Capitolo I La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato · La ‘situazione’ scriminante...

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Capitolo I La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato SOMMARIO: Sezione I. I profili generali. – Sezione II. Il consenso dell’avente diritto. – Se- zione III. L’esercizio del diritto. – Sezione IV. L’adempimento del dovere e l’ordine del- l’autorità. – Sezione V. La difesa legittima. – Sezione VI. Lo stato di necessità. – Se- zione VII. L’uso legittimo delle armi. – Sezione VIII. Le scriminanti tacite. – Sezione IX. Struttura, efficacia ed errore nelle cause di giustificazione. – Sezione X. Prospetti- ve di riforma. Sezione I I profili generali SOMMARIO: 1. Premessa. Le cause di giustificazione. Inquadramento generale e cenni storici. In particolare il pensiero di Francesco Carrara alle radici del sistema. 1. Premessa. Le cause di giustificazione. Inquadramento generale e cenni storici. In particolare il pensiero di Francesco Carrara alle radici del sistema A) A fronte delle norme incriminatrici speciali, che definiscono i singoli fatti di reato 1 , stanno le norme che possono definirsi ‘permissive’, nel sen- so che permettono di realizzare quei fatti che le medesime norme incri- minatrici prevedono quali reati. Occorre al riguardo considerare la dialet- tica che corre tra le norme incriminatrici, che prevedono cioè fatti di rea- to, e le norme permissive, che invece permettono quei fatti. Così gli articoli 50 e seguenti del codice penale (quali disposizioni per- 1 I volumi: A. FIORELLA, La legge penale e la sua applicazione. Le strutture del diritto pena- le, I, Torino, 2017; ID., Il reato come fatto offensivo, dominabile e riprovevole, Le strutture del diritto penale, II, Torino, 2017, saranno richiamati come Strutture, I e Strutture, II.

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La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato 1

Capitolo I

La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato

SOMMARIO: Sezione I. I profili generali. – Sezione II. Il consenso dell’avente diritto. – Se-zione III. L’esercizio del diritto. – Sezione IV. L’adempimento del dovere e l’ordine del-l’autorità. – Sezione V. La difesa legittima. – Sezione VI. Lo stato di necessità. – Se-zione VII. L’uso legittimo delle armi. – Sezione VIII. Le scriminanti tacite. – Sezione IX. Struttura, efficacia ed errore nelle cause di giustificazione. – Sezione X. Prospetti-ve di riforma.

Sezione I

I profili generali

SOMMARIO: 1. Premessa. Le cause di giustificazione. Inquadramento generale e cenni storici. In particolare il pensiero di Francesco Carrara alle radici del sistema.

1. Premessa. Le cause di giustificazione. Inquadramento generale e cenni storici. In particolare il pensiero di Francesco Carrara alle radici del sistema

A) A fronte delle norme incriminatrici speciali, che definiscono i singoli fatti di reato 1, stanno le norme che possono definirsi ‘permissive’, nel sen-so che permettono di realizzare quei fatti che le medesime norme incri-minatrici prevedono quali reati. Occorre al riguardo considerare la dialet-tica che corre tra le norme incriminatrici, che prevedono cioè fatti di rea-to, e le norme permissive, che invece permettono quei fatti.

Così gli articoli 50 e seguenti del codice penale (quali disposizioni per-

1 I volumi: A. FIORELLA, La legge penale e la sua applicazione. Le strutture del diritto pena-le, I, Torino, 2017; ID., Il reato come fatto offensivo, dominabile e riprovevole, Le strutture del diritto penale, II, Torino, 2017, saranno richiamati come Strutture, I e Strutture, II.

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missive) prevedono le cause di giustificazione (altrimenti dette scriminanti o esimenti): il consenso dell’avente diritto, l’esercizio di un diritto o l’a-dempimento del dovere (art. 51), la difesa legittima (art. 52), l’uso legitti-mo delle armi (art. 53), lo stato di necessità (art. 54). Il modo in cui tali ‘giustificanti’ vengono enunciate chiarisce bene il senso delle norme per-missive.

Partiamo dall’art. 50 c.p., rubricato «Consenso dell’avente diritto». La formula di legge è la seguente: «Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne». L’art. 50 in questo senso è disposizione permissiva, perché permette la realizza-zione di un certo fatto, che altrimenti costituirebbe reato. Per esempio, il danneggiamento rappresenterebbe un reato se mancasse il consenso del-l’avente diritto. L’art. 50 c.p. permette quel fatto in presenza naturalmente dei presupposti indicati dallo stesso articolo.

B) La causa di giustificazione rappresenta ‘formalmente’ una fattispecie ‘aggiuntiva’.

Bisogna infatti tener presente che, come abbiamo detto, la causa di giustificazione esclude la responsabilità penale, non perché venga meno un elemento del fatto di reato in senso stretto. Altrimenti si configurereb-be un fatto di reato ‘incompleto’. Se, ad esempio, vien meno il nesso cau-sale il fatto di reato è incompleto. Lo stesso accade, ad esempio, per i reati dolosi: ove si configuri un errore ‘essenziale’, il dolo non si perfeziona. Si impone qui, appunto, una causa di ‘incompletezza’ del dolo. Il reato in questi casi non si perfeziona perché manca un elemento della fattispecie incriminatrice, di carattere materiale ovvero psicologico.

Per procedere nella comprensione delle cause di giustificazione ‘nella loro specifica efficacia’ (oggettiva), il punto di partenza per così dire ‘con-venzionale’ è che si consideri perfezionato il fatto ‘materiale’ di reato in senso stretto (evento, condotta, nesso di causalità, altre note materiali es-senziali), solo in un secondo momento venendo in rilievo una causa di giustificazione: ancorché il fatto materiale in senso stretto si fosse perfe-zionato, il ricorrere di una causa di giustificazione escluderebbe, oggetti-vamente, il reato. Anche in questo senso si tratta di una fattispecie che ‘si aggiunge’ a quella del fatto materiale in senso stretto, neutralizzandone la carica di disvalore espressa dalle componenti del fatto medesimo in senso stretto, non un suo fattore di incompletezza. Per le ragioni che stiamo enunciando, può anche rappresentarsi il fenomeno delle cause di giustifi-cazione come ‘insieme’ di elementi che appartengono al fatto ‘in senso ampio ‘aggiungendosi’ agli elementi che compongono i reati indicati dalle singole norme incriminatrici (i fatti di reato ‘in senso stretto’).

