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Capitolo primo In onore di una cameriera futurista Quando sono sbucato dalla metropolitana di Porta Geno- va, una mattina di poco più di un anno fa, il cielo milanese era appena striato da qualche timida nuvolaglia sperduta nel- l’azzurro intenso. Per essere una giornata di fine novembre, niente a che vedere con la sua cupa leggenda di cielo imbron- ciato e attristante. Quel cielo milanese di inizio secolo, «spes- so reumatizzante in inverno dolorante preoccupato», di cui scrive Filippo Tommaso Marinetti in un suo tardo libro au- tobiografico. E se nello spazio di un secolo è cambiato il co- lore e l’aroma del cielo milanese, figuriamoci tutto il resto. Dagli albori del Novecento, quando Marinetti (nato ad Ales- sandria d’Egitto nel 1876) aveva trent’anni nella «grande Milano tradizionale e futurista» e s’apprestava a scatenare in Italia e nel mondo l’uragano letterario e artistico del futuri- smo. Del cui esordio ufficiale, il Manifeste du Futurisme fir- mato da Marinetti sulla prima pagina del «Figaro» del 20 febbraio 1909, scocca in questo 2009 l’anno centenario. Ma- rinetti e gli altri della sua banda, nessuno dei quali aveva toc- cato i trent’anni, avevano scritto questa tonitruante apolo- gia della modernità alla notte, in quel suo appartamento mi- lanese di via Senato sotto le cui finestre scorrevano allora le acque del Naviglio. Un appartamento, arredato da lampade moresche e da pesanti tappeti orientali, che a un futurista romano in visita apparve come una sorta di «eccentrica garçonnière» dove si

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Capitolo primoIn onore di una cameriera futurista

Quando sono sbucato dalla metropolitana di Porta Geno-va, una mattina di poco più di un anno fa, il cielo milaneseera appena striato da qualche timida nuvolaglia sperduta nel-l’azzurro intenso. Per essere una giornata di fine novembre,niente a che vedere con la sua cupa leggenda di cielo imbron-ciato e attristante. Quel cielo milanese di inizio secolo, «spes-so reumatizzante in inverno dolorante preoccupato», di cuiscrive Filippo Tommaso Marinetti in un suo tardo libro au-tobiografico. E se nello spazio di un secolo è cambiato il co-lore e l’aroma del cielo milanese, figuriamoci tutto il resto.Dagli albori del Novecento, quando Marinetti (nato ad Ales-sandria d’Egitto nel 1876) aveva trent’anni nella «grandeMilano tradizionale e futurista» e s’apprestava a scatenare inItalia e nel mondo l’uragano letterario e artistico del futuri-smo. Del cui esordio ufficiale, il Manifeste du Futurisme fir-mato da Marinetti sulla prima pagina del «Figaro» del 20febbraio 1909, scocca in questo 2009 l’anno centenario. Ma-rinetti e gli altri della sua banda, nessuno dei quali aveva toc-cato i trent’anni, avevano scritto questa tonitruante apolo-gia della modernità alla notte, in quel suo appartamento mi-lanese di via Senato sotto le cui finestre scorrevano allora leacque del Naviglio.

Un appartamento, arredato da lampade moresche e dapesanti tappeti orientali, che a un futurista romano in visitaapparve come una sorta di «eccentrica garçonnière» dove si

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muovevano una cameriera, una cuoca, una segretaria: «Tut-to personale femminile, una specie di harem moderno». Alcentro di questo «harem» imperava Nina Angelini, che ametà era la cameriera personale di Marinetti e a metà la se-gretaria di redazione delle sue edizioni. «Giovanissima e vez-zosa» la descrive il giornalista Tullio Pànteo in un libro de-dicato a Marinetti e pubblicato a Milano già nel 1908. Eralei che opponeva un «Il signore dorme!» ai tanti che irrom-pevano a via Senato a chiedere e questuare, e laddove Ma-rinetti stava lavorando nello studio accanto. Quando la An-gelini muore, nel 1926, Marinetti e i suoi la celebrano conuna plaquette in cui la innalzano a primattrice del futurismodegli esordi, una plaquette dove la ricordano lo scrittore Pao-lo Buzzi (per anni il braccio destro di Marinetti), il tipografoCesare Cavanna (il prodigioso tipografo milanese capace direalizzare le acrobazie tipografico-visive dei primi libri pa-roliberi), il poeta e pittore napoletano Francesco Cangiullo.Ma come, non vi avevano insegnato fin dalle scuole mater-ne che Marinetti teneva in nessun cale le donne?

