Capitolo primo – Le origini della guerra fredda (1944 – 1949) · Alla fine della seconda guerra...

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Capitolo primo – Le origini della guerra fredda (1944 – 1949) Se coalizzarsi contro qualcuno non è difficile, arduo è invece accordarsi tra interessi divergenti. Alla fine della seconda guerra mondiale, l'URSS di Stalin non poteva concepire la coesistenza internazionale se non in chiave intrinsecamente conflittuale. Il governo degli USA, insieme a larga parte delle élite europee, si convinse che una ferma opposizione ai sovietici fosse la via più efficace e meno pericolosa per promuovere interessi, ideali e identità di una coalizione occidentale che prese a definirsi come “mondo libero”. La catastrofe della seconda guerra mondiale si sommava, nell'arco di una generazione, ai traumi della prima guerra mondiale. L'effetto era una profonda rottura culturale e psicologica – non c'era bisogno solo di una ricostruzione fisica. Vi era un desiderio di innovazione radicale, se non rivoluzionaria, di cui erano portatori taluni gruppi di resistenza. Ne erano principali beneficiari i gruppi comunisti, il cui sostegno popolare cresceva insieme al fascino che essi esercitavano su molti intellettuali. Ma ben più diffuso era un desiderio di cambiamento che portasse pace e rassicurazione: un sentimento, dunque, al contempo radicale e conservatore. Sull'intero continente non c'era forza né possibile coalizione, tale da bilanciare la superiorità militare dell'URSS. I britannici, la nazione meglio uscita dal conflitto, aveva dunque chiare le idee su come muoversi nel dopoguerra – propose tre pilastri per plasmare l'ordine europeo: 1. Contenere quanto più a oriente possibile la preponderanza militare sovietica, concordando con Stalin le sfere d'influenza che legittimassero la preminenza sovietica nell'Europa dell'est e quella britannica nell'Europa dell'ovest e mediterranea; 2. Impedire che l'incerto destino della Germania potesse risolversi in favore dei russi; 3. Impedire che gli USA si disimpegnassero dalla ricostruzione europea, facendo sì, dunque, che restassero a fianco della GB ed esercitassero il necessario contrappeso all'URSS. Londra proponeva dunque un sistema di tradizionale equilibrio di potenza. Dal canto suo, Stalin aveva progetti chiari già dal 1940: inglobando i paesi baltici, la parte orientale della Polonia e la Bessarabia rumena – e immaginando di sottomettere Finlandia e Turchia – egli intendeva tornare alle frontiere della Russia zarista. Era questo il primo tassello di una concezione della sicurezza fondata sul controllo territoriale. Il secondo tassello era il controllo sui paesi dell'Europa orientale, e in primo luogo sulla Polonia, per formare una fascia di sicurezza e tutelarsi da futuri attacchi all'URSS. Il terzo e ultimo tassello era il controllo sulla Germania, attraverso la distruzione del suo potenziale militare e gli accordi con gli alleati sul suo futuro. Lo scenario del 1945 veniva perciò letto dai sovietici entro la duplice previsione di un'essenziale ostilità tra capitalismo e socialismo e di una crisi storica del capitalismo, già avviatasi nel 1929. La prospettiva strategica non era dunque quella di integrarsi in un ordine internazionale collaborativo (per negoziare e gestire pacificamente le interdipendenze), e neppure sfruttare lo stato di crisi per alimentare processi rivoluzionari che avrebbero portato a nuove ostilità (l'URSS non era pronta ad affrontare nuovi conflitti); la strategia era di mirare a una paziente ricostruzione, accumulando forza e controllo. Il problema era pertanto quello dei tempi e delle tattiche che andavano calibrate per sfruttare le opportunità ed evitare rischi inutili.

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Capitolo primo – Le origini della guerra fredda (1944 – 1949)

– Se coalizzarsi contro qualcuno non è difficile, arduo è invece accordarsi tra interessi divergenti. Alla fine della seconda guerra mondiale, l'URSS di Stalin non poteva concepire la coesistenza internazionale se non in chiave intrinsecamente conflittuale. Il governo degli USA, insieme a larga parte delle élite europee, si convinse che una ferma opposizione ai sovietici fosse la via più efficace e meno pericolosa per promuovere interessi, ideali e identità di una coalizione occidentale che prese a definirsi come “mondo libero”.

– La catastrofe della seconda guerra mondiale si sommava, nell'arco di una generazione, ai traumi della prima guerra mondiale. L'effetto era una profonda rottura culturale e psicologica – non c'era bisogno solo di una ricostruzione fisica. Vi era un desiderio di innovazione radicale, se non rivoluzionaria, di cui erano portatori taluni gruppi di resistenza. Ne erano principali beneficiari i gruppi comunisti, il cui sostegno popolare cresceva insieme al fascino che essi esercitavano su molti intellettuali. Ma ben più diffuso era un desiderio di cambiamento che portasse pace e rassicurazione: un sentimento, dunque, al contempo radicale e conservatore.

– Sull'intero continente non c'era forza né possibile coalizione, tale da bilanciare la superiorità militare dell'URSS. I britannici, la nazione meglio uscita dal conflitto, aveva dunque chiare le idee su come muoversi nel dopoguerra – propose tre pilastri per plasmare l'ordine europeo: 1. Contenere quanto più a oriente possibile la preponderanza militare sovietica, concordando con Stalin le sfere d'influenza che legittimassero la preminenza sovietica nell'Europa dell'est e quella britannica nell'Europa dell'ovest e mediterranea; 2. Impedire che l'incerto destino della Germania potesse risolversi in favore dei russi; 3. Impedire che gli USA si disimpegnassero dalla ricostruzione europea, facendo sì, dunque, che restassero a fianco della GB ed esercitassero il necessario contrappeso all'URSS. Londra proponeva dunque un sistema di tradizionale equilibrio di potenza.

– Dal canto suo, Stalin aveva progetti chiari già dal 1940: inglobando i paesi baltici, la parte orientale della Polonia e la Bessarabia rumena – e immaginando di sottomettere Finlandia e Turchia – egli intendeva tornare alle frontiere della Russia zarista. Era questo il primo tassello di una concezione della sicurezza fondata sul controllo territoriale. Il secondo tassello era il controllo sui paesi dell'Europa orientale, e in primo luogo sulla Polonia, per formare una fascia di sicurezza e tutelarsi da futuri attacchi all'URSS. Il terzo e ultimo tassello era il controllo sulla Germania, attraverso la distruzione del suo potenziale militare e gli accordi con gli alleati sul suo futuro.

– Lo scenario del 1945 veniva perciò letto dai sovietici entro la duplice previsione di un'essenziale ostilità tra capitalismo e socialismo e di una crisi storica del capitalismo, già avviatasi nel 1929. La prospettiva strategica non era dunque quella di integrarsi in un ordine internazionale collaborativo (per negoziare e gestire pacificamente le interdipendenze), e neppure sfruttare lo stato di crisi per alimentare processi rivoluzionari che avrebbero portato a nuove ostilità (l'URSS non era pronta ad affrontare nuovi conflitti); la strategia era di mirare a una paziente ricostruzione, accumulando forza e controllo. Il problema era pertanto quello dei tempi e delle tattiche che andavano calibrate per sfruttare le opportunità ed evitare rischi inutili.

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– Proseguire la collaborazione con gli alleati era congruente con tali obiettivi: era una cooperazione finalizzata ad irrobustire il potere sovietico in vista dei conflitti futuri.

– Nelle conferenze interalleate di Teheran e Jalta l'idea di una zona di sicurezza sovietica in Europa orientale fu sostanzialmente accettata. Inoltre Roosevelt aveva bisogno di ottenere da Stalin l'intervento sovietico in Giappone per chiudere le ostilità in fretta e con minori perdite possibili. Ci si accordò pure per la suddivisione della Germania in zone d'occupazione e sullo spostamento ad ovest (a scapito della Germania stessa) dei confini polacchi: la Polonia era occupata dall'Armata Rossa e subito fu imposta una guida comunista al governo.

– Questa ambivalente complessità – con tutte le incoerenze che sarebbero emerse – era particolarmente spiccata al riguardo della Germania, il nodo cruciale delle strategie postbelliche di tutti. C'era una convergenza di massima per ricostruire un paese neutrale, smilitarizzato e denazificato, sotto controllo internazionale. Pur se non esplicitata, era pure condivisa da tutti la nozione che la Germania non dovesse cadere sotto il controllo unilaterale di una sola altra potenza.

– Con tale patto, aggiudicandosi una posizione di controllo in Germania, l'URSS avrebbe avuto voce in capitolo sul suo futuro, impedendo eventuali ricostruzioni della potenza tedesca a proprio danno. Con gli alleati Stalin insistette per avere riaparazioni dalla Ruhr (zona fuori dell'area di controllo sovietica), ma ponendo simultaneamente – e incoerentemente – dei freni alla ripresa dell'economia tedesca, che gli alleati reputavano indispensabile.

– La strategia di Stalin appariva fallace sotto altri aspetti: ad esempio la zona di controllo sovietica doveva essere il polo d'attrazione, il magnete di un'eventuale estensione dell'influenza russa al resto della Germania (anche per questo la dirigenza sovietica operò contro l'erezione di un sistema sovietico, insistendo con i comunisti tedeschi affinché facessero alleanze con socialdemocratici ed altre forze – apparendo moderati per esercitare un successivo soft power sovietico). Così non fu, perché le forze (amministrazione e polizia) sovietiche nella loro area di controllo in Germania agivano secondo metodi di pressione e repressione, azioni di terrore tipiche della dittatura sovietica. Più che simpatia e influenza, quindi, i sovietici iniziarono da subito a suscitare paura, diffidenza e ostilità.

– Stalin, vincolato dai limiti cognitivi imposti dall'ideologia, rispondeva non tanto ad un piano logico e conseguente quanto a impulsi diversi e contraddittori.

– Alla fine della guerra mondiale gli USA sfornavano quasi metà del PIL mondiale, possedevano due terzi delle riserve aurifere globali ed erano i grandi creditori di tutta l'alleanza, godendo pure del primato tecnologico in quasi tutti i settori. Gli USA potevano offrirsi al mondo come esempio di organizzazione sociale (New Deal di Roosevelt) al tempo stesso morale ed efficace.

– Il presidente statunitense progettava la pianificazione del dopoguerra: fondamentale era il tema dell'economia internazionale. Già dall'inizio del secolo si era affermata negli USA l'idea che un'economia mondiale aperta, i cui mercati fossero liberi ed interconnessi, corrispondesse non solo agli interessi dei produttori e consumatori americani, ma a una più ampia concezione pacifica della modernità.

– Dalla rapidissima marcia di Hitler verso la dittatura e la guerra veniva desunto un nesso inscindibile tra debolezza dell'economia (protezionismo diffuso negli anni '30 della crisi), fragilità della democrazia, dittatura e guerra. La dottrina liberista della “porta aperta” era quindi letta come imperativo politico – a ciò seguirono dunque gli accordi di Bretton Woods

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(1944). A tale conferenza si stabilì la centralità del dollaro nel sistema internazionale (Dollar Exchange Standard); si istituirono due organizzazioni internazionali, Banca Mondiale e FMI (per finanziare la ricostruzione ai paesi in temporanee difficoltà con i pagamenti, disincentivando chiusure protezionistiche).

– Si affermò che un'economia libera come quella conosciuta dagli americani non poteva sopravvivere in un mondo che altrove fosse sotto un regime di socialismo militare. Si giunse ad una concezione estesa, di fatto globale, della sicurezza nazionale. Gli USA, insomma, non si sarebbero limitati alla dimensione nazionale o continentale della sicurezza. Avrebbero ridisegnato l'ambiente mondiale in nome della sicurezza propria e di quella collettiva, ritenute essenzialmente coincidenti. Ne scaturiva un ampliamento su scala globale dei teatri e degli interessi sensibili per il paese, con una continua moltiplicazione dei fattori di instabilità che potevano venir visti come potenziali minacce a interessi tanto estesi e diversificati.

– Il grande interrogativo era rapportare un simile disegno internazionale ai progetti dell'URSS. Roosevelt riteneva che la cooperazione con i sovietici fosse essenziale per la condotta della guerra. Il fallimento della SdN indicava inoltre il bisogno di ancorare la sicurezza futura a un'efficace collaborazione tra le potenze vincitrici: perciò nel progettare la futura ONU si parlò dei “quattro poliziotti” (USA, GB, URSS e Cina), ognuno dei quali avrebbe controllato le proprie sfere di influenza per garantire la pace internazionale. La collaborazione doveva per quanto possibile integrare l'URSS nel sistema internazionale, ma contemporaneamente evitare un accrescimento della potenza sovietica oltre le aree già occupate dall'Armata Rossa.

– Alla morte di Roosevelt gli succedette Truman, presidente orgogliosamente americano, convinto della superiorità morale del proprio paese e del proprio modello internazionale.

– La questione della Polonia: conquistata in guerra dalla Russia, la Polonia divenne subito parte dell'URSS. Nei primi tavoli di vertice GB e USA avevano caldeggiato a Stalin l'apertura ad elezioni democratiche in Polonia, ma, nonostante l'accettazione a parole, l'URSS non rispettò il patto. Per Washington ciò gettava un'ombra piuttosto preoccupante sia sull'affidabilità dei negoziati sia, soprattutto, sul futuro dei paesi sotto l'influenza sovietica.

– Le richieste a Mosca di comportamenti consoni con il principio di autodeterminazione diventava tanto più netta quanto più rilevante diventava il primato americano (risorse militari, finanziarie e produttive per l'edificazione della pace).

– Dunque le divergenze di prospettiva emergevano già nei primi incontri di vertice: a neppure due anni dal termine della guerra gli USA sarebbero giunti a ritenere che la rottura fosse meno rischiosa di una cooperazione inconcludente o, peggio, ingannevole.

– Centrale, in questo senso, fu l'assetto della Germania occupata: a fine 1946 i russi avevano trasferito dalla loro zona d'occupazione tecnologie, scienziati e quant'altro potessero “rubare” come riparazione di guerra; al contrario, americani e britannici avevano posto come priorità la ripresa dell'economia tedesca.

– I protocolli di Potsdam concedevano a ciascun governatore l'autorità suprema sulla propria zona. Gli occidentali poterono così negare a Mosca riparazioni dalla Ruhr e i sovietici, in risposta, bloccarono l'utilizzo congiunto delle risorse per la ripresa. Da una parte, i sovietici temevano una Germania unificata sotto il dominio economico degli USA. Dall'altra, gli occidentali paventavano il rischio che l'URSS inglobasse nel suo raggio d'influenza la potenza industriale tedesca , con ricadute sull'intera Europa. Gli USA, pesavano dunque di non avere altra scelta se non rendere la Germania ovest indipendente e forte abbastanza da rendere l'Est “innocuo”.

– A questi primi contrasti est/ovest si aggiungevano altri elementi. Per l'URSS vale la considerazione che in quasi tutti i paesi occupati dall'Armata Rossa le forze filo-sovietiche

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erano in minoranza – l'incertezza dell'autorità sovietica spingeva gli apparati di Mosca e i comunisti locali a stringere le vite del controllo, soprattutto in Polonia.

– Per quanto riguarda gli USA, già irritata dalla violazione degli accordi sulla Polonia, l'amministrazione Truman vedeva nelle condizioni politiche dell'Europa orientale un test della disponibilità sovietica a negoziare. E poiché quest'ultima si rivelava scarsa, l'intera questione si risolveva in accentuata esasperazione. Inoltre l'URSS scelse di non aderire alle istituzioni di Bretton Woods.

– Se la politica del quid pro quo – negoziati e concessioni reciproche – non funzionava, più efficace era l'azione deterrente dell'atomica, allora monopolio statunitense, alla quale Stalin stava già però lavorando. A Washington c'era consapevolezza della gerarchia di potenza dettata dall'atomica e della preminenza strategica statunitense. Si sperava che le bombe in Giappone avessero l'effetto collaterale di intimorire i sovietici per strappare loro maggiori concessioni. Inoltre, l'azione efficace su Hiroshima e Nagasaki rese inutile l'intervento russo ad oriente: Truman poté decidere un'azione unilaterale in Giappone, senza l'appoggio sovietico – non essendo dunque “in debito” con Stalin.

– Quest'arma negoziale in meno per Mosca procurò il timore che gli accordi di Jalta potessero essere ridiscussi, e ciò spinse i sovietici a dare ancora più importanza al loro controllo unilaterale sull'Europa orientale e all'intransigente difesa della propria autosufficienza. Si avviò così, per volontà di Stalin, una stagione di sviluppo forzato (con conseguenze sociali disastrose): bisognava rafforzare la sicurezza e concentrare risorse nell'industria pesante, la quale assorbì inizialmente il 90% degli investimenti statali.

– La dottrina Kennan, ambasciatore americano in Russia: l'analista affermò che l'URSS non avrebbe corso rischi inutili, essendo sensibile alla logica della forza; la tendenza sovietica era di ritirarsi qualora avesse incontrato forte resistenza. Tale dottrina ebbe forte diffusione nell'amministrazione americana e sul fronte Sud – prime crisi del dopoguerra – sembrò essere comprovata. Stalin – insoddisfatto dei propri confini meridionali – chiedeva di rivedere i confini con la Turchia e rifiutava contemporaneamente di ritirarsi dall'Iran (nonostante i patti con la GB). Londra e Washington portarono in sede CdS la questione del ritiro dall'Iran e gli USA inviarono una flotta nel Mediterraneo orientale, per segnalare a Mosca di non accettare pressioni su Iran e Turchia. Stalin, che non voleva (non era pronto) un nuovo conflitto, si ritirò dall'Iran.

– Se di lì a poco truppe sovietiche furono concentrate sui confini con la Turchia, anche lì la pronta reazione americana (Washington fece capire che una azione russa avrebbe avuto una risposta militare statunitense) fece prontamente recedere Mosca.

– Nel 1946, dunque, la fiducia nella cooperazione recedeva drasticamente e la psicologia della rivalità conquistava il campo.

– Stalin restava convinto dell'imminente crisi del capitalismo (quella segnalata già dai fatti del 1929): l'attesa del crollo del capitalismo americano si intrecciava però con la precarietà del controllo sovietico sui paesi occupati. Elezioni locali nel loro settore tedesco – 1946 – segnalavano un voto di protesta e anche in Austria e Ungheria i pariti comunisti arretrarono. Allora il Cremlino guardava con crescente preoccupazione e sospetto al pluralismo politico come fonte di probabili sovversioni.

– Per gli USA, però, la linea della fermezza era utile ma non sufficiente, perché la loro concezione globale di una sicurezza era fondata non solo sulla forza ma pure su un circolo virtuoso di ripresa economica internazionale: ciò stava trovando pochi riscontri nella realtà dell'Europa occidentale, dove viceversa si percepiva crescente incertezza e vulnerabilità. Lo stato caotico dei trasporti, dei rifornimenti e dell'agricoltura, i più danneggiati dalla guerra, frapponevano continui ostacoli.

– Dove c'erano governi di coalizione – come Francia e Italia – le capacità decisionali erano limitate dal moltiplicarsi dei contrasti sulle scelte economiche e dagli attriti ideologici, che ricalcavano la polarizzazione internazionale.

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– I governi europei chiedevano insistentemente nuovi crediti agli USA, che tuttavia non erano sufficienti per ricoprire investimenti, importazioni e ambiziose politiche sociali che allora molti paesi stavano intraprendendo. Visti da Washington, questi fattori di potenziale disgregazione internazionale apparivano preoccupanti di per sé e drammatici se messi in relazione alla possibilità che i sovietici ne traessero vantaggio.

– Insieme ai vincoli finanziari che sospingevano verso i controlli degli scambi, infatti, questi fattori potevano spalancare la porta a forme di nazionalismo economico che in diversi paesi avrebbero dato influenza crescente ai partiti comunisti.

– La svolta venne all'inizio del 1947, quando la GB comunicò di non poter più fornire aiuti al governo conservatore greco in lotta contro le formazioni comuniste armate emerse dalla Resistenza. Così Truman tenne un discorso al Congresso chiedendo di poter finanziare gli aiuti ad Atene: durante il discorso equiparò l'URSS al nazismo e consacrava la necessità di un'irremovibile resistenza per impedire la guerra o la sottomissione.

– La “dottrina Truman” proclamava quindi l'esistenza di un'antitesi radicale e impegnava gli USA a guidare la lotta di un mondo contro un altro. Truman fu in grado di compattare dietro questa prospettiva democratici e repubblicani entro il Congresso: nondimeno i toni da crociata facilitavano la destra politica e religiosa; si rafforzava quindi quel condizionamento conservatore della vita politica interna che avrebbe contrassegnato la vita americana nel primo decennio di guerra fredda.

– Per combattere una guerra non bastavano però parole: nei mesi successivi il governo di Washington elaborò quindi una teoria, quella del contenimento, e un formidabile piano operativo, il Piano Marshall.