Nel fatto in senso ampio le cause di giustificazione vengono in rilievo nella veste di ‘elementi negativi’: per il perfezionarsi di un reato occorre

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cioè non solo che si realizzino gli elementi del fatto in senso stretto, cioè i suoi elementi positivi, ma occorre anche che non si perfezionino cause di giustificazione. Per questa ragione si parla di elementi negativi del fatto di reato (Strutture, II, Cap. I)

C) Per iniziare meglio a comprendere contenutisticamente il fenomeno può essere indicato cogliere il rapporto che corre tra fatto di reato e causa di giustificazione per i loro contenuti sostanziali.

Come sappiamo, un fatto di reato (l’omicidio, il danneggiamento, ecc.) è caratterizzato da un contenuto di disvalore e, proprio in rapporto a que-sto contenuto complessivo di disvalore, la legge prevede la qualifica di reato e una certa pena. A fronte di tale disvalore può, su determinati presup-posti, configurarsi un valore contrapposto. Immaginiamo l’omicidio in una situazione di difesa legittima: l’omicidio è un disvalore di ordinamento ma la difesa legittima è un valore di ordinamento. Quindi il ‘disvalore’ dell’o-micidio è ‘neutralizzato’ dal ‘valore’ contrapposto rappresentato dalla difesa legittima: la ‘neutralizzazione’ esclude la pena.

Il profilo può essere approfondito guardando più strettamente ai beni in giuoco. Nel caso ad esempio dell’omicidio dell’aggressore viene sacrifi-cato un bene (la vita) di una determinata persona; ma è anche vero che, se l’omicidio è avvenuto in una situazione di legittima difesa, il soggetto che ha reagito, offendendo, lo ha fatto per difendere la propria vita. Quindi il bene ‘vita’ è salvo proprio perché l’aggredito ha ‘reagito’ difensivamente. La vita dell’aggressore è sacrificata, ma tale ‘disvalore’ è bilanciato dal ‘va-lore’ consistente nella salvezza della vita del soggetto che si è difeso.

In questo senso opera un bilanciamento di beni giuridici; cioè una delle radici logico-giuridiche riconosciute della causa di giustificazione.

D) Per tratteggiare ulteriormente profili generali, introduttivi del signi-ficato delle cause di giustificazione, potremmo dire che una particolare importanza hanno le figure dell’esercizio del diritto e dell’adempimento del dovere. Figure che sono tipicizzate come tali dall’art. 51 c.p., ma che ‘animano’ anche il significato di altre scriminanti (a suo modo ad esempio anche la difesa legittima, art. 52 c.p., è espressione del ‘diritto’ di difender-si). Altra grande linea direttrice sta nella ‘necessità’. Ciò per le ipotesi in cui un certo comportamento (teoricamente costituente reato) sia stato commesso, sì, ma appunto perché costretto da una necessità postasi nella situazione concreta. Vedremo nello specifico in qual modo la situazione necessitante agisca sul piano delle diverse cause di giustificazione.

E) Prima di procedere nell’analisi delle singole cause di giustificazione è indicato richiamare alcuni tratti delle radici storiche e scientifiche del-l’attuale assetto generale del codice in materia, al di là del ruolo che le

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cause di giustificazione hanno nel tempo assunto nella classificazione del-le componenti del reato (in particolare quali cause di esclusione dell’anti-giuridicità oggettiva ovvero quali elementi negativi del fatto: v. al proposi-to, Strutture, I, Cap. I, par. 10 ss., e Strutture, II, Cap. I, par. 10 ss. con i re-lativi richiami di letteratura).

Nella progressiva maturazione del positivismo giuridico, la letteratura penalistica della prima metà dell’800 2 dava avvio ad una scomposizione del reato in termini mo-derni; ed enucleava: come primo elemento, quel che oggi definiamo il ‘tipo’ [e Carrara indicava come la ‘qualità’ 3] del reato; come secondo elemento, l’assenza delle situa-zioni che ne neutralizzano la carica criminosa. Momenti logici, questi, che nell’opera settecentesca del Böhmer, autorevolmente considerato come il fondatore del concetto di antigiuridicità oggettiva 4, erano stati scanditi, osservando che il fatto «crimino-sum», «sub certis circumstantiis», si manifesta privo di ogni carattere di illiceità.

Peraltro, una vera teoria delle cause di esclusione del reato o della pena – come ragioni storiche e sistematiche spiegano pianamente – si formerà più tardi della teoria della fattispecie o tipo del reato. Anzi, in particolare la categoria delle cause di giustificazione rimarrà per lungo tempo involuta; ed ancor oggi non sempre è adeguatamente sviluppata, se posta a confronto con lo sviluppo di altre categorie fondamentali della scienza penale come quella del fatto (in senso stretto) o della colpevolezza. Ciò non toglie che già nella prima metà dell’800 non mancava anche tra gli scrittori italiani chi parlava di ‘cause di giustificazione’ con una rilevante completezza, attribuendo ad esse – in una successione logica precisa – la natura di causa di esclusione della ‘illegittimità’ del fatto; tale dottrina individuava quel che più conta, il primo momento logico, quello modernamente indicato come della ‘tipicità’, quale momento che solo ‘in apparenza’ rispecchia l’effettiva criminosità ‘oggettiva’ del fatto, dovendosi, prima di perfezionare il giudizio, accertare la reale contraddittorietà del fatto all’ordinamento 5. Si affermava, così, timidamente, ne-gli autori più consapevoli, una visione del reato più evoluta, non come mero ‘rag-gruppamento’ di tante parti ‘stratificate’, ma come un «insieme», una vera e pro-

2 Solo nel passaggio dal 1700 al 1800 si segnò un vero e proprio progresso nella dogma-tica del diritto penale con riflessi positivi anche in materia di cause di giustificazione (sul punto, ad esempio, nella letteratura tedesca, cfr. HEIMBERGER, Zur Lehre vom Aussckluss der Rechtswidrigkeit, Giessen, 1907, 32).

3 Cfr. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, pt. gen., I, Firenze, ed. 1902, §§ 128 ss. e spec. 130. Sul Carrara cfr., FIORELLA, Le cause di giustificazione nel pensiero carra-riano, in AA.VV. Francesco Carrara nel primo centenario della morte, Atti del Convegno in-ternazionale (Lucca-Pisa, 2/5 giugno 1988), Milano, 1991, 327 ss.

