura di Francesco Mo-dafferi, il sindaco rosso passato alla storia peravere portato per la prima volta in Italia unComune a costituirsi parte civile in un proces-so di mafia. Gioiosa e Modafferi vantano an-che un altro record, il primo sciopero contro lacriminalità. Ne scriveranno i principali quoti-diani e la vicenda sarà raccontata anche Ol-tralpe, sulla stampa francese. Un evento chesegue quello che è forse il più clamoroso attodi sfida della ‘ndrangheta di quegli anni: l’uc-cisione dell’avvocato generale dello StatoFrancesco Ferlaino, avvenuta il 3 luglio ’75. Latensione in quei mesi è palpabile, il caso Cala-bria è all’ordine del giorno. Mentre il deputato

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Salvatore Frasca chiede con forza l’estensionedella commissione parlamentare antimafia al-la Calabria, nasce la prima, fallimentare, com-missione regionale contro la ‘ndrangheta. Ar-riva poi la risposta dal basso, con la serrata diGioiosa, stanca dell’escalation criminale degliultimi mesi, della morsa del racket. Tutto ilpaese si ferma il 29 dicembre ’75, tutte le isti-tuzioni maggiormente rappresentative sonoriunite al Supercinema. Ci sono il neopresi-dente dell’antimafia calabrese, il locrese DCPasquale Barbaro, poi Mommo Tripodi da Po-listena, altro storico sindaco rosso nemico del-le cosche, e ancora il deputato PCI FrancescoMartorelli e lo stesso Frasca. Un grande even-to simbolico. Al quale gli Ursini replicano, aneanche un paio d’ore dalla manifestazione,con un pronto tentativo di rapina in unagioielleria del centro.

Il ’76 è l’anno del grande dibattito. Si partecon il convegno su mafia, Stato e società a Reg-gio. Un’occasione per ribadire, quantomeno,che la ‘ndrangheta esiste ed è forte. Non è af-fatto scontato, visto che al questionario propo-sto dal presidente Barbaro risponderanno sol-tanto pochissimi Comuni. E visto che, fatto an-

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cora più grave, nel primo processone alla ma-fia calabrese12, quello di Reggio del ’78, solodue sindaci parleranno apertamente dellepressioni delle ‘ndrine, gli altri saranno muti eomertosi. All’ennesima proposta di spedirel’esercito in Calabria - già una volta nel dopo-guerra dovette intervenire niente meno cheCorrado Alvaro, per ricordare a lor signori d’I-talia che al Sud nulla si risolve solo con i me-todi da ordine pubblico - scoppia la polemicafurente. Anche perché nessuno digerisce i car-telli che spuntano in Aspromonte e che invita-no i passanti a fare attenzione per “pericolo diconflitti”. Sembrano gli anni dei piemontesi edei briganti.

Ma quel tempo è passato, la mafia è una co-sa ben oleata e organizzata. Impressionante epericolosa, dirà la delegazione che il PCI inviaper indagare sul fenomeno. Un viaggio guida-to dall’ex partigiano Ugo Pecchioli. I comuni-sti mettono il dito nella piaga, facendo emer-

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12 L’allora giudice istruttore Agostino Cordova convocò 33 primi cittadi-ni. Risposero affermativamente soltanto il sindaco di Cittanova ArturoZito de Leonardis e quello di Polistena Mommo Tripodi. Nella sentenzaviene data una definizione del reato di associazione mafiosa identica aquella che poi entrerà nel codice penale nell’articolo 416 bis.

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gere quei legami tra criminalità e politica, traamministrazione pubblica e imprese edili ma-lavitose. Parole che torneranno d’attualitàquando, nell’aprile del ’77 la strage di Razzà diTaurianova aprirà un piccolo squarcio sullezone grigie della politica13. Un caso che spostal’attenzione nazionale sulla Calabria. Per po-co, giusto il tempo di distogliere per un attimolo sguardo dagli anni di piombo. Allora, infat-ti, si è già cominciato a sparare. L’11 marzo ca-de a Bologna, durante una manifestazione, ilmilitante di Lotta continua Francesco Lorusso,ucciso dalla polizia. Qualche ora dopo è il tur-no di Rocco. Mafia, eversione, repressione.

Gioiosa è anche la terra che adotta altri uo-mini eccezionali. Natale Bianchi dedica i suoimigliori anni alla Locride. Originario di Vare-se, parte prestissimo missionario in Thailandiae in India. Nel ’70, complice una visita nellebaraccopoli post-alluvione di Canolo Nuovo,decide di dedicare le proprie energie alla Cala-bria. Arrivando nel ’73 alla parrocchia di San

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13 Due carabinieri morti, due malavitosi caduti è il bilancio della retata.Un controllo casuale in un casolare di campagna che si è trasformato intragedia. Perché l’arrivo dei militari interrompe un summit dai protago-nisti innominabili.

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Rocco a Gioiosa. La battaglia, neanche a dirlo,inizia subito. Da vicerettore del seminario diLocri e da insegnante alle medie, Natale Bian-chi si scontra subito con le oligarchie religiosee con il corpo docenti. In quegli anni non è am-messo che un prete, di sinistra, si occupi di po-litica. Don Natale non ne vuole sapere e, al-l’ennesimo omicidio efferato, fa scendere inpiazza i ragazzi delle scuole. Il vescovo Fran-cesco Tortora gli comminerà la prima sanzionedi una lunga lista. “Il compito di un pastore èdi occuparsi delle anime, non dei corpi”. Ma èsulla figura di Don Stilo che Bianchi si gioca lapermanenza nel clero ufficiale. Non accetta isilenzi della curia su una figura che, ormai og-gi senza ombra di dubbio, appare pericolosa-mente vicina agli ambienti mafiosi. Storica lariunione dei religiosi della diocesi, raccontatada Stajano, durante la quale don Bianchi rice-ve minaccia pubblica di morte dal potente diAfrico: “Ti schiaccerò come una mosca”. E co-sì fu: morte civile, isolamento, esclusione. Maa Natale Bianchi delle convenzioni e delle ge-rarchie non è importato mai nulla. Da subito aGioiosa si è dedicato alla sostanza, al riscattodelle donne, alla lotta alla ‘ndrangheta. Rac-

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conta con rabbia della madre-matrigna, dellaChiesa d’Oriente carica di ori, mentre a pochimetri masse di diseredati muoiono di stenti.Racconta del padre-padrone, quel dio in nomedel quale le donne gioiosane strisciavano conla lingua in terra dalle scale della chiesa all’al-tare. Racconta delle vischiosità, così le chiama,dei rapporti stretti tra ‘ndrangheta e istituzio-ni, delle commistioni, di quel clima che ha por-tato oggi all’inaugurazione di un museo dedi-cato a Don Stilo, addirittura con il plauso del-la diocesi.

Sensibile alla teologia della liberazione, aifermenti del concilio, prete del dissenso in-somma, don Bianchi trasforma la parrocchiadi San Rocco in una comunità di base. Avan-guardia religiosa prima, civile e democraticadopo. Perché Natale Bianchi dal clero ufficialesarà espulso. Nel settembre ’75 arriva la so-spensione a divinis e inizia il lungo contenzio-so legale per la sede della parrocchia. Sui mu-ri della chiesa appaiono gli striscioni, i taze-bao. “La chiesa è del popolo”. Fermenti chedanno risultati eccezionali. La festa di SanRocco, negli anni della comunità, è sottratta al-la guida mafiosa, è gestita in trasparenza, coi

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bilanci pubblici, Un’idea anticipatrice. I fedelisono con don Natale. Fino all’ultimo. E anchedopo: la comunità si lancia nel mondo dellecooperative sociali. Anche in questo caso Bian-chi è un pioniere. Questa sfida la vince, anchese la sua coop tessile deve oggi cedere il passoalla globalizzazione. Da allora, dal 1980, nellaLocride la cultura delle cooperative è passata,ha dato frutti notevoli. Vive ancora lì NataleBianchi, che nel frattempo si è sposato. Vive epensa a come dare nuova linfa alla lotta.

A Gioiosa passa in quegli altri un’altra figu-ra di spessore. È il capitano Gennaro Niglio,carabiniere inflessibile, rude, dai metodi difrontiera, ma onesto e integerrimo. Arriva nel’75 alla guida della compagnia di Roccella Io-nica. E subito si mette a dare la caccia ai lati-tanti, a ripulire le campagne della zona, a in-dagare, a colpire la ‘ndrangheta in tutti i modi.Di sparatorie ce ne sono tante, con VincenzoUrsini addirittura due. La prima nel ’75, con ilboss a restare ferito. Nella seconda, quella del’76, il reggente del clan Ursini resta ucciso.Anche Niglio paga pedaggio nella caccia gros-sa ai latitanti. Sempre nel ’76, cade in una scar-pata, inseguendo il fuggiasco Antonio Ierinò, e

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si ferisce gravemente alla schiena. Un uomotutto d’un pezzo, un punto di riferimento perchi non sopportava l’arroganza dei clan. ERocco e Pasquale Gatto non si arresero ancheperché potevano contare sul capitano Niglio.Un rapporto di rispetto e di amicizia che resi-sterà alla morte di Rocco. Diverse visite a No-cera Inferiore, dove il capitano fu trasferitodopo aver ricevuto un encomio solenne perl’azione contro le cosche di Gioiosa. E diversesortite di Niglio a Gioiosa, per incontrare Pas-quale. Soprattutto quando il carabiniere di Er-colano prende la guida del comando provin-ciale dell’Arma a Reggio alla fine degli anni90. Dopo avere scampato l’agguato di unosgherro degli Ursini e prima di trovare la mor-te, in un incidente d’auto, nel 2004.

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Nella morsa del clan

Da quando riesce a comprare il mulino, nel’64, Rocco Gatto diventa bersaglio degli Ursi-ni. Tanto più che gli altri fratelli mettono su unbar in paese e la famiglia costruisce delle vil-lette a Cessarè. Dunque, il sudore ha pagato ei Gatto non sono più dei poveri contadini. Tan-to basta perché gli chiedano il pizzo. Prima abassa voce, poi con calma, quindi con arro-ganza, con le minacce, con le bombe.

Rocco non ne vuole sapere. Lui ha semprelavorato. Sempre. Ha visto la fame, ha cresciu-to i fratelli, ha aiutato gli amici. A nessuno ri-fiuta il suo sostegno, senza chiedere il motivoo esigere alcunché. Ma la tassa del clan non lavuole pagare. Semplicemente perché non glisembra giusto.

All’inizio la cosa scivola senza grandi allar-mi. La preoccupazione c’è, ma resta lì, sul fon-do. Rocco e Pasquale, il figlio che ha tenuto sudi sé il peso della famiglia e il patriarca, si

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guardano negli occhi, senza neanche parlaresanno quello che devono fare. Resistere. C’èanche una sorta di patto del silenzio, per nonimpaurire la famiglia, per difendere gli altridal pericolo. Nulla devono sapere. In questoRocco è tenace, si tiene tutto dentro, sopportada solo perché da solo ha deciso di condurreuna battaglia senza mediazioni.

La situazione precipita quando gli Ursinidanno il via alle grandi manovre: occupazionedelle campagne, imposizione capillare dellamazzetta. Il primo teatro delle operazioni èCessarè, la residenza estiva dei gioiosani, conl’aria buona e le vallate, le vigne e gli orti, cir-ca trecento i fondi. Non servono i recinti, lemandrie del clan invadono i campi. Così è de-ciso per dare un pascolo agli animali, per tra-sformare la zona in feudo di latitanti, ma an-che per costringere chi vuole restare a pagareper la guardiania. Anche chi ha casa deve ver-sare la sua quota.