– Anzitutto si riconobbe che era necessario selezionare le priorità e mobilitare le risorse adatte. In quel momento non vi era dubbio sulla centralità dell'Europa, il cui consolidamento e rilancio era la chiave di volta per contenere i sovietici. Per questo non si trattava di organizzare crociate di portata indefinita – Kennan dissentiva dalla rappresentazione binaria ed idealizzata della dottrina Truman – né di fissarsi su questioni militari, dal momento che quella sovietica all'inizio non era una minaccia di tale natura, bensì una pressione psicologica e politica che sfruttasse le fragilità e la demoralizzazione delle democrazie: era la strategia del contenimento.

– Si rendeva necessario ampliare e possibilmente cronicizzare la natura asimmetrica dell'equilibrio di potenza (da una parte USA, GB, Francia, dall'altra da sola l'URSS). Perché facendo leva su tale condizione si toccava direttamente la paura di Stalin di precipitare in una guerra che non era pronto ad affrontare.

– Tuttavia la realtà delle azioni americane spesso si allontanava dal sofisticato realismo di Kennan: si giunse sia ad un rigetto della diplomazia (rifiuto al dialogo/ negoziato col nemico), sia al far prevalere un'ansiosa lettura universale ed indistinta della minaccia sovietica (piuttosto che seguire l'idea di Kennan di scegliere oculatamente una strategia coerente).

– Inoltre, il fallimento dell'ultima conferenza interalleata sulla Germania relegava al passato l'idea di collaborazione: la contrapposizione fu dunque palese con l'implementazione del Piano Marshall. Con un'Europa in crisi, gli USA avrebbero infatti visto in pericolo non tanto le proprie esportazioni quanto la loro egemonica concezione di un'economia liberale. Per scongiurare tale scenario, il segretario di Stato Marshall annunciò nel 1947 un piano straordinario di aiuti, di durata quadriennale.

– Non c'era alcuna intenzione di aiutare Mosca. Inizialmente i sovietici credevano che il piano fosse necessario agli USA per prevenire una crisi delle proprie esportazioni, e forse speravano di ottenere aiuti senza condizioni. Ma presto ebbero chiare le reali intenzioni statunitensi: l'URSS vide sorgere un blocco europeo occidentale come strumento della

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politica americana, denunciò una interferenza per sottomettere le economie di quei paesi agli interessi americani e si ritirò. Successivamente impose a cechi e polacchi di non aderire al Piano Marshall e procedette a lasciare il Consiglio di controllo alleato in Germania, ostacolando i movimenti tra i diversi settori di occupazione e, soprattutto, avviando la formazione di un blocco chiuso e rigidamente controllato in Europa orientale.

– Intanto, da parte americana si puntava sulla forza della propria strategia: non si offrivano solo capitali, bensì pure una via di uscita all'Europa dal suo passato, con la prospettiva dell'approdo ad una modernità resa credibile ed auspicabile da quella società americana opulenta che tutti vedevano al cinema.

– La battaglia che gli USA avevano impostato, infatti, non era solo economica o politica, ma mirava a costruire il consenso pubblico a nuovi ordinamenti nazionali democratici coordinati in un sistema di interdipendenza europeo e atlantico.

– Una volta estromesse le correnti comuniste dai governi, in Europa le coalizioni politiche riuscivano a comprendere conservatori e liberali, democristiani e socialisti, fondando regimi politici legittimati dal consenso in un circuito virtuoso tra crescita economica e stabilizzazione democratica.

– Tuttavia ci furono alcune proteste e scioperi contro il Piano Marshall (soprattutto in Italia e Francia): pur con notevoli differenze da paese a paese, l'Europa veniva attraversata da lacerazioni che riflettevano in ambito nazionale la bipolarizzazione internazionale. Le scelte furono dunque nette, e si procedette all'emarginazione della sinistra comunista al mero ruolo di opposizione.

– Nell'incipiente divisione del continente, sia le necessità economiche che quelle strategiche spingevano Washington a concepire la formazione di uno Stato tedesco indipendente. Il governo americano tentò anzitutto di tranquillizzare la Francia, garantendo la duratura presenza di ruppe statunitensi in Germania; da parte sua anche Londra rassicurò Parigi, proponendole, assieme ai paesi del Benelux, un patto difensivo, firmato a Bruxelles nel 1948.

– Da un lato USA, GB e Francia si accordavano per la formazione di una repubblica tedesco-occidentale demilitarizzata e sottoposta al controllo internazionale. Dall'altra preparavano un progetto di alleanza transatlantica che impegnasse gli USA nella difesa dell'Europa occidentale e ne tutelasse gli equilibri interni rispetto alla ripresa della Germania.

– Stalin era dunque preoccupato: gli USA guidavano la formazione di una coalizione occidentale con risorse efficaci e l'intenzione di inglobarvi anche la parte più ricca della Germania. Stava inoltre maturando la rottura con la Iugoslavia, perché Stalin vedeva la politica d'influenza sui Balcani operata da Tito come pericoloso esempio di indipendenza da Mosca.

– Lo statista sovietico avviò dunque un piano d'intensa espansione militare, che raddoppiò le forze convenzionali sovietiche tra il 1948 e il 1955. si innescava il classico dilemma della sicurezza, per cui il rafforzamento di ciascuno – benché attuato in chiave cautelativa - procurava accresciuti timori nell'avversario, innescando un circolo vizioso di ulteriori misure di sicurezza.

– Era soprattutto in Germania che bisognava agire: i sovietici ed i comunisti tedeschi iniziarono a progettare la costruzione di uno Stato tedesco nella loro zona d'occupazione. Berlino fu la prima mossa: la città era praticamente un'enclave nell'area sovietica e dunque le truppe dell'URSS decisero di bloccare nell'estate del 1948 gli accessi terrestri alla città e cominciarono ad interrompere l'erogazione di energia elettrica.

– La reazione alleata, data la condivisa ripugnanza all'idea di una nuova guerra, fu “moderata”: si aggirò infatti il blocco sovietico tramite un ponte aereo che portava i dovuti

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rifornimenti a Berlino est. Il successo logistico di tale operazione si tradusse in un trionfo psicologico (i sovietici erano definitivamente bollati come “i cattivi” e gli alleati come “i salvatori”) e politico. In Occidente si diffuse inoltre l'immagine mite di una Germania non più minacciosa, bensì bisognosa d'aiuto.

– Sconfitta la strategia sovietica, Stalin pose fine nella primavera 1949 al blocco di Berlino. In maggio nacque la Repubblica Federale Tedesca (RFT), sostanzialmente sovrana sulle questioni interne ma disarmata e sottoposta alla tutela dei tre alleati per la politica internazionale. Pochi mesi dopo, in ottobre, ebbe vita la Repubblica Democratica Tedesca (RDT) con un regime comunista sostenuto – e vigilato – da Mosca.

– 1949: stipula dell'Alleanza atlantica. Era un trattato di difesa collettiva in caso di aggressione contro uno dei paesi aderenti (Canada, USA, dieci nazioni europee, cui si aggiunsero nel 195 Grecia e Turchia). L'alleanza istituzionalizzava la leadership americana sulla coalizione occidentale e rispondeva al bisogno di rafforzare la fiducia degli europei di fronte alle pressioni sovietiche.

– La logica dell'Alleanza era di creare situazioni di forza (“braccio di ferro”) piuttosto che cercare il negoziato. Tali accenti mettevano da parte la diplomazia ed esaltavano il principio della fermezza contro la tentazione dell'appeasement. Nell'applicazione del contenimento, cioè, la ricerca di forza tendeva ad essere un fine in sé, per congelare una geografia bipolare favorevole piuttosto che tentare di modificarla.

– Si nota poi che era in atto una gestione multilaterale dell'alleanza: da un lato la costante rinegoziazione della sua coesione sotto la leadership americana; dall'altro l'adattabilità ai mutamenti, la flessibilità e variabilità degli assetti che essa poteva accomodare al suo interno. Si trattava di risorse preziose, che avrebbero portato vantaggio rispetto alla rigidità dell'antagonista sovietico.

– Intanto, la consolidazione e stabilizzazione dell'Europa occidentale progrediva: a seconda dei paesi la crescita economica fu gestita a maggior vantaggio dei ceti proprietari o dei redditi da lavoro, ma in generale si assistette ad una vigorosa crescita delle classi medie e a un miglioramento diffuso dei livelli di benessere anche per gli operai.

– Nell'Europa orientale, al contrario, il segno distintivo era la rigida subordinazione gerarchica della società allo Stato, dello Stato al partito comunista e di quest'ultimo al controllo di Mosca. La rottura con la Iugoslavia segnalava quanto Stalin privilegiasse la disciplinata coesione del suo blocco rispetto all'inclusività, tanto da sacrificare il suo più importante alleato.

– L'Europa dell'est divenne un insieme di regimi che replicavano quello sovietico, e fu resa effettivamente impermeabile alle influenze esterne. Si ebbe un processo di industrializzazione forzata in tutta l'URSS: esso fu assai gravoso nei primi anni, producendo un netto impoverimento sociale. Ma l'industrializzazione pose anche le basi per una successiva crescita del PIL, che sarebbe divenuta assai robusta a partire dalla metà degli anni '50.

– È bene sottolineare che l'appoggio all'egemonia statunitense non era unanime. Una parte delle élite europee, e della cultura pubblica nazionalista, pativa la subordinazione agli USA e accettava a malincuore un'alleanza che considerava avvilente per l'orgoglio nazionale. Sul versante delle opposizioni, molti intellettuali e militanti di sinistra subivano la rottura del fronte antifascista e accusavano gli USA di imporre un dominio neo-imperiale che ridava fiato alle pulsioni reazionarie ed aumentava i rischi di una guerra. Queste voci spesso si amalgamavano in un indistinto risentimento anti-americano.

– Gli storici hanno spesso discusso le cause della guerra fredda. Diffusa è stata la condanna ideale e morale al regime di Stalin, ma non si può imputare ad esso la totalità delle colpe dell'avvio del conflitto pluridecennale tra blocchi contrapposti.

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– Tutte le scelte decisive che diedero vita e forma alla guerra fredda furono anche americane: la dottrina Truman, il contenimento, l'opzione per una Germania divisa entro una coalizione occidentale, il Piano Marshall. La guerra scelta fu una scelta strategica statunitense e occidentale per impedire la deriva di un'Europa disgregata di fronte alla minaccia sovietica.

– Dunque, se quelle statunitensi furono risposte preventive al rischio di uno scenario disgregativo, nondimeno esse furono fortemente predeterminate (nello scopo) dall'ambizione di edificare un ordine mondiale di interdipendenze tra mercati capitalistici e tra regimi democratici ispirati ai valori liberali.

– La questione non riguarda dunque le responsabilità, bensì gli effetti. Che la guerra fredda favorisse l'egemonia degli USA era palese. All'URSS essa impose un contesto internazionale sfavorevole per la proiezione della propria influenza e un terreno di rivalità – quello della modernizzazione economica – per la quale era inadeguata. Ma le fornì anche motivazioni ulteriori per perfezionare il controllo sul proprio impero, esasperare la dimensione militare della sua economia e ambire a un ruolo di potenza mondiale.

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Capitolo secondo – Il bipolarismo militarizzato (1950 – 1956)

– Rispetto allo scenario dell'inizio del dopoguerra, il Cremlino era meno soddisfatto della Casa Bianca. Fronteggiato da una coalizione economicamente più forte e politicamente legittimata, si trovava ora a gestire la metà decisamente più debole di un bipolarismo asimmetrico. Mosca poteva però consolidare il suo controllo sui paesi dell'Est, e lo fece con un'ondata repressiva in tutta la sua zona d'influenza. Ciò ebbe il proprio apice nelle violente purghe dei partiti comunisti.

– Le istituzioni e le società dell'Est venivano così irregimentate in un sistema di terrore e repressione, che Mosca reputava essere l'unico strumento di controllo capace di reggere alle sfide della guerra fredda.

– Due eventi importanti: 1. Estate 1949: scoppio della prima atomica sovietica; 2. Autunno 1949: nasceva a Pechino la Repubblica popolare cinese (RPC), mentre i nazionalisti si rifugiavano sull'isola di Taiwan.

– Da una parte gli USA perdevano il monopolio nucleare e il senso di sicurezza che da esso derivava; dall'altro il nemico sovietico conquistava un grande alleato in Mao Zedong, con cui Stalin siglò un trattato di alleanza nel 1950.

Il maccartismoL'atomica sovietica ed il patto Mosca – Pechino portarono i conservatori americani a ridare al “tradimento”, imputando l'avanzamento del comunismo ad un insidioso nemico interno (identificato simbolicamente nel partito comunista statunitense, il PCUSA). La mobilitazione anticomunista assumeva toni drammatici per l'allarme che emanava dalla rivalità con l'URSS, divenendo una campagna sistematica che schiudeva nel paese una stagione di violente accuse e restrizioni delle libertà civili.All'inizio del 1950 il senatore repubblicano McCarthy denunciava la presenza di comunisti nei ministeri e organizzava un comitato senatoriale d'indagine (cui seguirono interrogatori, dichiarazioni di colpa forzate, testimonianze sospettabili di qualche forzatura). Si mobilitarono anche CIA e FBI.Il maccartismo divenne presto un ampio fenomeno, non solo politico ma pure sociale, con cui il conservatorismo aggrediva il dissenso, comprimendo il libero confronto delle idee. Accusato all'epoca di una nuova “caccia alle streghe”, il maccartismo imperversò fino al 1953, per poi spegnersi lentamente nel resto del decennio. Qualche centinaio di persone finì in carcere e circa in diecimila persero il lavoro.

– Proprio mentre McCarthy lanciava la sua campagna, l'amministrazione Truman avviava una riconsiderazione delle prospettive tattiche. L'atomica sovietica – o l'alleanza russo-cinese – non cancellava il primato militare statunitense, ma alterava la pianificazione strategica.

– Il vuoto di potere apertosi nel dopoguerra in Estremo Oriente – con la distruzione della potenza giapponese e l'indebolimento del controllo imperiale europeo – non aveva inizialmente suscitato preoccupazioni a Washington. I fatti del 1950 e l'irrigidirsi del bipolarismo, tuttavia, provocò la connessione tra le prospettive schiuse dai nazionalismi locali ed il più ampio quadro strategico.

– L'idea fino ad allora promossa dagli USA del diritto all'autodeterminazione dei popoli a lungo sottomessi all'imperialismo europeo venne dunque subordinata agli imperativi della stabilità: l'Estremo Oriente diveniva un secondo teatro dell'antagonismo bipolare.

– Si promosse allora una valutazione dell'URSS diversa da quella fatta negli anni precedenti da Kennan: non più una potenza ostile, opportunistica ma cauta, bensì incarnazione di una fede fanatica, antitetica a quella occidentale che cercava di imporre la propria autorità

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assoluta sul resto del mondo. Questa era la nuova ottica illustrata nel 1950 in una direttiva strategica del National Security Council (NSC-68).

– In questo documento svaniva la distinzione tra aree centrali ed aree periferiche. Alla difesa selettiva dei punti strategici subentrava la nozione globale di un antagonismo universale e simmetrico.

– Le risorse delle economie occidentali erano superiori a quelle del blocco sovietico (che nel 1950 investiva una maggiore parte del proprio PIL rispetto all'Occidente nel settore militare). Se mobilitate pienamente, con ingenti investimenti per la difesa, esse potevano assicurare sia la crescita del benessere sia una duratura superiorità strategica. NSC-68 delineava quindi un innovativo “keynesismo militare”, in cui la spesa pubblica per la difesa avrebbe fatto da volano per la crescita, in una spirale virtuosa tra rafforzamento militare e consolidamento sociopolitico.

– Si doveva perciò rilanciare anche il primato nucleare, su cui la preminenza statunitense, in ultima analisi, si fondava. Questa situazione generò però dei paradossi: per sentirsi davvero in grado di difendere le proprie libertà, gli USA dovevano mutarsi in uno Stato di sicurezza nazionale con ampi apparati militari e di Intelligence, la centralizzazione di forti poteri nell'esecutivo e il primato dei temi di sicurezza nell'arena della politica.

– NSC-68 gettava anche una luce diversa sulle tensioni della decolonizzazione. Bisognava infatti frustrare i disegni del Cremlino negandogli qualsiasi vittoria – anche se periferica – per il suo valore esemplare e simbolico. Di qui la nozione secondo cui ogni nazionalismo era pericoloso se passibile di aprire qualche spazio, anche ipotetico, al comunismo. Ne sarebbe derivata una difficoltà statunitense a dialogare con i movimenti indipendentisti e, sovente, una propensione a diffidare dei loro scopi.

– Il cambio di strategia americano, con l'aumento massiccio degli investimenti nel settore della difesa e la ripresa della ricerca in ambito nucleare per potenziare la tecnologia atomica, spinse anche i sovietici a preparare la bomba termonucleare, ingenerando una spirale permanente di riarmo e di dissuasione reciproca.

Guerra di Corea (1950 – 1953) – Dopo la sconfitta del Giappone durante la seconda guerra mondiale, la penisola coreana

veniva vista come area di scarso valore strategico da Washington, ma anche da Mosca, tanto che entrambe ritirarono le proprie truppe dopo pochi mesi dal termine del conflitto mondiale.

– Kim Il Sung, leader comunista della Corea del Nord, iniziò a chiedere l'appoggio sovietico per un'offensiva militare che gli consentisse di unificare l'intero paese sotto il suo controllo. Dapprima contrario, Stalin cambiò idea all'inizio del 1950: il dittatore sovietico era convinto che gli USA avrebbero optato per una non-interferenza (del resto non avevano ingerito nemmeno nella rivoluzione di Mao in Cina). L'appoggio dell'URSS, secondo i patti, si sarebbe tuttavia limitato al rifornimento di armi e consiglieri militari – senza intervenire con truppe – poiché Stalin non voleva rischiare il coinvolgimento diretto in uno scontro frontale.

– Avvenuta l'invasione della Corea del Sud, Truman non la considerò una vicenda periferica ma una sfida diretta del Cremlino all'ordine internazionale e alla credibilità degli USA quale suo garante. Dunque Washington chiese al Consiglio di sicurezza dell'ONU di autorizzare un intervento militare. L'assenza del delegato sovietico (Mosca boicottava il CdS perché il seggio cinese apparteneva a Taiwan e non alla RPC) consentì l'approvazione di una risoluzione che impegnava l'ONU in difesa della sovranità della Corea del Sud.

– Parallelamente l'amministrazione Truman avviò la costruzione di un perimetro di contenimento intorno alla Cina (offrì protezione militare a Taiwan, alle Filippine, supportò le forze francesi in Indocina, avviò il rilancio dell'economia giapponese). Si predispose

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inoltre un bilancio che quadruplicava le spese americane per la difesa. Gli obiettivi di sicurezza venivano integrati in una politica fiscale di espansione dell'economia nazionale che avrebbe di lì in poi mirato a sostenere tanto i consumi privati quanto lo sforzo per la preparazione militare.

– Dunque, in tre mesi l'offensiva di Kim Il Sung si era rovesciata: la difesa internazionale poteva addirittura trasformarsi in un'offensiva per abbattere un regime comunista e riunificare il paese. Inebriati da una simile prospettiva, convinti che né cinesi né sovietici sarebbero intervenuti (preoccupati ciascuno per la propria sicurezza), gli americani decisero di penetrare il Nord.

– Stalin, ansioso di evitare uno scontro diretto con gli USA, rovesciò sui cinesi la responsabilità dell'esito della guerra, promettendo un eventuale aiuto sovietico in caso di attacco diretto alla Cina da parte americana. Mao, dal canto suo, temeva l'arco di contenimento che gli USA stavano tendendo intorno al suo paese, e sospettava fosse la premessa per un attacco. Tuttavia egli non si fidava pienamente delle promesse di aiuto sovietiche: Pechino perciò esitava, ma gli eventi precipitavano (il governo del Nord Corea era sempre più debole e disgregato). Di fronte alla prospettiva di una Corea unificata, ostile e filo-americana, Mao si decise per l'intervento armato.

– La reazione cinese fu un'offensiva che, cogliendo gli americani di sorpresa, diventava travolgente. Una serie di battaglie sanguinose finiva poi per stabilizzare il fronte intorno al 38° parallelo. Il generale americano in loco – MacArthur – era un “estremista”, affermando che in guerra non ci sono alternative alla vittoria. Tale logica, popolare nella destra americana, non era tuttavia condivisa a Washington. Truman e i suoi consiglieri ritenevano che il fronte primario restasse quello europeo e che l'estensione della guerra alla Cina o all'URSS andasse evitata: in quest'ottica, la soluzione negoziata appariva essere la soluzione più conveniente.

– L'amministrazione Truman non era “estremista” né prendeva in considerazione il ricorso all'atomica, perché agiva su essa l'azione deterrente data dall'alleanza sino-sovietica e dalla capacità di Mosca di occupare, in caso di conflitto, buona parte dell'Europa occidentale. Il conflitto bipolare non doveva perciò arrivare allo scontro militare diretto: la dimensione circoscritta di eventuali guerre locali andava assolutamente salvaguardata.

– La guerra finì solo due anni dopo, dal momento che Stalin ostacolava in ogni modo un armistizio tra Cina e USA. Fu solo con la morte del dittatore sovietico nel 1953 che l'armistizio ebbe luogo e la reciproca indipendenza delle due Coree venne stabilita.