4 Sulla dottrina che fa risalire al Böhmer il concetto di antigiuridicità oggettiva, cfr., cri-ticamente, PADOVANI, Alle radici di un dogma: appunti sulle origini dell’antigiuridicità obietti-va, in Riv. it., 1983, 532 ss.

5 Cfr. ROSSI, ad es., Traité de droit pénal, I ed., 1829, qui cit. dall’ed. 1852, 235 s. Analoga-mente il PESSINA, Propedeutica al diritto penale delle due Sicilie, Napoli, 1858, 21, ove stabilisce che il «malefizio nel suo lato obiettivo presenta due lati distinti: il fatto umano, e l’infrangi-mento del Diritto; egli parla altresì della “teorica della illegittimità dell’azione umana, e del-l’impunità di quei fatti, che malgrado le apparenze criminose sono dal Diritto o comandati o permessi» (corsivo nostro); ID., Elementi di diritto penale, I, Napoli, 1870, 139 ss.

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pria ‘struttura’; si delineava altresì una categoria delle cause di giustificazione, ca-ratterizzata da una certa autonomia, e che postulava la consapevolezza del-l’esigenza di studiare tali fenomeni nel loro ‘complesso’, senza confonderli con al-tre cause di esclusione del reato.

In ossequio alle illuministiche esigenze di garanzia il reato si manifestava co-me un ‘fatto’ ed in primis come un’«offesa» obiettivamente valutata quale danno o pericolo, in contrapposizione con la intenzione criminosa 6. Non si faceva però subito strada anche una concezione delle cause oggettive di esclusione del reato come fattori neutralizzanti l’offesa medesima, si da rendere inutile, ai fini dell’e-sclusione del reato, ogni ulteriore indagine circa il momento psicologico (ed a maggior ragione ogni accertamento relativo alla personalità o pericolosità dell’a-gente). In particolare, nell’analisi delle cause di esclusione del reato tardò ad affer-marsi nella dogmatica italiana una valutazione oggettiva del bilanciamento tra beni, sempre a causa del ricordato insufficiente dominio dei rapporti strutturali tra le componenti del reato. In altri termini, sembra che, per lo più, la letteratura penalistica italiana della prima metà dell’800 cogliesse con difficoltà come l’offesa immanente al fatto in senso stretto potesse apparire, almeno in certi limiti, ogget-tivamente neutralizzata in considerazione dell’interesse che l’ordinamento tutela prevedendo la causa di giustificazione. Eccezioni non mancavano. Ad esempio Giuliani (la prima edizione delle sue ‘Istituzioni’ è del 1836) impiantava con chia-rezza il problema delle cause di giustificazione proprio su un’idea di bilanciamen-to tra offese e vantaggi osservando che «nel conflitto tra due diritti disuguali cede il minore»; ed il medesimo autore, nel rilevare come alcuni casi «si risolvano limi-tando la disputa al foro esterno» 7, rendeva molto chiara anche una sua concezio-ne ‘oggettiva’ delle cause di giustificazione almeno con riferimento a qualche ipo-tesi (difesa legittima). Per lo più la dottrina del tempo concepiva le cause di giusti-ficazione come un problema da risolversi propriamente sulla base di criteri d’altro genere. In primis prendeva in considerazione il principio di non contraddizione, come nelle ipotesi in cui, pur non parlando dell’esercizio del diritto e dell’adem-pi-mento del dovere, dava evidentemente per scontato che il diritto, ove per altri ver-si comanda o permette, non può considerare esistente un reato (iuris executio non habet injuriam). 8 Prendeva altresì in considerazione il profilo della ‘necessità’ pra-tica di reazione (difesa legittima) o azione (stato di necessità) 9. Di frequente, poi, ancora nella prima metà dell’800, sempre in ordine allo stato di necessità e alla difesa legittima, conferiva forte risalto al profilo psicologico, guardando essen-zialmente al rapporto di determinazione psicologica ed in particolare al “timore incusso” al soggetto agente 10.

6 Illuminante era già l’opera del BECCARIA, Dei delitti e delle pene (I ed. 1764, cit. dall’ed., Milano, 1964, 81), nel suo riferirsi al reato come danno.

7 Cfr. GIULIANI, Istituzioni di diritto criminale, Macerata, (I ed. 1836) cit. dall’ed. 18402, 86.

8 Cfr. PESSINA, op. e loc. cit. 9 Cfr. ad es. ROBERTI, (Corso completo del diritto penale, vol. I, Napoli, 1833, 116), dal-

l’angolo visuale dell’impossibilità di “arrestare alcuno dal delinquere coll’obbligarlo a degli sforzi generosi, che son forse superiori alla sua potenza morale”.

10 Cfr. ad es. ROBERTI, op. cit., 115 ss., nel cui pensiero il bilanciamento tra beni veniva

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In effetti è soprattutto con riferimento alla difesa legittima ed allo stato di ne-cessità che si manifestavano, ancora nella prima metà dell’800, come del resto ac-cadrà in seguito, le maggiori incertezze circa il reale fondamento razionale delle cause di giustificazione, con forti oscillazioni dall’oggettivo al soggettivo.

La concezione di fondo che ispirava il penalista dell’epoca, e che poi si riflette-rà nella legislazione successiva, era quella dell’uomo e della sua condotta come effetto di forze esterne o interne, fattori esogeni o endogeni. Il prevalere del fatto-re esogeno veniva considerato come esclusorio o attenuante del reato, l’endogeno come costitutivo o aggravante.

Concepita la norma come norma di determinazione e gli uomini, in quanto suoi destinatari, come “enti dirigibili” (secondo la formula di Carmignani) 11, il presupposto della imputazione soggettiva diveniva la “dirigibilità» della condotta umana 12. Consequenziale diveniva allora la conclusione che la difesa necessaria e lo stato di necessità legittimino l’azione, per altro verso criminosa, in quanto l’“in-cusso timore” rappresenterebbe una “coazione” 13, un fattore esogeno che esclude-rebbe la riferibilità naturalistica e giuridica del fatto all’uomo; se si vuole, l’appar-tenenza al medesimo. Ed emergono elementi che consentono di affermare che ta-le schema dell’uomo come posto in un “campo di forze” venisse inteso in senso e-minentemente naturalistico, ancorché dal punto di vista della determinazione psi-cologica. Anche Roberti confermava questa concezione con riferimento alla “coa-zione”. «Di fatti – egli scriveva – un timore gagliardo impresso all’uomo da una forza irresistibile lo costringe moralmente ad un’azione criminosa, allo stesso mo-do come ve lo costringerebbe forse una forza fisica” 14.

