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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA, STORIA E CRITICA DEI SAPERI DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E DELLA MENTE - XXI CICLO SETTORE DISCIPINARE: M-FIL/05 PENSIERO SIMMETRICO E OPERAZIONI ENUNCIATIVE UNA LETTURA LINGUISTICA DELLA TEORIA PSICOANALITICA DI MATTE BLANCO Tesi: Dario Furnari Tutor: Prof. Paolo Virno Coordinatore: Prof. 1

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capitolo I

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Dipartimento di filosofia, storia e critica dei saperi

Dottorato di Ricerca in Filosofia del Linguaggio e della Mente - XXI Ciclo

Settore discipinare: M-Fil/05

pensiero simmetrico

e operazioni enunciative

una lettura linguistica

della teoria psicoanalitica di matte blanco

Tesi: Dario Furnari

Tutor: Prof. Paolo Virno

Coordinatore: Prof. Franco Lo Piparo

Anno Accademico 2010/2011

indice

introduzione

p. 4

capitolo I

Processi inconsci e operazioni della coscienzap. 10

1.1 La stratificazione dello psichico

p. 11

1.2 Sulla nozione di Bild

p. 26

1.3 La deformazione onirica

p. 40

capitolo II

Lo psichico a più dimensioni

p. 68

2.1 L’alterità stratigrafica dell’Inconscio

p. 69

2.2 Dall’inconscio non rimosso al principio di simmetriap. 82

2.3 Emozioni e processi di infinitizzazione

p. 93

2.4 Lo psichico come struttura polistratificata

p. 105

2.5 Spazio e mente

p. 110

capitolo III

Lo psichico è strutturato come un linguaggio?p. 126

3.1 Linguistica e psicoanalisi: linguaggio e inconscio

p. 127

3.2 L’attività di linguaggio: operazioni e rappresentazionip. 147

3.3 Il senso e l’intenzione enunciativa

come principi organizzatori del discorso

p. 156

3.4 La verbalizzazione:

quando la multidimensionalità psichica si dispiega

p. 164

3.5 La costruzione del senso enunciativo

p. 173

3.6 A guisa di conclusione

p. 197

riferimenti bibliografici

p. 205

Introduzione

Se si volesse restringere il campo visuale del presente lavoro a un unico nucleo tematico, questo potrebbe essere rintracciato nel problema della deformazione onirica analizzato da Freud nella Traumdeutung. Lo psicoanalista descrive la dinamica psichica umana come un incessante lavoro di trasformazione e deformazione, che risulta necessario nella misura in cui il desiderio umano non può per principio esprimersi direttamente nella sua nuda e cruda essenza: per venire alla luce nel territorio della coscienza, il contenuto latente dello psichico va incontro a una continua operazione di deformazione. Come le immagini riflesse nell’acqua, scrive Freud, le immagini oniriche sono deformate dal movimento.

Nella nostra ricerca ci proponiamo anzitutto di seguire la proposta teorica indicata dallo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco (Santiago del Cile, 3 ottobre 1908 – Roma, 11 gennaio 1995). La natura del lavoro onirico – chiave d’accesso privilegiata per studiare il sistema inconscio – non dipenderebbe tanto dal meccanismo della censura, indicato da Freud quale istanza fondamentale della strutturazione dello psichico, quanto da una serie di operazioni che possono essere pensate come uno scarto dimensionale tra l’inconscio e la coscienza. L’inconscio freudiano è una forma di pensiero che letteralmente si oppone all’ordine logico che regola il pensiero cosciente, violandone i principî fondamentali. Esso è caratterizzato dalla struttura di quell’esperienza desiderante che, per principio, non può accedere e manifestarsi interamente e, per così dire, senza compromessi alla coscienza, nella misura in cui corrisponde a una dimensione della mente umana non riducibile interamente a quella della coscienza. Con l’espressione «pensiero simmetrico», Matte Blanco indica la legge che sta a fondamento dello psichico, nella sua stratificazione dinamica. Si tratta di una legge alquanto singolare, visto che, come vedremo, sembra corrodere i contorni logici della natura umana, conducendo a una forma di essere, l’inconscio, assolutamente indifferenziato e indistinto.

Le folgoranti intuizioni di Freud e la ricerca di Matte Blanco, a cui dedichiamo la prima parte del lavoro, ci fanno intraprendere una sorta di discesa negli inferi della psiche. Beninteso: l’attenzione non va rivolta tanto al cosiddetto «inconscio rimosso», vale a dire alla qualità di essere inconscio propria di determinate rappresentazioni psichiche, quanto all’«inconscio strutturale», o «inconscio non rimosso». D’altronde, è questa realtà o modo d’essere la più grande scoperta freudiana. Il proposito sia di Freud, sia di Matte Blanco è scoprire la logica del sommerso e comprendere il comportamento per così dire abnorme delle strutture che esistono “oltre” la coscienza nel loro dispiegamento conscio.

I temi psicoanalitici affrontati nella prima parte della ricerca costituiscono il punto d’avvio della nostra riflessione, la base problematica a partire dalla quale porre l’interrogativo di fondo che anima il nostro lavoro e che suona pressappoco così: quale funzione svolgono le operazioni logico-cognitive e le risorse proprie del nostro linguaggio naturale nella complessa topologia dello psichico descritta da Freud e da Matte Blanco?

Prendere la parola per raccontare un vissuto, è un evento per così dire addizionale che semplicemente si giustappone sul vissuto raccontato, fornendogli l’abito materiale, il mezzo d’espressione, oppure rappresenta un’operazione decisiva per la sua stessa costituzione? E se accettiamo la seconda opzione, in che senso è da intendere? Per cercare una risposta, il nostro lavoro si propone di sposare una precisa epistemologia linguistica, relativa soprattutto ai lavori di Antoine Culioli, Stéphane Robert e Bernard Victorri, che modellizza l’attività di linguaggio come un’incessante lavoro di costruzione, integrazione e deformazione di una realtà strutturalmente non isomorfa alle configurazioni specifiche della linguisticità umana.

Prima di addentrarci nel vivo nell’argomentazione, sono opportune alcune precisazioni al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci relativi ai problemi che ci proponiamo di studiare. Va innanzitutto chiarito come il nostro proposito non sia individuare una semplice analogia tra il modo in cui le coppie inconscio-coscienza e pensiero-linguaggio per così dire funzionano. La posta in gioco del presente lavoro, semmai, è quella di leggere con il filtro epistemologico della teoria delle operazioni enunciative i problemi psicoanalitici affrontati nella prima parte della ricerca. Se è vero che è attraverso l’attività di parola che il paziente, nella dimensione dialogica che costruisce insieme all’analista, diventa cosciente dei propri vissuti; e se, di più, è la stessa attività di parola a plasmare e sostanziare quegli stessi vissuti rendendoli, dialetticamente, altri dal sé che li ha esperiti, allora l’interrogativo che non può essere evaso è: di che tipo di teoria del linguaggio abbiamo bisogno per rappresentare la singolare natura dello psichico descritta da Freud e Matte Blanco? Che tipo di relazione c’è tra l’atto di linguaggio e il vissuto psichico al quale il primo dona una forma verbale? Quali conseguenze implica il processo di verbalizzazione per la strutturazione dello psichico?

Tanto nei lavori di Matte Blanco, che impegnano la parte centrale della tesi, quanto nel lavoro scientifico della linguista Stéphane Robert, preso in considerazione nella parte finale, occorre la nozione di multidimensionalità. Ci sembra utile, già in questa sede, escludere una possibile argomentazione che può costruirsi a partire da questa stessa nozione. Uno degli obiettivi del presente lavoro è mostrare come l’attività di linguaggio sia generata, animata e, al limite, perturbata da una realtà soggiacente che costituisce uno spazio multidimensionale. Tuttavia, va precisato come non sia nostra intenzione descrivere tout court il rapporto pensiero-linguaggio nei termini di una relazione tra uno spazio multidimensionale (lo spazio del pensiero) e uno spazio lineare (lo spazio del linguaggio). Al contrario, riteniamo che tanto l’attività di pensiero, quanto l’attività di linguaggio possano essere descritte da modelli teorici che chiamino in causa la nozione di multidimensionalità. L’attività di parola traveste, per così dire, una multidimensionalità mai sopita. La “linearità” è solo un fenomeno di superficie o, meglio ancora, un “artefatto” della linguistica. Essa è il risultato di un’analisi che mette a fuoco solo una fase o un livello stratigrafico di un’attività che, al contrario, si caratterizza per un grado di complessità ben maggiore.

Dal vissuto alla parola c’è una relazione che, per così dire, va dal complesso al semplice? La verbalizzazione annulla l’intricata trama disegnata dai vissuti psichici? Tutto al contrario. A nostro avviso, ed è questo il nostro obiettivo primario, prendendo spunto dalle riflessioni freudiane e matteblanchiane, e indirizzando l’attenzione sul paradigma della teoria delle operazioni enunciative, è possibile costruire un modello epistemologicamente più adeguato a cogliere il fenomeno della deformazione psichica nella sua specificità e singolarità.

capitolo I

Processi inconsci

e operazioni della coscienza

1.1 La stratificazione dello psichico

Cosa dobbiamo intendere quando impieghiamo il termine stratificazione per riferirci alla realtà dello psichico e alla natura umana? La storia della stratigrafia è guidata dalla crescente volontà di esplorare e analizzare livelli sempre più profondi dell’esistenza umana. Con le parole di Andrea Carandini, la stratigrafia è un metodo tanto giovane quanto essenziale per chi voglia inoltrarsi con ordine nel mondo del sommerso per affrontarne senza esitazioni l’alterità. Gli archeologi lo hanno ereditato dai geologi e gli psicoanalisti, a loro volta, dagli archeologi: la conoscenza della terra è stata in tal senso madre di quella della psiche. Tuttavia, i rapporti tra archeologia e psicoanalisi restano oscuri, per cui vale la pena di continuare a riflettere su questo strano argomento.