– La dimensione ideologica del conflitto: la guerra fredda veniva combattuta anche sulle raffigurazioni della società e del suo futuro. Da una parte, utilizzando l'immagine seducente del benessere americano, gli USA esaltavano un nuovo modello produttivo e di consumi capace di superare scarsità, stemperare i conflitti di classe e integrare tutti i cittadini in una società ricca e liberale.

– Dall'altra, il discorso comunista s'incentrava sulle denunce dello sfruttamento o sul nesso tra capitalismo e guerra, ma aggiungeva pure un esplicito appello alle élite intellettuali che si sentivano minacciate dal materialismo proveniente dalla cultura americana.

– Era un duello per l'influenza sul mondo dell'arte e delle idee: iniziative in nome della libertà – da una parte e dall'altra – erano occultamente finanziate dai governi.

– L'irrigidimento americano rispetto alla decolonizzazione: anche quando non erano comunisti, diversi leader indipendentisti erano visti come demagoghi emotivi ed infantili la cui inaffidabilità esigeva che venissero controllati o rimossi. Assecondando il loro paradigma anticomunista di sicurezza globale, Washington si affiancava spesso al controllo coloniale che Francia e GB cercavano di conservare.

– Nel 1953 la CIA organizzò un intervento clandestino in Iran per rovesciare il governo

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indipendentista di Mossaqed, che stava nazionalizzando le risorse petrolifere allora controllate dalla GB. La CIA favorì dunque la formazione di un regime guidato dallo shah Reza Pahlavi.

– L'anno seguente Washington interveniva anche in Guatemala (negli anni seguenti gli interventi più o meno palesi in America Latina saranno frequenti): organizzò un colpo di Stato che dava il potere ai militari.

– In questa fase erano soprattutto gli USA ad ampliare ad altri contingenti la logica di guerra fredda, come strumento per riordinare i vuoti aperti dalla decolonizzazione. L'URSS, invece, restava concentrata sull'irreggimentazione dittatoriale dell'Europa orientale e sulle aree più prossime ai suoi confini.

– La principale ripercussione della guerra in Corea fu la massiccia corsa agli armamenti. Washington riteneva che la chiave del contenimento in Europa risiedesse nel superamento delle rivalità nazionalistiche; l'integrazione tra le nazioni europee pareva cruciale sia per il valore economico che per quello politico.

– L'atomica sovietica rendeva le cose più intricate: in caso di guerra la preponderanza statunitense avrebbe certo garantito la vittoria finale, ma nel frattempo gli alleati europei avrebbero subito le devastazioni dell'arma nucleare. Ecco perché ci volevano forze convenzionali schierate sul terreno per fungere da deterrente ulteriore. Washington insisteva affinché questa parte della difesa europea fosse assunta direttamente dagli stessi europei: ma perché ciò fosse materialmente possibile era necessario mobilitare anche i tedeschi. Iniziò perciò una lunga fase di consultazioni tra i principali governi occidentali.

– Il governo francese propose allora di inquadrare il riarmo tedesco nella cornice di una Comunità Europea di Difesa (CED): nel 1954 sarà lo stesso parlamento francese, ancora diffidente verso i tedeschi e sull'onda della propaganda gollista, a non ratificare il trattato della CED e a far naufragare il progetto. Dunque il compromesso fu di integrare, con alcuni limiti alle possibilità di armamento, la Germania dell'ovest nella NATO nel 1955.

– Altra proposta francese, sempre avanzata nel 1952 ed immediatamente avviata, fu l'istituzione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA): essa istituiva un mercato comune di carbone e siderurgia ed un organismo sopranazionale per regolamentarlo.

– Queste mosse erano volte a legare indissolubilmente la Germania all'Europa. Dal punto di vista tedesco l'Europa era il contesto nel quale costruire una nuova identità non minacciosa della nazione; dal punto di vista francese le istituzioni europee erano la chiave per stabilizzare il continente e ricostruire una propria leadership regionale.

– Il sostegno a queste iniziative da parte americana era dovuto alla convinzione che il rafforzamento economico e politico dell'alleato fosse centrale nella strategia del contenimento. L'alleanza atlantica già nel 1949 si dotò di un'organizzazione militare permanente, NATO, in cui le forze dei paesi membri erano coordinate da un comando militare unificato. Tuttavia le scelte politiche, comprese quelle strategiche, erano fondate su un coordinamento multilaterale – spesso attraverso molteplici istituzioni – che stemperava la subordinazione agli USA in una costante negoziazione degli interessi più sensibili e rendeva perciò possibile una gestione consensuale.

– Dunque i governi europei aderirono alla strategia di riarmo atlantico rilanciata nel 1950, ma con ritmi e spese meno consistenti di quelle statunitensi – del resto GB e Francia stavano ancora sostenendo cospicue spese imperiali, sopratutto nel contenimento delle rivolte indipendentiste. Dato questo limite alle spese europee, giunse ancora il sostegno finanziario americano: gli USA spostarono il loro aiuti dall'impegno civile del Piano Marshall al Mutual Security Aid, orientato a costruire le infrastrutture e le industrie necessarie alla difesa.

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– A l riarmo occidentale corrispose un analogo sforzo sovietico, avviato già nel 1949, di costruzione di un'imponente armata in grado di occupare l'Europa occidentale. Fu anche intensificato il programma nucleare e progettato il riarmo forzoso dei paesi satelliti.

– Il riarmo trasformava temporaneamente anche il clima di lotta psicologica e culturale. Nel momento in cui si parlava di riarmo della Germania trovava nuova risonanza l'accusa agli USA, lanciata dalla sinistra comunista, di aver smantellato l'unità anti-fascista. I “partigiani della pace” scesero ripetutamente nelle piazze d'Europa per criticare le scelte della NATO come guerrafondaie.

– Tale mobilitazione di piazza non ebbe grandi effetti sui governi o gli equilibri elettorali, ma delineò una faglia di tensione che avrebbe ripetutamente lacerato l'arena pubblica europea. Se dunque la strategia della preponderanza americana era rassicurante per gli atlantisti convinti, allo stesso tempo inquietava ampie fasce di un'opinione pubblica non necessariamente filo-sovietica, ma comunque allarmata dai rumori di guerra e dal neo-imperialismo americano. Un'ambivalenza profonda verso la protezione americana che avrebbe caratterizzato gran parte della guerra fredda.

– Dopo la nascita della CECA e l'inclusione della Germania nella NATO, Stalin si rassegnava e procedeva a mobilitare anche la Germania orientale nell'ambito del riarmo del proprio blocco. La sua politica consisteva sempre di espropri e persecuzioni di polizia – in tutti i paesi del blocco sovietico – e negli Stati satellite l'oppressione e i sacrifici comportati dall'industrializzazione forzata sfociarono in proteste (subito represse) in Polonia, Ungheria, Bulgaria.

– La peculiarità della Germania Est era che i suoi cittadini potevano abbandonarla e trasferirsi ad Ovest: l'esodo fu massiccio tra 1951 – 53 ed il regime fronteggiò le difficoltà comportate dal drenaggio di lavoratori qualificati imponendo misure disciplinari strette per intensificare la produttività del lavoro. Gli scioperi che ne conseguirono furono repressi nel sangue. Il fatto è che la vulnerabilità del regime e la possibilità che la Germania Ovest ne traesse vantaggio escludevano ogni possibilità di compromesso.

– Infine, nel 1955 – in reazione all'ingresso della Germania Ovest nella NATO – fu firmato il Patto di Varsavia, alleanza militare tra gli Stati socialisti per mezzo della quale Mosca coordinava la difesa del blocco orientale e dava legittimità formale alla presenza dell'Armata Rossa nei loro territori.

L'epoca post-stalinista– Gli eredi di Stalin volevano liberarsi della paura con cui il dittatore aveva dominato il

vertice di partito. Ritenevano necessario che il rapporto tra leader e popolo si fondasse non solo sui sacrifici del secondo, ma anche su una crescita del benessere. Il nuovo segretario del partito Krusciov avviò dunque una stagione di cambiamenti: anzitutto le persecuzioni staliniane furono bloccate e l'atmosfera di paura stemperata. Anche le condizioni economiche migliorarono.

– 1953 – 58 l'economia sovietica conobbe il suo periodo di maggiore crescita, trainata dal boom demografico e dal parziale riorientamento della spesa pubblica. Il nuovo gruppo dirigente era altresì convinto della necessità di abbassare la tensione internazionale e aprire nuove strade alla diplomazia sovietica.

– L'Occidente fu sorpreso di simili cambiamenti. A Washington si era appena insediato Eisenhower, giunto al governo dopo una campagna elettorale in cui aveva promesso di superare la logica del contenimento in favore di una politica offensiva per fare arretrare il comunismo. Il proclama sovietico de “l'offensiva di pace” era temuto come uno scaltro tentativo di fermare il riarmo tedesco e causare dissidi sul fronte occidentale.

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– Tra l'altro, la volontà di pace russa non era così netta: Krusciov vedeva nella guerra fredda una politica di accerchiamento dell'URSS con la quale gli USA avevano negato i legittimi interessi sovietici dopo il 1945. Se egli criticava i pericolo insiti in taluna scelte staliniane che si erano rivelate controproducenti – come la Corea – riteneva tuttavia che l'antagonismo storico tra capitalismo e socialismo fosse immutabile.

– Rispetto alla strategia militare, Krusciov era sempre più persuaso che le bombe termonucleari non avrebbero potuto essere utilizzate perché avrebbero prodotto una devastazioni tale da rendere priva di significato la nozione di vittoria. Non abbandonò però il programma nucleare: avere l'arma atomica comportava la possibilità di distruzione reciproca imponendo una “parità de facto”, con il conseguente rafforzamento dell'URSS sul piano diplomatico.

– Dunque Krusciov decise di privilegiare lo sviluppo di tecnologie militari e contestualmente ridurre le risorse destinate alle forze convenzionali, per liberare risorse necessarie ai bisogni interni del paese.

– La strategia di Krusciov era innovativa non solo sotto il profilo militare, ma pure sotto quello diplomatico: i sovietici iniziarono a muoversi al di fuori del loro blocco in cerca di alleanze. Un primo esempio è la funzione mediatrice – di concerto con la Cina – assunta sulla questione dell'Indocina: appena indipendente dalla Francia, il fronte comunista accettò, perché persuaso da Mosca, la divisione del Vietnam in due Stati indipendenti, rinunciando all'unificazione armata.

– Lo sforzo principale di Mosca fu rivolto alla Cina, che dal 1954 iniziò a beneficiare di un programma di aiuti tecnici e finanziari sovietici mirati a modernizzare il paese per integrarlo, in futuro, nel mondo socialista industrializzato. Di lì a breve fu il turno dell'India, con la quale Mosca strinse collaborazioni economiche e politiche.

– Il Cremlino si era accorto che l'Occidente sarebbe stato sempre più indebolito dal fenomeno della decolonizzazione, e vedeva nel “Terzo Mondo” la dimensione futura su cui si sarebbe deciso lo scontro tra capitalismo e socialismo..

– Conferenza di Ginevra, 1955: primo vertice tra Occidente e URSS dopo il 1945. si trattò di un incontro infruttifero, durante il quale ciascun partecipante affermava di essere il primo vero promotore e difensore della pace, auspicando (fintamente) un dialogo futuro sincero tra Est e Ovest. L'incontro di Ginevra segnò il completamento ed il superamento della prima fase della guerra fredda, quella incentrata sull'Europa e la definizione dei suoi confini.

– La svolta della politica estera post-stalinista fu estesa all'intero blocco sovietico: Krusciov sollecitò riforme economiche nei paesi satelliti che reindirizzassero parte della spesa pubblica dal settore militare a quello civile. A tal fine si impegnò ad aiutare quei regimi con sostegni finanziari. Fu proprio in questa fase che Krusciov tentò un tattico riavvicinamento con Tito, in Iugoslavia.

– Dal punto di vista americano, le riforme interne al blocco sovietico non alteravano il carattere asimmetrico della rivalità bipolare, ma costringevano Eisenhower a una posizione più difficile, ponendolo di fronte a due problemi: 1. Rapporto tra armi nucleari e pace; 2. Rapporto con il fenomeno della decolonizzazione.

– Rispetto al primo problema, gli USA avevano implementato la strategia della “rappresaglia massiccia”: di fronte a congiunture pericolose o tentativi di offensiva comunista, si sarebbe minacciato l'immediato ricorso all'atomica, anche in relazione a crisi locali. Ma questa nuclearizzazione della politica mondiale alimentava l'insicurezza collettiva e la paura di una guerra atomica. Di fronte all'opinione pubblica “l'offensiva di pace” di Krusciov pareva più rassicurante e rischiava di incrinare i rapporti USA/ Europa.

– Rispetto al secondo problema, l'amministrazione statunitense tendeva a privilegiare sempre più i temi di stabilità e sicurezza rispetto alle cause indipendentiste dei vari movimenti

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locali. Diffidente verso ogni neutralismo, Eisenhower offriva ai regimi nazionalisti solo l'opzione di allineamento con l'Occidente, perlopiù attraverso alleanze regionali che in quegli anni furono create nel Sudest asiatico e in Medio Oriente. Ma non sembrava capace di contemplare né sostenere i valori essenziali dei regimi post-coloniali: indipendenza e non-allineamento.

– Più ancora delle indicazioni politiche, fu il rapporto sui crimini di Stalin, letto in una seduta segreta di partito, a drammatizzare la svolta kruscioviana ed esporne le irrisolte contraddizioni interne. Tale documento approdò sul New York Times e creò uno spartiacque per i molti – anche non comunisti – che avevano avuto una qualche simpatia per l'esperimento sovietico. Non fu più possibile negare gli orrori della dittatura socialista, la cui influenza ideale ed intellettuale iniziò di qui il proprio declino.

– In seguito a tale rivelazione, Krusciov aggiunse gesti coerenti: sciolse il Cominform, e poco dopo ricevette Tito a Mosca, incoraggiando però tutti quelli che auspicavano delle vie nazionali al socialismo indipendenti da Mosca. L'effetto destabilizzante sull'Europa dell'Est non si fece attendere.

– In Polonia si promosse il reintegro del segretario di partito precedentemente estromesso da Stalin. Mosca temette di perdere il controllo su partito e paese – sia polacchi che russi mobilitarono sul confine delle truppe – ma poi dalla Polonia giunse la rassicurazione di fedeltà a Mosca, e la tensione rientrò.

– Fu chiaro allora che riforme e autonomia non erano facilmente gestibili: il successivo e più grave teatro di crisi fu l'Ungheria. Dopo che il segretario di partito di stampo stalinista fu rimosso, ci furono manifestazioni di piazza che, sull'onda dei fatti della Polonia, chiedevano maggiori libertà. Intervennero le truppe sovietiche di stanza a Budapest: Mosca, rassicurata dal non-intervento di Washington (che dimostrò di non approfittare della crisi), ritirò in breve i reparti dell'Armata rossa. Il loro intervento aveva ormai però scatenato una mobilitazione nazionalista contro il giogo sovietico, tanto che il nuovo premier annunciò il probabile abbandono del Patto di Varsavia. Questo dimostrava che il regime comunista si stava sgretolando e la sua caduta avrebbe potuto innescare sollevazioni anche in altri paesi dell'Est, mettendo in pericolo l'intera Unione Sovietica.

– A quel punto un nuovo segretario di partito fu imposto e gli fu ordinato di operare una controrivoluzione, obiettivo per il quale forza corazzate sovietiche furono inviate a Budapest e repressero nel sangue le ultime manifestazioni.

– Contemporaneamente si verificò anche la crisi di Suez: il leader egiziano Nasser non voleva tanto allinearsi con l'Est quanto giostrare tra i due schieramenti, in modo da massimizzare le sue opzioni. Dunque nel 1956 annunciò la nazionalizzazione del canale di Suez.

– GB e Francia videro messo in gioco il loro ruolo imperiale nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e quindi la loro stessa identità di potenze internazionali. Eppure Eisenhower non concordava con un intervento contro Nasser: se si fosse giunti allo scontro i popoli di Africa, Asia e Medio Oriente avrebbero acuito i propri sentimenti anti-occidentali, coalizzandosi contro essi.

– Londra e Parigi strinsero a quel punto un accordo con Israele autonomamente: fu deciso che lo Stato ebraico avrebbe attaccato il Sinai (per ragioni di sicurezza nazionale); subito dopo un corpo di spedizione anglo-francese sarebbe intervenuto con il pretesto di tenere il conflitto dei due belligeranti lontano dal canale, di cui avrebbero dunque ripreso il controllo.

– La reazione ai bombardamenti anglo-francesi da parte americana fu brusca, forzandone in breve il ritiro. In quel momento Mosca (che inizialmente non sapeva della contrarietà americana e riteneva il fronte occidentale compatto nell'operazione di Suez), appena capì della spaccatura sul fronte Ovest, fece “la voce grossa” ricordando a GB e Francia che se

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avessero forzato la mano la Russia sarebbe ricorsa all'atomica (fatto in realtà impraticabile).

Gli effetti delle crisi di Ungheria e Suez– L'effetto della crisi in Ungheria fu l'immediato discredito per Krusciov. L'intervento armato

sovietico aveva cancellato ogni illusione di riformabilità del sistema. Lo stalinismo poteva essere criticato e attenuato ma il carattere distintivo della società sovietica restava la sua natura dittatoriale. Soprattutto, dopo quarant'anni l'alternativa comunista, perduta ogni attrattività, fuoriusciva dagli orizzonti culturali dell'Occidente.

– I due blocchi erano ormai intoccabili. E non solo per l'intransigenza sovietica; l'Occidente aveva infatti assistito ai fatti ungheresi, incluso il tragico epilogo, senza neppure pensare di poter intervenire a condizionarne il corso. La “cortina di ferro” era invalicabile.

– Ci fu dunque un deciso assestamento dell'ordine bipolare in Europa. Il suo grado di accettabilità era naturalmente variabile. Era minimo e forzato ad Est; stava invece diventando sempre più accettato in Europa occidentale, dove il recedere della paura della guerra si intrecciava con trasformazioni socioeconomiche che rendevano quell'ordine assai più apprezzabile.

– In Occidente le più rigide divisioni di ceto e di genere iniziavano a stemperarsi in quella che si prese a chiamare “società di massa”. L'accesso ai consumi e la diffusione di servizi pubblici nell'istruzione, nella sanità, nell'assistenza sociale non erano solo le misure di un benessere più esteso. Essi stavano divenendo criteri di una visione più inclusiva della cittadinanza.

– Tutto ciò, sommato alla percezione del comunismo sovietico come brutalità militaresca, confermava un nascente senso di identità occidentale.

– L'effetto della crisi di Suez fu di rendere palese che le potenze imperiali non erano più in grado di agire come tali. Anche Londra e Parigi dovettero prendere atto che la lunga epoca della dominazione mondiale europea era conclusa. I loro miti di grandezza erano in frantumi e anche il senso di superiorità culturale subiva l'assalto di una modernità che pareva un fenomeno esogeno di origini statunitensi più che una propria creatura.

– Ma Suez ebbe anche conseguenze politiche oltre che psicologiche. Francia e GB dovettero rassegnarsi all'abbandono dei loro possedimenti extra-europei. In un decennio la decolonizzazione sarebbe stata portata a termine.

– A quel punto Londra decise che il suo futuro di media potenza sarebbe stato svolto nella relazione privilegiata con Washington che fino ad allora aveva coltivato. La Francia, preoccupata di questo potente asse Washington/Londra, per salvaguardare il proprio ruolo internazionale di qualche peso, decise che era opportuno temperare l'egemonia anglofona tramite una maggiore coesione sul continente europeo. Fu proprio nel 1956-57 che nacque la CEE (Comunità Economica Europea), basata su un mercato comune di sei partecipanti. Con il trattato di Roma del 1958 ebbe vita la CEE: quando De Gaulle divenne presidente francese iniziò ad incentrare la propria politica sul rafforzamento di un asse Parigi/Berlino.

– Il segnale più forte di Suez non era comunque il declino degli imperi europei, bensì il nuovo ruolo globale di Washington e Mosca nei teatri della decolonizzazione. La guerra fredda ampliava la propria portata, ramificandosi in Asia, Africa e America Latina proprio nel momento in cui i era raggiunta una stabilità nell'epicentro europeo. Se qui la rivalità era diventato un modus vivendi, nei teatri “periferici” si disputavano nuove guerre. La guerra fredda mutava ambito e carattere, divenendo un conflitto globale.

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Capitolo terzo – Un antagonismo globale (1957 – 1963)

– In molte situazioni la potenza coloniale ritirò la sua amministrazione ma cercò di conservare influenza e privilegi economici. Inoltre, le élite nazionaliste post-coloniali spesso condividevano la filosofia del progresso economico e tecnico ereditata dall'amministrazione coloniale. Erano quasi sempre composte da quadri formatisi nelle università e accademie delle metropoli imperiali.

– Il miglioramento delle condizioni socio-economiche era infatti imperativo se si voleva rispondere alle aspettative popolari e consolidare l'indipendenza. E tale miglioramento era allora da tutti concepito come un progredire dall'arretratezza tradizionale a uno sviluppo di matrice industriale.