Un richiamo particolare merita l’opera di Carrara. Con la sua analisi venne a maturare una grande consapevolezza della necessità di una precisa distinzione dogmatica tra le diverse cause che per le più varie ragioni possono condurre all’e-sclusione della punibilità (la categoria delle cause di non punibilità intese nel sen-so più esteso). Dell’evoluzione del suo pensiero in materia è rappresentativo in particolare lo studio sulle “Scuse legali” 15. Va subito precisato che l’impiego del termine “scusa” con i suoi derivati non era nel Carrara sempre univoco. In alcuni casi Carrara usava la locuzione «causa di scusa» in un senso molto ampio e gene-rico per indicare ogni dirimente o minorante in contrapposizione alle “cause di non imputabilità”; le quali, nel linguaggio impiegato dall’autore in quei luoghi, denotavano le cause di incompletezza del fatto in senso stretto (materiale o psico-logico) 16. In altri luoghi Carrara designava come “scuse” essenzialmente le ‘sole’

essenzialmente considerato per valutare la legittimità della “motivazione” dell’agente e del reagente: a “sarà sempre iniquo colui che ... avrà pel timore trasgrediti i doveri i più sacri” (127).

11 Cfr. CARMIGNANI, Elementi del diritto criminale, Napoli, 1854, § 71, 28. 12 Cfr. CARMIGNANI, op. cit., § 84, 32: L’“uomo è subbietto delle leggi in quanto è un ente

dirigibile”. 13 Cfr. CARMIGNANI, op. cit., § 205, p. 63 ss.; nello stesso senso ROMAGNOSI, Genesi del di-

ritto penale, ed. 1934, § 585. 14 Cfr. ROBERTI, op. cit., § 400, 117. 15 Cfr. CARRARA, Scuse legali, in Opuscoli di diritto criminale, vol. VI, ed. 1890, 271 ss. 16 Cfr. CARRARA, Programma, cit., §§ 207 ss., 203 ss.; in particolare per cogliere nel Pro-

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minoranti, in specie psicologiche 17; e comunque l’evoluzione del suo pensiero lo portò ad escludere con sempre maggior decisione che il termine “scusa” potesse designare le cause ‘oggettive’ di esclusione del reato, e quindi le cause di giustifi-cazione in senso stretto 18. Egli guardava con estremo sospetto all’uso del termine “scusa” in quanto designante l’idea della semplice benignitas come ratio dell’esclu-sione della pena.

Carrara, soprattutto nel citato saggio sulle “Scuse legali”, si scagliava contro la dottrina francese del tempo che egli vedeva invece tendere proprio verso una con-cezione generalizzata delle cause di esclusione della punibilità (in senso ampio) quasi fossero in ogni caso meri benefici concessi al ‘colpevole’. Quindi egli, se ta-lora incorreva nel medesimo difetto di impiegare il termine “scusa” in maniera indifferenziata, sì da denotare il complesso delle cause di esclusione del reato o della pena, ciò faceva solo per comodità d’espressione, in realtà condannava la confusione determinata da un riferimento non sorvegliato alla categoria delle ‘cause di scusa’. Abbiamo già ricordato la puntuale attenzione prestata da Carrara alla distinzione tra le cause di incompletezza del fatto in senso stretto (materiale o psicologico) e le scriminanti propriamente intese; così pure nel pensiero di Carrara si stagliava nettamente una categoria di scriminanti «oggettive» da contrapporre alle scriminanti «psicologiche» 19. Molta sensibilità – abbiamo detto – mostrava Car-rara anche nel distinguere tra scriminanti e minoranti, definendone i rispettivi fon-damenti e portando così altri contributi alla definizione dogmatica delle scriminan-ti. In qualche punto Carrara sembra concepisse, ma in altri negasse, una categoria di cause di esclusione della semplice punibilità (le cause di non punibilità in senso stretto) 20, comunque isolando le cause di semplice non procedibilità 21.

Peraltro, in questo schema generale di riferimento, diverse rimanevano – per lo più ovviamente giustificate dal livello della dogmatica dell’epoca – le incompletez-ze e le incertezze del pensiero carrariano, anche in ordine alle cause di giustifica-zione. Manca nella parte generale del Programma una trattazione del consenso dell’avente diritto come pure dell’esercizio del diritto e dell’adempimento del do-vere; parimenti manca – ma questo è più facilmente spiegabile – una trattazione autonoma dell’uso legittimo delle armi.

Le figure della legittima difesa, dello stato di necessità e dell’esecuzione dell’or-dine del superiore venivano, sì, trattate insieme, ma come parte del capitolo gene-rale concernente il «grado» del delitto; collocazione impropria – lo riconosceva lo stesso Carrara – visto che nella sistematica dell’autore il «grado» riguardava pro-priamente le diminuenti o minoranti (circostanze attenuanti) e non le dirimenti del reato 22. Più esattamente la difesa legittima, lo stato di necessità e l’esecuzione gramma un esempio dell’uso del termine “scusa” per designare una “minorante”, § 321, 295; per cogliere il senso della locuzione “cause di non imputabilità”, § 288, 268 s.: v. pure infra nel testo.

17 Cfr. CARRARA, Scuse legali, cit., 276. 18 Cfr. CARRARA, op. e loc. ultt. citt.; ID., Programma, cit., par. 294, 274 ss. 19 Cfr. Scuse legali, cit., 274 ss. 20 Cfr. op. ult. cit., 274 e 282. 21 Cfr. ad es., Scuse legali, cit., 280 ss. 22 Cfr. Programma, cit., § 144, 159: “in questa ultima applicazione anche la denomina-

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dell’ordine del superiore venivano trattate nella parte riservata al “grado” del delit-to con riferimento alla “volontà” dell’agente e dopo le fattispecie relative al “gra-do” in rapporto all’“intelletto”; vale a dire dopo le figure concernenti grosso modo la capacità di intendere (imputabilità) e l’errore. Tali figure venivano concepite come forme di ‘coazione’ della volontà dell’agente. La collocazione e la terminolo-gia adottate nella classificazione, richiamando, in sé e per sé prese, un rapporto di determinazione psicologica, sembrerebbero indicare il convincimento di Carrara circa una natura appunto psicologica delle dette cause di esclusione del reato. Il che, peraltro, solo parzialmente corrisponde al più genuino pensiero dell’Autore.

