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pagina 16 Capitolo 1 [Aggiornato 8 aprile 2019] Giovanni Pinna Divagazioni sulla storia politica dei musei Natura politica del museo Pubblico o privato che sia, il museo è comunque sempre un’istituzione sociale poiché la sua azione, libera o coatta, ha un impatto forgiante sulla società cui ap- partiene e di cui è espressione. Questo immenso potere del museo, non sempre dichiarato né compreso, deriva dalla sua capacità di riassumere e collegare tra loro le tre “ componenti ” che formano il cemento di ogni società: la memoria col- lettiva (o memoria culturale di Jan Assmann, memoria sociale di Aby Warburg), l’identità collettiva e il patrimonio culturale (o eredità culturale), che Michel Le- niaud (1992, pag. 3), ha definito “ il complesso di beni che una generazione vuole trasmettere alle successive perché ritiene che questo insieme costituisca il tali- smano che permette a un uomo e a un gruppo sociale, che sia una famiglia, una nazione o un qualsiasi altro gruppo, di comprendere i tempi nelle loro tre dimen- sioni ”. Ora, come spiega Jan Assmann 1 , poiché l’unità di queste tre componenti costituisce quella che chiamiamo “cultura” di una comunità, il museo diviene strumento essenziale per la formazione, la tutela e la trasmissione della cultura di una comunità 2 . Ciò significa che esso svolge una funzione politica che lo mette al servizio del potere politico, in varie forme e con varia intensità. La nascita dei musei dimostra lo stretto legame con l’organizzazione poli- tica degli Stati o con la politica tout court . Il Louvre nacque da una serie di de- creti della Convenzione emanati fra il 1793 e il 1795 (Pomian 1987, Schaer 1993, Poulot 1997) che trasferirono al popolo le collezioni reali e posero le basi per un progetto politico di ampio respiro (“la creazione del Musée Napoleon e il programma museologico globale della Francia rivoluzionaria e imperiale ha scritto Germaine Bazin (1967) – erano parte integrante dei disegni politici internazionali di questi regimi ”. Il British Museum fu fondato nel 1753 con un atto del Parlamento che considerò l’acquisto della vasta collezione di Sir Hans Sloane un onore e un vantaggio per il paese (Swann 2001, pag. 198), come era stato auspicato dal Principe di Galles 3 . La nascita del Victoria and Albert Mu- Capitolo 1 Le tre componenti della Società Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0

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pagina 16 Capitolo 1 [Aggiornato 8 aprile 2019]

Giovanni Pinna Divagazioni sulla storia politica dei musei

Natura politica del museo

Pubblico o privato che sia, il museo è comunque sempre un’istituzione socialepoiché la sua azione, libera o coatta, ha un impatto forgiante sulla società cui ap-partiene e di cui è espressione. Questo immenso potere del museo, non sempredichiarato né compreso, deriva dalla sua capacità di riassumere e collegare traloro le tre “componenti” che formano il cemento di ogni società: la memoria col-lettiva (o memoria culturale di Jan Assmann, memoria sociale di Aby Warburg),l’identità collettiva e il patrimonio culturale (o eredità culturale), che Michel Le-niaud (1992, pag. 3), ha definito “il complesso di beni che una generazione vuoletrasmettere alle successive perché ritiene che questo insieme costituisca il tali-smano che permette a un uomo e a un gruppo sociale, che sia una famiglia, unanazione o un qualsiasi altro gruppo, di comprendere i tempi nelle loro tre dimen-sioni”. Ora, come spiega Jan Assmann1, poiché l’unità di queste tre componenticostituisce quella che chiamiamo “cultura” di una comunità, il museo divienestrumento essenziale per la formazione, la tutela e la trasmissione della cultura diuna comunità2. Ciò significa che esso svolge una funzione politica che lo metteal servizio del potere politico, in varie forme e con varia intensità.

La nascita dei musei dimostra lo stretto legame con l’organizzazione poli-tica degli Stati o con la politica tout court. Il Louvre nacque da una serie di de-creti della Convenzione emanati fra il 1793 e il 1795 (Pomian 1987, Schaer1993, Poulot 1997) che trasferirono al popolo le collezioni reali e posero le basiper un progetto politico di ampio respiro (“la creazione del Musée Napoleon eil programma museologico globale della Francia rivoluzionaria e imperiale –ha scritto Germaine Bazin (1967) – erano parte integrante dei disegni politiciinternazionali di questi regimi”. Il British Museum fu fondato nel 1753 con unatto del Parlamento che considerò l’acquisto della vasta collezione di Sir HansSloane un onore e un vantaggio per il paese (Swann 2001, pag. 198), come erastato auspicato dal Principe di Galles3. La nascita del Victoria and Albert Mu-

Capitolo 1

Le tre componenti della Società

Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative CommonsAttribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0

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seum fu “sponsorizzata” dal Principe Albert con lo scopo di aumentare e inter-nazionalizzare la produzione manifatturiera britannica. Superato il pericolo na-poleonico, il re di Prussia Friederick Wilhelm III volle che fosse realizzato aBerlino un museo per accogliere le collezioni reali restituite dalla Francia, ogginoto come Altes Museum. Nel secolo scorso e in questo secolo, musei sonostati istituiti e finanziati da governi o da amministrazioni pubbliche con precisiintendimenti politici: aumento del consenso popolare per partiti e movimentipolitici, ricerca dell’autorevolezza personale da parte di uomini di Stato. Museiprivati sono stati realizzati da aziende con fini promozionali, e rientrano quindinella sfera politica del commercio, come alla sfera politica appartengono imusei di etnie e di confessioni religiose.

Mi rendo conto che questa tesi non è facile da accettare, poiché presupponeche l’istituzione museo non abbia alcuna possibilità di agire al di fuori di con-dizionamenti politici. Ma sono profondamente convinto che il museo non siaun’istituzione libera, e ritengo che quando sembra avere una propria indipen-denza ciò significa che, consciamente o meno, esso adegua la sua attività alcontesto socio-politico nel quale è immerso e dal quale nella maggior parte deicasi trae i mezzi di sussistenza. Ciò sebbene buona parte dell’ampia letteraturamuseologica, prodotta soprattutto da studiosi che non hanno un’esperienza di-retta nella gestione di un museo, tratti spesso questa istituzione come libera eindipendente. Cosa che invece non riscontro nei pochi scritti di coloro chehanno dovuto gestire direttamente la complessità umana, scientifica e finan-ziaria di un museo, che sembrano andare in una direzione più pragmatica.

Per comprendere appieno la natura politica del museo è indispensabilepartire dall’analisi del rapporto fra le tre componenti che ho citato all’inizio:memoria, identità e patrimonio.

Memoria e identità“Dovrete cominciare a perdere la vostra memoria,

seppure solo a pezzi o a pezzetti, per rendervi contoche la memoria è ciò che crea le vostre vite.Senza la memoria la vita non è affatto vita”

Luis Buñuel

La memoria e i suoi mediatori Susan Crane (2000, pag. 3) ha sostenuto che nel museo si realizza la

sintesi fra memoria, patrimonio e identità. “Come in un archivio – scrive –

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esso contiene, sotto forma di documenti, le manifestazioni materiali dellaproduzione culturale e scientifica, memorie distinte rimosse dal mondomentale e letteralmente sistemate nel mondo fisico. […] La conservazionenel museo fissa la memoria di intere culture attraverso oggetti rappresen-tativi, selezionando ciò che merita di essere conservato, ricordato, tesau-rizzato; i manufatti e le usanze sono salvate fuori dal tempo. Così il“fissare” la memoria nel museo costituisce una visibile permanenza dellecose radunate e in un tempo e in uno spazio statici. La memoria delle cul-ture, della natura e delle nazioni è fissata per ordinare la memoria, in eper collettività multiple e diverse. Queste memorie divengono allora com-ponenti di identità – anche per individui che in nessun altro modo si sen-tirebbero collegati a questi oggetti. […] Le relazioni fra il museo e lamemoria si giocano attorno a una relazione particolare ed essenziale comequella di una lumaca per la sua conchiglia: l’una ospita e protegge l’altra”.Il museo ha dunque un rapporto privilegiato con la memoria. Come recitala metafora di Locke esso “è come un magazzino delle nostre idee”.

Nel corso del capitolo parlerò spesso della selezione che Crane ha ri-cordato, poiché questa è una delle prerogative fondamentali del museo,allo stesso tempo creatrice e distruttrice. Creatrice perché rende alcuni og-getti degni di essere conservati in quanto testimoni di qualcosa di valore(per la società, la cultura, l’arte, il potere, o altro), distruttrice in quantoabbandona altri oggetti al degrado e all’oblio. La scelta fra quanto deveessere conservato e quanto va dimenticato o trascurato rende la selezioneuna forza politica, poiché attraverso la scelta di elementi significativi (og-getti con i loro significati simbolici) la società (organizzata in nazioni, ingruppi di pensiero, in gruppi religiosi o etnici), e i musei che la rappre-sentano, creano quella che ho chiamato la “narrazione dominante” fattadi miti, storie e identità, che gli stessi musei si impegnano a comunicare.

La capacità dei musei di rappresentare la cultura di una comunità, comeprodotto della sintesi delle tre “componenti” citate, si fonda su due presup-posti. Da un lato, sull’ipotesi di Maurice Halbwachs (1925) che “non esisteuna memoria al di fuori della memoria sociale utilizzata dagli individui perfissare i loro ricordi e infine per ritrovarli”. Dall’altro, sulla convinzione chela memoria sociale ha bisogno di “sollecitatori” o “mediatori”, che fissino eraccolgano i ricordi individuali – grazie alla facoltà della memoria umana aesteriorizzarsi, a depositarsi negli oggetti e nei luoghi del nostro spazio con-testuale (gli hypomnemata di Robert Musil) –, li elaborino, li selezionino e li

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ritrasmettano agli individui sotto forma di una memoria di gruppo, nella qualei singoli individui non sono più in grado di distinguere i ricordi derivati dal-l’esperienza diretta da quelli ricevuti attraverso l’intercomunicazione sociale.“Quando si vuole ricordare ciò che vi è capitato nei primi tempi della vostrainfanzia – ha scritto Goethe nell’autobiografia4 – si confonde assai spessociò che si è sentito dire dagli altri con i propri ricordi”.

La memoria sociale di Halbwachs sembra corrispondere a quella cheAleida Assmann chiama memoria culturale. La stessa Assmann (2002, pag.15-16) sintetizza i due presupposti che ho citato quando sostiene “la neces-sità che la memoria vivente dei testimoni oculari, per non disperdersi, vengatradotta in memoria culturale per la posterità. La memoria vivente – con-tinua la Assmann – si stempera in una memoria sorretta da mediatori perchési lega a supporti materiali quali monumenti, luoghi di commemorazione,musei ed archivi. Mentre il meccanismo del ricordo individuale avviene nelcomplesso in modo spontaneo e secondo le leggi generali della psicologia,a livello collettivo e istituzionale questo processo viene pilotato da una pre-cisa politica del ricordo o, più precisamente, da una precisa politica del-l’oblio. Non esiste memoria culturale capace di autodeterminarsi: essa devenecessariamente fondarsi su mediatori e politiche mirate. Nella trasforma-zione della memoria individuale, in sé legata al vissuto, in memoria cultu-rale, in sé artificiale, è insito il rischio della distruzione, della parzialità,della manipolazione e della falsificazione della sua autenticità”.

I “mediatori” della memoria di cui parlano Halbwachs e la Assmannsono le forme, portatrici di significati simbolici, che costituiscono nelloro insieme quello che chiamiamo patrimonio o eredità culturale: gli og-getti, i linguaggi, i miti, la musica, i canti, le danze, i proverbi, le imma-gini (fra cui le rappresentazioni figurative), la letteratura, i monumenti,interi paesaggi come nel caso degli aborigeni australiani (Jan Assmann1997, pag. 61)5, le leggi e le istituzioni, fra le quali dobbiamo includerei musei. Il fatto che gli oggetti (anche sotto forma di immagini) veicolinola memoria è cosa nota, come insegnano le tecniche della memoria arti-ficiale utilizzate in epoca classica dall’arte della retorica (Yates 1972), ei manufatti di alcune popolazioni indigene forgiati per servire da supportimnemonici. Presso i Luba dell’Africa Centrale questi supporti hanno laforma di palette di legno (Lukasa), presso i Vena del Sud Africa sono fi-gure lignee che rappresentano narrazioni (Matano), presso gli Hemba delCongo sono statue lignee nelle quali sono iscritte le memorie degli ante-

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nati, e fra gli indigeni Kayapo dell’Amazzonia sono parures che raccon-tano la storia dei privilegi ereditati da chi li porta.

Il complesso di memorie che i mediatori trasmettono forma la cono-scenza, che a sua volta modella l’identità. L’identità di un gruppo, comequella di ogni individuo, si forma e si mantiene infatti solo grazie alla me-moria: “come un individuo può sviluppare un’identità personale e man-tenerla attraverso lo scorrere dei giorni e degli anni solo in virtù dellasua memoria, così anche un gruppo è in grado di riprodurre la sua identitàdi gruppo solo mediante la memoria” (Jan Assmann 1997, pag. 61).

Tuttavia i significati simbolici che i mediatori della memoria trasmet-tono non sono predefiniti dalla (o intrinseci alla) natura del mediatore; essinon sono stabili, né immutabili, poiché vengono attribuiti, creati, modificatida quelli che Jan Assmann chiama i “detentori speciali” e che la Taborsky(1990) chiama “costruttori di simboli” (namers) (divinità, profeti tribali,anziani, governi, corti supreme, insegnanti) che hanno il compito non solodi creare il significato simbolico, ma anche di cercare di garantirne la con-tinuità necessaria alla stabilità della società. Vale a dire che i significatisimbolici trasmessi alla società sono il prodotto di particolari frazioni, disolito elitarie, della società. Questo è chiaro per oggetti che hanno valoremetonimico poiché rimandano a persone, ad avvenimenti o a luoghi precisi,come l’armatura di un certo condottiero, la corona di un re, la bandiera diun’armata, le pantofole di un papa, la penna di uno scrittore.

Poiché un museo espone un insieme di oggetti-mediatori, e poiché talioggetti difficilmente sono casuali, ma il più delle volte sono selezionatiper raggiungere un certo fine, per illustrare un certo tema, o per creare unacerta narrazione, il museo nel suo insieme è un mediatore, che possiamochiamare “mediatore complesso”. Anche al museo mediatore della me-moria e ai suoi oggetti-mediatori il significato simbolico è attribuito dadetentori speciali, che nel caso specifico possono identificarsi nello staffscientifico6, nei dirigenti, nei “Trustees” dei musei anglosassoni, negli am-ministratori pubblici o nei proprietari del museo.

Musei che mescolano mediatori di natura diversa (arte, archeologia,manufatti seriali della cosiddetta arte decorativa), come il Louvre, il Kun-sthistorisches Museum di Vienna, il Rijksmuseum di Amsterdam, il BritishMuseum, il Metropolitan di New York, sono evidentemente mediatoricomplessi. Tuttavia sono mediatori complessi anche la National Gallerydi Londra e quella di Washington i cui oggetti-mediatori, seppure omo-

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genei come forma fisica, sono rappresentazioni in grado di creare un’am-pia gamma di relazioni simboliche. Fra i mediatori della memoria non visono infatti solo oggetti dal valore metonimico, ma anche rappresentazionifigurative sotto forma di dipinti, disegni, stampe, fotografie: ritratti, scenedi avvenimenti storici, o interpretazioni mitiche della storia, che posseg-gono un potenziale evocativo diretto che non ha bisogno dell’interventodei costruttori di simboli/detentori speciali per essere creato e trasmesso.Ne sono un esempio i quadri del realismo socialista che nell’Unione So-vietica e nei paesi satelliti raffiguravano l’attività e l’organizzazione dellasocietà comunista, il lavoro nelle fabbriche e nelle campagne, i ritratti deidirigenti nelle più svariate situazioni sociali e politiche (come il celebrequadro di Isaak Brodsky Lenin che parla ai lavoratori della fabbrica Pu-tilov premiato all’esposizione di Parigi del 1937). Questo tipo di raffigu-razione simbolica è stato largamente diffuso, non solo in Unione Sovieticae nei paesi satelliti, ma anche in paesi non autocratici dove ha caratteriz-zato i periodi storici nei quali le nazioni erano in cerca di un’identità na-zionale. Mentre nelle nazioni che hanno raggiunto il loro status nazionalequeste immagini sono conservate con attenzione nei musei, nei paesi chesi sono liberati da una dittatura possono diventare un problema ed essereperciò eliminate dalle esposizioni museali, dopo la restaurazione.

Memoria comunicativa e memoria culturaleNel 1992 Jan Assmann ha discusso del rapporto fra i ricordi individuali

e la memoria collettiva, e, come si è visto, ha sostenuto la necessità di me-diatori per la formazione e la conservazione della memoria stessa, e in quellaoccasione ha messo in evidenza i rischi di manipolazione e di uso politicodella memoria collettiva. Egli ha sostenuto la compresenza all’interno diuna comunità di una “memoria comunicativa” e di una “memoria culturale”,e assegnò a quest’ultima e al suo potenziale trasformarsi in storia (storiafondante o storia tout court) il valore di strumento di stabilizzazione neltempo dell’identità di una comunità. Brevemente si può ricordare che perAssmann la “memoria comunicativa” è una memoria collettiva che nascedai ricordi di fatti di cui i membri della comunità hanno avuto un’esperienzadiretta, si limita al ricordo di avvenimenti del passato recente, e non superai limiti di una generazione, nel senso che sopravvive solo fino a quando ri-mangono in vita tutti gli individui che sono stati testimoni di tali avvenimenti(da cui anche il nome di “memoria del presente”). Un periodo che nelle so-

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cietà alfabetizzate non risale più indietro di ottant’anni e per il quale gli Etru-schi e i Romani coniarono il concetto di saeculum naturale, il periodo cor-rispondente alla durata della vita di colui che fosse vissuto di più fra quellinati nello stesso giorno. “Tale memoria – scrive Assmann (1997, pag. 25) –nasce nel tempo e passa con il passare dei suoi detentori; quando coloroche la incarnano muoiono, essa lascia il posto a una memoria nuova”. Talememoria nuova è quella che egli chiama “memoria culturale”.

All’interno di un gruppo, il sapere che deriva dalla memoria comuni-cativa viene acquisito attraverso il linguaggio e la comunicazione di ognigiorno (da cui il nome di memoria comunicativa), si diffonde liberamentee senza controllo all’interno della società, ma in modo non omogeneo poi-ché vi è chi ricorda di più e chi ricorda di meno7. Poiché la memoria hauna stretta relazione con l’identità, la disomogenea diffusione della me-moria comunicativa all’interno di una comunità è all’origine della coesi-stenza di identità diverse, dovute ai ricordi diversi degli avvenimenti dicui i vari gruppi che formano la comunità sono stati testimoni diretti. Ladisomogeneità di memorie e identità all’interno della comunità in rela-zione ai fatti del presente e il loro rapporto con la memoria culturale sonoall’origine delle contestazioni, che possono giungere sino al rifiuto, che imusei subiscono quando propongono fatti e interpretazioni di avvenimentidi cui la comunità o una parte di essa hanno una memoria diretta.

Per contro la memoria culturale viene costruita artificialmente, sce-gliendo gli avvenimenti del passato degni di essere ricordati dalla comu-nità e scartando quelli che devono essere dimenticati. La costruzione dellamemoria culturale è una prerogativa delle élite politiche e intellettuali chesi formano all’interno della società. Sono queste élite che creano, modifi-cano o distruggono i mediatori, manipolando così il patrimonio culturalee i suoi simboli. Queste élite affidano la trasmissione della memoria cul-turale ai “detentori speciali”, delegati del sapere, detentori della culturacostruita (che nella maggior parte dei casi fanno parte delle stesse élite):sciamani, bardi, griot, sacerdoti, insegnanti, artisti, scrittori, studiosi emandarini. La memoria culturale viene quindi modellata attraverso formee strumenti indipendenti dai ricordi individuali, e viene diffusa nella so-cietà attraverso “ammaestramenti” che prendono la forma narrativa, comenel caso della costruzione delle identità nazionali, al fine di formare unacultura e una identità omogenee. La memoria culturale è quindi quella checomunemente chiamiamo “cultura” di una comunità.

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È solo attraverso la continuità dei mediatori che la memoria culturaledi una comunità e l’identità, che a essa è strettamente legata, possono es-sere trasmesse nel tempo fra generazioni successive. L’esistenza di me-diatori è dunque intrinseca alla memoria, alla cultura e all’identitàcollettive. Anche nelle società a tradizione orale la memoria culturale habisogno di questi supporti che si concretizzano in simboli, rituali, luoghi,pitture rupestri e petroglifi, che rappresentano, questi ultimi, vere e proprienarrazioni storiche, tentativi elementari di storicizzazione della memoria.

Naturalmente, anche la memoria individuale e la memoria comunica-tiva hanno bisogno di mediatori. Nessuna memoria, e quindi nessuna iden-tità, può persistere nel tempo se non viene sollecitata. Sia gli individui,sia i gruppi sociali hanno infatti la memoria corta, nel senso che l’oblio èsempre più forte del ricordo. Gli individui dimenticano. Senza gli archivie le fotografie di famiglia, un individuo potrebbe ricordare solo le personeche ha conosciuto, e con la memoria non potrebbe andare più indietro deipropri nonni. Egli può andare indietro nel tempo solo attraverso narrazionitramandate oralmente, oggetti o documenti, e cioè con l’ausilio di media-tori, ma in questo caso la sua memoria non è più una memoria individuale,ma diviene una memoria condivisa dal gruppo famigliare e mediata dalsuo patrimonio tradizionale, essa si è cioè trasformata da memoria indivi-duale in memoria comunicativa. Con questo meccanismo ogni singolo in-dividuo assume, accanto alla propria specifica memoria e identitàindividuale, anche la memoria e l’identità del gruppo famigliare. La con-divisione degli stessi mediatori fra gruppi famigliari diversi può poi espan-dere la stessa memoria comunicativa a gruppi sempre più ampi, econtribuire a che gli individui assumano memorie e identità successive,racchiuse una nell’altra come scatole cinesi. Senza tuttavia raggiungereuna memoria culturale (e quindi una cultura) poiché questa non è una que-stione di memoria, ma è un artificio costruito, come si è detto, dalle élitesociali attraverso i “dententori speciali”.

Numerosi autori, fra i quali Halbwachs (1925), Jan Assmann (1992,trad. it. 1997), Tzvetan Todorov (1995, trad. it. 1996), Aleida Assman(1999, trad. it. 2002) e Paul Ricoeur (2000, trad. it. 2003) si sono occupatidel problema di come la memoria individuale confluisca nella memoriacomunicativa, senza tuttavia giungere a una soluzione univoca. Halbwachsha risolto il problema sostenendo che anche la memoria individuale è in-fluenzata dalla collettività, e cioè cresce nei singoli attraverso processi di

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socializzazione. Egli ha scritto che “non esiste alcuna memoria possibileal di fuori degli schemi di cui gli uomini che vivono nella società si ser-vono per fissare e ritrovare i loro ricordi”, un’idea che Jan Assmann(1997, pag. 11) ha sunteggiato scrivendo che “noi non ricordiamo solociò che veniamo a sapere dagli altri, ma anche ciò che gli altri ci raccon-tano e ciò che da essi viene attestato e rispecchiato come significativo;soprattutto viviamo le nostre esperienze già in considerazione degli altri,nel contesto di schemi di significati socialmente prestabiliti”. Per Hal-bwachs anche la memoria individuale è dunque un prodotto sociale e ilsuo essere individuale deriva dall’unicità delle combinazioni dei ricordiche si formano nella memoria di ciascun individuo: “dal punto di vistadell’individuo la memoria si presenta come un agglomerato che risultadalla sua partecipazione a una molteplicità di memorie di gruppo” (As-smann 1997, pag. 12). Dal punto di vista dell’applicazione ai musei, JanAssmann ritiene che gli Heimatmuseen, oggi che non sono più inquinatidall’ideologia nazional-socialista, siano mediatori fra la memoria culturalee la memoria comunicativa, grazie alla loro funzione originaria di racco-gliere e far confluire le memorie individuali in memorie collettive piùampie, di “voisinage” o di “quartiere”.

Come le memorie da cui dipendono, anche le identità individuali e col-lettive sono interconnesse, in quanto le prime contribuiscono alla costruzionedelle seconde, mentre le identità collettive condizionano lo sviluppo e la na-tura delle prime. Ciò significa che ogni identità individuale è condizionatadal contesto, vale a dire dalla comunità o società cui l’individuo appartiene.È quanto sostiene Margaret Jane Radin (1993), che ritiene che un individuonon possa essere una persona completa se non ha in ogni momento la per-cezione di se stessa, e che per mantenere questa continuità deve avere unarelazione continua con l’ambiente esterno (cose e persone). Ed è quanto af-ferma Amathya Sen, quando dice che “apparteniamo a molti gruppi diversi,[…]e ognuna di queste collettività è in grado di conferire a un individuoun’identità potenziale importante”, e quindi che “l’importanza di una par-ticolare identità dipende dal contesto sociale” (2008, pag. 26, 27).

Lo storico Yanni Hamilakis (2007, pag. 205-241) ha raccontato, sullabase di un’esperienza reale, in che modo i ricordi individuali si fondononella memoria comunicativa di un gruppo ristretto attraverso la comuni-cazione interindividuale, e come essa diviene identità, concretizzandosiin una narrazione in cui l’individuale e il collettivo non sono più scindibili.

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L’esempio si riferisce alle narrazioni, raccolte dallo stesso Hamilakis, dicoloro che durante la guerra civile greca (1946-1949) furono reclusi nelcampo militare di concentramento dell’isola di Makronisos, aperto nel1947 con l’intento di rieducare i cittadini greci di fede socialista e comu-nista. Nel raccogliere i ricordi dei reclusi a Makronisos, Hamilakis ha con-statato che per ciascun individuo la memoria di quella esperienza eracostruita solo parzialmente da ricordi personali di esperienze dirette, e cheessi costituivano solo una parte di una narrazione alla cui costruzione par-tecipavano racconti di esperienze altrui, articoli di giornali, memorie e do-cumenti politici che circolavano nelle cerimonie commemorative dopo lafine della guerra civile e dopo la chiusura del campo di concentramento,e che hanno agito da mediatori. Nel ricordare le torture non importava cheil narratore avesse subito personalmente la tortura, egli la raccontava co-munque come un’esperienza personale, mescolando così la propria me-moria e quelle dei compagni di prigionia in una memoria collettiva in cuii ricordi dei singoli non erano più distinguibili. “L’intera esperienza del-l’esilio e della prigionia a Makronisos era, ed era percepita e pensata,come un’esperienza collettiva, ed è stata narrata e commemorata soprat-tutto come tale. Venendo a conoscenza della tortura di uno dei loro ca-merati, o anche più intensamente udendo le grida di una persona torturatanon lontano, gli esiliati provavano e percepivano essi stessi la tortura,collettivamente e fisicamente; essi erano perciò sinceri quando la raccon-tavano come tale. Il corpo diviene qui corpo collettivo, e la pena e il doloredell’esilio, la reclusione, la tortura, la solitudine, il duro lavoro, o la sete,sono inflitti a un panorama somatico collettivo, e non solo ai singolicorpi”. Secondo Vera Schwarcz (in Watson 1994, pag. 45-64) anche ilcontesto che si crea nelle lamentazioni rituali per i defunti sollecita un pro-cesso di condivisione della memoria: “colui che si lamenta – scrive laSchwarcz – può esprimere sentimenti e rendere note memorie che nonesprimerebbe nella vita quotidiana. In altre parole, il rituale crea un con-testo nel quale viene sollecitato il ricordo: ripercorrendo la vita del de-funto, ciascun dolente richiama il proprio passato. Questo processoimplica la conversione dell’esperienza personale in un idioma – in questocaso la lamentazione – che può essere condiviso”.

I mediatori (oggetti e simboli patrimoniali, narrazioni, immagini ecc.)di cui hanno bisogno sia gli individui, per ricordare fatti di cui sono statitestimoni, che altrimenti verrebbero presto dimenticati, sia le comunità, per

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diffondere e fissare la memoria comunicativa, differiscono dai mediatoriche sovrintendono alla memoria culturale, non solo per una questione discala, ma soprattutto per una questione di autenticità. L’ampiezza e pro-fondità di trasmissione della memoria di un certo mediatore può cambiarecon il passare del tempo e delle generazioni. Per esempio, i memoriali (mo-numenti, archi di trionfo, lager, prigioni) che una società costruisce percommemorare eventi che vuole ricordare funzionano come mediatori dellamemoria comunicativa sino a quando sono in vita i membri della societàche sono stati testimoni diretti dell’evento commemorato. Basti guardare,osserva Conn (2010, pag. 44) “la differenza del modo in cui funziona ilVietnam Veteran Memorial di Washington in confronto ai molti memorialidella Prima Guerra Mondiale”. Con la generazione successiva questi mo-numenti divengono mediatori della memoria culturale, se sono “tenuti invita” dalla considerazione della società che sia utile memorizzare l’eventoinserendolo nel proprio bagaglio storico-culturale, e quindi nella costru-zione della storia di quella società. In questa trasformazione possono entrarein gioco i musei nella loro veste di mediatori complessi che assumono ilruolo di mediatori della memoria culturale. Scrive Conn che “se gli eventiepici del XX secolo come l’olocausto o la grande guerra si spostano dal-l’ambito della memoria all’ambito della storia, i musei sostituiscono i me-moriali come modo di assicurare […] ciò che non dobbiamo maidimenticare”. Non sempre è chiaro il meccanismo che trasforma i mediatoridella memoria comunicativa in mediatori della memoria culturale e portaalla costruzione della storia. Watson (1994), per esempio, sembra non porreun limite chiaro fra queste due memorie quando accomuna i media che tra-sformano i ricordi individuali in memoria comunicativa (linguaggio e co-municazione quotidiana fra testimoni oculari), ai media controllatisocialmente che servono invece alla costruzione della memoria culturale8

I “Mythscapes” di Duncan BellIl sociologo inglese Duncan Bell (2003) ha proposto un’interpretazione

del rapporto fra memoria individuale e memoria culturale, non dissimile daquella di Halbwachs, che sembra poter applicarsi al ruolo che i musei svol-gono nel collegare memoria, patrimonio e identità sotto forma di narrazionistoriche “costruite”. La differenza fra l’interpretazione di Bell e quella di Hal-bwachs sta nel fatto che il primo sostiene la natura mitica della memoria cul-turale, negandole di fatto lo status di memoria. Bell, come Halbwachs,

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considera la memoria individuale come una proprietà delle singole menti in-quadrata socialmente, e la memoria collettiva come il prodotto di individuio di gruppi di individui che si mettono insieme per condividere ricordi di par-ticolari eventi del passato. Quest’ultima sarebbe quindi il risultato di un pro-cesso per mezzo del quale gli individui interagiscono socialmente percollegare le loro memorie (sarebbe dunque la memoria comunicativa di JanAssmann). In questo senso, poiché la memoria collettiva di un certo eventopuò essere condivisa solo da coloro che erano presenti a quel dato evento,essa non può passare da una generazione a un’altra, ma solo essere trasferitanella mente di coloro che vivono dopo l’evento attraverso quelli che Bellchiama inneschi socio-psicologici (analoghi dei “mediatori” di Halbwachs),vale a dire scritti, rituali, oggetti, archivi e naturalmente musei. In questosenso gli eventi del passato che entrano nella memoria collettiva non possonoessere classificati come memorie, ma come miti, e la stessa memoria collet-tiva non sarebbe altro che una costruzione mitica degli avvenimenti del pas-sato. Per Bell la memoria collettiva (che corrisponderebbe alla memoriaculturale) esiste dunque solo sotto forma di mito, al di fuori di coloro chehanno una memoria diretta degli avvenimenti. Un concetto, quest’ultimo,che prende forma nell’idea di quello che Bell chiama Mythscape, riferendosialla formazione dell’identità/memoria nazionale: “una sfera narrativa, co-stituita da e attraverso dimensioni spaziali e temporali, in cui i miti della na-zione sono forgiati, trasmessi, ricostruiti e negoziati costantemente”.

L’idea di Mythscape di Bell è interessante alla luce di quanto i museihanno contribuito a costruire in termini di narrazioni nazionali, miti dellanazione e miti dell’origine. Essa riafferma la tesi secondo cui non può esi-stere una memoria culturale che non sia stata costruita grazie all’azionedi “mediatori”. Il che conduce inevitabilmente a sostenere che, se la me-moria culturale ha bisogno di qualcuno o di qualcosa che la costruisca,essa è un edificio più o meno artefatto, o più o meno distante dalle vicendereali del passato, alla cui conoscenza potremo avvicinarci confidando nellemigliori intenzioni degli storici, ma nel quale difficilmente potremo di-stinguere il vero dal falso per la preponderanza della componente mitolo-gica e per la forza con cui l’oblio incide sulla memoria.

Musei mediatori della memoria culturaleÈ raro che i musei siano utilizzati per creare, trasmettere e fissare la me-

moria comunicativa, e quando lo fanno, o tentano di farlo, occupandosi del

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presente piuttosto che del passato, creano conflitti all’interno della società.“Il problema centrale dei musei – scrive Conn (pag. 44) – risiede nella no-zione di cultura di gruppo e di patrimonio. Se […] io ho la mia cultura evoi avete le vostre, e se la conoscenza di questa cultura risiede all’internodi una qualche costruzione biologica di etnicità o di razza, è difficile im-maginare un’istituzione che possa rappresentarci tutti”. I musei sono uti-lizzati per fissare la memoria individuale solo in due casi: quando un museoviene creato direttamente o da un artista vivente per esporre le proprie opereo da un collezionista vivente per esporre la propria collezione.

I musei nascono e si sviluppano come mediatori complessi che comu-nicano, creano e fissano la memoria culturale, attraverso il patrimonio cul-turale, e contribuiscono alla costruzione della storia9, della cultura edell’identità di una comunità. Tutto ciò sia conservando e comunicandole tradizioni, i costumi, i miti fondanti, che sono gli elementi costitutivi diquel sentimento di appartenenza al gruppo che chiamiamo identità, sia se-lezionando quanto delle vestigia umane va conservato e quanto va lasciatoal decadimento del tempo. In ciò sono luoghi di creazione nei quali la me-moria collettiva viene non solo conservata ma anche costruita, con un’al-ternanza di oblio e di ricordo. In questo senso sono paragonabili agliarchivi, che Aleida Assmann sostiene non siano solo luoghi ove vengonoconservati i documenti del passato, ma anche laboratori “ in cui il passatoviene costruito e creato”.

Abbiamo visto, parlando dei memoriali, che esiste un rapporto di suc-cessione fra la memoria comunicativa e la memoria culturale, nel sensoche quest’ultima inizierebbe dopo l’estinzione della prima, cioè dopol’estinzione della memoria dei gruppi viventi. Halbwachs dice che è ne-cessario “attendere che i gruppi antichi siano scomparsi, che i loro pensierie la loro memoria siano svaniti, per preoccuparsi di fissare l’immagine el’ordine di successione dei fatti che solo la storia è ora capace di conser-vare” (vedi Jan Assmann 1997, pag. 19). Da ciò risulta evidente che la me-moria culturale viene costruita dalle élite sociali attraverso “dententorispeciali” di loro fiducia, ed è perciò una costruzione artificiale che generaidentità fittizie e una storia di parte. Vi sono due caratteri della memoriaculturale che condizionano e limitano la rappresentatività dei musei all’in-terno di una comunità: (1) la sua natura artificiale, che fa sì che all’internodi una società vi sia una parte che forma e diffonde la cultura collettiva eun’altra parte che viene esclusa da questo processo (come le donne in molte

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comunità o i ceti inferiori nelle società borghesi), ma che comunque ne su-bisce l’influenza, in quanto, seppure esclusa dall’atto formativo, è solleci-tata a una completa partecipazione ai suoi contenuti; (2) l’essere un prodottoartificiale delle classi egemoni (e dei loro “detentori speciali”) religiose,economiche, guerriere, politiche, che modificano, creano o cancellano i“mediatori” in modo da rappresentare i propri interessi.

Poiché i musei sono “mediatori” della memoria culturale, sulla basedei due presupposti si deduce che essi rappresentano e comunicano allasocietà gli interessi delle classi egemoni, di qualsiasi natura e dimensioneesse siano. Ciò significa, esemplificando, che gli interessi delle élite a li-vello della nazione saranno rappresentati dai musei nazionali, quelli delleconfessioni religiose dai musei confessionali, quelli delle élite cittadinedai musei municipali, quelli delle élite delle piccole comunità dai museiche illustrano e soprattutto interpretano storie strettamente locali, o micro-genealogie familiari. Il che conduce a due considerazioni sull’impatto deimusei sulla società: la negazione della neutralità del museo rispetto all’in-terpretazione dei dati della storia, e la consapevolezza di un uso politicodei musei da parte delle élite o delle classi sociali dominanti. Che, dettoin parole povere, significa che il museo contribuisce a creare culture, iden-tità sociali e storie artefatte, gradite alle varie forme e livelli del potere, ele diffonde attraverso il mezzo più convincente: sotto forma di narrativa.

La storia è il prodotto della memoria culturale che rappresenta un forteveicolo di potere. Essa viene perciò costruita partendo da fonti accurata-mente selezionate ed escludendo dal processo di formazione le memorieindividuali e comunicative incontrollabili e che possono dare spazio a unventaglio di diverse interpretazioni soggettive che possono fornire coloroche erano presenti a un avvenimento. Come portato sullo schermo daAkira Kurosawa (Rashōmon), evocato da Milan Kundera (L’ignoranza),ove l’autore propone la discrasia della memoria che sfalsa in continuazionel’interpretazione di un vissuto comune di due persone, e discusso da PierreNora (Introduzione a Les Lieux de mémoire, 1984), che sostiene esservitante memorie quanti sono i gruppi pensanti, cosicché la memoria è persua natura multipla ma individuale, mentre la storia appartiene a tutti enon a un solo individuo, ed è per vocazione universale.

La relazione fra la memoria culturale e la costruzione della storia ri-siede nel fatto che la prima viene sempre organizzata e trasmessa sottoforma di ricostruzione storica del passato, poiché questa è essenziale alla

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memorizzazione collettiva, e alla creazione di una cultura e di un’identitàcollettive. Non vi è dubbio che i musei sono nati come istituzioni per laconservazione del passato10, e anche oggi (tranne nei casi in cui si gene-rano contestazioni) i musei non conservano la memoria comunicativa digruppi viventi, ma solo la memoria culturale creata artificialmente “fis-sando – come dice Halbwachs – l’immagine e l’ordine di successione deifatti”. Ciò significa che nella maggior parte dei musei11 la memoria cultu-rale viene organizzata, conservata e trasmessa ai ricettori in forma storica,attraverso narrazioni, che sono notoriamente i più efficaci e i più antichistrumenti di diffusione della memoria culturale e dell’identità di una co-munità, da Gilgamesh e da Omero in poi.

Come la memoria culturale è un prodotto artificiale, così anche la suacristallizzazione in forma storica è il risultato artificiale di manipolazionie di selezioni operate dai gruppi sociali dominanti nella società, che deci-dono ciò che si deve ricordare e quanto si deve dimenticare. “Gli oblii, isilenzi della storia – ha scritto Le Goff – sono rivelatori dei meccanismidi manipolazione della memoria collettiva”. Da ciò deriva che quanto imusei organizzano (contribuiscono a creare) e comunicano è sempre unamanipolazione della memoria culturale organizzata in forma storica.

Secondo Poulot (2016, pag. 83) i musei sarebbero divenuti costruttorie comunicatori di storia solo tardivamente in rapporto al loro lungo per-corso. Egli ha sostenuto che solo negli anni Trenta dell’Ottocento si sa-rebbe avuta la trasformazione dei musei da antiquaria in elaboratori distorie, ove gli oggetti, non più catalogati e conservati come semplici traccedel passato, avrebbero cominciato a essere usati per costruire semprenuove storie. È da questo momento, dice ancora Poulot (pag. 127) che nelmuseo “ha luogo la discussione pubblica sulla memoria e sulla storia,sulle loro sfide e sui loro rispettivi meriti nei dibattiti civili e politici”.