– Gli Stati di nuova indipendenza erano poveri di capitali e infrastrutture, e inseriti in un sistema di scambio ineguale tra le loro risorse agricole e minerarie e i prodotti industriali delle metropoli occidentali. Erano in una condizione di dipendenza.

– Andava dunque diffondendosi l'opinione che qualche misura di nazionalismo economico fosse necessaria, oltre che funzionale a rafforzare l'identità e il potere dei nuovi regimi. Oltre all'ambizione a una modernizzazione autonoma (rispetto al modello occidentale) le forze nazionaliste condividevano con l'ideologia marxista la narrazione dicotomica che dominava il discorso indipendentista: la metafora socialista della lotta tra capitale e forza operaia veniva traslata nel contrasto strutturale e morale tra la metropoli imperiale e i popoli colonizzati.

– Da sottolineare è il fatto che il Terzo Mondo fosse un variegato arcipelago senza analogia con l'omogeneità interna ai due blocchi Est/Ovest. La varietà religiosa, culturale e etnica delle società era immensa.

– Se il Terzo Mondo era compatto nella critica all'Occidente, nelle ex-colonie agivano tuttavia anche infiniti legami con le metropoli europee e statunitensi. L'amministrazione, le infrastrutture civili e buona parte delle élite erano “occidentalizzati”. Soprattutto, la necessità di capitali e tecnologie legava strutturalmente la periferia al centro in un rapporto di dipendenza.

– Alcuni dei protagonisti della decolonizzazione si riunirono a Bandung nel 1955 per delineare un'agenda comune. Negli anni successivi lo schieramento di Bandung si ampliò in un fronte dei paesi non allineati che criticò i pericoli della guerra fredda, invitò a una coesistenza pacifica che rispettasse l'indipendenza di tutti e tentò di imporre all'attenzione mondiale un'agenda concentrata sui problemi dello sviluppo.

– I paesi di nuova indipendenza assunsero peso crescente nell'Assemblea generale dell'ONU e presero a fare delibere e dichiarazioni sempre più in tono anti-imperialista: ad esempio, nel 1960 firmarono una dichiarazione sul diritto all'indipendenza.

– L'unità del Terzo Mondo fu però più un'aspirazione che una realtà consolidata, e numerosi conflitti frazionarono i non allineati, intaccarono la neutralità dei paesi coinvolti (per il bisogno di appoggiarsi militarmente a una delle super-potenze) e sminuirono l'autorità internazionale dei propri leader.

– Intanto, il “vento del cambiamento” imponeva all'Occidente di elaborare nuove risposte in rottura con la tradizione colonialista. L'urgenza di questo rinnovamento sarebbe stata minore se l'Ovest non l'avesse considerato alla luce del conflitto bipolare.

– In una fase iniziale, il pregiudizio sull'inferiorità dei popoli non bianchi aveva indotto Washington a diffidare della decolonizzazione. Intrecciata alla logica del contenimento, tale sfiducia aveva dettato il sostegno al colonialismo di matrice europea.

– Fu solo con la crisi di Suez che gli USA optarono definitivamente per la critica all'imperialismo europeo e il sostegno alla decolonizzazione. Naturalmente l'intenzione era di avere una transizione ordinata, magari co-gestita e controllata, in modo da legare i neonati

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regimi all'Occidente e a far sì che essi compartecipassero alla lotta al comunismo.– Sull'altro fronte, i sovietici non erano appesantiti da un passato colonialista: potevano anzi

fungere da utile appoggio ai movimenti e ai regimi indipendentisti, che utilizzarono spesso la rivalità bipolare per ottenere aiuti economici e militari e massimizzare il sostegno internazionale alla loro causa. La distanza che le rivoluzioni anti-coloniali aprivano tra sé e l'Occidente spalancava un grande spazio di manovra di cui l'URSS poteva giovarsi.

– Queste considerazioni spinsero Krusciov ad appoggiare il processo di decolonizzazione in chiave diplomatica: la retorica della lotta degli operai contro il capitalismo (traslata in lotta tra popoli sottomessi e colonialisti), nonché il modello di sviluppo socialista autonomo rispetto all'imperialismo economico occidentale offriva una buona base di dialogo col Terzo Mondo. Se alla ritirata del colonialismo avesse corrisposto l'avanzamento di nuove nazioni ispirate all'esperienza sovietica, il socialismo avrebbe conosciuto una nuova era di espansione su scala mondiale.

– Perciò Mosca si impegnò su vari fronti dalla metà degli anni '50: in Cina; in Medio Oriente e in Asia cooperò con i regimi nazionalisti; accolse con favore il movimento di Bandung e si fece paladina delle richieste sei non allineati all'ONU.

– L'apice di questo sforzo di riposizionare l'URSS quale retroterra dell'indipendentismo, cercando di volgere quel movimento storico di una leva per costringere l'Occidente sulla difensiva, fu raggiunto dopo la rivoluzione castrista del 1959 a Cuba. Si trattò del rovesciamento di un regime filo-americano in favore di uno filo-sovietico nell'area più immediata di influenza statunitense.

– L'appoggio di Mosca a posizioni nazionaliste radicali allarmava sempre più gli USA. Si iniziò ad elaborare contromisure: economisti e sociologi vedevano nella forte crescita dell'economia mondiale la possibilità di offrire risposte positive ai bisogni di sviluppo ai paesi più poveri del mondo. Ma l'America avrebbe dovuto incrementare la propria crescita per offrire poi aiuti tecnici e finanziari a quei paesi ed inserirli in un circuito virtuoso di interdipendenza commerciale con l'Occidente.

– Il modella era quello di un sistema (provato sia dall'esperienza statunitense che dall'Europa postbellica) che poteva essere replicato ovunque, offrendo quindi nuove possibilità alle società neo-indipendenti. Le scienze sociali postulavano inoltre l'orgogliosa possibilità di guidare lo sviluppo dall'esterno, “istruendo” le élite locali e acculturando le società alla modernità produttivista.

– Il problema strategico consisteva nel canalizzare il cambiamento senza che ciò aprisse spazi al comunismo e all'influenza internazionale dell'URSS. Questa ambiziosa agenda politica fu fatta dal neo-eletto presidente Kennedy nel 1960. appena salito al governo varò un piano di aiuti all'America Latina per mostrare che sviluppo economico e democrazia “andavano mano nella mano”. La scelta di concentrarsi sul Sud-America era emblematica della strategia statunitense: la rivoluzione castrista aveva alzato il rischio che il populismo radicale aprisse le porte della regione al comunismo.

– Alle soglie degli anni '60 le due super-potenze erano perciò focalizzate sul Terzo Mondo come luogo topico del futuro: imbrigliare e canalizzare “il vento del cambiamento” era l'imperativo da seguire.

– La loro competizione radicava ulteriormente il nazionalismo come principio fondamentale, visto che ciascuno si presentava come garante dell'indipendenza minacciata ora dall'imperialismo, ora dal comunismo.

– Nell'ottica del contenimento, e in virtù di maggiori capacità militari, gli USA sarebbero poi intervenuti spesso con mezzi militari o pressioni politiche in paesi il cui futuro poteva essere in pericolo (cioè poteva tendere al comunismo).

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Le armi nucleari– Nel 1955 il fisico Einstein ed il filosofo Russell stilarono un manifesto di allarme rispetto

all'olocausto umano che l'atomica avrebbe comportato. Sull'onda del manifesto si incontrò dopo due anni in Canada un movimento di scienziati favorevoli alla pace per evitare l'uso dell'arma nucleare. Nel 1958, poi, in GB fu fondata la Campaign for Nuclear Disarmament (CND).

– Gli statisti divennero sempre più consapevoli che il ricorso all'atomica avrebbe svuotato la nozione stessa di vittoria; la guerra avrebbe erso ogni supposta funzionalità.

– Inizialmente Eisenhower perseguì la strategia della “rappresaglia massiccia”: una dottrina che mirava a rendere improbabile la guerra atomica senza rinunciare ai vantaggi che la superiorità nucleare comportava per gli USA. Si intendeva massimizzare il potere deterrente che derivava dalla propria superiorità, contenendo allo stesso tempo la spese per gli apparati convenzionali (si puntava molto di più sul nucleare), e perseguendo dunque un pareggio di bilancio salutare per l'economia nazionale.

– Insomma, Eisenhower prospettava una guerra apocalittica per prevenire l'insorgere di ogni conflitto, anche limitato. Il limite di una simile strategia emerse subito nel confronto col Terzo Mondo: se la deterrenza funzionava con Mosca, invece con i paesi di nuova indipendenza non era efficace, poiché lì i conflitti erano animati da un nazionalismo insensibile alla minaccia nucleare, che mirava solo alla propria auto-affermazione.

– Soprattutto, quella rappresaglia massiccia diveniva un'eventualità tanto meno credibile – e quindi meno efficace – quanto più aumentava la vulnerabilità del territorio americano. Cioè mano a mano che il rischio di subire a propria volta un bombardamento come vendetta da parte di Mosca aumentava.

– L'URSS si era infatti posta da subito il problema di attenuare la propria inferiorità strategica e costringere gli USA ad accettare una “coesistenza pacifica” con il comunismo. La spada nucleare che l'America usava per vincolare Mosca nel perimetro spaziale e psicologico del contenimento andava rivolta contro gli americani stessi: se estesa fino a minacciare il continente americano essa avrebbe determinato uno stallo nucleare e dunque aumentato la libertà d'azione del blocco sovietico e dei movimenti rivoluzionari. Il fulcro di questa strategia sovietica fu la costruzione di ICBM (Inter-Continental Balistic Missiles).

– Inoltre il lancio dello Sputnik (1957) era un primato dell'URSS nel campo più innovativo e appariscente del progresso scientifico e tecnologico; esso rappresentò emblematicamente la superiorità del comunismo.

– 1959: la popolazione urbana nell'URSS aveva per la prima volta superato quella rurale, l'aspettativa di vita si avvicinava a quella dell'Europa occidentale e cominciavano ad essere disponibili beni di consumo di massa, tra cui la TV.

– La buona congiuntura economica e le conquiste tecnologiche dell'URSS mascheravano però una sostanziale, profonda inferiorità. La società sovietica rimaneva ben più povera di quella occidentale. Anche il divario tecnologico (benché contenuto nell'ambito militare) si stava ampliando, in particolare nell'informatica.

– Il grado di avanzamento tecnologico era ormai diventato , insieme al PIL, il fondamentale parametro di giudizio pubblico sulla superiorità della società occidentale o socialista. Lo Sputnik e i proclami di Krusciov innescarono perciò una serie di risposte che accrebbero ulteriormente lo sforzo americano di dominare l'innovazione scientifica e militare.

– Si stava inoltre aprendo un'era in cui lo spionaggio cambiava natura – grazie ai progressi dell'informatica – e in cui gli USA ebbero un iniziale vantaggio. La raccolta di informazioni, soprattutto fotografiche, per mezzo di satelliti fu un corollario cruciale dell'innovazione missilistica, che consentì agli americani di avere esatta percezione della potenza missilistica

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sovietica.– Ciò non eliminava la grande incognita delle intenzioni del rivale. Per tutta la guerra fredda,

dunque, la infiltrazioni di spie furono numerose da entrambe le parti.

– Nella lotta bipolare, i sovietici iniziarono a fornire a Pechino le tecnologie per edificare un'industria nucleare. Tra le due potenze iniziarono però ad esserci crescenti attriti. Mao infatti aveva scarsa stima della nuova dirigenza sovietica e disapprovava le critiche mosse allo stalinismo. Era sempre meno disposto a riconoscere il primato di Mosca nel movimento comunista internazionale e a seguire il modello sovietico di modernizzazione. Pechino iniziò dunque a marcare propri spazi di autonomia dall'URSS. Soprattutto, Mao era contrario alla nozione di “coesistenza pacifica”, poiché egli riteneva che gli USA fossero una potenza in declino da sfidare.

– Nel 1958 Mao lanciò una strategia di crescita accelerata – il “Grande balzo in avanti” – senza incontrare l'appoggio sovietico, poiché i russi erano favorevoli ad un percorso di sviluppo più graduale. In effetti la tattica “accelerata” di Mao fallì, causando la più grande carestia della storia.

– Alla strategia industriale Mao ne affiancò una militare: sempre nel '58 iniziò a bombardare le isole di Quemoy e Matsu, occupate dai nazionalisti di Taiwan. Mao intendeva con ciò tenere alta la “febbre della rivoluzione”, ma la crisi mirava ad intralciare anche la politica di “coesistenza pacifica” sovietica. Tuttavia Pechino non voleva giungere alla guerra con gli USA, pertanto in poche settimane si ritirò e cessò i bombardamenti.

– Sconcertati dall'atteggiamento di Mao, che ritenevano irresponsabile, i sovietici compresero che esso metteva a rischi la politica di distensione con gli USA e contestava la loro leadership strategica de comunismo internazionale. Decisero quindi di bloccare il trasferimento di tecnologia nucleare.

– Quando, infine, Mao accusò pubblicamente l'URSS di aver tradito la lotta di classe internazionale con la coesistenza pacifica, Mosca interruppe ogni tipo di supporto alla Cina, ritirando i propri tecnici dal paese. Pechino conquistò tuttavia nel 1964 l'atomica.

– L'Occidente fu tuttavia piuttosto “lento” a intravedere le possibilità del dissidio tra i due colossi comunisti. In larga misura ciò fu dettato dal fatto che era in corso una guerra ideologica e retorica tra Washington e Pechino.

Il Muro di Berlino e la crisi dei missili di Cuba– Nonostante i ripetuti tentativi di distensione in nome della “coesistenza pacifica” rivoltole da

Mosca, Washington non reagì mai – sotto Eisenhower. Frustrato dall'inconcludenza dei suoi appelli ma galvanizzato dalle sue conquiste nucleari, Krusciov iniziò a calcare la mano dal 1958. Lo statista sovietico scoprirà solo più tardi che l'intimidazione nucleare non sarebbe stato uno strumento utile a ottenere la distensione da Washington, e tale strategia gli si sarebbe rivolta contro.

– Il luogo più ovvio per un braccio di ferro con l'Occidente restava Berlino. Dall'inizio della guerra fredda il flusso di berlinesi da Est verso Ovest era stato continuo, privando il lato sovietico di competenze e risorse importanti. Il Cremlino voleva perciò giungere ad una soluzione diplomatica che garantisse il futuro della DDR.

– Krusciov rivolse allora un ultimatum agli occidentali: chiedeva che essi abbandonassero Berlino altrimenti l'URSS avrebbe dato il permesso alla DDR di decidere in autonomia (non l'avrebbe più fermata come prescrivevano gli accordi internazionali) sull'accesso alla più ricca e prospera Berlino Ovest. Nonostante le opinioni fossero diverse, andando da posizioni moderate ad altre più intransigenti, il fronte occidentale era comunque compatto nel rifiuto a sottostare ad un diktat sovietico.

– L'illegittimità del regime dell'Est (le due Germanie ancora non si riconoscevano

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reciprocamente) e la prospettiva di una futura riunificazione nazionale erano capisaldi della politica di Adenauer, pilastri irrinunciabili della sua immagine pubblica. Giungere ad un accordo con la DDR era fuori discussione: si giunse così ad uno stallo diplomatico, che Washington cercò di sbloccare offrendo un incontro a Krusciov. La visita non ebbre altro effetto che il rinvio di ogni decisione ad un incontro futuro. Questa assenza di risultati, insieme al dissidio con Pechino, esasperava la frustrazione di Krusciov.

– Mentre la questione di Berlino era in sospeso, dopo la pubblica rottura con la Cina, Krusciov incontrò i leader del Terzo Mondo all'Assemblea dell'ONU, tra cui Castro. Quando il leader cubano cominciò a parlare di una riforma agraria che colpiva gli interessi statunitensi, prendendo accordi con i sovietici, Washington impose sanzioni economiche all'isola. Mosca, dal canto suo, aveva tutto l'interesse ad avviare la dipendenza di cuba al regime sovietico.

– I dialoghi su Berlino non si ebbero con Eisenhower, ma si riprese a discuterne solo con la nuova amministrazione Kennedy, nel 1960. Kennedy in campagna elettorale aveva non solo denunciato il gap missilistico (non reale) tra USA e URSS, ma pure incitato il paese a sostenere una energica politica di contenimento su scala globale.

– Kennedy, nel nuovo scenario della deterrenza reciproca, vedeva la necessità di mantenere la preminenza e avviò un cospicuo rafforzamento dell'apparato nucleare e una diversificazione delle forze convenzionali per combattere i diversi tipi di conflitto. Il nuovo presidente contrappose alla strategia di Eisenhower della “rappresaglia massiccia” quella della “risposta flessibile”, prevedendo il ricorso all'atomica non “sempre e comunque”, ma solo al termine di un'escalation (dalle minacce ed embarghi economici all'uso di forze convenzionali).

– In continuità con Eisenhower, Kennedy avallò un'operazione studiata dalla precedente amministrazione che prevedeva l'invio di esuli cubani anti-castrismo a Cuba per generare un'insurrezione popolare e rovesciare Castro: l'esercito cubano bloccò gli esuli sulla spiaggia e l'operazione intera fallì.

– Krusciov pensò allora di aver di fronte un interlocutore, gli USA, debole e ripresentò dunque un ultimatum a Kennedy sulla questione Berlino. Kennedy reagì con moderazione, data la sua strategia della risposta flessibile progettò una reazione graduata. Il presidente statunitense vedeva Berlino come il grande test del coraggio e della volontà dell'Occidente. Il valore simbolico del caso lo spinse a rifiutare l'ultimatum.

– Il Cremlino cominciò a temere lo scontro diretto: la tattica dell'ultimatum gli si stava ritorcendo contro. La tensione crescente fece aumentare l'esodo da Berlino Est verso Berlino Ovest: l'economia della DDR rischiava il collasso e i suoi dirigenti pressavano sempre più Mosca per ottenere l'autorizzazione a chiudere il confine. Dunque, nel 1961 fu costruito il Muro di Berlino.

– Siccome i diritti delle potenze occidentali a Berlino Ovest non venivano toccati, e le vie di comunicazione con la BDR restavano aperte, la crisi internazionale era disinnescata.

– Di lì a poco Kennedy, forte delle informazioni ottenute dalla tecnologia satellitarie, dichiarò di non temere eventuali minacce di guerra poiché aveva le prove dell'inferiorità militare sovietica. A quel punto Krusciov, se voleva perseguire il fine di parità tra super-potenze nell'equilibrio del terrore, mutando i rapporti di forza in proprio favore, avrebbe dovuto trovare una leva capace di innescare un negoziato sugli armamenti. L'attenzione del leader sovietico si appuntò su Cuba.

– Sull'isola la minaccia di iniziative statunitensi contro il regime di Castro non era certo scomparsa in seguito al fallito tentativo di un'insurrezione orchestrato da Washington. Così, nella difesa di Cuba, Krusciov colse l'occasione di avvicinarsi al riequilibrio strategico di forzare gli americani ad una coesistenza negoziata. Dispose dunque lo stanziamento di testate nucleari sull'isola. I missili avrebbero aumentato la capacità sovietica di colpire gli USA, riducendo così l'inferiorità del deterrente strategico di Mosca, avrebbero protetto Cuba

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e avrebbero finalmente convinto Washington ad accettare un modus vivendi concordato con Mosca.

– L'operazione avrebbe dovuto essere segreta fino alla messa in operatività dei missili stessi. Tuttavia nell'arco di un mese un ricognitore americano fotografò i siti di costruzione dei missili a testata nucleare svelando le intenzioni sovietiche. La valutazione del ministro della difesa McNamara e di altri consiglieri civili era che i missili di Cuba non mutavano seriamente l'equilibrio strategico: la questione, più che militare era politica. Kennedy nel muoversi valutava gli effetti politici e psicologici di una propria arrendevolezza.

– Nell'ambito della “risposta flessibile” Washington vagliò diverse strategie, escludendo quelle più rischiose, e optò infine per il blocco navale: l0intento era di indurre Mosca a fare marcia indietro e guadagnare tempo mentre si preparavano altre operazioni, mobilitando forze convenzionali in modo da renderle disponibili prima che i missili fossero operativi – tutto era volto ad evitare lo scoppio di un conflitto diretto.

– In quella tesissima fase tra Mosca, Washington e altre capitali s'intrecciarono frenetiche consultazioni diplomatiche e segnali indiretti e tra emissari non ufficiali, in un clima di forte incertezza. Tuttavia, quando i preparativi americani sembravano completati e un attacco all'isola quindi possibile in ogni momento, Krusciov propose di ritirare i missili in cambio dell'assicurazione da parte degli USA sul fatto che non avrebbero attaccato Cuba. Nonostante alcune divergenze interne all'amministrazione americana, Kennedy decise di accettare il compromesso del leader sovietico.

– L'attacco all'isola fu scongiurato ed in via segreta – perché la pubblicità avrebbe fatto apparire gli USA più deboli e cedevoli nei confronti dell'URSS – furono ritirati i missili statunitensi dalla Turchia. La crisi era terminata. La sua conclusione pacifica fu ben accolta in gran parte del mondo e trionfalmente celebrata negli USA come frutto della determinazione di Kennedy.