Carrara impiegava al proposito, per indicare il fenomeno dell’esclusione del reato, spiegandone il fondamento, la formula della “cessazione del diritto di puni-re” 23; e mostrava così di concepire una successione logica fondata su una prece-dente qualificazione di illiceità penale – connessa alla corrispondenza del fatto al-la figura legale – e che verrebbe meno in forza di una successiva e oggettiva valu-tazione di conformità all’ordinamento. Il termine ‘cessazione’ può apparire non particolarmente felice, inducendo ad ipotizzare che Carrara fosse convinto che un ‘reato’ già si perfezioni per il configurarsi del fatto in senso stretto, rivelandosi poi non punibile a seguito dell’intervento di una causa di giustificazione. L’equivoco terminologico o comunque espressivo riaffiora qua e là: Carrara, ad esempio, po-trebbe sembrar convinto che comunque il fatto commesso per effetto della ‘coa-zione’ costituisca un «violare la legge» 24. Non era questo, però, l’effettivo pensiero di Carrara. Pur tra le ricordate imprecisioni ed incertezze, una volta chiariti tutti i possibili equivoci, appare che il pensiero di Carrara in materia rappresentava una forte evoluzione dogmatica. È molto significativo che egli rifiutasse sdegnosamen-te che per la difesa necessaria si potesse parlare di semplice ‘scusa’, nel senso di un’esenzione da pena quasi per un atteggiamento di ‘comprensione’ della legge per la debolezza umana 25.

Egli immaginava la difesa necessaria come ipotesi in cui nessun diritto di pu-nire propriamente sorge. Il fatto che Carrara rilevasse che nell’ipotesi di coazione il fatto non fosse «punibile» 26, non voleva indicare affatto la pregressa e già ma-turata esistenza di un reato. Di contro abbiamo ricordato come Carrara cogliesse la differenza intercorrente tra le cause di “incompletezza” del fatto di reato e le “cause aggiuntive” che neutralizzano il suo significato criminoso.

Sotto questo profilo Carrara distingueva, più esattamente, tra ‘imputabilità’ e ‘punibilità’ (o incriminabilità). Quali ipotesi di non-imputabilità, in quanto deter-minanti l’incompletezza dei presupposti positivi del reato, egli indicava quelle del-la forza maggiore e del caso fortuito in quanto esclusorie della riferibilità morale e prima ancora naturalistica del fatto al soggetto [la (non-) imputabilità assoluta, per fatto (non-) proprio]. Egli considerava invece come ipotesi di non-punibilità zione di grado, se bene si considera, è meno esatta, perché nella negazione di un essere non vi è un grado dell’essere”.

23 Cfr. CARRARA, Diritto della difesa pubblica e privata, in Opuscoli di diritto criminale, I, ed. 18985, 157; Programma, § 291, 271.

24 Cfr. CARRARA, Programma, cit., par. 202, 282. 25 Cfr. CARRARA, op. ult. cit., par. 294, 274. 26 Cfr. CARRARA, op. ult. cit., par. 288, 267.

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(appunto) la difesa legittima e lo stato di necessità in cui il termine di (non-) im-putabilità – osservava Carrara – dovrebbe semmai utilizzarsi nel senso relativo della (non-) imputabilità “come fatto criminoso” 27. Più correttamente – rilevava il Carrara – il termine non-punibilità dovrebbe utilizzarsi come termine di genere per indicare i due fenomeni della non-imputabilità (del fatto proprio) e della non-incriminabilità (del fatto ancor-ché imputabile). L’autore sentenziava: “nessun fat-to può essere delitto se non è antigiuridico”; aggiungendo che “non può essere an-tigiuridico quicquid jure fit” e che chi agisce per necessità di difesa “agisce jure esercitando il diritto (anzi obbedendo al dovere) della propria conservazione” 28.

La concezione di fondo che aveva dunque Carrara della difesa legittima e dello stato di necessità, contrariamente a quel che la collocazione sotto il titolo (e lo stesso termine) della ‘coazione’ potrebbero lasciar pensare, cominciava ad essere pregna di elementi di “oggettività” e di “normatività”. Invero, egli individuava il fondamento giuridico delle dirimenti in questione non tanto nella non-dominabili-tà fisica o morale del fatto (nel senso di non-autodeterminabilità psicologica in sen-so con-forme al diritto), quanto nella facoltà che viene concessa dalla legge di rea-lizzare un fatto che per altro verso corrisponde alla figura legale di un reato. Tale facoltà invero “scrimina” a prescindere dalla effettiva configurazione di un “timo-re” nell’agente. Quand’anche questi reagisca alla situazione di pericolo rimanendo del tutto compos sui, pienamente lucido, egli si gioverebbe della dirimente 29.

Carrara esaminava un quadro più esteso di scriminanti nella parte speciale della sua opera voluminosa. Così, ad esempio, secondo le diverse esigenze, egli trattava anche profili interessanti di fattispecie scriminanti, che la dottrina mo-derna sviluppa nella parte generale, con riferimento ad esempio all’esercizio di una facoltà legittima 30, all’adempimento del dovere 31, al consenso dell’avente di-ritto 32. Nel tentare di ricomporre i frammenti sparsi qua e là, si può raccogliere anche una serie di spunti per scorgere l’abbozzo di una vera e propria ricostruzio-ne generale degli elementi di tali cause di giustificazione. Così, per il consenso dell’avente diritto, il Carrara prendeva in considerazione il presupposto della di-sponibilità del bene 33, le condizioni di validità del consenso 34 e la revocabilità del

27 Cfr. CARRARA, op. ult. cit., par. 288, 268. 28 Analogamente, CARRARA, Scuse legali, in Opuscoli di diritto criminale, vol. VI, ed. 1890,

276. 29 Anche argomentando da tale elemento di normatività si coglie quanto sia discutibile

l’opinione del BETTIOL, Diritto penale, 1976, 200, che considera la visione del Carrara come “meccanicistica”.

30 Così, ad una facoltà in qualche modo legittimata dall’ordinamento, il Carrara fa rife-rimento, ad es., in CARRARA, op. ult. cit., § 1635, 601, rispetto alla violazione di corrispon-denza; e § 1658, 659 con nota 1, rispetto alla violazione di domicilio, “dove ciò è permesso dal principe o indotto dalla consuetudine locale”.