Tra il ’73 e il ’74 sono diversi gli esposti deiproprietari. Nel novembre del ’74 parte unadenuncia collettiva, tra i firmatari anche i Gat-to. Rocco viene sentito a dicembre dal pretoree conferma tutto, inaugurando un rituale che

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si ripeterà più volte. Per anni tutto tace. Esa-sperati, i cittadini scrivono una lettera al mini-stro dell’Interno, ma nulla. Pasquale non resi-ste alla tentazione e spara col fucile alle bestieche si ritrova nel giardino. Somma beffa, deverispondere di quel gesto in aula, dando dimatto davanti al giudice che lo tratta da ladrodi pecore.

La rappresaglia del clan comincia a farsistringente. Prima ripuliscono l’auto di Rocco:il finestrino rotto, la roba portata via, così perdare un segnale. Poi i sacchi della farina. Finoal furto degli orologi nel settembre ‘74, diciot-to chili di anticaglie, oro, cimeli, che Rocco col-leziona e ripara nel piccolo laboratorio annes-so al mulino. Quegli orologi Rocco li deve re-cuperare, ma non per se stesso, quanto permantenere la parola con chi gli aveva affidatol’incarico di ripararli. Decide, forse è l’unicavolta, di rivolgersi al clan. Sa benissimo chi siè introdotto nel mulino e li ha portati via. Vadritto da Luigi Ursino, che per ritrovarli chie-de un onorario di due milioni. Il sacco degliorologi torna dopo qualche giorno. Rocco lova a prendere in campagna, nel luogo indica-to. Poi va dai carabinieri: dirà senza troppa

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convinzione di averli ritrovati davanti allaporta del suo mulino e quelli scriveranno, conaltrettanta incredulità. Senza fare troppe do-mande. Come funziona sempre per queste co-se. Ma a Rocco una cosa non va proprio giù,nel sacco mancano gli orologi in oro. Non sop-porta la beffa e quei due milioni non li sborse-rà mai.

La cosa si fa seria. Ad incendiare il mulinoc’avevano già provato, senza riuscirci. Ma eraforse solo un avvertimento. Dopo la storia deidue milioni, le fiamme divampano davvero.Gettano la benzina dal lucernaio, perché al mu-lino c’hanno messo le inferriate. E i danni arri-vano a venti milioni. Una batosta annunciata.Ciccillo dirà al processo per la morte di Roccoche il fratello gli aveva raccontato come eranoandate le cose. Le richieste pressanti di LuigiUrsini per quei due milioni, i rifiuti, le minac-ce. Il boss lo ferma più volte lungo la provin-ciale, mentre Rocco porta la farina ai clienti.L’ultima arriva la sentenza: se non paghi timettono una bomba. Qualche giorno dopo, il26 dicembre del ’74, l’attentato incendiario.

La guerra è dichiarata. Rocco esce allo sco-perto, parla apertamente in pubblico degli Ur-

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sini, rivendica la sua lotta. “Sbraitava”, diràl’amico Salvatore Ferraro. Esasperato, Rocconon perde occasione per denunciare le male-fatte degli Ursini, per dire in giro che li avreb-be “spezzati, ammazzati, denunciati”. Ad altavoce, ma tenendo sempre ben lontana la fami-glia. I messaggi minatori non si contano più.Sembra quasi inutile riferire ai carabinieri, mase non altro è l’occasione per conoscere il capi-tano Niglio. Diventano amici, si rispettano.Rocco ci va spesso in caserma, a Gioiosa e aRoccella. Ha deciso di condurre la lotta controgli Ursini senza esclusione di colpi. Non de-morde quando si tratta di parlare coi magi-strati, se può servire a fare giustizia. Se ne fre-ga Rocco di quello che gli dicono, che quelloche va a dire ai carabinieri e ai pm torna subi-to all’orecchio del capobastone. Non ci crede,non gli interessa.

L’amico Ferraro lo spinge ad abbassare i to-ni. Racconterà in aula di averlo più volte invi-tato a non esporsi, perché altrimenti al megliosarebbe stato gambizzato. La risposta di Roccogela il sangue: “Non cedo. Se mi devono spa-rare, spero solo di morire sul colpo, per nonsoffrire”. Lo dice a tutta l’Italia che non ne

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vuole sapere di pagare. Nel gennaio ’76 arrivaa Gioiosa una troupe del G7, una trasmissionegiornalistica della Rai. Dedicano una puntataalla ‘ndrangheta, dopo il clamore dello sciope-ro antimafia. Parlano i cittadini, c’è anche Roc-co. Lui spiega le sue ragioni, s’infervora.Quando va in onda il servizio, il 23 gennaio,resta solo la sua frase lapidaria: non pagheròmai la mazzetta, lotterò fino alla morte. Il suotestamento morale.

A volte, per la tensione continua, la masche-ra d’acciaio s’incrina. E Rocco si confida. Conl’amico, che lo vede scosso dopo l’ennesimavisita al mulino di Luigi Ursini. Con il fratello,al quale un giorno non riesce a nascondere lelacrime. Ciccillo, poi, li ha visti Ursini e MarioSimonetta al mulino. Ha capito e Rocco haconfermato: “Vogliono i soldi, mi chiedono difirmare le cambiali se non li ho”. Addirittura lecambiali, un modo per dire che quel debito sideve onorare. Glielo ricordano in continuazio-ne. Lo vanno a trovare al mulino, lo fermanoper strada mentre consegna la farina. LuigiUrsini si fa vedere anche da latitante. L’ultimarichiesta, l’ultima minaccia a un mese dallamorte. Poi parlano le lupare.

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Chiuso per lutto

È con la denuncia degli autori del raid almercato che Rocco Gatto firma la propria con-danna a morte. Il fermo rifiuto di piegarsi allalegge del clan ha certamente contributo a faredel mugnaio comunista un avversario da col-pire. Ma le minacce, i tentativi di estorsione, idanneggiamenti non avrebbero avuto necessa-riamente conclusione nel sangue se Rocco nonavesse infranto la più elementare regola delcodice malavitoso. Se protesti, se ti batti, se op-poni resistenza a un qualcosa che ti viene fattopersonalmente, allora quelli della cosca ti pos-sono pure capire. Ti rispettano, in fondo, per-ché non ti fai mettere i piedi in faccia. Farannodi tutto per spezzarti, per ricondurti nell’oviledei taglieggiati, degli omertosi. Al più te la fa-ranno pagare con le bombe, con gli incendi, timetteranno in ginocchio negli averi. Magari tispareranno, ma non per uccidere. Quello cheRocco ha fatto è denunciare il clan su una vi-

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cenda che non lo riguarda direttamente. Dun-que è un infame, che merita la morte. Quelloche Rocco ha fatto, in realtà, è semplicementeevolvere da una contrapposizione personali-stica a uno scontro globale, di principio, collet-tivo. Presa coscienza della gravità del fenome-no ‘ndrangheta, Rocco non può tacere quel chesa, anche se il raid non lo riguarda diretta-mente. Un atteggiamento normale, normal-mente rivoluzionario a Gioiosa, nella Locride,in Calabria.

Tutto matura in poche ore. Il clan è colpitoduramente, a morte. Vincenzo Ursini, il capocarismatico, muore durante un conflitto a fuo-co coi carabinieri del capitano Niglio. Pocoprima cade nella rete dei militari il latitanteGiuseppe Gallizzi. L’ufficiale di ferro non siaccontenta del bottino, vuole il boss, lo cercacon insistenza, forse sa che si trova lì. Alla vi-sta dei militari il fuggiasco prova a dileguarsi,ma resta ferito mortalmente.

Per il clan, si tratta di un’esecuzione. Vin-cenzo Ursini era rimasto zoppo, diranno, dopolo scontro dell’anno prima. Era disarmato, nonavrebbe mai provato a fuggire, anche perchénon aveva che da scontare qualche anno in

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prigione. Gliela aveva promessa, dicono anco-ra, glielo aveva giurato il capitano Niglio l’ul-tima volta che lo aveva visto uscire di cella.

È il 6 novembre del ’76, un sabato. Gli Ursi-ni devono dare una risposta. Alla città, ai cara-binieri, alle altre famiglie della cosca, agli altriclan della zona. Devono ribadire che sono an-cora loro a comandare. Il piano parte alle 4 dinotte. La mattina successiva è in programma,come ogni domenica, il mercato nella piazzaVittorio Veneto di Gioiosa. Si tratta di una pic-cola festa, di una sorta di ritrovo per tutti gliabitanti della zona, di un appuntamento fissoper gli ambulanti dell’intera provincia. Maquella mattina nessuno di loro arriva in piazzaMercato, come la chiamano i gioiosani. Quelliche vengono da fuori, con i mezzi carichi dimerci, li fermano alle porte del paese. Il clandispone i picchetti nei punti d’accesso, al Tri-vio per quelli che vengono dalla Marina, aSant’Antonio per quelli che vengono da Mam-mola e Grotteria, alle case popolari per chiscende da Martone e vicino al mercato per chiarriva da Prisdarello. Poche parole, magari laminaccia delle armi, tutti i commercianti ven-gono rispediti a casa. È giorno di lutto, per

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onorare Vincenzo Ursini, ammazzato dai cara-binieri.

Alle sei del mattino la piazza è praticamen-te deserta. In pochissimi sono riusciti a passa-re. E chi c’è arrivato, avvertita la suonata, hasubito levato le tende. In quelle ore si consumaun’altra tragedia. È colpito da infarto Domeni-co Minnella. Non ha retto alla tensione, alleminacce armi in mano degli uomini del clan.Alle sette si accascia al suolo. Lo accompagna-no a casa a Siderno, poi in ospedale, dovemuore quel pomeriggio stesso.

Imposto il coprifuoco agli ambulanti, agliuomini degli Ursini non resta che decretare lachiusura di tutti i negozi della città. Passano,avvisano, vanno oltre. C’è un’auto, un’AlfaGiulia di colore verde, che fa la ronda. E se delcaso si ferma, per un ripasso di minacce. Alleotto e trenta l’obiettivo principale è raggiunto:il mercato non si tiene, gli esercizi commercia-li, che di solito aprono per approfittare delflusso di forestieri, sono quasi tutti con le sara-cinesche abbassate.

Il fatto non passa inosservato. Ovviamente.Appena dopo le otto tutti sanno cosa sta suc-cedendo. Lo sanno i vigili urbani, lo sa il sin-

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daco che è avvertito da uno di loro, lo sanno icarabinieri della stazione, lo sa anche RoccoGatto, il cui mulino è proprio lì, a dieci metridalla piazza. E anche il capitano Niglio è alcorrente della faccenda, avvertito proprio daRocco, ma anche da Salvatore Ferraro e infinedal brigadiere Giuseppe De Maria.

Rocco li ha visti tre o quattro degli Ursini,fermi in piazza a parlare con i commercianti.Li ha visti passando, diretto al mulino di viaGramsci, ma non ha subito realizzato cosastesse accadendo. Poco dopo, appresi i fatti,decide subito di chiamare Niglio: “Capitano,c’è la solita gang che impedisce il mercato, ve-nite e vedete quello che dovete fare”. AncheFerraro sente il bisogno di avvertire i carabi-nieri, prima di raggiungere l’amico al mulino.Scoprono così di avere avuto la stessa idea.Nel frattempo, un anonimo ha deciso di chia-mare alla stazione di Gioiosa, alle 8,10, facen-do i primi nomi dei responsabili. Subito dopoDe Maria fa telefonare a Roccella, precipitan-dosi in piazza. Niglio è già pronto. Alle 9 è aGioiosa a ristabilire l’ordine. Intanto vengonoportati in caserma Roberto Ameduri e Salvato-re Sainato.

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Il capitano ha capito subito di cosa si tratta.Sa che il clan vuole far credere in giro che Vin-cenzo Ursini è stato ammazzato volutamentedai carabinieri. Sa soprattutto che gli Ursini,alla morte del loro capo, devono mostrare identi, lanciare un messaggio. E il capitano Ni-glio quel messaggio lo vuole annullare. Vuolesubito imporre la legge, dare sicurezza ai com-mercianti, ai cittadini.