– Morale della storia: la strategia dell'uso ostentato della diplomazia atomica in scenari di crisi aveva costretto in ultima istanza ad una umiliante ritirata: essere riusciti a garantire il regime della DDR o la sicurezza del socialismo cubano non oscuravano la clamorosa retromarcia dai roboanti proclami iniziali, con un duro colpo al prestigio dell'URSS e del suo leader.

– Nei primi anni '60 fu chiaro che in caso di attacco, anche solo una parte dell'arsenale della vittima del primo attacco poteva sopravvivere ed essere quindi utilizzata per una ritorsione devastante sull'aggressore: la distruzione reciproca diventava una condizione certa ed inevitabile. Gli strateghi videro in questa inedita realtà storica un fattore di stabilizzazione.

– In teoria una simile constatazione avrebbe potuto condurre ad una fine della corsa agli armamenti: tuttavia, Mosca e Washington rimanevano immerse nei loro orizzonti di rivalità. Inoltre, se uno spazio di distensione era indispensabile per la sopravvivenza, è pur vero che ciascuno lo voleva funzionale ai propri disegni di rivalità.

– E poi c'era la difficile gestione delle alleanze. Durante la crisi cubana gli alleati avevano sostenuto Kennedy ma si erano anche resi conto di non avere voce in capitolo su decisioni che concernevano la propria sopravvivenza: erano stati informati, ma mai consultati preventivamente sul da farsi. La conclusione della vicenda aveva poi mostrato come le super-potenze potessero decidere, di comune accordo, alle spalle di alleati come Cuba e Turchia.

– Se dieci anni prima gli alleati europei non avevano alternative alla sottomissione agli USA, dopo l'espansione economica, la rifondazione di Stati nazionali legittimati e funzionanti, il loro coordinamento nella CEE fornivano in questo momento loro sia i mezzi che l'ambizione ad assumere un ruolo più attivo e rinegoziare i termini della collaborazione atlantica.

– La Francia aveva avviato un proprio autonomo progetto nucleare, giungendo al primo test

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atomico nel 1960. De Gaulle voleva arrivare ad un direttorio NATO a tre (alla pari con GB e USA). Ma presto gli fu chiaro che Washington e Londra preferivano la collaborazione bilaterale sulle questioni nucleari, il presidente francese pose nel 1963 il veto all'ingresso della GB nella CEE e firmò con Adenauer un trattato d'amicizia franco-tedesco.

– L'amministrazione Kennedy in particolare era contraria ad arsenali nucleari nazionali perché intendeva rafforzare il proprio controllo centralizzato sull'intero processo di deterrenza. Su questo c'era convergenza con Mosca: di primaria importanza per l'URSS era l'impedimento a Bonn di divenire una potenza nucleare e dunque i sovietici ricercavano una soluzione diplomatica che sancisse l0esistenza di due Germanie indipendenti, legalizzandone i confini.

– Da questa comunità d'intenti nacquero i negoziati per un trattato di non proliferazione tra Mosca e Washington che proibisse il trasferimento di tecnologie nucleari a paesi che non si impegnassero ad utilizzarle solo per scopi civili, rinunciando esplicitamente all'arma atomica. Francia e Cina non aderirono al trattato. Questa soluzione era anche il modo per chiudere ogni possibilità alla BDR di acquisire armi nucleari.

– Sotto il profilo dell'opinione pubblica: la richiesta di spendere meno in armi e più in aiuti contro la povertà era il leitmotiv di movimenti pacifisti e di molti esponenti del Terzo Mondo; il pericolo palesatosi durante le due crisi, inoltre, diede rinnovato vigore alle richieste di disarmo nucleare da parte della società civile. Oltre a essere sollecitata da scienziati ed intellettuali, il disarmo finì per essere auspicato – sia pure con cautela – da alcuni governi e forze politiche, entrando apertamente nel dibattito pubblico.

– Anche l'autorità morale del Papa – Giovanni XXIII – legittimava la necessità della coesistenza anche al di sopra del conflitto ideologico (benché la Chiesa fosse decisamente schierata contro il comunismo), plasmando un nuovo consenso intorno alla distensione anche da parte di settori della destra cattolica fino ad allora contrari.

– Sotto questo profilo concettuale parlare di guerra fredda dopo il 1963 è sbagliato: i due blocchi persistevano, ma oltre a incarnare due mondi essi erano ora anche racchiusi in uno solo, congiunto dalla comune vulnerabilità all'atomica, in cui i due poli dovevano riconoscersi, negoziare e accordarsi, persino a spese di un alleato.

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Capitolo quarto – Disordine bipolare (1964 – 1971)

– Priorità degli USA era la stabilizzazione filo-occidentale dei regimi del Terzo Mondo. In America Latina gli aiuti facilitavano la costruzione delle infrastrutture ma, in assenza di politiche redistributive, non innescavano la crescita del mercato interno. Invece di promuovere la nascita della classe media, finivano per consolidare le oligarchie tradizionali. Tra aspettative e risultati c'era un abisso crescente, in cui saliva lo scontento popolare.

– Le preoccupazioni per il controllo della situazione (dunque delle derive del malcontento popolare) erano prioritarie per Washington, che prese ad avvicinarsi alle élite militari, viste come leva di modernizzazione dall'alto e garanzia di ordine e stabilità: in questo periodo gli USA appoggiarono colpi di Stato e regimi autocratici in nome dello status quo.

La guerra del Vietnam– Dopo la rivoluzione cinese, Washington aveva visto nel Vietnam una fonte cruciale del

contenimento in Asia. Timorosi di un effetto domino nel Sudest asiatico, e preoccupati di assicurare mercati e materie prime all'alleato giapponese, gli USA avevano prima appoggiato il colonialismo francese poi, accettando l'indipendenza indocinese nel 1954, spinto per la nascita di due Stati: Vietnam del Nord filo-comunista e Vietnam del Sud filo-occidentale. Nella loro zona d'influenza imposero un regime cattolico (in uno Stato buddista) autoritario e scarsamente popolare, guidato da Diem.

– Il regime comunista del Nord, erede della lotta di liberazione dal colonialismo aveva più successo popolare nel proporsi con spirito nazionalista come difensore dei vietnamiti. Puntando all'unità del paese, il regime del Nord decise nel 1959 di passare all'offensiva, evidenziando con attacchi e attentati la debolezza del regime di Diem, sottraendogli alcune zone rurali. Hanoi non era sostenuta da Mosca inizialmente: cioè le intenzioni del Vietnam del Nord erano di semplice unificazione del paese, fatto locale non proiettato nello scenario globale del conflitto bipolare. Tuttavia Washington non era in grado di fare una simile distinzione, e vide profilarsi una vittoria comunista di valore esemplare, che avrebbe da un lato minato la credibilità statunitense e dall'altro innescato un effetto domino di espansione del comunismo.

– Dunque, a partire dal 1961, gli USA si impegnarono a fianco di Diem inviandogli rifornimenti e consiglieri militari. Se il governo di Diem era corrotto – limitando i benefici che il popolo poteva trarre dagli aiuti americani – ciò aumentava i simpatizzanti del regime del Nord. Anche sul versante militare le cose non miglioravano: né sudvietnamiti né americani avevano tattiche efficaci contro una guerriglia radicata nel territorio e in ampi settori della popolazione.

– Fu con Johnson – succeduto a Kennedy nel 1963 – a trasformare quella del Vietnam in una guerra americana su vasta scala. I dogmi del contenimento globale, l'ossessione per la credibilità e l'incapacità d'immaginare che la tenacia del nazionalismo potesse resistere alla forza della super-potenza spinsero quindi alla guerra. Nel 1964 furono avviati massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord e vennero introdotte molte unità da combattimento americane nel Vietnam del Sud.

– I soldati americani apparivano, anche se numerosi, inefficaci: i Vietcong sceglievano quando colpire per poi ritirarsi nella giungla tropicale, e le loro perdite, pur molto elevate, non erano tali da incapacitarli. Quella che veniva sconvolta invece era la società rurale del Sud, dove popolazioni, campi e villaggi erano travolti e devastati dalle operazioni militari. Il risentimento verso la presenza americana aumentava: ed il regime di Diem non trovava mezzo di consolidarsi tra violenza, crollo dell'economia agraria, inflazione e disordinata gestione dei profughi delle campagne.

– Col tempo l'impopolarità del conflitto prese a diffondersi anche negli USA: l'impostazione

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strategica di Johnson e la tenacia dell'avversario non offrivano però vie d'uscita e i generali americani continuavano a premere per la vittoria. La perdurante inefficacia dei soldati statunitensi spinse però anche parti del governo a concludere che i costi politici del coflitto stessero diventando troppo alti. Indebolito Johnson annunciò dunque che non si sarebbe ricandidato alla presidenza per agevolare la risoluzione della guerra: si trattava oramai di trovare il modo migliore per districarsi da un conflitto fallimentare.

– Un altro protagonista di questa guerra fu Pechino: per lei, quella del Vietnam era una lotta esemplare sia sotto il profilo strategico che sotto quello teorico. Metteva in imbarazzo la ricerca sovietica della coesistenza pacifica tra Est e Ovest, esaltava il ruolo della Cina quale punto di riferimento per il Terzo Mondo e forniva una raffigurazione epica della teoria maoista della rivoluzione (incentrata sulle campagne e gli agricoltori).

– Per quanto riguarda però i rapporti USA/URSS la guerra in Vietnam non riaccese l'antagonismo bipolare, ma rese solo più accidentato il tentativo di distensione tra le due super-potenze. Nel 1964 Krusciov venne rimosso e pensionato, cedendo il posto di segretario di partito a Breznev. Quest'ultimo voleva uscire dalla condizione di inferiorità rispetto agli USA ed avviò perciò un massiccio riarmo che appesantì notevolmente l'economia sovietica.

– Ma il fulcro della politica estera di Breznev restava la distensione con gli USA (la parità militare era appunto funzionale all'ottenimento della pacifica coesistenza). In quest'ottica volta a migliorare il rapporto con gli USA, la guerra in Vietnam era dunque un ostacolo: le esigenze della solidarietà internazionale nel campo socialista imponevano ai russi di sostenere Hanoi, cosa che fecero fornendo armamenti sofisticati.

– I nord-vietnamiti, dal canto loro, sfruttarono la concorrenza sino-sovietica per strappare il massimo degli aiuti da entrambe le potenze comuniste e mantenendo simultaneamente una forte autonomia decisionale. Ergo, Mosca aveva ben poca influenza su Hanoi.

– In effetti, le relazioni USA/URSS continuarono a migliorare a dispetto del Vietnam: neppure la Guerra dei Sei giorni interruppe questa ricerca di distensione, benché il conflitto arabo-israeliano stesse ormai avviluppandosi indistricabilmente con la dinamica dell'antagonismo bipolare.

– Mentre dalla metà degli anni '60 cresceva il legame tra URSS e Siria/Egitto, andava parallelamente formandosi l'idea negli USA che Israele fosse un partner fondamentale.

– Nella primavera del 1967 Nasser mobilitò le sue forze per precipitare una crisi diplomatica che riteneva potesse risolversi in una sconfitta israeliana. La reazione dello Stato ebraico fu inattesa e fulminea: esso lanciò un attacco che spiazzò l'Egitto. L'URSS allora minacciò di intervenire per evitare il collasso degli alleati. Washington fece dunque pressione su Israele affinché fermasse le operazioni e Gerusalemme acconsentì (anche perché si era già espansa, conquistando anche la regione del Sinai) e firmò il cessate il fuoco.

– Da lì in avanti il conflitto mediorientale divenne anche uno dei teatri di rivalità delle due superpotenze.

– Il dialogo tra Mosca e Washington proseguiva e nel 1968, quando Mosca si ritenne soddisfatta della quasi-parità raggiunta sotto il profilo nucleare con la rivale, acconsentì all'avvio dei dialoghi sulla limitazione degli ABM (SALT – Strategic Arms Limitation Talks).

– L'efficacia degli aiuti statunitensi per la ripresa dell'economia europea si fondava anche su istituzioni specifiche del Vecchio continente, particolarmente adatte alle produzioni su larga

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scala (siderurgia, chimica, meccanica) che dominavano il modello economico esportato dagli USA.

– La CEE era il simbolo più indicativo, e al tempo stesso uno dei meccanismi costitutivi, di questo “capitalismo coordinato”, con mercati fortemente regolati che aveva i suoi poli più forti in Francia e Germania. Altro pilastro del boom europeo (e giapponese) era il sistema monetario fondato sul dollaro convertibile in oro a un prezzo prefissato.

– Per gli USA il sistema era sempre meno sostenibile: oltre agli aiuti economici si sommavano i costi dei soldati e delle basi statunitensi in tutta Europa (soprattutto in Germania); inoltre molti capitali privati americani erano attratti dal mercato fiorente europeo: questa continua fuoriuscita di dollari era sempre meno bilanciata dalla capacità dell'economia americana di guadagnare valuta attraverso l'export. La quota statunitense del commercio mondiale si era contratta a seguito delle concorrenti Europa e Giappone – ciò comportava un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti americana.

– Quanto più diminuiva lo squilibrio del 1945 tra i poli principali del capitalismo, tanto meno sostenibile era il sistema Bretton Woods. Gli USA resistettero fino agli anni '70 perché avendo la moneta di riserva internazionale potevano fronteggiare il deficit stampando ulteriore moneta. Ma il prolungato, continuo peggioramento dei conti finiva per profilare anche vincoli. In primo luogo, l'enorme massa di dollari in circolazione non era più proporzionata alle riserve aurifere americane. Secondariamente, la crescente tensione sulle questioni monetarie produceva frizioni continue con gli alleati europei. Ed infatti da un lato la maggior forza europea, dall'altro le difficoltà statunitensi, stavano allentando la disciplina atlantica e alterando i termini di un'egemonia americana sempre meno indiscussa.

– Dagli europei saliva anche una critica crescente agli USA per i problemi valutari: le economie del continente avevano bisogno di stabilità mentre la massa crescente di dollari in circolazione metteva a rischio i loro conti, la continuità della crescita e il valore delle loro riserve.

– In questo clima alcuni attori europei cercavano una maggiore autonomia: in particolare la Francia, che tentava di trascendere la divisione dell'Europa in due blocchi, cercando il dialogo con Mosca e arrivando, infine, alla rottura nel 1966. quell'anno i francesi annunciavano che, pur rimanendo nell'Alleanza atlantica, sarebbero usciti dal dispositivo militare integrato della NATO e non avrebbero più accolto sul proprio territorio comandi e forze dell'alleanza.

– Nessuno degli altri europei – soprattutto la Germania era disposto a seguire la Francia: nelle altre capitali vi era semmai il timore che gli impegni in Vietnam e i problemi valutari spingessero gli USA a ritirare le proprie forze dal continente. Nel 1967 la crisi NATO era già superata tramite l'approvazione unanime del Rapporto Harmel, che impegnava l'alleanza ad affiancare alla strategia di contenimento dell'URSS anche una politica di distensione dei due blocchi, riflettendo tanto le priorità degli USA quanto gli auspici della Germania.

– Non sono tuttavia da declassare a mero nazionalismo i toni di De Gaulle, che avevano invece intercettato una insofferenza europea per la leadership americana che toccava non poco società e governi del Vecchio continente.

– La preoccupazione per la crescente debolezza americana (costi alti di guerra esasperavano il deficit, precarietà del sistema incentrato sul dollaro, crescente mobilità dei capitali fuori del controllo del governo USA), portava gli europei a chiedere agli americani di accollarsi il riequilibrio della loro bilancia dei pagamenti – per garantire la stabilità del sistema dollaro-centrico – con più tasse e disciplina fiscale. La risposta americana era che gli europei avrebbero dovuto rinunciare a chiedere di convertire i loro dollari in oro e che, soprattutto, avrebbero dovuto contribuire di più ai costi di basi e soldati americani di stanza in Europa.

– In campo strategico e militare, tuttavia, la dipendenza degli europei dagli USA restava sostanziale. Ma il maggior peso economico e politico assunto dall'Europa rendeva possibile

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ai governi di ripensare – modificare – molti aspetti dei rapporti transatlantici (maggiore autonomia). Il terreno su cui la crescete autonomia europea si manifestò fu quello dei rapporti con l'Est. Grazie al nuovo clima di minor antagonismo bipolare, diversi paesi europei stavano tentando di avviare un dialogo e una collaborazione con URSS e altri paesi del Patto di Varsavia.

– Il socialdemocratico tedesco Brandt guidò il ripensamento della Repubblica federale e auspicò una politica verso l'Est all'insegna del riavvicinamento (Ostpolitik), mirando – in un futuro lontano – alla riunificazione della Germania dopo una progressiva pacificazione tra i due blocchi tale da diffondere confidenza e cooperazione. Questa operazione tedesca si trovò in sintonia con la volontà del presidente Johnson di costruire ponti con l'Est. Il Rapporto Harmel del 1967 sanciva la convergenza su questo nuovo approccio da parte della NATO.

Fuori, e contro, l'orizzonte bipolare– Dal Terzo Mondo sorgeva una pressione crescente e organizzata per lo sviluppo economico

e il riequilibrio tra le aree più ricche del mondo e quelle più povere. Grazie alla loro insistenza, nel 1964 si riunì a Ginevra la prima conferenza dell'ONU sul commercio e lo sviluppo, che si costituì poi in forum permanente (UNCTAD). Al suo interno i paesi del Terzo Mondo formarono il Gruppo dei 77.

– Il fronte dei paesi del Terzo Mondo chiedeva la stabilizzazione dei prezzi delle materie prime, l'apertura dei mercati più ricchi, l'aumento degli aiuti e un controllo sulla loro destinazione. Sotto il profilo pratico, tuttavia, tali richieste non sortirono alcun effetto. Ciò perché se i paesi del Terzo Mondo facevano fronte di comune nelle sedi istituzionali, essi agivano però separatamente nei negoziati commerciali e finanziari, cercando di strappare una porzione di risorse economiche ai paesi ricchi per il benessere della propria singola economia.

– La voce del Terzo Mondo ebbe tuttavia effetto sul fronte dell'opinione pubblica occidentale (dal materialismo delle società toccate dalla miseria della guerra al post-materialismo delle giovani generazioni nate nel pieno del boom economico), stimolando nuove forme di solidarietà e mobilitazione internazionalista della società civile. Soprattutto appariva minata la fiducia in un progresso universale e condiviso che animava, sia pure in modo diverso, ciascuna delle ideologie del bipolarismo. Si diffondeva perciò nelle enclave metropolitane e universitarie d'Europa e d'America una estraneità alla logica strategica dell'Occidente, all'ideologia della guerra fredda e della glorificazione della forza militare.

– In Europa questi nuovi sentimenti si manifestavano spesso in una antipatia per gli USA e nel crollo dei residui della mentalità coloniale. Negli USA, invece, tutto precipitava in una crisi aspra e multiforme fra il Tet (L'Offensiva del Têt fu un grande attacco a sorpresa operato dai Vietcong, avvenuto durante la guerra del Vietnam. L'offensiva non riuscì a sfondare in alcun punto le linee americane, ma fu lo stesso determinante per il forte impatto sui mass media e sull'opinione pubblica) e le elezioni presidenziali del 1968.

– le riforme sociali di Johnson suscitavano il risentimento di chi se ne sentiva escluso, mentre il risorgere dell'inflazione alimentava l'insicurezza dei ceti più poveri. Il sostegno popolare dei ceti più popolari ai democratici andava quindi facendosi incerto proprio mentre saliva una richiesta di ordine che sollevava le sorti dei repubblicani. Ed infatti emerse da una indagine che oltre la metà degli americani disapprovava la protesta contro la guerra e che la maggioranza del paese avrebbe voluto una vittoria in Vietnam, non certo il ritiro umiliante. Dunque richieste di vittoria decisiva a destra e crisi interna a sinistra erano il contesto delle presidenziali del 1968.

– Vinse il repubblicano Nixon, che portava alla presidenza robuste credenziali conservatrici (era stato tra i fautori del maccartismo). Nixon presentava se stesso come il saggio statista

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che, preso atto del fallimento vietnamita, avrebbe posto fine alla guerra con una “pace onorevole”.

– Questa tensione tra regimi politici e le trasformazioni culturali e generazionali toccò negli anni Sessanta non solo l'Occidente ma anche l'Est: il disgelo dell'epoca di Krusciov aveva aperto infatti spazi di libertà intellettuale, che aveva favorito il diffondersi di un'aspettativa di riforma e una forte attenzione all'Occidente, con il quale nel corso degli anni '60 si venivano infittendo i contatti. Il ricambio dei vertici – da Krusciov a Breznev – aveva attutito ma non spento quelle attese.

– Per evitare scosse e pericoli, però, la nuova amministrazione evitò di affrontare riforme, assestandosi in una modalità di bassa efficienza e relativa pace sociale. Le proteste pubbliche non mancarono, e cominciarono ad essere udite anche in Occidente, ma la macchina della repressione – accorta e mirata più che violenta – riuscì a mettere gradualmente fine alla liberalizzazione intellettuale avviata nel decennio precedente.

– Nei paesi dell'est Europa le espressioni di dissenso incarnavano anche il desiderio nazionale di allentare il dominio da Mosca. Le società dell'Est erano inoltre più esposte al contatto e confronto con il prospero Occidente, soffrendo un paragone che li vedeva perdenti.