Identità individuale e identità collettivaHo affermato in apertura del capitolo che il valore sociale del museo

consiste nella sua capacità di collegare i tre elementi che formano il ce-mento di ogni società, vale a dire la memoria collettiva, il patrimonio cul-turale e l’identità collettiva. In quanto custodi della memoria collettiva,attraverso la conservazione, la creazione, l’interpretazione e la comunica-zione del patrimonio culturale, i musei sono luoghi in cui si rappresental’identità collettiva, intesa come l’immagine sociale e culturale che un dato

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gruppo costruisce di sé, e nella quale i membri del gruppo si identificanoattraverso un processo di auto-riconoscimento e di distinzione rispetto adaltre costruzioni/identità sociali e culturali (Assmann 1997, pag. 101). Que-sto principio antagonista è intrinseco al concetto di identità. “Come non vipuò essere un concetto di sé senza un concetto degli altri, così non vi puòessere un’identità di ‘noi’, senza che vi sia un qualche altro gruppo”, hascritto Dundes (in Assmann 1997, pag. 122). La diversità rispetto agli altrirafforza l’identità di una comunità nei confronti di altre comunità, ma puòanche generare razzismo, odio etnico, xenofobia, ghettizzazione e perse-cuzione delle minoranze, rivolta di queste contro la cultura dominante, epolitiche aggressive che, è noto, sono il mezzo più efficace per far frontealle difficoltà politiche interne di una società (Smith 1998).

I musei sono dunque luoghi di identificazione per le comunità (nazioni,gruppi sociali, etnico-culturali, religiosi ecc.), luoghi di proiezione del-l’identità, e di auto-rappresentazione antagonista, perseguita attraversol’enfatizzazione della differenza o della supremazia dell’io rispetto all’al-tro. In quanto strumenti identitari, i musei non possono fare altro che op-porsi ad altre identità. Anche da questo deriva la natura politica del museo,che nella forma più semplice si materializza nella conservazione/esposi-zione di reliquie di guerra o di conquista, che persiste anche dopo che leragioni dei conflitti si sono sopite o sono del tutto scomparse, e popoliprima antagonisti si sono riconciliati. È il caso dei cimeli bellici, delle ban-diere e delle armi strappate al nemico in battaglia; è il caso della persi-stenza delle testimonianze etnografiche del colonialismo; della presenzadelle reliquie napoleoniche nei musei tedeschi, o, viceversa, delle reliquietedesche nei musei francesi. I musei non sono solo scrigni delle testimo-nianze di conflitti politico/militari, ma lo sono anche di antagonismi po-litico/culturali. Essi conservano perciò non solo prede di guerra, ma anchebottini ottenuti approfittando della debolezza economica, dell’insipienzae spesso della corruzione, della confusione politica di altre comunità, dialtre etnie o di altre nazioni, come narra il caso esemplare dei marmi delPartenone esibiti a Londra quasi come prede di guerra.

Nei musei il principio antagonista che sovrintende all’identità vienecristallizzato. Anche quando le ragioni dell’antagonismo sono venute menoe le parti si sono riconciliate, le antiche prede belliche, i frutti delle razzieo delle colonizzazioni non vengono restituiti, o vengono restituiti con ri-trosia solo quando la restituzione garantisce alla nazione o alla comunità

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che restituisce vantaggi politici (come i tesori del museo di Dresda restituitidai sovietici alla Germania Democratica), o quando il razziatore, sconfittoa sua volta, è costretto a restituire il maltolto (come nel caso dei prelievinapoleonici).

Sebbene non lo neghi in assoluto, mi sembra difficile che il museopossa essere luogo di identificazione per singoli individui, isolati rispettoalla comunità di appartenenza. L’identità individuale è infatti un prodottodella memoria individuale, o memoria del presente, ed è perciò legata,come quest’ultima, al ricordo diretto che i singoli individui hanno con larealtà che li circonda. Poiché, come abbiamo visto, il museo è il luogo dellaconservazione e della comunicazione della memoria culturale, ossia èun’istituzione che memorizza e rappresenta il passato costruito artificial-mente per lo più in forma storica, nel museo il singolo individuo può entrarein contatto solo con la rappresentazione dell’identità collettiva del suogruppo di riferimento. Ciò è stato sottolineato da quanti (per esempio Dun-can 1991, 1995, Pomian 2003) hanno considerato il museo luogo di ritua-lizzazione della cultura e dell’identità collettive, e la visita al museo comeun rito collettivo paragonabile ai riti religiosi o tribali. Nel museo non vi èposto per l’identità individuale: anche il godimento estetico che l’individuoprova al cospetto delle opere d’arte non è del tutto intimo e personale, poi-ché anche il gusto e l’estetica sono condizionati dal contesto sociale.

Per concludereCon riferimento al ruolo che i musei svolgono nel collegare memoria,

patrimonio e identità, possiamo riassumere così quanto detto nelle pagineprecedenti: i musei fissano la memoria culturale collettiva di una comunitàsotto forma di oggetti fisici che costituiscono il patrimonio culturale, e netrasmettono i significati simbolici attraverso forme narrative. In quanto“mediatore complesso”, o “scrigno di mediatori”, il museo fa parte del-l’ampia gamma dei “mediatori” che contribuiscono alla creazione dellamemoria culturale / cultura di una comunità. Poiché la memoria culturalenon nasce né naturalmente né spontaneamente, ma è un prodotto artificialedelle élite della comunità che viene costruito e diffuso proprio attraversoi “mediatori”, ne deriva che i musei sono strumenti al servizio degli inte-ressi delle classi egemoni. I musei sono perciò potenziali manipolatoridella memoria culturale, contribuiscono al processo di costruzione dellamemoria culturale, che organizzano in chiave storica, e partecipano a edu-

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care i membri della comunità a riconoscere la propria identità e unicitàfacendo ricorso a narrazioni storiche. In quanto rivolti al passato e non alfuturo, i musei sono “strutture anacrone” nel senso di Erdheim (1988, inAssmann), e cioè istituzioni che nella società sono volte più alla conser-vazione che al progresso12.

Se la memoria culturale/cultura è un artefatto che può essere manipo-lato, se il patrimonio culturale può essere variamente interpretato, e la sto-ria ricondotta a interpretazioni di parte, il museo diviene uno strumentopolitico in grado di determinare i ricordi, la storia e l’identità di una co-munità, sia essa una società strutturata, una nazione, un’organizzazioneeconomica, un gruppo culturale, etnico o religioso. “I ‘cadres collectifsde la mémoire’ – ha scritto Halbwachs (1925, pag. 9) – sono strumenti dicui la memoria collettiva si serve per ricomporre un’immagine del passatoche si accorda in ogni epoca con i pensieri dominanti della società”. Ilche, detto in parole povere, significa che chi possiede e ha la possibilitàdi organizzare la memoria di una comunità possiede le chiavi di questacomunità.

Sul patrimonio culturale

Nelle pagine precedenti ho trattato degli oggetti, e delle memorie cheessi fissano, in relazione alla formazione del patrimonio o eredità culturale.Nelle pagine che seguono tratterò del patrimonio culturale – oggetti e lorosignificati simbolici – in relazione ai musei, e di come la gestione e la crea-zione del patrimonio attuate dai musei siano essenziali per il controllo po-litico della società. Per far ciò partirò dall’assunto, già discusso, che glioggetti che fissano la memoria sono elementi fondanti dell’identità indivi-duale e collettiva, nel senso che questa si costruisce sugli oggetti prodottio posseduti, e sui ricordi che essi veicolano verso l’individuo e verso la co-munità. Sosterrò quindi che senza il patrimonio culturale non può esisterecomunità umana, e che, come ha scritto l’avvocato John Moustakas rife-rendosi alla vicenda paradigmatica dei marmi del Partenone, per una co-munità la perdita del patrimonio è psicologicamente intollerabile13.

Ai fini dell’identità, il rapporto fra oggetti e soggetti è tuttavia ambiguo:se è vero che gli oggetti e le memorie creano l’identità dei soggetti, è anchevero che sono i soggetti stessi a produrre o a collezionare gli oggetti (sotto

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qualsiasi forma). Dal che si deduce che ciascun soggetto individuale o col-lettivo crea la propria identità assieme al proprio patrimonio. Visto in pro-spettiva temporale (o storica) il processo di creazione dell’identità è quindiun processo continuo che crea una spirale ascendente e produce una varia-zione progressiva e inevitabile delle identità, l’identità plastica.

Molti si ostinano a considerare il patrimonio culturale non come com-plesso, ma come somma di oggetti materiali, ciascuno con il proprio si-gnificato simbolico, esattamente come il patrimonium dei Romani era uninsieme di oggetti singoli14. L’idea di patrimonio è invece multipla e cu-mulativa. Il patrimonio è un insieme di singole forme ciascuna delle qualiha perduto la propria individualità, di cui gli uomini isolatamente o riunitiin comunità o nazioni, al di là del contatto fisico, hanno anche una perce-zione latente, assunta sin dai primi anni di vita grazie ai rapporti interper-sonali e contestuali che prescindono dai processi educativi diretti. Perquesta sua natura multipla il patrimonio è chiamato con vocaboli che ri-portano alla complessità e alla onnicomprensività: esso è heritage per gliinglesi, patrimoine per i francesi, kulturbesitz per i tedeschi15.

Non così in Italia, ove nella prassi legislativa, ma spesso anche nellaletteratura corrente, si preferisce usare la dizione “beni culturali” come si-nonimo di “patrimonio culturale”. Questa enfatizza il lato materiale deisingoli elementi, il loro valore venale e l’isolamento reciproco, conduce aun’interpretazione elitaria, pedagogica, burocratica e fondamentalmentematerialista del valore sociale dei beni culturali che apre la via alla lorocommercializzazione. L’uso di una dizione al posto di un’altra non è unformalismo lessicale senza importanza, ma corrisponde a un certo tipo diinterpretazione del patrimonio e del suo ruolo sociale (Pinna 2001). Lasostituzione della parola “patrimonio” con “beni culturali” conduce a en-fatizzare l’estetica dell’oggetto, il suo essere icona storica, e il suo isola-mento, induce a considerare il patrimonio culturale come insieme disingoli oggetti isolati (i beni) ciascuno dei quali con un proprio intrinsecoe spesso non condiviso valore culturale (culturali) (con tutto ciò che com-porta, per esempio proteggere la singola opera e non il suo contesto)

Ricordo a questo riguardo la critica che Marta Nezzo (2013, pag. 305-306) ha rivolto alle mostre organizzate a Firenze da Bottai (nel 1911 e1922), poiché contiene sia l’idea che il patrimonio culturale non sia uncomplesso unitario, ma sia formato da un insieme di singole forme d’arte,sia l’idea che sia necessario un indottrinamento scolastico per identificarlo,

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interpretarlo e conoscerlo. La Nezzo scrive infatti che le mostre a tesi,come quelle di Bottai, “dissipano il complesso valore intrinseco dei singolioggetti, per sostituirlo con letture sequenziali spesso univoche”, e negaperciò il valore patrimoniale della narrazione, e con esso il potere evoca-tivo dell’insieme, a favore del valore estetico dei singoli elementi, oggettie opere. Nelle mostre a tema, aggiunge la Nezzo, “un progetto maieuticoe civico attraverso le arti è soppiantato da ipoteche suasorie d’altro ge-nere: nazionaliste, commerciali, sostanzialmente an-estetiche (o aneste-tizzanti?)”. Inoltre, esattamente come Benedetto Croce auspicava“un’ordinata, capillare educazione dei fruitori [dell’arte]”, anche la Nezzoevoca la necessità di una “sistematica preparazione scolare sul fronte este-tico e storico” (evidentemente intesa qui come preparazione all’interpre-tazione del patrimonio), necessità condivisa da Mario Aldo Toscano,(2008, pag. 40) che scrive che non vi è coscienza collettiva del patrimonio“senza un adeguato percorso educativo alle spalle”. Siamo a un GrandeFratello educativo chiamato a fronteggiare il pericolo di una percezione edi un’interpretazione libera del patrimonio culturale da parte dei singoliindividui. Il che è tipico delle democrazie deboli e paurose.

Sebbene l’idea di patrimonio culturale venga collegata soprattutto aoggetti, a luoghi e a monumenti (nel senso latino di monumentum comericordo o memoria), in quanto capaci di trasmettere significati, sollecitarericordi, e tessere attorno agli individui una rete di relazioni, in realtà la na-tura del patrimonio è assai più articolata, in quanto la sua frazione mag-giore è del tutto immateriale, composta da relazioni e memorie che nonnecessariamente nascono dal rapporto con realtà fisiche. Vi è un bellissimoscritto di Fekri Hassan che evoca, come parte del patrimonio culturale cai-rota, le sensazioni trasmesse dal quartiere Al-Hussein, “l’atmosfera reli-giosa del quartiere intriso di odori di spezie, di incenso, di profumiorientali, di kebab e del ronzio della folla, dei venditori ambulanti, deibambini e delle radio, si mescola alle abitudini popolari Sufi, che sonodivenute un elemento integrale del pensiero e delle abitudini popolari isla-miche sin dai tempi dei Mamelucchi e degli ottomani” (1998, pag. 202).Il patrimonio è quindi “soprattutto un insieme di forme trasmesse”, comedice André Chastel (in Babelon e Chastel 1994, pag. 93), formate daglioggetti fisici e dai loro fantasmi, un insieme di semiofori ciascuno deiquali mescola materialità e immaterialità16. Da ciò deriva che il patrimonioculturale non è statico, ma è invece un “organismo” in continuo movi-

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mento, che muta, si trasforma, a volte si consuma, talvolta si spegne, piùspesso cresce. Dice Hegel che la tradizione (che qui possiamo identificarecon il nostro concetto di patrimonio) non è una massaia “che custodiscefedelmente ciò che ha ricevuto per conservarlo e trasmetterlo invariatoai posteri, […] ma è viva e si ingrandisce come un fiume impetuoso checresce man mano, quanto più si allontana dalla sua sorgente” (Introdu-zione alla storia della filosofia, in Toscano e Gremigni, pag. 18).

Questa forza evolutiva intrinseca deriva dalla complessità del patri-monio culturale, dalla vaghezza dei suoi limiti, che permettono un’espan-sione che va dal puntiforme all’infinito, e soprattutto dalla sua “relatività”.Esso non è infatti un’entità assoluta, ma è una entità che diviene reale soloin relazione a qualcuno. Un oggetto o un monumento vengono inglobatiin un patrimonio culturale se si relazionano con un soggetto (un individuoo un insieme di individui) per il quale hanno un significato simbolico ometaforico e una capacità evocativa (la capacità di produrre un effetto dirisonanza direbbe Greenblatt17). Poiché il patrimonio culturale non è soloun insieme di oggetti fisici, ma un complesso di oggetti e di significati,cui sono collegati ricordi, affetti, dolori, e poiché questi cambiano in re-lazione al soggetto che si rapporta con la frazione fisica dell’oggetto, ilpatrimonio culturale è diverso da individuo a individuo e da comunità acomunità. Ogni individuo e ogni comunità ha un “proprio” patrimonioculturale, come ha una propria memoria, di cui ne può condividere conaltri solo una parte18. Il gioco della condivisione è come il gioco delle sca-tole cinesi: vi sono patrimoni individuali, famigliari, comunitari, tribali,cittadini, nazionali, sovranazionali, ciascuno dei quali è formato dall’in-sieme di una frazione – quella condivisibile – dei livelli precedenti. Ciò siriflette sulla cultura. L’uomo – ha scritto Jan Assmann (1997, pag. 108) –non solo è capace di vivere in comunità di dimensioni diversissime – dallatribù, che conta alcune centinaia di membri […], fino allo stato, con mi-lioni se non miliardi di cittadini –, esso può anche appartenere a moltigruppi diversi contemporaneamente, dalla famiglia al partito, alla comu-nità professionale, ecc., fino alla comunità religiosa e alla nazione. Leformazioni culturali sono di conseguenza altrettanto molteplici, e soprat-tutto sono polimorfe o polisistemiche: all’interno di una cultura, intesacome macroformazione, vi è una quantità di subformazioni culturali”.

André Chastel ha fatto notare che “la nozione di patrimonio ha sempremolte dimensioni”. Come l’onda che un sasso genera in uno stagno si al-

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larga sempre più ma nello stesso tempo diminuisce di forza, così il patri-monio culturale nella scala della condivisione diviene sempre più com-prensivo, ma nello stesso tempo meno coinvolgente per il singoloindividuo. Evidentemente le cose sono più complicate di questo schema:diverse onde concentriche si intersecano e si sovrappongono, cosicché gliindividui o le comunità possono condividere frazioni patrimoniali diverse;etnie o confessioni diverse possono – a volte con difficoltà – condividerela medesima idea di nazione; i supporter di squadre di calcio normalmenteantagoniste condividono la stessa passione per la nazionale del propriopaese; analogamente si può condividere una lingua mantenendo i propridialetti, e così via. “Nella nostra vita di tutti i giorni – ha scritto AmarthyaSen –, ci consideriamo membri di una serie di gruppi, e apparteniamo atutti questi gruppi. La cittadinanza, la residenza, l’origine geografica, ilgenere, la classe, la politica, la professione, l’impiego, le abitudini ali-mentari, gli interessi sportivi, i gusti musicali, gli impegni sociali e via di-scorrendo ci rendono membri di una serie di gruppi. Ognuna di questecollettività, cui apparteniamo simultaneamente ci conferisce un’identitàspecifica. Nessuna di esse può essere considerata la nostra unica identità,o la nostra unica categoria di appartenenza”; noi apparteniamo, scriveancora Sen, “a molti gruppi diversi […] e ognuna di queste collettività èin grado di conferire a un individuo un’importante identità potenziale”.

Come si è detto, nei paesi di lingua inglese il patrimonio culturale vienedesignato come cultural heritage, che in italiano si traduce letteralmente ineredità culturale. Questi termini sembrano relegare il patrimonio culturalenel passato, come qualcosa che ha a che fare con la memoria e che viene tra-smesso da una generazione a un’altra, come fosse un oggetto o un quadro difamiglia. Ciò crea l’idea della staticità del patrimonio, il cui unico mutamentonel processo di trasmissione sarebbe una crescita per accumulo, una trappolain cui sono caduti in molti, fra questi Andrée Desvallées quando dice che “l’-heritage comprende i beni trasmessi da una generazione a un’altra mentreil patrimoine si riflette su tutti i beni esistenti e trasmissibili”. In realtà le cosenon stanno esattamente così. Una caratteristica del patrimonio culturale è lacapacità di una sua continua trasformazione, che può avvenire per accumulo,ma anche per sottrazione – oblio, cancellazione, disconoscimento, rifiuto –che possono aver luogo nel tempo ma anche nello spazio. A livello del patri-monio culturale famigliare, per esempio, la separazione dalla famiglia daparte di un suo componente implica la cancellazione o l’oblio di una frazione

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del patrimonio19 e l’inizio della costruzione di una nuova entità patrimoniale,nella quale la frazione precedente sarà estremamente ridotta. Questo transfertpatrimoniale si ha anche nel caso degli emigranti, ed è facilitato in questocaso dalle pulsioni sociali legate all’integrazione20. Esso può aver luogo anchenel caso di trasferimenti del patrimonio materiale per lasciti, donazioni, ven-dite o contratti matrimoniali di cui è ricca la storia delle grandi famiglie. Ciòsignifica che il patrimonio culturale, a qualsiasi livello lo si consideri è estre-mamente instabile e perciò facilmente modellabile, il che lo rende facile predadi quanti – individui, governi, gruppi sociali, economici, etnici, religiosi opolitici – lo vogliano usare per i propri interessi; “fino a quando il patrimoniopotrà essere usato per profitto, o per produrre orgoglio o identità, o per sog-giogare o escludere qualcun altro, allora vi sarà chi lo userà” ha scritto PeterHoward (2003, pag. 5).

Esiste anche una via più brutale alla creazione/modificazione dei patri-moni culturali. È quella attraverso cui, con violenza, saccheggi, appropria-zioni indebite, un patrimonio si arricchisce di tutto o di parte di un patrimonioaltrui, della porzione fisica ma anche, con le dovute modifiche di prospettiva,del valore evocativo e identitario che esso contiene. È il “cannibalismo pa-trimoniale”: ingestione di patrimoni appartenenti a soggetti diversi, e dige-stione e assorbimento attraverso l’attribuzione di nuovi significati simbolicial proprio insieme patrimoniale. Il che ci porta a concludere che ogni patri-monio culturale si forma a scapito di altri patrimoni, come ha sostenuto im-plicitamente Benjamin quando ha scritto che ogni patrimonio culturale nonè mai un documento di cultura senza essere nello stesso tempo un documentodi barbarie21. Poiché esiste un parallelismo fra patrimonio culturale e identità,facendo riferimento al cannibalismo patrimoniale si può dire che ancheun’identità si costituisce a scapito di altre identità.

Ipermnesia e oblioSecondo Rodney Harrison (2013) la società dei primi anni del nostro se-

colo è stata caratterizzata da una “continua e diffusa patrimonializzazione”(che egli attribuisce anche al nascere e al diffondersi del concetto di patrimoniointangibile), vale a dire da un aumento esponenziale del patrimonio culturaledovuto a un sempre maggior numero di oggetti, luoghi, comportamenti e tra-dizioni immateriali che vengono registrati ed elencati dalle nazioni e dalle or-ganizzazioni nazionali e internazionali22, il che avrebbe prodotto una “crisi diaccumulazione del passato nel presente”. Poiché il patrimonio culturale è il

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veicolo attraverso cui gli avvenimenti si fissano nella memoria, il risultato diquesta iper-patrimonializzazione avrebbe come effetto un accumulo di me-moria, una ipermnesia che porterebbe, sia i singoli individui, sia le società, al-l’incapacità di costruire una memoria coerente. Le società, dice Harrison,sarebbero condotte a sottostimare il ruolo del patrimonio nella produzionedella memoria collettiva, verrebbero sommerse da molte tracce diverse di pas-sati eterogenei che renderebbero difficile il processo di formazione di questaloro memoria23. Ciò però accadrebbe se la memoria non fosse il prodotto, siaper gli individui, sia per le società, dei due processi opposti del ricordo e del-l’oblio. Ai fini della costruzione della memoria, come il ricord, anche l’oblioè un processo creativo perché permettere il modificarsi della memoria in nuoveforme, come hanno sostenuto Aleida Assmann, Pierre Nora, Marc Augé(1998), che considera l’oblio una forma necessaria di produzione culturale at-traverso cui la società enfatizza e ricorda ciò che ha valore sociale e dimenticaciò che non è rilevante, e infine Umberto Eco (1997), secondo il quale l’oblionon si raggiunge solo cancellando tracce della memoria, ma anche control-lando le nuove narrative alternative che emergono da tali cancellazioni.

Grazie alla relazione fra memoria e patrimonio culturale, anche la di-struzione di quest’ultimo diviene, comunque la si giudichi dal punto divista etico, un atto creativo; “la distruzione o la rimozione di un oggetto,di un luogo o di un’abitudine non è solo un processo distruttivo, ma è unprocesso attraverso cui si tenta di aprire la strada per la creazione di unanuova memoria collettiva” ha scritto Benton (citato da Harrison 2013, pag.171). In questo quadro le distruzioni iconoclaste, che riteniamo essere talidal nostro punto di vista, quali quelle che hanno colpito i luoghi di cultonel Mali o i Budda di Bamiyan, assumono prospettive diverse se sonoconsiderate da coloro che le attuano, da coloro che le subiscono, o da co-loro che le giudicano in modo estraneo e quindi astratto. Per coloro che leattuano, le distruzioni iconoclaste sono azioni che creano nuove identitàcollettive. Nella fase successiva a ogni conflitto – guerra o rivoluzione –non è possibile alcuna ricostruzione, nel senso letterale di questa parola,poiché si creano nuove realtà e nuove identità; da cui deriva anche che lariconciliazione fra le parti dopo un conflitto è spesso molto difficile.

La percezione del patrimonio culturaleUna caratteristica del patrimonio è che lo si può possedere senza

possedere fisicamente i suoi costituenti. Il che ci permette di parlare

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di “percezione del patrimonio culturale”. Nel senso che il valore evo-cativo del patrimonio non deriva solo dal contatto fisico, ma anchedalla percezione che si ha della sua esistenza, al di fuori di ogni con-tatto materiale o visivo.

Nel 1796 il Direttorio affianca all’Armata d’Italia comandata da Na-poleone Bonaparte una Commissione per la ricerca degli oggetti discienza e d’arte e ne affida il coordinamento al matematico GaspardMonge24. I fini della Commissione sono noti, scegliere oggetti d’arte e discienza da portare in Francia come trofei di guerra delle armate della li-bertà. Da Roma, il 29 luglio Monge scrive alla moglie: “sono trasecolatoquando ho visto in che stato di abbrutimento è costretto a vivere un popoloretto da un governo che si fonda sull’impostura e che, da dieci secoli, so-pravvive solo grazie alle sovvenzioni delle nazioni cristiane. Le rovinedell’antica Roma sono peraltro magnifiche; rispetto a esse tuttavia, gliimbecilli che abitano questa città manifestano un’estraneità pari a quellache, relativamente alle piramidi, dimostrano i poveri maomettani, i qualinon sanno neanche da chi sono state erette. Il Foro, il luogo ove il popoloromano esprimeva la propria volontà, il teatro delle grandi passioni diuomini straordinari; il Foro, progressivamente arricchito di monumentisplendidi dagli imperatori, credo per impedire che tornasse a essere sededi accesi dibattiti. Ebbene! Il Foro è chiamato oggi Campo Vaccino, nomeevidentemente degno dell’attività che vi si sviluppa: il mercato del be-stiame” (1993, pag. 68). Lettera interessante perché permette di introdurreuna discussione sulla natura del patrimonio culturale, e soprattutto sul rap-porto fra materialità e immaterialità che in ciascun individuo trasformagli oggetti fisici in idee, ricordi, sentimenti, ma il cui fine era giustificarei prelievi francesi in nome della “liberazione” delle opere. In essa Mongedimentica, volutamente o meno, l’attenzione e gli studi di cui in Romaerano oggetto le opere d’arte. Dimentica le collezioni che esistevano nellacittà nella metà del XVI secolo. Dimentica Piranesi che con le sue acque-forti, diffuse in tutta Europa, sottrasse le antichità romane all’oblio deltempo25. Sorvola sul Palladio e su Ulisse Aldrovandi, che come frutto delsuo soggiorno romano diede alle stampe l’opera Delle statue romane an-tiche che per tutta Roma, in diversi luoghi e case si veggono (Roma 1556),oggi considerata la più importante fonte di conoscenza della statuaria ro-mana (ma anche di monete, vasi, iscrizioni). Il commissario francese di-mentica il Petrarca, che in una lettera a Giovanni Colonna evoca la

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commozione provata di fronte alle rovine e ai siti di Roma durante unapasseggiata, probabilmente della primavera del 134126. Quel Petrarca chesecondo Panofsky, estrasse dalle rovine di Roma la prima “rinascenza”dell’arte classica e una nuova visione della storia27.

Vero è che i monumenti dell’antica Roma vennero saccheggiati peranni, non solo per mano dei barbari, ma per mano degli stessi papi chenon disdegnavano di costruire nuovi monumenti con le pietre che traevanodagli antichi – “Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini” si dicevaa Roma con riferimento a Urbano III Barberini –, né di far commercio distatue e di oggetti d’arte. “I grandi edifici dell’antichità sono trasformatiin cave, o anche recuperati e denaturati: a Roma, nell’XI secolo, gli archidel Colosseo sono tappati, occupati da abitazioni, depositi e officine men-tre l’arena accoglie una chiesa e la cittadelle dei Frangipani; il CircoMassimo è riempito da abitazioni affittate dalla congregazione di SanGuido; gli archi del teatro di Pompeo sono occupati da mercanti di vinoe di trattorie, quelli del teatro di Marcello da straccivendoli, rigattieri eda taverne” (Choay, pag. 29).

Tuttavia, Robert Adams (1983) nel suo volume dedicato alla disper-sione delle testimonianze culturali ricorda che il popolo di Roma “affe-zionato alle sue rovine e alle sue libertà” fu felice quando nel 1590l’angelo della morte lo liberò da Sisto V che distruggeva le antiche vestigiaper la ricostruzione della città e manifestò “in modo sfrenato e tumultuosoalla sua morte, abbattendone la statua”.

Si deve però ricordare che proprio a Roma, fin dal XV secolo, era natol’interesse governativo per la protezione dei monumenti, che si concretizzòin diverse bolle papali, nell’istituzione di apposite commissioni, in divietia manomettere i monumenti e in vincoli al possesso di beni storici, checercarono di porre un freno alla spoliazione dei monumenti antichi e agliscavi clandestini (Choay, pag. 43-47). Segnale evidente che per gli abitantidi Roma l’importanza del patrimonio classico non era sin d’allora solouna percezione inconscia. Nel 1425 il pontefice Martino V Colonna emanòuna prima bolla (Etsi de cunctarum) che considerava sacrilegio portareoffesa alle antichità, e istituì una commissione per la tutela degli edificiclassici. Nel 1462 seguì la bolla di Pio II Cum almam nostram urbem. Nel1516 Leone X affidò a Raffaello l’incarico di ispettore delle Belle Arti.Nel 1575 Gregorio XIII emanò la bolla Quae publice utilia. Bolle, com-missioni ed editti che corsero parallelamente all’istituzione delle collezioni

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papali che posero le basi per la futura nascita dei primi musei. Inoltre,sempre a Roma, prese forma un primo abbozzo del concetto di proprietàpubblica del patrimonio, con il dono di Sisto IV (1471) al popolo romanodi varie sculture di bronzo (fra cui la Lupa e la colossale testa di Costan-tino) che furono poste sul Campidoglio di fronte al Palazzo dei Conser-vatori, ove ancora si trovano (Figura 1), a testimoniare, dice Cristina DeBenedictis (2015, pag. 47), “in forma spettacolare il ruolo e l’importanzadel papato nei confronti della magistatura e delle autonomie municipalicittadine”. Queste sculture costituirono le premesse di quelli che sarannoi Musei Capitolini (1734). Infine è d’obbligo ricordare che nella città ca-pitolina, fra il 1769 e il 1790 (cioè prima della trasformazione del palazzodel Louvre in Muséum des Artes), prese forma uno dei primi musei pub-blici, chiamato Museo Pio Clementino dai due papi che lo promossero(Clemente XIV e Pio VI).

Figura 1 ■ La colossale testa di Costantino donata al popolo romano da Sisto V nel1471. Musei Capitolini, Roma.

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Seppure nel frazionamento politico, la supremazia italiana nella mu-seologia pubblica è indubbia, poiché il primo museo pubblico nacque aVenezia nel 1587, quasi un secolo prima della nascita dell’AshmoleanMuseum che, nato nel 1683, viene considerato da Jonah Siegel il primomuseo pubblico, come appare nella sua cronologia (2008, pag. xvii). Inquegli anni il nobile veneziano Domenico Grimani fece dono alla Sere-nissima della collezione di sculture classiche della famiglia che si tro-vava nel palazzo di Santa Maria Formosa, e suo nipote Giovanni si feceinterprete affinché venisse istituito uno statuario pubblico, si dice perfar annullare una condanna subita per essere stato sconfitto dai turchi.La Serenissima accettò, e sistemò nell’antisala della Biblioteca Marcianalo statuario ricevuto in dono, oggi parte di un Museo Archeologico Na-zionale che si distingue purtroppo per un’infinita tristezza dell’esposi-zione28 (Figura 2).

Tornando a Monge, non voglio infierire ma devo ricordare che la per-cezione popolare del patrimonio era viva anche in altre parti d’Italia. Ri-

Figura 2 ■ Una sala del Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa (Venezia) con le nicchie,ora vuote, che contenevano le opere dello statuario classico donate alla Serenissima nel1587, con la clausola di farne un “museo” pubblico.

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cordo a questo riguardo che verso il 1832 Mendelssohn si meravigliò nelvedere gli Uffizi pieni di gente in un giorno di festa, “per la maggior partecontadini e contadine in costume nazionale, che, venuti in città per assi-stere alle corse di cavalli, volevano cogliere l’occasione per visitare lacelebre Galleria”. Quegli Uffizi la cui origine pubblica e popolare risalea qualche anno prima dell’apertura del Louvre al popolo, nel 1769.

Certo! Gli allevatori romani del diciottesimo secolo vendevano le vacchenei fori imperiali e i pastori pascolavano le pecore sotto gli archi degli ac-quedotti, cosa che non era raro vedere nella campagna romana ancora neglianni Cinquanta del Novecento. Ma queste antiche vestigia, che per Mongeerano solo vestigia di un passato a lui estraneo e quindi da conservare comereliquie, rappresentavano invece per i romani parte di un paesaggio dome-stico, del loro paesaggio culturale, potremmo dire usando la terminologiadell’UNESCO. Come si legge nella Vita di Antonio Canova di MelchiorreMissirni (1824), un contemporaneo di Monge, Antonio Canova cercò dispiegare a Napoleone, ormai imperatore ancora intento nei saccheggi, “comeil popolo romano abbia un sacro diritto sopra tutti i monumenti che si di-scuoprono sul terreno, e come questo sia un prodotto intrinsecamente unitoalla terra, così che né le famiglie gentilesche, né il principe stesso potreb-bero quelle cose mandar fuori Roma, alla quale appartengono come ereditàde’ maggiori e premi di vittoria degli antichi”. Come oggi, anche allora que-ste vestigia erano inscritte nella vita quotidiana dei cittadini di Roma29, chegiornalmente le vivevano, consumandole (Figura 3). Erano cioè una frazionedel loro patrimonio culturale; un patrimonio che esiste sempre, in quanto sene ha la percezione, anche se tale percezione non si trasforma in consape-volezza, individuale o collettiva, e quindi in azioni di analisi, di interpreta-zione, di ricostruzione, di conservazione, di tutela. È quanto Perter Burke(1969, pag. 2) asserisce essere avvenuto nel Medioevo, quando i resti ar-cheologici dell’antica Roma “erano considerati ‘meraviglie’, mirabilia. Mavenivano considerati naturali. Nessuno sembrava chiedersi come ci fosseroarrivati, come fossero stati costruiti e perché l’architettura fosse diversa daquella usuale”. Certamente, come scrive il Petrarca, il popolo di Roma eraignorante del passato romano, nondimeno quelle vestigia erano parte dellaloro memoria geografica, e quindi parte della loro eredità culturale, nel sensoche senza di esse, pur non conoscendone il significato e la storia, sarebberostati orfani del loro presente. Perciò le richieste del fornaio romano di am-pliare la sua attività a spese del Pantheon, di cui racconta Marta Nezzo

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(2013, pag. 303), non possono essere considerate né una violazione simbo-lica, né una dequalificazione del monumento, ma l’uso naturale di uno spa-zio in cui passato e presente si fondano e non si distinguono. Comegiustamente fa notare la Nezzo, il Pantheon era per il fornaio niente più cheun tratto del “suo spazio visivo e vitale quotidiano da sfruttare e ottimizzare”.In questi termini mi è difficile credere che un abisso profondo separi ilmondo del passato da quello presente, come invece sostiene Aleida Assmann(2002, pag. 346).

Un’analoga percezione inconscia del patrimonio era diffusa fra i Greciben prima che il paese assumesse, parallelamente ai primi moti indipen-dentisti, la coscienza storica del proprio passato. In Grecia, ove come inItalia le tracce del passato sono onnipresenti, “molte strutture architetto-niche e oggetti dell’antichità classica erano naturalmente visibili e in molticasi strettamente integrati nel tessuto della vita di ogni giorno. Inoltre, a

Figura 3 ■ Veduta del Foro Romano al mattino, Louise-Joséphine Sarazin de Bel-mont, 1860, Louvre. “I resti archeologici dell’antica Roma erano considerati ‘meraviglie’,mirabilia. Ma venivano considerati naturali. Nessuno sembrava chiedersi come ci fosseroarrivati, come fossero stati costruiti e perché l’architettura fosse diversa da quella usuale”(Peter Burke 1969).

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causa delle loro dimensioni e della fattura, erano fonte di ammirazione,spesso di rispetto (o anche di una venerazione quasi religiosa), ed eranoinvestiti di vari significati e relazioni” (Hamilakis, 2007, pag. 65). Rovinee oggetti antichi erano perciò inseriti dal popolo nelle proprie leggende enei miti del folklore. Essi venivano difesi e protetti, non tanto perché fos-sero considerati testimonianze di un diretto e reale passato greco, che pe-raltro la chiesa ortodossa si sforzava di negare30, ma perché venivanoriferiti a un passato mitico, popolato da un distante e immaginario popoloellenico. Essi erano perciò investiti di poteri sovrannaturali, cosicché laloro distruzione sarebbe stata foriera di lutti e di rovine. Hamilakis ricordache gli ateniesi attribuirono un’epidemia alla distruzione di una colonnadel tempio di Giove Olimpio, ordinata dal governatore ottomano di Atenenel 1759 per farne cemento da costruzione, e che i cittadini del villaggiodi Lepsina (l’antica Eleusi) tentarono di opporsi al trafugamento da partedi Lord Elgin del frammento di una statua che essi attribuivano a HagiaDemetra, e che ora fa parte delle collezioni del Fitzwilliam Museum. Egliracconta anche che i facchini abbandonarono sulla strada una cassa di sta-tue staccate dal Partenone dagli uomini di Lord Elgin, perché dicevano diaver udito piangere e protestare gli spiriti. In questo pianto vi sono la tem-poraneità e la materialità di quella che Hamilakis (2008) considera un’ar-cheologia indigena pre-modernista, non ufficiale e alternativa, per la qualele statue che emergevano dalle campagne non erano le immagini dell’an-tico e mitico popolo degli Elleni, ma erano gli Elleni stessi31.

Questa coesistenza temporale che integra il patrimonio del passatonella normale vita quotidiana, che Hamilakis cita per la società grecaanteriore alla nascita dell’archeologia moderna, e che per i cittadini diRoma ho chiamato “percezione del patrimonio”, giustifica la disatten-zione alla conservazione che Gaspard Monge chiamava rozzo abbruti-mento. In effetti, nella normale coesistenza fra la vita e le vestigia delpassato, queste ultime non sono protette e mostrate, come avverrà conlo sviluppo della coscienza storica del patrimonio. Come esseri viventiintegrati alla società, i resti del passato hanno una propria biografia cheli destina alla morte o alla consunzione, esattamente come sono destinatialla morte per disfacimento o per seppellimento i manufatti di molte so-cietà indigene. Quatremère de Quincy dimostra di dare la stessa inter-pretazione della consapevolezza del patrimonio quando nella terzalettera a Miranda scrive (1796, in Pommier 1989, pag. 102) che “il vero

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museo di Roma, quello di cui parlo, si compone, è vero, di statue, di co-lossi, di templi, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, distucchi, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti d’orna-menti, di materiali di costruzione, di mobili, di utensili, ecc., ma si com-pone anche di luoghi, di siti, di montagne, di cave, di antiche strade,delle reciproche posizioni delle città in rovina, dei rapporti geografici,delle relazioni di tutti gli oggetti fra loro, dei ricordi, delle tradizioni lo-cali, degli usi ancora esistenti, dei parallelismi, e dei confronti che nonpossono farsi che nel paese stesso”. Si tratta di una consapevolezza co-stante, anche se a volte latente, che deriva dalla familiarità quotidiana,che – scrive (in Babelon e Chastel 1994, pag. 88) – oblitera nelle societàe negli individui le ragioni dell’attaccamento ai prodotti famigliari cheora riuniamo nella nozione di patrimonio, ma che viene risvegliata daidisastri, dalle crisi e dai crimini. Questo risveglio della consapevolezzadel patrimonio culturale in periodi traumatici è stato ricordato da MartaNezzo (2013) per l’Italia coinvolta nei due conflitti mondiali, nello scri-vere che “una possibile forte riqualificazione identitaria (individuale ecollettiva) – sollecitata dall’angoscia della perdita – agglutina così infunzione della violenza”. Ella tuttavia identifica, a mio avviso erronea-mente, la consapevolezza identitaria sollecitata dal “patrimonio costrettoalla guerra”, che “afferma valori che lo allontanano dalla consuetudinefisico-estetica con i singoli”, con “la necessità del consumo politico”.