All’arrivo in piazza, Niglio vede Rocco Gat-to, a qualche passo dalla viuzza che porta almulino. Lo saluta con un cenno, senza fermar-si a parlare. Non ce n’è bisogno, si sentirannodopo, senza occhi indiscreti addosso. Se si fos-sero fatti vedere insieme, in dieci minuti tuttoil paese avrebbe saputo da chi era stato avver-tito il capitano. Primo obiettivo di Niglio la ri-apertura dei negozi. Prima il giro in piazza,poi per il paese. Per rassicurare, per dare fidu-cia e permettere di risollevare le saracineschesenza timori. Lo scopo è ottenuto in brevetempo. Si tratta quindi di raccogliere le infor-mazioni, di capire cosa è successo, chi ha mi-nacciato chi. E la cosa diventa subito più com-plicata. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito,chi non può fare a meno di ammettere le mi-

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nacce cerca di aggirare l’ostacolo, di accusareanonimi giovinastri. Qualcun altro fa marciaindietro. È il caso di Salvatore Agostino, pron-to a mandare a chiamare il capitano Niglio perdenunciare l’avvertimento ricevuto, salvo poifar finta di nulla. Accade che Agostino è ful-minato lì sulla porta del suo negozio, glisgherri chiedono conto. Quando il carabinierepassa per i controlli, dice che è pronto alla de-nuncia, ma che vuole parlare con Niglio. Bastauna mezz’ora e chissà quale altra minaccia perfar cambiare idea al negoziante. A Niglio l’uo-mo dice di non aver subito minacce, solo ra-gazzate, e afferma di voler parlare di un furtosubito anni addietro. Una bufala che gli coste-rà l’imputazione per falsa testimonianza.

Rimesse le cose in ordine, Niglio abbandonail campo, dopo aver fatto rilasciare i due fer-mati, che nessuno per il momento accusa aper-tamente. Del raid al mercato tornerà ad occu-parsene solo in gennaio. Altri fatti hanno lapriorità. Un ritardo che costerà al capitano,qualche anno dopo, la ramanzina del giudice.Ma Niglio sa come vanno le cose in paese, sache in qualche ora avrebbe avuto sulla scriva-nia i nomi dei responsabili, ma che nessuno

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avrebbe mai avuto il coraggio di confermare leaccuse in un verbale, davanti al giudice, in au-la. Nessuno tranne Rocco.

Così è stato. Già due giorni dopo, il 9 no-vembre, un’altra telefonata anonima affida aicarabinieri di Gioiosa la lista completa delcommando del raid: i due fermati, poi Giusep-pe Camini, Francesco Cotrona e Mario Marti-no, che sono quelli dei picchetti alle quattrodel mattino, e ancora Giuseppe e Mario Femia.Stando alla delazione, Cotrona avrebbe ancheminacciato con la pistola i commercianti fermiin piazza Mercato. Una relazione dettagliatis-sima, che conferma le denunce di Gatto e Fer-raro. Rocco, in realtà, ha visto solo Ameduri,Sainato e uno dei Femia, apprendendo quantoaccaduto dalla voce diretta dei commerciantiminacciati. Sono queste le cose che dice al ca-pitano Niglio e al brigadiere De Maria. Né unaparola in più né una in meno, solo quello cheha visto e che ha appreso. Va spesso in caser-ma in quei giorni, per seguire gli sviluppi del-la vicenda. Tanto che, fiutato il pericolo, lo in-vitano a stare lontano per un po’, per non atti-rare su di sé l’ira del clan, una volta partite ledenunce.

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C’è anche un altro coraggioso che spiega perfilo e per segno cosa ha visto e cosa ha sentito.Vincenzo Ieraci, impiegato di 65 anni, raccon-ta ai carabinieri del passaparola di quella mat-tina e dei giorni successivi, arrivando a indivi-duare negli stessi sette ‘ndranghetisti gli auto-ri del raid, con tanto di ruoli operativi. Qual-cuno fa il nome di Mario Simonetta, anche luiavrebbe partecipato al raid. Ma non ci sonoconferme e l’uomo resta fuori dalla vicenda.

L’11 gennaio è il turno di Rocco. È convocatodal capitano Niglio per firmare il verbale. Sitratta di confermare i nomi fatti in precedenza.Una formalità, anche se Rocco intuisce subito laportata del gesto. E infatti firma senza tenten-namenti, ma “con un certo travaglio”, dirà inseguito il capitano. Anche Ferraro è chiamato aconfermare quello che ha già detto, la telefona-ta, i nomi, le circostanze. L’uomo, che è anchegiornalista per la Gazzetta del Sud, non nega,ma attribuisce la paternità dei nomi che ha fat-to - tutti tranne Camini - ai racconti della gente,alle dichiarazioni apprese “dalla voce pubbli-ca”. Non è ancora una ritrattazione, ma il prin-cipio di una linea che Ferraro svilupperà in se-guito. E un modo per salvare capre e cavoli.

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Perché tutti si rendono conto di cosa vuoldire denunciare il clan sulla vicenda del raid.Toccare la cosca su un nervo scoperto, quellodella morte del loro capo e della rappresagliamessa in scena al mercato di Gioiosa.

Il 20 gennaio Niglio fa partire la denunciaper i sette ‘ndranghetisti - tutti già coinvolti avario titolo in vicende di mafia, tutti legati alclan Ursini - e per il reticente Agostino. L’ac-cusa è di violenza continuata pluriaggravata,porto e detenzione di armi, omicidio colposo.Gli ordini di cattura portano la data del 22, ilgiorno successivo gli imputati sono tutti in cel-la. Ovviamente i magnifici sette respingono leaccuse, si trincerano dietro alibi posticci, co-struiti sul momento con l’aiuto di amici e pa-renti. C’è chi dice di aver fatto da baby-sitterper i nipoti, chi di aver telefonato tutta la mat-tina ai parenti d’America, chi di aver lavoratotutta la notte e la mattina del 7 novembre.Qualcun altro dice di aver trascorso l’alba inpiazza, ma di aver poi lasciato Gioiosa per an-dare a comprare il giornale, proprio nelle oredel raid. E ancora c’è chi sostiene di aver ac-compagnato il cognato militare in caserma perla firma, chi sostiene di aver occupato quelle

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ore in lavori di muratura e chi semplicementedi aver dormito beato fino alle dieci. Il casopassa al giudice istruttore di Locri FrancescoOriglia.

Intanto, le richieste estorsive e le minacceproseguono. Accade un altro episodio. CiccilloGatto è al bar Reale, a Gioiosa. Nel locale ci so-no altre persone, tra queste Antonio Bruzzese,l’uomo che raccoglierà Rocco morente. EntraMario Simonetta. Ciccillo lo conosce, lo ha vi-sto anche al mulino, arrivare con la sua Alfet-ta 1750 blu, appartarsi con Rocco, andare via.Voleva i soldi per Ursini, dirà poi durante iprocessi. Quella volta Simonetta lo aggredisce.Davanti al bancone gli dice “sei un cornuto,sei una spia, te la farò pagare”. Ciccillo resta disasso, poi capisce. Si tratta di una minaccia di-retta al fratello per la storia del raid, hanno sa-puto che ha parlato.

Accade anche un altro fatto. L’avvocato Gio-vanni Simonetti, legale degli Ursini e di altriclan, amico della famiglia Gatto, avvicina Roc-co. Il suo è un intervento personale, non unaminaccia per conto terzi. Avverte il mugnaiodel pericolo, del guaio in cui si è messo, e lo in-vita a tirarsi fuori dalla vicenda giudiziaria o

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quantomeno a prendere delle precauzioni.Evidentemente Simonetti ha subodorato la de-terminazione degli Ursini, li conosce e sa chesono pronti a tutto. Rocco manda letteralmen-te l’avvocato a quel paese. Lo conosce e se lopuò permettere. Non intende cedere di un pas-so, ne ha subite troppe, spiega.

Basta una firma in calce al verbale per con-fermare le dichiarazioni rese al capitano Ni-glio. Dura neanche cinque minuti l’apparizio-ne di Rocco davanti al giudice, il 14 febbraio’77. Non esita, sa che è quello che deve fare,Ma Alberto Bambara, il magistrato che farà dapubblico ministero al processo, dirà di nonaver mai potuto dimenticare l’espressione diGatto al momento della firma. Rocco è tor-mentato. E come potrebbe non esserlo. Sa leg-gere i segnali che vede intorno a sé. Le richie-ste di denaro sono cessate, gli ‘ndranghetisti loguardano ormai con aria sprezzante.

Accade un altro fatto rivelatore. Il giornoprima della morte, l’11 marzo ’77 Rocco è inauto insieme al padre Pasquale. Sono fermi sulbordo della strada. Passa Mario Simonetta conaltri affiliati. Si fermano, si avvicinano al mez-zo, fanno strani movimenti, lanciano sguardi

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di sfida. Pasquale sente che qualcosa non va,intuisce che tra loro e Rocco c’è un conto in so-speso. E prova a rompere quel patto del silen-zio, quella promessa di resistere a oltranza. Ilpadre sa delle richieste di denaro, Rocco ne haparlato qualche volta, sommariamente. Pas-quale vuole sapere cosa sta succedendo, maquesta volta il figlio taglia corto, “sono affarimiei, con quelli me la vedo io”. Forse ormainon c’è più nulla da fare.

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L’ultimo viaggio

Rocco si alza presto quella mattina. È il 12marzo del ’77, una domenica. Giorno di lavo-ro, come sempre. Rocco gira per le stanze del-la casa, è inquieto, “quasi che ci volesse salu-tare tutti” racconterà il padre. Alle 5,30 esce dicasa per recarsi al mulino. Non tornerà più in-dietro.

Col suo furgoncino, un Fiat 241, parte per ilsolito giro, l’ultimo viaggio tra le contrade diGioiosa, per raccogliere i sacchi del grano damacinare che i contadini gli lasciano sul cigliodella strada, come sempre. Rocco non è tran-quillo, non ha raccolto il consiglio dell’avvoca-to Simonetti, non ha montato sul furgone i ve-tri blindati. Ma accanto al sedile ha il suo fuci-le automatico. Rocco è un amante della cacciae sa come difendersi. Tiene lì con sé il suo Bre-da Antares, due colpi nel serbatoio e il terzo incanna. Poi una cartucciera con 24 colpi calibro12. S’aspetta qualcosa da un momento all’al-

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tro, magari ci pensa mentre scende col furgoneverso Prisdarello.

Sono le 6,30, lo aspettano sulla provincialeper Roccella Ionica, dopo il ponticello, in con-trada Armo. I killer si nascondono lì, nel val-loncello sottostante, sul lato sinistro della stra-da. Sono almeno in due. Forse un altro è ap-postato in alto, per segnalare l’arrivo del ber-saglio. Sentono il furgone avvicinarsi ed esco-no allo scoperto. Rocco non ha il tempo di rea-gire, forse neanche si accorge dell’agguato.Parte il primo colpo di fucile. Il sicario è a set-te metri, più avanti rispetto al furgone. Sparain diagonale e colpisce il mezzo sulla fiancatasinistra, L’arma lunga è caricata a pallettoni,cartucce calibro nove. È una lupara. Una rosadella morte. La prima scarica di piombo bucail telaio, s’infrange sulla portiera opposta, col-pisce il ginocchio sinistro del mugnaio. Forse ildolore, forse un riflesso condizionato o la per-cezione del pericolo spingono Rocco a chinar-si in avanti. Arriva la seconda rosa di palletto-ni. Il secondo colpo è esploso a quattro metridi distanza, quasi in perpendicolare rispetto alfurgone. S’infrangono il vetro dello sportello elo specchietto retrovisore. Soprattutto è ferito

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a morte Rocco Gatto. Diversi colpi sul fiancoposteriore sinistro. I pallettoni bucano i pol-moni, che si riempiono di sangue. Ci sono an-che ferite superficiali, a rosata. Forse c’è unterzo colpo, pallini da caccia. Forse una delledue cartucce è caricata con pallettoni e qualchepallino. Non cambia molto, non c’è nulla dafare.