Su cosa si fonda l’analogia tra il lavoro dell’archeologo e quello dello psicoanalista? Essa consiste nel fatto che in entrambi i casi si opera attraverso un insieme di processi basati sull’erogazione di un’energia contraria a quella che ha prodotto il seppellimento e finalizzati al ripristino di uno stato di cose preesistente che gode di uno statuto autonomo rispetto ai processi che lo ricostituiscono? È corretto porre la questione del rapporto tra archeologia e psicoanalisi in questi termini? Se così fosse, il lavoro dell’archeologo consisterebbe semplicemente nel riportare in luce quanto era sepolto nel sottosuolo, mentre quello dello psicoanalista nel sollevare la barriera della rimozione, resuscitando nei territori della coscienza rappresentazioni ed esperienze dai contorni ben definiti che vivono relegate nell’inconscio. Mentre il primo restaura monumenti, il secondo ravviva esperienze vissute. A ben guardare, però, tanto per lo psicoanalista, quanto per l’archeologo, le cose sono un po’ più complicate e la validità di questa affermazione va colta tanto rispetto all’archeologia e alla psicoanalisi intese come attività, quanto rispetto alle realtà che esse esplorano.

In Costruzioni nell’analisi, Freud indica quale compito dell’analista quello di scoprire o, meglio ancora, costruire il materiale dimenticato dal paziente a partire dalle tracce che di esso sono rimaste. Questo lavoro di ricostruzione, afferma Freud, rileva un’ampia concordanza con quello dell’archeologo che dissotterra una città sepolta e distrutta o un antico edificio. Proprio come l’archeologo ricostruisce un edificio dai suoi resti, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordi, dalle associazioni e dalle attive manifestazioni dell’analizzato. Come è noto, in psicoanalisi il termine «inconscio» assume almeno due sensi distinti. Freud indica nella città di Pompei il perfetto corrispettivo del cosiddetto «inconscio rimosso». La scelta di Pompei non è casuale. La città vesuviana non ha infatti subito una trasformazione stratigrafica, non è stata cioè compiutamente digerita dal tempo in direzione del disordine, come accade invece per gran parte degli insediamenti antichi, ma è stata solamente radiata dal paesaggio vesuviano in seguito all’eruzione che vi ha steso sopra una spessa coltre di lapilli. Pare che nulla o quasi si sia perso della città originale: le relazioni spaziali sono quasi intatte e noi possiamo girare per le sue vie quasi fuori dal tempo, proprio come accade fantasticando sulla vita trascorsa che emerge nel ricordo.

Nel caso di Pompei, l’ordine formale del sepolto è rimasto sostanzialmente inalterato rispetto a quello antecedente il suo temporaneo seppellimento. Tuttavia, finché si rimane in questa prospettiva dell’archeologia come attività di ripristino di una realtà autonoma a questa stessa attività, i conti con l’alterità del sommerso, e quindi con quel processo di stratificazione che tanto interessa il discorso psicoanalitico, non vengono affatto regolati. Le folgoranti intuizioni di Freud e la ricerca dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco permettono di intraprendere un percorso che rappresenta una sorta di discesa negli inferi della psiche. L’attenzione non va rivolta tanto al cosiddetto «inconscio rimosso», vale a dire alla qualità di essere inconscio propria di determinate rappresentazioni psichiche, quanto all’«inconscio strutturale», o «inconscio non rimosso». D’altronde, è questa realtà o modo d’essere la più grande scoperta freudiana. Il proposito sia di Freud, sia di Matte Blanco è scoprire la logica del sommerso e comprendere il comportamento abnorme delle strutture che esistono “oltre” la coscienza nel loro dispiegamento conscio.

Come verrà approfondito e chiarito meglio più avanti, Matte Blanco descrive l’inconscio come un insieme di «borse di indifferenziazione» avviluppate da «pellicole di differenziazione». Questa immagine, come fa notare il professore Carandini, richiama alla mente quella della stratificazione archeologica, dove gli strati, che sono per certi aspetti borse di omogeneità, si combinano con superfici, che sono pellicole di più intensa eterogeneità. Il paragone è suggestivo, ma potrebbe indurre in errore qualora subito non si mettesse in rilievo una differenza sostanziale, vale a dire che mentre nelle borse dell’inconscio regna una omogeneità assoluta, priva cioè di spazio-tempo come noi lo intendiamo, per cui le diverse parti sono al loro interno identiche fra loro e all’insieme che le contiene, nelle borse della stratificazione archeologica regna solo una omogeneità relativa, intrisa cioè ancora di spazio-tempo, per cui i reperti all’interno di uno strato sono per certi aspetti equivalenti ma mai identici fra loro: «il capitello e i rocchi di colonna che compongono uno strato di distruzione sono infatti equivalenti solo rispetto alla “funzione proposizionale” della stratigrafia e non rispetto a tutte le funzioni proposizionali possibili, quale ad esempio quella del restauro, ecc». Ma allora entro quali limiti l’analogia fra archeologia e psicoanalisi può considerarsi valida?

Per descrivere la natura dello psichico, non basta la distinzione radicale tra spazio-tempo e assenza di spazio-tempo. Al contrario, è richiesto un modello che possa dar conto della gradualità di condizioni tra questi due estremi, vale a dire del livello in cui un fenomeno psichico si attesta nello spettro che intercorre tra la forma e la non-forma, tra l’ordine e il caos assoluto.

Prendiamo un altro esempio e confrontiamolo con quello di Pompei. Immaginiamo che una biblioteca, a causa di un incendio, si trasformi in uno strato di cenere. Si tratterebbe di un’evenienza stratigrafica radicalmente diversa da quella costituita dalla città vesuviana. L’incendio ha trasformato l’identità discontinua della parola in un silenzio quasi ininterrotto. Nella trasformazione in cenere, un’enorme quantità di spazio segmentato e di tempo raccontato è andata perduta per lo sfumarsi irreversibile dei libri e del loro ordinamento. Tuttavia qualcosa è rimasto, uno strato di cenere che ha almeno una sua data e un suo limite. È rimasta una «borsa di indifferenziazione», un infinito intensivo che ci fa compiere una discesa nello spettro della morfogenesi, facendoci avvicinare al confine oltre il quale l’omogeneità da relativa tende a farsi assoluta. Lo strato di cenere può essere pensato come una reductio ad unum, vale a dire una contrazione e condensazione di una molteplicità ricchissima di funzioni proposizionali in una sola funzione. Lo scavatore ha il compito di scoprire anche la minima differenza, la più modesta traccia di spazio-tempo. Egli deve tradurre, con un processo contrario a quello dell’incendio, la cenere in scaffali e libri, ricostruendone l’organizzazione.

I poveri strati in cui si riduce l’illimitata varietà della vita vengono dunque considerati dall’archeologo non come impedimenti alla conoscenza, che bisogna rimuovere, ma come veicoli di comunicazione fra ciò che è stato e ciò che è ancora. La stratificazione, figlia della negazione della storia, appare così, almeno in potenza, come generatrice di storia sotto la forma della memoria.

Tra il modo in cui lo psichico umano si struttura e i modi costitutivi dell’ambiente materiale antropizzato è senza dubbio possibile instaurare un’analogia. Tuttavia, in entrambi i casi corre l’obbligo di cogliere l’essenza peculiare del sommerso. Gli storici, precisa sempre Carandini, si sono invece occupati sinora piuttosto dell’emergente e del sommerso rimosso (come nel raro caso di Pompei) che del sommerso strutturale (come nel caso abituale della biblioteca di Alessandria). Analogamente, gli psicoanalisti si sono occupati più della coscienza e dell’inconscio rimosso che dell’inconscio non-rimosso. «La plurispazialità e atemporalità di alcune funzioni della psiche è stata così ridotta all’immagine tridimensionale della terra antropizzata: sopra la storia che si costruisce e sotto la storia che va disfandosi o è già destrutturata».

A tal proposito, Matte Blanco parla di una sorta di rimozione, nel pensiero psicoanalitico, della scoperta dell’inconscio. Questa è stata «rimpiazzata da razionalizzazioni elegantemente costruite, che possono essere descritte in termini di spazio materiale e di energia ma che coprono la sottostante realtà dell’inconscio, “la vera realtà psichica”». Allora, se Freud esprimeva la perplessità provata dagli psicoanalisti quando si muovevano negli strati più superficiali dello psichico, abituati all’atmosfera dei bassifondi, adesso, denuncia Matte Blanco, la situazione si è capovolta:

Non solo quelli che coltivano la cosiddetta psicologia dell’Io sembrano sentirsi molto più a loro agio negli “strati più elevati”, ma anche quelli che trattano con “materiale profondo” come le prime relazioni del bambino con la madre, usualmente trattano questo materiale come se fosse regolato dalle leggi del preconscio […].

È una riflessione dello stesso Freud che permette di circoscrivere e precisare il senso dell’analogia tra il lavoro dell’archeologo e quello dello psicoanalista oltre che il valore e la pregnanza della nozione di stratificazione quale modello per descrivere lo psichico. Ne Il disagio della civiltà, il padre della psicoanalisi pone l’attenzione sul «problema della conservazione entro lo psichico» ed enuncia l’ipotesi che nella vita psichica nulla possa perire una volta formatosi: tutto in qualche modo si conserva e, in circostanze opportune, può essere riportato alla luce. Per chiarire il contenuto dell’ipotesi, Freud ricorre a un paragone che vale la pena di leggere nella sua interezza.

Prendiamo come esempio l’evoluzione della Città Eterna. Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino. Seguì la fase del Septimontium, una federazione degli insediamenti sui diversi colli, poi la città delimitata dalle mura serviane e, più tardi ancora, dopo tutte le trasformazioni del periodo repubblicano e del primo periodo imperiale, la città che l’imperatore Aureliano recinse con le mura. Non vogliamo considerare ulteriormente le trasformazioni dell’Urbe; domandiamoci che cosa possa ancora trovare nella Roma odierna, di tali stadi precedenti, un visitatore che supponiamo dotato di vastissime conoscenze storiche e topografiche. Salvo poche interruzioni, vedrà quasi immutate le mura aureliane. In alcuni luoghi potrà trovare tratti delle mura serviane portate alla luce dagli scavi. Se ne saprà abbastanza – più che l’archeologia contemporanea – potrà forse tracciare sulla pianta della città l’intero percorso di tali mura e il perimetro della Roma quadrata. Degli edifici inclusi un tempo in questa antica cornice non troverà nulla, o soltanto scarsi resti; non esistono più, infatti. Il massimo che un’ottima conoscenza della Roma repubblicana potrebbe consentirgli sarebbe di sapere indicare i luoghi dove sorgevano i templi e gli edifici pubblici di quel periodo. Ciò che oggi occupa questi luoghi sono rovine; non si tratta tuttavia delle rovine di tali edifici medesimi, bensì di quelle di loro rifacimenti posteriori dopo incendi e distruzioni. Non c’è bisogno di ricordare che tutti questi resti dell’antica Roma sono disseminati nell’intrico di una grande città sorta negli ultimi secoli, dal Rinascimento in poi. Qualcosa di antico è senza dubbio tuttora sepolto nel suolo della città o sotto i suoi fabbricati moderni. Questo è il modo in cui la conoscenza del passato ci si presenta in luoghi storici come Roma.