Il risveglio traumatico della consapevolezza è dimostrato da avveni-menti concreti. Nel 1627 i mantovani protestarono quando il duca Vin-cenzo vendette al Re d’Inghilterra i pezzi più preziosi delle raccolte deiGonzaga, significando così che la vendita era percepita come un depau-peramento dei beni dell’intera comunità32 e che il confine fra collezioniprincipesche e collezioni pubbliche stava divenendo evanescente (Haskell1981, X, pag. 5-35; Haskell in Olmi 1992, pag. 184). Nel 1754 fu trau-matica la vendita della Madonna Sistina dei monaci pieni di debiti delconvento di San Sisto di Piacenza all’elettore di Sassonia Federico Augu-sto II per la Gemäldegalerie di Dresda (che la sostituì con una copia diGiuseppe Nogari che è ancora a Piacenza); proprio come fu traumaticaper i francesi la vendita della collezione del barone Crozat a Caterina II diRussia, e per gli inglesi la vendita, sempre alla Grande Caterina, della col-lezione di Horace Walpole quarto conte di Oxford, più di 120 opere chesono ora al museo dell’Hermitage. Nel 1815, il rientro a Berlino delle

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opere sottratte alla Prussia da Napoleone fu l’occasione per sottolineare ilsignificato patriottico dell’arte. L’arrivo delle opere a Berlino fece partedei festeggiamenti per la vittoria; esse furono trattate con il rispetto dovutoai tesori nazionali e furono esposte in mostra all’Accademia d’arte, in-sieme alle opere sottratte ai francesi dal generale Gerhard von Blücher,uno dei vincitori della battaglia di Waterloo; l’incasso dei biglietti fu de-voluto agli invalidi delle guerre contro Napoleone. Nella primavera del1917, quando si diffuse la notizia che la grande pala dell’Assunta di Ti-ziano (Figura 4) sarebbe stata trasportata via acqua da Venezia a Cremona,per essere messa in salvo dai bombardamenti, molta gente si riunì lungole rive dell’Adige e del Po per vedere passare la grande cassa, come per

Figura 4 ■ La pala dell’Assunta di Tiziano Vecellio 1516-1518, olio su tavola,690 x 360 cm, Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venezia.

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un affettuoso accompagnamento simbolico. Alla fine della SecondaGuerra Mondiale i fiorentini espressero tutta la loro gioia per il patrimonioritrovato, facendo ala festosamente agli automezzi americani che riporta-vano a Firenze il patrimonio artistico della città che i tedeschi avevanotentato di trasportare oltre il Brennero. Durante la Prima Guerra Mondialegli inglesi riscoprirono il valore dei musei come luoghi di identificazionenazionale quando dovettero sopportare gli anni più duri del conflitto; “nelmezzo della crisi – ha scritto la Kavanagh (1994, pag. 168-169) – la bri-tishness del ‘British’ Museum e della ‘National’ Gallery era profonda-mente sentita, specialmente dalle classi medie […], la profondità di questosentimento trasformò questi musei in insegne simboliche dell’identità na-zionale assediata”. Quando poi nel 1939 si profilò la possibilità di un se-condo conflitto mondiale, il governo inglese si rese conto di quantaimportanza avessero i musei e il patrimonio culturale per il morale dellanazione. Nella prospettiva che le collezioni potessero essere inviate inAmerica per sottrarle al pericolo di una distruzione, Winston Churchillscrisse in una nota al direttore della National Gallery, Kenneth Clark, “leseppellisca nelle viscere della terra, ma nessun dipinto deve lasciare que-st’isola” (Kavanagh 1994, pag. 166). Allo scoppio della guerra nel set-tembre dello stesso anno, la Museums Association inviò a tutti suoimembri un avviso che richiamava i musei al loro ruolo di luoghi di iden-tificazione per la nazione33.

Tutto ciò può indurre ad affermare che per un individuo o per una co-munità il valore del patrimonio non agisce solo se s’instaura un contattofisico, ma anche se ne viene percepita l’esistenza. Il che è evidente perquello che chiamo “patrimonio prigioniero”; un patrimonio fisicamenteinaccessibile, che vorrei introdurre facendo riferimento alla discussionedi Pomian (2004, pag. 245-252) sul limite fra collezione e museo, comeegli lo ha dedotto dagli scritti dei viaggiatori in Italia.

Il patrimonio prigionieroPomian afferma che “il museo è una collezione che appartiene a una

persona morale: una dinastia, al papato, alla repubblica di Venezia, auna città (Milano, Bologna, Bergamo, Brescia), a un’associazione (le ac-cademie di Verona e di Cortona), a una congregazione religiosa (la Com-pagnia di Gesù, un monastero dei Benedettini), a una persona morale che,nel suo dispiegarsi nella durata, si presume garantisca anche la durata

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delle collezioni […]”. Da questo scritto si deduce che per Pomian unmuseo si definisce sulla base della proprietà pubblica e della conserva-zione nel tempo delle collezioni, ma non della fruizione pubblica. Egliporta due esempi, il Tesoro di San Marco, non aperto regolarmente al pub-blico e “accessibile solo da persone scelte in funzione di criteri arbitrari”,e la galleria del Granduca di Toscana a Firenze, che nel 1780 il Granducastesso stabilì che non solo continuasse a essere pubblica, come lo era giàda tempo, ma fosse anche gratuita. Nella definizione di Pomian è implicitoche non è fondamentale che un museo sia liberamente visitabile o meno,poiché ai fini del valore identitario del patrimonio culturale non vi è nes-suna differenza che questo sia offerto al godimento pubblico o sia invececustodito in un luogo non visitabile o vistabile da pochi, sia cioè “un pa-trimonio prigioniero”. Sia che il patrimonio sia liberamente visitabile, siache sia a disposizione di pochi privilegiati, la rappresentazione del potereche esso trasmette è praticamente identica. Esattamente come il patiboloe la prigione che Foucault dice essere uguali ai fini della percezione dellapunizione, e quindi della forza del potere34. Un patrimonio di oggetti si-gnificativi può essere percepito come simbolo di autorità senza essere mo-strato fisicamente. È il caso della collezione imperiale di armi e di cimeliche nel 1723 il sultano di Istanbul Ahmed III fece riunire nella chiesa diHagia Irene a Costantinopoli, stabilendo che non fosse accessibile ai cit-tadini. Secondo Wendy Shaw proprio l’inaccessibilità forniva alla colle-zione una straordinaria capacità di evocazione del potere del sultano35.

L’inaccessibilità fisica al patrimonio, impedendo la valutazione direttae individuale della consistenza, della forma, dell’insieme dei singoli og-getti, permette alla memoria di librarsi liberamente, ma nello stesso tempodi essere facilmente condizionata. Il divieto di accesso al patrimonio e ilsegreto che lo circonda possono divenire strumenti di manipolazione e dipotere, in quanto paradossalmente hanno la forza di creare un sensoastratto di auto-identificazione della società che ne indebolisce il sensocritico. È il caso dei riti del Milite Ignoto la cui forma anonima, ma rap-presentativa di migliaia di individui perduti nell’anonimato, non fa altroche rendere più forte l’identità dei sopravvissuti, come hanno sostenutoReinhart Koselleck (1979) e Benedict Anderson (1983). “Queste tombesono vuote di resti umani identificabili come di creature immortali, manondimeno sono colme di spettrali fantasie nazionali”, ha scritto quest’ul-timo (1983, pag. 17).

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Il patrimonio assente“Improvvisamente la Parigi di Mallarmée

si è popolata di piedistalli dedicati all’assenza”Paul Claudel sui monumenti fusi per la guerra

Dei vari aspetti dell’iconoclastia parlerò in un’altra parte del libro, as-sieme al saccheggio e al vandalismo, e vedremo in quella sede che questeazioni possono assumere significati diversi, connessi a situazioni di con-flittualità, e possono sfociare nella creazione di nuove forme di patrimonio,nuove memorie e nuove identità. Qui voglio invece introdurre l’idea chela distruzione di un elemento del patrimonio culturale non porta necessa-riamente all’oblio di quello che tale elemento voleva significare, ma puòcreare un vuoto che assume a sua volta un valore patrimoniale e simbolico.

Figura 5 ■ La musealizzazione del vuoto di Daniel Libeskind al Jüdisches Museum,Berlino. Nel piano sotterraneo dell’edificio costruito da Libeskind, cui si accede dalvecchio Berlin Museum, si incrociano tre assi, o corridoi, praticamente vuoti che ri-mandano simbolicamente ai traumi storici e alla continuità del popolo ebraico: assedell’olocausto, asse dell’esilio e asse della continuità. Dove gli assi si incrociano vi èsolo il vuoto.

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In questo caso si ha quello che è stato definito “patrimonio assente”, cheviene prodotto dal ricordo di luoghi o di oggetti i cui significati sono inrelazione con la loro distruzione o assenza, e che contribuisce anch’essoalla formazione della memoria collettiva. Così sono “patrimonio assente”le nicchie vuote nella valle di Bamiyan, le cui immagini fotografichehanno fatto il giro del mondo, il memoriale del World Trade Center a NewYork, il Museo Ebraico di Berlino, nel quale il vuoto è stato musealizzatodall’architettura simbolica di Daniel Libeskind (Figura 5), e il nuovoMuseo dell’Acropoli di Atene, ove la mancanza dei marmi originali è se-gnata da copie o da vuoti, e nel quale è stata perciò musealizzata un’as-senza (Figura 6), cui ben si adatta quanto ha scritto Harrison (2013, pag.192): “la conservazione, la cura e l’esposizione delle assenze e delletracce spettrali si è sviluppata fra la fine del ventesimo secolo e l’iniziodel ventunesimo come un importante motore per la produzione del patri-monio della memoria collettiva”.

Figura 6 ■ Un altro esempio di musealizzazione dell’assenza: nel nuovo Museodell’Acropoli di Atene i fregi del Partenone, i cui originali si trovano a Londra, sonodisposti nella sequenza originale sostituti da calchi e da spazi vuoti.

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Tuttavia ci si deve domandare se le tracce delle assenze (i piedistalli pri-vati delle loro statue o le tracce dei fasci littori scalpellati dai palazzi italiani)non siano caratteristiche delle nazioni che hanno paura del proprio passato,mentre la conservazione delle presenze non sia un’esclusiva delle nazioniche fidano della propria solidità storica, come insegna la presenza della sta-tua di Oliver Cromwell intatta a fianco del palazzo di Westminster.

Oblio e accumulo patrimoniale nei museiNegli ultimi decenni l’iper-patrimonializzazione e l’ipermnesia hanno

prodotto nel mondo dei musei fenomeni importanti: la nascita a un tassoesponenziale di nuovi musei in tutto il mondo, moltissimi dei quali legatiad amministrazioni locali, la gemmazione di alcuni grandi musei (il Lou-vre Lans e il Louvre Abu Dhabi), la moltiplicazione dei musei d’arte con-temporanea come risposta alla neo-patrimonializzazione di questo tipo diespressione artistica, la moltiplicazione dei musei memoriali legati al ri-cordo collettivo delle guerre e dei genocidi che hanno funestato il XX se-colo, e che non di rado sono luoghi di comunicazione di “patrimoniassenti”; e infine la nascita di ecomusei, musei locali, musées de societé36

o di identità, musei regionali di etnografia che, inserendo nella dinamicamuseologica la memoria orale, sono, per dirla con Freddy Raphaël (Ra-phaël e Herberich-Marx, pag. 87-94), “provocatori della memoria”.

L’iper-patrimonializzazione e la conseguente ipermnesia hanno messo inevidenza che raramente i musei amano il vuoto; al contrario essi tendono adaccumulare oggetti, e quindi memorie, di cui raramente si liberano (come perlegge sono impossibilitati a fare nelle nazioni ove il patrimonio è dichiaratoinalienabile), o, se se ne liberano, lo fanno per acquistare nuovi oggetti e nuovememorie (come è consuetudine in molti musei nordamericani). L’oblio èquindi quasi sconosciuto ai musei, in cui l’accumulo ininterrotto di patrimonioe la conseguente ipermnesia museale porterebbero all’incapacità comunica-tiva (come per il povero Funes el memorioso di Borges), e quindi alla nega-zione o alla confusione delle sue funzioni identitarie, politiche e culturali. Ciòse il museo non operasse una selezione fra il patrimonio attivo e il patrimoniopassivo o potenziale, riempiendo le sale espositive con il primo e i depositicon il secondo. Il che tuttavia non impedisce possibili trasferimenti dalle uneagli altri in base alle politiche di comunicazione e di rappresentanza identitariache di volta in volta il museo vuole mettere in atto. La selezione degli oggettirisponde a esigenze diverse, come ha messo in risalto Steven Conn riferendosi

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ai musei di storia naturale. Egli ha costatato che nel corso del XX secolo inquesti musei vi è stata una progressiva sparizione degli oggetti dalle gallerieespositive verso i depositi. Questa selezione, secondo l’autore, è da attribuirsisia alla necessità di realizzare strategie di attrazione del pubblico attraversoesposizioni più accattivanti, mettendo al centro pezzi spettacolari anche semeno rappresentativi, come il grande scheletro di Tyrannosaurus al Field Mu-seum di Chicago37, sia alla necessità di un maggiore controllo della comuni-cazione con la diminuzione del poco controllabile e “sovversivo” potereepistemologico degli oggetti, sostituiti da apparati comunicativi elettronici odigitali. “Nelle strategie dei musei gli oggetti sono divenuti secondari. Comehanno messo inevidenza Noah Shoval e Elizabeth Storm i nuovi musei hannoargomenti piuttosto che collezioni, essi vogliono trasmettere valori inveceche conoscenza, e per far ciò usano linguaggio e immagini piuttosto che og-getti, sia nelle varie forme tradizionali, sia nelle più recenti forme elettroni-che” (Conn 2010, pag. 46). Nei musei, quali il National Museum of theAmerican Indian di Washington o il National Underground Railroad FreedomCenter di Cincinnati, che perseguono la funzione terapeutica del museo, ladiminuzione degli oggetti con il loro potere epistemologico sovversivo e pococontrollabile rivela il pericolo che essi possano ostacolare la narrazione cheil museo vuol proporre, “forse – ha scritto Conn – in questi musei gli oggettinon sono esposti perché non ci si può fidare di loro”.

Infine, è stata anche ventilata l’ipotesi che la risposta dei musei all’accu-mulo patrimoniale e alla saturazione dei depositi possa concretizzarsi in ungenerale “post-rappresentazionismo” (Message 2007), con l’accelerazionedelle pratiche di restituzione del patrimonio alle comunità indigene, alle na-zioni ex coloniali ecc., con l’immissione di frazioni del patrimonio sul mer-cato e con la formazione di “collezioni virtuali” (Harrison 2013, pag. 201).

Valore economico del patrimonio Il patrimonio culturale è un insieme unitario e complesso di oggetti (i

cosiddetti beni culturali) ciascuno dei quali ha un valore di mercato, maanche una molteplicità di valori simbolici. Throsby (2001, citato da Vecco,pag. 138) parla di un valore estetico, di un valore spirituale (per gli oggettidi culto), di un valore sociale, di un valore storico, di un valore simbolicoe di un valore di autenticità. È evidente che un certo bene può avere con-temporaneamente più di un valore fra quelli citati (un oggetto di culto puòavere contemporaneamente un valore estetico, sociale, simbolico, oltre a

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essere autentico). Tuttavia nella concezione globale del patrimonio cultu-rale i singoli oggetti perdono il loro specifico valore e assumono nellostesso tempo un valore sociale, storico e simbolico, nel senso che il loroinsieme agevola il sentimento di identità, mostra la continuità con il pas-sato, rimanda ai valori e ai simboli della società. Dal punto di vista eco-nomico questa triade di valori confluisce in un unico valore generale delpatrimonio culturale, diverso e più importante, sia del valore commercialedi scambio dei singoli oggetti (il più delle volte solo teorico in quanto ibeni che costituiscono il patrimonio sono messi per lo più fuori dal circuitocommerciale – è l’idea di collezione di Pomian38), sia del valore commer-ciale d’uso (tassa di accesso al patrimonio, rendite del “museo come im-presa” ecc.), sia infine del valore indotto dalla sua esistenza (introiti deicommerci e dei servizi, per esempio nelle cosiddette città d’arte quali Ve-nezia o Firenze). Questo valore economico generale del patrimonio cul-turale è l’autorevolezza che esso attribuisce alla comunità che lo possiedeo che lo ha prodotto, e che viene perciò avvantaggiata nei commerci o neirapporti politici. Un valore noto ad Adam Smith che nella seconda metàdel XVIII secolo scriveva: “Superbi palazzi magnifiche case di campagna,grandi biblioteche, ricche collezioni di statue, di quadri e di altre curiositàdell’arte e della natura costituiscono spesso ornamento e gloria, non solodella località che le possiede, ma anche di tutto il paese. Versailles ab-bellisce la Francia e le fa onore, come Stowe e Wilton fanno onore all’In-ghilterra. L’Italia attira ancora in qualche modo i rispetti del mondo perla moltitudine di monumenti di questo genere che possiede, sebbene l’opu-lenza che li ha fatti nascere sia decaduta, e che il genio che li ha creatisembri del tutto estinto […]” (An Inquiry into the Nature and Causes ofthe Wealth of Nations, 1776). In nessuna parte della sua opera l’economistainglese avrebbe potuto citare i musei – custodi del patrimonio – come stru-menti di autorevolezza culturale e di potenziale economico. Egli scrivevainfatti poco più di vent’anni dopo la fondazione del British Museum,quando le istituzioni museali non avevano ancora raggiunto la rilevanzaper le nazioni e la diffusione pubblica che prenderanno in Francia a seguitodella Rivoluzione, e con la Restaurazione in diverse nazioni europee.

Adam Smith non fu il solo a pensarla così. Anni prima, nel 1737, l’ul-tima dei Medici, Anna Maria Luisa Elettrice Palatina, nel firmare il Pattodi Famiglia con cui cedeva i beni dei Medici a Francesco Stefano diAsburgo-Lorena, nuovo Granduca di Toscana, espresse in un’ottica mo-

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dernissima quale valore rappresentasse il patrimonio artistico per l’auto-revolezza dello Stato e per il pubblico godimento. “La Serenissima Elet-trice – si legge infatti nell’articolo terzo del suddetto documento – cede,da e trasferisce al presente a S. A. R. , per Lui e suoi successori GranDuchi, tutti i Mobili, Effetti e Rarità della successione del Serr.mo GranDuca suo fratello, come Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie edaltre cose preziose, siccome le Sante Reliquie e Reliquiari e li Ornamentidella Cappella del Palazzo Reale, che S. A. R. si impegna di conservarea condizione espressa che di quello è per Ornamento dello Stato, e perutilità del Pubblico, e per attirare la Curiosità dei Forestieri, non ne sarànulla trasportato o levato fuori dalla Capitale e dallo Stato del Grandu-cato” (Casciu 2006). Vent’anni dopo, nel 1756, anche il Conte di Caylusidentificò nell’arte lo specchio della potenza e dell’identità di una nazione,nell’aprire il secondo volume dei Recueil d’Antiquités con queste parole:“l’arte partecipa alla reputazione delle Nazioni che l’hanno sviluppata;si è in grado di distinguere i loro inizi, la loro infanzia, il loro progressoe il punto di perfezione cui sono giunte fra le altre Nazioni. Le opere discultura e di pittura ci permettono inoltre di comprendere lo spirito di unaNazione, i suoi costumi, e il loro modo di pensare […]”.

Patrimonio culturale e controllo della memoria collettiva“Chi controlla il passato […] controlla il futuro:

chi controlla il presente, controlla il passato”George Orwell, 1984

Un gruppo di potere politico, etnico o sociale che voglia assicurarsi ilcontrollo politico o intellettuale di una comunità deve inevitabilmente pas-sare attraverso il controllo della sua memoria culturale collettiva, vale adire della sua cultura. Poiché questa è veicolata dal patrimonio culturale,attraverso le sue frazioni fisica, immateriale e simbolica, il controllo delpatrimonio culturale diviene indispensabile alla gestione del potere. Inol-tre, poiché esiste un parallelismo fra identità e patrimonio culturale, e poi-ché quest’ultimo è testimone della storia e veicolo di memorie, e in quantotale è l’anima creatrice dell’identità di ogni comunità, allora il controllodel patrimonio culturale è anche controllo delle identità sociali, dei senti-menti condivisi e della storia e della memoria collettiva, ed è quindi vei-

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colo del potere assoluto39. Il controllo del patrimonio permette di mani-polare la memoria collettiva, inventare identità, continuità storiche e le-gami culturali funzionali alla costruzione della legittimità edell’autorevolezza, due qualità senza le quali difficilmente può determi-narsi un principio di autorità. Quanto detto rende evidente che esiste unostretto legame fra gestione del patrimonio culturale e libertà, e che tale le-game rende tale gestione essenziale per l’esercizio del potere.

A questo riguardo Le Goff ha scritto che “la memoria collettiva è unodegli elementi più importanti delle società sviluppate e delle società in viadi sviluppo, delle classi dominanti e delle classi dominate, tutte in lotta peril potere o per la vita, per sopravvivere e per avanzare” (1977). Di conse-guenza ha affermato che nelle società storiche il controllo attraverso la ma-nipolazione della memoria collettiva è sempre stato la preoccupazioneprincipale del potere: “la memoria collettiva – ha scritto – ha costituitoun’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forzesociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime pre-occupazioni delle classi, dei gruppi, degl’individui che hanno dominato eche dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della storia sono rive-latori di questi meccanismi di manipolazione della memoria collettiva”(1977). L’oblio che cita Le Goff è il meccanismo di manipolazione dellamemoria che il potere non disdegna di promuovere, cancellando o tentandodi cancellare dal ricordo di una comunità ciò che è contrario al suo disegnopolitico complessivo. Porto qui l’esempio del Giappone post-bellico.

Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale il ministero giap-ponese dell’educazione censurava i libri di testo scolastici perché si sorvo-lasse sugli aspetti meno eroici del secondo conflitto mondiale. Solo nel1997 il professor Saburo Ienaga vinse la battaglia durata molti anni chepose fine alla censura e permise l’inclusione dei racconti delle atrocità per-petrate dai giapponesi prima e durante la guerra: massacri di cinesi, atrocitàcontro i filippini, tratta di migliaia di donne coreane come schiave del sesso(in Dubin 1999, pag. 221). Anche il museo nazionale di storia giapponese(Rekihaku) di Sakura40, ideato nel 1968, dovette affrontare il problema dicome trattare gli avvenimenti più critici della storia giapponese: la colo-nizzazione di Corea e Cina, l’espansione territoriale dell’Impero con learmi, l’aggressione che fece esplodere la guerra nel Pacifico. Il problemafu tagliato alla radice e il museo stese un velo di oblio sulla storia recente,fermò l’esposizione agli anni Trenta (si evitò così di parlare della disfatta

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e dell’occupazione americana del Giappone), e realizzò una “storia socialedel popolo”. Il museo evitò di esporre una sequenza di fatti e di personaggistorici (ritratti o statue di personaggi autorevoli come l’imperatore, i gene-rali ecc.), ma fece perno sull’influenza degli avvenimenti sulla vita dei cit-tadini comuni. L’esposizione fu organizzata per grandi temi incrociati conla cronologia, seguendo il concetto costruzionista di Mitsusad Inoue, fon-datore e primo curatore del museo, secondo cui, mentre ciascun individuodeve crearsi un’immagine personale della storia, la funzione del museo èquella di far nascere nei visitatori la capacità di farlo attraverso l’interpre-tazione personale degli oggetti e dei documenti esposti. Tale ordinamentomostrò però subito il difetto di essere difficilmente comprensibile per l’ec-cessiva simbolizzazione e l’indipendenza di ciascun tema. Il lasciare alpubblico la libertà di interpretazione, evitando di imporre un’interpreta-zione della storia, si scontrò con la scarsa cultura del pubblico generico chenecessitava di essere guidato per comprendere come usare i materiali espo-sti per costruire l’immagine della storia (Yasuda 2007). Il museo dovettequindi rivedere le sue esposizioni e abbandonò l’esposizione fortementesimbolica a favore dell’esposizione della storia realizzata attraverso la spie-gazione del significato e delle funzioni dei materiali esposti. Accanto allastoria sociale, furono introdotti nuovi temi che avrebbero dovuto obbligareil museo ad affrontare problemi su cui aveva sorvolato: il tema degli scambiinternazionali, che implicava una visione della storia giapponese in unaprospettiva internazionale, non avrebbe dovuto prescindere dal trattare ilsecondo conflitto mondiale, e l’espansione coloniale, ma su questi due temispinosi il museo ha nuovamente sorvolato.

Molti altri musei giapponesi, soprattutto musei locali, presentano ailoro visitatori una manipolazione della storia recente: il Giappone nonviene presentato come aggressore e la guerra è spiegata come inevitabilee giustificabile. Nella sezione museale del mausoleo ai caduti di Tokyo(Yasukuni) la guerra non viene raccontata nei suoi risvolti bellici o politici,ma solo per i riflessi che ha avuto sulla popolazione giapponese 41. Suibombardamenti di Nagasaki e di Hiroshima e sull’occupazione di Oki-nawa il museo sorvola e rimanda ai musei di queste tre località; infine“giustifica” la colonizzazione di Corea, Taiwan, Manciuria degli anniVenti e Trenta come “movimenti reciproci di popolazioni” (dal Giapponealla Corea e alla Cina, dalla Corea al Giappone, dalla Cina alla Corea)nell’ambito dell’espansione dell’Impero.

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Il controllo della memoria collettiva Per una classe sociale, per un’organizzazione politica, per un gruppo

etnico o economico impadronirsi della memoria collettiva significa pos-sedere le chiavi della storia, e cioè, in definitiva, avere la possibilità dimanipolare il passato per conquistare e per legittimare – attraverso un’in-terpretazione di parte dell’identità – una posizione dominante nella società.“La storia – ha scritto Robert Lumley (1988) – è usata come una risorsapolitica attraverso cui vengono costruite le identità nazionali e sono ce-lebrati e giustificati sistemi di potere e privilegi”. Se diamo credito a Freud(L’Uomo Mosè e la religione monoteista, 1939) la memoria collettiva hagiocato un ruolo non marginale anche nelle società preistoriche e proto-storiche, nella sua forma di generatrice di epopee e di cicli di leggende;ciò prima che la storia si impadronisse del passato.

Il controllo della memoria collettiva come processo di occupazione delpotere è un meccanismo intrinseco a tutte le società, oggi come in passato.Gli esempi sono molteplici e di un’evidenza lampante soprattutto nelle so-cietà autocratiche. Nei suoi pochi anni di attività la Repubblica di Vichytentò di riscrivere la storia di Francia attraverso una scelta oculata deglieroi del passato e si sforzò di modificare l’immagine stessa del paese comeuna società religiosa, rurale e corporativa, funzionale alla mistica del ritornoalla terra cara al regime, attraverso l’enfasi sul folklore, il recupero dei cantipopolari, delle feste religiose, dell’arte e della letteratura locali e l’insegna-mento delle lingue dialettali. Il secolo precedente Luigi Filippo aveva ten-tato di riscrivere la storia di Francia, utilizzando le gallerie di Versaillesaperte al pubblico; e qualche millennio prima Ramesse II aveva inciso suipiloni del Ramesseum un’interpretazione della battaglia di Kadesh controgli Ittiti come una schiacciante vittoria, mentre si sa che finì in parità.

Fin dalle società più antiche il meccanismo di occupazione della me-moria collettiva ha avuto un’importante componente nella creazione diluoghi di conservazione della memoria. “I re – scrive Le Goff (1977) – sicreano delle istituzioni-memoria: archivi, biblioteche, musei. Zimri-Lim(1782-59 a.C. circa) fa del suo palazzo di Mari, dove sono state rinvenuteinnumerevoli tavolette, un centro archivistico. A Râs Šamra, in Siria, gliscavi dell’edificio degli archivi reali di Ugarit hanno consentito il ritro-vamento di tre depositi d’archivi nel palazzo: archivi diplomatici, finan-ziari e amministrativi. In questo stesso palazzo si trovava, nel II millennioa.C., una biblioteca, e nel VII secolo a.C. era celebre la biblioteca di As-

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surbanipal a Ninive. In epoca ellenistica fioriscono la gran biblioteca diPergamo, fondata da Attalo, e la celeberrima biblioteca di Alessandriacol famoso museo, creazione dei Tolomei”. La pratica è ancora più anticase pensiamo all’archivio reale di Ebla risalente al 2300 a.C. e alle 23.000tavolette della “biblioteca” di Nippur datata fra la fine del III e l’inizio delII millennio. Gli archivi, come i musei, sono la memoria delle nazioni, maanche strumenti di controllo e di mistificazione. Con il fiorire delle ditta-ture, il secolo appena trascorso si è distinto nell’uso degli archivi comestrumenti di repressione, di controllo di massa e delle più bieche inclina-zioni del potere. Nella Germania nazista gli archivi diedero un supportofondamentale alla politica razziale: “non vi può essere nessuna pratica at-tuazione della politica razziale senza la mobilitazione delle fonti docu-mentarie, che indicano l’origine e lo sviluppo di una razza o di un popolo[…]. Non ci può essere nessuna politica razziale senza archivi e senza ar-chivisti”, sostenne nel 1936 il capo dell’amministrazione degli archividella Baviera (riportato da Vitali 2007, pag. 94-95).

Il controllo della memoria collettiva attraverso il patrimonio si realizzafacendo ricorso ad almeno cinque processi: (1) quello che Jean-MichelLeniaud chiama étatisation del patrimonio, che posso tradurre come na-zionalizzazione, anche se non è detto che sia operata solo dai governi na-zionali; si tratta di un processo fondamentale per la gestione del potere inquanto, come afferma ancora Leniaud, “assoggettando allo stato il patri-monio si legittima di fatto la sua strumentalizzazione”; (2) il processo dipatrimonializzazione, inteso come accumulo patrimoniale; (3) la storiciz-zazione del patrimonio, intesa come enfatizzazione degli aspetti materialidel patrimonio; (4) la decostruzione del patrimonio; (5) il controllo dellacreazione del patrimonio, nel senso di controllo sulla formazione dei si-gnificati simbolici degli oggetti che veicolano la memoria, un processo incui sono fortemente implicati i musei. Tali processi si materializzano nel-l’azione di apposite istituzioni pubbliche, quali musei e archivi, il cui con-trollo è quindi essenziale alla conservazione del potere: “Il potere politico– ha scritto Jacques Derrida – trae la propria legittimazione anche dalcontrollo sugli archivi, cioè sulla memoria di un popolo”.

I musei, in particolare, sono soggetti attivi nei cinque processi citati. Mamentre la decostruzione tocca solo marginalmente queste istituzioni, poichéhanno la potenzialità di assorbirne gli effetti, esse svolgono un ruolo impor-tante nei processi di patrimonializzazione, di storicizzazione e di controllo

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del patrimonio, poiché sono delegate alla sua conservazione e alla sua crescitae hanno la capacità di creare nuovi significati. Poiché la patrimonializzazione,la storicizzazione e il controllo del patrimonio sono meccanismi di costru-zione di ideologie, i musei hanno la possibilità di essere i cardini delle poli-tiche culturali, per cui diviene logico sostenere che il controllo dei musei èessenziale alla conservazione del potere, e di conseguenza affermare che essihanno avuto sin dalla loro origine una connotazione politica.

Nazionalizzazione del patrimonio Peter Howard (2003) sostiene che il patrimonio culturale “opera” a

due livelli principali, quello della famiglia e quello della nazione (pur am-mettendo che esistono anche un livello locale, un livello regionale e unointernazionale), e nota che mentre “il patrimonio culturale ufficiale tendea essere nazionale, quello non ufficiale tende a essere famigliare”. In realtài termini di Howard andrebbero rivisti poiché l’ufficialità o la non uffi-cialità sono etichette imposte dal potere e il loro uso è spesso ambiguo. Iregimi autocratici, per esempio, tendono sia a enfatizzare il patrimonionazionale a scapito di quello individuale o famigliare, sino alla loro can-cellazione, sia a nazionalizzare i patrimoni famigliari: in ambedue i casiil fine è l’omogeneizzazione culturale, la diminuzione del tasso generaledi libertà individuale dei livelli inferiori a quello nazionale e la possibilitàdi mistificare la storia attraverso la strumentalizzazione del patrimonio,grazie al suo assoggettamento allo Stato.

Alla pratica di nazionalizzazione dei patrimoni privati non sono estra-nee le democrazie occidentali, sebbene in questo caso il processo prendaforme più liberali, apparentemente estranee a metodi coercitivi illegali. Sitratta di azioni che si risolvono in uno spostamento del livello a cui operail patrimonio, con una ricaduta notevole sulla struttura della società.Olwig42 (in Howard 2003, pag. 5) ha chiamato “Tocco di Mida” il processoattraverso cui il governo norvegese garantisce alle fasce più ricche dellapopolazione la conservazione e l’incremento del patrimonio tradizionale;la legislazione norvegese sui trasferimenti ereditari è infatti così esigenteche solo i ricchi possono mantenere le antiche tenute di famiglia, mentrele classi meno agiate sono costrette a vendere le proprietà tradizionali, chevengono quindi a concentrarsi nelle mani delle classi più agiate. Lo Statofrancese, pur erede delle “saisies” della Rivoluzione e del Primo Impero,ha nei confronti della gestione del patrimonio nazionale la stessa attitudine

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che l’Ancient Régime aveva nei confronti delle collezioni reali. Oggi loStato francese non agisce come protettore del patrimonio nazionale, macome collezionista, assimilando abusivamente – come sottolinea Ma-ryonne De Saint-Pulgent (1994, pag. 43-49) – l’arricchimento del patri-monio pubblico alla protezione del patrimonio nazionale. Lo Stato èinoltre un collezionista privilegiato poiché dispone di due strumenti chelo mettono al di sopra delle regole del libero mercato: la préemption envent publique del 1921, che permette di acquistare opere d’arte al prezzoraggiunto durante la vendita, senza dover effettuare un’offerta maggioredi quella degli acquirenti privati, e la legge del 1968 sulle donazioni e da-zioni, che permette allo Stato di acquisire senza esborsi opere d’arte dialto valore artistico o storico. Soprattutto quest’ultima ha un’influenzafondamentale nella distruzione dei patrimoni famigliari a vantaggio delpatrimonio nazionale. In virtù di questa legge i proprietari di opere pos-sono cederle allo Stato in conto tasse, e, poiché la tassazione sui trasferi-menti testamentari è estremamente esosa, il risultato è un trasferimentosolo parziale dei patrimoni famigliari da una generazione alla successiva.In Francia il livello della tassazione è così elevato che gli eredi, ove nonpossano pagare con opere d’arte, sono costretti a vendere parte delle loroproprietà, o delle aziende di famiglia, per far fronte alle tasse di succes-sione. Il risultato è un rimescolamento dei patrimoni e una cancellazionedi parte delle identità culturali a livello famigliare e individuale, che in-deboliscono la società nei confronti dello Stato; il che è evidente soprat-tutto nel caso della cessione di aziende famigliari. Anche dopo lerequisizioni degli anni della Rivoluzione, questa pratica ha avuto un ruoloimportante nella éstatisation del patrimonio nazionale francese, attraversocui “lo Stato si arroga il diritto esclusivo di costituire la memoria unitariadella nazione”. Ciò induce molti a ritenere che si debba considerare pa-trimonio culturale solo il patrimonio pubblico inalienabile, minimizzandocosì il ruolo dei patrimoni privati, individuali o famigliari, in quanto alie-nabili. In questa trappola è caduto André Gob (2007, pag. 315 in nota)quando scrive che “molto spesso, le collezioni restituite a privati dopo laSeconda Guerra Mondiale sono state subito vendute dagli eredi ai qualierano state restituite. Atteggiamento perfettamente comprensibile data lacarica emotiva che questi oggetti dovevano possedere nei confronti di que-ste persone, ma che ben dimostra che non si tratta di patrimonio culturalein senso stretto”.

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Mentre sembra che gli stati moderni tendano a un accumulo patrimo-niale a scapito delle identità famigliari o di gruppo (il che se da un latocostituisce uno strumento di crescita del potere statale, dall’altro, a lungoandare, ne potrebbe anche determinare la fine) il problema di garantireuna continuità identitaria, culturale e patrimoniale a livello famigliare fuinvece affrontato dal Diritto Romano attraverso l’istituto del fidecom-messo (fideicommissum) che permetteva la trasmissione ereditaria conl’obbligo per il successore di mantenere inalterato il patrimonio affinchévenisse a sua volta trasmesso. Il codice di Giustiniano limitò l’uso del fi-deicommissum a quattro generazioni successive, mentre nel Medioevo sisviluppò la tendenza ad andare oltre, sino a stabilire la perpetua inaliena-bilità dei patrimoni ereditari, come divenne d’uso negli Stati Pontifici, ilche rese il fideicommissum uno strumento straordinariamente favorevolealla conservazione dei patrimoni aristocratici. Il fideicommissum fu abolitoin Francia nel 1792, in Italia fu vietato in epoca napoleonica, per riapparirenello Stato della Chiesa dopo la Restaurazione, sino a essere definitiva-mente vietato nel 1871 dalla legislazione italiana. Esso persistette in moltipaesi fino a buona parte del XIX secolo. In Germania e Austria fu abolitodal nazionalsocialismo. Per far fronte alla dispersione della memoria pa-trimoniale delle famiglie, fino al XVIII secolo in Francia fu in vigore unadisposizione che stabiliva che i ritratti di famiglia fossero solo menzionatie non stimati all’atto della stesura dei lasciti testamentari, così da permet-tere che le immagini degli antenati rimanessero presso i loro discendenti:“I ritratti di famiglia non fanno parte dei beni e appartengono al primo-genito dei figli. Ciascuna delle parti deve prendere i ritratti della sua fa-miglia […]. A causa di ciò i ritratti di famiglia non devono essereinventariati”43. La legge italiana del secondo governo Berlusconi che hadetassato quasi completamente la trasmissione ereditaria fra discendentidiretti va nella direzione della conservazione dell’unità culturale e identi-taria delle famiglie (come delle aziende famigliari), considerate unità fon-damentali dell’organizzazione sociale della nazione. Analogamente inGran Bretagna la trasmissione delle residenze delle famiglie aristocraticheè garantita da disposizioni che esulano dal diritto comune e permettono laconservazione transgenerazionale delle proprietà e delle dimore di cam-pagna e dei loro arredi. Tuttavia, proprio in Gran Bretagna, le vendite al-l’estero indotte dalla necessità di far fronte alla tassazione hanno provocatouna perdita del patrimonio britannico, che un esperto di antichità ha con-

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siderato “comparabile al danno che Cromwell e le sue teste rotonde cau-sarono nel disperdere la collezione privata di Carlo I” (Leggatt 1978, inGathercole e Lowenthal 1994, pag. 309).

PatrimonializzazioneLa patrimonializzazione è la trasformazione degli oggetti in elementi

del patrimonio culturale attraverso l’attribuzione di significati simbolici,rappresentativi. Le società moderne hanno la tendenza a trasformare ognicosa in patrimonio e ad aumentare perciò il complesso delle cose da con-servare, proteggere e simbolizzare. L’eccesso di patrimonializzazione è statosegnalato da molti. Fra questi Philippe Dagognet (1984) che si è chiesto“fino a dove andrà questa volontà di mettere tutto al sicuro e di salvaguar-darlo o di fissarlo? Che cosa bisogna “classer”[44] e proteggere? Come lot-tare contro l’umidità e l’atmosfera, la pioggia e l’erosione? Si arriveràpresto alla moltiplicazione delle “riserve” – spiagge intere totalmente presein carico dal potere pubblico: intere regioni, nella loro vastità, saranno di-rettamente museificate”. Più recentemente Jean-Louis Deotte (1994, pag.135) ha notato che nelle società si sviluppano sia filosofie politiche, sia eco-nomie legate al patrimonio, che si nutrono di una “crescita illimitata del pa-trimonio culturale”, e che producono una continua metamorfosi dellamercanzia in patrimonio (e inversamente, del patrimonio in mercanzia) coneffetti importanti sia in termini economici, sia in termini di consenso politico.E ancora, nel 1996 Jean-Pierre Sylvestre ha scritto che “dai monumenti sto-rici alle specie e ai generi, passando per le arti e le tradizioni popolari, igrandi siti e gli ambienti naturali, tutto diviene o è suscettibile di divenireoggetto di tutela e di conservazione”45. A sua volta Bernard Deloche (2010)ha collegato l’eccesso di patrimonializzazione con l’eccesso di memoria, eha sostenuto che l’ipermnesia (dei cui effetti si è parlato poco sopra), attra-verso la moltiplicazione degli oggetti portatori di segni, impoverirebbe illoro contenuto informativo lasciando la società priva di molte informazioniessenziali: “per sopravvivere – ha scritto – una società, come anche un in-dividuo, deve saper dimenticare, al fine di concentrare le sue informazioniin maniera efficace”. In ciò è implicita l’idea che la crescita esponenzialedel patrimonio privi la società della possibilità di crearsi una solida base pa-trimoniale identitaria, facilitando quindi manipolazioni e mistificazioni. Piùinfatti cresce la massa del patrimonio, più diminuisce il valore del singoloelemento, creando un appiattimento dei valori che favorisce le manipola-

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zioni. L’iper-patrimonializzazione può essere quindi un infido strumento dicontrollo della società, cui i musei contribuiscono consciamente o incon-sciamente, sia tendendo alla crescita illimitata delle proprie collezioni, siaattraverso la proliferazione a un tasso esponenziale di nuove istituzioni mu-seali. Quest’ultimo fenomeno si sta producendo sia a livello di grandi museiche nascono in tutto il mondo da Abu Dhabi a Hong Kong, come pedinedella scacchiera della politiche nazionali e internazionali, sia a livello dellemicro-strutture museali (ecomusei, musées de société ecc.) che nasconospontaneamente in piccole comunità locali, ma che, soprattutto per man-canza di risorse finanziarie, finiscono prima o poi sotto il controllo delloStato o dei suoi organi periferici. Come è avvenuto per gli ecomusei, “re-gionalizzati” di alcune amministrazioni regionali italiane.