Fatto è che quella mattina di fine novembre del 2007 mistavo dirigendo verso la libreria antiquaria Pontremoli di viaVigevano, a duecento metri di distanza dalla stazione dellametropolitana di Porta Genova. Dove mi aspettava un libroche porta la firma di Filippo Tommaso Marinetti, o meglioil libro che come nessun altro riassume la passione e la maliada cui scaturiscono le pagine che vi apprestate a leggere. Sta-vo per comprare il libro-oggetto per eccellenza del Novecen-to italiano e di chi ne colleziona le rarità cartacee. Non il li-bro letterariamente o culturalmente più bello o importante,questo no di certo, ma il più speciale, il più raro da trovare eda assaporare, uno dei libri d’artista più originali dell’interacultura europea del secolo scorso. Parole in libertà futuriste ol-

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fattive tattili-termiche. Un libro fatto di latta, quindici fogli dilatta su cui da una parte e dall’altra erano state litografatepoesie e immagini, un miracolo artigiano realizzato da un’a-zienda specializzata nella produzione di scatole per dolciumie alimenti vari, la ditta savonese di Vincenzo Nosenzo. Edi-to il 4 novembre 1932, nel bel mezzo dell’èra fascista, quan-do Marinetti aveva cinquantasei anni che di nulla attenua-vano la sua creatività, una creatività che in trent’anni di mi-litanza culturale plateale e smargiassa aveva afferrato per lacollottola e dimenato a più non posso la poesia, la pittura,l’architettura, l’arte tipografica, la fotografia, il teatro, la ce-ramica, la pubblicità, la filosofia del cucinare, la musica e per-sino «la radia», ovverossia la radio. Tranne che di «chirur-gia» s’era interessato di tutto e aveva messo becco in tutto,osservò sarcasticamente Terenzio Grandi, un affinato intel-lettuale e tipografo torinese che per Marinetti un po’ avevasimpatia e un po’ mica tanto.

Torniamo al gran libro e al gran feticcio. Un libro che alsessanta per cento e forse più era merito di un altro dei gran-di personaggi del nostro Novecento, il Tullio Spartaco Man-zotti che nel 1899 era nato ad Albisola Marina e che Mari-netti aveva ribattezzato Tullio d’Albisola. Figlio di un mae-stro vasaio, scultore poeta e fotografo, era lui il padre dellaceramica modernista italiana, della ceramica futurista innan-zitutto, di una saga artigiana e creativa che va da Lucio Fon-tana al giovane Piero Manzoni. Era lui che aveva creduto fer-mamente alla possibilità di trarre un libro dalla latta, lui cheaveva trafficato con gli operai e i macchinari di Nosenzo, luiche aveva scelto le poesie di Marinetti da litografare su cia-scuna facciata, lui che aveva disegnato le chiazze di colore li-tografate sulla facciata retrostante come fossero delle esplo-sioni chimiche provocate dai versi di Marinetti. Quando Ni-colay Diulgheroff, l’architetto bulgaro che dopo gli studi

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universitari s’era impiantato a Torino e che nel 1934 avreb-be progettato la casa-villa di Tullio d’Albisola nella sua cittànatale – a tutt’oggi un edificio che sul lungomare di Albiso-la si staglia a metà strada fra il sacrario e la fortezza del mo-derno –, ricevette un esemplare del libro, gli scrisse che con«il suo libretto di latta» aveva fatto di più a favore della cau-sa del modernismo e dell’avanguardia che non «cinquanta ar-chitetti razionalisti» con il loro lavoro di cinque anni.