A partire da questo problema, Freud avanza una «ipotesi fantastica» e immagina che Roma non sia un abitato umano, ma una sorta di realtà psichica dal passato altrettanto lungo e ricco, una realtà in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti:

nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse essere demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus aurea di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci viene lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; sí, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore.

Si tratterebbe di una realtà eterna, nel senso letterale di questa espressione; una realtà che, per dirla con M. Foucault, scombussolerebbe tutte le familiarità del nostro pensiero, sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che ci rassicurano nei confronti del rigoglio degli esseri, «facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro». È l’alterità del sommerso di cui sopra a creare questo effetto di straniamento. Continua Freud:

Il nostro tentativo […] ci mostra quanto siamo lontani dal padroneggiare le peculiarità della vita psichica attraverso una raffigurazione intuitiva. […] Ci può venir domandato perché abbiamo scelto il passato di una città per paragonarlo a quello psichico. […] Rinunciando a un vivace effetto di contrasto, volgiamoci a un oggetto di confronto più consono, com’è il corpo di un animale o di un essere umano. Ma anche qui troviamo la stessa cosa. Le fasi anteriori dello sviluppo non sono più conservate in nessun senso […]. Resta quindi assodato che soltanto nello psichico è possibile una tale conservazione di tutti gli stadi anteriori accanto alla strutturazione finale, e che non siamo in grado di raffigurare questo fenomeno in termini visivi. Forse portiamo questa ipotesi troppo innanzi. Forse dovremmo accontentarci di asserire che nella vita psichica il passato può essere conservato e non necessariamente va distrutto. È pur possibile che – di norma o eccezionalmente – anche nell’ambito psichico qualcosa di ciò che è antico venga cancellato o assorbito al punto da non poter più con alcun mezzo essere restaurato o richiamato in vita, o che, in generale, la conservazione dipenda da certe condizioni favorevoli. È possibile, ma non ne sappiamo nulla. Possiamo soltanto ribadire che nella vita psichica la conservazione del passato è la regola più che sorprendente eccezione.

Mentre il passato delle realtà naturali e dei luoghi in cui si edificano le società umane tende a scomparire, nella psiche ciò che è primitivo si conserva e coesiste a fianco o, meglio ancora, insieme a quanto, frutto di una continua attività di trasformazione, ha radicalmente mutato aspetto. Qualcosa di analogo a quanto avviene nella psiche, osserva Carandini, può osservarsi forse in talune istituzioni religiose e sociali, dove nuove forme si sovrappongono sulle precedenti modificandole solo in maniera lentissima. Tuttavia, non è stato ancora stabilito con precisione quale somiglianza possa esistere tra lo psichico e gli strati di un insediamento umano.

Nello stesso luogo di una città, osserva Freud, possiamo avere più rifacimenti dello stesso edificio, sovrapposizioni e sostituzioni di edifici anche completamente diversi. Questo avviene in un complicato intrico di resti che necessariamente devono sovrapporsi in uno stesso luogo: il medesimo spazio non può accogliere due o più edifici diversi. Nell’evoluzione di una città, la distruzione di sue parti più o meno vaste è inevitabile. La città divora se stessa: costretti entro le tre dimensioni spaziali, gli abitanti di una città sono costretti a distruggere in un punto, salvare in un altro, riusare in una altro ancora e costruire ex novo in determinate circostanze. Lo psichico è invece dotato di proprietà atemporali e iperspaziali che permettono un’ampia conservazione degli stadi anteriori che continuano a vivere insieme alla strutturazione finale. D’altra parte, anche l’organizzazione materiale di una città conosce straordinarie permanenze.

Nelle permanenze dell’impianto urbanistico, nei riusi mai interrotti […] si ha l’impressione che il tempo e lo spazio, pur nei compromessi dovuti alla inevitabile tridimensionalità della realtà spaziale esterna, si siano conservati meglio che altrove, dove diverse successive realtà sono state quasi del tutto obliterate. In questo riuso continuo, in questa capacità di uno strato di trasmettere a quello che gli si sovrappone il messaggio: «muta il meno che puoi e imita me stesso», siamo in grado di cogliere, a un livello povero, ciò che con ricchezza infinitamente maggiore riesce a compiere la psiche.

Ma anche lo psichico è costretto a scendere a compromessi, per così dire, tridimensionali. I processi che formano la natura umana, infatti, non giacciono inerti, intrappolati all’interno di un unico dominio, ma subiscono continue trasformazioni basate su qualcosa che, seguendo l’idea di Matte Blanco, verrà indicato più avanti come uno «scarto dimensionale». Tra le attività che costituiscono la natura umana identificandola nella sua specie-specificità, è il sognare, via regia per accedere all’inconscio, che mostra con più forza la specifica logica dello psichico e i compromessi cui necessariamente deve piegarsi.

1.2 Sulla nozione di Bild

Per affrontare lo studio della dimensione onirica umana è opportuno partire da alcune definizioni minime. Una prima descrizione di cosa sia il sognare la possiamo trovare nel De Insomniis di Aristotele:

Chiamiamo ‘sogno’ l’immagine mentale [fántasma] durante il sonno, sia essa prodotta in senso assoluto o in un determinato modo.

Alla base del vivere animale c’è un intreccio inestricabile di sensazione (aisthesis), desiderio (orexis o epithymia) e immaginazione (phantasia). «‘Sensazione’, nella filosofia aristotelica, non è solo dispositivo di risposta e riconoscimento di stimoli provenienti dal mondo esterno. […] ‘Sensazione’ per Aristotele vuol dire anzitutto sentire piacere e dolore». Detto altrimenti, la sensazione animale dell’acqua è indissolubilmente associata alla sensazione di piacere arrecata dal bere acqua quando si ha sete. La sensibilità implica il desiderio. Ma perché ci sia desiderio, è necessario che l’animale che desidera sia capace di rappresentarsi l’oggetto desiderato. «La grammatica naturale del desiderio comporta la trasformazione della sensazione in immaginazione […]. Il sognare è il modo in cui si manifesta nel sonno l’intreccio bio-cognitivo di sensazione, desiderio e phantasia».

Le riflessioni di Freud si trovano perfettamente in sintonia con il nucleo fondamentale della definizione aristotelica:

È piuttosto nostro dovere mettere in rilievo ciò che è essenziale nel sogno. […] Ebbene, il primo tratto comune a tutti i sogni potrebbe essere il fatto che nel sognare dormiamo. Il sogno costituisce evidentemente la vita della psiche durante il sonno, vita che ha certe somiglianze con quella della veglia e che d’altra parte se ne discosta per grandi differenze.

Esiste un altro tratto comune? […] Nel sogno si sperimentano ogni sorta di fatti, e ad essi si crede […]. Prevalentemente si vive il sogno in immagini visive; possono esservi anche sentimenti, qua e là anche pensieri; anche gli altri sensi possono esperire qualcosa, ma in prevalenza si tratta di immagini.

l’esperienza vissuta nel sogno è solo un modo diverso di immaginare […].

Le definizioni di Aristotele e Freud concordano nel ritenere come il sognare richieda due condizioni minime: il dormire e la capacità di generare rappresentazioni o immagini mentali. Viene da sé, allora, l’idea che per analizzare la dimensione onirica umana sia non solo legittimo, ma quasi necessario partire da una riflessione preliminare sulle nozioni di immagine (in tedesco Bild) e di rappresentazione (in tedesco Vorstellung/Darstellung). In un articolo del 1998, F. Lo Piparo suggerisce l’idea che per comprendere nella loro pregnanza filosofico-linguistica tali nozioni, sia illuminante far riferimento alle matematiche.

Che cosa è, ad esempio, una funzione matematica? Dati due insiemi non vuoti S e T, si chiama funzione o applicazione f di S in T (f: S ( T) la regola che associa ad un elemento x di S un elemento y di T. In altri termini, la regola f, se applicata a x, ha come risultato y. Possiamo definire “y = f(x)” immagine di x secondo f. È importante rilevare come y sia immagine di x non incondizionatamente, ma rispetto alla regola f. In matematica, allora, chiamiamo immagine il valore di una funzione. La conclusione di questo ragionamento è che perché qualcosa sia immagine di qualcos’altro è necessario fare riferimento a una funzione o regola generale che governi la relazione di corrispondenza tra due insiemi o universi. L’immagine è il risultato dell’applicazione di una regola: non c’è immagine senza regola. A mo’ di corollario di questa conclusione, va rilevato come se si cambiasse funzione, cambierebbe la stessa relazione di immagine.

Altro esempio suggerito da Lo Piparo per precisare meglio la nozione matematica di immagine, è quello della geometria analitica. Essa, infatti, studia le regole che governano le relazioni di immagine tra particolari espressioni algebriche da un lato, e punti, linee e figure dall’altro. Una determinata figura geometrica ha come immagine un valore numerico. Un aspetto della geometria analitica particolarmente interessante per la riflessione filosofico-linguistica è che in essa si mostra come possa esserci una relazioni di immagine anche tra realtà eterogenee come espressioni algebriche e figure geometriche. La verbalizzazione che un analizzato compie di un proprio sogno potrebbe inserirsi in un analogo schema interpretativo.

Un’altra disciplina matematica in cui la nozione di immagine svolge un ruolo centrale è la geometria proiettiva. Dato un determinato metodo di proiezione, è possibile proiettare una data figura giacente su un piano in un altro piano. È rilevante il fatto che nelle trasformazioni proiettive di una data figura alcune sue caratteristiche mutano, altre rimangono invariate in tutte le sue immagini. Rileva Lo Piparo: è l’invarianza regolata che consente di asserire che qualcosa è immagine di qualcos’altro o che qualcosa è simile a qualcos’altro.

Spostandoci dall’uso specifico delle matematiche a quello del linguaggio ordinario, le nozioni di immagine e rappresentazione mostrano un valore analogo. Quando affermiamo che “Questo quadro rappresenta la tristezza umana”, o che “Questo film rappresenta la decadenza morale di fine secolo”, non stiamo sostenendo nient’altro che l’idea secondo cui un tal quadro o un tal film sono la proiezione della tristezza e della decadenza in due dimensioni diverse, pittorica in un caso, filmica nell’altro, ma collegate alla tristezza e alla decadenza sulla base di determinate regole.