Storicizzazione del patrimonioSi è già detto che il patrimonio culturale è un complesso formato da una

porzione materiale e da una porzione immateriale che lo rende, quest’ultima,instabile e in grado di modificarsi nel tempo e nello spazio. È evidente chequesta plasticità rende difficile il controllo dei significati e delle memorieche il patrimonio culturale trasmette alla società; un controllo, come dettopiù volte, essenziale per la conquista e il mantenimento del potere politiconell’ambito di una data comunità. Un sistema di controllo efficiente del po-tere evocativo del patrimonio culturale consiste nel porre un freno alla suaplasticità, alla sua capacità evolutiva; il che può essere attuato fossilizzandola sua frazione immateriale. Tale sistema consiste nella storicizzazione delpatrimonio culturale, che blocca l’evoluzione dei suoi significati trasmissibilie tiene sotto controllo e coordina la crescita della sua frazione materiale. Ilpatrimonio è relegato nel passato, viene identificato con la storia e con ilcomplesso delle sue testimonianze, si fa coincidere l’identità di un grupposociale – famiglia, città, nazione – con queste testimonianze, in una parolalo si storicizza. Tale processo di storicizzazione del patrimonio, evidente peresempio nell’uso del termine heritage, implica l’enfatizzazione dei suoiaspetti materiali, la feticizzazione di luoghi, monumenti, oggetti, documenti,cimeli, dimore, e, come scrive John Dewey (1934)46, implica la relegazionedell’immaterialità al ruolo secondario di ricordi e di narrazioni più o menomitiche e simboliche collegate alla materialità degli oggetti. Nei casi estremigli oggetti sono ridotti a feticci o reliquie, e se ne perdono i legami con icontesti che ne hanno determinato i significati simbolici originari.

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Bernard Deloche ha parlato di un processo di separazione del conte-nuto immateriale degli oggetti dal loro supporto fisico, a profitto di unasupervalorizzazione di quest’ultimo, che trasformerebbe gli elementi delpatrimonio in oggetti di contemplazione privi delle interrelazioni di cuierano inizialmente portatori. Scrive Deloche che “si assiste a una stranaconversione del supporto in oggetto di contemplazione, a un punto taleche siamo a volte privati del capitale di informazioni di cui [gli oggetti(N.d.A.)] erano inizialmente i portatori, come un libro che ci vietiamo diaprire per paura di romperne il dorso, o il battello vincitore che è statosequestrato, fossilizzato, e di cui probabilmente non si potrà mai più os-servare il comportamento in mare”47. Anche Hugues de Varine (1969), inuna critica al museo tradizionale, ha messo in guardia dall’indebolimentodel significato del patrimonio prodotto dalla storicizzazione/feticizzazionedei suoi elementi, poiché questo può condurre a “un certo numero di gravie, a volte, pericolose deviazioni intellettuali: una certa ossessione per ilpassato la cui conoscenza idealizzata serve da sostituto a una civilizza-zione che non ha più la forza di creare”.

In sostanza, poiché contrasta la capacità evolutiva del patrimonio, lastoricizzazione ne favorisce il controllo: essa trasforma gli elementi pa-trimoniali in feticci o reliquie dal significato codificato, si oppone alla tra-sformazione incontrollata dei significati/simboli delle forme patrimoniali,stabilizza la loro rappresentatività entro la società. Se si considera la lorostoria, risulta evidente che i musei hanno sempre favorito il processo distoricizzazione delle forme del patrimonio culturale, mettendosi così dallaparte del gioco del potere.

Decostruzione del patrimonioUn altro sistema di controllo del patrimonio culturale a disposizione

del potere è quello che Marc Fumaroli chiama “déconstruction du Patri-moine”, che consiste nel proiettare il patrimonio “fuori dalla sfera dellamemoria e della riflessione culturale per assorbirlo in una sfera indistinta,impersonale e sterile dove si accalcano le immagini e i simulacri di unacultura di massa, la cui lingua è alla fine il basic English” (Fumaroli, inLeniaud 1992, pag. IV). La via più praticata verso la decostruzione del pa-trimonio consiste nell’accostare a monumenti o a luoghi della memoria og-getti o opere – normalmente installazioni d’arte contemporanea – chepotrebbero esse collocate ovunque e che non hanno alcuna relazione con

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il monumento o con il sito. “In fondo – dice Fumaroli – è un’applicazionesu grande scala del metodo di Duchamp, che consiste nel firmare un qual-siasi oggetto per farne un’opera d’avanguardia destinata al museo. A que-sto riguardo le colonne di Buren nel cortile d’onore del Palais-Royal sonotipiche: esse strappano il Palais Royal da Parigi e dalla sua storia, lo ‘fir-mano’ sommariamente per farlo entrare meglio, con il Ministero che ospita,in un MOMA falsamente universale”. Le colonne di Buren sono solo unesempio di una moda che dilaga fra le amministrazioni locali e le direzionidelle istituzioni culturali e che ammorba con installazioni di plastica, ferroe vetro – materiali preferiti della contemporaneità – siti archeologici, di-more storiche, musei, ma anche strade e centri storici. Ogni sito, ognimuseo, ogni dimora sono destinati a cadere, prima o poi, preda degli offi-cianti della decostruzione, manager della cultura che hanno soppiantato nelruolo e nelle funzioni i tradizionali custodi e studiosi del patrimonio, e chenon possiedono freni o scrupoli intellettuali e culturali che impediscanoloro di contaminare, per fortuna solo transitoriamente, l’architettura evo-cativa della Reggia di Caserta, lo spirito misterioso dell’antro della SibillaCumana, l’austerità dei templi di Paestum o l’aura del parterre del Jardindes Plantes a Parigi (Figura 7), per ricordare solo qualche “installazione”.

Figura 7 ■ L’installazione di Haegue Yang Seat of Gradeur at Villeperdue, 2015, alJardin des Plantes di fronte alla Grande Galerie del Muséum National d’HistoireNaturelle, Parigi.

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Controllo della creazione del patrimonio Questo quinto processo è in senso assoluto il più importante, anche

perché racchiude parte delle azioni che sono intrinseche ai precedenti pro-cessi, ed è quello su cui si focalizza la maggiore attenzione del potere.

Si è detto altrove che gli oggetti che costituiscono la realtà fisica delpatrimonio culturale vengono caricati di significati simbolici, e divengono“segni”, secondo una parola cara ai semiologi. Sul processo di assunzionedi significati da parte degli oggetti vi sono idee contrastanti fra quelli cheritengono i significati simbolici intrinseci all’oggetto e coloro che riten-gono invece che tale significato venga attribuito all’oggetto da chi lo os-serva. Su questo argomento si racconta di una “disputa” fra Goethe eSchiller, nella quale, mentre il primo esprimeva al secondo la sua convin-zione che gli oggetti divenuti significativamente simbolici non fossero ca-ricati di significati dall’osservatore, ma fossero invece significativi per sestessi, Schiller si diceva del tutto contrario, “voi vi esprimete – scrisse aGoethe (7 settembre 1797) – come se tutto ciò dipendesse dall’oggetto;cosa che non posso ammettere. Non c’è dubbio che l’oggetto deve signi-ficare qualcosa e avere un che di poetico, ma, in definitiva, dipende dal-l’animo se un oggetto significa per lui qualcosa”. Goethe aveva l’animodisposto all’emozione dell’arte, come si comprende leggendo, nell’auto-biografia, della sua visita, ancora diciannovenne, alla galleria di Dresda,nel 1768: “arrivò l’ora di apertura attesa con impazienza e la mia ammi-razione superò ogni mia aspettativa. Quella sala che gira su se stessa,magnifica e così ben tenuta, le cornici dorate da poco, il parquet ben lu-cidato, il profondo silenzio che vi regnava, creavano una sensazione so-lenne e unica, simile all’emozione che si provava entrando nella Casa diDio, e che diventava più profonda quando si guardavano gli ornamentiesposti che, come nei molti dei templi che li ospitavano, erano oggetti diadorazione in quel luogo consacrato alle sante finalità dell’arte”.

La contrapposizione delle due posizioni è viva ancora oggi fra i se-miologi, alcuni dei quali asseriscono che la creazione dei simboli sia unaffaire privato fra oggetto e individuo che si realizza nel corso di un’in-terazione diretta, senza intermediari, il che escluderebbe qualsiasi formadi controllo sul processo della loro formazione. Al contrario molti riten-gono che mentre per i singoli individui il significato di un oggetto è le-gato alla memoria individuale, nel senso che nasce da un’esperienzadiretta, per una comunità (di qualsiasi dimensione sia, dalla famiglia alla

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nazione) gli oggetti assumono un significato simbolico condiviso attra-verso l’azione dei mediatori (nel senso di Halbwachs e Assmann) chesovrintendono alla memoria collettiva. In questo caso i simboli a signi-ficazione collettiva, e quindi di valenza sociale, si formano attraverso lacollettivizzazione delle interazioni fra più soggetti diversi, attraverso laloro partecipazione alla costruzione di una storia condivisibile, di cuidivengono parte integrante. Arnold (in Pearce 1995, pag. 114) distinguetre diverse metodologie attraverso cui un oggetto assume un significatosimbolico: (1) un approccio narrativo in cui l’oggetto testimonia unastoria vera, (2) una strategia utilitaristica che riguarda un potenzialesaldo economico di un oggetto, (3) un sistema di classificazione checerca di stabilire per ciascun oggetto il suo posto in un ordine sistema-tico. In nessuno dei tre casi tuttavia l’oggetto in quanto oggetto è ingrado di parlare da solo; nel primo caso la storia parla per lui, nel se-condo a parlare è il valore che qualcuno gli attribuisce, nel terzo ciò chegli fornisce un significato è l’organizzazione sistematica della classifi-cazione; come nel 1894 William Wilson del Commercial Museum diPhiladelphia spiegò al magnate Edward Ayer, uno dei primi finanziatoridel Field Museum di Chicago: “il materiale del museo dovrebbe parlareda solo quando lo si guarda. Dovrebbe essere un libro aperto che rac-conta una storia meglio di quanto possa fare ogni descrizione. Per farciò dovrà essere opportunamente ordinato e classificato” (Conn 2010).

La trasformazione in simbolo della giubba, oggi esposta al NationalArmy Museum di Londra, che il tenente Henry Anderson portava allabattaglia di Waterloo, raccontato da Susan Pearce (1990), è un processodi creazione di un simbolo che diviene rappresentativo di una storia.Tale processo è comune per gli oggetti museali. In un lavoro successivo(1993), la Pearce ha illustrato lo stesso processo per la spada portata daAlistar MacDonald di Keppoch alla battaglia di Culloden nel 1746, eora conservata nei National Museums of Scotland. In ambedue questicasi la trasformazione degli oggetti in simboli e la loro collocazione inuna costruzione spazio-temporale costituiscono il procedimento di for-mazione e di materializzazione della storia (in questo caso di un trattodella narrazione nazionale). Questo procedimento rende possibili elimi-nazioni, aggiunte o trasformazioni narrative che permettono, da un lato,la costruzione di storie funzionali al potere, e, dall’altro, l’accettazionedi queste storie da parte della società. In ambedue i casi citati da Pearce

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la trasformazione dell’oggetto in simbolo è affidata alla capacità di ela-borazione storica e di trasmissione culturale dei due musei in cui gli og-getti sono esposti.

L’assunzione di un significato simbolico da parte di un oggetto è limi-tata, poiché la capacità di rappresentazione simbolica rimane comunquelegata alla sua natura fisica di oggetto (potrei dire della sua essenza fisicase non fosse un controsenso), ciò significa che né il museo, né chi possiedel’oggetto ha la possibilità di portare la sua rappresentatività oltre un certolimite. Un cappello di Napoleone può rimandare simbolicamente a millebattaglie che possono essere interpretate in modo diametralmente opposto,ma resta comunque sempre un cappello di Napoleone, legato a un perso-naggio e a un’epoca. Così è anche per la spada di Alistar MacDonald e perla giubba del tenente Henry Anderson, i cui rimandi storici sono limitati.

Ogni oggetto, in misura maggiore o minore, ha una sua dignità, chel’eventuale collezionista, e ancor più un museo, deve conservare, esatta-mente come quest’ultimo deve garantirne l’integrità fisica. Il trattamentoindegno o immorale di un oggetto può essere causa della perdita della suacapacità di rappresentazione simbolica e del suo rifiuto da parte della so-cietà. Un esempio del disprezzo cui può essere assoggettato un oggetto èfornito dall’incredibile esposizione della scarpa perduta da Maria Anto-nietta sul patibolo al centro di un’installazione d’arte contemporanea alMusée de Beaux Arts di Caen (2010), chiaramente illustrata dai filmatiprodotti dal museo.

Tuttavia, ogni oggetto ha la possibilità di rimandare simbolicamentea un’enorme numero di situazioni, personaggi o luoghi, il che permetteun uso estremamente vario della sua capacità rappresentativa. Lo sche-letro di un dinosauro può rimandare a un’infinità di cose che vanno aldi là della sua natura di scheletro fossile: può rimandare al luogo di rin-venimento, a chi lo ha scoperto e alle condizioni e vicende della sco-perta, al paleontologo che lo ha studiato, al museo che lo conserva, alconcetto di tempo, alle interpretazioni scientifiche dello spazio e deltempo che evoca, a una geografia antidiluviana. Nello stesso modo unvaso attico può rimandare a un’epoca, a un luogo, a un artista, a un mitoraffigurato, a un archeologo, a una collezione, a un collezionista, a unmuseo. E quando il dinosauro o il vaso attico passano di mano, allora iloro significati possono in parte mutare e comunque arricchirsi: essi ri-manderanno a una successione di avvenimenti (acquisti, trasporti, nuovi

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studi e interpretazioni) e a più personaggi. A questo arricchirsi di signi-ficati nel corso delle vicende dell’esistenza di un oggetto viene dato ilnome di “biografia culturale” dell’oggetto.

La biografia culturale degli oggetti

Durante la sua vita un oggetto può mutare e accumulare significati inrelazione alla vicende e alle persone con cui è entrato in rapporto, assu-mendo così quella che viene chiamata la sua “biografia culturale”. Incampo museale questo accumulo dei significati è stato più volte evocato.Silverstone (1994, pag. 163) ha sottolineato che gli oggetti hanno biografieche si modellano, sia nel passare dalle botteghe ove hanno preso formaalle dimore dei committenti e al museo, sia nel passaggio attraverso diversiambienti sociali, economici, politici e culturali. L’artista Hans Haacke ri-costruì la biografia culturale della Botte d’asperges di Manet (ora al MuseoWallraf-Richartz di Colonia) per l’esposizione “Projekt 74”, attraversouna serie di pannelli ciascuno dei quali riportava la posizione sociale edeconomica dei successivi possessori del quadro (fra i quali molti ebrei) edi quanto lo avevano pagato. Come scrive Dario Gamboni (pag. 168)“questo pedigree dei proprietari non solo metteva in luce l’apprezzamentodel quadro, ma evocava in diversi punti lo spettro del nazismo, in parti-colare quando diceva che il finanziere J. Abs, presidente del board deiTrustees del museo Wallraf-Richartz, che nel 1968 aveva comprato il di-pinto, era stato un dirigente della Reichsbank durante il periodo nazistae nel dopoguerra aveva mantenuto una posizione di rilievo. Il progetto furespinto dal direttore del museo […]”.

Kopytoff (1986), Appadurai (1986) e Gosden e Marshall (1999) hannointrodotto e discusso il concetto di biografia culturale degli oggetti, intesacome la storia culturale e simbolica percorsa da un oggetto sottratto al-l’area della mercificazione e divenuto capitale simbolico inalienabile. Go-sden e Marshall, in particolare, hanno pubblicato una sintesi delle diverseinterpretazioni di questo concetto, la cui idea base recita che anche gli og-getti, come gli individui, accumulano nel tempo i movimenti e i cambia-menti, si trasformano in continuazione, e queste trasformazioni sonocollegate fra loro. Contrariamente all’approccio agli oggetti insito nel con-cetto di “use-life” (vita d’uso) di Tringham, che si riferisce al cambiamento

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della forma fisica che gli oggetti subiscono durante la loro vita a causadegli usi che di volta in volta ne vengono fatti, la biografia culturale con-sidera in quale modo gli oggetti assumono nuovi significati attraverso leinterazioni fra gli oggetti stessi e le persone. Essa si rifà a un’idea di Ko-pytoff (in Appadurai 1986) che ritiene che il significato di un oggetto nonpuò essere compreso appieno se si considera un solo istante temporaledella sua esistenza, mentre per una comprensione approfondita si devonoconsiderare tutti i processi di produzione, di scambio, di uso o di consumoche l’oggetto ha subito durante tutta la sua esistenza.

Attraverso l’interazione con le persone con cui è stato in contatto,l’oggetto si carica continuamente di storie, cosicché il suo significato inun dato momento della sua esistenza deriva dalle persone e dagli eventicon cui è stato in relazione nei tempi precedenti a quel dato momento.Tuttavia fra oggetti e persone lo scambio è reciproco; i significati deglioggetti e degli individui si creano reciprocamente. Un oggetto può acqui-stare valore per essere stato posseduto da un uomo potente, mentre un in-dividuo può acquistare potere attraverso il possesso di oggetti celebri,realizzando così “un mutuo processo di creazione di valore fra individuie cose” (Gosden e Marshall, pag. 170). È il caso degli hei-tiki, pendentiantropomorfi maori, che attribuiscono a chi li porta il prestigio e l’autoritànon solo di chi li ha realizzati, ma anche di tutti coloro che li hanno portatiin precedenza.

Merril e Ahlborn (1997, pag. 196-197) hanno fornito un esempiodella formazione di una biografia culturale in alcuni oggetti degli indianiZuni del Nuovo Messico: le statue dell’Arcangelo Gabriele e di San Mi-chele prelevate dalla chiesa della missione del Pueblo Zuni, e due im-magini Ahayu:da, o Dei della guerra, prelevate da reliquiari esterni alpueblo. Tutti questi oggetti, raccolti fra il 1879 e il 1884 durante unacampagna etnografica della Smithsonian, e restituiti alle comunità Zunialla fine degli anni Ottanta, hanno assunto nel corso della loro storiamolteplici significati.

La storia delle statue dell’Arcangelo Gabriele e di San Michele, scri-vono i due autori, “iniziò come una rappresentazione materiale degli es-seri spirituali centrali all’ideologia cattolica, come la realizzazione dellaconversione degli Zuni al Cristianesimo […]. Poiché gli Zuni adattaronoil cattolicesimo missionario alle loro tradizioni religiose e culturali indi-gene, ovviamente ricontestualizzarono le statue entro il quadro delle loro

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pratiche religiose orientate agli antenati. La rimozione di queste statuedalla chiesa della missione e la loro incorporazione nelle collezioni dellaSmithsonian le trasformarono in manufatti antropologici e storici, edanche in oggetti d’arte che furono usati per documentare e educare il pub-blico, sia sulle interazioni fra gli Zuni e i missionari europei, sia, di con-seguenza, sulla cultura Ispanica e dell’America Sudoccidentale. Dallaseconda metà del ventesimo secolo la statua di San Gabriele fu ridotta aun palo carbonizzato, ma essa (o la sua memoria) divenne, assieme al-l’immagine di San Michele, un oggetto del patrimonio culturale, sia perla Chiesa Cattolica, sia per il Pueblo Zuni, come anche un elemento perla formulazione di una nuova relazione di cooperazione fra il Pueblo Zunie la Smithsonian Institution”.

Le immagini Ahayu:da sono sculture in legno dipinte che per gli Zuninon sono semplici rappresentazioni fisiche, ma l’incarnazione vivente didue esseri spirituali, due gemelli creati in un lontano passato dal Padre Soleper accompagnare gli Zuni nel viaggio verso la loro dimora definitiva, eper assicurare loro prosperità e sicurezza dai nemici. Come per le statuedei santi, anche per gli Ahayu:da il prelievo dalla collocazione originaria,il trasporto al museo e la restituzione hanno creato significati successivi:dall’incarnazione di esseri spirituali, a manufatti antropologici, a strumentieducativi, a oggetti d’arte. Tuttavia in questo caso, rispetto a quello delledue statue dei santi, è evidente che i molteplici significati non si sono so-stituiti gli uni agli altri, ma che ogni nuovo significato si è aggiunto ai pre-cedenti. Per gli Zuni, la cui religione è persistita immutata dal XIX secoloa oggi, le immagini non hanno mai perso il loro significato originale e lohanno quindi conservato sino alla loro restituzione, mentre per il museo eper gli studiosi essi continuano a conservare il valore scientifico, storicoed estetico che avevano nelle collezioni e nelle sale espositive, “hanno rag-giunto un’esistenza che, in termini platonici, trascende la loro materializ-zazione e si estende al di là dei contesti culturali in cui sono statioriginariamente creati”. Tutti questi significati, fanno osservare i due au-tori, hanno avuto relazioni con il potere, nel senso che gli oggetti sono statii simboli di un potere che di volta in volta attribuiva loro un nuovo signi-ficato: essi sono stati simboli del potere spirituale per gli Zuni, del potereimperialista missionario per gli spagnoli e gli americani, del potere dellascienza per il colonialismo interno americano, e del potere legato al riscattodelle comunità indigene nella controversia legata alla restituzione.

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I meccanismi di assunzione di nuovi significati attraverso l’interazionefra persone e oggetti fanno parte della nostra quotidianità. Ne è un esempiol’interazione fra una abitazione (che funge qui da oggetto) e la personache vi abita, che produce una stratificazione di memorie condivise fra og-getto e soggetto e una continua ridefinizione dei significati e dei rapporti.Weiner (1992) ha chiamato “manufatti densi” gli oggetti che hanno avutoun’importante storia biografica che ha prodotto una stratificazione di me-morie e di esperienze depositatisi in strati successivi, ciascuna delle qualiha aggiunto nuovi significati.

Hamilakis (2007, pag. 275) ha messo in evidenza la stratificazione disignificati nei marmi del Partenone e i suoi riflessi sugli scontri relativialla loro restituzione: “Ciascuno di questi strati – ha scritto – non si è sem-plicemente depositato e sedimentato in una sequenza pura e ordinata: lamaggior parte di questi intimi incontri con il marmo porta con se le me-morie di incontri precedenti, cita eventi precedenti e impegni riallacciatia precedenti strati di memoria, rimescolando così l’intera stratigrafiamnemonica e portando in superficie le tensioni e le inquietudini del pas-sato. Questa è la ragione del perché il potere e il peso emotivo di questiscontri è aumentato invece di diminuire nel tempo”.

La stessa cosa può dirsi delle successive simbolizzazioni dell’AraPacis augustea di Roma. Come ricorda Isabella Pezzini, che ha scrittola storia del monumento (2011, pag. 48-64), “l’altare è un oggetto per-duto e ritrovato, che nasce come simbolo e che nel corso del tempo co-nosce una serie di vicende che ne fanno un caso archeologico eideologico, non solo affascinante ma esemplare. Dopo la trionfale de-dica ad Augusto nel corso dei secoli l’Ara subisce l’interramento e laperdita, poi nel Cinquecento conosce il recupero parziale, la decostru-zione e l’estetizzazione dei suoi componenti. Finalmente, a opera delfascismo, siamo al recupero filologico, la risimbolizzazione e l’assun-zione a pietra di volta di una invenzione della tradizione”. Eretta dal Se-nato Romano fra il 13 e il 9 a.C., dopo il ritorno di Augusto dallecampagne in Gallia e in Spagna come simbolo della pace augustea, evo-cata dallo stesso Augusto48, l’Ara Pacis scomparve, probabilmente in-ghiottita da una piena del Tevere, e iniziò a venire alla luce a frammentisolo a partire dal Cinquecento. Nel 1938 il monumento fu ricompostoed esposto in occasione del Bimillenario Augusteo sul Lungotevere inposizione monumentale, in una teca di vetro che lo rendeva visibile da

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ogni lato, simbolo della romanità evocata dal fascismo. Liberata da un“guscio” che l’aveva protetta dai rischi della guerra, l’Ara Pacis apparvedopo la guerra col vecchio allestimento, fino al 2006, quando la giuntacapitolina ne volle fare il simbolo di un nuovo progresso per la città, in-globandola in un museo realizzato dall’architetto Richard Meier, che su-scitò non poche polemiche.

Sono state avanzate varie ipotesi per spiegare i meccanismi attraversocui i significati si stratificano negli oggetti, modificandoli di volta in volta.Alcune di queste ipotesi prendono in considerazione la differenza fra mercie doni. Esse ritengono che le merci siano incapaci di produrre relazionisociali, cosa che sarebbe invece una prerogativa dei doni che conserve-rebbero i legami con il donatore. Marilyn Strathern (1990) si dice convintache gli oggetti donati mantengono i legami, non solo con il primo donatorema anche con tutti i responsabili delle successive transazioni effettuatenel passato; essi conserverebbero perciò un’ampia serie di legami sociali,produrrebbero relazioni sociali e creerebbero reciproche relazioni indivi-dui-oggetti. La distinzione fra oggetto di mercato e dono può avere im-portanti riflessi sul comportamento delle persone verso gli oggetti, inparticolare sulla loro alienabilità (per le merci) o inalienabilità (per i doni),ma può anche spiegare alcuni comportamenti dei musei nei confronti delproprio patrimonio, per esempio la facile alienazione da parte dei museinordamericani di opere acquistate sul mercato che invece è relativamentepiù difficile per le opere ricevute in dono (poiché esse mantengono “segni”del donatore). Anche Krzysztof Pomian, trattando della biografia culturaledegli oggetti (pur non definendola con questo nome), ha enfatizzato l’im-portanza dello scambio e del dono come garanzia indispensabile a co-struire la biografia di un oggetto49.

Per contro, secondo Appadurai (1986) la distinzione fra doni e mercinon ha alcun significato nella creazione della biografia generale deglioggetti, poiché tutto il processo di stratificazione dei significati risiedenel contesto che “avvolge” l’oggetto, nelle circostanze sociali e politichepresenti al momento dei cambi di contesto. Ciò che crea la biografia cul-turale degli oggetti è il contesto sociale e culturale nel quale gli oggettisono stati prodotti e le circostanze nelle quali sono stati di volta in voltainseriti. I diversi significati degli oggetti sono quindi il prodotto dei cam-biamenti di contesto e degli spostamenti delle prospettive sociali. Il chesembra evidente negli oggetti che hanno subito cambi di proprietà a se-

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guito di saccheggi, prelievi forzati, acquisizioni illecite e trafugamenti,nei quali esiste una doppia prospettiva, quella di colui che se ne appro-pria e quella di colui che ne viene privato.

Gosden e Marshall (pag. 174) hanno incluso le rappresentazioni ce-rimoniali fra i contesti che generano la stratificazione dei significati.Questo potrebbe spiegare le contestazioni – richieste di restituzione, con-trastanti asserzioni di proprietà – che si riferiscono a oggetti in cui lastratificazione dei significati è stata generata da processi di ritualizza-zione – nazionali, culturali o sociali – che hanno inserito negli oggettivalori simbolici e identitari.

La biografia culturale degli oggetti è il risultato di un processo con-tinuo e inarrestabile, di cui anche i musei sono a volte gli agenti. In-fatti, come scrive Saumarez-Smith (1989, pag. 12), la trasformazionedell’oggetto continua anche quando è inserito in una collezione mu-seale, poiché il museo “cambia frequentemente e risistema lo statusdegli oggetti nelle sue collezioni, attraverso il modo con cui sono pre-sentati e esposti, ed è importante essere coscienti che il museo non èun territorio neutrale. Il che ci porta a considerare il museo come crea-tore dei simboli.

Il museo creatore

Anche se non tutti concordano sulla potenzialità creativa del museo,in ciascuna delle tre metodologie attraverso cui un oggetto viene fatto par-lare ipotizzate da Arnold il museo gioca il ruolo di creatore di simboli. Al-cuni semiologi ritengono che la frazione di immaterialità degli oggetti delmuseo (che caratterizza il suo contenuto50 complessivo), sia indipendentedal museo stesso. Essi sostengono cioè che il museo non abbia alcun ruolonell’attribuzione di significati simbolici agli oggetti, e cioè nella forma-zione dei segni, e ritengono che tale processo si risolve in un’interazionefra oggetto e individuo, mediata da regole intrinseche alla comunità cuil’individuo appartiene (Taborsky 1990, Pearce 1990). Essi sostengono,con Walter Benjamin, che ogni oggetto ha una sua “aura”, una sorta diforza interna che si espande al suo intorno, che per percepirla dobbiamoconferire all’oggetto che guardiamo la capacità di guardare a noi di ri-mando51. È questo il cosiddetto modello cognitivo discorsivo52 che pre-

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suppone che l’oggetto “parli da solo” svelando la propria natura a un os-servatore che la riceverà mediata solo dal proprio contesto culturale. Que-sta sembra essere anche la posizione di Pomian (1987) che attribuisce almuseo la natura di luogo d’incontro fra l’individuo e l’oggetto “semio-foro”, ove si stabilisce il contatto del visibile con l’invisibile, del presentecon il passato, dell’individuo con la sua storia, attraverso l’interazione og-getto/visitatore.

Steven Conn (1998) ha ricordato che i museologi nordamericanidella seconda metà dell’Ottocento erano convinti della capacità deglioggetti di parlare direttamente anche agli osservatori impreparati attra-verso la loro natura, forma e fisicità, e fossero quindi in grado di rac-contare storie meglio di quanto non potesse fare qualsiasi tipo didescrizione. Di questo erano convinti Franck Hamilton Cushing delloSmithsonian Bureau of Ethnology e Steward Culin studioso del folkloree direttore delle esposizioni del nuovo museo dell’Università della Pen-nsylvania. Negli stessi anni il direttore del Commercial Museum di Fi-ladelfia asseriva che “tutto il materiale dei musei dovrebbe parlare dasolo attraverso la visione, dovrebbe essere come un libro aperto cheracconta una storia meglio di quanto non possa fare ogni descrizione”(Conn 1998, pag. 4). Anche Henry Ford basò sugli oggetti la rappresen-tazione del passato americano nel suo museo a Williamsburg, aperto uf-ficialmente nel 1932. Egli era convinto che gli oggetti avessero un potereben maggiore delle parole nell’evocare il passato e che parlassero dasoli poiché in ciascuno di essi si poteva leggere il pensiero e lo scopodell’uomo che lo aveva fatto. “Ogni pezzo di un macchinario – sosteneva– o ogni cosa costruita sono come un libro che è possibile leggere”. Fordera convinto che la storia americana si identificasse con il progresso tec-nologico, fosse costruita dal popolo e non dai politici o dai grandi avve-nimenti, e che perciò potesse essere raccontata attraverso oggetticomuni. Questa interpretazione della storia di Ford, obiettò tuttavia ilNew York Times Magazine (5 aprile 1931), “[...] è una visione in cui ilcompromesso del Missouri, la guerra messicana, la battaglia di FortSumter, quelle migliaia di eventi che costruiscono l’intero tessuto e latrama della nostra storia, come l’apprendono i bambini, sono conside-rati, se lo sono, solo come interruzioni accidentali nel cammino princi-pale della vita nazionale – il progresso delle condizioni generali di vita,dell’inventiva e dell’efficienza, del comfort e del gusto. È una visione,

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inoltre, in cui una scodella di peltro della più modesta cucina nelle co-lonie avrebbe lo stesso interesse di una proveniente dalla cucina di Ge-orge Washington”.

Contrariamente a quanti ritengono che gli oggetti abbiano la capacitàdi dialogare con chi li osserva senza mediazioni, io sono convinto che lacapacità narrativa degli oggetti sorga dal loro studio, dalla loro classifica-zione e, nel caso dei musei, dalla loro disposizione nelle sale espositive.Questa convinzione fu espressa da George Brown Goode già negli anniOttanta del secolo scorso in una serie di conferenze (all’American Histo-rical Association e al Brooklyn Institute). In esse, l’allora assistente se-gretario della Smithsonian. sostenne che solo attraverso la classificazionee la disposizione ordinata degli oggetti si sarebbe trasformato il museo“da un cimitero di bric-à-brac in una nursery per idee vive”53. Per Goodetuttavia la disposizione degli oggetti non era sufficiente a stimolare la lorocapacità narrativa (o viceversa la capacità di comprensione da parte deivisitatori), gli oggetti esposti dovevano quindi essere accompagnati da unapparato didascalico che “insegnasse” al visitatore ciò che lo studio deglioggetti aveva rivelato.

Oggi sono molti i museologi che ritengono che il museo sia un mezzodi comunicazione che promuove il modello cognitivo basato sull’osser-vazione agendo da mediatore fra oggetto e osservatore, svelando cioè ilsignificato dell’oggetto all’osservatore attraverso canali di comunicazionequali testi, didascalie, immagini, sistemazione fisica degli oggetti ecc. Fraessi Ghislaine Lawrence (1990, pag. 114), che ha scritto che “è difficileconcepire che si possa creare un’esposizione di oggetti che eviti la co-struzione di messaggi intrinseci al processo di mediazione, e una piccolama crescente massa di lavoro che testimonia sia l’appropriatezza, sia lacoerenza nel trattare il museo come un mezzo di comunicazione”. Ciò, na-turalmente, senza giungere al paradosso della museologia parlante stali-niana degli anni della rivoluzione culturale (1928-1932), che produssequelle che, per la sovrabbondanza dei testi esposti, furono definite “espo-sizioni di carta”.

Conn (1998) ha chiamato “epistemologia basata sull’oggetto” il pro-cesso di “estrazione” delle informazioni dagli oggetti. Egli ritiene chegli oggetti possono raccontare storie, ma che non sono né perfettamentetrasparenti, né totalmente opachi, e che perciò possono rivelare il lorocontenuto solo a coloro che li studino e li osservino con sufficiente at-

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tenzione, ne organizzino la disposizione fisica e li accompagnino conun apparato informativo. Paragonando la visita al museo allo schemalinguistico di Roman Jakobson 54, Conn ha scritto che “un visitatore chesi muovesse (orizzontalmente) lungo le gallerie [di un museo (N.d.A.)],vedrebbe oggetti che hanno un significato inerente in se stessi. Combi-nati assieme vetrina dopo vetrina e esposizione dopo esposizione, glioggetti formerebbero coerenti ‘frasi’ visive. Questa coerenza, tuttavia,sarebbe raggiunta solo dopo che questi oggetti fossero stati deliberata-mente selezionati dai depositi sotterranei, e ordinati adeguatamentenelle gallerie. Il messaggio sarebbe così costruito visivamente con og-getti, come parole in un testo, come mattoni fondamentali nella costru-zione del linguaggio del museo”. Nel 1980 (Pinna, in Binni e Pinna1980) espressi la stessa convinzione sull’importanza della mediazionedel museo nell’esprimere il significato degli oggetti e della loro orga-nizzazione per la costruzione di una narrazione coerente. Mi pare cheanche Peter van Mensch (1990, pag. 144) ammetta che nel museo si svi-luppi un modello cognitivo basato sulla mediazione operata dal museoe non sull’interazione diretta oggetto-osservatore. Egli ha scritto chel’oggetto di museo “selezionato e isolato dal suo ambiente originale di-viene un documento e, come tale, una fonte di conoscenza”, e ha chia-mato musealium l’oggetto di museo, definendolo un “oggetto separatodalla sua vera realtà e trasferito in una nuova realtà museale con il finedi documentare la realtà da cui è stato separato”. Nella stessa direzioneva anche la definizione di musealia contenuta nei Fundamentals of mu-seology (1985) e nel dizionario dei termini museali di Schreiner (1988).Essi sarebbero i reperti naturali o i manufatti prodotti dalle quotidianeattività umane o dalle attività artistiche, che sono entrati nelle collezionidel museo grazie ad acquisizioni selettive, che nel museo sono conser-vati dopo essere stati sottoposti a processi di restauro, di identifica-zione/classificazione, e qui sono messi a disposizione del pubblico nelleesposizioni e degli studiosi nei depositi.

L’adozione da parte di un museo del modello di comunicazione di-scorsivo o del modello basato sull’osservazione ne influenza il potere po-litico. Poiché il modello discorsivo lascia all’individuo la libertà diattribuire all’oggetto un significato del tutto personale grazie all’intera-zione oggetto-individuo, quanto esso comunica è, almeno teoricamente,non controllabile né manipolabile, e poiché il modello basato sull’osser-

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vazione non lascia alcuna libertà individuale in quanto il significato del-l’oggetto è stabilito a priori direttamente dal museo, attraverso i detentorispeciali, ne deriva che i musei che adottano il modello discorsivo sonostrumenti politici meno potenti di quelli che adottano il modello basatosull’osservazione. Questa è la ragione del perché la maggior parte deimusei adotta quest’ultimo modello di comunicazione, proponendosi comemusei narrativi.

Quanto detto porta inevitabilmente a ritenere che il museo non siasolo il custode di un insieme di oggetti, ciascuno carico di un potenzialesimbolico (vale a dire di un frazione del patrimonio culturale di una co-munità), e non solo il veicolo di trasmissione di questo potenziale sim-bolico, ma anche creatore del significato simbolico degli oggetti e quindicreatore del patrimonio culturale. E come tale espressione di una volontàpolitica. È quanto scrive Sheehan (2000, pag. XI) riferendosi ai museid’arte. “I musei – egli scrive – creano così come conservano. Costrui-scono le cornici esplicative all’interno delle quali i singoli oggetti pos-sono essere compresi; ratificano il vero significato artistico, e ci aiutanoa decidere che cosa è arte e che cosa non lo è. Come conservatori ecreatori di valori artistici, i musei sono anche espressione del potere,quello politico e economico di coloro che li hanno costruiti, il potereprofessionale di coloro che hanno definito la loro missione e modellatole loro collezioni, e il potere sociale di coloro da cui dipendono per lasopravvivenza. Ovunque i musei hanno qualcosa in comune, ma essisono anche modellati dal loro ambiente storico; in altre parole, essihanno proprie storie accanto all’evidenza che le loro collezioni sonoorganizzate per impartire una narrazione”.

Il processo di creazione dei simboli collettivi consiste nell’inseri-mento di oggetti, idee, avvenimenti in uno spazio e in un tempo definiti,un’operazione che, in ogni campo del sapere, si realizza attraversoun’elaborazione scientifica, storica, letteraria, artistica ecc., di cui sonoartefici quelli che Jan Assman ha chiamato “detentori speciali” e la Ta-borski “costruttori di simboli”, che operano in istituzioni collettive comei musei. Poiché i musei posseggono una struttura organizzativa che ac-coglie i costruttori di simboli e permette loro di operare (scienziati, sto-rici dell’arte ecc.), ogni singolo museo può essere considerato uncostruttore di simboli, che quindi non solo custodisce e trasmette il si-gnificato del patrimonio culturale, ma contribuisce a crearlo. Il museo,

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hanno sostenuto Galinier e Molinié (1998) riferendosi all’America La-tina, ha ormai acquisito la consapevolezza di poter “fabbricare la culturache studia – attraverso la codificazione, la selezione, l’esposizione, lapromozione e l’acquisto delle opere”.