Centouno copie pubblicate, almeno così recitano i manua-li. Su duecentocinquantasei opere firmate da Marinetti in vi-ta e censite da Domenico Cammarota nella più completa bi-bliografia del nostro eroe, il libro di latta figura cronologica-mente al 167° posto. Un libro monstrum da regalare agliamici, ai complici dell’avventura futurista, ai possenti del re-gime fascista. Dubito che qualcuno abbia comprato e paga-to una delle cinquantuno copie riservate alla vendita, e se sìa quale prezzo? Da quando colleziono le prime edizioni delNovecento, e dunque dai primissimi anni Ottanta, ne avevointraviste in tutto una o forse due copie. Dal pittore PabloEchaurren all’attore teatrale Sergio Reggi, al voracissimo col-lezionista Sergio Cereda, nelle loro raccolte di libri e mate-riali cartacei futuristi le Parole in libertà futuriste litografatesulla latta non c’erano. Lo aveva avuto e messo in vendita,una decina d’anni fa, un libraio milanese arruffone e genia-le, Andrea Dal Lago. Era una delle due o tre copie che si co-noscono complete della custodia in latta, quella che venneconfezionata per la copia destinata a Benito Mussolini. Ve-niva dritta dritta dalla biblioteca di Giovanni Lista, il pre-datore perugino che già a partire dagli anni Settanta i cime-li del futurismo era andato a scovarli nelle famiglie degli ere-di, stupefatti che quelle stranezze sepolte nei cassetti e negliarmadi delle loro case avessero ancora un qualche rilievo.Andrea Dal Lago della sua copia chiedeva una gran pacca-

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ta di milioni di lire. Non ce li avevo. Passai dallo stand diDal Lago alla fiera milanese del libro antiquario organizza-ta ogni anno da Marcello Dell’Utri, e ricordo che il libro losbirciai da lontano senza neppure prenderlo in mano. Perun collezionista guardare e non possedere una tale meravi-glia è uno strazio fin troppo atroce. Ci avevo messo una pie-tra sopra. Nemmeno nella mia collezione quel libro ci sareb-be mai stato.

Nella mia mancolista di prime edizioni del Novecento,una mancolista di cui ha copia Lucia Di Majo (la titolaredella libreria Pontremoli), non lo avevo messo. Perché ir-raggiungibile. Ma Lucia sapeva benissimo che non lo ave-vo. Così come io sapevo benissimo che se gliene fosse arri-vata una copia, avrebbe subito avuto alla porta della sua li-breria tre o quattro collezionisti con la bava alla bocca. Emolto più ricchi di me, i maledetti. Solo che Lucia era instato di grave peccato mortale nei miei confronti. Uno deilibri che stavano nella mia mancolista, un memorandum sa-cro che lei avrebbe dovuto recitare a memoria cinque volteal giorno, lo aveva avuto, s’era dimenticata che mi manca-va, e lo aveva smistato a un altro dei suoi addicts. Avesse co-stretto alla prostituzione una mia eventuale sorella, come of-fesa sarebbe stata al confronto una bazzecola. E perciò Lu-cia aveva la coda tra le gambe, aspettava ansiosamente dirisarcire l’amico e il cliente.

La libreria Pontremoli è una delle poche librerie antiqua-rie italiane rimaste su strada. Ha un’insegna non particolar-mente vistosa, ci vai se sai che c’è e dov’è. Nelle due vetri-ne accanto alla porta d’ingresso sono in mostra libri non par-ticolarmente rari, ché la luce li rovinerebbe. Entri e hai sullasinistra un piccolo scrittoio in legno su cui impera Lucia o ilsuo socio Giovanni Milani, e della coppia non so ancora chi