Se c’è un autore che ha dedicato alle nozioni di immagine (Bild) e rappresentazione (Vorstellung, Darstellung) un’attenzione privilegiata, questi è con pochi dubbi Wittgenstein. Le due nozioni costituiscono uno dei fili rossi che attraversano le composite riflessioni del filosofo austriaco. In primo luogo, però, è indispensabile una precisazione terminologica. Nel lessico wittgensteiniano, il termine Vorstellung traduce immagine o rappresentazione mentale intese in senso soggettivo e privato; il termine Darstellung, invece, traduce rappresentazione nel senso di immagine di qualcosa che, realizzandosi nell’esteriorità materiale e visibile di un mezzo, come può essere un gesto, un disegno o un enunciato, vive necessariamente in una dimensione pubblica; Bild, infine, è il termine generale che traduce una qualsiasi rappresentazione, non solamente visiva, governata da una regola pubblica e reiterabile.

Il Tractatus Logico-Philosophicus affida alla nozione di Bild il ruolo di mostrare come la cognizioni umana sia di natura linguistica e, allo stesso tempo, argomenta attraverso questa stessa nozione come linguaggio, pensiero e mondo si rispecchino tra loro deformandosi reciprocamente.

2.1 Noi ci facciamo immagini [Bilder] dei fatti.

2.12 L’immagine è un modello della realtà.

Wittgenstein deve primariamente la sua nozione di immagine al fisico tedesco Heinrich R. Hertz, il quale, nell’Introduzione ai suoi Prinzipien der Mechanik, rileva come alla base del processo per cui noi ci formiamo immagini o simboli degli oggetti esterni stia quello che può essere definito il criterio della somiglianza strutturale delle conseguenze logiche: le conseguenze, necessarie secondo ragione, delle immagini sono comunque, a loro volta, immagini delle conseguenze degli oggetti rappresentati. Il criterio di somiglianza strutturale è un criterio esterno, vale a dire non privato, pubblico e, pertanto, non dipendente dall’attività psicologistica di chi si forma l’immagine. Questi argomenti rilevano una fortissima consonanza con quanto sostiene Wittgenstein nel Tractatus: se il criterio di proiezione o rappresentazione di un’immagine è corretto, allora le conseguenze logicamente necessarie di tale immagine devono darsi in qualche maniera.

4.024 Comprendere una proposizione è sapere cosa accade se essa è vera. (Dunque, una proposizione la si comprende senza sapere se essa è vera).

Una delle tesi più forti del Tractatus è l’idea secondo cui la proposizione [Satz] sia un’immagine o, il che è lo stesso, un modello della realtà quale noi la pensiamo. Una proposizione, afferma Wittgenstein, deve possedere la stessa «molteplicità logica» della situazione che rappresenta. Il paragrafo 4.04 del Tractatus fa esplicito riferimento alla nozione di «modello dinamico» contenuta nei Prinzipien der Mechanik:

Un sistema materiale è detto modello dinamico di un secondo sistema, se le connessioni del primo si possono rappresentare mediante coordinate tali da soddisfare le seguenti condizioni:

1) Il numero delle coordinate del primo sistema è uguale al numero delle coordinate del secondo.

2) Con un opportuno riordinamento delle coordinate, sussistono le stesse equazioni di condizione per entrambi i sistemi.

3) Con tale riordinamento delle coordinate, l’espressione del modulo di uno spostamento coincide per entrambi i sistemi.

Il termine «coordinate» non indica nient’altro che le grandezze o gradi di libertà necessari per la descrizioni di un sistema dato. Nel testo già citato, Carapezza rileva come la nozione di «molteplicità logica» cui fa riferimento Wittgenstein sia strettamente imparentata con quella di «gradi di libertà» hertziana. Un modello è adeguato alla descrizione di un sistema dato se, e solo se, ne condivide la molteplicità logica. Va rilevato come qui non sia richiesta una relazione di isomorfismo tra fatto e immagine, ma di omomorfismo. In altri termini, non è richiesto che i due sistemi abbiano strutture equipotenti, strutture nelle quali ad ogni elemento dell’uno corrisponda un elemento dell’altro, ma che possiedano la stessa molteplicità logica.

Per chiarire meglio i concetti di isomorfismo e omomorfismo, torniamo all’esempio delle funzioni matematiche. Abbiamo visto che si può definire una funzione f come una regola di corrispondenza tra due insiemi non vuoti, X e Y, che sono, rispettivamente, il dominio e il codominio di f. A seconda del tipo di corrispondenza esistente tra X e Y, diremo che la funzione f è:

1. suriettiva se ogni elemento di Y è immagine di almeno un elemento di X;

2. iniettiva se ogni elemento di X ha una sola immagine in Y;

3. biettiva o biunivoca se ogni elemento di Y è immagine di uno e un solo elemento di X.

Ora, una proprietà tipica delle funzioni biunivoche è il loro essere invertibili: a ogni funzione biunivoca f, corrisponde sempre una funzione inversa f-1 che scambia tra loro il dominio e il co-dominio di f. Questo implica che per ogni trasformazione biunivoca di un dominio di elementi esiste, in linea di principio, una trasformazione inversa che, per così dire, compensa la prima restituendo gli elementi di partenza.

In algebra astratta, un omomorfismo è un’applicazione tra due strutture algebriche dello stesso tipo che conserva le operazioni in esse definite. In altri termini, due strutture si dicono omomorfe se i loro elementi sono in relazione tale che se n elementi della prima struttura hanno una certa relazione tra loro, i loro corrispondenti nella seconda struttura avranno una relazione corrispondente. A differenza del caso dell’isomorfismo, una trasformazione omomorfa non conserva il numero degli elementi dell’insieme. Pertanto, date due strutture che stanno in relazione omomorfa tra loro, non può darsi una funzione inversa f-1 che, per così dire, restituisce gli elementi di partenza.

Un esempio emblematico di trasformazione omomorfica è quello della proiezione. Ancora una volta, il Tractatus e, più in generale, la riflessione di Wittgenstein, risultano illuminanti per chiarire questo passaggio argomentativo. In Some Remarks on Logical Form, leggiamo:

Immaginiamo due piani paralleli: I e II. Su piano I sono tracciate delle figure (poniamo ellissi e rettangoli, di forme differenti), ed il nostro compito è produrre immagini di tali figure sul piano II. A questo fine, noi possiamo concepire (tra l’altro) due differenti metodi. Noi (ecco il primo metodo) possiamo stabilire una legge di proiezione (ad esempio la legge di proiezione ortogonale, o una qualsiasi altra legge) e poi procedere a proiettare (secondo questa legge) tutte le figure di I su II. Ma noi potremmo anche (ecco il secondo metodo) stabilire la regola che ogni ellisse sul piano I deve apparire sul piano II come un cerchio, e che ogni rettangolo sul piano I deve, sul piano II, apparire come un quadrato. […] Naturalmente, da queste immagini non è immediatamente inferibile la forma esatta delle figure originarie del piano I. Ciò che da esse possiamo inferire è solo che l’originale era un ellisse o un rettangolo. Per ottenere, in un caso singolo, la forma precisa dell’originale, noi dovremmo conoscere il particolare metodo con il quale, ad esempio, una certa ellisse è proiettata nel cerchio che io ho davanti a me. Le cose stanno in termini perfettamente analoghi nel caso del linguaggio comune.

Moore ricorda come per spiegare la nozione di Bild, nelle lezioni degli anni 1930-33, Wittgenstein facesse ricorso alla nozione di proiezione. L’argomentazione wittgensteiniana insiste su un aspetto centrale di questa nozione: ogni proiezione deve avere qualcosa in comune con il proiettato. In tal senso, Wittgenstein estende il concetto dell’“avere in comune” e lo rende equivalente a quello di proiezione. L’obiettivo del continuo riferimento alla geometri proiettiva è quello di mostrare la specificità del livello di rappresentazione linguistica.

L’aspetto rilevante delle proiezioni che va qui messo in evidenza è il principio secondo cui una proiezione si fonda sulla somiglianza strutturale tra l’oggetto da trasformare e l’oggetto trasformato. In una trasformazione omomorfica c’è qualcosa che non muta ed è in virtù di questo qualcosa, definito dai matematici invariante, che è possibile riconoscere come tale la trasformazione. Come detto prima, è l’invarianza regolata che consente di asserire che qualcosa è immagine di qualcos’altro o che qualcosa è simile a qualcos’altro.

La relazione che sussiste tra linguaggio e mondo o, con una terminologia meno metafisica, tra proposizioni e fatti, è, secondo Wittgenstein, di natura omomorfica. L’immagine è come un metro apposto alla realtà. La proposizione (Satz), in quanto immagine, si comporta come un regolo di misurazione (Maßstab). Ma quale è il fondamento teorico della similitudine tra le nozioni di immagine e quella di regolo di misurazione?

Come rileva Lo Piparo, misurare qualcosa (dirne la lunghezza, il peso etc.) equivale a fornirne una particolare rappresentazione o immagine mediante una determinata grammatica logico-linguistica chiamata metro o sistema di misura. Prendiamo il caso dei numeri interi. Con questo specifico sistema metrico possiamo misurare oggetti di diversa natura, come ad esempio il numero di torte presenti in una pasticceria, e stabilire se sul tavolo X ci sono più torte che nel tavolo Y. Se dividiamo una torta in più parti, però, col sistema metrico dei numeri interi non possiamo dire-misurare quanto la parte di torta mangiata dall’individuo x è maggiore o minore della parte mangiata dall’individuo y: non possiamo confrontare i due fatti. Perché il rapporto tra le quantità di torta mangiate dai due individui possa essere detto-misurato, è necessario disporre di un sistema di misura capace di rappresentare, vale a dire fornire immagini, gli infiniti eventi che accadono tra due qualsiasi numeri interi.

Prendiamo un altro esempio. Il fatto che “radice quadrata di 2” non abbia soluzioni (immagini) nell’insieme infinito dei numeri interi e razionali, ha fatto entrare in crisi i matematici-filosofi della Grecia classica. Questi, pertanto, dovettero formulare per la prima volta nella storia la nozione di indicibile (álogon): alcuni fatti del mondo, per principio, non possono essere detti. Per dire la misura del rapporto numerico tra diagonale e lato del quadrato è stato necessario trovare una grammatica capace di generare numeri con infiniti decimali, i cosiddetti numeri irrazionali. Il confine che separa dicibile e indicibile non è statico, ma impegna di continuo le nostre menti.