I musei sono infatti luoghi di elaborazione scientifica e di comuni-cazione culturale, due funzioni che vengono loro riconosciute dalla mag-gior parte delle leggi/regolamenti nazionali e dalle definizioniinternazionali, fra cui l’universalmente nota definizione di museo del-l’ICOM. Tuttavia, nel definire l’istituzione museale non si può disco-noscere le sue implicazioni politiche, e si deve perciò affermare che ilmuseo è un’istituzione collettiva la cui organizzazione include le attivitàdi detentori speciali/costruttori di simboli, materializzati nei soggettidello staff scientifico, dei Trustees o altro, che agiscono sotto la tuteladi sistemi di controllo politici, sociali o economici. Attraverso l’attivitàdi costoro il museo crea il significato simbolico degli oggetti, li inseriscein modelli di organizzazione e in narrazioni coerenti e comunica questaorganizzazione e narrazione (vera o falsa che sia), divenendo così unmediatore della memoria. Su ciò concorda, per esempio, la semiologiaIsabella Pezzini (2011, pag. 14) che, seguendo Lotman (1973), scriveche “gli oggetti non entrano soli né da soli nei musei: sono scelti, orga-nizzati in collezioni e disposti in percorsi significanti, a beneficio di unpubblico, da soggetti collettivi e collettivi di soggetti (gli esperti, i cu-ratori, ecc.) opportunamente delegati a queste funzioni di ricerca, sele-zione, allestimento, valorizzazione, costruzione di rapporti di senso,comunicazione. La realizzazione di un museo e la sua gestione, dunque,presuppongono una complessa istanza produttrice, le cui tracce enun-ciative sono riconducibili a un progetto complessivo […]. In questomodo i musei manifestano anche le modalità attraverso cui una comu-nità, una cultura o una parte di essa pensano e trattano i loro segni”.

L’attribuzione di significati simbolici all’insieme di oggetti che ilmuseo accumula progressivamente rende questa istituzione un mediatorecomplesso, uno degli attori principali nella creazione del patrimonio cul-turale. Questa azione creativa si materializza grazie al potere selettivodel museo; vale a dire alla capacità, possibilità e diritto di scegliere, siache cosa raccogliere e conservare, sia che cosa comunicare ai membridella comunità. In termini darwiniani, la selezione è di per sé una forzacreatrice in grado di determinare la forma, il significato e la consistenza

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del patrimonio culturale. Il museo è perciò uno di quegli agenti socialicui la Taborsky affida il compito di creare il significato del patrimonioculturale e di garantirne la stabilità. Un “vettore di produzione simbo-lica” lo definisce Veronique Charléty (2001, pag. 80). È interessante ri-cordare che già nel 1794 l’Abbé Grégoire riteneva centrale la capacitàselezionatrice del museo. “Istituzioni di conservazione, dunque di pre-servazione delle memorie – scrisse nel Premier rapport sur le vandali-sme –, i musei sono anche luoghi di selezione fra quello che deve esseresalvaguardato e quello che deve essere lasciato all’abbandono; la pro-cedura dell’oblio – operando nel doppio senso del termine, vale a direal tempo stesso nella scelta fra quello che deve essere e quello che nondeve essere conservato, e nel processo di appropriazione – è centralenella pratica museale”.

In relazione alla potenzialità creativa, il museo può essere interpre-tato partendo da due punti di vista diversi: l’uno ritiene che il museosia un costruttore di simboli in quanto in esso si svolge un’elaborazionescientifica, l’altro sostiene che il museo diviene un costruttore di sim-boli se in lui si svolge un’elaborazione scientifica degli oggetti conser-vati nelle proprie collezioni. Le due posizioni ipotizzano musei dinatura diversa. Mentre nel primo caso il museo ha nel suo DNA l’essere“costruttore di simboli”, ed è quindi sempre costruttore e narratore distorie, nel secondo caso il museo può anche non avere alcuna capacitàcreativa o narrativa e limitarsi a mostrare oggetti su cui saranno i visi-tatori a costruire le loro storie individuali o la loro organizzazione cul-turale. Nel primo caso i musei comunicheranno sempre narrazioni, nelsecondo punteranno essenzialmente all’estetica degli oggetti e ai sen-timenti individuali che questa genera, saranno quelli che ho chiamatomusei estetici.

Come sosteneva l’Abbé Grégoire, i musei sono allo stesso tempocreatori dei significati simbolici degli oggetti e scrigni della memoria.In quanto scrigni essi raccolgono, selezionano e conservano gli oggettiche testimoniano la storia, le tradizioni, l’arte, il sapere scientifico, lagloria e la potenza dei popoli, e cioè, in pratica, tutto quanto forma lamemoria culturale e l’essenza di una nazione o di una comunità sociale.Essi sono perciò istituzioni nelle quali le comunità e le nazioni trovanoun punto di aggregazione e di identificazione, il che, ancora una volta,rende il controllo dei musei fondamentale per la gestione del potere.

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Museo luogo di identificazioneLa capacità di trasformare gli oggetti in simboli collettivi e di co-

municarne i significati alla comunità attribuisce al museo una valenzasociale, nel senso che attraverso queste due azioni le collezioni delmuseo divengono rappresentative della comunità, parte significativadel suo patrimonio culturale. Quanto più forte è il significato che ilmuseo assegna al suo patrimonio di oggetti, tanto maggiore è la suacapacità di essere rappresentativo della comunità, essere oggetto oluogo di identificazione per quella comunità, e perciò elemento di coe-sione sociale e culturale. Tutto ciò indipendentemente dalla tipologia,dalle dimensioni e dalla consistenza del museo, e dalle dimensioni,dalla ricchezza e dal grado di sviluppo sociale della comunità. In que-sta capacità di rappresentazione e di essere oggetto/luogo di identifi-cazione risiede la forza del museo, ma nello stesso tempo in essa èinscritta anche la sua debolezza, in quanto può rendere il museo un fa-cile strumento di manipolazione politica della società.

Che le società ne siano consapevoli o meno, questo ruolosociale/identitario del museo è la funzione che ne giustifica l’esistenzae lo status di istituzione pubblica, che ha giustificato in passato la suanascita, che impedisce la sua distruzione, e che giustifica il sorgere disempre nuovi musei in tutte le comunità del mondo. Il che avviene inmodo condiviso e apparentemente spontaneo nelle comunità democra-tiche che ricercano la propria identità, e in modo coatto nelle comunitàche sottostanno a regimi tirannici che impongono identità posticce, estra-nee alla vera cultura della comunità sottomessa. I musei nati dalla con-divisione fra il popolo e chi lo dirige, come luoghi di identificazione peruna società almeno apparentemente democratica, e i musei imposti daregimi non democratici per finalità di controllo autocratico giocanonell’ambito della società ruoli diversi in campo culturale ed economico,e hanno una diversa stabilità nel tempo.

Non tutti concordano con questa interpretazione del ruolo sociale deimusei. Il punto di vista di alcuni storici dell’arte è diverso. La tendenzaa enfatizzare l’estetica degli oggetti, e a minimizzarne nello stesso tempoil significato del museo come prodotto di condizioni storiche, sociali po-litiche o economiche, tende a ribaltare il rapporto fra le collezioni e imusei. Svetlana Alpers (1995) ha scritto che “i musei trasformano le te-stimonianze materiali di una civiltà in oggetti d’arte”. Greenblatt ha sot-

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tolineato la tendenza dei musei a nascondere la vulnerabilità degli og-getti, cancellando “i segni di alterazione, di manomissione e persino dideliberato danneggiamento” che costituiscono una potente fonte di ri-sonanza, poiché testimoniano la violenza della storia, i segni dell’uso,le tracce del tocco umano, le condizioni della loro creazione. L’antro-pologo Masao Yamaguchi ha scritto che “nel momento in cui è sottrattoal fluire della vita, l’oggetto si trasforma in una sorta di simulacro dellavita stessa e acquisisce una propria autonomia perdendo ogni rapportocon la quotidianità. In compenso, in questo modo comincia a essere av-valorato come oggetto d’arte”.

La trasformazione dell’oggetto in opera d’arte è una transizione dairisultati spesso ambigui, poiché non è detto che essa generi comunquela decontestualizzazione dell’oggetto, e quindi la perdita delle sue con-nessioni storico-culturali e della sua funzione sociale. La negazione delruolo sociale dei musei e del significato identitario degli oggetti che essicontengono è il cavallo di battaglia di quanti vogliono mantenere attivoil mercato dei beni culturali, e devono quindi minimizzare i significatisimbolici degli oggetti di storia, arte o scienza, a favore di un’enfatizza-zione delle loro qualità estetiche (per esempio Cuno 2004, 2008, 2009).Nonostante queste negazioni legate all’estetica dell’oggetto, che hannogenerato musei privi di una propria e distinta anima culturale, il valoresociale del museo, inteso come luogo di identificazione, è innegabile.Questo valore è la base della forte valenza politica del museo, che di-viene così strumento ideologico nelle mani dei poteri dominanti. “Unmuseo è per sua natura un’istituzione politica” ha affermato Neil Po-stman nel corso della Conferenza Generale dell’ICOM dell’Aia (1989);“l’azione di ogni museo è modellata dall’autorità dominante sotto cuiesso opera”, gli ha fatto eco Stephen Weil nel 1995, e io stesso (Pinna,in Binni e Pinna 1980, pag. 163-179) oltre vent’anni fa sostenni la di-pendenza diretta dei musei dalla politica.

In quanto istituzione politica, il museo, lungi dall’essere quella limpidae neutrale istituzione al servizio della cultura universale che noi crediamo,è potenzialmente un manipolatore della storia e della realtà al servizio diuna cultura di parte (Pinna 2003). Sotto questo aspetto, il ruolo sociale delmuseo è difficilmente separabile dal ruolo politico che a esso viene attri-buito dai governi, dalle élite dominanti, dai gruppi o dalle comunità di cuii musei sono l’espressione e il prodotto.

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Il valore politico del museo È ormai un fatto acquisito da quanti operano nei musei e da coloro

che detengono le leve del potere che il museo non è un’istituzione liberada condizionamenti, ma è uno strumento utilizzato dai gruppi dominantinella società, politici, religiosi, economici o etnici, per la creazione e laconservazione del potere. Tali gruppi usano la capacità del museo dicreare, interpretare e comunicare il patrimonio culturale per orientare lamemoria collettiva e per plasmare l’identità della società attraverso si-stemi educativi, con il fine di mantenerne il controllo. La convinzioneche il museo sia uno strumento nelle mani del potere politico capace diorientare la società è stata espressa nel 1966 da Pierre Bourdieu e AlainDarbel. A seguito di un’analisi sui musei d’arte europei, i due autori ela-borarono una teoria che ha avuto un’ampia eco nel mondo museale, eche negli anni Novanta ha interessato anche la museologia inglese (Fyfe1996, Fyfe e Ross 1996) e americana (Weil 1995). Secondo gli autori lafinalità principale del museo d’arte, come quella di altre istituzioni cul-turali, sarebbe il mantenimento dell’ordine sociale. Ospitando oggettiprivi di valore intrinseco, ma dotati di un valore loro assegnato dallaclasse dominante al fine di farne strumenti di distinzione di classe, imusei contribuirebbero a tramandare, generazione dopo generazione, laseparazione fra la classe colta dominante e le classi dominate, prive dicultura, il che rinforzerebbe per alcuni la sensazione di appartenenza,per altri la sensazione di esclusione. Se si considerano i musei nel lorocomplesso, guardando quindi alla loro varietà, la storia dimostra chenegli ultimi due secoli, in tutti i paesi e sotto tutti i regimi, queste istitu-zioni si sono aperte sempre più alla fruibilità pubblica e hanno operato,soprattutto negli ultimi due decenni, per raggiungere una sempre piùmarcata vulgarisation dei loro contenuti. Ciò sembra dimostrare che,contrariamente all’idea di Bourdieu e Darbel, i musei sono utilizzaticome luoghi di creazione e di diffusione di una cultura di parte, e noncome luoghi di esclusione da una cultura elitaria.

L’idea che il museo sia uno strumento politico nelle mani delle élitedominanti nella società è dunque ampiamente condivisa. Dietro i pro-grammi culturali dei musei, sostiene Pomian (1990, citato da Nicolau1996, pag. 21), “si nascondono sempre delle sfide che solo una storia po-litica del museo potrà svelare”. Più di recente l’archeologo MichaelBrown (2009, pag. 148) ha scritto che “i musei funzionano soprattutto

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come teatri del potere, dispiegano il loro capitale culturale e la sontuosaarchitettura per modellare i modi di pensare verso ogni cosa, dal gustoartistico [ratificando così la superiorità delle élite dominanti], alla moraleradicata dello stato-nazione [orientando perciò l’opinione pubblica in fa-vore del potere dello Stato]. Ogni vetrinetta, ogni basamento, cospira percreare ciò che Tony Bennett [1995, pag. 24 (N.d.A.)] chiama uno ‘spaziodi sorveglianza e di controllo’ designato a formare il corpo e la mente delvisitatore”. Antony Shelton (1990) ha interpretato i musei come macchineper la creazione del consenso e ha considerato questa operazioneun’azione arbitraria della classe dominante. Egli ritiene che il museo siaparte integrante del sistema educativo della società, e poiché questo hacome fine quello di imporre a tutti i segmenti della società un insieme divalori derivati da un certo ambiente culturale, il museo diviene lo stru-mento violento della diffusione della particolare conoscenza legata agliinteressi della classe dominante. A sua volta Ivan Karp (1992) ha sottoli-neato che il possibile alto ruolo sociale del museo “di esprimere, capire,sviluppare e conservare gli oggetti, i valori e la conoscenza che la societàcivile valorizza e da cui dipende” può essere sminuito dal fatto che essofinisce spesso per “sostenere o contrastare le definizioni imposte dagli or-gani più coercitivi dello stato”.

Dell’uso politico dei musei si è occupato anche Ducan Cameron, chein un articolo del 1997 cercò di identificare le caratteristiche per le qualiun’istituzione viene considerata “Museo” in ogni parte del mondo, in-dipendentemente dal periodo storico, dalla tipologia e dalla collocazionegeografica o appartenenza etnica. Secondo Cameron l’archetipo delmuseo è un’istituzione (1) il cui valore sociale risiede nell’essere unmeccanismo che serve a mantenere la stabilità sociale, creato e gover-nato, direttamente o indirettamente da coloro che hanno conquistato ildiritto a governare, (2) è collocata in un edificio che implica l’autoritàdei fondatori, enfatizza la natura particolare dell’istituzione e il suo si-gnificato simbolico per la società, (3) contiene collezioni, tangibili o in-tangibili, effimere o permanenti, che a loro volta hanno un significatosimbolico per il sistema di credenze di quella società, ovvero per la suamitologia, (4) al cui interno operano agenti – preti, insegnanti, cantasto-rie, conservatori – che hanno ricevuto da coloro che detengono il poterel’incarico di proteggere, di interpretare e di esporre le collezioni in modotale che i significati simbolici siano sempre presentati come verità (i de-

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tentori speciali), infine (5) ha la capacità di modificare i significati sim-bolici che esprime, in modo tale che essi si adattino sempre ai cambia-menti della mitologia dominante nella società.

In questo quadro, l’autorevolezza intrinseca del museo, di cui trattaampiamente Michael Baxandall, fornisce la legittimazione necessaria ache il gioco della diffusione della cultura del potere dominante abbia suc-cesso e sfoci nella sua accettazione. La funzione del museo, come quelladi ogni altra struttura che abbia un potenziale di diffusione culturale equindi di legittimazione della cultura (e degli interessi) del potere domi-nante, pone il museo stesso al crocevia degli interessi diversi che si scon-trano nell’ambito della società, e rende una chimera l’idea – se mai questaidea è stata espressa – di una possibile imparzialità del museo nell’inter-pretazione degli avvenimenti di fronte a tutti i segmenti della società. Na-turalmente, è evidente che l’uso dei musei come strumento ideologico èdirettamente proporzionale alla struttura democratica della società, algrado di ideologizzazione della classe, dell’etnia o del gruppo dominante,e alle differenze culturali, etniche e di classe presenti in quella società.

Il museo non è un’istituzione neutrale

In un’intervista del 1993 l’artista americano Fred Wilson ha dichiaratoche “i musei si gloriano di essere obiettivi, e non vogliono che tu credache vi sia un altro scenario oltre a quello che stanno presentando”. Qual-che anno prima, Saumarez-Smith (1989, pag. 12) aveva scritto che è fon-damentale che si sia coscienti che “il museo non è un territorio neutrale”;mentre nel 1996 Tunbridge e Ashworth hanno istituzionalizzato la conte-stabilità del significato del patrimonio culturale attraverso il concetto diDissonant Heritage, secondo cui la non condivisione è intrinseca all’ideastessa di patrimonio culturale, poiché ogni individuo ha una propria ereditàculturale, diversa da quella di ogni altro, e un patrimonio culturale creatoper assumere un ruolo comunitario non può mai essere condiviso da tutti.

La discussione sulla facilità con cui il patrimonio culturale – che, ri-cordiamo, è espressione della memoria culturale e quindi forgiatore del-l’identità collettiva – può essere manipolato dal potere, accettato ocontestato dalla società è iniziata negli anni Settanta soprattutto grazie allepubblicazioni di Duncan Cameron (1971), di Kenneth Hudson (1977) e

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dai risultati della conferenza di Santiago del 30 maggio 1972, che, seppurein varia misura, posero l’accento sul delicato ruolo sociale dei musei esull’impatto che tali istituzioni hanno sulla costruzione dell’identità dellecomunità. Il problema della criticità dei musei, del valore della loro azionesocio-culturale e della loro dipendenza dal potere politico o dai gruppi dipotere esistenti nella società furono temi posti già prima che negli anniOttanta si sviluppasse il dibattito sull’instabilità del patrimonio culturale.All’inizio degli anni Ottanta io stesso posi il tema della dipendenza deimusei dal potere politico, scrivendo che i musei “attuano il loro ruolo diistituzioni pubbliche sulla base di quanto viene loro assegnato dalla po-litica culturale e dalle leggi che tale politica esprime. […] Questa realtànon va dimenticata nel giudicare le istituzioni museali, la loro attività, laloro capacità di incidenza culturale, poiché non vi è oggi in nessun paeseal mondo un museo la cui struttura organizzativa o i cui fini istituzionalinon siano definiti sulla base di leggi espresse da una politica culturale,la quale è a sua volta espressione del gruppo o della classe politica diri-gente” (Pinna, in Binni e Pinna 1980, pag. 165).

Nella decade degli anni Ottanta furono pubblicati numerosi saggiche dibatterono sulla neutralità e imparzialità dei musei, anche se da ot-tiche diverse (Harrison 2013, pag. 95 e segg.). Fra essi: l’articolo di Bru-ner del 1983, nel quale l’autore sostenne che le società con le loroidentità non sono pienamente formate e immobili, ma sono invece sem-pre in movimento e in progressione; il volume di Hobsbawm e Rangerdel 1983 (trad. it. 1987) sull’invenzione della tradizione; il libro di Lo-wenthal del 198555; e il volume collettivo Contested Cultural Heritage,edito dall’antropologa Helaine Silverman che ne ha iniziato l’introdu-zione con queste parole: “Si vive in un mondo sempre più affollato ovegruppi religiosi, etnici, nazionali, politici e altro manipolano (si appro-priano, usano, costruiscono, abusano, escludono, cancellano) i segni ele manifestazioni del proprio patrimonio culturale e di quello degli altri,come mezzo per sostenere, difendere o negare diritti fondamentali al po-tere, alla terra, alla legittimazione, e così via”.

La vera svolta nella discussione sulla neutralità-imparzialità deimusei si ebbe tuttavia negli anni Novanta, a seguito dell’impatto che eb-bero i volumi della Smithsonian Institution curati da Karp e Lavine(1991) e da Karp e altri (1992)56. Essi posero le basi per sostenere che imusei non potevano più essere considerati luoghi autorevoli incontesta-

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bili, ma istituzioni di cui mettevano in discussione l’interpretazione e lacomunicazione della visione dominante della storia e della cultura57.

Nonostante le indiscutibili evidenze del valore politico dei musei, dellaloro impossibile neutralità e del loro uso politico, vi è ancora chi crede al-l’imparzialità dei musei; una convinzione che, secondo la New Museologybritannica, pare abbia guidato in particolare la museologia britannica nelsecondo dopoguerra. Per esempio, Tom Barringer definì “museologiadella paranoia” “l’idea che ciascun aspetto dell’attività dei musei rap-presenti una manifestazione sinistra e calcolata del potere dello Stato dimettere in riga e punire l’individuo” e Paul Greenhalgh fece notare (1989,pag. 95) che nei musei inglesi regnava “un’atmosfera artificiale di neu-tralità”, un’obiettività politica che veniva giudicata appropriata, in parteper proteggere gli oggetti in mostra dall’asprezza del mondo contempo-raneo, e in parte per tranquillizzare i rappresentanti del governo chiamatia decidere sui finanziamenti. Tuttavia Greenhalgh pensò anche che i museineutrali erano indifesi e “in termini populisti anche tragicamente inade-guati”, e scrisse perciò che “a parte l’effetto di separare i musei dalmondo, lo sforzo verso l’obiettività non ha una piattaforma filosofica, spe-cialmente in relazione all’attività culturale pubblica. La maggior partedegli staff di curatori si affidano all’idea che il pubblico generico do-vrebbe sentirsi meglio e più informato sul mondo dopo aver visitato ilmuseo. Ma anche un’asserzione così ampia come questa implica la pre-senza di una posizione politica. I Britannici come comunità nazionale nonsono d’accordo su ciò che costituisce conoscenza, o su ciò che fa sentiremeglio la gente nei rapporti con il mondo. Così il Curatore è obbligato,o a fare una congettura sullo status quo ideologico in ogni situazione, osemplicemente a presentare la propria visione del mondo attraverso ilmezzo espositivo, con la pretesa di obiettività. Anche se il museo ha qual-che opportunità di attrarre un folto pubblico e di comunicare un messag-gio coerente una volta che ha raggiunto il suo obiettivo, il curatore devericonoscere che la neutralità politica è una finzione e che un discorso po-litico aperto deve avere luogo a ogni livello di attività culturale. Vale adire che i musei sono un fenomeno profondamente politico. E noi dob-biamo riconoscere questo fatto con eleganza e onestà”.

Fino alla metà degli anni Ottanta anche negli Stati Uniti era diffusa laconvinzione di una possibile neutralità e imparzialità dei musei, cosicché,ricorda Stephen Weil (1995, pag. 111), una circolare dell’American As-

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sociation of Museums (Excellence and Equity: Education and the PublicDimension of Museums) dovette suggerire che i musei esprimessero “unavarietà di prospettive culturali nella presentazione e nell’interpretazionedelle loro collezioni. […] Nel processo interpretativo – continuava la cir-colare – si può dare voce a punti di vista divergenti e a diverse prospettiveculturali. Temendo che la neutralità dell’istituzione possa essere compro-messa, molti musei sono riluttanti a presentare punti di vista diversi, sep-pure documentati. Eppure il dibattito, anche la polemica, è intrinseca allosforzo culturale, e può stimolare un messaggio interpretativo bilanciatoche può condurre il visitatore a scoprire idee e formarsi opinioni”.

Anche l’ICOM, in quanto associazione non governativa globale, sisente obbligata a convincere se stessa, i propri iscritti e il mondo dei musei(dal quale progressivamente viene posta ai margini, per lo meno in Occi-dente) che esiste una separazione fra musei e politica. Ciò sebbene al suointerno siano evidenti le commistioni fra potere, istituzioni e alcuni deisuoi organi rappresentativi internazionali, e sebbene l’influenza politicasi faccia sentire, sovvertendo le norme statutarie dell’associazione, nel-l’elezione degli organi rappresentativi nazionali, non solo nei paesi a de-bole tradizione democratica. È naturale perciò che dalle pubblicazionidell’ICOM affiorino ingenue speranze di separazione fra musei e politica,fra musei e potere. Con le dovute eccezioni. Fra queste eccezioni, possoricordare che Hildegard Vieregg, all’epoca presidente dell’ICOFOM, ri-ferendosi ai memoriali della Prima Guerra Mondiale fece notare che la fi-nalità del Bayerisches Armeenmuseum di Ingolstadt, aperto nel 1994, eraquella di sviluppare una coscienza politica nei visitatori, e che per altri“musei-monumento”, quali l’Historial de la Grande Guerre di Péronne eil Centre Mondial de la Paix di Verdun, era difficile sviluppare il rispettoper una verità storica pur “presentando gli argomenti il più obiettivamentepossibile e indipendentemente dai progetti dei partiti politici”58.

Molti, soprattutto fra gli storici dell’arte e fra i direttori delle gal-lerie storico-artistiche, sognano un museo neutrale e imparziale, lon-tano dai condizionamenti politici. Essi non vogliono vedere che cosasi cela dietro un presunto assoluto e indiscutibile valore estetico delleopere. Sembra quasi che alcuni museologi abbiano una visione idil-liaca dei musei, nonostante sia evidente la sudditanza di queste istitu-zioni ai sistemi di potere; sembra quasi che una parte del mondo deimusei sia ancora legato al positivismo storico, consideri la storia og-

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gettiva e i fatti storici oggettivi, e ritenga che compito dello storico siaquello di descrivere gli avvenimenti del passato senza fornirne alcunainterpretazione (Kragh 1987).

Soggettività nell’interpretazione della storia“La “verità” circa il passato non può essere tutto ciò che è avvenuto perché questo è

impossibile da conoscere e confonde se è conosciuto” Howarth Zinn (1990, pag. 292)

Se i musei narrano storie, presentano avvenimenti resi evidenti e vividal supporto degli oggetti, è obbligo interrogarsi sull’oggettività e neutra-lità di quanto viene narrato; il che porta a domandarci se esiste o menouna verità storica che possa essere narrata. È possibile o no che gli storicigiungano a ricostruire una storia assoluta, indiscutibile e oggettiva, noninquinata dalle convinzioni personali, dal determinismo, dalle inesorabilileggi dello sviluppo storico, dalle interpretazioni soggettive e di condizio-namenti ambientali, sociali, politici e culturali?

Per Howard Zinn (1970 e 1990) non vi è una verità storica poiché ilnostro giudizio sul passato implica selezioni ed enfasi che trasformanole nostre osservazioni in interpretazioni. “Perciò lo storico è libero didare un significato o un altro agli eventi del passato. Io posso sceglierein che modo raccontare la storia, per mostrare la Prima Guerra Mon-diale come una gloriosa battaglia fra il bene e il male, o per interpre-tarla come un massacro senza senso. Non vi è nessuna storiaintrinsecamente vera della Prima Guerra Mondiale. Vi è un solo il si-gnificato creato dalla storia – un significato rappresentato dai risultatisu coloro che ascoltano la storia”. “Il significato di ogni scritto – con-tinua infatti – è un’interazione globale fra chi scrive, chi legge e con ilcontesto in cui avviene la lettura. Ciò rende ogni resoconto storico di-namico, soggettivo, fluido e relazionale. Ciò crea anche la possibilitàche l’effetto complessivo dell’interpretazione storica possa essere di-verso dal messaggio letterale delle parole sulla pagina […]. Vi sarebbequi una differenza fra il contenuto superficiale di una affermazione sto-rica (ciò che le parole sembrano dire), e il contenuto esistenziale (cheeffetto hanno le parole sul mondo reale)”.

Al di là della fluidità dell’interpretazione della storia, il fatto che il si-gnificato di un resoconto storico dipenda dall’interazione fra chi scrive,

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chi legge e l’ambiente culturale in cui avviene la lettura apre un problemache dovrebbe essere tenuto ben presente dai curatori dei musei. Questi ul-timi dovrebbero tenere conto che quanto scrivono su un cartello esplica-tivo può essere variamente interpretato da chi legge il cartello econdizionato dal contesto culturale della società a cui appartengono museie visitatori. Questo problema museografico/museologico andrebbe appro-fondito. Ma non qui!

Mentre per i positivisti la storia è un fatto oggettivo che si può solo ri-ferire ma non interpretare, per gli storici non positivisti la storia è inveceinterpretazione. Questi ultimi sostengono che medesimi avvenimenti pos-sono essere interpretati e descritti in modo diverso da storici diversi, anchese essi basano le loro analisi sulle stesse fonti e sugli stessi documenti.Secoli fa Diodoro Siculo scrisse “che si deve essere indulgenti con gli er-rori d’ignoranza degli storici, perché sono uomini e perché la verità è dif-ficile da trovare nelle cose del passato” (Libro XIII 90, pag. 187). Ilfilosofo scettico Sesto Empirico asserì del tutto semplicemente che “laverità assoluta non esiste”. In tempi più vicini a noi, Goethe ha affermatoche “la storia del mondo deve essere riscritta di volta in volta di tempo intempo. Ma l’esigenza di farlo non nasce perché molte cose sono state sco-perte, ma perché nuove opinioni si creano quando una persona, inun’epoca successiva, assume un punto di vista avvantaggiato rispetto alquale il passato può essere osservato e giudicato in modo diverso”. Il fi-losofo bulgaro Tzvetan Todorov (1996) ha scritto che “il lavoro dello sto-rico, come ogni lavoro sul passato, non consiste mai nello stabilire solodei fatti, ma anche nello scegliere alcuni di essi come più significativi eporli in relazione fra loro; ora questo lavoro di selezione e di combina-zione è necessariamente orientato dalla ricerca, non della verità, ma delbene”. David Hackett Fischer (1970, in Arnold e Weisberg 2002, pag. 450)ha chiamato “Baconian Fallacy” la convinzione che uno storico possaoperare senza l’aiuto di domande preconcette, idee, assunti, teorie, para-digmi, postulati, pregiudizi, congetture di ogni tipo. Lo storico infatti –dice Fischer – è come qualcuno che raccoglie noci e bacche nella oscuraforesta del passato, fino ad ammassarne abbastanza per costruire una veritàgenerica, ma questo approccio è metodologicamente impraticabile e im-possibile nei suoi obiettivi, nelle ultime decadi è stato esposto da diversiteorici, e pochi storici oggi commettono questo errore, così vistoso, comenelle generazioni precedenti.

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Il dilemma dello storico (nel caso che segue di uno storico dellascienza) nella lotta per un’obiettività che non può mai essere raggiunta èstato così descritto da R. Hooykaas: “Quale metodo vogliamo, dunque?Un metodo oggettivo. Ma l’oggettività è impossibile! Senza dubbio è im-possibile, dal momento che la storiografia non è una semplice lista difatti: la scelta del materiale già implica un elemento di soggettività edequivale ad una valutazione. Il fatto che lo storico della scienza, sia eglistesso uno scienziato o no, influenza il suo giudizio su ciò che è importanteo no. Ma nonostante l’inevitabile influenza del proprio background poli-tico, educativo, sociale, nazionale e religioso e anche del proprio carat-tere, noi sosteniamo l’ideale dell’oggettività. Come tutti gli ideali èirraggiungibile ma, nondimeno, dovrebbe mantenerci in una santa insod-disfazione di noi stessi”.

La soggettività dell’interpretazione storica relega fra le utopie i ten-tativi di scrivere la storia secondo interpretazioni condivise. Come il ten-tativo di storici francesi e tedeschi di realizzare assieme un testoscolastico per il periodo che comprende le due guerre mondiali, o glianaloghi tentativi in corso fra Giappone e Corea e fra le varie etnie dellaBosnia. Anche nel complesso progetto del Deutsches Historisches Mu-seum era inscritta la ricerca dell’oggettività storica, assieme alla certezzache un consiglio scientifico di 12 esperti, fra conservatori, storici e storicidell’arte, fosse sufficiente a garantire l’indipendenza del museo rispettoa una possibile intromissione dello Stato nell’interpretazione della storia.“Lo Stato non ha una sua parola da dire sulla Storia. Il museo deve es-sere indipendente” dichiarò il direttore del museo Hans Ottomeyer alquotidiano Libération (16/17 maggio 2009), salvo poi aggiungere nellastessa intervista che il grande numero di opere d’arte e di immagini sucui si fonda l’esposizione può fornire un’interpretazione della storia dalpunto di vista del potere: “l’arte genera effetti di legittimazione dell’au-torità, e della antichità prestata al potere, immagini di elogio o di odio”,ha detto!

La parzialità o imparzialità della storia si gioca sull’interpretazionesincronica o diacronica, che a sua volta ha riflessi sulla oggettività/sog-gettività della narrazione. È soprattutto l’approccio sincronico alla storia(che interpreta gli avvenimenti storici alla luce del presente) quello cheinduce a ritenere impossibile raggiungere una verità storica oggettiva, inquanto tale approccio estrapola gli avvenimenti dalla realtà del loro tempo

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per inserirli in un quadro che viene costruito tenendo conto di fatti poste-riori, e quindi estranei. Questa selezione, scrive il filosofo John Dewey,costringe alla conclusione che tutta la storia sia necessariamente scrittadal punto di vista del presente, essa diviene quindi giudicata importantealla luce del presente.

Silberman (1989, pag. 140-141) ha proposto la questione dell’inva-sione degli Hyksos in Egitto per sostenere che tale avvenimento fu diver-samente interpretato dagli storici moderni in base alle concezionistorico-politiche del momento, vale a dire con un approccio sincronico.Negli anni Trenta il determinismo razziale collegato all’imperialismo eu-ropeo influenzò egittologi come Francis Griffith e Flinders Petrie che ri-tennero che gli Hyksos fossero ariani migrati da nord e da est perconquistare l’Egitto con le armi e con i cavalli. Mentre l’archeologo au-striaco Manfred Bietak fu influenzato dallo sviluppo globale degli scambicommerciali degli anni Ottanta, e sostenne perciò che gli Hyksos non fu-rono guerrieri ma commercianti che non conquistarono l’Egitto, ma si in-sediarono nel Delta facendo della loro capitale Avaris il centro di una vastarete commerciale; egli interpretò la “conquista” dell’Egitto da parte degliHyksos e la loro caduta in termini culturali ed economici.

Il problema dell’oggettività/soggettività non ha lasciato indenne l’ar-cheologia. La coscienza della non neutralità nelle ricostruzioni del passatofu posta all’attenzione degli archeologi al World Archaeological Congressdi Southampton del 1986 (Ucko, in Gathercole e Lowenthal 1990, pag. Xe segg.), nelle cui conclusioni si legge “che la scienza, lungi dall’esserepoliticamente neutrale, costituisce un sistema di valori collegato agli in-teressi sociali dominanti, e l’idea della scienza ‘aperta a tutti’ è in defini-tiva un credo su come il mondo dovrebbe essere, piuttosto che come è”(Silverman 2011, pag. 3). Quasi dieci anni più tardi, David W. Anthonyha affermato (1995, pag. 83) che la speranza nell’oggettività dell’inter-pretazione si è spenta quando gli approcci ermeneutico e critico hannopreso piede nella moderna teoria archeologica, poiché “la teoria erme-neutica asserisce che gli oggetti o i comportamenti culturali […] possonoessere interpretati con profitto solo nei termini del loro significato, che intal modo dipende dalla storia locale, dall’abitudine, e dalle strutture sim-boliche nel quale l’oggettività stessa cessa di essere significativa; mentrela teoria critica propone che tutti gli oggetti e le azioni […] non motivateo controllate da forze ideologiche e da ordini del giorno assoluti rendono

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l’oggettività impossibile”. Questa impossibile verità sul passato più remotopone i musei archeologici nell’area oscura della mistificazione, e li elevaal di sopra degli stessi musei storici nella determinazione delle identitàculturali e dei nazionalismi, in quanto per molti popoli e per molte nazionii dati dell’archeologia incidono non solo sulla storia, ma anche sui mitidell’origine.

Un discorso analogo può essere fatto per le scienze fisiche e naturali.La scienza infatti, pur non essendo arbitraria, non è neutrale poiché nonconduce a una conoscenza assoluta della realtà. Come ha scritto LudovicoGeymonat (1977), “se la scienza ci portasse a una conoscenza assolutadella realtà potremmo sostenere che essa è in un certo senso neutrale,perché le verità che ci procura – in quanto assolute – non dipenderebberoin alcun modo dal soggetto che conosce, né dalle condizioni sociali in cuiegli opera, né dalle categorie logiche o dagli strumenti di osservazioneusati per conoscere”. Come non esiste una verità storica, così non esisteuna verità scientifica assoluta, sia perché entro certi limiti ogni scienziatoha una propria verità, sia perché – come ha ampiamente argomentato KarlPopper – ogni verità scientifica è transitoria.

Mi sembra abbastanza evidente che i musei (e non solo i musei storici,archeologici e scientifici) non sono in grado di comunicare l’incomuni-cabile, e cioè verità storiche. Luoghi di interpretazione, di selezione, dimemorizzazione e di oblio, i musei non sono oggettivi rispetto alle vicendedella storia. Perciò è inutile cercare nelle esposizioni dei musei obiettivitàe neutralità rispetto alle vicende storiche o sociali: il museo utilizza le suecollezioni e le esposizioni per far giungere al pubblico una sua particolareinterpretazione dei fatti.

Anche i musei scientifici, nonostante ogni sforzo di onestà e di buonavolontà, e nonostante si voglia credere nell’assolutismo della scienza, nonpossono comunicare verità, ma solo interpretazioni e ipotesi soggettive.Questa tesi è stata da me discussa qualche anno fa in un volume dedicatoai musei di storia naturale (Pinna 1997), nel quale sostenevo che un museonaturalistico dovrebbe divulgare la cultura scientifica, intesa come visionedel mondo naturale e come soluzione ai problemi scientifici, che il museostesso elabora attraverso la ricerca che viene effettuata al suo interno, eritenevo che questa fosse la soluzione adatta a contrastare il fatto che oggile esposizioni dei musei naturalistici si assomigliano tutte in tutto il mondoe, con le dovute eccezioni, comunicano al pubblico una visione standard

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della scienza. Vedevo dunque nel museo unite, e dipendenti l’una dall’altral’attività scientifica e quella educativa.

Questa non era l’idea di Albert Parr direttore dell’American Museumof Natural History. Nel secondo dopoguerra, influenzato evidentementedalla contrapposizione con il comunismo sovietico, egli considerò l’istru-zione come un antidoto al totalitarismo e i musei come baluardi contro lasua diffusione. Nel 1947 egli scrisse che “maggiore è la confusione men-tale del nostro tempo, maggiori devono essere l’impegno all’istruzione, eil valore di un insegnamento generato correttamente e rivolto a spiegarei problemi che turbano il mondo. […] In un mondo assillato da ostilità epovertà i musei di storia naturale hanno l’opportunità, mai prima egua-gliata, di mettersi al servizio della pace e di una vita migliore per tutti”(in Conn 2010, pag. 144). Egli era dunque convinto che il fine del museofosse in primo luogo quello di istruire e solo secondariamente quello dieffettuare ricerche scientifiche: “non penso che la ricerca in se stessa,oltre la classificazione, sia essenziale per un museo” dichiarò nel 1953, eancora “un insegnante di scienze può essere eccellente senza essere un ri-cercatore scientifico”. Questa enfatizzazione del ruolo educativo a svan-taggio del ruolo scientifico ebbe un effetto nefasto sul museo di New Yorke di rimando su tutta la museologia naturalistica, non solo negli Stati Uniti.Essa allontanò dal museo il pubblico adulto e consegnò il museo ai bam-bini e ai gruppi famigliari. Bisognò aspettare gli anni Sessanta per assistereal risveglio scientifico dei musei naturalistici, grazie allo sviluppo deglistudi sull’ambiente, e gli anni Novanta per vedere queste istituzioni nuo-vamente consacrate alla scienza dal convegno internazionale di Madriddel 1992, con la sua enfasi sulla biodiversità che ha riportato i musei suglialtari della ricerca scientifica e ha messo in evidenza il valore documentaledelle loro collezioni (Pinna 1996).

Sharon MacDonald (1998, pag. 1) ha espresso una posizione analogaalla mia in un volume che aveva l’obiettivo di mostrare che le esposizioninon sono mai state, e non potranno essere, rappresentazioni di fatti incon-testabili, poiché mettono in gioco trattative sociali e politiche e giudizi divalore, e hanno quindi sempre implicazioni culturali, sociali e politiche.