– Fu in Cecoslovacchia che queste tensioni si coagularono in un poderoso processo riformista, e poi in una tragica crisi. Dal 1967 il paese aveva inaugurato legami commerciali con la Germania occidentale e persino con gli USA. Nel 1968 fu eletto il riformatore Dubcek: il paese divenne in breve un laboratorio di trasformazione, focalizzando l'attenzione internazionale sulla “Primavera di Praga”.

– Il Cremlino non tardò a preoccuparsi, soprattutto dopo che Dubcek propose a Polonia, Ungheria e Romania di unirsi in una coalizione di governi riformatori. Il fatto era che all'interno del partito comunista cecoslovacco non c'era più una leva su cui Mosca potesse agire, perché la maggioranza era per il corso riformista.

– Breznev faceva affidamento sul fatto che l'occidente avrebbe solo protestato senza intervenire direttamente difronte alla repressione russa (e in effetti fu così, poiché la strategia della distensione veniva prima dell'interesse dei singoli paesi dell'Est per Washington): dunque, dopo un ultimo tentativo di pressione su Dubcek, Mosca passò all'azione militare, invadendo la Cecoslovacchia. Il riformista fu sostituito con una guida filo-moscovita che riportò alla “normalizzazione filo-sovietica” il paese.

– Dottrina Breznev: sosteneva che la sovranità di ogni paese dell'Unione Sovietica fosse limitata dai preminenti interessi del partito comunista internazionale e quindi, in ultima analisi, dell'URSS.

– Soffocare la possibilità di riforme in URSS e nei paesi socialisti significò imporre non solo obbedienza ma pure disillusione e passività intellettuale, che divennero i tratti peculiari di una società sempre più prigioniera di piaghe sociali crescenti – alcolismo, corruzione – e di una bassa crescita economica.

– Di fronte all'insoddisfazione popolare, il regime rispose con il ricorso ai crediti occidentali per aumentare la disponibilità dei beni di consumo essenziali e la stessa URSS moltiplicò gli acquisti di cereali in Occidente.

– La crisi interna all'URSS era ancora poco visibile da fuori: nel resto del mondo permaneva la convinzione che alla forza dello Stato sovietico corrispondesse una sostanziale stabilità del sistema. Per altro, gli USA erano assorbiti dai loro stessi problemi: la nazione si trovava di fronte ad una “crisi d'identità”.

– Oltre che fonte di contestazione nazionale ed intenazionale, il Vietnam era divenuto l'epicentro drammatico di una serie di palesi difficoltà della potenza americana che proiettavano quella sensazione di smarrimento che accompagnano la fine di un'era. 1. I

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sovietici stavano giungendo all'effettiva parità strategica; 2. La crisi del dollaro evidenziava il declino dell'egemonia americana sugli alleati e gettava incertezza sul sistema internazionale.

– Da questi problemi nacque la scelta di consolidare il sistema in un “rassicurante bipolarismo” dove la competizione tra blocchi fosse gestibile e coordinabile, il tutto al fine di rilanciare la leadership americana. L'ambizione era quella di indurre i sovietici ad abbandonare il finalismo rivoluzionario, riconoscere i vantaggi dello status-quo e divenire quindi una forza stabilizzatrice corresponsabile assieme agli USA. Ciò avrebbe permesso agli americani di ridurre il proprio impegno internazionale.

– Da parte degli alleati le perplessità erano crescenti: Parigi e le altre capitali erano favorevoli alla strategia della distensione e apprezzavano i trattati – anche per il consolidamento delle due Germanie che ne seguì – ma temevano che l'Ostpolitik potesse spingersi troppo oltre, dando a Mosca la capacità di dividere l'Occidente, allontanando gli USA dalla difesa dell'Europa e facendo scivolare la Germania verso il neutralismo.

– Anche a Washington vi erano preoccupazioni analoghe, rafforzate dall'ansia di riuscire a mantenere il proprio controllo sull'insieme delle relazioni bipolari. Simili paure si sarebbero poi rivelate infondate.

– La Germania occidentale era sempre più dinamica, divenendo partner commerciale e finanziario per tutti i paesi dell'Est. Alcuni di questi – Polonia, Ungheria, Romania – presero ad agire sempre più come attori diplomatici semi-indipendenti sullo scenario europeo. Dunque la distensioni avrebbe nel tempo provocato non l'erosione della coesione del fronte Occidentale, bensì lo sfaldamento della capacità sovietica di gestire il proprio blocco in modo chiuso e autosufficiente – un processo tuttavia lento che si sarebbe protratto fino agli anni '90.

– Per tre anni la Cina era stata totalmente assorbita nei tumultuosi conflitti interni della “rivoluzione culturale”, che Mao aveva lanciato nel 1966 per rinsaldare il proprio potere. Si trattava di una campagna ideologica dai forti accenti xenofobi e anti-sovietici. Il modello di socialismo dell'URSS incarnava il cattivo esempio di un revisionismo da estirpare per far avanzare il comunismo. E Mosca era anche criticata per i secoli di “umiliazione” che la Cina aveva subito dalle potenze straniere, inquadrando nei sovietici coloro che avevano voluto controllare e dirigere (limitandola) la rivoluzione cinese.

– I sovietici, allarmati, irrobustirono la loro presenza sui confini e questo preoccupò Mao: il leader cinese tentò di dissuadere Mosca architettando incidenti sul confine, ma ottenne solo violenti scontri (1969). Sciolta la tensione delle prime battaglie, la situazione si stabilizzò con il dispiegamento da entrambe le parti dell'esercito sul confine.

– La leadership cinese vedeva nell'URSS la fonte principale della propria insicurezza, e optò per un cambio di strategia: utilizzare in senso strategico le contraddizioni tra USA e URSS procedendo ad una svolta delle relazioni sino-americane. Si voleva aprire il dialogo col nemico più lontano al fine di controbilancia il più minaccioso nemico confinante.

– Già prima del 1969 Nixon aveva affermato che era interesse dell'America arrvare – sul lungo periodo – a un re-ingresso della Cina nel sistema internazionale. C'era l'intuizione di poter usare un buon rapporto con la Cina per turbare i sovietici, avendo maggiore potere di pressione diplomatica.

– Ma fu appunto solo nel '69, con la rottura definitiva URSS/Cina, che questa strategia prese corpo: l'espandersi di una egemonia sovietica in Asia era poco desiderabile per Washington, dunque la sopravvivenza della Cina divenne parte integrante dell'equazione complessiva della sicurezza americana.

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– Kissinger aprì la porta d'ingresso alla Repubblica cinese all'ONU e rassicurò i cinesi sul Vietnam: gli USA si sarebbero ritirati non appena raggiunto un accordo tale da non rappresentare una indecorosa sconfitta.

– Mosca vedeva così i suoi principali avversari affiancati in una intesa – non alleanza – animata da un interesse anti-sovietico. Questa evoluzione del contesto rappresentava una alterazione della guerra fredda, rendendo molto più sfumata la linea divisoria tra capitalismo e comunismo.

– Nella politica di Nixon, il rilancio dell'economia americana era una priorità: cominciava a imporsi l'idea che il dollaro andasse svalutato per favorire le esportazioni e riequilibrare i conti. Restava tuttavia il timore di precipitare una spaccatura dell'Occidente e la sua frammentazione in blocchi commerciali contrapposti. D'altro canto, pressanti erano le richieste dei privati per l'allentamento dei controlli sui capitali al fine di favorirne la circolazione: a questo affiorare di un paradigma liberista si affiancava una crescente impazienza verso i vincoli politici e diplomatici insiti nel negoziato con gli alleati.

– Nel 1969 i sei governi della CEE allargarono la comunità alla GB e tentarono di coordinare le politiche monetarie al fine di far convergere le loro valute verso un cambio fisso. Ciò avrebbe dovuto spingere Washington ancora una volta ad accollarsi il costo degli aggiustamenti necessari (strutturali interni agli US) per garantire la stabilità del sistema internazionale. Ma l'amministrazione Nixon si volse in direzione opposta.

– Nel 1971 la Casa Bianca sospese la convertibilità del dollaro in oro, impose un congelamento di prezzi e salari (per arginare l'inflazione) e rialzò temporaneamente del 10% i dazi sulle importazioni statunitensi. Fu dunque abolito il sistema di Bretton Woods. In questo modo erano al sicuro le riserve aurifere americane e si costrinse gli alleati europei a negoziare un riallineamento dei cambi da una posizione di maggiore debolezza. Nel 1973, inoltre, la sterlina, seguita dal dollaro e poi dalle altre valute, fu lasciata libera di fluttuare.

– Ora gli USA potevano gestire con più indipendenza la propria politica economica, pur mantenendo il privilegio del dollaro come valuta principe degli scambi e delle riserve mondiali.

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Capitolo quinto – Apogeo e disfatta della distensione (1972 – 1980)

– Nel 1969, appena insediato, Nixon aveva chiaro di doversi contemporaneamente svincolare dal tracollo del consenso interno e continuare nella strategia del contenimento, rifondando quindi l'egemonia americana in termini più sostenibili.

– La guerra in Indocina era l'alimento principale della protesta interna, nonché la fonte di maggiore spesa. Quanto più continuava e tanto più intrattabili divenivano le difficoltà della bilancia dei pagamenti e le relazioni con gli alleati. Ed era inoltre la manifestazione più tangibile del declino della leadership internazionale statunitense.

– Dunque Nixon optò per una doppia strategia: 1. Da una parte sdrammatizzare l'impatto interno del conflitto; 2. Dall'altra negoziare con Hanoi un ritiro delle truppe americane senza che ciò apparisse come una sconfitta degli USA.

– Il primo passo fu la vietnamizzazione del conflitto, con la cessione del passo da parte delle truppe americane verso l'esercito di Saigon. Il secondo passo era di indebolire Hanoi per avere maggiore forza contrattuale: ma qui l'azione di Nixon fu un fallimento. Egli sottopose Vietnam del Nord, Laos e Cambogia ad intensi bombardamenti negli anni 1969 – 72. non solo causò la destabilizzazione della Cambogia (aprendo la via al movimento dei Khmer Rossi, che nel 1975-78 attueranno un vero e proprio genocidio della popolazione cambogiana), ma rese pure palese che il regime di Saigon, una volta privo del supporto americano, sarebbe crollato.

– Infine Nixon, preso atto di ciò, concluse che tutto ciò cui poteva aspirare era un “decente intervallo” tra il ritiro degli USA e la capitolazione di Saigon. Il risultato fu un accordo (Parigi, 1973) che contemplava il cessate il fuoco e il ritiro americano. La capitolazione di Saigon avvenne prima del previsto: i regimi del Nord e del Sud non rispettarono mai il cessate il fuoco, fino a che nel 1975 le truppe di Hanoi invasero Saigon: di lì il paese si unificò sotto il regime comunista del Nord.

– Tuttavia non si ebbe il temuto effetto domino in Asia sudorientale, e ciò perché il contesto della guerra fredda era mutato: l'amministrazione Nixon stava elaborando la tutela dello status-quo non solo tramite la strategia della distensione con Mosca, ma pure con un innovativo dialogo con Pechino in funzione anti-sovietica.

– Dal punto di vista sovietico, dopo la soppressione della Primavera di Praga l'URSS si sentiva più sicura e procedette spedita nell'operazione di distensione, soprattutto in ambito europeo, stringendo patti col tedesco Brandt: tra 1970 e 1972 questo processo la rese più fiduciosa. Il clima, come detto, mutò rapidamente: dopo lo scontro sul confine con la Cina, quella con Pechino era diventata una frontiera pericolosa. La notizia di un dialogo sino-americano scosse profondamente Breznev: per Mosca diveniva essenziale evitare l'isolamento e cementificare una solida distensione con gli USA che vanificasse l'ipotesi di un'asse sino-americano in funzione anti-sovietica.

– Dunque i colloqui in corso da tempo per la limitazione degli armamenti strategici (SALT) subirono una accelerazione e giunsero alla stipula di un trattato proprio nel 1972 (Salt I): tra le altre cose, si limitavano drasticamente i sistemi di difesa antimissilistica, istituzionalizzando il sistema di deterrenza fondato sulla mutua distruzione. Non erano accordi particolarmente lungimiranti – nessun armamento veniva ridotto o smantellato – ma si trattava tuttavia di una convergenza storica che avrebbe potuto facilitare un successivo percorso di riduzione degli armamenti.

– Agli USA in particolare gli accordi davano la possibilità si di controllare il riarmo strategico sovietico che di contenere le proprie spese militari: era dunque un importante risultato diplomatico ed economico, ma pure politico, poiché veniva incontro alla domanda pubblica di pacificazione e agevolava la ricostruzione del consenso interno.

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– Anche l'URSS risultava soddisfatta, soprattutto per la raggiunta parità strategica che veniva riconosciuta in simili accordi e sanciva e legittimava il suo status di potenza globale. Salt I prevedeva anche accordi collaterali di collaborazione tecnica e culturale, e soprattutto la prospettiva dello sviluppo di scambi economici, fondamentali per l'URSS che necessitava di acquistare tecnologie e beni alimentari e di consumo.

– Importante e necessaria per entrambe le parti in causa, la distensione non corrispondeva tuttavia alla fine della rivalità bipolare, dal momento che essa era vissuta come strategia funzionale ai propri scopi nazionali, i quali restavano intrinsecamente competitivi. Anzi, ogni crisi locale seguitava ad essere letta nella cornice della rivalità bipolare.

– Cile, 1970: il successo elettorale delle sinistre guidate da Allende allarmò Nixon, non per il reale pericolo che comportava per la sicurezza nazionale statunitense, bensì perché poteva far apparire arrendevoli li USA di fronte ad un regime di sinistra. Inoltre il leader americano temeva l'effetto di contagio di altri Stati latino-americani, fatto che avrebbe minato l'influenza regionale degli USA. Dunque Nixon, servendosi di operazioni – perlopiù segrete – di destabilizzazione interna, facilitò il rovesciamento di Allende (che fu ucciso) e l'instaurazione di un regime militare di destra nel 1973.

Il Medio Oriente– Dalla guerra del 1967 nella regione della Palestina, la presenza delle due super-potenze ara

divenuta un fattore rilevante sia per l'importanza dei rifornimenti ai rispettivi alleati sia per l'inclusione dello scenario mediorientale nella cornice della rivalità bipolare.

– Dopo la vittoria israeliana e l'estensione dei confini dello Stato ebraico nel 1967, i palestinesi avevano avviato una campagna politica e militare contro Israele, con operazioni di guerriglia, atti terroristici e lo sforzo di costruire un fronte diplomatico che sostenesse la loro causa in sede ONU.

– Nella questione palestinese, ed in senso esteso nello scenario mediorientale, lo scopo primario degli USA era ridurre l'influenza regionale dei sovietici. Essendo gli americani gli unici in grado di persuadere Tel Aviv ad un accordo di pace, essi volevano utilizzare quest'arma diplomatica nell'attrarre gli altri Stati arabi dalla loro parte. La via per riottenere il Sinai – venne detto all'Egitto – era quella di dialogare con gli USA ed allontanarsi da Mosca.

– Quando Sadat allontanò effettivamente le unità sovietiche nel 1972, però, non trovò immediata rispondenza da Washington e si convinse, dunque, che fosse necessario dare una dimostrazione di forza par accrescere il proprio peso contrattuale e contemporaneamente affermare la propria leadership interna e regionale. Sadat organizzò dunque un attacco congiunto con la Siria alle posizioni israeliane nel Sinai e nel Golan: colta di sorpresa durante la festa dello Yom Kippur (la guerra fu appunto denominata “Guerra del Kippur”), Israele fu inizialmente in difficoltà. Ma rifornita e supportata dagli USA, Tel Aviv passò in breve ad una efficace controffensiva.

– Indeboliti, gli egiziani chiesero un cessate il fuoco che fu votato dall'ONU. Tuttavia Israele non lo rispettò, convinta di poter ottenere una vittoria totale. A quel punto, Breznev propose a Nixon di intervenire congiuntamente per bloccare gli israeliani. Ma gli USA rifiutarono: da una parte fu minacciata Mosca in caso essa fosse intervenuta unilateralmente; dall'altra furono gli USA stessi ad intervenire unilateralmente! Washington blocco gli attacchi di Israele e rifornì di viveri i militari egiziani. I sovietici non reagirono, e dunque non solo Israele vinse, ma gli USA furono i soli a prendersi il merito della soluzione del conflitto, anche agli occhi dell'Egitto.

– Negli anni successivi Sadat recise l'alleanza con Mosca e intraprese la pace con Israele mediata dagli USA.

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– Un effetto collaterale del conflitto israelo-palestinese fu la crisi energetica del 1973. Europa, Giappone e USA avevano perso la propria autosufficienza energetica ed erano paesi importatori soprattutto di petrolio. Tutto ciò dava maggiore potere contrattuale ai paesi produttori e questo, insieme alla svalutazione del dollaro, li spinse ad aumentare i prezzi (fino ad allora molto bassi, avevano permesso il boom economico dell'Occidente) nel 1971.

– Ma il vero impatto per l'economia mondiale venne in seguito alla Guerra del Kippur. I paesi arabi spinsero infatti per usare il loro potere economico in chiave anti-israeliana, e OPEC decise di ridurre la produzione, alzare i prezzi e differenziare le forniture a seconda delle posizioni assunte nel conflitto israelo-palestinese. Verso gli USA fu imposto un embargo mentre i paesi dell'Europa occidentale – più critici verso Israele tanto da rifiutarsi di partecipare al ponte aereo statunitense – furono meno colpiti.

– Dunque nel 1973 ci fu una crisi energetica nei paesi d'Occidente: per converso, i paesi esportatori – tra questi anche l'URSS – registravano robusti attivi con l'afflusso di ingenti capitali. La crisi in Occidente provocò una recessione ed esasperò il disordine monetario e politico.

– I disaccordi tra Europa, Giappone e USA erano molti e visibili, dal Medio Oriente alle questioni valutarie. E con la crisi economica tornavano disoccupazione ed inflazione. Ma dal punto di vista del Terzo Mondo si apriva la strada per rinegoziare i termini dell'economia mondiale da posizioni più forti ed erodere l'egemonia delle norme e delle istituzioni dominanti. L'Assemblea generale dell'ONU (dove i paesi del Terzo Mondo erano ormai la maggioranza) approvò nello stesso anno la «Dichiarazione sull'istituzione di un nuovo ordine economico internazionale».

– Insomma, la diminuita capacità di controllo degli USA sugli eventi internazionali era palese. Tra 1973 e 1975 la crisi dell'egemonia americana era al suo apice: innescata dalla guerra in Vietnam, drammatizzata dai linguaggi del 1968 (passaggio dall'amministrazione Johnson a quella Nixon), scandita dalla parità strategica sovietica e dalle difficoltà del dollaro, fu ulteriormente approfondita dallo scandalo Watergate che spinse Nixon alle dimissioni nel 1974.

Chi si avvantaggia della distensione?– Kissinger razionalizzava spesso la distensione come modo per gestire l'ascesa della potenza

sovietica da parte di un Occidente in declino (alla luce delle difficoltà USA su parità strategica, debolezza dollaro, scarsa crescita economica).

– Dall'altra parte, il Cremlino concepiva la distensione come leva per gestire la crisi dell'imperialismo entro un moto storico di affermazione globale del socialismo. Alla distensione si attribuiva inoltre il vantaggio di facilitare la stabilizzazione della società e dell'impero sovietico (con distensione si erano intensificati i commerci con l'Ovest, migliorando la qualità di vita di una parte della società sovietica e moderando le proteste popolari).

– I dirigenti sovietici erano tuttavia consapevoli che le contaminazioni culturali da Occidente avrebbero allentato la presa ideologica del comunismo. In URSS come nei paesi satelliti si avviò dunque una intensificazione dei controlli e della repressione del dissenso.

– Vista la stretta repressiva in URSS, l'opinione pubblica negli USA si domandava sempre più sulla moralità o meno di scendere a patti con un regime totalitario. Questo nuovo spirito (neo-conservatorismo) innescò anche un attacco politico a Kissinger, e al Congresso iniziarono i tentativi di condizionare gli accordi di distensione. Fu ad esempio proposto un emendamento in base al quale si vincolavano gli accordi commerciali USA/URSS alla liberalizzazione dell'emigrazione dall'URSS: i sovietici rescissero dunque l'accordo commerciale (diminuirono i visti per l'emigrazione). Era uno strappo nel processo di distensione.

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– Inoltre, l'Europa occidentale (che si era differenziata dagli USA su temi quali Vietnam, politiche monetarie e commerciali, Medio Oriente) suscitava diffidenze e timori nelle élite statunitensi. In Grecia la caduta del regime militare nel 1974 apriva la strada ad una incerta transizione verso la democrazia. In Spagna il governo franchista era sempre più debole, fino alla morte del dittatore nel 1975. In Italia la crisi economica aveva provocato l'esplosione di conflitti sociali, sfociati in violenza diffusa e terrorismo organizzato. Inoltre, proprio in Italia, il Partito comunista di Berlinguer era particolarmente attivo e premeva per un “compromesso storico” tra le forze democratiche per un reintegro del PCI nel governo.