Rocco ha ancora un sussulto di vita. Riescea tenere il furgone per altri sessanta metri,spinto dall’inerzia. Lo ferma all’uscita di unaleggera curva a destra, con la quarta ancorainnestata. Vede due uomini, ha una piccolasperanza, chiede una mano, “aiuto, mi spara-ru”. Il tempo di aprire lo sportello e la vita nonc’è più, le ultime energie spese. Rocco resta lì,adagiato sull’asfalto, con la testa sul bordodella cunetta, a un metro dal furgone.

I due uomini che lo soccorrono sono Anto-nio Bruzzese e Domenico Parrelli. Stanno lì sulciglio della strada, dal lato destro, in direzioneRoccella. Devono raggiungere la fermata delpullman. Sentono i colpi, poi vedono sbucareil furgone, con Rocco che chiede aiuto. Il tem-po di aprire lo sportello e la vita non c’è più.Rocco cade tra le braccia di Bruzzese, morto.

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Lo adagiano sull’asfalto, con la testa sul bordodella cunetta. Forse vedono gli assassini, forseno. Forse li hanno visti sparare o almeno fug-gire verso la campagna, ma non lo dirannomai. Non sanno cosa fare. Poi Bruzzese si de-cide ad andare a chiedere aiuto, ad avvertire icarabinieri, mentre l’altro resta lì con Rocco.

Alle 7,20 squilla il telefono della caserma. Ilcontadino si è diretto a Prisdarello, a qualchecentinaio di metri dal luogo dell’agguato. Habussato alla porta dei Simonetta. Dentro ci so-no Pasquale (detto Rocco) e la moglie, sono igenitori di Mario. La signora dà al braccianteil numero di telefono dei carabinieri. Poco do-po sono lì, sul posto.

Quella mattina Rocco non arriva al mulino.Ciccillo non teme ancora, non immagina. Toc-ca a Natale Bianchi dare la notizia. Lo fa contatto, dice che c’è stata una sparatoria, qualcu-no è rimasto ferito. Ciccillo comincia a preoc-cuparsi, ad andare col pensiero alle minacce,agli avvertimenti. La conferma, il dolore, le la-crime. La famiglia si raccoglie nel dolore. AMario, il più piccolo, telefonano a Napoli, do-ve si trova per studio. Dicono che Rocco haavuto un incidente, che è grave. La mattina

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successiva arriva e si rende subito conto di tut-to. C’è tensione, rabbia. Tutto il paese scendein piazza per il funerale. Perché Rocco era unuomo buono, non doveva morire così.

Da subito, dalle prime ore, Pasquale e Nico-la Gatto accusano la mafia di Gioiosa, puntanol’indice sugli Ursini, raccontano degli attenta-ti, delle minacce, delle denunce, dei tentatividi estorsione. Anche Ciccillo racconta delle vi-site di Luigi Ursini e Mario Simonetta, delleminacce di quest’ultimo al bar. Ferraro tirafuori la storia del sacco degli orologi, che Roc-co gli ha raccontato al mulino. È lì quando ar-riva Ursini, si apparta col mugnaio e poi vavia. Rocco gli ha confessato dei due milioni,del suo rifiuto, delle minacce e delle cambiali.

Tutti dicono di sapere, dunque, chi è statoad ordinare l’omicidio. Così i carabinieri simettono subito sulle tracce di Luigi Ursini, cheè latitante, e Mario Simonetta. Per non inso-spettirlo, lo convocano in caserma, con la scu-sa di un incidente d’auto capitatogli qualchegiorno prima. Simonetta non si fa vedere, arri-va il padre, pronto alla recita: il figlio è a Mila-no. Ma la messinscena non regge neanche ungiorno. Lo vedono i carabinieri, ma non ri-

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escono a fermarlo. Lo prendono qualche gior-no dopo, l’11 aprile. A un mese dall’omicidioci sono le denunce: il 18 aprile il giudice istrut-tore ha sul tavolo il fascicolo del procedimen-to contro Ursini e Simonetta, accusati di omi-cidio ed estorsione aggravata.

Comincia a girare una voce, che si sovrap-pone al filone principale delle indagini. Il 28febbraio ’77 c’è stato un altro agguato. È mor-to Giuseppe Cherubino, ‘ndranghetista di 23anni. Resta illeso Mario Monteleone, figlio diRocco, ucciso nell’agosto dell’anno preceden-te. I due sono reduci dal banchetto nuziale diMario Simonetta. C’è stato un alterco durantela festa. Cherubino ha litigato con GiuseppeUrsini “u mericanu”, figlio di Francesco, nipo-te di Luigi. La discussione scoppia perché Ur-sini, spalleggiato dallo zio Mico Macrì, cercadi convincere Monteleone a non far costituirela sua famiglia parte civile al processo per l’o-micidio del padre, su cui pendono gravi accu-se nei confronti degli Ursini. Rocco Gatto havisto, ha riconosciuto gli assassini e a raccon-tato tutto ai carabinieri? La vicenda nel pro-cesso Gatto non entrerà mai.

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Il clan alle corde

Sono anni duri per il clan. La famiglia Ursi-ni ha alzato troppo il tiro. I nodi vengono alpettine, le inchieste procedono verso l’ora de-cisiva. E piovono gli arresti, i rinvii a giudizio,le condanne. La stampa nazionale, soprattuttoquella comunista, si scatena. L’Unità e PaeseSera - ma anche il manciniano Giornale di Ca-labria - dedicano intere pagine alla vicenda diRocco, seguono da vicino l’iter giudiziario deiprocedimenti contro gli Ursini, il raid del mer-cato, l’omicidio Gatto e il processo alla mafiadei prati, nato dalla denuncia delle angherie aCessarè. Non mancano le polemiche feroci, icolpi di scena, le prese di posizione estreme.

L’attenzione è alta, gli intoppi nel procedi-mento del raid mandano la tensione alle stelle.Le audizioni vanno a rilento. Nel maggio del’77 vengono sentiti i vigili urbani in servizioquella mattina in piazza Mercato. Si tratta diCarmelo Armocida e Tommaso Logozzo. Per il

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giudice istruttore sono reticenti, così come illoro comandante Domenico Misuraca e l’as-sessore comunale al ramo Mario Alì. Per loronulla è successo quella mattina. Non c’è nes-suno in piazza? Un mercato fiacco. Tutti dico-no che sono stati gli Ursini armi in pugno aimporre il lutto? Non è possibile, nessuno neha mai parlato in paese. Ma i due vigili, per imagistrati, non potevano non vedere e sentire,scatta la denuncia per falsa testimonianza. So-lo in ottobre, poi, viene richiesto l’elenco degliambulanti che abitualmente frequentano ilmercato. Ma nessuno parla. Tranne uno, Raf-faele Furfaro. Non fa nomi, ma ammette di es-sere stato minacciato, insieme ad altri, da ungruppo di giovani con la pistola. Gli hannodetto di andarsene, che il mercato non si faperché i carabinieri hanno ammazzato Vincen-zo Ursini.

Intanto, si fa in tempo a far scadere i termi-ni di custodia cautelare per cinque dei setteimputati. Restano dentro solo Cotrona e MarioFemia. Il PCI scatena una campagna stampafuribonda, preceduta da una interrogazioneparlamentare dei deputati calabresi. A scaglia-re l’attacco è Francesco Martorelli, deputato e

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avvocato di Cosenza. Un ruolo che gli tocche-rà di vestire più volte in quegli anni insangui-nati14. Il bersaglio della polemica, condotta aspada tratta su “L’Unità” e ripresa dai giorna-li locali, è il giudice istruttore Francesco Ori-glia, in quei giorni in vacanza. Si chiede contodei ritardi nell’istruttoria, si entra nei dettaglidella procedura, si spulcia tra i cavilli. Il magi-strato risponde con una lettera circostanziata eoltremodo piccata. Il diritto, probabilmente, èdalla sua. Ma dal lato politico, le scarcerazionisono una pericolosa sbandata. Che il PCIprovvede a ridimensionare a suon di titoli suigiornali.

È evidente che la magistratura locrese è spac-cata. Lo si comprende quando il pretore CarloMacrì decide di assumere la guida del nascen-te comitato permanente antimafia. L’organi-smo, che avrebbe dovuto raccogliere gli enti lo-cali, le istituzioni e la società civile, ha vita bre-ve. Giusto il tempo per far piovere le critichedei colleghi moderati sul pretore battagliero.

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14 Martorelli sarà avvocato di parte civile nei processi per gli omicidi diGiuseppe Valarioti, segretario del PCI di Rosarno ucciso l’11 giugno 1980,e Giannino Losardo, assessore comunale comunista a Cetraro ammazza-to il 22 di quello stesso mese.

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Altro segnale nefasto è il forfait di Origlia alprocesso Gatto. Al giudice tocca l’istruzione,ma la comparsa di Martorelli come avvocato diparte civile per la famiglia Gatto spinge il ma-gistrato a chiedere l’esenzione. Una lettera av-velenata, che dà modo ai legali degli imputatidi chiedere la rimessione del processo per le-gittimo sospetto. La palla passa al giudice Roc-co Lombardo, il processo resta a Locri.

Nel novembre del ’77 la temperatura è ro-vente. Tutto è concentrato in poche settimane.Luigi Ursini è già in cella, sorpreso dalla poli-zia il 10 ottobre. La discesa in campo dei Gat-to dà fastidio al clan. Il 18 novembre un’altrabatosta: i sette accusati del raid sono rinviati agiudizio per estorsione aggravata, insieme aifamiliari e agli amici che ne hanno sostenutogli alibi con false testimonianze. È troppo, gliUrsini reagiscono ancora una volta. E ancorauna volta è Rocco Gatto la vittima, anche damorto. Qualcuno entra al cimitero, spezzano ilmarmo della lapide, sono divelti i portafiori espaccati i portafoto con i ritratti di Rocco e del-la madre, che è seppellita lì con lui. Lo sdegno,il biasimo, la condanna sono unanimi. Anchela solidarietà: per il tramite di Modafferi, un

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industriale di Torino dona alla famiglia Gattoun contributo di 100mila lire per far riparare idanni. Troppa l’indignazione, l’oltraggio vacancellato.

C’è un altro colpo di scena: l’avvocato Si-monetti è incriminato perché accusato di averintimidito Rocco Gatto. La vicenda ha delgrottesco. L’avvocato riceve una lettera anoni-ma, lo invitano a farsi gli affari suoi, accusan-dolo di aver provato a salvare Rocco. È chiarol’intento. Simonetti sporge denuncia. Ma tantobasta per gettare ombre sul suo operato e ve-derlo tra gli imputati con Ursini e Simonetta.Farà chiarezza in aula Pasquale Gatto, raccon-terà delle spiegazioni date da Simonetti, intempi non sospetti, circa il tentativo di sprona-re Rocco alla prudenza. L’avvocato, ovvia-mente, sarà prosciolto da ogni accusa15.

È in quei mesi che il sindaco antimafia ri-prende le redini della lotta. Lo fa con scelte cla-morose, semplici ma dirompenti. Vere e pro-prie deflagrazioni che richiamano ancora una

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15 Giovanni Simonetti, avvocato degli Ursini-Macrì, di Vittorio Ierinò e dialtri clan della Locride in diversi processi di mafia, sarà ucciso il 24 mag-gio ’94 da un killer che si presenta nel suo studio. Non sono chiare le mo-tivazioni che hanno portato all’omicidio.