Naturalmente non sono gli oggetti a generare la non neutralità delmuseo, ma è l’uso che di essi viene fatto nell’esposizione e nel sistemanarrativo. “[…] come i conservatori dovrebbero sapere – ha scritto IvanKarp (2002, pag. 30) –, quanto maggiore è la pretesa di ‘esporre realtà’,

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tanto più facilmente il museo rimane invischiato in una storia che è sol-tanto sua e, talvolta, imperscrutabile”. Un oggetto inserito in un’esposi-zione non interpretativa (e quindi non narrativa) può avere molteplicilivelli di lettura, può fornire un ampio ventaglio di significati che dipen-dono, ciascuno, dalla cultura individuale del visitatore (è il rapporto discambio oggetto-visitatore sostenuto dai semiologi). In questo senso, poi-ché permettono una libera interpretazione da parte dei singoli soggetti, glioggetti in se stessi sono neutri. Per contro, l’inserimento di un oggetto inun’esposizione interpretativa (quindi narrativa) equivale al suo posizio-namento in un contesto storico, artistico o scientifico che, a sua volta, pre-suppone un processo di simbolizzazione dell’oggetto stesso attraverso lasua elaborazione scientifica, che, in quanto processo scientifico, è del tuttosoggettiva e non neutrale. Ciò è quanto pensa Le Goff (1977), quando af-ferma che la trasformazione di un monumento in oggetto/documento è ilrisultato di un montaggio conscio o inconscio della storia, dell’epoca edella società che lo hanno prodotto; un montaggio che segue percorsi sog-gettivi in quanto consiste in una elaborazione scientifica che non è in gradodi produrre verità assolute, ma solo verità relative.

In un’esposizione interpretativa, ciò che fornisce agli oggetti un signi-ficato invece che un altro sono la posizione che essi occupano nell’ambitodell’esposizione, la successione con cui sono ordinati e l’apparato dida-scalico che li accompagna. Peter Vergo (1994) ha fornito un esempio diquesta variabilità dei significati degli oggetti e del riflesso sul messaggioespositivo, ipotizzando un’ipotetica esposizione di pompe petrolifere.“Queste – ha scritto – potrebbero far parte di una campagna intesa ad ac-crescere l’immagine di un’industria petrolchimica, mettendo in evidenzai benefici che questa ha conferito alle società tecnicamente avanzate; ov-vero quelle stesse pompe di petrolio potrebbero essere sistemate nel con-testo di un’esposizione riguardante l’inquinamento, il riscaldamentoglobale e l’importanza dei problemi ambientali. Ovvero esse potrebberoessere semplicemente parte di un tipo più neutrale di esposizione conce-pita storicamente, che traccia semplicemente l’evoluzione di certe tecni-che e lo sviluppo di alcuni prodotti e di alcune macchine. Comunicare il‘giusto’ messaggio dipenderà non solo del modo di disporre, ma anchedell’uso del materiale aggiunto, dal contenuto delle didascalie e dei pan-nelli informativi e anche da tutti gli accessori del marketing e della pub-blicità, compreso, naturalmente, l’onnipresente catalogo”.

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Anche Tamara Hamlish condivide la stessa mutevolezza dell’oggetto:“gli oggetti in un museo – scrive – assumono una grande varietà di signi-ficati e sono soggetti a un ampio ventaglio di interpretazioni che si basanosu ‘semplici’ fattori tecnici: come, quando e dove sono sistemati. Le pos-sibilità polisemiche fornite dal museo come sistema mnemonico permet-tono la costruzione di innumerevoli possibili narrazioni a partire da unasingola collezione. Queste narrazioni nascono dalla giustapposizione dioggetti, descritti in modo chiaro nella struttura dell’esposizione del museo.Come suggerisce Horne [1984 (N.d.A.)], il museo non offre molte oppor-tunità per una ‘accurata lettura’ di specifici oggetti, ma invece evoca ciòche Rubie Watson [1994 (N.d.A.)] ha descritto come potenti e irresistibiliimmagini [che] danno agli individui la sensazione che essi stanno rispe-rimentando un evento che può essere avvenuto molto prima della loro na-scita” (2000, pag. 149).

I musei non sono dunque neutri e imparziali. Non possono e soprattuttonon devono esserlo. “La neutralità non è che una facciata – hanno soste-nuto Prakash e Shaman (1987) –. Le esposizioni e i musei non sono neutri.Essi non devono esserlo, né esteticamente, né moralmente”. “L’idea cheuna volta vi fossero esposizioni museali neutrali o oggetti in grado di par-lare da soli è illusoria”, ha ribadito Linenthal nel 1996. A sua volta CarolDucan (1991, pag. 90) ha scritto che “un museo non è lo spazio protettivoneutrale e trasparente che spesso si ritiene che sia. […] Il museo è unapratica complessa che coinvolge architettura, esposizione programmatadi oggetti d’arte, e tecniche espositive altamente razionalizzate. Come lestrutture cerimoniali del passato, nell’adempiere alle sue proclamate fi-nalità museali (conservare e esporre oggetti d’arte) esso compie ampieattività politiche e ideologiche, a volte non evidenti”.

I musei non possono essere neutrali poiché, in quanto istituti pubblicipur se non di proprietà pubblica, sono strumenti politici anche nelle societàpiù liberali, il cui messaggio deve essere coerente con la politica in corsoin quella data società. Le loro esposizioni e le loro attività culturali nonsono quindi mai indipendenti da relazioni sociali, politiche o economiche.A questo riguardo Stephen Weil (1989) racconta che alcuni museologi sta-tunitensi “che credevano ingenuamente che il nostro National Museum ofNatural History [della Smithsonian Institution (N.d.A.)] fosse un’istitu-zione neutrale, qualche anno fa si sono sorpresi nel vedere un gruppo direligiosi intentare una causa giudiziaria per tentare – senza successo – di

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fare censurare un’esposizione sull’evoluzione umana che a loro pareretentava di imporre dei valori e non aveva alcun fondamento scientifico”.I musei nazionali della Smithsonian sono stati oggetto di particolare at-tenzione da parte dell’opinione pubblica o di gruppi di potere che nonhanno tralasciato di criticare la non neutralità di alcune esposizioni. Gieryn(1998), nel discutere delle polemiche seguite a due esposizioni, “Sciencein American Life” e “The Crossroads: The End of World War II, The Ato-mic bomb and the Origin of the Cold War”, ha messo in luce l’impossibi-lità di realizzare esposizioni equilibrate in grado di rappresentare punti divista diversi, poiché, nonostante la buona volontà, i curatori fanno sceltesoggettive per quanto riguarda gli oggetti e i testi di accompagnamento(vedi Capitolo 4).

I musei non sono neutrali perché sono obbligati a seguire la via cheviene dettata dalla loro cultura intrinseca, che a sua volta dipende dal suocontesto sociale, politico e culturale. Vale a dire che ogni cultura forgia asuo modo la natura del museo, le sue funzioni e la sua attività. L’idea chequesta istituzione possa essere fondamentalmente neutrale, non scalfibiledall’esterno, è stata ed è ancora diffusa nelle nazioni democratiche ove sisopravvaluta il potere del popolo di controllare i centri di produzione e dicomunicazione culturali della nazione.

Ogni museo ha una propria cultura, elabora al proprio interno una suavisione del mondo, della storia, dell’arte o della scienza forgiata dal suocontesto sociale, politico e culturale, e mediata dall’attività scientifica, in-terpretativa, collezionistica e selezionante del suo staff scientifico. È questa“cultura del museo” che rende un museo diverso da ogni altro museo. Dacui deriva un assunto importante su cui tuttavia non tutti sono concordi, ecioè che nella sostanza non può esistere un modello universale di museo,anche se per oltre un secolo i musei si assomigliarono nella forma esternae nell’organizzazione interna. Ne sono un facile esempio i musei militariche sembrano essere tutti uguali nella forma e nella disposizione delle col-lezioni, ma a ben guardare ognuno di essi comunica una diversa memoriastorica dalla comunità di cui è espressione.

Per contro, Isabelle Benoit (2008, pag. 73) del Musée de l’Europe diBruxelles è convinta che si possano identificare diversi modelli di museo,in relazione ai meccanismi che essi usano nella creazione della memoriacollettiva, intendendo evidentemente per modello il sistema politico messoin atto per raggiungere questo obiettivo. Ella mette a confronto il “modello

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francese”, in cui lo Stato crea la memoria culturale della nazione, con il“modello tedesco” in cui sono le culture individuali e la loro identifica-zione con la società (le Bildungen) che creano la memoria culturale dellanazione. I due modelli, continua la Benoit, si differenziano nel fatto che,mentre nel modello francese le istituzioni occupano il centro della scena,nel modello tedesco è il cittadino ad assumere una posizione centrale; inquesto caso le istituzioni sono al servizio dei singoli per permettere lorouna continua identificazione con la comunità, sono perciò essenzialmenteeducative. In questo contesto di formazione della memoria nazionale laBenoit identifica due modi attraverso cui i musei si riproducono a partireda musei preesistenti che fungono da modelli: il modo per imitazione-ri-produzione, che genera musei volti alla costruzione nazionale (come ilLouvre o i musei sovietici), e il modo per imitazione-opposizione, che ge-nera musei “creati per vincere simbolicamente il nemico”, finalizzati cioèa comunicare tesi di parte.

La neutralità e la soggettività non sono state considerate intrinsechealla natura del museo dalle conclusioni del progetto internazionale EuNa-Mus (2011-2013) sui musei nazionali, come invece io sostengo. Nelle tesiconclusive del convegno è scritto che i musei nazionali “devono essereistituzioni creative autonome; devono capire e essere aperte nei loroadempimenti; devono superare i limiti nazionali; devono sviluppare e con-dividere strumenti per instaurare narrazioni che creino collegamenti; de-vono rivedere la loro influenza sulla percezione dei cittadini; devonoraggiungere nuovi pubblici”; mentre “i musei regionali e locali possie-dono un grande potenziale per creare collegamenti internazionali”. Se hoben interpretato il testo, mi sembra che questa visione del museo un po’utopica sembra riportare alla tesi cara al Romanticismo tedesco di una se-parazione fra cultura e politica derivata dall’interpretazione della nazionecome Kulturnation, e cioè da una nazione formata su base culturale, so-prattutto linguistica e religiosa, che esprime un nazionalismo culturale,alla quale i singoli appartengono indipendentemente dalla loro volontà59.

Tuttavia, la tesi, ancora oggi evocata, che la cultura non sia responsa-bile di ciò che fa la politica non tiene più. Si può forse credere a quantoLeni Riefenstahl ha sostenuto nel dopoguerra, che i suoi film non furonoun mezzo di propaganda nazista, ma pure opere d’arte (Gavrilović, pag.40)? I musei non sono istituzioni autonome rispetto ai poteri che agiscononelle società e nelle nazioni; e a maggior ragione non lo sono i musei na-

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zionali, la cui funzione di interpretare la Nazione sulla base di mitologiee di narrazioni del passato non è per nulla sopita. Ne è una prova l’ormaicelebre Declaration on the importance and value of universal museumsdel 2002, attraverso cui ciascuno dei musei firmatari si è nascosto dietrola rappresentazione dell’universalità della cultura per rafforzare il proprionazionalismo e affermare la legittimità al possesso di culture altre. La De-claration ha scatenato una discussione su quanto sia lecito ai musei il pos-sesso di patrimoni non autoctoni. Il dibattito, ancora attuale, ha vistodisporsi in campi opposti coloro che ritengono non solo lecito ma ancheopportuno che i musei conservino i loro beni da qualsiasi angolo delmondo provengano60 e coloro che, negando questo diritto, chiedono la re-stituzione dei propri patrimoni perduti; un dibattito che ha coinvolto nonsolo le nazioni, ma anche le comunità indigene di tutto il mondo61.

Le radici storiche del museo

Origini mitiche e religiose del museoStorici dell’arte, naturalisti, museologi, studiosi del collezionismo (che

spesso identificano la collezione con il museo 62) hanno ipotizzato diversecause per spiegare l’origine dei musei, senza tuttavia proporre una ipotesicondivisibile. Ciò ha condotto la museologa rumena Irina Nicolau allaconclusione, forse un po’ frettolosa, che la storia dei musei sia una verababilonia, e che finalità religiose, funerarie e di tesaurizzazione non pos-sono essere assunte come cause di origine del museo, e ha escluso cosìdall’area del museo i tesori dei templi e delle chiese, i caveau delle banche,le botteghe antiquarie e la caverna di Alì Babà63. Anche se non si può ne-gare che templi e monasteri siano stati luoghi di raccolta e di conserva-zione di oggetti d’arte votivi.

Von Schlosser (1908) e Ruggieri Tricoli e Vacirca (1998) hanno sug-gerito che le radici del museo affondino nella consuetudine diffusa nelmondo antico di riunire offerte votive e doni nei templi e negli oracoli,creando così tesori comuni, teoricamente intoccabili in quanto custoditiin istituzioni religiose. Dello stesso avviso è Bazin (2018, pag. 35-36)che racconta dell’organizzazione dei tesori dei templi greci, che ha trattosoprattutto dagli archivi su marmo del tempio di Apollo a Delo. “Il te-soro del tempio – ha scritto von Schlosser (edizione del 2000, pag. 9) –

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non è più esclusivo possesso di un singolo, per quanto potente, ma inmaggiore o minor misura di una comunità, di una casta, di un interopopolo, e costituisce pertanto un valore sociale di enorme importanza”.Questa consuetudine, con alterne vicende e intensità, si sarebbe mante-nuta lungo i millenni delle civiltà precristiane, e sarebbe poi passata allechiese cristiane.

Altri ritengono che il museo avrebbe avuto origine dalla consuetudineromana di mostrare in pubblico, nelle piazze, nei templi e nei palazzi delpotere, le spoglie e gli oggetti d’arte sottratti ai nemici, con l’incontestabilefunzione di esaltare il potere del popolo, accrescere l’autorevolezza delloStato e dei suoi condottieri, creare coesione sociale e rafforzare l’identitàromana. Altri hanno cercato l’origine del museo nelle collezioni di pitturaesposte in epoca classica in luoghi pubblici o privati, come la pinacotecache si dice si trovasse in uno spazio attiguo ai propilei di Atene, o la pina-coteca che Petronio fa visitare a Encolpio, il protagonista del Satyricon.

“In Giappone – scrive Bazin (2018, pag. 51) – i templi furono i primidepositari di arte religiosa o anche profana”, e ricorda quello che ritieneessere “il più vecchio museo del mondo”, il tesoro Shōsō-in del VII secolo,nel monastero di Tōdai-ji di Nara, presso Kyoto, che contiene ancora oggigli oggetti appartenuti all’imperatore Shōmu (che regnò dal 724 al 756):armi, armature, vestiti da monaco, specchi, paramenti, strumenti musicali,mobili e medicamenti, oltre a oggetti persiani, cinesi di epoca Tang offertia Buddha, e un “vero e proprio museo di tessuti”.

Adalgisa Lugli, Giuseppe Olmi, Krzysztof Pomian, e il già citato vonSchlosser, hanno visto l’origine del museo nella chiesa medioevale.Quest’ultimo, riferendosi al Tesoro di San Marco in Venezia, riconoscealle chiese lo status di musei delle memorie nazionali, in quanto “in SanMarco trovavano posto anche i trofei che quell’intrepido popolo di mer-canti e di marinai aveva sottratto al levante greco e musulmano”, e nellabasilica troneggiano ancora oggi i cavalli sottratti all’ippodromo di Co-stantinopoli e i pilastri dei Tolomei (ed. del 2000, pag. 18). Adalgisa Lugliaffonda le radici del museo nelle chiese medioevali in ragione della naturapubblica che assumevano gli oggetti esposti nelle navate64. Mentre perOlmi non è importante tanto la funzione di conservazione delle chiese,quanto il loro potere di interpretare gli oggetti, trasformandoli in simbolid’identificazione della comunità: “all’interno della chiesa – scrive – con-fluiva, nel Medioevo, tutto ciò che suscitava meraviglia, che era raro, stra-

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ordinario: straordinario per i poteri miracolosi (le reliquie), per i mate-riali preziosi e la pregevole lavorazione (i prodotti dell’oreficeria), cometestimonianze di un lontano passato (gli avanzi dell’antichità) o di unanatura sconfinata, inquietante e meravigliosa (gli oggetti naturalistici so-prattutto esotici). Le creazioni artistiche e i prodotti della natura non ve-nivano riuniti per il loro valore storico-documentario, ma per la loropreziosità e, in particolare, per ciò che simbolizzavano, per i rimandi im-pliciti che essi racchiudevano in sé”. Essi rappresentavano – continuaOlmi – i legami fra il visibile e l’invisibile: tra il visibile e la divinità (nelcaso delle reliquie), tra la realtà presente e mondi lontani nel tempo e nellospazio (nel caso dei reperti archeologici e naturalistici), e “nel momentostesso in cui accoglieva negli edifici sacri oggetti, la chiesa – come isti-tuzione e unica, legittimata detentrice del potere – si arrogava anche ildiritto di interpretarli e caricarli di significati. Collocata nel santuario,la meraviglia cessava di essere tale, o meglio veniva dotata di un senso edi uno scopo entro le imperscrutabili coordinate del piano divino” (1992,pag. 165-166 ).

Krzysztof Pomian nota una transizione dai tesori delle chiese alla fun-zione laica delle collezioni fra la fine del Quattrocento e i primi trent’annidel Cinquecento. Il Tesoro di San Marco, come sostiene von Schlosser,inizialmente luogo di custodia delle reliquie religiose e della loro esposi-zione sull’altare in occasione di feste religiose65, iniziò a prendere formamuseale quando reliquie laiche, simboli della storia della Repubblica, siaffiancarono a quelle religiose66. Parallelamente a questa trasformazionedel Tesoro di San Marco, dice Pomian, seguì a Venezia la nascita del“museo” laico e civile, e se ne prefigurò il futuro politico attraverso la se-parazione di poteri in relazione alla custodia e alla mostra dei simboli dellaRepubblica: alla Basilica con il suo Tesoro si affiancò il Palazzo Ducale,centro del potere politico e amministrativo della Repubblica, che attra-verso l’esposizione dei simboli laici della nazione divenne il luogo ovecelebrare il rito civile dell’identificazione del popolo con la Repubblica67.Una separazione di poteri che anche Gombrich ha affermato essere al-l’origine del museo d’arte, seguita dal nascere del valore politico dellecollezioni. “Fra gli antichi antenati del museo d’arte – scrive (1977, pag.452-453) – mi piacerebbe per prima cosa distinguere fra due tipi contra-stanti che propongo di chiamare il tesoro e il tempio (santuario, reliquia-rio). Il raccogliere e l’esporre i tesori nei templi, nelle chiese e nei palazzi

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è sempre servito a aumentare il prestigio dei loro proprietari e a sopraffareil visitatore che qui viene in contatto con la ricchezza e con il potere”.

Vi è anche chi ha cercato per il museo radici religiose ancor più remote.Leonard Woolley (in Woolley e Mallowan 1927) e i cercatori di recordcome Steven Anzovin e Janet Podell (in First Facts) sostengono che ilprimo museo fu quello creato a Ur attorno al 530 a.C. dalla principessaEnnigaldi (nota anche con il nome di Belshalti-Nannar, assunto assiemeal ruolo di sacerdotessa di Nannar) figlia dell’ultimo re dell’Impero neo-babilonese Nabonide. Il museologo cinese Hongjun (1994, pag. 72) con-sidera che il primo museo del mondo sia stato l’insieme delle reliquie diConfucio risalenti al 478 a.C. Alla stessa stregua, perché non consideraremuseo la collezione di piante e animali riprodotti in oro dall’Inca, cui facenno Garcilaso de la Vega nei Commentari reali dell’Inca (1609)68?

Si può notare, anticipando quanto dirò più avanti, che tutte queste ipo-tesi di un’origine dei musei dal tempio o dalla chiesa medioevale presup-pongono esplicitamente o implicitamente una derivazione della naturapolitica del museo dal potere religioso. Ciò è evidente in Olmi quando at-tribuisce alla chiesa il potere di creare semiofori; in Pomian quando mettel’accento sull’apparizione di reliquie laiche (e quindi politiche) accanto areliquie religiose nella chiesa di San Marco a Venezia; in Adalgisa Lugliquando sottolinea la natura pubblica degli oggetti esposti lungo le navatedelle cattedrali; e in Leonard Woolley, poiché pare che il museo di Enni-galdi a Ur fosse collocato in un tempio nel quale si realizzava l’unionedei poteri politico e religioso.

Carol Duncan (1991, pag. 92), però, non è d’accordo su origini moltoantiche del museo poiché ha scritto che “si è tentato di estendere la nostranozione di museo indietro nel tempo e di scoprire funzioni analoghe aquelle del museo nei tesori degli antichi templi o delle cattedrali medioe-vali o nelle cappelle di famiglia delle chiese barocche italiane. Ma perquanto il museo d’arte pubblico possa assomigliare molto a questo tipodi luoghi per forma dell’edificio, storicamente la moderna istituzione mu-seale è derivata direttamente dalle collezioni principesche del sedicesimoe del diciassettesimo secolo”.

Il Mouseion di Alessandria69

Sebbene l’Encyclopédie (1765) considerasse il “musée” tutt’altra cosarispetto al museo di Alessandria70, in qualche dispensa di museologia si

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può ancora leggere che la forma moderna di museo sarebbe derivata dal-l’istituzione fondata agli inizi del III secolo a.C. da Tolomeo I Sotere (suconsiglio di Demetrio Falereo discepolo di Teofrasto) sul modello del-l’Accademia di Platone (questa forse ispirata da una sorta “museo” pita-gorico esistente a Crotone) e del Liceo di Aristotele, che si fregiavanoanch’essi, circa un secolo prima, del nome Mouseion per la presenza inambedue di un santuario dedicato alle Muse. Io capisco che la derivazionedel vocabolo “Museo” (usato per la prima volta nel mondo post-classicoper la collezione di Lorenzo de’ Medici e poi da Paolo Giovio nella primametà del Cinquecento71) dalla parola greca “Mouseion” sia molto intri-gante. Tuttavia il Mouseion di Alessandria e le due scuole filosofiche ate-niesi non hanno nulla a che fare con la concezione di museo che si è venutaformando nel mondo occidentale nel corso degli ultimi sei secoli. Tantoche a Mairesse (2002, pag. 14) pare paradossale che i nostri musei abbianomodellato il proprio nome sul Mouseion di Alessandria. Come si sa dallepoche informazioni pervenuteci, il Mouseion, l’Accademia di Platone e ilLiceo di Aristotele erano istituzioni filosofiche e religiose, che sono stateparagonate al parigino Collège de France. Sulle due scuole ateniesi sihanno scarse testimonianze. Diogene Laerzio scrive che Polemone, sco-larca all’Accademia presumibilmente fra il 314 e il 276 a.C., “si ritiravadal mondo per isolarsi nel giardino dell’Accademia e i suoi discepoli, fat-tisi costruire nei pressi piccole celle, vivevano non lontano dal Mouseione dall’esedra”. Teofrasto, che fu a capo del Liceo all’incirca dal 322 al286 a.C., lo descrive come una fondazione religiosa, comprendente unsantuario delle muse (Mouseion) ornato delle statue delle Dee e di un bustodi Aristotele, un piccolo chiostro (Stoidion), un chiostro (Stoa), ove vierano incise le carte dei paesi sino ad allora esplorati, un altare, un giar-dino, un portico (Peripatos) e delle abitazioni. Qui la comunità di sapientie discepoli viveva in armonia e in comunità di beni come in un santuario.Del Mouseion di Alessandria si sa ancora meno, la sola testimonianza di-retta è quella contenuta nella Geografia di Strabone: “il Mouseion – silegge – fa parte del palazzo reale; comprende un Peripatos, una Esedracon sedili e un grande edificio, in cui vi è un refettorio ove i sapienti mem-bri del museo consumano insieme i pasti. Questo gruppo di persone, nonsolo mette le proprietà in comune, ma ha anche come capo del museo unprete, che una volta era designato dai sovrani, ora lo è da Augusto”. Que-sta figura religiosa era responsabile dell’osservanza del culto delle Muse,

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ed era affiancata – dice un’iscrizione trovata a Delo – da un epistate che,come nei templi egiziani, era incaricato delle finanze e dell’amministra-zione. Il Mouseion di Alessandria era un’istituzione politico-religiosa, or-ganizzata presumibilmente come un tempio, dipendente in tutto dal poterereale. Ciò garantiva alla comunità di studiosi del Mouseion (nel quale pas-sarono fra gli altri Teofrasto, Stratone, Euclide) autonomia finanziaria edesenzione dalle tasse, ma la inglobava fisicamente nella cinta del palazzoreale. Mostafa El-Abbadi, autore di un volume sulla biblioteca alessan-drina, ha sottolineato questa dipendenza politica: “Sebbene Strabone qua-lifichi il museo come comunità, che godeva di beni comuni e beneficiavadi una certa autonomia per la gestione dei suoi affari, in effetti non si trat-tava affatto di una libera associazione di studiosi. La mia idea è che ilmuseo sia stato una società della corte reale nel senso più stretto del ter-mine. La nomina dei membri dipendeva dall’approvazione del re. Certa-mente gli studiosi beneficiavano di una grande libertà e di mezziimportanti per effettuare le loro ricerche, nondimeno erano pienamentecoscienti di essere al servizio del sovrano” (1992, pag. 87). Nei confrontidel Re non vi era alcun margine di manovra; i sapienti del Mouseion do-vevano essere organici al potere per non essere imprigionati (come Sodatodi Maroneia che aveva deriso Tolomeo II e sua sorella Arsinoe), o privatidi mezzi di sostentamento fino alla morte (come Zoilo di Anfipoli, reo diaver criticato Omero) (Sarton 1959).

Il Mouseion di Alessandria non fu l’unica istituzione politica del pe-riodo classico. Pergamo faceva a quel tempo concorrenza ad Alessandria.Della dinastia degli Attalidi ho citato la biblioteca, che pare contasse 6000volumi e aveva una stoà per passeggiare al coperto poiché è stato dettoche “la deambulazione era ritenuta favorevole allo sviluppo del pensiero”(Bazin 1967). Questa biblioteca aveva una sala in cui furono trovati basa-menti di statue andate perdute chissà dove di poeti, storici e filosofi; unasorta di museo storico in cui vi erano statue di Omero, Saffo, Alceo e Ero-doto e una replica della Athena Parthenos di Fidia.

Le origini della natura politica del museoIn un articolo pubblicato nel volume di Peter Vergo (1989), che ha se-

gnato l’inizio della nuova museologia britannica, Ludmilla Jordanova,scrisse che “tutti i musei sono esercizi di classificazione” e aggiunse cheuna versione del metodo storico è rimasto il più importante principio di

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classificazione da Christian von Mechel ai nostri giorni. In sostanza ellavoleva asserire che, almeno a partire dalla fine del XVIII secolo, il compitoessenziale dei musei era stato quello di organizzare la conoscenza e di tra-smettere tale conoscenza al di fuori delle loro mura attraverso una narra-zione in forma storica.

Credo che non si possa negare, come sostiene la Jordanova, che imusei siano nati soprattutto a seguito dell’ossessione per la conservazionedella memoria, con il fine di creare, attraverso processi di scissione, di se-parazione e di riorganizzazione, sistemi di memorizzazione, di ordina-mento e di classificazione delle cose naturali e artificiali, che permettesserodi comprendere la complessità del mondo e facilitassero la ricostruzionedi “mondi in scala minore”. Il che ci porta agli anni del primo Rinasci-mento, quando le raccolte di oggetti naturali o di manufatti iniziarono aprendere la forma di studioli, cabinet de curiosités72 e Wunderkammern,che, pur sotto diverse forme e organizzazioni, avevano la medesima pre-tesa di essere “contenitori” enciclopedici, scrigni della memoria universalecapaci di rappresentare la complessa realtà del mondo attraverso il rap-porto fra cielo e terra.

Sebbene nel 2002 i diciotto grandi musei occidentali del Bizot Groupabbiano dichiarato ciascuno la propria universalità, la possibilità che unsingolo museo possa conservare e organizzare una memoria, e quindi unacultura universale, questo è evidentemente un traguardo irraggiungibile.Oggi nessun museo può avere la pretesa di contenere la memoria dell’in-tero universo (neppure sotto forma di tracce). L’universalità del “museo”,riapparsa negli anni Duemila, è un’antica utopia che perseguirono filosoficome Tommaso Campanella, che nel 1602 poneva una sorta di museo uni-versale per immagini al centro della Città del Sole (Binni in Binni e Pinna1980); come Francesco Bacone, che avrebbe voluto avere un modello uni-versale della natura in un piccolo spazio privato73, e che nella casa di Sa-lomone della Nuova Atlantide poneva tutte le meraviglie della scienza aedificazione dei cittadini; o come Giulio Camillo Delminio, il cui Thea-trum mundi74 fu il tentativo di creare uno spazio in cui tutte le creazionidell’universo avrebbero trovato il loro posto, permettendo a ogni visitatorela comprensione dell’ordine cosmico e la sua memorizzazione. QuestoTheatrum servì da modello a molte collezioni cinquecentesche – fra cui ilcelebre studiolo di Francesco I de’ Medici (Olmi 1985) a Palazzo Vecchio– che, come altre collezioni rinascimentali e della Prima Età Moderna, vo-

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levano rendere comprensibile la complessa natura universale, umana e na-turale, ordinandone le produzioni in schemi, sistemi e classificazioni me-morizzabili, come si legge sul frontespizio del catalogo del museoCospiano (1677): “Erudita haec artis et naturae machinamenta ad exci-tandem antiquitatis memoriam”.

L’arte della memoria: studioli, cabinet de curiosités, WunderkammernSe i musei sono scrigni della memoria, cui ben si adatta la metafora

del blocco di cera di Socrate narrata da Platone nel Teeteto75, in qual modoessi organizzano la memoria affinché possa essere recuperata ogni voltache un individuo o una comunità ne abbiano bisogno, e in qual modo puòavvenire questo recupero?

Quanti si sono occupati delle collezioni quattro-seicentesche 76 hannomesso l’accento su quello che ritengono essere stato il loro carattere prin-cipale, essere “realizzate e allestite rispettando le norme che regolanol’arte della memoria” (Eilean Hooper-Greenhill 2005, pag. 138), creandorappresentazioni in miniatura dell’universo attraverso cui fosse possibilecomprendere la complessità del mondo77 e il modo per possederlo78. Sitrattava di raccolte enciclopediche che perseguivano questi loro obiettivimescolando manufatti e prodotti della natura. Studioli, cabinet de curio-sités e Wunderkammern non erano tuttavia mezzi di memorizzazionecome i sistemi della mnemotecnica artificiale utilizzati sin dall’antichitàdall’arte della retorica (Yates 1972)79, ma agivano come luoghi della me-moria perché richiamavano idee, avvenimenti reali o mitologici, e rappre-sentazioni di realtà fittizie create attraverso la giustapposizione o laseparazione di oggetti e immagini guidate da stratagemmi simbolici e daallegorie. “Per i ricchi mercanti italiani – ha scritto Lévi-Strauss – i pittorifurono gli strumenti attraverso cui si prendeva possesso di tutto ciò chepoteva esservi di bello e desiderabile nell’universo. Le pitture di un pa-lazzo fiorentino evocavano una sorta di microcosmo nel quale il proprie-tario ricostruiva, a suo ordine e in modo quanto più possibile reale, tuttociò cui dà valore nel mondo”.

Oltre ad aiutare la memoria, queste raccolte rinascimentali evocavanovisioni cosmologiche, avevano la pretesa di svelare la natura ultraterrenadel cosmo, costruivano “microcosmi” che non si limitavano a conservarela memoria, sottraendola dai pericoli della cancellazione e dell’oblio, mala organizzavano di volta in volta in base alla cultura del momento e alle

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necessità sociali e politiche, o agli obblighi del collezionista. Maggiorierano la varietà, la rarità e il pregio degli oggetti posseduti, maggiore ilnumero di meraviglie insolite rappresentate, più le collezioni sembravanopoter dischiudere i segreti della conoscenza, fornendo così ai loro posses-sori il potere e l’autorevolezza della conoscenza globale. Da qui l’impor-tanza di queste raccolte come strumenti di potere, di accrescimentodell’autorevolezza di principi e sovrani e di elevazione sociale per nobilie ricchi borghesi. Da qui anche la necessità che le raccolte fossero visita-bili, non solo da ristrette cerchie di cortigiani e di amici, ma anche da unpubblico più vasto. Il che colloca queste raccolte sulla strada che conduce,anche se alla lontana, al museo moderno.

Fra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, l’Italiafu la patria delle raccolte enciclopediche, di microcosmi che dalla Penisolasi diffusero poi verso il nord dell’Europa, e i cui prototipi furono gli stu-dioli di Federico di Montefeltro a Urbino (1473-1476) e a Gubbio (1479-1482)80, e lo studiolo di Isabella d’Este a Mantova81, realizzato attorno al1490. Il principio ordinatore che sovrintendeva a queste raccolte era unoschema cosmologico che classificava tutta la conoscenza rendendola ac-cessibile alla memoria (Prösler 1996, pag. 28), e che partiva dall’idea neo-platonica che le produzioni naturali, ma anche gli artefatti,rappresentassero la materializzazione della concezione divina dell’uni-verso nella creazione terrena (Foucault 1967, pag. 44). Anche il citatoTheatrum mundi di Camillo, realizzato verso la metà del Cinquecento efinanziato da Francesco I di Francia82, aveva una solida base neoplatonicaperché “rappresentava l’universo che si espande dalle Cause Prime at-traverso gli stadi della creazione” (Yates 1972, pag. 131).

Grazie alla sua capacità di conciliare la natura fisica del cosmo e lasua interpretazione teologica, la filosofia neoplatonica sovraintese al-l’organizzazione delle collezioni rinascimentali e dell’Età Moderna83,fu trasmessa alle collezioni e ai musei del XVII e del XVIII secolo,giunse sino ai musei illuministi sotto forma della loro pretesa di rappre-sentare l’universalità di natura, storia e arte, ed è ancora percepibile neimusei del primo Ottocento, organizzati, in special modo in Germania,sulla base della teoria estetica che, come nella filosofia ficiniana, iden-tificava il bello col buono. Panofsky (2013, pag. 212-213) ha messo l’ac-cento sulla straordinaria influenza del sistema neoplatonico sviluppatoda Marsilio Ficino che tendeva a collegare il mondo terrestre con il

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Cielo, e che ebbe “un successo paragonabile solo a quello della psica-nalisi ai giorni nostri” poiché “permetteva all’umanista di venire a unaccordo con la teologia, allo scienziato con la metafisica, al moralistacon la debolezza del genere umano e agli uomini e alle donne del mondocon le cose della mente”84.

Qualche decennio dopo la costruzione del Theatrum di Camillo, nel1565, il medico di Anversa Samuel von Quiccheberg (o Quiccelbergius)realizzò quella che Adalgisa Lugli (1983, pag. 81) ha definito “la primaapplicazione-estrapolazione dell’Idea del teatro di Giulio Camillo in untrattatello […] pervaso da istanze universalistiche del tutto simili, condotteattraverso una campionatura totale dell’esistente”. Il “trattatello” di Quic-cheberg85 proponeva un metodo per organizzare e ampliare collezioni che,non potendo raggiungere l’universalità, almeno le si avvicinassero (Seelig1985, pag. 86). Sebbene fosse al corrente della trasformazione metodolo-gica delle raccolte di Aldrovandi, di Gesner e di Fuchs, Quiccheberg sivolse verso la raccolta universale, in cui monete, pitture e sculture convi-vessero con animali, pietre, minerali e reperti botanici. Il progetto, unasumma del sapere di tutto il mondo, non fu mai portato a termine, ma, ispi-randosi all’esperienza di responsabile del Theatrum sapientiae del Duca diBaviera Alberto V, Quiccheberg creò per la prima volta una metodologiaper l’organizzazione “museologica” delle camere delle meraviglie. Quic-cheberg divise il suo Theatrum in cinque classi e in diverse sottoclassi. Eglidedicò la prima classe al fondatore della collezione Alberto V di Baviera,alla sua famiglia e al suo paese; incluse nella seconda oggetti d’arte, mo-nete, gioielli, vasi, e oggetti vari; nella terza le scienze naturali, animali eminerali e quanto con essi viene prodotto dall’uomo; nella quarta le artimeccaniche, strumenti musicali, matematici e astronomici, arnesi per scri-vere e dipingere, macchine e attrezzi, strumenti per scolpire, tornire, fon-dere, intagliare, strumenti chirurgici, e arnesi per la caccia, la pesca, giochi,curiosità etnografiche, abiti e utensili di popoli stranieri; infine riservò laquinta classe alla galleria d’arte con dipinti di tutte le tecniche, incisioni edisegni (von Schlosser 2000, pag. 70-72)86. Sebbene, come fa notare laLugli (1983, pag. 81), nel lavoro di Quiccheberg non compaia il terminemuseo, ma si parli solo di “un teatro di ‘iscrizioni’ e didascalie di tutti isoggetti e di tutte le materie riuniti insieme a costituire un ‘promptuarium’,un luogo circoscritto, quasi un armadio contenente la più rara suppellettileinsieme a immagini dipinte o a stampa”, e sebbene il Theatrum si collochi

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quindi nella tradizione delle Wunderkammern, esso viene considerato daalcuni il primo trattato di museologia (Seelig 1985)87.

Sulla falsariga del Theatrum sapientiae, il Rinascimento e la PrimaEtà Moderna videro svilupparsi innumerevoli Kunst- und Wunderkam-mern88 principesche fra le quali, per il tentativo di organizzare la memoriauniversale, furono molto celebrate quella di Ferdinando II ad Ambras, de-scritta da von Schlosser (1908), quella di Rodolfo II a Praga89, e lo studiolodi Francesco I de’ Medici a Palazzo Vecchio. Questo, creato dal Vasarifra il 1570 e il 1572, voleva essere il tentativo di un inventario del mondo;in esso gli oggetti furono ordinati gerarchicamente secondo lo schematracciato da Isidoro di Siviglia, e ognuno aveva una precisa collocazione,in relazione con le pitture allegoriche delle pareti. Poche informazioni sihanno per altre collezioni cinquecentesche. Fra queste la Wunderkammerdi Guglielmo IV di Baviera, ampliata poi dal suo successore Alberto V; ela collezione del re di Francia Francesco I, nella quale il sovrano, appas-sionato di oggetti esotici e amante della statuaria antica, aveva raccoltogli oggetti “etnografici” che i viaggiatori riportavano dal Canada e dalBrasile, fra cui un mantello tupinamba. Questa collezione reale, cui avevacontribuito anche Carlo IX, fu dilapidata fra il 1589 e il 1590, come anchela collezione di Caterina de’ Medici (Schnapper 1988).

La forza politica delle “raccolte”L’essere scrigni della memoria universale e la pretesa di classificare il

mondo rendevano le collezioni principesche rinascimentali potenti stru-menti della politica. I Signori del Rinascimento conoscevano bene questovalore politico delle raccolte, che radunavano in “stanze” riccamente ar-redate dei palazzi del potere, e che aprivano a un pubblico sempre sbalor-dito di fronte alla ricchezza e alla sapienza del principe. L’interesse dellecollezioni principesche, scrive Olmi (1992, pag. 268), era finalizzato aconsolidare e a ribadire continuamente la posizione centrale del principe.Le raccolte facevano parte della vita politica quotidiana: “Era consuetu-dine – scrive Carol Duncan (1991, pag. 93) – che le gallerie principeschefossero usate come sale di ricevimento, in quanto fornivano sontuosi am-bienti per cerimonie ufficiali e magnifiche cornici per la figura del prin-cipe. Tutti i principi mettevano i loro tesori in queste gallerie per inculcarenei forestieri e nei dignitari locali, con il loro splendore, e spesso graziea particolari iconografie, il diritto e la legittimità del loro ruolo”90.