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sia il Dr Jekyll e chi il Mr Hyde, chi il rigoroso professioni-sta del libro e chi il satanico accoltellatore di collezionisti, opiù probabilmente tutt’e due sono l’uno e l’altro. Vicino altavolo stanno un paio di sedie su cui i libri sono ammontic-chiati apparentemente alla rinfusa, ma non è affatto così: ognimontagnola ha purtroppo una sua ragion d’essere e di attiz-zare noi clienti. Alla destra di chi entra c’è un armadione condelle ante a vetri, che di solito non è il ricettacolo dei libripiù importanti. Di fronte hai il fianco destro di una casset-tiera molto grande, sul cui ripiano i libri sono assiepati a oc-cupare ogni centimetro quadro e mentre i cassetti, quelli sìdelle vere e proprie miniere diamantifere, vengono aperti divolta in volta e con aria sorniona dall’uno o dall’altro dei dueproprietari. Lì in fondo un’altra libreria in legno, dov’è ri-posto il materiale più andante. Tranne che in quest’ultimalibreria il pericolo alla Pontremoli si annida ovunque, vogliodire la proposta tentante, la miccia che si accende a rovina-re il tuo budget dei prossimi mesi, il libro che raccatti conmano tremante da quanto lo avevi cercato. Se entri in unalibreria antiquaria il meglio difatti è esplorare, ma non trop-po. Se esplori troppo, se frughi dappertutto, se le tue maninon si placano nel cercare e nello sfogliare, è impossibile chequalcosa non la trovi e che il tuo budget non ne risenta. Un’e-dizione che hai già ma questa volta impreziosita da una de-dica; un libro di cui non sapevi che avesse la sovracoperta ola fascetta editoriale e di cui a questo punto non puoi farnea meno a sostituire quello monco che hai a casa; magari unlibriccino minore e carogna di un autore che ami e che ti man-cava.

Una mattina che ero andato alla Pontremoli a definire ilprezzo d’acquisto di alcuni libri scelti e ordinati al telefono,il colpo al cuore arrivò quando meno me lo aspettavo. Erastato Giovanni ad aprire il cassetto superiore della cassettie-

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ra di cui ho detto, a spacchettare e a tirar fuori il fatale librodi Marinetti. «Ecco la litolatta», mi pare che abbia detto. Alche io ho risposto a modo di babbeo: «Quale?», ma in realtàavevo capito benissimo. La seconda delle due litolatte futu-riste, quella con le illustrazioni di Bruno Munari pubblicatadue anni dopo ancora da D’Albisola e anch’essa strarara, cel’avevo da vent’anni. Lo avevo capito benissimo che non eraquella a star facendo capolino dalla maledetta cassettiera. Erosenza fiato. Eccolo nelle mie mani il libro che reputavo irrag-giungibile. Finalmente lo sfoglio e lo tasto, ed è la prima vol-ta in vita mia. Un esemplare non perfetto, ma è pressochéimpossibile trovare un esemplare perfetto della litolatta. Èun materiale che nel tempo si piega, scolora, si arrugginisce.Le pagine di latta premono l’una sull’altra a fare danni reci-proci. Con i due dèmoni della Pontremoli a questo punto c’e-ra solo da pattuire il prezzo e i termini del pagamento. Luciaci avrebbe pensato su, avrebbe commisurato lo stato dell’e-semplare con quelli di proprietà di collezionisti milanesi checonosceva, avrebbe infine dettato la cifra/condanna. Ci dem-mo appuntamento a un paio di settimane dopo. Alla matti-na di fine novembre che ho raccontato all’avvio del capito-lo. Quando abbiamo pattuito il prezzo e mi sono portato viail libro, avvolto in una cartaccia da pacchi. Quanto al miobudget, da rasentare la bancarotta.

Aver trovato le Parole in libertà futuriste proprio mentrestavo per cominciare il libro dedicato alla mia collezione diletteratura italiana del Novecento mi sembrò un segno be-neaugurante del destino. Un augurio bissato da un episodioavvenuto pochi giorni dopo. Un esperto ricercatore lombar-do di materiali futuristi mi propose l’acquisto della collezio-ne completa di «Pickwick», un quindicinale d’avanguardiadi cui nel 1915 erano usciti cinque numeri a Catania, la mia

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