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volta a Gioiosa il gotha del giornalismo no-strano. In pretura è finalmente l’ora del proce-dimento per i fatti di Cessarè. La prima udien-za cade il 29 dicembre del ’77. Una nuova te-gola per il clan Ursini, che in quei giorni fa ter-rorismo per divincolarsi dalla morsa della giu-stizia. E così in aula non si trova lo straccio diun avvocato disposto ad assumere il ruolo dipm. Come previsto dalla legge, viene chiama-to il sindaco. Francesco Modafferi veste connaturalezza i panni dell’accusatore. Lo farà so-lo in quell’occasione, poi si troverà finalmenteun addetto ai lavori16. Ma tanto basta per faredell’amministratore del PCI un simbolo, anco-ra una volta.

I riflettori della stampa, i titoli sui giornali,gli elogi che piovono da ogni angolo del paesedanno forza al movimento antimafia, sindacoin testa. E così c’è un’altra decisione per quei

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16 Il procedimento, vista la gravità dei reati, approda ben presto in procu-ra a Locri. È il cosiddetto processo alla mafia dei prati. Durante le pri-missime udienze, si scopre che uno dei giudici figura tra i proprietari deilotti di Cessarè. Tutto si ferma e a settembre del ’78 la Cassazione rinviail processo al tribunale di Catanzaro. Presto arrivano anche le condanne:due anni e sei mesi per Pasquale e Francesco Ursini, due anni e quattromesi per Nicola Schirripa, Giulio e Mario Femia, Domenico Agostino.Sentenza confermata nei successivi gradi di giudizio.

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tempi assolutamente clamorosa. Il Comune diGioiosa si costituisce parte civile nel processodel raid, alla vigilia della prima udienza. È il24 gennaio ’78, una data storica per l’Italia in-tera, la prima volta che un’amministrazione sischiera in un processo di mafia.

Il 27 c’è la prima udienza, con la platea stra-colma. In prima fila Pasquale Gatto, lì col suobastone. I tanti giornalisti accorsi da ogni dovese lo contendono. Lo interrogano sul processo esulle indagini per la morte di Rocco. Lo pungo-lano. Pare che nessuno parlerà? “Qualcuno nonha capito che a uno lo possono sparare, a centono”, risponde Pasquale, col sorriso amaro.

Anche in questo caso il clan reagisce. Arrivauna telefonata eloquente a casa Modafferi,l’amministratore reo di aver sfidato la mafia.Alla moglie, che risponde alla chiamata, qual-cuno manda a dire che il sindaco si deve di-mettere, altrimenti lo avrebbero dimesso loro.Una minaccia di morte. Quella fisica non arri-verà mai, ma quella politica non si farà atten-dere che qualche anno. Sul momento è la soli-darietà a prevalere. Ai primi di febbraio la ma-nifestazione in difesa del sindaco è riuscitissi-ma. Arrivano messaggi di sostegno da centi-

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naia di comuni, dalle istituzioni di ogni ango-lo d’Italia, ci sono dichiarazioni di vicinanzasulla stampa di ogni colore. Modafferi non fal’eroe, ammette di avere paura, non lo nascon-de, è normale dice. Ma per lui è altrettantonormale andare fino in fondo, assolvere il do-vere a cui è chiamato. Non è poco.

È il momento migliore per il movimentocontro la ‘ndrangheta. I dirigenti e gli uominipiù impegnati lo sentono, avvertono che è ne-cessario dare la spallata decisiva al clan Ursi-ni. S’avvicina il primo anniversario del tragi-co assassinio di Rocco. Ecco che è quasi spon-tanea la decisione di organizzare una grandemanifestazione per il 12 marzo. Tutti al lavo-ro, sull’onda della reazione. Si prevede unafolla mai vista, ci sono le adesioni di tutte leforze civili e politiche. Soprattutto c’è la con-ferma della presenza del presidente della Ca-mera, Pietro Ingrao. Tutto è pronto, ma è pro-prio la celerità del processo del raid a far sal-tare i programmi. In aula si va spediti verso laconclusione, l’ultima udienza è fissata per l’11marzo, con la lettura della sentenza. Una so-vrapposizione che il PCI decide di evitare,probabilmente compiendo un errore, per non

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prestare il fianco alle accuse. Soprattutto dopola feroce polemica tra Martorelli e la magi-stratura locrese. Non si vuole, in pratica, chela sentenza contro gli Ursini sia in qualchemodo ricondotta alle pressioni politiche delPCI. E così Ingrao invita gli organizzatori del-la manifestazione, i comunisti locali in testa, arinviare la celebrazione. Il tempo di goderedella sentenza.

La vittoria arriva puntuale. La Corte d’assi-se di Locri condanna tutti gli imputati a quat-tro anni per estorsione aggravata. Una rasoia-ta per il clan. Uno smacco a leggere le motiva-zioni: decisiva è la fiera testimonianza di Roc-co Gatto. Lo hanno ucciso, ma si è vendicato.

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Rocco vive

Il 12 marzo ’78, il primo anniversario dellamorte di Rocco, non passa comunque sotto si-lenzio. La manifestazione è rinviata al 16 apri-le, ma a scendere in piazza sono i ragazzi delcircolo del proletariato giovanile e la comuni-tà di base San Rocco. Poca gente in piazza Vit-torio Veneto quel giorno. Natale Bianchi pren-de il microfono, inizia a raccontare della‘ndrangheta e di Rocco Gatto, dei progressidella città e delle battaglie. Ci sono in prima fi-la Pasquale Gatto e i familiari. Le parole didon Bianchi sono dolci e profonde, la gente siavvicina, applaude, si commuove al ricordo diRocco. Il suo omicidio non è passato sotto si-lenzio, possono gridare dal palco gli oratori.

Anche il Comune ha voluto onorare la data,dopo aver dato il via libera per il rinvio dellacerimonia. C’è una seduta straordinaria del-l’assemblea cittadina. All’ordine del giorno leiniziative per rendere omaggio alla figura del

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mugnaio comunista. Gioiosa deve avere unastrada intitolata a Rocco Gatto, proprio lì vici-no al mulino e alla piazza del mercato. Si vuo-le inaugurare la via, con tanto di targa, proprioil 16 aprile alla presenza di Ingrao. C’è anchel’idea di istituire una borsa di studio in onoredi Gatto, è già pronta una commissione adhoc. Le proposte passano senza problemi17.Rocco vive tra la gente di Gioiosa.

Riparte il conto alla rovescia. C’è grande at-tesa. Intellettuali e scrittori, giornalisti e magi-strati, professori e amministratori siglano unappello contro la ‘ndrangheta, per il Meridio-ne. Tutti, partiti, associazioni, sindacati, torna-no a mobilitarsi. Si preparano a scendere inCalabria i militanti del PCI da ogni dove. Inauto, in treno, in pullman. Sono previsti in50mila al corteo contro la ‘ndrangheta e per ri-cordare la figura di Rocco Gatto. Saranno me-no della metà, la pioggia battente frena pro-prio i calabresi. Ma è un risultato comunqueeccezionale. Nonostante, per la seconda volta,

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17 La via Rocco Gatto non è mai stata inaugurata. Nessuna targa ha indi-cato quella strada per 30 anni. Della borsa di studio Rocco Gatto si è per-sa traccia, la commissione istituita ad hoc non ha prodotto alcun risulta-to. Sulla figura di Rocco, purtroppo, è calato l’oblio.

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Ingrao abbia dato forfait all’ultimo momento.A via Delle Botteghe Oscure si teme per l’af-faire Aldo Moro, il presidente della DC rapitodalle Br. Proprio in quelle ore arriva il comu-nicato del lago della Duchessa. Il falso volanti-no nel quale si annuncia l’esecuzione del lea-der democristiano. Il presidente della Cameraresta al suo posto e invia un lungo messaggio,un misto di dolore autentico e parole d’ordinecomuniste. Per un’orazione funebre Ingrao civerrà un’altra volta in Calabria, le occasioninon mancheranno, purtroppo.

Nel pomeriggio il concentramento, il corteoe poi l’arrivo in piazza Vittorio Veneto, lì doveRocco ha compiuto il suo dovere civile, ha se-gnato il suo destino. La pioggia non ferma igiovani delle federazioni del Nord, quelli diPisa e quelli di Milano, i collettivi di studentifuori sede e gli operai di Gioia Tauro. Tutti in-sieme contro la ‘ndrangheta, contro la minac-cia mafiosa alla democrazia. L’atmosfera è ca-rica. Ci sono tante sovrapposizioni a quel cor-teo, tanti incroci di storie, di vite contro. Sulpalco c’è Argiuna Mazzotti, consigliere comu-nale PCI a Roma. È lo zio di Cristina Mazzot-ti, la ragazza rapita ad Erba dalle cosche lame-

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tine, morta durante il sequestro e gettata inuna discarica. In suo nome i parenti hanno da-to vita alla Fondazione Mazzotti, che ha a cuo-re il tema dell’antimafia. Le parole di ArgiunaMazzotti sono cariche di dolore, toccano ilcuore. I Gatto sentono vicino il popolo della si-nistra e dell’antimafia, i democratici, la genteper bene. E non faranno mancare mai il loroappoggio simbolico quando ci sarà da scende-re in piazza.

A sfilare ci sono i ragazzi dei collettivi stu-denteschi dei fuori sede romani. Quelli chequalche anno dopo partiranno per Cetraro,per essere lì insieme a Raffaele Losardo, colpi-to a morte negli affetti, derubato del padreGiannino, assessore e segretario in procura, uncomunista. In corteo ci sono tutti, proprio tut-ti. I pullman si contano a decine. Dalla Piana ilplotone è numeroso. Ci sono gli striscioni del-le cooperative Ciccio Vinci e Rinascita di Ro-sarno. Fili invisibili che legano le vite dellameglio gioventù calabrese. Il giovane leaderstudentesco di Cittanova, Ciccio Vinci, comu-nista, ucciso per errore, ucciso per faida. L’in-tellettuale integerrimo, il segretario della se-zione di Rosarno, Peppe Valarioti, comunista,

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presto vittima della ‘ndrangheta. Bersaglio deipotenti. Lui e gli altri come Rocco Gatto. Quelgiorno, quella manifestazione, c’è un filo invi-sibile che lega le vite di chi la mafia l’ha com-battuta. Di chi si è battuto ed è morto.

Mafia uguale fascismo, l’hanno capito e loscrivono a caratteri cubitali sui teli. ‘Ndran-gheta ed eversione, lupara e bombe, sangue estragi. Da una parte i potenti, quelli delle tra-me oscure, della repressione, degli affari e del-le clientele. Dall’altro i comunisti, i democrati-ci, la gente che non vuole più subire. Nel mez-zo quelli che non vedono e non sentono, chenon vogliono vedere e non vogliono sentire.Sono tanti, tantissimi, la maggioranza. Maquel giorno, quel 16 aprile ’78, almeno quelgiorno tutti sono costretti a scegliere. Unospartiacque netto, evidente, tra chi resta a casae chi sta lì, sotto la pioggia, in onore di RoccoGatto.

Il momento è magico. Modafferi, NataleBianchi e Ciccillo Gatto hanno cominciato aviaggiare già da qualche tempo. Hanno decisodi andare in giro per l’Italia, ai convegni, nellescuole, nelle sezioni del PCI, per raccontare eper ricordare. È anche un modo per lenire il

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dolore, soprattutto per il fratello di Rocco, perincassare solidarietà, affetto e comprensione. Èanche un impegno politico, per continuare labattaglia contro la mafia. E Rocco vive in queigiorni a Torino, a Milano, a Pisa e a Ferrara,nelle sezioni a lui intitolate, tra i compagni ches’emozionano al racconto della sua storia. Lasolidarietà si fa concreta esperienza a Milano,in estate, al festival dell’Unità al parco delSempione. C’è il gemellaggio tra due sezionilocali e il circolo gioiosano. Si stringe amicizia,alcuni artisti della Cgil hanno un’idea: dipin-gere un murales per ricordare la lotta di Roc-co. Vengono in Calabria poco dopo, ospiti delPCI. E si mettono al lavoro, lì in piazza Vitto-rio Veneto, sulle pareti ad angolo del cinema.È un quarto stato di calabresi, con le bandiererosse, gli striscioni e le parole d’ordine dellalotta. In prima fila c’è Rocco, sempre presente.