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Fin dalle prime raccolte principesche si assiste all’intreccio fra i ruolidinastico, politico e filosofico della collezione. Isabella d’Este avevaben chiaro il valore politico della sua raccolta, se è vero, come è statoscritto, che fosse “tutta tesa alla ricerca di ‘cose rare ed excellenti’” peril suo studiolo di Mantova, e vedesse “nella collezione uno strumentodi accrescimento del prestigio sociale” (Olmi 1992, pag. 255). A Firenzei Medici, già prima di assumere il dominio sulla città, avevano riunitonel loro palazzo91 una collezione che, come sostiene la Hooper-Greenhill(2005, pag. 62-63), non intendeva presentare un’immagine del mondoattraverso un insieme di oggetti e degli spazi concepiti per esporli, madoveva consentire che la famiglia fosse riconosciuta dai concittadinicome la più potente e facoltosa della città. Una via che Cosimo I, Gran-duca di Toscana, percorse, usando la collezione come segno di autore-volezza e il collezionare come strumento politico. Come scrive DeBenedictis (2015, pag. 59), il suo interesse per la collezione mutò infattisecondo l’opportunità politica del momento. Mentre l’interesse per gliEtruschi nel decennio 1550-1560 “voleva utilizzare quell’antica e diffi-cile cultura in funzione di un’identità regionale in contrapposizione conla civiltà romana”, sfruttando “il movimento filoetrusco che rivendicavala priorià e l’originalità della Toscana nei confronti di Roma”, dopol’alleanza politica con il papa Pio IV questo interesse venne abbandonatoin favore dell’arte e della cultura romana testimoniato a Firenze dall’an-tiquarium nella sala delle nicchie di Palazzo Pitti. Personaggio scabrosoe autocrate, Cosimo commissionò una Sala delle Carte Geografiche aPalazzo Vecchio nella pretesa di ricomporre il mondo in uno spazio e dicrearne una rappresentazione nella sua interezza, e fondò un gabinettodi storia naturale il cui intendimento era il medesimo, con animali, fossilie minerali, e album di disegni botanici e zoologici, parte dei quali si tro-vano oggi nel fiorentino Gabinetto Disegni e Stampe.

Anni dopo, nel 1570 Francesco I de’ Medici fece realizzare uno stu-diolo a Palazzo Vecchio che può considerarsi il prototipo del “Gabinettodel Mondo”, il primo “tentativo di riunire oggetti che rappresentano l’or-dine del mondo, di creare un sito segreto nel quale e dal quale il principepuò simbolicamente assumere la posizione di reggitore del mondo” (Hoo-per-Greenhill 2005, pag. 132). In questo spazio ristretto il principe davaforma, attraverso oggetti e immagini, a una rappresentazione simbolica edel tutto personale del mondo, di cui egli stesso occupava il punto centrale.

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Nello studiolo fiorentino, dipinti simbolici delle attività umane e scenemitologiche associate a terra, fuoco, aria e acqua racchiudevano uno spazioin cui pietre e rocce preziose, gioielli e perle si mescolavano a rarità, comeuna lucertola conservata in ambra “che manteneva la forma vivente” comescrive l’esploratore inglese Fynes Moryson92. Ecco dunque che lo studiolodi Francesco I è soprattutto uno strumento politico che dimostra, comescrive Paula Findlen (1994, pag. 23), che per Francesco, come per i “vir-tuosi” dei secoli XVI e XVII, il collezionismo non era solo una praticaper passare il tempo, ma un preciso meccanismo per trasformare la cono-scenza in potere. In una lettera del 1576 l’ambasciatore di Venezia raccontache il Granduca passava nello studiolo quasi tutto il tempo, discutendodegli affari di Stato e ascoltando le suppliche. L’uso politico della colle-zione implicava, anzi obbligava, che fosse visitabile. In questa direzioneandò lo smantellamento dello studiolo ordinato dallo stesso Francesco de’Medici nel 1584, solo a pochi anni dalla sua creazione, con conseguentespostamento della collezione nel Palazzo degli Uffizi93, e la sua aperturaal pubblico94.

Nell’ordine simbolico del Theatrum mundi di Camillo, il re France-sco I, sponsor del progetto, vi era rappresentato come Dio in Terra, ilche integrava l’interpretazione filosofica e teologica con quella dinastica.La capricciosa Kunst- und Wunderkammer di Rodolfo II a Praga era al-meno in parte uno strumento politico. Eliška Fučiková, che della colle-zione ha dato la descrizione (1985, pag. 67), ritiene che la raccoltaesprimesse le aspirazioni politiche di Rodolfo, simboleggiasse la sua si-gnoria sul mondo, e giocasse un ruolo nella diplomazia, accentuato dallasontuosa messa in scena.

Perché funzionasse politicamente come status simbol era indispensa-bile che la collezione fosse aperta al pubblico e soprattutto che fosse visi-tata e continuamente aggiornata. Dunque doveva essere alimentata dasempre nuovi reperti che la rendessero ricca e meravigliosa, soprattuttodopo che i viaggi d’oltreoceano portavano nuovi insoliti animali e oggettidi popolazioni sconosciute95. Il proprietario costruiva la forza politica dellacollezione attraverso i messaggi che gli oggetti e la loro organizzazionenello spazio inviavano ai visitatori. Nei cabinet de curiosités, studioli eWunderkammern, il principe o il collezionista si appropriava intellettual-mente dell’intero universo riprodotto in scala minore, ma soprattutto aveva

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la facoltà di modificare questo universo a suo piacimento, selezionando,organizzando e riorganizzando i materiali, trasferendoli da uno stipo o dauno scafale a un altro, avvicinandoli gli uni agli altri, creando connessioni.Egli poteva rappresentare il mondo in base alle proprie interpretazioni co-smico-intellettuali, ma anche in relazione alle necessità materiali, qualil’esibizione del potere e delle glorie del casato e la legittimazione di su-premazie basate sul danaro o sulla forza. Attraverso i cabinet de curiosités,gli studioli e le Kunst- und Wunderkammern i fortunati proprietari crea-vano ognuno un microcosmo personale incentrato sulla propria persona-lità, sul proprio status sociale e sulle proprie aspirazioni terrene; non soloper il piacere della conoscenza, ma come strumento capace di influenzarea loro vantaggio la società in cui erano immersi. Questo valore “politicoe sociale” della collezione non è mai venuto meno nel tempo e nello spa-zio, ed è stato assunto da quasi tutte le culture e da tutte le classi sociali,dall’aristocrazia rinascimentale a Bouvard e Pécuchet.

Accanto alle collezioni principesche, anche la piccola nobiltà e la riccaborghesia creava nei suoi palazzi gabinetti di curiosità, con l’intento di sa-lire i gradini della scala sociale96. Una collezione ben formata rappresen-tava uno status simbol, uno strumento di legittimazione intellettuale. PaoloGiovio e Ludovico Moscardo, dice Olmi, usarono a questo scopo le lororaccolte: il primo era “così attento a programmare la propria carriera, dautilizzare anche il museo per salire i gradini della scala sociale” (1992,pag. 258); mentre il prestigio del museo e della sua descrizione a stampafruttarono al secondo il titolo di Conte. In Italia celebrate furono le colle-zioni di Ludovico Moscardo a Verona, quella di Ferdinando Cospi a Bo-logna, la raccolta seicentesca di Manfredo Settala a Milano, e quella diFerrante Imperato a Napoli. Come si evince dall’illustrazione del 1599,in quest’ultima la preponderanza dei naturalia e la loro organizzazionenello spazio erano segni premonitori di un nuovo modello di “museo”,per uso e organizzazione: il gabinetto scientifico, i cui più esimi esempi,che per un certo periodo coesistettero con le camere delle meraviglie, fu-rono il museo di Conrad Gesner a Zurigo, e quello di Ulisse Aldrovandi aBologna ambedue sviluppatisi nella seconda metà del Cinquecento. Ilmuseo aldrovandiano (che egli definiva microcosmo di natura) è stato ri-costruito sulla base di varie fonti da Haxhiraj (2016, pag. 18-22) ma è perbuona parte ipotetico (Simili 2004), mentre della sua consistenza ha scrittolo stesso Aldrovandi in un manoscritto97.

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Dalla camera delle meraviglie al gabinetto scientificoLa transizione dalla camera delle meraviglie al gabinetto scientifico

fu la conseguenza di un nuovo approccio alla conoscenza del mondo. Sitrattava, sempre nell’ottica neoplatonica, di prendere nota dell’organizza-zione del cosmo come questa era stata ideata dal creatore, e di possedereuno strumento per la memoria che imponeva classificazioni basate sullesimilitudini. Non siamo ancora a Bacone e a Galileo98, e l’indagine sullaNatura consisteva per i naturalisti pre-sperimentali nella verifica “sul ter-reno” dell’attendibilità degli autori classici – Aristotele, Teofrasto, Plinio– che fra Cinque e Seicento godevano di autorevolezza incontrastata99. Vada sé che per questi naturalisti la collezione non serviva più solo a memo-rizzare la Natura, a celebrare la simmetria e l’armonia dell’ordine divino,e il museo non era più “il luogo, più o meno simbolico, di ricomposizionedi tutta la realtà, ma uno strumento di conoscenza del mondo della na-tura” (Olmi 1992, pag. 273), il cui ordinamento fisico poteva essere mo-dificato con la ricerca di un ordine classificatorio che rispettasse l’ordinestesso della Natura.

Le immagini dei musei incise sui cataloghi mostrano visivamente ilpassaggio dalla disposizione della collezione enciclopedica, tipica dellacamera delle meraviglie, in cui regna l’accumulo e la mescolanza dei ge-neri naturali e artificiali, alla disposizione della collezione più specialisticadel gabinetto scientifico, in cui inizia a regnare l’ordine essenziale per l’in-dagine scientifica. Nel gabinetto non è più necessario che tutti gli oggettidella collezione siano visibili come avveniva nelle Wunderkamern, oveda una posizione centrale il visitatore era messo in grado di osservare tuttala collezione e il mondo che essa rappresentava100. Questo “disordine”centripeto della camera delle meraviglie è evidente nelle illustrazioni deimusei di Ferdinando Cospi (in Legati L., Museo cospiano ecc., 1677), diManfredo Settala (in Terzago P.M., Musaeum Septalianum ecc., 1664), diOle Worm (Musei Wormiani Historia, 1655), di Ferrante Imperato (dell’-Historia Naturale di Ferrante Imperato ecc., 1599), di Basilius Besler(Continuatio rariorum ecc., 1616), di Athanasius Kircher (Romani Col-legii Societatis Jesus Musaeum celeberrimum ecc., 1678)101 e di FrancescoCalceolari (in Ceruti B., Chiocco A., Musaeum Franc. Calceolarii etc.,1622), nel quale sembra che l’ordine tipologico sia rispettato solo per ifossili di Monte Bolca.

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Nei gabinetti scientifici gli oggetti, non più tutti offerti alla vista,sono ben ordinati in scaffali o chiusi in contenitori, cassettiere e armadi,come appare nell’illustrazione della Metallotheca Vaticana riprodottada Michele Mercati (1719), nell’immagine della Museographia neicke-liana (1727) e del museo di Vincent Levin (Wondertoondel der Natureetc., 1706), nell’illustrazione del Museum Wildianum (in de Wilde J.,Selecta numismata antiqua ecc.,1696), in quella del museo del PrincipeElettore del Brandeburgo (in Berger L., Thesaurus brandeburgicus se-lectus ecc., 1696). La collezione prende quasi la forma di una biblioteca.La collocazione degli oggetti – non a vista, ma chiusi in contenitori – èindicata dai cartelli applicati su ciascun contenitore; indicazioni inser-vibili a un visitatore semplicemente curioso, ma utili per indirizzare lostudioso, il cui scopo ora non è più la ricostruzione di un mondo in mi-niatura, ma la conoscenza sempre più approfondita della Natura. Quandogli oggetti sono a vista, sono ordinati per tipologie, i cui princìpi ordi-natori in epoca pre-linneiana sono ancora i criteri di Aristotele e Pliniobasati sulle somiglianze morfologiche o di habitat.

Questa trasformazione, dall’accumulo universale (ove la disposi-zione segue il criterio soggettivo del collezionista e le relazioni fra glioggetti che egli crede di individuare) all’ordine che segue invece un cri-terio che si suppone oggettivo (poiché imposto allo studioso da inter-pretazioni delle produzioni del mondo che egli condivide con colleghie con trattati scientifici), corse parallelamente alla separazione delle col-lezioni di naturalia e di artificialia. Dai gabinetti scientifici vengonogradualmente espulse le opere dell’uomo e i falsi mostri, per far postoalle produzioni naturali e ai manufatti etnografici che dal nuovo mondoe dalle parti più remote dell’Oriente invadono l’Occidente (Shelton1994). Quando in questi nuovi gabinetti votati alla scoperta del mondoè presente l’opera dell’uomo, lo è sotto forma di manufatti di mondi lon-tani – oggetti, armi, gioielli, vestiti, idoli – mentre scultura e pittura sonoormai al servizio dello studioso, per modellare fisionomie e fissare sucarta o sui cataloghi a stampa le immagini dei naturalia. In Italia, e ovela mano della Chiesa di Roma fece sentire il peso della Controriforma,la secolarizzazione della scienza e dell’arte, seppure nell’ambigua chiaveneoplatonica, ebbe scarsa fortuna (Binni, in Binni e Pinna 1980). Le isti-tuzioni scientifiche, come quella di Aldrovandi, furono poste al serviziodel potere ecclesiastico, la cultura laica fu trascinata in carcere o al rogo,

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o costretta all’abiura102. Lo stesso Aldrovandi rischiò la condanna, men-tre prendevano forma istituzioni gestite direttamente dall’apparato ec-clesiale, quali la Biblioteca Ambrosiana di Federico Borromeo a Milano(1609) e il già citato museo del gesuita Athanasius Kircher al CollegioRomano (1651). Essi ebbero destini diversi. Mentre la prima è soprav-vissuta sino a oggi, superando le razzie napoleoniche e i bombardamentidella Seconda Guerra Mondiale, il secondo fu chiuso e in parte dispersonel 1773 a seguito della soppressione della Compagnia di Gesù, e nel1874 il nuovo Stato italiano laico affidò quanto restava della raccolta alLiceo Visconti di Roma, mentre la collezione egizia prese la via delMuseo Egizio di Torino nel 1896103.

Come era stato chiaro a Francesco I de’ Medici, le corti principesche,consce del valore politico e dell’autorevolezza che le raccolte di pittureo di antichità possono fornire, si impegnarono nel mondo dell’arte onella ricerca di vestigia del passato. Già a partire dal XVII secolo nonvi era corte europea ove non si creasse una collezione. Principi e mo-narchi agivano come mecenati o come ricchi acquirenti. In Inghilterra104,in Francia, in Austria, negli Stati italiani e in quelli tedeschi, nei palazzidel potere vennero costruite “Gallerie” su un modello architettonico in-trodotto dalla Gallia (da cui il nome), ove pitture e sculture venivanoesposte alla vista di un pubblico privilegiato, e ove non mancavano ri-ferimenti pittorici alle gesta della dinastia105. Queste gallerie saranno de-stinate a trasformarsi nei musei d’arte (che ancora chiamiamo Gallerie),d’arte applicata o di antichità, prima con l’apertura all’accesso del pub-blico per la gentile concessione dei principi, più tardi sotto la spinta piùo meno rivoluzionaria delle popolazioni che reclamano la proprietà delproprio patrimonio. Tuttavia la vecchia concezione della camera dellemeraviglie universale resistette ancora per buona parte del XVIII secolo.Nel 1727 Caspel Friedrich Neickel, nella sua Museographie, diede sug-gerimenti per la formazione e il mantenimento di una collezione; per unmuseo immaginario (di cui fornisce un’immagine ipotetica nel fronte-spizio)106, nel quale tuttavia mantiene ancora assieme naturalia, artifi-cialia e curiosa, e le dispone in modo che siano visibili nella loro totalitàa un visitatore che occupi una posizione centrale. È la prima volta cheappare il termine “museografia” per riunire in un “manuale” un com-pendio delle raccolte europee e un insieme di suggerimenti “per una giu-sta idea e un utile allestimento dei Musei”. Un ventennio prima il

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termine Museum era stato già stato usato da Michael Bernhard Valentiniper un altro compendio. Si tratta del Museum Museorum in due volumidel 1704-1714107, aperto alle raccolte d’Oriente e dell’America preco-lombiana del re Inca del Perù e di Montezuma “entrambe formate dalleeffigi, in oro puro, di tutti gli animali, uomini, alberi in fiore e da fruttodel territorio circostante” (Lugli 1983, pag. 11)108. La Museographia diNeickel conservava ancora molto della filosofia delle raccolte rinasci-mentali. “Lo smembramento della Kunst- und Wunderkammer propostodall’autore – scrive Olmi su quest’opera (1992, pag. 187) – e l’indivi-duazione di raccolte più compatte e specializzate non riescono a na-scondere la costante preferenza di fondo accordata agli oggetti rari emeravigliosi […], l’invito a vedere e interpretare la raccolta come unaglorificazione di quel Dio meraviglioso esaltato dai salmi di David che,per sua natura invisibile, si manifesterebbe appunto attraverso gli og-getti eccezionali della Wunderkammer”. “Nell’economia del suo scritto– fa notare Erika Giuliani nell’introduzione all’edizione italiana dellaMuseographia – non emerge alcuna differenza sostanziale tra collezioniprivate, biblioteche, chiese e città: naturalia, artificialia, antichità, purdistinguendo ambienti e spazi di raccolta ed esposizione, egli idealmentesistema tutto nei medesimi repositoria”.

Anche i gabinetti scientifici, per ragioni diverse rispetto alle raccolted’arte e di antichità, entrarono nella sfera del potere. Essi necessitavanodi finanziamenti per “completare”, studiare e custodire le raccolte e percostruire edifici adatti a ospitarle; cercavano la collaborazione delle ma-rine militari o commerciali per sviluppare le ricerche attorno al mondoche si ritenevano essenziali per una sempre più completa conoscenzadella natura globale (Pinna 2008). Tutte cose che solo il potere politicoo la libertà di pensiero possono, in modo ben diverso, garantire. Così,fu per volere del re Luigi XIII, spinto dalla necessità politica di opporreil potere della monarchia al potere dell’università in campo scientificoe culturale, che nel 1635 vennero fondati il Jardin Royal des plantes mé-dicinales e l’Accademia di Francia (Pinna, in Binni e Pinna 1980). Lascienza è quindi costretta a piegarsi al volere dei potenti, ovvero puòsviluppare nuove idee solo nelle nazioni che garantiscono libertà di pen-siero e moderano gli eccessi ideologici. Così nel 1660, nell’Inghilterradella Restaurazione, con un decreto di Carlo II viene fondata la RoyalSociety, con il fine di proseguire la strada segnata da Bacone nello studio

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della filosofia naturale, dotata di un Repositorium liberamente visitabile,“una importante e rigorosa collezione di Bizzarrie o di Irregolarità dellaNatura” avrebbe detto Bacone, in cui saranno raccolte curiosità e raritànaturali, di cui viene data notizia in un catalogo (Musaeum Regalis So-cietatis) stampato nel 1681. Nell’ultimo scorcio del Seicento (1683) nac-que il primo museo pubblico inglese, con l’apertura dell’AshmoleanMuseum a tutti i cittadini che potessero permettersi di pagare il bigliettod’ingresso, grazie alla cessione all’Università di Oxford della collezionedi Elias Ashmole109 (che a sua volta comprendeva la Wunderkammer deidue Tradescant110). Questo museo ebbe un grande successo popolare, sediamo credito al viaggiatore tedesco Zacharias Conrad von Uffenbach(1710) che, entrato nel museo, restò scandalizzato dalla folla di contadiniche lo riempivano in un giorno di mercato, “la gente – scrisse – toccaogni cosa irruentemente nel modo abituale inglese e […] anche le donnesono ammesse per un sixpence; queste corrono qua e là, afferrando ognicosa senza ne siano impedite dai Sub-Custos” (Swann 2001, pag. 51).

È quindi una conseguenza naturale che, mentre all’inizio del secoloNapoleone fa piangere Lamarck rinfacciandogli la sua teoria rivoluzio-naria e la Francia innalza l’antievoluzionista Cuvier alle più alte carichedell’educazione, in Inghilterra, patria delle libere istituzioni scientifiche,dopo l’Ashmolean, nel 1753 apra al pubblico il British Museum, nel1851 la Grande Esposizione Universale di Londra sia sede di una rivo-luzione nella comunicazione pubblica, e nel 1859 Charles Darwin pub-blichi il libro che cambierà la percezione del mondo.

Come è noto, la caduta di Napoleone generò in tutta Europa la crea-zione e l’apertura al pubblico di gallerie di belle arti che, mantenendo laproprietà delle collezioni alle monarchie (con l’eccezione della Gemäl-degalerie Alte Meister di Dresda che era di proprietà pubblica già dal1747), ne mostravano ai popoli l’autorevolezza e il diritto indiscusso aregnare. Napoleone con i saccheggi e la concentrazione di opere d’artenell’allora Musée Napoleon aveva insegnato ai monarchi europei l’im-portanza politica della cultura e di un’arte diffusa attraverso i musei.Negli stessi anni presero però forma anche istituzioni di natura diversa.Pubblici musei di storia naturale locali nacquero in quelli che erano stati“feudi” napoleonici. Sei anni dopo la fine dell’occupazione francese,nel 1820, fu inaugurato a Ginevra il Musée Académique111 e due annidopo un museo di storia naturale fu concesso a Milano dal governo au-

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striaco che aveva sostituito il napoleonico Regno d’Italia. Si trattò inquesti casi di musei volti all’insegnamento delle scienze e allo sviluppodi economie locali, il cui status di musei pubblici fu determinato da fattoche probabilmente i governi consideravano le scienze naturali politica-mente meno pericolose delle gallerie d’arte, nelle quali immagini e ri-cordi della storia erano tenuti sotto controllo e continuamentemanipolati. Si dovrà attendere la seconda metà del secolo perché anchei musei scientifici assumano una valenza politica, da un lato con le ri-voluzionarie teorie sull’evoluzione dell’uomo, dall’altro mettendosi alservizio delle nascenti politiche coloniali delle nazioni.

Nel corso del XVIII secolo, nella maggior parte d’Europa i gabinettiscientifici e le raccolte di opere d’arte e di antichità si erano ormai quasidel tutto separati. Da un lato le collezioni scientifiche, che comprende-vano, assieme ad animali, piante e minerali, anche le testimonianzedell’uomo selvaggio e primitivo (le collezioni etnografiche la cui persi-stenza in alcuni moderni musei naturalistici ha quindi radici storiche),erano intente alla metodica classificazione del mondo, e alla compren-sione del disegno ordinatore del Creatore, dall’altro le raccolte d’arte edi antichità avevano nuovi ideali e nuove finalità rispetto alle Wunder-kammern ormai fuori moda: denaro, autorevolezza e soprattutto domi-nio. Gradualmente, nel corso del secolo queste collezioni entrarononell’orbita del potere, come non lo erano mai state prima d’allora. Men-tre nelle gallerie d’arte e di antichità si celebrò la gloria dei monarchi,delle dinastie e dei tiranni e si modificò la storia per garantire a costorolegittimità e autorevolezza, le collezioni naturalistiche furono assimilatedal potere per controllare la visione del mondo e dell’uomo che espri-mevano. Le collezioni si trasformarono così in musei controllati diret-tamente dagli Stati, supremo traguardo nel controllo politico dei popolie delle nazioni.

In campo scientifico il museo illuminista segnò un cambio di prospet-tiva sull’uso intellettuale delle collezioni e sulla loro organizzazione.Mentre il fine delle raccolte naturalistiche cinque- e seicentesche, qualiquelle di Gesner e di Aldrovandi, era ricostruire la complessità del mondonaturale senza approfondirne le cause, la finalità dei musei illuministi fuquella di comprendere i meccanismi attraverso cui il disegno divinoaveva costruito la varietà del mondo. L’organizzazione e la classifica-zione sistematica delle forme naturali divennero perciò l’obiettivo delle

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collezioni scientifiche e delle nuove istituzioni museali, il mezzo per ar-rivare a conoscere l’ordine della natura. I musei divennero laboratori diclassificazione sistematica nei quali, tuttavia, per buona parte del XIXsecolo, perdurò ben radicata la visione neoplatonica. Georges Cuvier alMuséum National d’Histoire Naturelle, Richard Owen al British Mu-seum, Louis Agassiz al Museum of Comparative Zoology di Harvard,Antonio Stoppani al Museo di Storia Naturale di Milano riconoscevanonella diversità del mondo naturale un piano divino, concepito in anticipodal Creatore con lo scopo ultimo di introdurre l’uomo sulla Terra. Unpiano razionale nei confronti del quale l’unica possibile azione scientificaera un’indagine precisa e diligente capace di mostrarne la complessitàdell’organizzazione (Pinna 1995). In un periodo di grandi esplorazioniche facevano conoscere nuovi mondi naturali, i gabinetti scientifici e imusei divengono dinamici, le collezioni sono continuamente riclassificatee le esposizioni modificate per far posto alle nuove scoperte scientifiche.Il piano divino della creazione viene modificato a mano a mano che ven-gono scoperti nuovi organismi. L’immagine della natura è proposta comeun grande affresco, come una narrazione universale della costruzione di-vina, che la possibilità di essere continuamente modificata modella comeuna storia del progresso verso la complessità. Ciò sebbene in quegli anniprecedenti la rivoluzione evoluzionista la classificazione della Naturaprescindesse dallo spazio e dal tempo. L’obbligo di una continua modificadella presentazione delle collezioni fu sollecitato da Louis-Jean-MarieDaubenton nella voce Cabinet d’Histoire Naturelle dell’Encyclopédie.“A mano a mano che un Cabinet d’Histoire Naturelle aumenta – scrisseil collaboratore di Buffon e professore al Jardin du Roi –, non vi si puòmantenere l’ordine se non spostando continuamente tutto quanto vi è inesso. Per esempio, quando si vuole inserire in una successione una specieche vi manca, se questa specie appartiene al primo genere, è necessarioche tutto il resto della serie venga spostato, affinché la nuova specie siamessa nel posto giusto”.

Con l’apparire delle interpretazioni trasmutazioniste del mondo bio-logico di Lamarck, Geoffry Saint-Hilaire e Charles Darwin, e di quanti liseguirono, poco cambia nell’organizzazione fisica dei musei naturalistici.La persistenza dello spirito classificatorio e la tendenza alla ricostruzioneuniversale del mondo fanno del museo un monumento al passato, nel qualepersiste il tradizionale rapporto con la trascendenza cosmica.

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La resistenza dei musei a cambiare le esposizioni in relazione al pro-cedere delle scoperte e delle interpretazioni scientifiche (ma anche con ilprocedere delle tecniche museografiche) è un problema generale che col-pisce molte istituzioni. Nel 1897 il paleontologo del British Museum Fran-cis Arhur Bather fece notare che nel suo museo, in ragione di diversecircostanze, fra cui la mancanza di tempo e la scarsezza di personale, ladisposizione degli oggetti nelle vetrine era rimasta invariata per molti anni,cosicché la classificazione e la disposizione degli oggetti non corrispon-deva più al procedere della conoscenza scientifica e diminuiva dramma-ticamente la capacità informativa ed educativa del museo.

Note1 “La coscienza dell’appartenenza sociale, che chiamiamo ‘identità collettiva’, si basa sullapartecipazione a un sapere e a una memoria comuni, trasmessa in virtù del fatto di parlareuna lingua comune o […] attraverso l’impiego di un sistema simbolico comune. […] Nonsi tratta qui solo di parole, frasi e testi, ma anche di riti e danze, modelli e ornamenti, co-stumi e tatuaggi; si tratta del mangiare e del bere, di monumenti e immagini, paesaggi,segnavia e contrassegni di confine. Tutto può diventare segno per codificare la comunanza:non è il medium, ma la funzione simbolica e la struttura semiotica a essere determinante.Chiameremo ‘cultura’, o più precisamente ‘formazione culturale’, questo complesso costi-tuito dalla comunanza trasmessa simbolicamente. All’identità collettiva corrisponde unaformazione culturale che la fonda e – soprattutto – la riproduce. La formazione culturaleè il medium con cui un’identità collettiva viene costruita e mantenuta attraverso le gene-razioni” (Jan Assman 1997, pag. 108).2 Allo stesso modo, per estrapolazione, il complesso di tutti i musei (e non un singolomuseo come vorrebbero i rappresentanti del Bizot Group) conserva e trasmette lasintesi della cultura universale.3 Il Principe “espresse il gran piacere avuto nel vedere in Inghilterra una tale magnifica col-lezione, stimando che essa fosse di ornamento per la Nazione; egli espresse i suoi auspici peril beneficio che essa avrebbe portato alla cultura, e per quanto potesse contribuire all’onoredella Britannia se fosse stata istituita per l’uso pubblico e per la posterità” (in Artur Mac-Gregor 1994, pag. 35). 4 Aus meinem Leben: Dichtung und Wahrheit, 1811-1833 (Dalla mia vita: poesia e verità,Einaudi, 2018).5 “Interi paesaggi – scrive Assmann, pag. 34 – possono fungere da medium della memoriaculturale, in questo caso essi non vengono tanto accentuati mediante dei segni (dei “monu-menti”) quanto piuttosto elevati globalmente essi stessi al rango di segni, ossia vengono se-miotizzati”. Sono i paesaggi culturali che giocano un ruolo nella memoria collettivain quanto spazi immaginari che sollecitano la memoria culturale; assimilabili, al-meno in parte, ai “lieux de mémoire” di Pierre Nora. 6 Sul ruolo del personale intellettuale nella creazione della cultura del museo si vedaPinna 2005.

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7 Jedlowski (1999 citato da Tota 2001, pag. 75) definisce questa memoria come“insieme di rappresentazioni del passato elaborate all’interno di un gruppo sociale” lacui natura collettiva non sarebbe data tanto dal “carattere comune dei suoi conte-nuti, quanto dal fatto che questi sono elaborati in comune, sono cioè il prodotto di un’in-terazione sociale, di una comunicazione, che è in grado di scegliere nel passato ciò che èrilevante e significativo in relazione agli interessi e all’identità dei membri di ungruppo”.8 “Le persone conservano le memorie personali – memorie di eventi e di situazioni dicui sono state testimoni. Queste memorie personali possono rimanere nella sfera privata,ma possono essere raccontate in conversazioni o in narrazioni, possono andare perdute,o possono essere trascritte sotto forma di diari, memorie e autobiografie. Vi sono anchememorie collettive o condivise di cui un singolo individuo può non avere avuto espe-rienza diretta. Vale a dire che possiamo ‘ricordare’ un evento di cui personalmente nonabbiamo avuto esperienza, ma che percepiamo come memoria condivisa. Molti americani‘ricordano’ la Guerra Civile Americana e molti ebrei ‘ricordano’ l’Olocausto nazista,ma non perché hanno avuto un’esperienza diretta personale di questi eventi o perchéhanno letto narrazioni scritte da storici professionisti che hanno descritto minuziosa-mente le grandi battaglie o le sofferenze nei campi di sterminio. Essi invece ‘ricordano’perché condividono con altre persone gruppi di immagini che sono stati trasferiti loroattraverso i media della memoria – dipinti, architettura, monumenti, riti, narrazioni,poesia, musica, fotografie e film. Questi ricordi non sono costruiti in modo logico e ra-gionato – essi raramente forniscono una storia organizzata in modo chiaro o una nar-razione. Invece, sono frammentati. […] Spesso si tratta di ricordi visivi che produconoimmagini potenti e avvincenti che parlano sia alle passioni, sia all’intelletto. Queste me-morie ri-presentano il passato e danno alle persone la sensazione di essere stati testimonidi un evento che può essere avvenuto molto prima della loro nascita. I musei e i monu-menti spesso danno consistenza fisica alla memoria, così come i riti che commemoranola morte e le loro imprese. Le arti visive, la poesia, le memorie e i racconti contribuisconoalla costruzione della memoria in parte perché ci fanno toccare il passato anche quandolo pensiamo”.9 Diversi autori si sono occupati del rapporto memoria-patrimonio-identitàanche in relazione al ruolo giocato dai musei. Fra le opere più importanti pos-siamo ricordare quelle di David Lowenthal (1985, 1998), Alain Schnapp (1993),Flora Kaplan (1994) e Peter Howard (2003), senza dimenticare gli scritti di PierreNora o quelli da lui editi, di Krzysztof Pomian (1987, 2003), Jean-Louis Déotte(1994), Dominique Poulot (1997), Jean-Michel Leniaud (2002). 10 Esistono naturalmente anche “musei del presente”, o meglio del “presente-passato” (musei d’arte contemporanea, musei agiografici creati autonomamenteda artisti viventi, e simili), e musei proiettati verso il futuro (vedi la mostra alV.&A. “The Future Starts Here”, catalogo di Hyde Rory e Mariana Pestana2018).11 Con le dovute eccezioni: i musei volti puramente all’estetica degli oggetti e imusei-magazzino incapaci di interpretare la storia, come lo erano molti museiarcheologici italiani (Pinna, in Binni e Pinna).12 Secondo Assmann (1997, pag. 189) “la religione costituisce il caso tipico di strut-tura anacrona: all’interno della cultura che dà forma all’oggi, essa mantiene presente lo

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ieri che non deve essere dimenticato; la sua funzione è di trasmettere il non contempo-raneo mediante il ricordo, l’attualizzazione e la ripetizione”.13 “L’assenza di opere che rappresentano una ‘insostituibile eredità culturale’ è psicolo-gicamente intollerabile. Proprio come la distruzione della Statua della Libertà diminui-rebbe il legame fra gli immigranti che hanno condiviso la stessa prima vaga idea degliStati Uniti, o come il crollo del Muro del Pianto di Gerusalemme ferirebbe l’anima delmondo ebraico, così la rimozione da parte di Lord Elgin dei marmi del Partenone offendela collettività greca poiché ha evirato la maggiore di tutte le opere d’arte greche – il Par-tenone. Distruggendo il ‘mana’ dei Greci, l‘incarnazione delle loro più alte speranzeumanistiche e un parametro della loro esistenza, Lord Elgin ha danneggiato la colletti-vità greca degradando irreparabilmente una parte integrante della celebrazione dell’es-sere greco” (Moustakas 1989, pag. 1195-1196, in Gillman 2009, pag. 173). 14 Il termine patrimonium – dice Chastel (1997, pag. 1433) – si riferiva alla legitti-mità famigliare sull’eredità “che esplicitava una relazione particolare fra il gruppogiuridicamente definito e certi beni materiali del tutto concreti: uno spazio, un tesoro,o meno ancora”. 15 Del patrimonio culturale si parla e si scrive molto soprattutto in relazione allasua consistenza fisica (oggetti, opere, monumenti, paesaggi ecc.), e alla sua de-finizione in cui eccellono le organizzazioni internazionali (ICOM, UNESCO,Consiglio d’Europa), i ministeri nazionali e le associazioni di musei. MarilenaVecco (2011) ha fatto un utile riassunto delle normative relative al patrimonioculturale, preceduto da un breve excursus storico. Essa ricorda la periodizza-zione del concetto di patrimonio di Babelon e Chastel che hanno identificato unmomento religioso, uno monarchico, uno familiare, uno nazionale, uno ammi-nistrativo e scientifico; e la periodizzazione proposta da Desvallées (1995) chedistingue cinque periodi nella storia del termine patrimonio (1790-91; 1930-45;1959; 1968-69; 1978-80). Ciò mostra un’interpretazione materialista del patrimo-nio culturale, e la sua applicazione burocratica alla società. 16 “I semiofori sono oggetti a due facce: hanno un aspetto materiale e un aspetto semiotico.L’aspetto materiale di un semioforo, come di ogni oggetto, è l’insieme dei suoi caratteri fi-sici: la materia di cui è fatto, con le qualità che le sono proprie. Ma anche la forma che haricevuto, in quanto essa determina i rapporti fisici di questo oggetto con altri oggetti […]. Quanto all’aspetto semiotico di un semioforo, questo è costituito essenzialmente da ca-ratteri visibili che rinviano a qualche cosa che per il momento è assente o che è apertamentericonosciuto come invisibile. I caratteri visibili servono qui da supporto a relazioni invi-sibili che, contrariamente alle relazioni fisiche, sono stabilite, non tanto dalla mano, quantodallo sguardo e dal linguaggio” (Pomian 2003, pag. 156).17 “Per risonanza intendo il potere di cui è dotato l’oggetto esposto di varcare i proprilimiti formali per assumere una dimensione più ampia, evocando in chi lo guardi le forzeculturali complesse e dinamiche in cui è emerso e di cui l’osservatore può considerarloun campione rappresentativo” (Greenblatt 1995, pag. 27).18 Per questo, forse poiché siamo ancora lontani da quella identità globale cuineppure Amarthya Sen sembra credere, l’unico a non costituire “patrimonio” èparadossalmente il grande complesso del Patrimonio Mondiale dell’UNESCOche si allunga anno dopo anno e la cui concezione universale contrasta con l’ideadi esclusione insita nella natura stessa di patrimonio culturale. Circa l’idea del

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“patrimonio dell’umanità” Hugues de Varine ha scritto (1969, pag. 52) che “l’in-ternazionalizzazione della cultura, così espressa, è puramente artificiale: vi è un gruppodi persone, generalmente in seno alle grandi organizzazioni come l’Unesco o nelle sferedirigenziali dei paesi ricchi, che cerca di stabilire questa ‘civiltà universale’ di cui tuttii criteri, tutti i valori riconosciuti, tutte le espressioni sono elaborate in funzione di que-sto gruppo che in realtà non rappresenta che la cultura dei paesi industrializzati, la cul-tura del consumo”. Peter Howard (2003, pag. 179) ha messo in evidenza comel’inserimento di un soggetto nella Lista del Patrimonio Mondiale sia voluta daidiversi governi nazionali “non tanto per un disperato desiderio di garantirne la con-servazione, quanto per attrarre più turisti”. L’inserimento di un soggetto nella Listaavviene su richiesta dei governi nazionali, il che rende l’UNESCO del tutto im-potente: così, quando il governo afgano distrusse i Budda di Bahmian all’UNE-SCO non restò che rammaricarsi che essi non fossero iscritti nel PatrimonioMondiale. 19 Si tratta di un processo paragonabile alla separazione di una popolazione ani-male in due sottogruppi a seguito di una qualche forma di isolamento (geogra-fico, sessuale ecc.), processo ben noto ai biologi: le due popolazioni derivatedalla separazione avranno un patrimonio genetico più povero di quello dellapopolazione originaria, il che produrrà nel corso del tempo una evoluzione di-vergente delle due popolazioni.20 A questo riguardo sono interessanti le comunità di emigrati degli Stati Uniti.Le comunità italiane, norvegesi o russe tendono a perdere buona parte del loropatrimonio di origine, per esempio la lingua, ma ne conservano alcuni elementi,fra cui le feste patronali. Circa gli immigrati in America l’antropologo AllanHansen ha sostenuto che “ciò che i figli desiderano dimenticare, è ciò che i nipoti cer-cano di ricordare”. 21 Le grandi opere d’arte nei musei “devono la loro esistenza non solo agli sforzi dellegrandi menti e al talento che li hanno creati, ma anche al duro lavoro anonimo dei lorocontemporanei. Non vi è nessun documento di civiltà che non sia al tempo stesso docu-mento di barbarie. E proprio perché un tale documento non è privo di barbarie, questoinfetta anche la maniera in cui è stato trasmesso da un possessore a un altro” (Tesi sullafilosofia della storia, 1970, pag. 258).22 Un esempio dell’accumulo progressivo ed esponenziale del patrimonio cul-turale è l’allungamento continuo della lista del patrimonio mondiale dell’UNE-SCO per aggiunte progressive non bilanciate da de-registrazioni, che nonavvengono anche quando i parametri che hanno determinato l’accesso vengonoa mancare. A tutto il 2013 vi sono stati solo due casi di espulsione dalla lista,quello della riserva dell’orice in Oman e quello della Valle dell’Elba in Germania 23 Marilena Vecco (2011, pag. 107) concorda sul fatto che la società attuale abbiaun’ossessione per la conservazione culturale e cita a questo riguardo Colin Bu-chanan. Costui si era domandato (1975): “che cosa succede quando ogni cosa è con-servata? Che cosa succede quando la conservazione è tanto estesa che non si riesce acamminare senza inciampare in qualche oggetto di venerazione? Esistono pericoli di di-ventare prigionieri del passato, rimanendo intrappolati in una rete di controlli burocraticiin un mondo non creativo?”. Questa citazione è relativa al primo dei tre paradossidella conservazione che Vecco dice limitino la portata del processo di conserva-