31 Cfr. ad es., CARRARA, op. ult. cit., § 1646, 629 s., rispetto alla violazione del segreto pro-fessionale giustificata dal dovere di collaborare con la giustizia.

32 Cfr., ad es., CARRARA, op. ult. cit., § 2882, 587 e § 2885, 590, rispetto al duello, sotto il profilo dell’indisponibilità di certi beni (come la vita) e dei limiti di effettività di un libero consenso.

33 Cfr. là dove il Carrara considerava inefficace il consenso per l’indisponibilità del bene-vita: rispetto al duello, CARRARA, op. ult. cit., § 2882, 587; § 2885, 590. Il problema della

10 Il fatto nella ‘situazione’ scriminante

consenso medesimo 35. In sintesi, Carrara, pur non edificando una vera e propria teoria delle cause di giustificazione, ha dato contributi molteplici ed assai perspi-cui soprattutto per la sua grande attenzione alle diverse ragioni che presiedono al-l’esclusione del reato o comunque della pena e, quindi, ai diversi ‘tipi’ di tali cause di esclusione.

Concludendo, può dirsi che, come per molti altri settori della teoria ge-nerale del reato, anche per le cause di giustificazione, nonostante le inevi-tabili insufficienze, il pensiero di Carrara può risultare illuminante come espressione dello sviluppo della analisi delle cause di giustificazione nel-l’800. Né va dimenticata l’influenza che Carrara ha esercitato sulla dottri-na e sulla legislazione successiva; in particolare, influenzando sia diretta-mente (quale commissario ministeriale per la formazione del nuovo codi-ce penale), sia indirettamente, il codice Zanardelli: i compilatori di questo si richiamarono spesso al suo pensiero, ancorché talora implicitamente. A me sembra che, in particolare, Carrara abbia fatto evolvere il pensiero pe-nalistico, dalla metà dell’800 in poi, nel senso di allontanarlo da una vi-sione psicologica o essenzialmente psicologica, per procedere ad una cali-brata “oggettivazione” delle cause di giustificazione, non dimentica di al-cuni presupposti soggettivi. Figure quali la difesa necessaria e lo stato di necessità divenivano così espressione di un ‘diritto’. E vedremo nelle pagi-ne che seguono come gli stimoli della scienza dell’800 si siano riflessi nella struttura delle singole cause di giustificazione in specie, appunto, nella lo-ro ‘oggettivazione’.

Il codice Rocco mutua l’impianto fondamentale degli artt. 49 e 50 del codice Zanardelli, ma con una più estesa e analitica definizione delle sin-gole cause di giustificazione, nei termini che passiamo a rappresentare.

eventuale indisponibilità del bene era ancora preso in esame dal Carrara ad esempio rispet-to alla libertà personale, che considerava peraltro normalmente disponibile anche nella c.d. detenzione privata: § 2866, 561 ss.

34 Cfr. nell’ipotesi di ratto, con riferimento all’incapacità di prestare un valido consenso per minore età o deficienza psichica: op. ult. cit., § 1693, 724 (analogamente, § 1491, 276 e § 1492, 279 ss.). La possibilità di considerare, nei citati esempi del Carrara, il dissenso quale elemento del fatto in senso stretto non esclude evidentemente la rilevanza della specifica tematica della capacità di esprimere un valido consenso anche in rapporto alle ipotesi in cui il consenso dell’offeso rappresenta senz’altro una causa di giustificazione.

35 Cfr. CARRARA, op. ult. cit., § 2866, 562.

La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato 11

Sezione II

Il consenso dell’avente diritto

SOMMARIO: 1. Il diverso ruolo del consenso-dissenso nella struttura del reato. – 2. Il consenso dell’avente diritto quale causa di giustificazione. I diritti disponibili. – 3. Validità ed effettività del consenso. – 4. Considerazioni conclusive. –

1. Il diverso ruolo del consenso-dissenso nella struttura del reato

Iniziamo dal ‘consenso dell’avente diritto 36. Tale scriminante è prevista dall’articolo 50 del codice penale: il sogget-

to che è titolare di un diritto, esprimendo il proprio consenso, esclude la fattispecie di reato.

Il consenso dell’avente diritto al negativo può integrare un dissenso ‘in-criminante’ nei vari modi messi in evidenza dal sistema trattandosi di sta-bilire come la coppia di contrari ‘consenso‐dissenso’ agisca sul piano delle strutture penalistiche.

Il consenso può avere la natura dell’elemento costitutivo, dell’elemento differenziale ovvero della causa di giustificazione.

Proviamo a fare qualche esempio. Con riferimento alla natura di ele-mento costitutivo possiamo citare l’art. 614 c.p., (Violazione di domicilio): «Chiunque si introduce nell’abitazione altrui, o in altro luogo di privata di-mora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce clandestinamente o con in-ganno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». In questo caso par chiaro che è l’articolo 614 a stabilire che il dissenso è un elemento da cui non si può prescindere ai fini della pena. Con la conseguenza che, se il ti-tolare del domicilio ha espresso invece il consenso, il reato non si configu-ra. La norma incriminatrice in questione si struttura proprio indicando il consenso quale causa di esclusione del reato, e prevedendo dunque il dis-senso del titolare quale elemento costitutivo del reato medesimo. Qui evi-dentemente, non facciamo più riferimento all’articolo 50 del codice pena-le, cioè al consenso dell’avente diritto come causa di giustificazione – non abbiamo cioè più bisogno di ricorrere alla parte generale del codice, ma è

36 In materia, per tutti, cfr. DELOGU, Teoria del consenso dell’avente diritto, Milano, 1936; e di recente RAMACCI, Corso di diritto penale, Torino, 2015, 497 ss.

12 Il fatto nella ‘situazione’ scriminante

direttamente la parte speciale del codice, l’articolo 614, che definisce l’effi-cacia del consenso dell’avente diritto nel senso di escludere il reato. Ecco perché, in breve, in tal caso il ‘dissenso’ rappresenta un elemento ‘costitu-tivo’ della specifica incriminazione.

In altri casi il ‘consenso’ ha la natura di un elemento, sì, costitutivo, ma di specie ‘differenziale’. Basti pensare all’art. 579 c.p. che prevede l’o-micidio del consenziente. Riguardo all’omicidio abbiamo dunque le due fi-gure: la figura di omicidio comune prevista dall’art. 575 c.p. e poi la figura dell’omicidio del consenziente, cioè di chi uccida col consenso della vittima. L’art. 579 dispone, invero: «Chiunque cagiona la morte di un uomo col con-senso di lui». Anche qui il consenso è preso in considerazione direttamente da una norma incriminatrice (contenuta nella parte speciale del codice pe-nale) ma il riferimento è indice di un elemento ‘differenziale’, cioè non de-marca l’illecito dal lecito penale ma ‘differenzia’ due tipi di illeciti, una fatti-specie dall’altra: l’omicidio col consenso della vittima non è più omicidio comune (art. 575 c.p.), ma omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).