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Un’assurda sentenzaun assurdo tradimento

A poco più di un anno dalla morte di Rocco,la ferita dei familiari riprende a sanguinare. Il22 aprile del ’78 il giudice ordina la riesuma-zione della salma, per fare chiarezza sulle pe-rizie balistiche discordanti. Una piccola vio-lenza, necessaria forse.

L’11 agosto c’è un punto fermo nel procedi-mento. Sono rinviati a giudizio Luigi Ursini eMario Simonetta per omicidio ed estorsioneaggravata. Con loro alla sbarra vanno Bruzze-se e Parrelli, accusati di falsa testimonianza,poi altri tra parenti e amici degli imputatiprincipali, come al solito rei di aver mentito indifesa dei familiari. Vengono inglobati i proce-dimenti relativi ai vari danneggiamenti subitida Rocco Gatto, dai furti agli incendi alle mi-nacce estorsive.

Inutile dirlo, Pasquale Gatto è sempre lì, conil suo bastone di legno, a fissare negli occhi i

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carnefici del figlio. Ha deciso di dedicare quelche resta della sua vita a perseguire la giusti-zia, in nome del figlio. E lo farà davvero, finoalla fine.

Simonetta cade in gravi contraddizioni. IGatto hanno confermato in aula tutti gli episo-di di cui sono stati testimoni indiretti, dalle vi-site al mulino al furto degli orologi, dalle mi-nacce agli incendi, alla sortita pubblica del gio-vane ‘ndranghetista al bar del paese e per stra-da, mentre Rocco era in macchina con il padre.L’alibi dell’imputato è debole, dice di aver la-vorato, ma i testimoni a discarico fanno pa-sticci. Confondono date e orari, fino a doverquantomeno ammettere di non esser certi suitempi. C’è da giustificare, poi, quella fuga pre-cipitosa, con tanto di menzogne affidate al pa-dre, all’arrivo della convocazione in caserma.

Ursini appare più calmo e lucido. Passa al-l’attacco. Cerca di legittimarsi come amicod’infanzia di Rocco, dice che erano in confi-denza. È vero, ammette il boss, si è recato piùvolte al mulino, ma appunto per amicizia,qualche volta per acquistare la farina e i ceciper i cinghiali. La difesa di Ursini è sottile, unadelicata minaccia a uno dei testimoni princi-

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pali. Sostiene che era talmente intimo del mu-gnaio da ricevere più volte confidenze riserva-tissime: una tresca tra Rocco e la moglie di Fer-raro. Due piccioni con una fava. Una ragioneper discolparsi e un modo per avvertire senzaminacce quel giornalista che, a volte, parlatroppo. Parte con calma, Ursini, prima diceche con Rocco hanno passato una pasquetta ascherzare, a commentare il sedere di una don-na sposata. Poi affonda, tira fuori quella rela-zione clandestina, chiama in causa Nicola, unodei fratelli di Rocco, per confermare il raccon-to. La manovra riesce. Ferraro, l’amico di Roc-co, cerca di ridurre i danni, come ha già fattonel processo del raid.

Il clima sta per cambiare. Non è più il bien-nio rosso dell’antimafia calabrese. Nell’ottobredel ’78, è vero, la Corte d’assise d’appello diReggio conferma le condanne per gli autoridel raid18. Ma nelle motivazioni della sentenza,pubblicate nel marzo del ’79, viene minata lacredibilità di uno dei protagonisti della stagio-

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18 Il processo d’appello per la vicenda del raid verrà poi annullato per unvizio di forma e trasferito nell’80 al Tribunale di Messina. La sentenza diprimo grado verrà quindi confermata nei successivi gradi di giudizio.

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ne d’oro della lotta alla ‘ndrangheta calabresee di Gioiosa in particolare. Il sindaco Modaffe-ri viene dipinto come impaurito e reticente,una testimonianza senza succo, dettata dal pa-nico. Un giudizio incomprensibile, che stonacon il rigore mostrato dal sindaco nel combat-tere le cosche. La DC gioiosana ne chiede su-bito le dimissioni. Modafferi resta in sella, masi prepara la sua uscita di scena. La polemicaha anche un altro effetto immediato: il nome diModafferi è bruciato, impossibile una candi-datura alle politiche. O almeno così la pensa ilPCI, che accantona l’ipotesi di schierarlo nelleproprie fila, una ipotesi che qualche tempoprima era data come certa.

Si profila la disfatta. La sentenza del proces-so per l’omicidio di Rocco arriva il 22 lugliodel ’79. È un giorno nero. La Corte d’assise diLocri assolve Ursini e Simonetta per insuffi-cienza di prove. Una doccia fredda per tutto ilmovimento. Parole come pietre per PasqualeGatto, che ha la lucidità per avvertire chi tienealla tenuta democratica della Calabria: “Eccoperché la gente ha paura di parlare”. Gli as-sassini di Rocco escono indenni dal processo.“Un grave delitto è rimasto impunito” dicono

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Martorelli e Nadia Alecci, gli avvocati di partecivile, I peggiori crimini non hanno colpevoli.È la parabola discendente del movimento con-tro la ‘ndrangheta.

Neanche il tempo di prendere fiato e arriva-no brutte notizie dal processone di Reggio. Leaccuse al gotha della ‘ndrangheta non reggo-no, centinaia di imputati assolti. Tutto scric-chiola. E in quelle ore c’è un altro morto am-mazzato. Orlando Legname di Limbadi, co-munista. Ce ne saranno altri, dieci mesi dopo:Valarioti e Losardo, comunisti anche loro.

Lo scacco arriva in ottobre. Ed è fuoco ami-co. È da un po’ che il PSI fa le bizze, scalpitaper avvicendare il PCI alla guida del Comune.Ma in realtà a Gioiosa si prepara una impro-ponibile riedizione del centrosinistra. I sociali-sti s’alleano con la DC, scalzano Modafferi einsediano l’ex vice Logozzo nella carica di sin-daco. A preparare il trapasso è stato niente me-no che Giacomo Mancini, plenipotenziario delPSI. Da qualche tempo nei suoi discorsi attac-cava il PCI, parlando di spettacolarizzazionedella lotta alla mafia. L’ultima volta in estate,proprio a Gioiosa. Dopo il rimpasto, i comuni-sti sputano fuoco: sono tornati i galantuomini,

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amici degli amici, altro che lotta alla mafia. EPasquale Gatto, sconsolato, grida al tradimen-to. Come tante altre volte, Natale Bianchi ave-va visto lontano. A Milano, nel ’78, parlandocon i compagni del caso Gioiosa aveva avver-tito tutti: la mafia tornerà all’attacco, prove-ranno a infangare il sindaco, a delegittimarloper metterlo fuori dai giochi. Ci sono riusciti.Gliel’avevano giurata e ci sono riusciti.

La giunta DC-PSI ci mette meno di un mesea sancire la definitiva sconfitta del movimentogioiosano contro la ‘ndrangheta. È il 10 no-vembre ’79, a Locri si scende in piazza, c’è losciopero cittadino contro la mafia. Una riedi-zione della pioneristica serrata promossa daModafferi nel ’75. Tutto si ferma, arrivano lerappresentanze da ogni dove. Mancano solo ilsindaco Logozzo e il gonfalone di Gioiosa Io-nica.

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Nel nome del figlio

Per Pasquale Gatto è troppo. La rabbia e ildolore per la morte di Rocco, l’umiliazione diuna sentenza considerata ingiusta e immotiva-ta. La mortificazione di dover vivere faccia afaccia con gli assassini del proprio figlio. E an-cora la beffa di vedere liquidata senza batterciglio una stagione di grandi lotte democrati-che. È troppo, per uno che nella vita non le hamai mandate a dire.

Si sente offeso nella dignità. Non sopportagli sguardi di quelli che stanno con gli Ursini.Sembra di leggere nei loro volti parole discherno. E allora quando ne ha l’occasionesommerge di improperi chi gli capita a tiro.Parole cariche d’odio, parole di fuoco, che senon si trattasse di un vecchio addolorato loavrebbero fatto fuori senza dubbio.

Pasquale Gatto non fa male, ma non è inno-cuo per il clan Ursini. Tiene viva la fiaccoladella giustizia, ravviva quella della memoria.

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Lo farà per tutta la vita, come una missione,quasi un impegno solenne preso con il figlio.Non dice mai di no ad un’intervista, si tratti diun giornale locale o di una tv nazionale, di uninviato speciale o di un semplice corrispon-dente. E attacca, si sfoga, strappa titoloni a no-ve colonne. “Gliela farò pagare con le mie ma-ni” sbotta qualche mese dopo quella terribileassoluzione. Si espone, sapendo di non averemolto da perdere, e riesce a mantenere viva lasperanza che un giorno arrivi giustizia.

Rocco non è l’unico a pagare. Muoiono Va-larioti e Losardo, uccisi perché scomodi, per-ché onesti, perché comunisti. La stessa sensa-zione di vuoto, di angoscia e disperazione, lastessa carica di rabbia, il desiderio di lottare atutti i costi. I Gatto vogliono esserci per ren-dere omaggio a chi ha combattuto ed è cadu-to. Tocca al fratello Nicola portare la bandieraa Cetraro, il 24 giugno dell’80, lì sotto il palcoai piedi di Enrico Berlinguer, il leader del PCI.E Pasquale è con Pietro Ingrao, seduto a duepassi dal podio, lì in piazza Valarioti, ad unmese dall’assassinio del segretario di Rosar-no. È lì con lo sguardo assente, pietrificato.Quelle parole, quelle bandiere sono per Peppe

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e per Giannino, sono per Rocco e per Ciccio,sono per tutti.

Pasquale resiste. E lo sforzo è ripagato. Unsegnale forte arriva da un vecchio partigianosocialista, il presidente. È proprio Sandro Per-tini a omaggiare Rocco Gatto con la medagliad’oro al valore civile, una grande consolazioneper tutta la famiglia. L’annuncio arriva in con-siglio comunale nell’aprile dell’81. Poi il 2marzo ’82, a pochi giorni dal quinto anniver-sario, c’è la cerimonia ufficiale a Reggio Cala-bria. Il vecchio Gatto fa commuovere Pertini. Èlì con i figli e i nipoti, molto emozionati. AnchePasquale non trattiene le lacrime. È il suo tur-no, s’avvicina al presidente, gli stringe la ma-no e parla col cuore: sono fuori, gli assassini dimio figlio sono ancora fuori. Pertini, si sa, nonci sta proprio dentro i cerimoniali. Rompe ogniregola, abbraccia quell’uomo, “coraggio”. Gliappunta sul petto una medaglia che è unapromessa d’impegno e prende il microfono.“Tutti i calabresi devono trarre esempio daRocco Gatto, un grande uomo”. Un comuni-sta. Un lungo applauso scioglie la tensione, lelacrime danno sfogo all’emozione.

Anche Berlinguer vuole dare un segnale al-

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la famiglia Gatto, vuole che a Gioiosa sappia-no che il PCI è con loro. E lo fa con un mes-saggio personale a Pasquale, poche frasi diret-te, senza manierismi. Una lettera che Pasqualeconserva con religiosa cura.