In un senso analogo, la psicoanalisi può essere pensata come il tentativo di ricercare un sistema di misura capace di rappresentare una realtà che, prima di Freud, non era ancora stata scoperta e, pertanto, nemmeno lessicalizzata. Con una terminologia forse ambigua, questa realtà, o per dirla con Matte Blanco “modo d’essere”, viene definita dallo stesso Freud inconscio. Inoltre, la nozione di Bild costituisce uno strumento euristico per leggere la peculiare logica dell’inconscio. Lo psichico, come si diceva a inizio paragrafo, è infatti di natura immaginifica. Rimane da capire in quale senso peculiare e specifico, se esiste, esso lo sia.

1.3 La deformazione onirica

La ricerca psicoanalitica è volta a scoprire la logica del sommerso e comprendere il comportamento abnorme delle strutture che esistono “oltre” la coscienza nel loro dispiegamento conscio. In questa operazione di disvelamento, l’attività di linguaggio svolge un ruolo decisivo. È di questo avviso a esempio E. Benveniste, quando afferma che il tratto distintivo che differenzia la psicoanalisi da ogni altra disciplina è il fatto che la relazione tra l’analista e il paziente si svolge interamente su un piano linguistico:

l’analista opera su ciò che il soggetto gli dice. Lo studia nei discorsi che quest’ultimo fa, lo esamina nel suo comportamento locutorio, “fabulatorio”, e attraverso questi discorsi per lui si configura lentamente un altro discorso che dovrà esplicitare, quello del complesso sepolto nell’inconscio. […] Dal paziente all’analista e dall’analista al paziente, l’intero processo psicoanalitico si attua quindi per il tramite del linguaggio.

Non è per ritrovare un fatto empirico, registrato solo nella memoria del paziente, che l’analista ha bisogno che il paziente gli racconti tutto […], ma perché gli avvenimenti empirici per l’analista non hanno realtà se non nel e per il “discorso” che conferisce loro l’autenticità dell’esperienza, a prescindere dalla loro realtà storica, e anche (o meglio, soprattutto) se il discorso elude, traspone o inventa la biografia che il soggetto gli attribuisce. […] La dimensione costitutiva di questa biografia è il suo essere verbalizzata e quindi assunta da chi vi si descrive; la sua espressione è quella del linguaggio; il rapporto tra analista e soggetto, quello del dialogo.

L’analista deve prestare attenzione tanto al contenuto del discorso del paziente, quanto alle “fratture” di questo stesso discorso. Di fronte ai contenuti verbali che gli offre il paziente, l’analista deve ricostruire un contenuto nuovo, il contenuto della motivazione inconscia che deriva dal complesso sepolto dell’«inconscio». Al di là del simbolismo inerente al linguaggio, pertanto, l’analista coglie un simbolismo specifico che si costituisce, all’insaputa del soggetto, tanto da ciò che omette, quanto da ciò che espone. Per l’analista, allora, il discorso funziona come «mediatore di un altro “linguaggio”, che ha le sue regole, i suoi simboli e la sua “sintassi”, e che rinvia alle strutture profonde dello psichico». Lasciamo momentaneamente in sospeso, per riprenderla più avanti, la necessità di sviluppare meglio l’argomento suggerito da Benveniste sul ruolo dell’attività di linguaggio nell’organizzazione dei processi psichici. Quali sono le regole, i simboli e la sintassi che costituiscono il linguaggio delle strutture profonde dello psichico?

Le ricerche di Freud mostrano come la dinamica psichica umana funzioni in virtù di continue e necessarie deformazioni della materia che costituisce il contenuto latente di questa stessa dinamica. È illuminante, in tal senso, l’interrogativo che il padre della psicoanalisi pone a fondamento della sua analisi del sogno quale «via regia per la conoscenza dell’inconscio». Come è noto, la teoria di Freud si fonda sulla tesi secondo cui il sogno costituisce l’appagamento del desiderio che muove l’agire umano. «Non so che cosa sognino gli animali. Un proverbio, riferitomi da uno dei miei ascoltatori, afferma di saperlo perché alla domanda: “Che cosa sogna l’oca?” dà la risposta: “Il granoturco”. Tutta la teoria del sogno come appagamento di desiderio è contenuta in queste parole».

Il sogno non è paragonabile al suono discordante di uno strumento musicale, percosso da un tocco estraneo anziché dalla mano di un suonatore; non è privo di senso, non è assurdo […]. Il sogno è un fenomeno psichico pienamente valido e precisamente l’appagamento di un desiderio; va inserito nel contesto delle azioni psichiche della veglia […]. Ma, nell’attimo stesso in cui intendiamo godere della nuova conoscenza, siamo assaliti da una folla di domande. Se il sogno, secondo quanto risulta dall’interpretazione, rappresenta un desiderio appagato, da dove viene la forma bizzarra e sorprendente in cui si esprime questo appagamento? Quale mutamento hanno subito i pensieri del sogno, prima che da essi si formasse il sogno manifesto che ricordiamo al risveglio? Come avviene questo mutamento? Donde proviene il materiale che è stato elaborato in forma di sogno? Donde provengono alcune delle particolarità che abbiamo riscontrato nei pensieri del sogno, come per esempio la possibilità di reciproca contraddizione?

Perché il sogno non dice direttamente ciò che significa? […] Se il fatto che il sogno esige una spiegazione lo definiamo fenomeno della deformazione del sogno, si pone allora anche il secondo problema: donde proviene questa deformazione?

Al cuore stesso della psicoanalisi freudiana sta il problema del desiderio e del suo “destino psichico”. Per venire alla luce nel “territorio della coscienza”, il «contenuto latente» della dinamica psichica va incontro a una continua operazione di «deformazione» che è necessaria nella misura in cui il desiderio umano non può per principio esprimersi direttamente nella sua nuda e cruda “essenza”. Questo movimento deformante si mostra con evidenza nel lavoro onirico: come le immagini riflesse nell’acqua, scrive Freud, le immagini oniriche sono deformate dal movimento.

La «deformazione onirica» di cui parla Freud non è altro che un processo di traduzione del «desiderio latente» in «contenuto manifesto». Essa può servire come mezzo di dissimulazione: la tendenza alla difesa contro un desiderio difficile da accettare porta alla sua deformazione; pertanto, l’appagamento di desiderio diviene irriconoscibile in quanto travestito, dissimulato. In questa concezione un ruolo centrale gioca il cosiddetto meccanismo della «censura» esposto da Freud con l’ausilio di due illuminanti analogie. La prima è quella dello scrittore politico che deve comunicare spiacevoli verità a chi detiene il potere: lo scrittore è costretto a temere la censura e, pertanto, modera e deforma l’espressione delle proprie opinioni, non può che parlare per allusioni e celare il suo messaggio scandaloso dietro una maschera apparentemente innocua. La seconda analogia è quella instaurata tra la deformazione onirica e i mezzi impiegati dalla censura postale per espungere i passi che le appaiono scandalosi. «La censura postale li rende illeggibili cassandoli con una riga nera; la censura del sogno li sostituisce con un borbottio incomprensibile».

A questo punto della sua argomentazione, Freud suppone come alla base della strutturazione del sogno ci siano «due forze [istanze] psichiche (correnti, sistemi), una delle quali plasma il desiderio espresso dal sogno, mentre l’altra esercita una censura su questo desiderio, provocando necessariamente una deformazione della sua espressione». A partire dall’individuazione di queste due istanze, poi, formula una precisa teoria su cosa debba intendersi per «coscienza» o, meglio, per «diventar cosciente». Leggiamo il passo:

Nulla giungerebbe alla coscienza del primo sistema che non sia passato prima attraverso la seconda istanza, mentre quest’ultima nulla lascerebbe passare senza esercitare i suoi diritti e imporre all’elemento che vuole entrare nella coscienza i mutamenti che le sono più graditi. Riveliamo con ciò una ben determinata concezione dell’“essenza” della coscienza; il diventar cosciente è per noi un particolare atto psichico, diverso e indipendente dal processo del porre e del rappresentare, e la coscienza ci appare come un organo di senso che percepisce un contenuto che si dà altrove. […] A questo punto forse incominciamo a intuire che l’interpretazione del sogno è in grado di fornirci chiarimenti sulla struttura del nostro apparato psichico, che finora abbiamo atteso invano dalla filosofia. […] [O]gni singolo sogno sorge dalla prima istanza, mentre la seconda ha soltanto una funzione di difesa, non creativa, rispetto al sogno. Se ci limitassimo a considerare il contributo onirico della seconda istanza, non riusciremmo mai a comprendere il sogno.

Una delle acquisizioni teoriche più innovative e cariche di risvolti epistemologici dell’interpretazione freudiana del sogno consiste nella tesi secondo cui «fra il contenuto del sogno e i risultati della nostra osservazione si inserisce un nuovo materiale psichico: il contenuto latente o pensieri del sogno, ottenuto per mezzo dei nostri procedimenti. Da questo contenuto, e non da quello manifesto, siamo venuti sviluppando la soluzione del sogno» . Il lavoro onirico comporta la deformazione dei «pensieri del sogno» nel «contenuto onirico manifesto». Ora, dice Freud, il compito fondamentale di una feconda teoria del sogno consiste nel comprendere le modalità di tale deformazione e la natura della relazione tra i due piani, vale a dire tra i pensieri del sogno e il contenuto manifesto.

Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione. […] Il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno. Si cadrebbe evidentemente in errore, se si volesse leggere questi segni secondo il loro valore di immagini, anziché secondo la loro relazione simbolica. Per esempio, ho davanti a me un indovinello a figure (rebus): una casa sul cui tetto si vede una barca, poi una singola lettera dell’alfabeto, poi una figura che corre, con la testa cancellata da un apostrofo, eccetera.

Di fronte a una tale realtà, dice Freud, si potrebbe cadere nell’errore di giudicarla semplicemente assurda: una barca non può trovarsi sul tetto di una casa; un uomo senza testa non può correre (in realtà neanche esistere) etc. È evidente, continua Freud, che per risolvere il rebus non devono essere sollevate obiezioni di questo tipo. Al contrario, ci si deve sforzare «di sostituire ad ogni immagine una sillaba o una parola, che sia rappresentabile, secondo un rapporto qualsiasi, con un’immagine. Le parole, che in questo modo si connettono tra loro, non sono più assurde, ma possono costituire la più bella e la più significativa frase poetica. Ora, il sogno è un indovinello a figure di questo tipo, e i nostri predecessori nel campo dell’interpretazione del sogno hanno commesso l’errore di giudicare il rebus come una composizione pittorica. Come tale apparve loro assurdo e senza valore».