Ancora una volta non abbiamo qui una causa di giustificazione: il con-senso è preso in considerazione dalla legge per distinguere due fattispecie di reato. Il consenso della vittima non può essere causa di giustificazione perché in questo caso ha per oggetto un diritto indisponibile; cioè la vita. Quindi il consenso ad essere ucciso non può giustificare l’omicidio.

2. Il consenso dell’avente diritto quale causa di giustificazione. I diritti disponibili

Veniamo invece alle ipotesi che costituiscono propriamente l’oggetto della nostra analisi e cioè al consenso dell’avente diritto quale ‘causa di giustificazione’. L’art. 50 del codice penale prevede: «Non è punibile chi le-de o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può valida-mente disporne». Si tratta di capire bene quali siano gli elementi indicati dall’articolo 50 e in particolare dobbiamo chiederci quale sia l’oggetto del consenso rilevante ai fini del diritto penale.

A) Il soggetto (potenzialmente) offeso, secondo la formula dell’articolo 50, esprime un consenso che ha per oggetto la lesione o il pericolo di un proprio diritto: quindi acconsente a questa offesa, un’offesa che può essere considerata dal punto di vista generale come tale, ma che per il soggetto passivo potrebbe non essere considerata un’offesa al proprio bene. In ogni caso quel che conta per l’ordinamento – per l’art. 50 del codice penale – è che il diritto sia sacrificato con il consenso di chi può validamente disporne.

Dunque, primo presupposto dell’efficacia scriminante del consenso sta nella disponibilità del diritto. I diritti che non sono disponibili – lo accen-

La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato 13

navamo anche con riferimento all’art. 579 c.p. – non sono per definizione passibili di consenso scriminante, escludendo l’operatività della causa di giustificazione.

Dobbiamo allora avere una griglia logico-giuridica di riferimento per cogliere, sia pur per sommi capi, come agisce l’art. 50 in rapporto alla di-versità di interessi e di diritti.

B) In un primo caso le norme incriminatrici, e quindi i reati corrispon-denti, prendono in considerazione interessi dello Stato, nelle sue diverse articolazioni, come ad esempio interessi collegati alla pubblica ammini-strazione, interessi collegati all’amministrazione della Giustizia. Siffatti interessi, proprio perché dello Stato, evidentemente non sono disponibili: perciò l’art. 50 del codice penale, là dove prevede la causa di giustificazio-ne del consenso dell’avente diritto, non ha per oggetto gli interessi che fanno capo allo Stato.

Veniamo ad altri diritti comunque superindividuali, tra i quali la pub-blica incolumità. Come si coglie nettamente, ancora una volta i diritti su-perindividuali che riguardano non un singolo individuo ma una moltepli-cità, una collettività, per definizione non sono sensibili al consenso della singola persona, sono quindi diritti per i quali non opera la causa di giu-stificazione che stiamo analizzando.

C) Il problema si fa più stringente in relazione ai diritti individuali di cui è titolare il singolo. I diritti individuali non sempre però sono disponi-bili. Dovremo quindi distinguere tra i diritti individuali disponibili e i di-ritti indisponibili.

In via di principio sono disponibili i (beni e i) diritti patrimoniali. Pen-siamo allora ai reati contro il patrimonio (es. furto, appropriazione inde-bita, danneggiamento). Nel caso ad esempio del danneggiamento (art. 635 c.p.) se la distruzione di un certo bene interviene a seguito del consenso di chi è titolare del bene patrimoniale, il consenso esclude il reato.

Nemmeno i beni individuali sono tuttavia sempre disponibili. In parti-colare la vita è bene individuale non disponibile. Ecco perché è prevista la fattispecie dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).

Sotto il profilo dei beni personalissimi è importante tener presente l’art. 5 del codice civile che disciplina in particolare gli atti di disposizione del proprio corpo: «Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quan-do siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costu-me». Emerge perciò nettamente che non ogni consenso che consista in un atto di disposizione del proprio corpo scrimina il reato, secondo i limiti fissati dall’art. 5 c.c.

14 Il fatto nella ‘situazione’ scriminante

3. Validità ed effettività del consenso

Veniamo alla validità del consenso. Il consenso scriminante presuppo-ne che venga dato dal titolare del diritto sacrificato.

Il titolare del diritto può esprimere il consenso anche attraverso altri. Si discute in qual misura il ‘rappresentante’ possa esprimere un consenso valido ed efficace nel senso di ‘giustificare’ un fatto (apparentemente) co-stitutivo di reato. Taluno precisa che tale efficacia andrebbe circoscritta solo a casi eccezionali. Non mancano ipotesi in cui lo stesso titolare del diritto non possa esprimere un consenso se non attraverso altri, manife-standosi il fenomeno in fattispecie di sicuro rilievo nel nostro ordinamen-to.

In merito alla capacità di agire, in particolare ci si chiede se sia un pre-supposto di validità del consenso scriminante. Taluno aggiunge che pro-priamente non dovrebbe parlarsi di capacità di agire (non sarebbe la ca-pacità di agire in senso stretto a dover essere considerata), ma di capacità naturale che consisterebbe nella reale capacità del soggetto, che esprime il consenso, di comprendere il significato del consenso medesimo.

Questo tema si collega all’altro dell’età necessaria per esprimere un consenso valido ed efficace. Diverse tesi vengono espresse sotto questo profilo. Alcuni sostengono – o hanno sostenuto – che per aversi un con-senso valido il titolare debba avere almeno 18 anni, cioè l’età che secondo il nostro sistema penale definisce la capacità di intendere e di volere che sta a presupposto dell’incriminazione (art. 85 c.p.). Altri hanno sostenuto che sarebbero sufficienti i 14 anni. Una visione più elastica, e forse anche più coerente con l’ordinamento, è invece orientata nel senso di stabilire l’età che rende valido il consenso secondo le tipologie di reati, e quindi in rapporto ai fatti realizzati, dovendo di volta in volta stabilire se l’età del consenziente lo rendesse effettivamente consapevole l’espressione del con-senso scriminante.