Ma quel che serve alla famiglia Gatto è uncolpevole, una condanna, giustizia. Per non la-sciare che un grave crimine resti impunito. Gliassassini di Rocco Gatto non avranno mai unnome, ma nel processo d’appello il clan nonesce vittorioso. È una sentenza di piena con-danna morale quella del 6 maggio 1986. LaCorte d’assise d’appello di Reggio ripercorretutta la vicenda, non lesina i giudizi pesantinei confronti della mafia gioiosana, non tra-scura i pesanti indizi sui due imputati. Le pro-ve, però, non bastano, l’accusa di omicidionon regge. Ma una condanna arriva comun-que: assoluzione per insufficienza di prove perl’assassinio di Rocco, piena colpevolezza perle estorsioni, per le minacce, per i danneggia-menti e gli incendi, per tredici anni di anghe-rie. Mario Simonetta deve scontare sette anni.A Luigi Ursini l’aver perseguitato il mugnaiorosso costa dieci anni di galera e due milioni dimulta. Ironia del destino, proprio due milioni,

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quelli che ha preteso da Rocco, senza riusciremai ad avere.

Una sentenza che resiste all’occhio criticodella Cassazione19, ma non alla falce dei con-doni, degli sconti e dei cumuli di pena. Ursinie Simonetta sconteranno solo una manciata dianni.

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19 Il 14 aprile del 1988 l’Alta corte conferma le condanne. Il 14 ottobre ’89,poi, dice no alla richiesta di revisione del processo.

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La memoria e l’oblio

Pasquale è vecchio, testardo, tenace. Vive diricordi dei tempi andati, ma non è travolto de-gli anni. Quella condanna è importante. Pas-quale sa però che i suoi rivali di sempre, gliUrsini, non ci staranno molto dietro le sbarre.Sa che la ‘ndrangheta, quella dei padroni e deigalantuomini, quella degli amici degli amici,in fondo è più forte di prima. E lui combatte.Perché proprio non gli va giù, perché sa che èimportante ricordare. Non può fare molto Pas-quale. È vecchio, è stanco. Ma qualcosa contaancora. Lo cercano spesso i giornalisti. E luinon dice di no, quelle occasioni di apparire da-vanti alla tv nazionale o sulle pagine dei quo-tidiani le usa per lanciare messaggi di sfida al-la cosca, come in una contesa d’altri tempi.Non s’arrende, neanche se la guerra, forse, èfinita.

Eccolo lì sugli schermi della Rai, in un lun-go servizio durante Mixer, la trasmissione bat-

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tagliera di Giovanni Minoli. È una puntata de-dicata alla ‘ndrangheta, nell’aprile ‘89. C’è lavoce del pentitissimo Pino Scriva, che svela iretroscena di omicidi, faide e intrecci tra clan eistituzioni. Ci sono le storie di chi ha resistito eresiste. A ricostruire le vicende della Locride cipensa Enrico Deaglio. In questo viaggio-repor-tage c’è spazio anche per Pasquale Gatto. Par-la di Rocco, della sua battaglia e della sua uc-cisione. Parla di chi lo ha voluto morto, che ve-de andare in giro per Gioiosa. Come si può fa-re per battere la mafia? Pasquale non ci credepiù, si rifugia nel mito: “Sapete che vi dico, iopenso che ci vorrebbe Stalin...”. C’era ancora ilmuro di Berlino, secoli fa.

Con quel muro cadono forse anche i ricordidi quell’Italia che resisteva. Già dai primi anni90 cala l’oblio, la dimenticanza. Va tutto in sof-fitta. Per chi ha vissuto quegli anni il passatosopravvive. Per i giovani semplicemente nonesiste. E chi per caso decide di raccontare agliitaliani lo fa con ignoranza. Senza capire nulla,calpestando i valori e le battaglie di intere ge-nerazioni. Sono lontani i tempi di Joe Marraz-zo, il giornalista senza macchia e senza paura.Con i filmati e con i reportage ha saputo rac-

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contare la Calabria senza i filtri del pregiudi-zio, ha voluto raccontare di Valarioti e RoccoGatto, di chi li ha uccisi e di chi non ha saputodargli giustizia.

Nulla di più lontano da quel triste viaggioche la Rai ha deciso di dedicare, in prima sera-ta, alla Valle del Torbido, nel settembre del ’93.Una tal giornalista Roberta Petrelluzzi, unapessima sceneggiatura, un calderone di luoghicomuni. C’è da raccontare la storia di due im-prenditori uccisi perché non hanno pagato ilpizzo. Nicodemo Panetta e Nicodemo Ra-schellà, si chiamavano così. Non sono loro iprotagonisti, però. Lo è la voglia di impressio-nare, di fare della Locride una terra di primiti-vi, di uomini che non vedono e che non sento-no. La gente povera, spaventata e sfiduciata ètrasformata in un’armata di ‘ndranghetisti. Lamafia esiste ed è imperante. Ma non è quella.Emerge solamente il folklore, per di più condialoghi che sanno di artificiale, come in unfilm di serie C. La voglia di scandalizzare, ol-tre il limite del ridicolo, ha tra le sue vittimepure il povero Pasquale Gatto. Lo vanno aprendere in auto, lo fanno preparare come peril carnevale e lo portano a Cessarè. Pasquale

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non sa resistere all’ennesima provocazione.È seduto su un ceppo, come una sentinella.Come se stesse aspettando qualcuno al varco.Ha il fucile in spalla, la cartucciera a tracolla, lemedaglie di Rocco al petto. “Li aspetto qui, iosono pronto” dice. Una scena che non meritacommenti.

Pasquale Gatto è morto nel 2003, a 95 anni.È stato lui a volersene andare. L’ha deciso co-sì, con la tenacia di tutte le sue scelte. Non vo-leva più vivere, voleva lasciare quel paese, neaveva viste troppe. Va ricordato per quello cheera, un uomo fiero e caparbio, che ha semprecombattuto in quello che credeva, che ha lotta-to per onorare il nome del figlio Rocco. Finoalla fine, fino al suo funerale, che ha fatto or-ganizzare secondo la propria volontà, pagan-do tutte le spese. Quel giorno c’era tutto il pae-se. C’erano le bandiere e i garofani rossi. C’erala banda a scandire la marcia funebre. Tutti alpasso dell’Internazionale.

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L’ultima battaglia

È un simbolo e non va perso. Il murales delquarto stato calabrese è ancora lì. Ma è sbiadi-to dal tempo, come se la memoria stesse persvanire. Stesse per chiudere per sempre quellapagina di storia, quelle vicende che hanno del-l’epico.

A dare l’allarme è stato nel 2004 il circolo cit-tadino di Rifondazione comunista, che in que-sti anni ha mantenuto la fiammella del ricor-do. È partita una raccolta di firme per restau-rare quell’affresco, opera di quegli artisti mila-nesi che vollero regalare a Rocco un segno del-la loro riconoscenza. Per quello che ha rappre-sentato e rappresenta.

Il caso ha rianimato il dibattito in paese, ènato un comitato per il restauro del murales.Partiti, associazioni e pezzi di società civile vo-gliono trovare i fondi per ridare vita alla me-moria. E chiedono l’aiuto delle istituzioni lo-cali e, perché no, nazionali.

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C’è anche un’altra lotta, quella di OmarMinniti, consigliere provinciale del PRC. Halanciato la proposta di intitolare la sala delconsiglio a Rocco Gatto e Peppe Valarioti.

Battaglie da vincere a tutti i costi. Per RoccoGatto, per i suoi familiari e per chi lo ha cono-sciuto ed apprezzato. Per chi come Rocco hacombattuto contro la ‘ndrangheta e le ingiusti-zie ed ha perso. Ha combattuto ed è morto. Perchi combatterà e perderà o vincerà. Per chicombatterà e morirà.

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La famiglia Gatto.

Rocco Gatto in tv alla trasmissione G7 lancia un duro attacco alle cosche:

non pago la mazzetta, non mi piego, lotterò fino alla morte.

Rocco in tv alla trasmissione G7 della RAI.

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Il sindaco Francesco Modafferi (PCi) e il padre di Rocco, Pasquale Gatto.

Il murales in piazza Vittorio Veneto a Gioiosa, dipinto dagli artisti mila-nesi per ricordare Rocco Gatto, in una immagine dell’epoca.

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Nel 1982 il presidente dellaRepubblica Sandro Pertiniconsegna a Pasquale Gattola medaglia al valore civilealla memoria del figlio Roc-co. Il PCI immortala la scenain un manifesto affisso intutta la Calabria.

Un momento della manifestazione contro la ‘ndrangheta a Gioiosa il 16aprile del ’78.

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Sfilano anche i ragazzi rosarnesi delle cooperative Ciccio Vinci e Rinascita.

A Gioiosa, per onorare il primo anniversario della morte di Rocco, c’è an-che il circolo della FGCI dedicato a Ciccio Vinci.

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“Ci si è modernizzatirendendo tutto vendibile

e rendendo sistematico l’osceno,prostituendo il territorio e l’ambiente,

i luoghi pubblici e le istituzioni”.Franco Cassano

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Un pensiero per la Calabria Intervista a don Luigi Ciotti,

fondatore di Libera

Non è certamente questa la sede per una biografia,ma c’è un dato che ci piacerebbe sottolineare in que-sta intervista: come ha scoperto la mafia? Perchéun sacerdote di Torino, a un certo punto della suavita, decide di impegnarsi contro la criminalità or-ganizzata?

Non è purtroppo vero che Torino e il Pie-monte sono stati immuni alle mafie. Nel 1983,a Torino, un insediamento della ‘ndranghetauccise Bruno Caccia, procuratore della Repub-blica. In provincia di Torino c’è Bardonecchia,investita anni fa da infiltrazioni mafiose. InPiemonte esistono beni, ora confiscati, neiquali i mafiosi hanno investito i loro soldisporchi per riciclarli, così come c’è un trafficodi droga che fa sempre capo alle grandi orga-

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nizzazioni criminali. Certo, le mafie in Pie-monte non hanno messo le radici, è una regio-ne che è riuscita ad attivare gli anticorpi, maho sempre pensato che fosse un errore circo-scrivere la questione mafiosa a determinatearee geografiche. Per fare i loro affari le mafiesi infiltrano nel corpo sociale, si espandono, al-largano silenziosamente la loro sfera d’in-fluenza, facendo attenzione a non destare cla-more. Le connessioni e le trasversalità balzanoagli occhi magari a distanza di tempo. Provo-ca una profonda inquietudine, ad esempio, ilfatto che le stragi di Capaci e via d’Amelio sia-no avvenute dentro il quadro di generale de-stabilizzazione provocato poco prima da Tan-gentopoli.

Capitolo politica. Storicamente i governi nazionalihanno sottovalutato la ‘ndrangheta. E nonostanteogni indicatore descrivesse una situazione semprepiù allarmante. In questo senso, pensa che anche icalabresi abbiamo una responsabilità? Che cosa siaspetta dal governo?

Credo che le responsabilità siano sempre ditutti, che non si debba guardare soltanto in

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una direzione. Sono anche convinto che la ma-fia è forte quando la politica è debole. Ci sonostate certamente fasi alterne nella lotta alle or-ganizzazioni criminali. Basta ricordare le di-chiarazioni seguite ai grandi omicidi, alle stra-gi, e quello che ne è scaturito. La ‘ndrangheta,per caratteristiche peculiari ma anche grazie aforti complicità, è sempre riuscita a restare sot-totraccia, a non calamitare troppo l’attenzione.C’è stata senz’altro una sottovalutazione cheha giocato a suo vantaggio. Ma va detto che arafforzarla è stata, paradossalmente, anche unaltro errore di valutazione. In Calabria sonopiù di un centinaio le famiglie mafiose moni-torate, ma non per questo ogni fatto criminaleè riconducibile a una matrice mafiosa. Credoche dobbiamo sempre sforzarci di distinguere,discernere, evitando semplificazioni che fini-scono per enfatizzare un fenomeno e non aiu-tano a capirlo. In questo il ruolo dell’informa-zione è decisivo. Sull’impegno dei governi na-zionali credo sia invece importante fare unapremessa. Da molti decenni, ormai, il Mezzo-giorno occupa un posto centrale nell’agendaoperativa e politica dei governi nazionali e re-gionali. Sono stati erogati aiuti, stanziati fondi.