– In un simile contesto di incertezza, Washington si preoccupava per l'indebolimento della compattezza atlantica – preoccupazioni acuite dal crollo del regime portoghese nel 1974, dove alla Rivoluzione dei garofani seguì la transizione ad una democrazia socialista. Mentre Kissinger proponeva un intervento diretto in Portogallo per impedire ai socialisti di ottenere il governo nazionale, gli altri paesi europei si opposero a tale linea dura e supportarono il partito socialista portoghese nella transizione democratica. Similmente furono supportate anche Spagna e Grecia. Un nuovo attivismo tutto europeo stava emergendo.

– Questa nuova influenza europea si manifestò anche sul terreno della distensione con l'Est: l'Ostpolitik di Brandt era divenuto un approccio intellettuale condiviso anche da Parigi, Londra e Roma. Infatti vi erano: 1. Bisogno di attenuare la tensione e diminuire i pericoli di guerra; 2. Desiderio di aprire a nuovi mercati per dare spazio alle industrie europee in crisi; 3. Giocare un ruolo autonomo nei rapporti con l'Est.

– Benché non ci fosse più la tensione gollista di una Europa indipendente (non era in discussione il sistema NATO), i governi ambivano comunque a esercitare autonomamente i propri interessi anche se in contrasto con gli USA. L'ambito più importante in cui ciò si manifestò fu la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE). Ciò si risolse nella proclamazione dell'Atto finale ad Helsinki nel 1975 (trentatré paesi europei più USA e Canada).

– I firmatari si impegnavano: 1. Ad astenersi dall'uso della forza nei rapporti reciproci, rispettando la sovranità di ciascuno; 2. Ad una collaborazione tecnica, industriale ed energetica, per moltiplicare gli scambi commerciali; 3. A rispettare i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali. Soprattutto in merito al terzo punto, gli europei vedevano nella cooperazione una strada per temperare la durezza dei regimi dell'Est nei confronti dei loro cittadini e allentare le maglie del controllo sovietico.

– I sovietici avevano accettato la clausola sui diritti umani convinti di restare comunque “padroni in casa propria”, data la tutela della sovranità sempre espressa nell'Atto finale. I critici di Helsinki dicevano che il riconoscimento dei confini tra Est e Ovest aveva significato un abbandono dei cittadini dell'Est alle sorti del totalitarismo: in realtà quella di Helsinki era una distensione esplicitamente mirata a moltiplicare i contatti, diluire le divisioni e favorire una graduale apertura dell'Est. Inoltre, il crescente confronto con il benessere e la democrazia occidentali indeboliva sempre più l'auto-giustificazione ideologica del socialismo.

– Infine, se il malessere crescente (acuito appunto dal confronto con l'Occidente) era continuamente represso, è altresì vero che dopo Helsinki i cittadini dell'Est poterono avvalersi dell'effetto del monitoraggio sui diritti umani che la CSCE mise in moto.

– Washington e Mosca proseguivano intanto il loro dialogo sugli armamenti strategici, mettendo in cantiere un nuovo accordo (Salt II). Kissinger e Ford (il presidente succeduto a Nixon) erano attaccati da destra per aver accettato una cinica parità con l'URSS, ma pure da sinistra, per una Realpolitik pronta a sacrificare i diritti dei popoli dell'Est (ma anche dell'America Latina) in nome della stabilità.

– Pressioni venivano anche da frange particolarmente allarmiste, che denunciavano il rischio che il Cremlino usasse ingannevolmente la distensione per ottenere la superiorità strategica. Intorno alla nozione dell'irrinunciabile superiorità americana si formava dunque uno dei

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gangli cruciali del nascente neo-conservatorismo, da cui partiva un'offensiva politica e culturale contro la distensione.

– Centrale fu l'episodio dell'Angola: dopo il ritiro dei portoghesi nel 1974 scoppiò una guerra civile, nella quale gli USA si schierarono a fianco dei nazionalisti, contro il Movimento Popolare per la Liberazione dell'Angola (MPLA), una formazione marxista. Il MPLA chiese aiuto a Mosca, la quale inizialmente esitò: fu Castro ad intervenire inviando reparti cubani in Angola, al che anche Mosca si convinse e supportò a sua volta il MPLA. Quest'ultimo conquistò la maggior parte del paese e, benché la guerra civile proseguì per altri dodici anni nelle zone di confine, il MPLA ottenne la vittoria definitiva nel 1988. una macchia per gli USA nella logica del contenimento.

– Ford era sempre più in difficoltà nella tenuta del consenso interno rispetto alla sua politica estera. Pur cambiando tono ed irrigidendosi rispetto alla “distensione”, Ford non si salvò e alle residenziali non li fu rinnovato il mandato e fu sostituito da Carter. La critica neo-conservatrice avrebbe di lì in poi condotto una campagna di crescente impedimento alla distensione.

Una nuova economia globale– Con mercati del consumo ormai pienamente sviluppati, la crescita non poteva più risiedere

nell'allargamento estensivo dei fattori produttivi, e tendeva invece a spostarsi verso l'innovazione intensiva delle tecnologie e dei prodotti e nell'espansione dei servizi. Nelle economie avanzate i tradizionali settori di base – tessile, minerario, siderurgico – venivano trasferiti all'estero o ridotti. Era iniziata la deindustrializzazione delle economie mature.

– Tra crollo del sistema di Bretton Woods, fluttuazione libera delle valute e crisi petrolifera si esasperarono le difficoltà delle economie avanzate (perlopiù importatrici di energia) e ridisegnarono i flussi dei capitali mondiali.

– Le risposte dell'Occidente a questo nuovo contesto furono inizialmente diverse: le nazioni europee – più dipendenti dalle risorse energetiche mediorientali – cercarono accordi con i paesi arabi, ma i singoli governi restavano divisi, anche perché perseguivano vie essenzialmente nazionali per assicurarsi gli approvvigionamenti petroliferi e non avevano la forza per cementare una coalizione internazionale.

– Gli USA, invece, pensavano proprio di coalizzare i paesi consumatori per imporre moderazione all'OPEC e intendevano mantenere il governo dei flussi finanziari entro gli istituti controllati dall'Occidente (FMI e BM). Sordi agli appelli per un nuovo ordine economico internazionale, gli USA diffidavano di un dialogo che trasferisse risorse e poteri decisionali a inediti organismi in sede ONU (come il G77).

– Fu per questo che nel 197 ebbe vita il G7, un Occidente che si ricompattava dietro la leadership statunitense. I paesi in via di sviluppo, non meno di quelli industrializzati, dovevano adeguarsi alla disciplina del mercato in un contesto di crescente liberalizzazione commerciale e finanziaria. Nessun nuovo ordine dunque, ma globalizzazione del modello americano.

– Tra i grandi produttori di petrolio – conservatori e filo-americani – i petrodollari si inserivano sempre meglio nei mercati finanziari occidentali. Le economie petrolifere non sollevavano le sorti del Terzo Mondo ma ne sfuggivano e se ne separavano. Per molte altre nazioni di Africa e America Latina si schiudeva la voragine del debito. L'inflazione aumentava il costo delle importazioni e i crescenti tassi d'interesse appesantivano i debiti, mentre i prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime esposti alla libera concorrenza erano contenuti.

– La gestione politica cadeva sempre più spesso nelle mani di dittature militari, mentre quella finanziaria ed economica doveva necessariamente affidarsi al FMI e alla BM che ponevano condizioni alla cessione dei crediti: liberalizzazioni degli scambi, riduzione della spesa

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pubblica, privatizzazioni.

– All'incipiente deindustrializzazione delle economie mature corrispondeva l'industrializzazione delle tigri asiatiche, che godevano di prezzi di produzione più bassi a parità di qualità dei prodotti. Queste economie emergenti usavano la liberalizzazione degli scambi, la circolazione dei capitali e l'evoluzione delle tecnologie e dell'informazione mediatica per una crescita accelerata.

– Il cambiamento toccò anche le mentalità dei governi: i neo-conservatori americani, i conservatori britannici e un numero crescente di economisti in Occidente sottolineavano la necessità di ridurre la spesa pubblica, il ruolo delle burocrazie statali e le forme di assistenza sociale e organizzazione collettiva che avevano caratterizzato l'Occidente dal 1945.

– Il punto di svolta fu il 1979. benché ormai uscita dalla recessione, l'economia americana non riusciva a riprendersi pienamente, le politiche implementate apparivano inefficaci, anche perché focalizzate sulla competitività delle esportazioni in un mondo in cui le economie mature avevano esaurita la loro competitività industriale. Dunque nel 1979 la FED limitò l'offerta di moneta e alzò i tassi d'interesse per frenare l'inflazione, mentre il neo-eletto Reagan diminuì le tasse sulle imprese e i controlli sui capitali. Se la prima reazione fu la recessione, queste misure attirarono sempre più nuovi capitali dall'estero. Gli USA si trasformarono da esportatori ad importatori di capitali. Dopo la recessione, nel 1982 dunque gli americani vissero un nuovo boom che agevolò la transizione ad una economia post-industriale incentrata non più sull'industria bensì sulla tecnologia ed i servizi.

– Per Africa e America Latina il ritrovarsi a competere con gli USA per attrarre capitali internazionali moltiplicava le difficoltà delle loro fragili economie. I paesi asiatici che esportavano beni industriali sfruttavano i surplus delle loro bilance per acquistare dollari tramite l'investimento in Buoni del Tesoro americani.

– Periodo 1971 – 1979: il sistema economico sorto insieme alla guerra fredda si sfaldò, fu seguito da una transizione disordinata e complessa (allora vissuta come una crisi) e infine rimpiazzato da un nuovo regime. Prima Bretton Woods promuoveva l'urgenza di controbattere l'influenza del modello comunista con quello della prosperità democratica sorto nell'America del New Deal (interventismo statale, forte welfare state). Ora, il sistema del dopoguerra aveva ceduto il passo: il dollaro non era più l'ancora di un sistema coeso bensì la moneta principale di un regime di concorrenza aperta, anche valutaria, per attrarre capitali.

– Alla coordinazione negoziata di un'economia atlantica subentrava la competizione tra regioni economiche (USA, CEE, Giappone, Estremo Oriente). Da grande creditore, il paese si trasformava in principale ricettore di capitali. All'esportazione di un modello industriale si sostituiva la generazione e diffusione di tecnologie avanzate.

– Inoltre, nella sua mutazione verso l'economia post-industriale l'Occidente riuscì a evitare la crisi vera e propria – e forse l'implosione politica e sociale nei suoi Stati più deboli – grazie agli istituti pubblici che garantivano alti livelli di sicurezza economica ai cittadini. Infatti persino negli USA di Reagan e nella GB della Thatcher (che aggredirono la filosofia del welfare state) mantennero i pilastri fondamentali dello stato sociale.

– Tra i fattori che resero possibile la transizione all'economia post-industriale va anche ricordata la mutata percezione del comunismo sovietico, o meglio, di ciò che il comunismo non riusciva più ad essere. Quando il modello sovietico era una minaccia vi era il bisogno di coesione, consenso e saldezza al fine di non cedere al rischio di un contagio comunista. Ma quando la crisi dell'ideologia sovietica (il discredito internazionale seguito alla violenta repressione delle diverse crisi nei paesi dell'Est) ne segnò l'innocuità, la coesione occidentale poteva allentarsi senza timore di cedere sfere d'influenza all'URSS: dunque le economie capitaliste divennero più competitive e conflittuali tra loro.

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– Era anzi proprio il sistema sovietico a subire una difficile sfida, per la quale era profondamente inadeguato, dalle economie capitaliste. L'impianto produttivo delle società dell'Est era sbilanciato sull'industria pesante, i loro scambi non erano particolarmente funzionali perché tutti cercavano di vendersi gli stessi prodotti a simili prezzi, mentre i consumi interni erano scarsi e le sacche di povertà ampie e diffuse.

– Le società dell'Est presero ad importare beni di consumo e impianti tecnologicamente avanzati, in particolare dall'Europa occidentale. Ciò incrementò inizialmente il livello di benessere di coloro che potevano permettersi certe spese, ma nel medio periodo reddito e produttività all'Est ne risultarono erosi. Nella seconda metà degli anni Settanta si passò dalla crescita (che era dipesa dall'industria pesante e soprattutto dall'export di risorse energetiche) a una sostanziale stagnazione delle economie socialiste – queste si indebitarono sempre più con le banche occidentali. I nuovi contatti con l'Ovest non avevano dunque immesso l'Est nel ciclo di trasformazioni dell'economia internazionale: l'Est non era toccato dai capitali in circolazione alla ricerca della migliore allocazione.

– Inoltre, mentre in Occidente vi era simbiosi tra la ricerca per scopi militari e quella per l'economia civile, nell'URSS queste restavano sfere rigidamente separate. La diffusione di tutte le tecnologie della comunicazione e dell'informazione era limitata e sottoposta a rigidi controlli.

– Questo nuovo contesto erodeva ulteriormente l'ideologia socialista: negli anni '70 la spasmodica ricerca imprenditoriale di nuovi mercati del consumo si interfacciava con la diversificazione e liberalizzazione di linguaggi, mode e stili di vita scaturita dagli anni '60. La civiltà del consumo era dunque tanto più radicata e ubiqua quanto più aderente alle mille pieghe di una società culturalmente differenziata.

– Cioè, più che uniformare o comprimere, i mercati dei consumi riflettevano le varie articolazioni delle società complesse e plurali e così facendo stemperavano, fino a disintegrarla, l'antitesi tra capitalismo e liberazione: la libertà di scelta era parte integrante del nuovo consumismo.

– Le società sovietiche guardavano a questi processi senza poterne partecipare: i pilastri della mitologia comunista si sfaldavano uno dopo l'altro.

La distensione si sgretola …– Il neo-eletto presidente Carter incentrò la sua politica sul linguaggio dei diritti umani, per

fare ritrovare agli USA legittimità e influenza e, al tempo stesso, approfondire la distensione con l'URSS. Era un'agenda difficile da gestire, soprattutto per il risorgente anti-sovietsimo propagato dai neo-conservatori.

– Dunque la diplomazia di Carter avrebbe spesso oscillato tra la sua direzione verso i diritti umani e le pressioni dei neocon, con segnali ondivaghi che complicarono il dialogo con il Cremlino moltiplicando l'ambivalenza del processo di distensione. L'insistenza di Carter sui diritti umani, in particolare, discendeva sia dalla sua personale moralità, sia dalla necessità per gli USA di recuperare legittimità internazionale dopo i fatti di Vietnam, Cile e Watergate.

– La nuova diplomazia ottenne inizialmente alcuni successi: nel 1977 fu restituita a Panama la sovranità sul canale; le dittature in America Latina ricevevano meno aiuti e più rimproveri da Washington; nel 1978 gli USA furono vincenti mediatori nella pace tra Israele ed Egitto.

– L'attenzione sui diritti umani da parte di Washington infastidiva Mosca, che denunciava come la propaganda americana diffondesse l'idea di una consistente opposizione interna su cui fare leva entro l'URSS. Secondo la CIA, infatti, il dissenso era organizzato in tutto il blocco dell'Est e questo stava sfruttando la visibilità datagli dagli accordi di Helsinki, che

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avevano messo in crescente difficoltà i regimi sovietici. Pochi mesi dopo le autorità sovietiche arrestarono diversi membri del gruppo di monitoraggio di Helsinki, condannandoli a dure pene detentive.

– Nonostante tutto, appena insediato Carter volle riprendere i dialoghi Salt II, proponendo però non una mera limitazione degli armamenti, bensì profondi tagli agli arsenali strategici: un cambio di logica sgradito all'URSS. I sovietici erano infatti fermi all'idea che la distensione dipendesse dalla parità strategica, dalla loro forza militare che gli avrebbe permesso di forzare gli USA alla coesistenza pacifica. Se da una parte c'era dunque diffidenza sovietica, dall'altra Carter doveva confrontarsi da una crescente pressione di anti-sovietismo che criticava la sua scelta per il dialogo con Mosca.

– Una nuova crisi. Nel 1976 i sovietici iniziarono a sostituire le vecchie armi nucleari puntate sull'Europa, considerando ciò una operazione di routine per modernizzare le armi obsolete. Non la lesse in termini di routine Schmidt, il quale denunciò il fatto come conseguenza del dialogo sulle armi Washington/Mosca, dicendo che gli USA stavano allentando la presa – si sollevarono dubbi sull'impegno americano in difesa degli alleati europei. Inoltre l'offensiva sui diritti umani allarmava Schmidt che, votato alla distensione intra-europea, non voleva complicare il dialogo con Mosca.

– Si aprì quindi una stagione di discordia e recriminazioni che la NATO risolse solo nel 1979, scegliendo di opporre alle nuove armi nucleari sovietiche nuovi euro-missili.

– Carter aveva altresì mutato strategia in Africa. Era convinto che gli USA dovessero sostenere l'indipendenza e la giustizia razziale, e si adoperò per favorire la transizione democratica in alcuni Stati dell'area sub-sahariana. Ciò gli costò una sconfitta nel caso dell'Etiopia.

– Nel 1974 in Etiopia un colpo di Stato militare impose il regime comunista di Menghistu. Al culmine di questo terrore rosso, tra Somalia (storico alleato di Mosca) ed Etiopia scoppiò una guerra per il controllo della regione dell'Ogaden. Dopo prime esitazioni, Mosca ruppe con la Somalia e si alleò con Menghistu, vedendo in lui un promettente alleato ideologico e strategico, che poteva garantire l'accesso al Mar Rosso.

– Gli USA appoggiarono dunque la Somalia, ma le fornirono miseri aiuti, tanto che nel 1978 la guerra si concluse con la vittoria dell'Etiopia. I critici di Carter lo accusarono di aver mostrato debolezza e passività nei confronti dell'«espansionismo sovietico».

– Da una parte c'era chi nell'amministrazione Carter premeva per la fermezza, convinto che gli USA dovessero segnalare risolutezza per inibire Mosca, rinsaldare le alleanze e smorzare le pressioni interne contro il dialogo con i sovietici. Dall'altra c'era chi si mostrava più cauto, nella convinzione che non si dovessero mettere in pericolo i dialoghi Salt II. Dunque Carter iniziò ad adottare un linguaggio più severo verso Mosca e la NATO riprese le spese per la difesa, da tempo in declino.

– Si provvedette ad una accelerazione nei rapporti con Pechino, riconoscendola ufficialmente ed accogliendola in sede CdS dell'ONU. Lo scopo era creare una convergenza USA/Cina sui loro interessi strategici paralleli contro l'URSS. Il Cremlino colse solo superficialmente la minaccia di questa intesa ai suoi danni: convinto che la distensione lo rafforzasse e gli permettesse di espandere la propria sfera d'influenza, esso non riuscì a soppesare i vantaggi della distensione con i rischi a cui i suoi gesti (soprattutto nel Terzo Mondo) lo sottoponevano.

– Intanto Xiaoping, succeduto a Mao, scelse di modernizzare il paese attraverso una graduale apertura all'Occidente e al mercato libero. Veniva abbandonata la strada – e la retorica – della rivoluzione, sia in patria che all'estero, e iniziava il percorso di rientro della Cina nel sistema internazionale.

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Le tensioni in Medio Oriente– A partire dalla fine del 1978 Carter dovette fronteggiare anche la rivoluzione in Iran.

Stimolata dal peggioramento dell'economia e dalla violenta repressione del regime filo-occidentale, la protesta dilagò nelle piazze e finì per travolgere il governo Pahlavi, che abbandonò il paese. Khomeini rientrava dall'esilio, assumeva la guida del governo e procedeva a plasmare una repubblica islamica, in cui il clero sciita era la forza egemone. Era il primo successo politico del fondamentalismo islamico.

– USA e URSS seguitarono ad inquadrare i fatti iraniani nella cornice del conflitto bipolare: gli americani in particolare temevano che il crollo di Pahlavi aprisse spazi al comunismo. Nessuno dei due colse la novità della rivoluzione in Iran: era una sfida ad entrambe le super-potenze e alla logica stessa del bipolarismo, non avendo coinvolto né Mosca né Washington nella sua transizione di regime. Era stata privilegiata una identità religiosa elevandola a criterio di riorganizzazione di una società sottratta tanto all'Est quanto all'Ovest.

– Intanto nel 1979 giungeva alla firma la lunga querelle di incontri nella cornice Salt II: era un piccolo traguardo dal momento che i leader concordavano sulla necessità di limitare gli armamenti, ma erano in disaccordo su tutto il resto.

– Carter era in particolare difficoltà: 1. Subiva la critica anti-sovietica alla distensione; 2. Ci fu un nuovo rialzo dei prezzi dell''energia; 3. Si andava diffondendo una crisi di fiducia tra l'opinione pubblica nel suo operato; 4. Affrontò con il dialogo e non con il pugno di ferro – come chiedevano invece i neocon – la rivoluzione sandinista in Nicaragua, che portò la sinistra al governo laddove prima c'era un regime autoritario filo-americano.

– Il colpo di grazia a Carter arrivò con il sequestro di funzionari americani presso l'ambasciata statunitense a Teheran che aveva seguito la notizia che Pahlavi si era rifugiato negli USA: anche in questa occasione Carter optò per il soft power (pressioni finanziarie e diplomatiche) senza successo. Gli ostaggi furono rilasciati solo un mese più tardi, dopo l'elezione di Reagan al posto di Crarter.