La prima caratteristica che emerge dall’analisi del lavoro onirico è che il contenuto manifesto è il risultato di un enorme lavoro di «condensazione» svolto sui pensieri del sogno. In confronto alla mole e alla ricchezza dei pensieri del sogno, la scena manifesta del sogno è scarna e laconica. Il sogno, trascritto, riempie mezza pagina; l’analisi che contiene i pensieri del sogno ha bisogno di uno spazio sei, otto, dodici volte maggiore. Di più, la quota di condensazione è indeterminabile: la possibilità che, ad interpretazione avvenuta, si manifesti un nuovo significato è virtualmente sempre presente. Vanno messe in evidenza, inoltre, tre particolarità della memoria onirica: in primo luogo, il fatto che il sogno preferisce chiaramente le impressioni degli ultimi giorni; in secondo luogo, il fatto che esso compie una scelta in base a principi diversi di quelli della memoria vigile, ricordando non l’essenziale e l’importante, ma il marginale e l’inosservato; infine, il fatto che esso dispone delle nostre primissime impressioni infantili e riporta alla luce particolari di quel periodo. Il sogno può scegliere il suo materiale da qualsivoglia momento della vita, purché esista un filo di collegamento fra le esperienze del giorno del sogno, vale a dire le impressioni recenti, e quelle più lontane.

L’Interpretazione dei sogni, evidentemente, è ricca di esempi di analisi di sogni. Ne scegliamo uno, tratto dalla cronaca onirica dello stesso Freud, particolarmente emblematico per chiarire il singolare modo in cui si realizza il lavoro onirico.

Sogno della monografia botanica.

Ho scritto una monografia su una certa pianta. Il libro mi sta davanti, sto appunto voltando una tavola a colori ripiegata. Ad ogni esemplare è legato un campione secco della pianta, come se fosse preso da un erbario.

L’analisi del sogno deve innanzitutto individuare le impressioni recenti e gli spunti che rientrano nel “campo floreale”:

1. la mattina, Freud aveva visto nella vetrina di una libreria un libro intitolato Il nuovo genere ciclamino;

2. il ciclamino è il fiore preferito di sua moglie;

3. Freud rimprovera a se stesso di ricordarsi solo di rado di portarle dei fiori;

4. Freud ha di fatto scritto una specie di monografia su una pianta, e precisamente un saggio sulla coca che ha richiamato l’attenzione di Karl Koller sulle proprietà anestetizzanti della cocaina;

5. qualche giorno prima del sogno della monografia botanica, è passata per le mani di Freud una pubblicazione nella quale viene celebrato da parte di alcuni discepoli riconoscenti il giubileo del loro maestro e direttore del laboratorio dove il dott. Koller ha scoperto le proprietà anestetizzanti della cocaina;

6. legame rilevato da Freud tra il sogno e un episodio avvenuto la sera precedente ad esso, una accessa discussione con il dottor Königstein: «Mentre m’intrattenevo con lui nell’atrio, ci raggiunse il professore Gärtner [Gärtner = giardiniere] con la sua giovane moglie. Non potei astenermi dal fare a entrambi i miei rallegramenti per il loro fiorente aspetto. Il professor Gärtner è uno degli autori della pubblicazione celebrativa di cui ho parlato poco fa, e io ebbi quindi la possibilità di ricordarmene».

Il contenuto del sogno ha anche altre determinanti che vanno analizzate. Innanzitutto in esso «ogni esemplare è legato un campione secco della pianta, come se fosse preso da un erbario». Questa immagine è legata al ricordo di quando Freud andava al ginnasio: un giorno il direttore radunò gli allievi affidandogli il compito di esaminare e ripulire l’erbario in quanto vi si erano annidati dei piccoli vermi, delle tignuole. Va rilevato come in il termine tedesco Bücherwurm significa sia “tignuola”, sia “topo di biblioteca”. In secondo luogo, nella scena del sogno Freud vede dinanzi a lui la monografia che ha scritto. Anche qui non manca un riferimento preciso. L’amico di Freud, infatti, gli ha scritto il giorno prima da Berlino: «“Mi interesso moltissimo del tuo libro sui sogni. Lo vedo terminato dinanzi a me e lo sfoglio”». Infine, c’è l’elemento della tavola a colori ripiegata. Freud rivela che, quando era studente in medicina, era afflitto dalla tendenza a studiare unicamente su monografie, di cui ammirava soprattutto le tavole a colori.

A ciò si aggiunge, non so bene come, un ricordo della primissima infanzia. Una volta mio padre si era divertito a dare da strappare a me e alla maggiore delle mie sorelle un libro con tavole a colori […]. Avevo allora cinque anni, mia sorella meno di tre e l’immagine di noi bambini che beati sfogliamo quel libro strappandolo, foglio a foglio, proprio come un carciofo, mi ritrovo a dire, è praticamente l’unica di quel periodo di cui abbia conservato un ricordo plastico. Più tardi, studente, mi si sviluppò una predilezione spiccata a raccogliere e possedere libri, analoga alla tendenza a studiare su monografie (l’idea di qualcosa di preferito compare già nei pensieri del sogno a proposito dei ciclamini e dei carciofi). Divenni un topo di biblioteca. Da quando rifletto su me stesso, ho sempre ricondotto questa prima passione della mia vita a quell’impressione infantile, o meglio ho riconosciuto in quella scena dell’infanzia un “ricordo di copertura” della mia successiva “bibliofilia”. […] L’accenno a questa vicenda giovanile mi riporta subito alla discussione con il mio amico dottor Königstein. Infatti, nella discussione della sera precedente il sogno, si trattava degli stessi rimproveri di allora: io concedevo troppo alle mie attività preferite.

L’analisi del sogno rileva come il filo rosso della successione di idee è la discussione tra Freud e il dottor Königstein. Il sogno ha due fonti: una è insignificante, la visione di una monografia botanica in una vetrina di una libreria; l’altra è «di alto valore psichico», l’animata discussione tra Freud e il suo amico oculista. Il contenuto onirico allude soltanto all’impressione indifferente. Nell’interpretazione, invece, tutto tende all’esperienza significativa. «Se giudico il significato del sogno […] in base al contenuto latente affiorato attraverso l’analisi, giungo improvvisamente a una nuova importante conoscenza. Sparisce l’enigma, […] e mi vedo costretto a smentire l’affermazione che la vita psichica della veglia non continui nel sogno». Il ricordo della monografia vista nella vetrina di una libreria (impressione indifferente), allora, viene utilizzato come allusione alla discussione tra Freud e l’oculista (impressione significativa).

Resta ora da chiedersi attraverso quali anelli intermedi l’impressione della monografia possa entrare in rapporto allusivo con la discussione con l’oculista. […] La risposta che mi viene offerta dall’analisi è la seguente: tali rapporti, inizialmente inesistenti, fra le due impressioni, vengono istituiti più tardi fra il contenuto rappresentativo dell’una e il contenuto rappresentativo dell’altra

Con l’analisi del sogno della monografia botanica, dice Freud, ci si trova di fronte all’esito di un processo invariante rispetto ai vari sogni. È come se, nel corso dei passaggi intermedi, si verificasse lo spostamento dell’accento psichico, in modo tale che rappresentazioni inizialmente poco intense, facendosi carico dell’investimento originariamente più intenso di altre rappresentazioni, ottengono una forza che permette loro di aprirsi l’accesso alla coscienza. A ben guardare, continua Freud, tali spostamenti avvengono quotidianamente nei continui trasferimenti di quantità di affetto a oggetti o persone che, più o meno inconsapevolmente, individuiamo come rappresentanti della nostra emotività.

La rappresentazione “monografia botanica” del sogno si rivela un termine medio comune tra le esperienze più o meno significative connesse dal lavoro psichico. Di più, anche ciascuno degli elementi della rappresentazione composta “monografia botanica”, vale a dire “botanico” e “monografia”, separatamente, penetra sempre più a fondo, mediante molteplici collegamenti, nell’intrico dei pensieri del sogno. “Botanico” è un vero punto nodale, in cui per il sogno convergono numerose successioni di pensieri. Il lavoro onirico, dice Freud, somiglia a quello del tessitore che, con un solo colpo, forma mille combinazioni con i fili che scorrono invisibili.

Da questo primo esame si ricava l’impressione che gli elementi “botanico” e “monografia” siano stati accolti nel contenuto del sogno perché possono dimostrare i più numerosi punti di contatto con la maggior parte dei pensieri del sogno, rappresentano dunque “punti nodali” nei quali convergono moltissimi pensieri onirici e perché, riferiti all’interpretazione, sono dotati di molti significati

Detto altrimenti, ogni elemento del contenuto onirico si rivela come sovradeterminato, vale a dire come rappresentato più volte nei pensieri del sogno. Di più, non solo gli elementi del sogno sono più volte determinati dai pensieri del medesimo, ma anche i singoli pensieri sono rappresentati nel sogno da più elementi. Detto altrimenti, la relazione tra gli elementi del contenuto manifesto e quelli del pensiero latente non è una relazione uno-uno, ma varia attraverso forme che possono essere uno-molti, molti-uno, molti-molti. Il percorso della associazioni conduce da un elemento del sogno a più pensieri del medesimo, da un pensiero a più elementi.

La formazione del sogno non si effettua dunque in modo tale per cui il singolo pensiero, o un gruppo di pensieri, dà luogo a un compendio per il contenuto del sogno, e il pensiero successivo a un altro compendio in sua rappresentanza, all’incirca come in una popolazione vengono scelti i rappresentanti popolari, ma l’intera massa dei pensieri del sogno soggiace a una determinata elaborazione, dopo la quale gli elementi più volte e meglio sorretti si mettono in risalto per entrare nel contenuto del sogno, in modo pressoché analogo all’elezione per scrutinio di lista.

Oltre alla condensazione, tra contenuto e pensieri del sogno esiste un’altra fondamentale relazione, definita spostamento. Gli elementi che svolgono il ruolo di componenti essenziali del contenuto del sogno, possono non essere altrettanto rilevanti nei pensieri del sogno. Detto altrimenti, ciò che nei pensieri del sogno è palesemente il contenuto essenziale, non viene necessariamente rappresentato nel sogno. «Il sogno è per così dire diversamente centrato: il suo contenuto è imperniato su altri elementi, diversi dai pensieri del sogno». La tesi sostenuta da Freud è che nel lavoro onirico si manifesti una forza che, da un lato, spoglia della loro intensità gli elementi dotati di alto valore psichico e, dall’altro lato, crea dagli elementi di minor valore mediante la sovradeterminazione nuovi valori che giungono poi nel contenuto del sogno.