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Facendo attenzione a non generalizzare, per-ché ci sono politici e amministratori di grandevalore e integrità, il problema è capire comesono stati usati, capire le ragioni di certi sper-peri, di certi ritardi, di opere incompiute o rea-lizzate a un costo dieci volte superiore al pre-visto. Credo allora che dobbiamo con moltaumiltà porci alcune domande. Non è sufficien-te sciogliere i comuni per infiltrazione mafio-sa: bisogna interrogarsi anche su quello cheaccade ad altri livelli, sulla struttura più gene-rale dell’amministrazione, sulle procedure, laburocrazia, gli eventuali favoritismi e collusio-ni. Dall’attuale governo mi aspetto politiche.Strategie sganciate dalla logica dell’emergen-za, del provvedimento tampone, caratterizza-te da continuità e simultaneità d’interventi.Ma voglio ricordare a proposito le parole diRocco Gatto: «Sono forti della nostra debolez-za e della nostra paura». Parole chiare e incisi-ve, che ci richiamano alla nostra responsabili-tà di cittadini. La politica chiede anche il no-stro contributo, il nostro impegno. La sfidaculturale in Calabria è sconfiggere la rassegna-zione, ma anche certe forme di attendismo chepossono diventare arroganza dell’attesa. L’at-

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tesa che pretende di essere soddisfatta senzasentirsi responsabile e corresponsabile. Sentoparlare continuamente di legalità, ma legalitànon è un valore in sé: è saldatura tra la re-sponsabilità e la giustizia. La responsabilitàchiama in gioco noi, come singole persone, afare la nostra parte. La giustizia è ciò che in ba-se a questo impegno chiediamo alle ammini-strazioni, alle istituzioni, allo Stato.

Cortocircuito-Calabria. I politici soffrono di una cri-si di legittimazione in passato ma anche oggi (i con-siglieri regionali sotto inchiesta, per esempio, sono22), sono spesso coinvolti in vicende torbide. È suc-cesso e succede che le cosche entrino direttamentenell’agone politico. Nello stesso tempo, è elevatissi-mo il numero di politici e amministratori che finiscenel mirino delle cosche. Con minacce, intimidazio-ni, attentati fino all’omicidio Fortugno. Che idea s’èfatto?

Non amo dare giudizi affrettati, tanto più inmerito a vicende giudiziarie che conosco soloattraverso la lettura dei giornali. La magistra-tura deve poter fare il suo lavoro con strumen-ti, mezzi e uomini adeguati, ma anche noi sia-

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mo chiamati a collaborare in questa ricerca diverità, dicendo con chiarezza e determinazioneno all’illegalità, alla corruzione, alle mafie. Co-sì come è necessario che la politica faccia la suaparte, ritrovando credibilità e trasparenza. C’è,ad esempio, un codice europeo di comporta-mento per gli eletti che nel nostro Paese atten-de ancora di essere adottato. Chi ricopre ruolidi funzione pubblica deve rispondere a unadoppia istanza etica: è tenuto all’onestà non so-lo come singola persona, ma anche come rap-presentante di un sistema sociale. La sua co-erenza si misura sul piano privato e su quellopubblico. Torno a dire, però, che la crisi dellapolitica mette in evidenza una crisi generaledel senso di legalità. L’abbiamo toccato conmano in questi anni e mi angosciano soprattut-to le ricadute psicologiche che certi comporta-menti possono avere sui giovani. I quali reagi-scono - me ne accorgo incontrandoli - sostan-zialmente in tre modi: imitazione, sfiducia, ri-bellione. Ecco, credo sia necessario sostenere eaccompagnare questa ribellione propositiva,questo dire di no all’andazzo corrente, que-st’assunzione di responsabilità e questa vogliadi cambiamento.

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La società civile. La Calabria ha spesso avuto dei sus-sulti di resistenza e lotta contro i fenomeni crimina-li, dalla Locride negli Anni 70 ai giovani di “Bovali-no libera” dei primi anni 90 contro i sequestri, allaprima associazione antiracket di Cittanova, all’impe-gno nell’antimafia sociale di Libera nella Piana diGioia Tauro negli ultimi tempi. Ma perché non è ri-uscita a strutturare un movimento antimafia solidoe costante nel tempo?

È un problema non solo della Calabria cheva affrontato con lucidità e concretezza. Moltoè stato fatto. C’è in Calabria un’antimafia chesi è davvero rimboccata le maniche. Ammini-stratori, cittadini, giovani che si sono opposti,che hanno subito minacce, attentati, che in al-cuni casi hanno pagato il loro impegno a prez-zo della vita. Ma è anche vero che su alcunipiani è arrivato il momento di cambiare stra-da. Credo ad esempio che in certi contesti, do-ve l’illecito è diffuso anche a livello ammini-strativo, parlare di educazione alla legalità ri-schia di essere un po’ velleitario. Bisognerebbefare un lavoro più di base, stimolare nei ragaz-zi una presa di coscienza, una consapevolezzadel proprio essere persone e cittadini. Mi chie-

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do se non sia il caso di fare meno analisi, limi-tare le parole. Le manifestazioni e i cortei sonocerto importanti, ma ormai non bastano più ibuoni propositi, il discernimento solo verbale.Ci vuole quella concretezza che parte anchedalle piccole cose, dalla nostra quotidiana ecostante quota d’impegno. La speranza non èattesa passiva del futuro, ma un presente da ri-empire con gesti e scelte coraggiose. La spe-ranza ci chiama in causa adesso, non domani,richiede il nostro esserci qui e ora. Dobbiamocreare una vicinanza tra il senso del vivere euna politica che dia senso alla vita, perché so-lo una politica che sa trasformare è una politi-ca che dà speranza.

Che ruolo ha ed ha avuto la chiesa nella resistenzacontro le cosche? Non sempre è stata un riferimen-to positivo per la società civile. Un’esperienza sim-bolo è quella di don Natale Bianchi, sacerdote dellacomunità di base San Rocco di Gioiosa Jonica chenegli anni 70 ha combattuto le cosche nonostantel’ostilità del suo vescovo. Alla fine è stato costrettoa ‘spogliarsi’ dell’abito talare (ma lui è rimasto sulterritorio a condurre la sua battaglia). E oggi è an-

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cora lì. Ci sono esperienze positive, altre in chiaro-scuro (nonostante le apparenze), altre negative. In-somma, pensa che la Chiesa abbia fatto abbastanza?

Dobbiamo dimostrare con le parole e i fattidi stare da una parte sola: quella dei diritti,della dignità, della libertà, perché dove c’è lamafia non ci può essere libertà ma soltantoschiavitù. È la stessa chiarezza richiesta e mes-sa in evidenza dalla parola di Dio. Ricono-scendosi nella profezia di Isaia, Cristo dice disé: «Mi ha mandato a portare il lieto annunzioai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezza-ti, a proclamare la libertà degli schiavi, la scar-cerazione dei prigionieri» (Is 61, 1). Scopriamocosì che il sociale e lo spirituale sono stretta-mente intrecciati, inestricabili. Formano untessuto che tiene uniti fede e storia, strada eparola. È dentro questa tensione che si gioca ilnostro rapporto con Dio e con le persone.«Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti macredibili» scriveva il giudice Livatino, uccisodalla mafia. È un peccato che questo intreccionon sia sempre stato accolto e sostenuto, comenel caso di don Bianchi. La realtà ti chiede dinon stare alla finestra, di sporcarti le mani, di

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dare una mano alle persone a rialzare la testa.Ti chiede di parlare con tutti, uscire dai recin-ti, costi quel che costi, senza scendere a com-promessi, senza fare l’occhiolino a nessuno,senza fingere di non vedere. Ma bisogna anchesforzarsi di cercare e riconoscere il positivo. InCalabria ci sono state splendide espressioni diChiesa come quella del compianto don ItaloCalabrò, ma anche oggi sono tanti i vescovi ele comunità che si spendono senza risparmio.È quella Chiesa che utilizza la denuncia e l’an-nuncio per produrre nuova coscienza, comeauspicava don Peppino Diana, il parroco diCasal di Principe ucciso il 19 marzo 1994 dallacamorra. Don Peppino scrisse con altri parrocidella foranìa di Casal di Principe un testosplendido, “Per amore del mio popolo non ta-cerò”, in cui chiedeva ai politici di non im-provvisare più perché «non è possibile gover-nare senza programmi, senza una vera scuoladi politica»; ai giovani di «farsi avanti, di farsentire la propria voce e di partecipare al dia-logo culturale, politico e civile», e ai “pastorie confratelli” di «parlare chiaro nelle omelie ein tutte quelle occasioni in cui è richiesta unatestimonianza coraggiosa».

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La memoria, la verità. La Calabria, come o forse piùdel resto del paese, come diceva Sciascia è un luogo“senza memoria e verità”. Soffre di una memoria“esterna” (quella costruita dagli “altri” italiani)ingiusta e parziale, e fatica a trovare una sua chia-ve di lettura dei fatti e un suo modo di ricordare, ri-schia di confondere buoni e cattivi. Condivide que-sta analisi? Com’è vista la Calabria da “fuori”? Edelle persone conosciute in Calabria in questi annidi impegno antimafia, cosa pensa? Noi abbiamo lasensazione che i calabresi non amino abbastanza leloro vittime innocenti, almeno come avviene in al-tre zone del Paese. E lei?

Vorrei evitare le generalizzazioni. Per quan-to limitata, la mia esperienza è stata largamen-te positiva. Ho trovato gente bella, generosa etanto fermento. Certo a volte anche sfiducia,rassegnazione, ma come altrove. Dappertuttola lotta alla mafia - come battaglia civile, comeimpegno per la libertà e la democrazia - devevincere l’indifferenza annidata dietro masche-re di disattenzione, smemoratezza, apparentenormalità, rimozione, omertà. Però, ripeto,Calabria significa per me soprattutto tanta ge-nerosità. Una generosità riscontrata anche nei

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calabresi incontrati in giro per il mondo, per-sone costrette a lasciare la loro terra e che l’-hanno onorata sgobbando duramente e ren-dendo grande il nostro Paese. Calabria del re-sto, mi piace ricordarlo, nel suo antico signifi-cato vuol dire proprio questo: “Faccio sorgere ilbene”.

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Indice

Le ragioni della memoria . . . . . . . . . . . . . pag. 7

I. PER CICCIO VINCI

UN GIOVANE ESEMPIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 11Fermo immagine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 15Morire di faida, vivere nella faida . . . . . . ” 17Attorno a un giubbotto . . . . . . . . . . . . . . . ” 23La ragnatela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 33L’hanno ammazzato. Un nuovo inizio . . ” 39In silenzio non si può, non più . . . . . . . . . ” 45La verità, che fatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 61Vinci oggi, e domani . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 65

II. PER ROCCO GATTO

STORIA DI UN UOMO ONESTO . . . . . . . . . . . . . ” 81A dieci passi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 85Il paese, la famiglia, il clan . . . . . . . . . . . . ” 89Guerra di ’ndrangheta,guerra alla ’ndrangheta . . . . . . . . . . . . . . . ” 97Nella morsa del clan . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 111Chiuso per lutto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 117

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L’ultimo viaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 131Il clan alle corde . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 137Rocco vive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 147Un’assurda sentenza, un assurdo tradimento ” 153Nel nome del figlio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 159La memoria e l’oblio . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 165L’ultima battaglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 169

Un pensiero per la CalabriaIntervista a don Luigi Ciotti,fondatore di Libera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 177

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