– Se l'Iran fu un duro colpo per gli USA, l'Afghanistan lo fu per l'URSS. Dal 1978 era al potere a Kabul, dopo un colpo di Stato, un partito comunista sconvolto da guerre tra fazioni ma deciso ad imporsi e a forzare il paese ad una celere modernizzazione. Più difficile era contenere i gruppi armati islamisti, galvanizzati dal successo della rivoluzione in Iran. In breve l'Afghanistan precipitò in una guerra civile.

– La guerriglia dilagava mentre il governo Amin avviò le purghe che indebolivano l'esercito e rinfoltivano le fila dell'opposizione: Mosca, preoccupata dalla minaccia islamista (temeva potesse estendersi ai paesi dell'Unione sovietica a maggioranza musulmana), sospettava dell'eccessivo attivismo di Amin. Il Politburo progettò dunque un intervento militare per sostituire Amin col più fidato Karmal e contemporaneamente reprimere le rivolte popolari. Quello che il Cremlino aveva pensato come rapido successo si rivelò un logorante conflitto di dieci anni, che fece molti morti tra le truppe sovietiche, isolò Mosca dal mondo islamico e acuì la disapprovazione internazionale verso l'URSS.

– Le tensioni in Medio Oriente segnarono la morte del processo di distensione USA/URSS. Quella che venne letta da Washington come volontà espansionistica sovietica convinse Carter a ritirare dal Senato Salt II prima che potesse essere ratificato, dispose un embargo commerciale verso l'URSS (sia su tecnologia che su alimenti), boicottò le Olimpiadi di Mosca e supportò militarmente il Pakistan – confinante con l'Afghanistan.

– Il fatto è che gli USA non avevano mai pensato che la distensione comportasse la rinuncia alla superiorità americana. Semmai speravano che essa vincolasse l'URSS alla moderazione, in una sorta di auto-contenimento. L'aveva invece spronata a un'ambizione superiore ai propri mezzi e questo proprio mentre l'incipiente globalizzazione iniziava a risollevare le sorti del capitalismo e a destrutturare il Terzo Mondo in modo favorevole all'Occidente.

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Mentre il decennio della distensione si chiudeva, l'impero sovietico si trovava esposto a crescenti vulnerabilità e in condizioni di maggior debolezza relativa sotto il profilo economico e tecnologico.

– Dall'altra parte, gli USA non dominavano più un blocco coeso: i governi europei non partecipavano al boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca e rifiutavano di aderire all'embargo commerciale. Non volevano infatti rinunciare alla dimensione intra-europea della distensione che intendevano anzi consolidare per sviluppare gli scambi e contatti che potevano facilitare un miglioramento nell'Europa dell'Est.

– La credibilità di Carter era ormai logora: la sua stessa svolta anti-sovietica equivaleva ad una ammissione che quella perseguita fino ad allora era stata una linea sbagliata ed imprudente. Il suo avversario repubblicano Reagan risultava più credibile. Egli infatti vinse le elezioni nel 1981 con il dichiarato scopo di prevalere sull'URSS, guidato dalla logica e dalla strategia neo-conservatrice, seguendo la ricetta neoliberista per il rilancio dell'economia.

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Capitolo sesto – Il cerchio si chiude (1981 – 1990)

– Con Reagan fu rigettata la legittimazione dell'URSS come interlocutore paritario. I neocon detestavano il comunismo sovietico ma non lo temevano più come forza ideologica, lo ritenevano anzi fallito. Reagan ribaltava sul comunismo sovietico quell'aura di vulnerabilità e obsolescenza storica che molti avevano in precedenza attribuito agli USA stessi.

– Al posto dell'odiata distensione Reagan proponeva una battaglia politica e ideologica a 360° in cui la forza dell'Occidente avrebbe trionfato. L'obiettivo era perciò accrescere la forza dell'America, riconquistando un vantaggio strategico e diplomatico, e aggravare le difficoltà dell'URSS. Le spese per la difesa crebbero a ritmi accelerati. Si faceva soprattutto affidamento sull'incipiente stagnazione economica sovietica, che ne avrebbe ostacolato un riarmo in risposta a quello statunitense.

– Effettivamente le difficoltà di Mosca crescevano: l'influenza internazionale dell'ideologia comunista, e la sua stessa rilevanza politica, erano in caduta verticale. Il crollo della distensione aveva reso inservibile la strategia seguita per un ventennio. L'invasione in Afghanistan aveva infine invischiato l'URSS in una guerra costosa, perdente e gravosa sotto il profilo diplomatico, poiché comportò l'isolamento di Mosca.

– Soprattutto, Mosca doveva nuovamente fronteggiare la precarietà del suo controllo sui satelliti dell'URSS proprio mentre la carenza di risorse del blocco sovietico diveniva macroscopica. Tutto ciò emerse con la crisi in Polonia.

– All'annuncio dell'innalzamento dei prezzi della carne, nel 1980 in Polonia esplosero le manifestazioni popolari: nel mutato contesto del declino della distensione e della debolezza del Cremlino, nacque il sindacato di Solidarnosc, e le proteste ottennero il pubblico appoggio del papa polacco Giovanni Paolo II. In questo clima si ebbero: richiesta di riforma economica, affermazione di diritti basilari, manifestazione di spirito nazionale e religioso, realizzazione di una inedita autonomia della società civile.

– Il regime polacco fu forzato al compromesso: con gli accordi di Danzica si riconobbe il diritto allo sciopero, all'associazione sindacale e alla libertà d'espressione. Dopo la legalizzazione del movimento, Solidarnosc divenne una “seconda autorità” accanto al partito comunista di Varsavia.

– I dirigenti sovietici temevano tanto Solidarnosc quanto il potere d'influenza della Chiesa, ma sapevano che un intervento dell'Armata Rossa avrebbe avuto conseguenze devastanti per la già debole URSS. Decidendo di evitare l'intervento diretto, Mosca aumentò le pressioni e le minacce su Varsavia, perché riprendesse il controllo del paese.

– D'altro canto, benché Reagan avesse pubblicamente elogiato Solidarnosc, anche Washington evitò un intervento diretto che potesse acuire la già enorme tensione.

– Perché Mosca non intervenne? Pesava il deterioramento economico dell'intero blocco sovietico (con il pericolo che l'insubordinazione potesse estendersi ad altri paesi), la gravità di una situazione finanziaria a cui l'URSS non poteva sopperire, e quindi l'importanza crescente delle relazioni con i paesi occidentali per l'accesso ai loro crediti. I frutti della distensione intra-europea stavano paradossalmente fungendo da elementi di condizionamento e vincolo all'azione del Cremlino.

– Quando la situazione polacca parse ingestibile, il partito comunista di Varsavia varò la legge marziale: essa comportò l'arresto di dirigenti e militanti di Solidarnosc, il ritorno alla censura e il tentativo di gestire l'economia con la disciplina militare.

– Washington impose sanzioni commerciali a Polonia e URSS, si attivò per finanziare clandestinamente Solidarnosc e, in generale, vide nella crisi l'occasione per indebolire ulteriormente Mosca. La reazione dell'Europa fu differente: assecondando la logica dell'Ostpolitik, i governi europei intendevano salvaguardare il dialogo Est/Ovest anche nel nuovo contesto. All'inizio del 1982 la CEE condannò la legge marziale e le pressioni di

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Mosca su Varsavia, ma si rifiutò di prendere qualsiasi misura punitiva. Prevaleva l'idea che i cittadini dell'Est potessero giovarsi del proseguimento dei commerci con l'Europa occidentale.

– Le società sovietiche preferivano sì la collaborazione europea al boicottaggio americano, ma questa alleviava solo temporaneamente le loro carenze produttive e li faceva sprofondare in una malsana dipendenza (acuendo l'entità dei loro debiti).

– L'analisi delle crisi nel Terzo Mondo di Reagan: egli non credeva che la sua instabilità politica originasse dalle tensioni di uno sviluppo economico e sociale che andava assistito e pilotato. Laddove emergevano ideologie radicali queste non erano viste come reazioni endogene a complesse transizioni a Stati indipendenti e democratici in zone tribali, bensì erano viste come imposizioni esterne operate dalla potenza sovietica.

– Non si trattava dunque di fornire aiuti allo sviluppo, ma di promuovere la modernizzazione tramite l'accelerazione del pieno dispiegamento delle logiche di mercato. Reagan riteneva opportuno districarsi dalla lotta di Carter per i diritti umani: nella visione dicotomica i neocon non giudicavano i regimi dai loro comportamenti, bensì dall'ideologia e dalle alleanze.

– Nella rinnovata logica bipolare si rispolverare la dottrina del contenimento e si progettava una nuova offensiva: la “dottrina Reagan” vedeva centrale l'impegno degli USA a sostenere chiunque, ovunque nel mondo, sfidasse la potenza e/o l'ideologia sovietica.

– Secondo questa strategia, dunque, Washington intervenne indirettamente in Afghanistan, armando i mujaheddin tramite il Pakistan. Quando le debolezze sovietiche divennero più palesi, lo sforo americano (per far leva su tali punti deboli) aumentò: a prtire dal 1983 (la guerra in Afghanistan durò fino al 1989) fu sviluppata una rete logistica internazionale che provvedeva all'addestramento e rifornimento della resistenza armata.

– Ma c'era anche un altro teatro in cui Reagan intervenne: l'America centrale. Dopo la rivoluzione in Nicaragua, Carter aveva tentato la politica del dialogo con il regime sandinista nella speranza di moderarne il radicalismo. Con l'arrivo di Reagan a Washington quella precaria convivenza crollò.

– I sandinisti chiesero prontamente aiuto al blocco sovietico per il rifornimento di armi, appoggiandosi anche ai rivoluzionari degli Stati confinanti. Dal momento che Washington (dopo il Vietnam) non poteva apertamente muovere alla guerra, applicò il boicottaggio economico al Nicaragua, armò l'opposizione dei Contras e supportò le dittature filo-americane dei vicini El Salvador e Guatemala.

Olocausto nucleare?– Con la rinnovata aggressività reaganiana, la percezione pubblica di un nuovo pericolo

atomico andava diffondendosi, soprattutto a causa dello stallo del processo di distensione e del nuovo dispiegamento di euro-missili concordato in sede NATO nel 1979.

– La costruzione di una nuova tecnologia, i MIRV, che permettevano di disarmare preventivamente l'avversario, sembrava decadere la certezza della mutua deterrenza. Ecco che in Europa prendeva a diffondersi la protesta pacifista. Era un pacifismo intriso delle culture femminista e ambientalista degli anni '70, che criticavano apertamente il culto dell'uso della forza. Non vi era alcuna benevolenza nei confronti della dittatura sovietica, ma si rifiutava altresì la cultura dell'antagonismo bipolare.

– Anche negli USA sorse una critica pubblica alla politica del riarmo, alimentata da un crescente allarme per gli effetti di una eventuale guerra nucleare. Benché il consenso di Reagan non ne risentisse, andava diffondendosi un disagio sulla razionalità e opportunità della “seconda guerra fredda”.

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– Dal canto loro, i dirigenti sovietici era spiazzati di fronte all'aggressività di Reagan. Non avevano intenzione di piegarsi, e reagirono dunque con uno speculare irrigidimento dei toni. La Casa Bianca non escludeva il negoziato, ma lo vincolava ad una rinnovata superiorità americana: il Cremlino era dunque sospettoso rispetto a questa ricerca di equilibrio asimmetrico dopo anni di costruzione della parità strategica.

– Reagan annunciò poi nel 1983 la costruzione della Strategic Defense Initiative (SDI), satelliti in grado di intercettare in volo e distruggere missili intercontinentali (molti sottolinearono l'inutilità e inconsistenza di una simile tecnologia). Reagan proponeva una simile tecnologia in risposta ai movimenti pacifisti contro il nucleare: se si fosse stati in grado di distruggere missili in volo prima che questi esplodessero si sarebbe scongiurato per sempre il pericolo nucleare.

– Ma il Cremlino lesse lo SDI diversamente: la sua operatività avrebbe vanificato l'equilibrio della deterrenza. Non volendo cedere difronte all'aggressività americana, Mosca si impegnò in uno sforzo colossale – nonostante le già gravi difficoltà economiche – di riarmo: emanò direttive per rinsaldare la disciplina interna, la repressione del dissenso fu inasprita e lo stato di allerta delle forze di sicurezza fu al massimo.

– Negli USA ci si interrogava sull'opportunità di forzare tanto la tensione con l'URSS: vedendo la precipitosa reazione e i forti timori di Mosca, Reagan decise di riaprire il dialogo con i sovietici. Raggiunta una netta posizione di forza, gli USA potevano sfruttare il proprio vantaggio in sede negoziale. Inoltre Reagan, sensibile alle proteste anti-nucleare, era propenso ad esplorare nuove vie per fuoriuscire dal ricatto atomico.

– Lo stesso presidente statunitense ammise che oltre alle differenze, bisognava guardare agli interessi comuni di USA e URSS: in primo luogo, evitare l'olocausto nucleare. Se ciò non avesse incontrato la disponibilità sovietica, gli USA avrebbero comunque potuto forzare ulteriormente la competizione portando la già debole economia sovietica al collasso.

– Né lo scenario del dialogo impari, né quello della sfiancante competizione erano favorevoli al Cremlino. Se si escludevano le vendite di gas e petrolio, i conti sovietici dei primi anni '80nmostravano un declino del PIL, mentre le economie occidentali riprendevano a crescere febbrilmente. L'obsolescenza economica stava inducendo un progressivo peggioramento del tenore di vita in tutto il blocco socialista. Da questa debolezza scaturì un atteggiamento attendista: sia sul piano interno che su quello internazionale si tentò di evitare rotture, così pure come mutamenti, optando per “non scegliere” e condannando il blocco sovietico ad un aggravamento del degrado.

Gorbaciov– Nel 1985 – dopo la morte di Breznev nel 1982 si erano avvicendati due inefficaci leader

legati alla logica bipolare del passato – fu eletto dal Politburo Gorbaciov nuovo segretario del Partito comunista russo. In quell'anno le arretratezze tecnologiche e civili dell'URSS erano palesi e se non vi era consenso su come superarle, tutti concordavano però sulla necessità di modernizzare l'intera Unione.

– Anzitutto Gorbaciov voleva sbarazzarsi dell'immagine di torvo militarismo oppressivo che la comunità internazionale aveva del mondo sovietico. Il leader russo restava tuttavia convinto dello scontro socialismo/capitalismo nel Terzo Mondo e tentò dunque di migliorare i rapporti con India e Iraq, aumentò l'aiuto al Nicaragua sandinista e, però, pianificava il ritiro dall'Afghanistan.

– Altra priorità di Gorbaciov era il miglioramento del rapporto con gli USA, vista la necessità di ridurre le spese militari. Senza un'ampia ricollocazione delle risorse, la ristrutturazione economica (perestrojka) a cui egli mirava sarebbe infatti rimasta un'illusione.

– Gorbaciov non era mosso da mere considerazioni materialiste: aveva pure un'ambizione

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idealista verso un mondo plasmato non dall'antagonismo tra ideologie conflittuali, bensì dal riconoscimento di valori comuni e condivisi – riconciliazione universale fondata sull'esclusione dell'uso della forza. A questo approdo egli giunse gradualmente e solo dopo un primo impatto deludente con le posizioni statunitensi. Infatti al primo colloquio con Reagan a Ginevra, Gorbaciov si scontrò con il rifiuto americano a subordinare lo smantellamento degli armamenti russi alla rinuncia statunitense all'SDI. Gli USA sceglievano di sfruttare le difficoltà sovietiche per premere su Gorbaciov e forzarlo a concessioni su più tavoli.

– Nel 1986 Gorbaciov presentò pubblicamente una proposta di graduale disarmo che avrebbe condotto al totale smantellamento delle armi nucleari entro il 2000 – il leader russo stava demolendo uno dei pilastri della guerra fredda. Invece di due campi antagonistici nell'ottica della lotta di classe, Gorbaciov delineò un mondo interdipendente, in cui la sicurezza di ciascuno discendeva dalla rinuncia al ricorso alla fora, in una condizione di sicurezza comune in cui fossero riconosciuti i bisogni legittimi di ciascuno.

– Lo smantellamento del nucleare si fece più urgente per Gorbaciov nel 1986 dopo l'incidente della centrale di Cernobyl: il leader promosse dunque una nuova dottrina militare basata non più sulla capacità sovietica di condurre un'offensiva in Europa bensì sulla “sufficienza difensiva”.

– Le aperture sovietiche trovavano un interlocutore americano ancora rigido: ancora nel 1986 Reagan si rifiutava di rinunciare all'SDI ed il summit di Reykjavik si concluse senza un accordo, anche se di lì la strada per il disarmo era ormai aperta per il vicino futuro. Tanto che, viste le crescenti difficoltà del blocco sovietico, Gorbaciov – non riuscendo a persuadere gli USA – iniziò ad agire unilateralmente. Nel 1987 iniziò una riduzione unilaterale delle forze sovietiche in Europa. Inoltre la repressione del dissenso cessava, le radio straniere non erano più oscurate e i riformatori potevano pubblicamente scontrarsi col sistema.

– Washington reagiva positivamente, pur non mostrando fretta, aspettando ulteriori garanzie sulla serietà delle intenzioni sovietiche. Infatti gli USA miravano a mantenere una costante pressione sui sovietici per spronarli sempre più verso posizioni occidentali.

– L'invasione dell'Afghanistan aveva alienato ulteriormente l'URSS alle élite del Terzo Mondo che, per motivi economici e strategici, stavano ormai transitando dalla cultura di pianificazione socialista agli scambi di mercato. Conscio di ciò, Gorbaciov mirava a svestirsi della contrapposizione binaria che contrapponeva la liberazione del Terzo Mondo all'imperialismo. Questa de-ideologizzazione delle relazioni internazionali li aiutava a tagliare i ponti con le politiche imperiali dell'URSS, ormai divenute finanziariamente insostenibili.

– L'urgenza era in Afghanistan: preso atto della sconfitta, il Politburo nel 1987 pensava a come arretrare, fermo restando che non era disposto ad un ritiro che minasse l'autorità sovietica e cercava dunque la strada del negoziato internazionale. Le prime risposte non furono incoraggianti: il governo pakistano voleva la vittoria dei mujaheddin per assicurarsi una influenza sul paese, mentre Washington non voleva fare sconti alla sconfitta di Mosca.

– Nonostante lo stallo in Afghanistan, nel 1987 si giunse ad un trattato USA/URSS che per la prima volta aboliva una intera categoria di armamenti nucleari da entrambe le parti.

– Intanto Gorbaciov trionfava nell'arena pubblica: le dichiarazioni con cui auspicava il superamento delle rivalità e un futuro di reciproca comprensione fecero sensazione. Nel 1988 egli garantì il ritiro dall'Afghanistan se Pakistan e USA avessero promesso di non intervenire in quel paese dopo l'abbandono sovietico. L'accordo raggiunto fu solo di facciata (il Pakistan continuò a lavorare con i mujaheddin per influenzare il futuro afghano) ma l'URSS si ritirò comunque.

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La fine – il 1989– Negli altri paesi socialisti, intanto, il deteriorarsi della crisi economica e l'esplodere dei

nazionalismo stavano indebolendo sempre più il controllo di Mosca sui satelliti. Ciò rendeva ancor più pressante il bisogno di ridurre le spese militari, dunque Gorbaciov tagliò dette spese e ritirò gran parte dell'Armata Rossa dai paesi del Patto di Varsavia.

– Si spalancavano le porte per i regimi socialisti ad una autonoma ricerca di nuovi assetti, affrancata da schemi preordinati: ciò si intrecciava all'annunciata riduzione delle forze sovietiche in Europa.

– Nonostante tutto, la diffidenza di Washington verso Mosca era ancora alta (nel 1989 dopo il secondo mandato di Reagan era stato eletto George Bush Senior). Bush auspicava la reintegrazione dell'URSS nell'ordine mondiale, ma da Mosca esigeva fatti, non parole e speranze. Ed i fatti arrivarono quello stesso anno.

– Nel corso degli anni '80 tutta l'Europa dell'Est aveva cisto divaricarsi ulteriormente la forbice tra aspirazioni e condizioni materiali. Il flusso di capitali occidentali non alterava il degrado economico, perché essi venivano bruciati nei sussidi ai consumi di base – peraltro bassissimi – mentre pochi tentativi di investire in produzioni competitive fallivano miseramente.

– In secondo luogo l'esposizione dei giovani alla cultura di massa occidentale tendeva ad affrancarli dall'indottrinamento del regime, erodendo il senso di identificazione nel socialismo anche tra i figli della nomenclatura. Era inequivocabile il fallimento della promessa socialista.

– I riformatori del Cremlino ne erano consapevoli: a differenza dei suoi predecessori, Gorbaciov non era spaventato dal cambiamento. Nel 1989 si tennero le elezioni del Congresso dei deputati del popolo in Russia per la prima volta con un vero pluralismo partitico, dove emersero democratici e populisti. In Polonia trionfava Solidarnosc, mentre in Ungheria si progettarono libere e pluraliste elezioni per l'anno seguente.