Se le cose stanno in questo modo, nella formazione del sogno hanno luogo una traslazione e uno spostamento delle intensità psichiche dei singoli elementi, donde deriva la differenza esistente tra il testo del contenuto e quello dei pensieri del sogno Il processo che qui supponiamo è addirittura la parte essenziale del lavoro onirico: esso merita il nome di spostamento onirico. Spostamento e condensazione sono i due artefici, alla cui attività possiamo principalmente attribuire la configurazione del sogno.

Tirando le fila del discorso, possiamo affermare come il diventar cosciente sia un processo non lineare, vale a dire una complessa trasformazione psichica che conduce alla costruzione di immagini. Adesso è necessario, sulla base dell’argomentazione sviluppata nel paragrafo precedente, comprendere di che tipo di immagini si tratti. La nozione di deformazione, come abbiamo visto, è impiegata da Freud a più riprese. Tuttavia, rimane da capire in che modo essa possa essere impiegata in un contesto diverso dal suo contesto originario, che è quello geometrico.

Sforzandosi di precisare il concetto di deformabilità, il linguista francese Antoine Culioli scrive: «Soit une configuration, située dans un espace spécifié […]; nous appellerons transformation toute opération qui transforme une configuration en une autre. La déformation est une transformation qui modifie une configuration, de sorte que certaines propriétés restent invariantes sous transformation, tandis que d’autre vont varier».

Culioli mutua i concetti di deformazione e trasformazione dalle matematiche. Una deformazione è un tipo particolare di trasformazione. Una trasformazione è in primo luogo un’applicazione, una funzione da un insieme in un altro (possibilmente il medesimo). Come è stato precisato nel paragrafo precedente, in geometria con il termine trasformazione ci si riferisce a una funzione biunivoca f da un insieme geometrico A in un insieme geometrico A’. A e A’ denotano, rispettivamente, il dominio e il co-dominio della funzione f. Gli elementi di A sono definiti oggetti da trasformare, mentre gli elementi di A’ sono definiti oggetti trasformati. Una proprietà tipica delle funzioni biunivoche, come si è già visto, è il loro essere invertibili: a ogni funzione biunivoca f, corrisponde sempre una funzione inversa che scambia tra loro il dominio e il co-dominio di f. Questo implica che per ogni trasformazione biunivoca di un dominio di elementi esiste, in linea di principio, una trasformazione inversa che, per così dire, compensa la prima restituendo gli elementi di partenza. Vanno messe in evidenza due caratteristiche fondamentali di questo tipo di trasformazioni: 1) le trasformazioni assumono la forma di cambiamenti strutturali degli oggetti da trasformare, ma non implicano lacerazioni o strappi di nessun tipo; 2) in una trasformazione c’è qualcosa che non muta ed è in virtù di questo qualcosa (definito dai matematici invariante) che è possibile riconoscere come tale la trasformazione.

È possibile indicare diversi esempi concreti dello schema astratto di trasformazione appena delineato. Esempi comunissimi sono costituiti dalle deformazioni che subiscono i corpi elastici: si pensi alla deformazione di una gomma per cancellare quando viene piegata senza essere spezzata. Un altro esempio comune di trasformazione, dovuta questa volta alla rappresentazione su una superficie piana di oggetti tridimensionali, è l’immagine riflessa in uno specchio: si ottengono trasformazioni diverse a seconda che lo specchio sia piano o convesso.

Ma vediamo adesso in che senso può applicarsi questo modello alla realtà dello psichico. Nel passo della Interpretazione dei sogni di cui sopra, abbiamo letto come «pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche […]».

La deformazione onirica è un caso particolare di deformazione? L’interrogativo non è di facile soluzione. Prima ancora di ricercare eventuali analogie, credo sia necessario salvare e rilevare le differenze tra la deformazione geometrica in senso proprio e quella psichica in senso derivato. A esempio, non v’è dubbio che esista tra esse una differenza notevole, relativa per così dire alla diversa ontologia dei rispettivi oggetti da trasformare. Un conto è parlare di trasformazioni di oggetti geometrici, quale che sia la loro complessità, un altro è parlare di trasformazioni di vissuti e rappresentazioni psichiche. Ma è soprattutto un aspetto che differenzia in modo radicale i due tipi di deformazione. La relazione che lega i due domini (pensieri del sogno e contenuto onirico manifesto) che costituiscono la deformazione psichica, a differenza dello schema generale di deformazione geometrica delineato prima, non è una relazione biunivoca. Tra i pensieri del sogno e il contenuto onirico manifesto, infatti, non c’è una relazione di isomorfismo. I fenomeni della condensazione, dello spostamento e della sovradeterminazione dell’accento psichico sono aspetti del lavoro onirico che non lo fanno rientrare nel campo delle relazioni isomorfiche.

I pensieri onirici (la strutture profonde dello psichico) non possono manifestarsi che in virtù di due tipi di conversione. In primo luogo, essi conducono alla generazione di un contenuto onirico manifesto, o scena del sogno, come conseguenza di quell’attività che Freud chiama «lavoro onirico». Ora, è lo stesso Freud che rileva il non isomorfismo tra i due piani quando afferma che essi «stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse». In secondo luogo, i pensieri del sogno manifestano il loro senso solo in virtù della loro verbalizzazione: come afferma Benveniste, è «il “discorso” che conferisce loro l’autenticità dell’esperienza». Tra i pensieri del sogno e la verbalizzazione del paziente, come tra i primi e l’interpretazione dell’analista, sussiste uno scarto qualitativo che solo in parte è riconducibile allo schema generale di deformazione di cui sopra. Inoltre, il racconto del paziente e la ricostruzione interpretativa dell’analista non sono meri calchi della realtà onirica e questo dipende da una proprietà specifica dell’attività di linguaggio: per dirla con Benveniste, «il linguaggio ri-produce la realtà. Ciò va inteso nel senso più letterale della parola: la realtà viene prodotta di nuovo mediante il linguaggio. Chi parla fa rinascere con il suo discorso l’evento e la sua esperienza dell’evento». Il sognatore, raccontando il proprio sogno, lo risogna. Le complesse trame che costituiscono un sogno sono traducibili in discorso verbale perché è lo stesso sogno come immagine che rappresenta una condensazione verbale. La raccontabilità dei sogni non è un aspetto aggiuntivo al sogno, ma ne è parte interna e costitutiva. A tal proposito, scrive Freud:

Allo svantaggio dell’incertezza nel ricordare i sogni si può rimediare: basta stabilire che come sogno debba valere precisamente ciò che il sognatore racconta, a prescindere da tutto ciò che egli può aver dimenticato o modificato nel racconto.

L’attività di linguaggio, intesa come quel complesso insieme di potenzialità espressive mobilitate da ciascun essere umano per parlare con individui della stessa specie, non si configura come un momento isolato e indipendente dal lavoro psichico. Al contrario, essa e le sue risorse costituiscono l’architettura che sorregge e sostanzia la dinamica psichica deformandola. Il sognare umano porta il marchio della linguisticità. Senza di essa, la non linearità dei sogni non sarebbe possibile, vale a dire non sarebbe possibile la complessa relazione non univoca, non isomorfica e, pertanto, indiretta che lega i due piani generati da ogni sogno. Solo se l’immaginario con cui un’esperienza psichica è vissuta viene silenziosamente plasmato dalle parole è possibile lo scarto tra pensieri del sogno e scena onirica manifesta. «È chiaro che nel lavoro onirico si tratta di trasporre i pensieri latenti, concepiti in parole, in immagini sensoriali, perlopiù di natura visiva». Si prenda a titolo esemplificativo l’analisi svolta da Freud di un sogno di una sua paziente:

Durante un sogno piuttosto lungo, a questa signora sembrò di vedere in una scatola, morta, l’unica figliuola quindicenne. […] [E]ssa stessa intuiva che il particolare della scatola doveva aprire la via a una diversa concezione del sogno. Nel corso dell’analisi le venne in mente che la sera precedente, in società, s’era parlato della parola inglese box e dei vari modi di tradurla, come: scatola, palco, cassa, schiaffo e così via. Altri elementi dello stesso sogno permisero di aggiungere che la signora aveva indovinato l’affinità dell’inglese box con il tedesco Büchse [barattolo] e che si era poi ricordata che la parola Büchse veniva anche usata per indicare i genitali femminili. […] [S]i poteva dunque supporre che la figlia nella “scatola” significasse un frutto nel ventre materno.

Quello di Freud mi pare possa costituire un primo esempio del ruolo che i processi e i costituenti linguistici ricoprono nell’attività di deformazione psichica: nella sua polivalenza semantica, la parola tedesca Büchse assolve il compito di tradurre in un’immagine onirica un desiderio latente della paziente: «Come molte giovani donne, non era stata affatto felice di essere incinta, e più di una volta aveva confessato a sé stessa il desiderio che il bambino nel suo grembo morisse».

Muovendoci tra le pieghe della riflessione di Freud, possiamo allora pensare allo psichico attraverso l’immagine di una tela elastica sulla quale sono disegnate alcune figure e all’attività di linguaggio come all’insieme di funzioni che, lavorando sulla tela dilatandola e/o contraendola, trasformano e deformano le figure in essa disegnate. La riflessione sullo specifico ruolo delle operazioni e delle risorse langagieres nella dinamica dei processi inconsci verrà ripresa e completata nella parte conclusiva della tesi, dove, indirizzando l’attenzione su quel vasto paradigma di ricerca che prende il nome di teoria delle operazioni enunciative e, in particolare, su quello che viene definito problema della costruzione dinamica del senso, si cercherà di mostrare come l’attività umana di linguaggio possa essere pensata come un incessante lavoro di costruzione e deformazione di una realtà strutturalmente non isomorfa alle configurazioni specifiche della linguisticità umana. Per tentare di costruire una siffatta argomentazione, infatti, pensiamo sia non solo possibile, ma anche fecondo collocarsi, per così dire, all’interfaccia tra psicoanalisi e linguistica generale, per trovare nella prima le basi epistemologiche della ricerca, e nella seconda il suo momento di inveramento, teso a descrivere l’attività umana di linguaggio, appunto, come un incessante lavoro di costruzione e deformazione. In questo capitolo abbiamo già messo in rilievo alcuni temi propriamente freudiani di indubbio interesse per una ricerca filosofico-linguistica. Adesso, cercheremo di ricavare dalla riflessione di I. Matte Blanco un modello della mente umana produttivo per i nostri intenti.

capitolo II

Lo psichico

a più dimensioni

2.1 L’alterità dell’Inconscio

In numerosi luoghi del suo corpus, Freud manifesta la propria consapevolezza della situazione di impasse che scaturisce dall’esigenza di dover coniugare due tipi di inconscio: un inconscio, per così dire, contenutistico, inteso come qualità di alcune rappresentazioni psichiche, risultato del meccanismo della censura, e un inconscio di tipo strutturale. Formatosi alla scuola di Melanie Klein, lo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco si propone di rileggere la teoria freudiana relativa al cosiddetto sistema inconscio, per ritrovarne il valore epistemologicamente più dirompente.