Il consenso scriminante deve essere ‘effettivo’ e in questo senso accertato. L’efficacia del consenso si collega anche alle modalità di espressione del

consenso. Normalmente si ritiene che possano avere efficacia scriminante sia il consenso espresso sia il consenso tacito (per facta concludentia).

Più complesso è il problema del c.d. consenso presunto 37. Si tratta cioè di consenso in realtà ‘non-espresso’; tuttavia la situazione è tale che lascia arguire che, se il titolare fosse stato presente e avesse potuto esprimersi, avrebbe senz’altro acconsentito alla realizzazione del fatto. Versiamo an-che qui in ambito problematico.

Il profilo del consenso presunto si collega in particolare alla figura del-

37 Sull’argomento, cfr., MANNA, Considerazioni in tema di consenso presunto, in Giust. pen., 1984, II, 168, 231.

La ‘situazione’ scriminante del fatto di reato 15

la c.d. negotiorum gestio: in un’ipotesi in cui il titolare del bene è assente, occorrendo tuttavia un intervento a tutela del bene dell’assente. Con alcu-ni limiti possiamo concludere che in tal caso vi è accordo nel senso della rilevanza del consenso presunto.

Naturalmente il consenso per essere effettivo deve essere immune da vizi essenziali e deve essere informato. Vale a dire che il consenso può considerarsi validamente espresso, con efficacia scriminante, solo se si fondi su una corretta informazione circa le conseguenze del proprio consenso.

Il tema si fa particolarmente delicato quando si tratti di attività medico‐chirurgica, rispetto alla quale il consenso informato, quale adesione con-sapevole al trattamento del sanitario, costituisce, secondo quanto sancito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 438 del 2008, un «vero e proprio diritto della persona», che in sé sintetizza i diritti espressi in Co-stituzione agli artt. 2, 13 e 32: da un lato il diritto all’autodeterminazione della persona, dall’altro il diritto alla salute, diritto quest’ultimo che si e-sprime sia in forma positiva come diritto a ricevere cure, sia in forma ne-gativa come diritto a rifiutarle 38.

La mancanza di consenso potrebbe essere talvolta colmata (al di là del-la necessità medica, ove sussistente) risalendo alle dichiarazioni prestate dal paziente in epoca precedente. Ad esempio nel noto caso Englaro la Corte di cassazione civile ha assimilato al consenso effettivamente e con-cretamente fornito, quello ‘desumibile’ dalle precedenti dichiarazioni del paziente «ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dai suoi con-vincimenti» 39.

Problemi si pongono là dove debba considerarsi senz’altro mancante il consenso del paziente.

Allo stato attuale ove l’intervento terapeutico realizzato abbia esito fausto, con miglioramento dunque delle condizioni di salute del pazien-te, anche in assenza di consenso si escludono gli estremi sia delle lesioni colpose che della violenza privata, secondo le indicazioni della stessa Corte di Cassazione a Sezioni Unite (18 dicembre 2008, n. 2437) 40. Ma il

38 In materia cfr., RAMACCI, op. cit., 297 s. 39 Cfr., Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748. Al proposito, proprio per far fronte alla

problematica ipotesi in cui il paziente si trovi nelle condizioni di non poter esprimere un con-senso libero ed efficace, la recente proposta di legge recante “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” presentata alla Camera nel marzo 2017, prevede l’introduzione di “disposizioni anticipate di trattamento”, in cui la persona maggio-renne, capace di intendere e di valore, esprima le proprie convinzioni in materia di trattamen-ti sanitari, e dunque il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali.

40 In materia cfr., VIGANÒ, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e re-sponsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio?) delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2009, 1811.

16 Il fatto nella ‘situazione’ scriminante

dibattito rimane aperto (infra, Sez. VIII). Più problematico rimane il caso dell’esito infausto in cui non vi siano

elementi da cui desumere il consenso del paziente, o addirittura vi siano elementi per desumere una volontà in senso contrario all’intervento. Si tratta di stabilire in quali limiti, in tali ipotesi, si debba giungere ad un giudizio di rilevanza penale della condotta del medico 41. Sembra oppor-tuno che questi problemi specifici, inerenti al difetto di un consenso in-formato, siano propriamente trattati, unitariamente, nell’ottica della scri-minante tacita dell’attività terapeutica (infra, Sez. VIII).

Il consenso deve essere espresso attualmente, nel senso che deve riferir-si ad un certo fatto e al momento in cui esso si realizza. Il presupposto all’attualità impone di accertare se il consenso già espresso sia mantenuto o non sia invece revocato. Dopo la revoca non produrrebbe naturalmente più l’effetto scriminante.

Ulteriore presupposto da considerare è la conformità ai buoni costumi del consenso dell’avente diritto. Il presupposto deve essere considerato al-meno nelle ipotesi in cui il nostro ordinamento dia indicazioni specifiche. Abbiamo, ad esempio, visto che l’art. 5 c.c., vieta gli atti di disposizione del proprio corpo «quando siano altrimenti contrari al buon costume».

4. Considerazioni conclusive

Sinteticamente, la figura del consenso dell’avente diritto costituisce una causa di giustificazione fondata su una legittimazione dell’atto (po-tenzialmente reato) da parte della vittima; una legittimazione che ha per presupposto un diritto disponibile, da intendersi in senso ampio sì da comprendere ogni facoltà legittima riconosciuta dall’ordinamento.

Se, alla luce di quanto abbiamo considerato, ci chiedessimo quale sia in definitiva il senso della causa di giustificazione in analisi, potrebbe ap-parire che il diritto penale lasci – per così dire – alla vittima di decidere se l’autore del fatto debba essere punito o meno. In realtà occorre guardare più propriamente ai limiti in cui un bene sia tutelato. Un bene disponibile è tutelato penalmente nella misura in cui il soggetto ritenga una certa azione, per se stesso, realmente offensiva. Nel caso del consenso dell’a-vente diritto la (possibile) vittima esclude che il fatto di altri lo offenda. La sua valutazione del fatto è decisiva per il diritto penale.

41 Cfr., tuttavia una giurisprudenza di merito, Trib. di Torino, sez., GIP, 15 gennaio 2013, che in un interessante caso relativo alla emotrasfusione realizzata su un paziente te-stimone di Geova, nonostante la sua espressa volontà contraria, per escludere la responsa-bilità del medico ha invocato l’errore inevitabile sulla legge penale.