Nel corso degli anni la psicoanalisi si è sviluppata di gran lunga al di là della propria teoria e si trova in una situazione simile a quella di un adolescente che è diventato troppo grande per i suoi vestiti e si sente limitato, impacciato nei movimenti e a disagio. La scoperta di nuovi fatti significativi […] è diventata sempre più difficoltosa a causa della mancanza di una adeguata cornice di riferimento in cui poter inquadrare nuovi fatti. Il risultato è che molta dell’inesauribile ricchezza offerta ogni giorno dalla realtà clinica non si vede semplicemente perché non si accorda con le teorie vigenti.

In queste prime pagine della sua opera, Matte Blanco rileva come le ricerche scientifiche abbiano una naturale tendenza a creare cornici di riferimento direttamente suggerite, per così dire, «dal nostro contatto intellettuale con la realtà». Tali cornici sono soggette a modificazioni quando nuovi contatti con la realtà indirizzano in tal senso la ricerca. Un’idea simile la troviamo già espressa nella prima opera di Matte Blanco, pubblicata nel 1954 con il titolo Lo psíquico y la naturaleza humana. Hacia un planteamiento experimental. Qui lo psicoanalista cileno rileva come la psicologia contemporanea, mossa dalla paura di cadere in speculazioni infondate, sia rimasta vittima di una posizione che nega gli aspetti suggeriti dal nostro primo contatto con la realtà: se al posto di aver disprezzato i risultati di questo primo contatto si fossero seguiti i suoi suggerimenti, si sarebbero potuti sviluppare, a poco a poco, una serie di conoscenze circa lo psichico e il fisico che, in stretta relazione con la realtà osservabile, ci avrebbero condotti a comprendere meglio quanto sta dietro questa prima distinzione. Lo psicoanalista continua affermando come in luogo di speculare circa le essenze o i noumeni che stanno dietro i fenomeni osservabili, la ricerca scientifica deve raggiungere precise definizioni operative dello psichico e studiarne il comportamento e le leggi.

Una delle operazioni teoriche fondamentali proposte dallo psicoanalista cileno, precisamente, consiste nel mostrare come la natura del lavoro onirico – chiave d’accesso privilegiata per studiare il sistema inconscio – non dipenda tanto dal meccanismo della censura, quanto da uno scarto dimensionale tra l’inconscio e la coscienza. L’inconscio non è solo e tanto quel luogo abitato da contenuti e desideri rimossi, ma è soprattutto una struttura che regola e plasma la natura umana. La fondamentale scoperta freudiana, dice Matte Blanco in modo perentorio, è quella di un sistema o modo di essere, definito col termine in realtà ambiguo di «inconscio», regolato da principî ad esso peculiari, invarianti rispetto alla specificità dei contenuti rimossi e alieni alle leggi che regolano l’organizzazione dei contenuti della coscienza. Al concetto freudiano di inconscio è toccata la sorte di prendere il nome da un territorio della sua applicazione. L’inconscio freudiano è una forma di pensiero – pertanto non è esatto definirlo semplicemente «il regno dell’illogico» – che letteralmente si oppone all’ordine logico che regola il pensiero cosciente, violandone i principî fondamentali; esso è caratterizzato dalla struttura di quell’esperienza desiderante che, per principio, non può accedere e manifestarsi interamente e, per così dire, senza compromessi alla coscienza, nella misura in cui corrisponde ad una dimensione della mente umana non riducibile interamente a quella della coscienza. Dispiegando le ali a partire dalla psicoanalisi freudiana, Matte Blanco afferma che così come un bicchiere dipinto su un foglio di carta non può contenere dell’acqua a causa dello scarto dimensionale tra il dipinto bidimensionale e la sostanza chimica, la coscienza non può contenere e accogliere totalmente l’esperienza inconscia: soltanto attraverso una funzione di dispiegamento (unfolding) o traduzione, tale esperienza può farsi strada e venire alla luce nella dimensione della coscienza. Per dirla con le parole di Freud, «se, a cose finite, si potesse mostrare a una terza persona il materiale patogeno nella sua organizzazione pluridimensionale e complessa, ormai riconosciuta, questa persona potrebbe giustamente domandare: “Come è riuscito un simile cammello a passare per la cruna di un ago?”. Si parla infatti, e non a torto, di “strettoia della coscienza”».

Prima di mettere a tema e approfondire gli spunti teorici matteblanchiani che interessano il presente lavoro, però, dobbiamo cercare innanzitutto di comprendere in che senso l’inconscio come struttura sia regolato da principî ad esso peculiari, invarianti rispetto alla specificità dei contenuti rimossi e alieni alle leggi che regolano l’organizzazione dei contenuti della coscienza. Nel saggio metapsicologico del 1915 tradotto in italiano con il titolo L’inconscio, Freud individua cinque caratteristiche fondamentali proprie del sistema inconscio:

a) l’assenza di contraddizione tra quei moti di desiderio che costituiscono il nucleo del sistema inconscio;

b) il processo di spostamento, vale a dire quel fenomeno per cui una rappresentazione pulsionale cede il suo investimento ad un’altra rappresentazione;

c) il processo di condensazione, vale a dire quel fenomeno per cui una rappresentazione riunisce in sé l’investimento di altre rappresentazioni;

d) l’atemporalità, vale a dire il fatto peculiare per cui i processi inconsci non hanno alcun rapporto col tempo;

e) la sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica.

Con le parole di Lévi-Strauss, e in un’ottica strutturale, l’inconscio è sempre vuoto, vale a dire cessa di essere l’ineffabile rifugio delle particolarità individuali, il depositario di una storia unica, che rende ciascuno di noi un essere insostituibile. La realtà del sistema inconscio si esaurisce nella sua specifica attività di imporre leggi strutturali a elementi inarticolati di altra provenienza quali impulsi, emozioni, rappresentazioni, ricordi. Il vocabolario importa meno della sua struttura. Riferendosi alla linguistica di R. Jakobson, lo psicoanalista francese J. Lacan afferma: «l’inconscio è strutturato come un linguaggio» nella misura in cui è una struttura linguistica che utilizza le due più importanti figure della retorica classica, la metafora e la metonimia.

Privilegiando come Lacan e Lévi-Strauss una prospettiva strutturale per la lettura della teoria freudiana, Matte Blanco rilegge la Traumdeutung, individuando altre otto caratteristiche logiche nella descrizione che Freud fa dei «mezzi di raffigurazione del sogno». L’analisi di queste caratteristiche risulta decisiva per cogliere la specifica natura dell’inconscio. Vediamole nel dettaglio.

1. Co-presenza di termini contraddittori.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, i pensieri del sogno si rivelano come un complesso di pensieri e ricordi di intricatissima struttura «Non di rado si tratta di processioni d’idee, che partono da più centri, ma non mancano di punti di contatto; quasi regolarmente, accanto a una successione d’idee sta la successione opposta e contraria, collegata alla prima mediante associazioni per contrasto».

2. Scompiglio della struttura del pensiero. Assenza di relazioni.

Le singole parti di questa complessa struttura stanno nelle più svariate relazioni logiche tra loro. Possono rappresentare primo piano e sfondo, digressioni e chiarimenti, condizioni, catene di evidenze e controargomenti. Il lavoro onirico esercita su questa massa di pensieri del sogno una sorta di pressione che conduce, come se si trattasse di ghiaccio impacchettato, alla frammentazione e alla compressione degli elementi degli stessi pensieri del sogno. Sorge una domanda: «che ne è dei legami logici che fino a quel momento formavano la struttura? In che modo vengono raffigurati nel sogno i “se, perché, come se, benché, o-o” e tutte le altre preposizioni, senza le quali non possiamo comprendere una frase o un discorso?».

I sogni, afferma Freud, non dispongono di alcun mezzo per rappresentare queste relazioni logiche esistenti tra i pensieri del sogno. Per lo più i sogni non prendono in considerazione tutte queste congiunzioni, ed è soltanto il contenuto effettivo dei pensieri del sogno che essi assumono e manipolano. È il lavoro analitico e interpretativo che allora deve assumersi il compito di restaurare le connessioni che il lavoro onirico ha distrutto. Se il sogno manca di questa capacità espressiva adeguata alla rappresentazione dei legami logici dei pensieri del sogno, ciò dipende, precisa Freud, dal materiale psichico con cui esso è costituito. Confrontate alla poesia, che si avvale della capacità espressiva del discorso, le arti figurative presentano una limitazione analoga.

Questo passaggio argomentativo traccia un sentiero per una possibile digressione su una questione centrale della psicoanalisi. Esso mostra come, se si rimane fedeli alla ricerca freudiana, l’inconscio non possa essere pensato e definito semplicemente come il regno dell’illogico. La natura apparentemente non logica degli strati profondi dello psichico, di cui i sogni sono uno dei palcoscenici privilegiati di manifestazione, è solo il risultato del modo attraverso cui l’inconscio deve necessariamente esprimersi e dei mezzi che, sempre necessariamente, deve impiegare. Invece, è diffusa, ed espressa in modo talvolta non rigoroso, l’idea secondo cui il sistema inconscio violerebbe i principi fondamentali della logica, primo tra tutti il cosiddetto principio di non contraddizione. Un tal tipo di violazione dipende da un’analisi che mette a fuoco solo un livello del problema. In questo luogo della Traumdeutung, ad esempio, Freud si chiede esplicitamente cosa succeda ai legami logici che fino a quel momento formavano la struttura dei pensieri del sogno e risponde che tali legami sono in un certo senso annullati dalla pressione del lavoro onirico. I pensieri del sogno, allora, non appaiono come una nebulosa indistinta e caotica, ma sono retti da legami logici. Proprio sulla base di questo snodo argomentativ