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zione. In esso ella sostiene che “la capacità economica di conservazione decresce conl’aumentare dell’impegno alla conservazione in ragione della scarsità crescente delle risorsedestinate propriamente alla conservazione”, il che, se ci si pensa bene, non è un para-dosso ma un’ovvia considerazione. Nel quarto paradosso Vecco sostiene che “lanostra società conserva una quantità sempre maggiore di patrimonio ma ne crea sempremeno” il che è visibilmente falso, anzi avviene quasi il contrario poiché il patri-monio si arricchisce di sempre nuove categorie di semiofori, per citare Pomian,che vale la pena di conservare. 24 Della commissione facevano parte, oltre ad artisti, anche alcuni scienziati, poichéall’epoca l’Italia era ritenuta un centro di cultura scientifica assai attivo e le collezioniscientifiche italiane molto rinomate.25 “Urbis aeterna, vestigia e ruderibus temporunque iniuriis vindicata”.26 ”Passeggiavamo […] e ad ogni passo c’era qualcosa che suscitava il discorso e la com-mozione: qui la reggia di Evandro, qui il tempio di Carmentis, qui la grotta di Caco, quila lupa nutrice ed il fico ruminale […] qui il salto di Remo, qui i giochi circensi ed ilratto delle Sabine, qui la palude della capra e la sparizione di Romolo, qui i convegni diNuma con Egeria, qui le schiere dei tre gemelli. Qua fu trascinato Perseo, di qui fu re-spinto Annibale, di qui fu condotto in catene Giugurta […]. Qui Cesare trionfò, quimorì. In questo tempio Augusto vide prostrarsi i re e il mondo porgergli tributi. Questoè l’arco di Pompeo e questo è il portico; questo fu il cimbro di Mario. Questa è la colonnadi Traiano, dove egli è sepolto, […]; questo è il suo ponte che prese il nome di San Pietro,e questa è la mole di Adriano, sotto la quale, anch’egli, riposa, che ora chiamiamo CastelSant’Angelo […] qui Cristo venne incontro al suo vicario; qui Pietro fu posto in croce;qui Paolo venne decapitato […]”.27 Panofsky (2013, pag. 26) scrive del Petrarca che “mentre tutti i pensatori cristianiprima di lui l’avevano concepita [la storia (N.d.A.)] come uno sviluppo continuo dallacreazione del mondo fino ai nostri giorni, egli la vide come nettamente divisa in due pe-riodi, quello classico e quello ‘recente’, il primo comprendente le historie antiquae, l’al-tro le historie novae. E mentre i suoi precursori avevano concepito quel continuosviluppo come un progresso costante dalle tenebre del paganesimo alla luce di Cristo[…], Petrarca interpretò il periodo in cui ‘il nome di Cristo prese ad essere celebrato inRoma e adorato dagli imperatori romani’ come l’inizio di un’età ‘oscura’ di decadenzae di oscurantismo, e il precedente periodo –per lui semplicemente il periodo di Romamonarchica, repubblicana e imperiale – come un’età di gloria e di luce ”.28 vedi De Benedictis 2005, pag. 77-78 e pag. 230-232.29 Peter Howard (2003, pag. 208) cita proprio Roma come esempio di uno dei“quei posti che sono stati così ricchi di patrimonio per così lungo tempo che hanno im-parato a convivere con esso”.30 “Gli insegnamenti della chiesa – scrive Hamilakis (2007, pag. 67) – erano strumen-tali alla diffusione dell’idea che gli ‘Helleni’ fossero diversi dalle popolazioni contempo-ranee. Il ben noto passaggio del religioso Cosma d’Etolia è caratteristico: ‘voi non sieteElleni […] non siete empi, eretici, atei, ma pii cristiani ortodossi’“. 31 “In questa visione del mondo il tempo degli Elleni coesisteva in parte con il XIX se-colo; esso irrompe in esso e distrugge la temporaneità del presente. Nel mondo modernonoi percepiamo il tempo come progressivo, lineare, unidirezionale. D’altronde i nostriscritti storici e archeologici, e in verità tutte le nostre vite si basano sull’idea di una

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chiara separazione fra passato e presente, e sull’immutabilità del passato. Eppure di-versi discorsi e azioni che ho discusso qui parlano di un diverso senso della storicità edi una diversa temporaneità. Una temporaneità che, come è stato dibattuta dal filosofoHenri Bergson, è definita dalla coesistenza piuttosto che dalla successione. Gli Ellenipossono essere vissuti in un tempo diverso, ma alcuni di essi vivono ancora e interagi-scono con la gente di oggi. Ma è la durabilità e la persistenza della materialità dell’an-tichità che permette a questo altro tempo di coesistere a fianco del presente. Le antichitàmateriali, perciò, attivano e emanano nuovamente temporalità multiple. Queste tem-poralità erano empiriche e non cronologiche, ed erano inscritte nel tessuto della vitasociale” (Hamilakis 2008).32 Scrive De Benedictis (2015, pag. 44) che questa vendita ”che si cercò con ognimezzo di mantenere segreta, suscitò violente reazioni da parte del popolo che nella di-spersione delle raccolte gonzaghesche si sentiva oscuramente ma fraudamente defraudatodi un patrionio legato indissolubilmente alla cultura locale e al pubblico godimento. Lareazione suscitata dalla vendita dei Gonzaga si può inoltre interpretare come una spiasintomatica della progressiva assimilazione fra due concetti e situazioni già divergenti:la collezione dinastica e il museo pubblico […]”.33 “Musei e guerra. Nel momento attuale, quando le energie della Nazione sono neces-sariamente dirette a vincere la guerra, vi può essere una tendenza a sovrastimare l’im-portanza fondamentale dei musei e delle gallerie d’arte come parti essenziali di quellaciviltà per la quale stiamo combattendo. Queste istituzioni contengono collezioni digrande importanza, non solo per noi, ma per tutto il mondo civile, e nonostante la ten-sione delle circostanze è nostro dovere provvedere che tali collezioni siano adeguatamentesalvaguardate e conservate. L’attività dei musei deve perciò continuare con la massimaefficienza possibile; e se il lavoro di conservazione dei tesori della Nazione può essereintegrato con l’ampliamento di attività educative e con idee brillanti, la posizione deimusei dopo questa guerra sarà più forte di quanto non lo sia stata nel 1918. Vi è inrealtà una grande opportunità davanti a noi. Durante l’ultima guerra alcuni musei gio-carono un ruolo straordinario ed entrarono una volta e per sempre nella stima delle au-torità locali. Dobbiamo raccomandare il più fortemente possibile che dalla presentesituazione venga tratto ampio vantaggio per la funzione dei musei” (Pubblicato in Mu-seums Journal, 1939, n. 39, pag. 317, in Kavanagh 1994, pag. 166)34 “Il patibolo, ove il corpo del criminale torturato era esposto alla forza della sovranitàche si manifesta ritualmente, il teatro punitivo in cui la rappresentazione della punizioneera accessibile permanentemente al corpo sociale, venne sostituito da una grande strut-tura chiusa, complessa e gerarchizzata integrata nel corpo stesso dell’apparato dellostato” (Foucault 1975, in Bennet 1988, pag. 74). Anche Douglas Crimp (1985) hasostenuto che il museo ha tutte le caratteristiche per essere paragonato alle strut-ture di segregazione di Foucault, come il carcere. In questo senso esso è unospazio eterotopico, e cioè di discontinuità rispetto all’ambiente abituale, nelsenso di Foucault (1967, pag. 46-49). Vedi Violi 2014, pag. 113.35 “La negazione dello sguardo in questi spazi espositivi pre-moderni evoca una formadi reclusione nella quale il potere deriva dal celare gli oggetti di valore in una strutturamonumentale. Lo stato Ottomano era capace di sottrarre gli oggetti allo sguardo delpubblico mentre nello stesso tempo li conservava nella memoria pubblica attraversol’uso di un monumento più importante come loro ‘prigione’. La ex chiesa di Hagia

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Irene si trovava nei terreni del palazzo [Topkapi (N.d.A.)], il che voleva affermareche essa era proprietà dello stato Ottomano, ma era situata nel primo cortile, nel qualenessuno era autorizzato a entrare. Le persone che entravano in questo cortile potevanovedere la ex chiesa e ricordarla perciò insieme con le reliquie che conteneva, segni dellaconquista. Così il governo Ottomano esibiva con successo il suo potere senza ricorrerealla sua esposizione. Questa tecnica ha presupposti straordinariamente simili a quellidelle teorie del controllo sociale che stanno alla base dello sviluppo della prigione mo-derna, secondo cui coloro che sono all’esterno potrebbero vedere la prigione come unmonumento al potere del governo di incarcerare, ma non sarebbero a conoscenza dellapunizione che ha luogo all’interno” (Wendy Shaw 2003, pag. 35).36 Il nome “ecomuseo” è apparso in Francia nel 1971, parallelamente alla crea-zione del ministero per l’ambiente e alla nascita dei parchi nazionali regionali,come strumento di conoscenza dello spazio e del “progetto di vita” di una po-polazione (Poulot 2016, pag. 137). Il nome “musée de societé” è stato creato sem-pre in Francia nel 1991 dalla Direction des Musées de France per raggruppareuna molteplicità di musei, musei di etnologia, di arti e tradizioni popolari, tec-nici e industriali, di storia, musei di sito e open air, della marineria, che condi-vidono un’attenzione a storie e situazioni locali e sollecitano la partecipazionedelle comunità locali. Ciò rende evidente che la nascita di questi musei “dalbasso” ha seguito i cambiamenti delle politiche statali. In Italia, in anni recentigli ecomusei sono stati oggetto di organizzazione normativa legata ai finanzia-menti da parte dei governi regionali, in modo specifico in Piemonte e in Lom-bardia. Il che rappresenta un’evidente appropriazione di libere strutturemuseali o submuseali da parte del potere politico.37 Attorno allo scheletro completo di Tyrannosaurus rex montato al centro di unanuova esposizione, il Field Museum orchestrò una vasta e aggressiva campagnadi marketing che iniziò con l’affibbiare allo scheletro il nome proprio femminile“Sue”, per renderlo più familiare, più simpatico, meno terrificante e quindi più“vendibile” al grande pubblico. Una procedura questa che fu poi seguita damolti altri musei che battezzarono con nomi propri scheletri fossili, animali im-pagliati e così via. 38 Krzysztof Pomian (1987) ha definito la collezione come un “insieme di oggettinaturali o artificiali, mantenuti temporaneamente o definitivamente al di fuori del cir-cuito di attività economiche, sottomessi a una particolare protezione in un luogo chiuso,attrezzato a questo scopo, e esposti allo sguardo”. In questa definizione – continuaPomian – sono contenuti due aspetti della collezione che conducono a un pa-radosso: e cioè da un lato gli oggetti che costituiscono la collezione, ivi com-prese le collezioni dei musei, hanno un alto valore venale, e sono perciòsottomessi a una protezione speciale, dall’altro questi oggetti sono mantenutial di fuori del circuito delle attività economiche, vale a dire che essi hanno persoil loro valore d’uso. Il paradosso – dice Pomian – è dunque il seguente: le col-lezioni “hanno un valore di scambio senza avere un valore d’uso”. Mentre le colle-zioni non hanno un valore d’uso, perché gli oggetti che le compongonoperdono questo valore nel momento stesso in cui entrano a far parte di una col-lezione, da che cosa deriva invece il loro valore di scambio, perché gli oggettiche le compongono sono ritenuti così preziosi? Pomian risolve questo para-

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dosso sostenendo che il valore di scambio degli oggetti delle collezioni è costi-tuito dal significato di cui essi sono caricati, un significato che permette loro digiocare il ruolo di “semiofori” e cioè “il ruolo di mediatori fra gli spettatori e unmondo invisibile”. Ciò significa, in altre parole, che il valore delle collezioni de-riverebbe dal fatto che esse rappresentano mondi inesistenti nel momento e nelluogo in cui sono ammirate, e hanno la capacità di mettere in comunicazione ilmondo reale, che ha un suo spazio e un suo tempo, con il mondo da cui pro-vengono o che rappresentano, che ha uno spazio e un tempo diversi, ed è perciòinvisibile nel mondo reale. Per fare un esempio, se un vecchio battello da pescaviene trasportato in un museo o posto in una collezione di vecchi battelli, essonon serve più per ciò per cui era stato costruito e cioè per trascinare reti dapesca, esso perde cioè il suo valore d’uso. Il vecchio battello da pesca traspor-tato nel museo acquista tuttavia un valore di scambio che è diverso dal valored’uso originario, poiché esso non deriva più dall’uso che del battello vienefatto, ma dal fatto che esso costituisce agli occhi dei visitatori del museo la rap-presentazione di un’attività, o se si preferisce di una cultura, che non esiste piùo che può ancora esistere, ma in un luogo diverso da quello in cui l’oggetto èora situato (Pinna 1997). È interessante ricordare che la distinzione fra valored’uso e valore di scambio fu già discussa da Adam Smith (1776).39 Marc-Alain Maure (1984, pag. 86-87) fa una storia del concetto di identità legatoal museo, dal Rinascimento al XIX secolo.40 Rekihaku è un istituto di ricerca interuniversitario che ha il fine di promuoveregli studi sulla storia e sulla cultura giapponesi.41 Questo è il compito assegnato allo Showa-kan aperto, sempre a Tokyo, nel 1999.42 International Journal of Heritage Studies, 7(4), 2001.43 Traité de Pothier, De la Communauté, in Babelon e Chastel (2008, pag. 50).44 Nell’amministrazione francese del patrimonio classer ha un valore simile a quellodella notifica nell’amministrazione italiana.45 Si veda il testo di Sylvestre J.-P., riportato in bibliografia. 46 “La continuità della cultura nel passaggio da una civiltà a un’altra, come nell’internodella cultura stessa, è condizionata dall’arte più che da qualsiasi altra cosa. Troia vive pernoi solamente nella poesia e negli oggetti che sono stati recuperati dalle sue rovine. La civiltàminoica consiste oggi nei suoi prodotti artistici. Gli dei pagani e i riti pagani sono passati etramontati e tuttavia durano nell’incenso, nelle luci, nei paramenti e nelle festività attuali.Se i caratteri, ideati presumibilmente allo scopo di facilitare le relazioni commerciali, non sifossero sviluppati e trasformati in letteratura, essi sarebbero ancora attrezzatura tecnica enoi stessi potremmo vivere in mezzo a una cultura a stento più elevata di quella dei nostriselvaggi antenati. Se non fosse per il rito e la cerimonia, la pantomima e la danza, e il drammache si sviluppò da essi, se non fosse stato per la danza, il canto e la musica strumentale d’ac-compagnamento, per gli utensili e gli articoli della vita di tutti i giorni, formati sui modellie impressi con i simboli della vita della comunità affini a quelli manifestati nelle altre arti,gli avvenimenti del lontano passato sarebbero ora immersi nell’oblio”(Dewey 1934).47 Critique du concept de patrimonine culturel et de son histoire, Conferenza tenuta alleUniversità di Losanna e di Ginevra nel 2003.48 “Quando tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia, dopo aver sistemato le cose in questeprovince con grande successo […], il Senato decretò che per il mio ritorno fosse dedicata nel

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Campo Marzio un’ara della Pace Augusta, e stabilì che in essa i magistrati, i sacerdoti e levestali offrissero ogni anno un sacrificio” (Res Gestae, cap. 12).49 “Il significato di un oggetto – ha scritto (2003, pag. 154) – è determinato dai caratteridell’oggetto stesso. Ma questi caratteri non lo determinano in modo univoco. Si limitanopiuttosto a delimitare un campo di possibilità, un insieme di significati virtuali, i contornidi un’area vuota che la storia si incarica di riempire. Giacché l’oggetto riceve un significatounivoco e socialmente codificato grazie al gioco delle sei variabili che abbiamo enumerato[cambiamento del luogo sociale, della vicinanza di altro oggetti, del contesto ver-bale, del modo di esporre, del pubblico, del comportamento di quest’ultimo difronte all’oggetto, pag. 153]. E la sua storia è quella dei significati successivi di cui si trovaa essere perciò investito. […] Ora, la storia dei significati è quella degli scambi nei quali l’og-getto gioca il ruolo di particella che, saltando da un individuo a un altro, mantiene il legamifra i due. Quando un oggetto cessa di partecipare a uno scambio, quando, in altre parole,perde ogni significato e, eventualmente, anche ogni utilità, diviene uno scarto. Per contro,per tutto il tempo che rimane un elemento di una collezione, esso è anche portatore di un si-gnificato, è un semioforo”.50 Chiamo contenuto del museo l’insieme degli oggetti che fanno parte del patrimoniocomplessivo di un museo, che siano o no esposti al pubblico, in alternativa al ter-mine collezione che si riferisce il più delle volte – con l’eccezione cioè dei museimono-collezione – a una sola parte di un museo, e non alla sua totalità. La collezione,poiché parziale rispetto al contenuto globale del museo, ha una sua identità che puòessere diversa dall’identità complessiva del museo. Il contenuto del museo è un in-sieme di realtà fisiche, gli oggetti con la loro dimensione materiale, e di immaginisimboliche, che la società e i singoli individui attribuiscono a questi oggetti, indi-pendentemente dal loro valore intrinseco. In un museo, questi due aspetti materialee immateriale del contenuto non sono scindibili, nel senso che un oggetto assumel’identità di oggetto museale (o musealium) solo grazie all’unione della sua materia-lità con la sua significazione. 51 “L’aura di un’istituzione è un dato storico difficile da spiegare e da capire poiché sifonda poco sui fatti e molto sui discorsi. Discorsi nei quali è importante tutto quelloche concerne il giudizio di valore, come l’immaginario sociale e individuale. Tenerneconto è tuttavia indispensabile quando si fa la storia di un’istituzione quale il museo,che trova il suo pieno significato nell’affermazione del suo “valore”” (Luc Alary 1995,in Bastoen 2009, pag. 185). 52 Secondo la prassi semiotica (che riprendo da Edwina Taborsky 1990, pag. 58e segg.) sono possibili due sistemi conoscitivi, attraverso cui un individuo puògiungere alla comprensione/creazione del significato di un oggetto: (1) il sistemadiscorsivo, che sostiene che l’oggetto in quanto tale non esprime alcun significato,“non esiste per se stesso come segno o unità significativa”, ma assume un significatosolo attraverso una interazione diretta attraverso l’individuo, per esempio at-traverso l’uso che l’individuo fa dell’oggetto per la funzione cui è destinato (laTaborsky porta come esempio l’uso di un martello), ciò significa che l’oggettonon ha nessun significato al di fuori del suo uso; (2) il sistema basato sull’osserva-zione sostiene invece che l’individuo e l’oggetto siano realtà autonome ciascunacon la propria identità. In questo caso il significato dell’oggetto (il suo essere unsegno) esiste solo nell’oggetto indipendentemente da un’interazione interpre-

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tativa da parte di un eventuale osservatore. I due sistemi si concretizzano in duemodelli di trasmissione di conoscenza. Il modello basato sull’osservazione ponegrande importanza alla capacità del mezzo di comunicazione di traferire all’os-servatore il contenuto socio-culturale accumulato nell’oggetto, senza interfe-renze. Esso implica (1) un oggetto statico, completo dei dati del suo contenuto,(2) un osservatore dello stesso format, (3) un chiaro percorso comunicativo, unmezzo di comunicazione (visione, suono, tatto, sapore, odore) attraverso cui idati possono passare senza interferenze dall’oggetto all’osservatore. Un museoche usi questo modello – scrive la Taborsky – dovrebbe avere un curatore cheraccolga tutti i dati circa l’oggetto, e li visualizzi in un qualche canale di comu-nicazione cosicché l’osservatore del museo li riceva esattamente come sono pre-sentati. Il modello discorsivo presuppone che oggetto e osservatore non esistonocome unità materiali indipendenti ma solo nell’ambito di un’interazione reci-proca, vale a dire che oggetto e osservatore esistono solo in relazione l’uno conl’altro; esso stabilisce che il contenuto socio-culturale di un oggetto può esserecompreso solo quando si realizza una relazione fra l’osservatore e l’oggetto, enon presuppone un canale di comunicazione. Nel caso di questo modello il si-gnificato socio-culturale dell’oggetto non è mediato dal museo ma è un’attribu-zione dipendente dell’osservatore, con il risultato che questi può attribuireall’oggetto un proprio significato, diverso dal significato originario dell’oggettostesso. Mentre il modello cognitivo basato sull’osservazione presuppone che ilmuseo sveli il significato dell’oggetto all’osservatore, il modello discorsivo pre-suppone che l’oggetto “parli da solo” svelando la propria natura a un osserva-tore che la riceverà mediata solo dal proprio contesto culturale. Mentre lamaggior parte dei musei adotta il modello basato sull’osservazione, non pochisono i musei che adottano il modello discorsivo presupponendo che gli oggettisiano in grado di parlare per se stessi senza alcuna mediazione. Ho chiamatoquesti ultimi “musei estetici” mentre ho definito “musei narrativi” quelli cheadottano il modello basato sull’osservazione. 53 “Il museo del passato deve essere messo da parte, ricostruito, trasformato da un ci-mitero di bric-à-brac in una nursery per idee vive. Il museo del futuro deve stare ac-canto alla biblioteca e al laboratorio, come parte dell’apparato di insegnamento delcollege e dell’università, e nelle grandi città deve cooperare con la biblioteca pubblicacome uno dei principali agenti per l’istruzione del popolo […], in questo paese demo-cratico esso dovrebbe essere adatto alle necessità dell’artigiano, dell’operaio, del brac-ciante, del venditore, e dell’impiegato [...]. Il museo dovrebbe essere molto più che unacasa piena di esemplari in vetrina. Dovrebbe essere una casa piena di idee, organizzatecon scrupolosa attenzione al metodo” (Goode 1889).54 Jakobson spiega in che modo lavori un’epistemologia basata sugli oggetti,immaginando uno schema con un asse verticale (metaforico) e un asse orizzon-tale (metonimico): i messaggi sono costruiti da una combinazione di un movi-mento orizzontale, che combina insieme le parole, e un movimento verticale,che seleziona le particolari parole dal complesso disponibile del magazzino in-terno del linguaggio. 55 In esso l’autore si interroga su “come il passato ci arricchisce e ci impoverisce in egualmisura, e sulle ragioni per le quali lo abbracciamo o lo evitiamo [...]; su come i nostri ricordi

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e le nostre condizioni ambientali ci rendono consapevoli del passato, e su come rispondiamoa questa consapevolezza […]; sul perché e sul come cambiamo ciò che ci è pervenuto, fino ache punto le sue vestigia, come le nostre memorie, sono recuperate o inventate, e su comequeste alterazioni influenzano il nostro patrimonio e noi stessi”, ed è giunto a concludereche “i passati che alteriamo o inventiamo sono predominanti e importanti come quelli checerchiamo di conservare”.56 I due volumi sono stati pubblicati in italiano non integralmente nel 1995.57 Il dibattito sulla criticità delle interpretazioni e sul ruolo non imparziale deimusei è accelerato notevolmente nel corso dagli anni Novanta e della primadecade del 2000 grazie a un numero sempre crescente di studi. Fra essi i lavoridi Lumley (1988), Vergo (1989), Weil (1990, 1995), Ames (1992), Hooper-Gre-enhill (1992, 2000), Findlen (1994), Kaplan (1994), McClellan (1994), Sherman eRogoff (1994) Bennet (1995), Duncan (1995), MacDonald e Fyfe (1996), Barringere Flynn (1998) Conn (1998), Yanni (1999), Black (2000), Asma (2001), Kreps(2003), Peers e Brown (2003), Anderson (2004), Bennet (2004), Karp et al. (2006),Levin (2007), Ostow (2008), Fromm, Golding e Rekdal (2014). 58 Cahiers d’étude dell’ICOFOM (2000), dedicato ai rapporti fra politica e musei distoria contemporanea.59 “Il nazionalismo culturale che è basato sulla definizione della nazione-come-cultura diHerder, si riferisce alla assunta o innata affiliazione alla collettività e non ha nulla a che farecon la libera volontà, il che significa che la libera volontà è realizzata esclusivamente all’in-terno di una data cornice di affiliazione alla cultura-come-nazione. L’educazione, come imusei (in quanto parte del progetto di insegnamento della cultura) erano interpretati comeuna parte del processo di ‘umanizzazione’, per creare le precondizioni per una vita miglioree più completa, mentre la cultura politica significava partecipazione attiva alla vita pubblica.Questa era la ragione del perché in Germania, come anche nei paesi dell’Europa Centrale eOrientale formatisi sotto la forte influenza del romanticismo tedesco e dei suoi concetti dinazione e di stato-nazione, vi era la forte convinzione che la cultura e la politica fossero com-pletamente separate. Ciò inoltre elimina la questione di responsabilità sociale per ogni tipodi lavoro nel campo culturale (e perciò nei musei), poiché la responsabilità deriva da decisioniindotte dalla libera volontà, che sono collegate con la partecipazione politica alla vita pubblica.La cultura non è politica, e la libera volontà esiste solo nella cornice di affiliazione con la na-zione. Perciò l’azione culturale non è compatibile con la responsabilità dell’azione politica”.(Gavrilović 2008, pag. 39-40). 60 Per esempio i volumi di Cuno (2004, 2008, 2009, 2011), di Merryman (2006, 2009);gli articoli del direttore del Metropolitan Philippe de Montebello e di due successividirettori del British Museum (David Wilson e Neil MacGregor.61 Barringer e Flynn 1998; Greenfield 2007; Vrdoljak 2008; Waxman 2008; Hitchens2009; Felch e Frammolino 2011; e i numerosi articoli di George Ambugu e di KwameOpoku. 62 Costoro sembrano presupporre che una collezione (esposta o non esposta alpubblico) sia un museo solo per essere un raggruppamento di oggetti, o checol tempo una collezione diventi inevitabilmente un museo, cosa possibile manon ineluttabile. Mottola Molfino scrive: “sembra che la forma museo sia congenitaall’uomo europeo, che il bisogno di raccogliere le cose preziose per la propria memoria,e collocarle in un luogo adatto, sia stata da sempre una necessità. Un dialogo tra vita

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e morte: strappare gli oggetti alla morte (cioè alle loro scomparsa o dispersione); tesau-rizzarli per testimoniare di sé; dare nuova vita a questi oggetti riparando alle fantasiedi antiche distruzioni e danneggiamenti, e poi sacralizzare il luogo dove essi si conser-vano: farne il ‘luogo delle Muse’, cioè delle arti, delle virtù intellettuali e civili. Così ilmouseion diventa un monumento; nel senso etimologico del termine di uno strumentodella memoria. Luogo mitico in quanto luogo della ricreazione, ma anche di negazione,della storia” (1992, pag. 9-10).63 “Se guardi le mie schede – ha scritto la Nicolau (1996, pag. 21) – ti accorgi cheuno pretende che il primo museo sia il Mouseion di Alessandria (III a.C.), un altro cheil primo museo sia il tempio di Shôshoin [Shōsō-in, Casa del Tesoro (N.d.A.)] inGiappone (756 d.C.), un altro ancora che il primo museo sia quello di Papa Sisto IV inCampidoglio (1471). Altre schede fanno risalire il primo museo alle piramidi, ai templi.La confusione è grande. Quelli che scrivono la storia dei musei non hanno il dono delladifferenziazione e mescolano tesori, collezioni e musei. L’etnologia cita uccelli e animaliche ‘collezionano’ per istinto, come la gazza, il corvo e l’ermellino; già all’età dellapietra raggruppamenti di oggetti documentano il gusto del possesso, niente a che farecon i futuri tesori, collezioni e, ancor meno, con i musei. L’inventario delle tombe, qual-siasi sia la loro epoca e la loro forma, è da interpretarsi nella logica delle credenze fu-nerarie, il defunto nell’altro mondo ‘ha bisogno’ di raccolte di oggetti. Di nuovo nullaa che fare con il mio soggetto. I tesori sono sempre in relazione con un potere religiosoo principesco. Presi singolarmente gli oggetti di un tesoro non sono semiofori. La vo-cazione dei tesori è di restare per la maggior parte nascosti, occasionalmente sono uti-lizzati negli atti di parata, e partecipano così allo sfoggio del potere e della ricchezza. Itesori delle chiese e dei monasteri erano visitati dai pellegrini e da alcuni privilegiati.Questo non vuol dire niente. Se Aladino avesse mostrato il suo tesoro a qualcuno sa-rebbe forse divenuto un museo?” (Nicolau 1996, pag. 21). 64 “La chiesa ha avuto dal periodo romanico in poi il compito di custodire, rendendolopubblico, cioè esponendolo, tutto ciò che la comunità circostante riteneva degno di es-sere conservato […]. Oltre agli oggetti di culto e alla suppellettile liturgica si raccol-gono meraviglie della natura, ossa gigantesche, uova di struzzo, animali esotici,oggetti archeologici reinventati in un nuovo orizzonte di riferimento […] o altri re-perti antichi reinventati simbolicamente come testimonianze di episodi di sacre scrit-ture, vasi che divengono idrie delle Nozze di Cana, una pietra granitica come reliquiadella colonna della Flagellazione di Cristo” (Lugli 1992, pag. 36; vedi anche Lugli1983, pag. 11-36).65 I tesori delle chiese erano esposti malvolentieri e solo in alcune occasioni. Panofsky(2013 pa.171) attribuisce la nascita della natura morta alla necessità di mostrare sottoforma di rappresentazioni oggetti reali troppo deperibili, troppo pericolosi o troppopreziosi per essere esposti in originale e cita a questo riguardo gli oggetti liturgiciche Taddeo Gaddi dipinse nella Cappella Boroncelli in Santa Croce a Firenze nelterzo decennio del Trecento. 66 “Si noterà che i corni di liocorno sono spariti e che il significato d’insieme è cambiato:l’accento è ora sulla Repubblica simbolizzata dal Corno Dogale […] e sulla sua storiacui rinviano la maggior parte degli oggetti esposti; così fra le corone, si trovano quelledei reami perduti di Cipro e di Candia, le due immagini sacre sono il dono di un papae di un patriarca, i rubini vengono da Giovanni Paleologo, i candelabri dal cardinale

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Zeno, i diamanti da Enrico III, Re di Francia, e dal Duca di Firenze, lo stocco è statodonato dal Papa Alessandro VIII a Francesco Morosini, difensore del Peloponneso”(Pomian 2003, pag. 32 e seguenti).67 “A partire dal XVI secolo, fino alla fine della Repubblica, la sala d’armi diviene in gradocrescente, pur conservando un legame con l’Arsenale, un luogo ove sono esposte le armi e learmature d’apparato, i busti, le statue, i quadri, icone e arazzi, curiosità naturali, i trofeipresi ai Turchi. Un posto importante occupano le statue dei grandi uomini della Repubblica,soprattutto i condottieri vittoriosi o eroici, come Sebastiano Venier, Marco Antonio Braga-din, Francesco Morosini, le cui gesta sono celebrate con iscrizioni; se ne conservano anchele reliquie, come per esempio lo scudo, la corazza, l’elmo e la spada del doge Sebastiano Ziani,e le armature degli altri dogi. Molti oggetti sono doni di sovrani stranieri [...]” (Pomian2003, pag. 32).68 “In tutte le regge si trovavano giardini e orti per la ricreazione dell’Inca. Vi si pian-tava ogni sorta d’alberi belli e appariscenti, aiuole di fiori, nonché piante odorose e ag-graziate, quante ve ne fossero nel regno, contraffatte d’oro e d’argento, grandi e piccoleal naturale, con tutte le loro foglie, fiori, frutti: questi che cominciavano a sbocciare,quelli maturi a mezzo, altri ancora del tutto [...]. V’erano anche animali grandi e pic-coli, del pari fusi in oro e argento, come conigli, topi, lucertole, serpi, farfalle, volpi,gatti di montagna, ché non ne avevano di domestici [...]. V’erano uccelli d’ogni sorta[...] cervi e daini, leoni e tigri [puma e giaguari (N.d.A.)]  e tutti gli animali terrestie volatili che la terra ospitava”.69 Per un approfondimento sui “musei” del VII-I sec. si veda Caruso (2016).70 Nella voce “musée” dell’Encyclopédie, dopo un’introduzione sul museo d’Alessan-dria, si legge che “la parola museo ha avuto da allora un senso più esteso, e oggi si applicaa tutti i luoghi in cui sono racchiuse cose che hanno un rapporto immediato con le arti e lemuse”, e si fra riferimento al “museo di Oxford, chiamato musée ashmoléen”. Nel 1739,l’enciclopedia Grosses vollständiges Universal-Lexicon Aller Wissenschafften und Künstedell’editore di Lipsia Johann Heinich Zedler (l’unica grande enciclopedia in linguatedesca del XVIII secolo) suggerì l’idea che il nome “museo” derivasse dalle Muse,e dovesse indicare un tempio in cui queste fossero venerate e nel quale si conser-vassero rarità e antichità.71 Secondo Panofsky (2013), il nome “museo” era attribuito alle forme museali svi-luppatesi nell’Europa post-medioevale come frutto della riscoperta liberatoria dellacultura e dell’arte classica. 72 Dice Bazin (2018, pag. 72) che il cabinet era originariamente un piccolo mobile incui si conservavano carte, piccoli oggetti e gioielli, e che solo a partire dal XVI secolocon questa parola si indicarono sale di piccole dimensioni destinate a conservarecollezioni di oggetti, divenendo perciò sinonimo della parola tedesca Kammer.73 “And so you may have in small compass a model of the universal nature made private”,in Gesta Grayorum, 1594 (in Impey e MacGregor 1985).74 La Hooper-Greenhill ricorda (2005, pag. 120), riprendendo un articolo di Bernhei-mer del 1956, che “se nel Rinascimento il termine ‘teatro’ è generalmente riferito a una‘compilazione’ o ‘compendio’, nel Medioevo, tra vari altri significati, esso indica anche unluogo di riunione o un mercato dove le mercanzie vengono esposte e ordinate per tipologia.Secondo un’altra accezione, parimenti antica, il ‘theatrum’ equivale all’esposizione completadi una determinata tipologia di esemplari”.

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75 “Supponi – dice Socrate a Teeteto – che vi sia nelle nostre anime un blocco di cera, piùgrande in un individuo, più piccolo in un altro, di una cera più pura nell’uno, più impurae più dura nell’altro, più molle in qualcuno, e in altri in una condizione perfetta. […] Di-ciamo ora che si tratta di un regalo di Mnemosine madre delle muse, e che tutte le volte chevogliamo ricordare qualche cosa che abbiamo visto o sentito, o conosciuto personalmente, suquesto blocco vengono impresse le nostre sensazioni e i nostri pensieri, come si stampa il si-gillo di un anello; noi ricordiamo e conosciamo quello che viene impresso in tal modo fino aquando la sua immagine resta nella cera, mentre dimentichiamo o non conosciamo quantoche vi è stato cancellato o è stato impossibile imprimere”.76 Molto è stato scritto sulla storia, sull’organizzazione e sul significato dei cabinetde curiosités, degli studioli e delle Wunderkammern. Fra gli scritti più significativi quellidi David Murray (1904), Julius von Schlosser (1908) ed. it. 2000), Adalgisa Lugli(1983), Oliver Impey e Arthur MacGregor (1985), Krzysztof Pomian (1987, 2003),Giuseppe Olmi (1992), Paula Findlen (1994), Susan Pearce (1995) e Eilean Hooper-Greenhil (1992, ed. it. 2005).77 “Nel XVI secolo si formano [...] collezioni che hanno i loro caratteri più salienti, da unaparte, nella commistione di antichità, oggetti naturali e produzioni artistiche contemporanee,e dall’altra, nella presenza, spesso assai nutrita, di rarità, singolarità, meraviglie, mostri eprodigi, cose eccezionali e straordinarie. [...] Queste Kunst- und Wunderkammern […] sonol’espressione di una curiosità enciclopedica che mira ad aprire allo sguardo la Creazionetutta, a proiettare il macrocosmo nel microcosmo, a rinchiudere l’universo intero nello spaziodi uno studiolo costruito ed ancor più decorato proprio a questo scopo” (Pomian 2003/2004,pag. 301).78 “Costretto ad ammettere l’impossibilità o la difficoltà, di poter riassumere in sé tutto l’uni-verso, di essere dunque, per sua stessa natura, microcosmo, l’uomo del tardo Rinascimentotenta di ricostruire artificialmente, con la collezione, un mondo più facilmente dominabile eintellegibile” (Olmi 1992, pag. 263).79 Questi sistemi, prodotti sino alla fine del Cinquecento (De Umbris idearum diGiordano Bruno è del 1582 e l’Ars reminiscendi di Giovanni Battista Della Portaè del 1602) erano ormai utili solo per ricostruzioni di memorie ermetiche, inquanto ormai soppiantati dalla diffusione della stampa che permetteva di con-servare su carta intere memorie rendendole così disponibili a un pubblico sem-pre più vasto.80 Lo studiolo di Gubbio fu acquistato dai principi Lancellotti verso la fine dell’Ot-tocento e fu venduto da questi ultimi nel 1937, attraverso l’antiquario Adolph Loewidi Venezia, al Metropolitan Museum di New York, ove si trova tutt’ora. Esemplaredelocalizzazione prodotta delle leggi razziali fasciste. 81 Sulla collezione di Isabella d’Este si veda De Benedictis (2015, pag. 39-45). Unabreve descrizione dello studiolo si trova in Fiorio (2011, pag. 14-15).82 Del Teatro di Camillo, Francis Yates (1972, pag. 121-147) fornisce una detta-gliata, ma solo probabile, descrizione, che è così sunteggiata da Hooper-Gre-enhill (2005, pag. 120, 121): “il teatro consisteva in un edificio abbastanza ampio daconsentire l’accesso a due persone per volta; si trattava di un’opera ‘in legno, segnatacon molte immagini e gremita, in ogni parte, di piccole cassette’ (Yates 1972, pag. 122)[...]. Il teatro era probabilmente semicircolare e si sviluppava su sette livelli o gradi,divisi da sette corsie che rappresentavano i sette pianeti. Ai diversi livelli si accedeva

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attraverso sette porte […] In seno a tali ripartizioni era inscritta l’intera cosmologiain immagini decorate, cui si aggiungevano in gran numero cassette e stipetti. Dallepareti pendevano cartigli con testi esplicativi […] lo spettatore stava nel posto in cuiin un teatro normale si trova il palcoscenico, e il suo sguardo poteva volgersi all’intornosu quella vasta macchina della memoria (Yates 1972, pag. 127), nella quale era dispie-gata la struttura del mondo quale appariva alla gran parte dei pensatori del tempo: unmondo ordinato, razionale, stratificato. Ogni livello o ripiano era assimilato a un livellodel disegno divino”. Al Teatro di Camillo gli storici della museologia hanno datogrande enfasi poiché sembra rappresentasse, come scrive Yates, “la trasforma-zione di un sistema mnemotecnico in una realtà fisica che sfocerà nel museo, il sistemamnemonico più grande e completo che l’umanità occidentale abbia inventato e che rendeinutile da oggi in poi fare riferimento alla memoria, evitare lo sforzo inventivo dellamemoria, per ricordare questa o quella organizzazione della natura o ricostruzione delpassato, poiché il museo è sfogliabile continuamente esattamente come un libro, ma di-versamente dal libro è ricomponibile ogni qual volta lo si voglia, dando così all’orga-nizzazione del mondo forme cosmiche anch’esse soggettive, grazie alla mobilità deglioggetti che possono essere sistemati e risistemati a piacimento secondo la percezionesoggettiva del mondo”. 83 Fondamentalmente neoplatonici furono il museo di Athanasius Kircher al Colle-gio Romano, al cui ordinamento soprintendeva l’interesse “a cogliere il legame checollega le cose superiori alle inferiori, il cielo agli animali, alle piante, alle pietre” (Pastine1978, in Olmi 1992, pag. 299), e i trattati di Adam Olearius e di Christian DanielMajor sulle Kunst- und Wunderkammern, rispettivamente del 1666 e del 1674, checonsideravano la natura come un libro in cui potevano essere lette la grandezza delsignore e le collezioni come rappresentazioni della conoscenza della natura perfe-zionata dall’intelligenza (Pearce 1995, pag. 118). 84 “Dalla sua modesta villa di Careggi, donatagli da Cosimo de’ Medici nel 1462 – scrivePanofsky –, gli insegnamenti di questo gentile ‘Philosophus Platonicus, Theologus et Me-dicus’ come amava definirsi, si diffusero sempre più ampiamente durante gli ultimi due de-cenni della sua vita. Alla sua morte, il movimento da lui iniziato aveva conquistato tuttal’Europa e, cambiando di contenuto a seconda del tempo e del luogo, restò una delle forzedeterminanti della cultura occidentale per parecchi secoli”. Il successo del neoplatonismodi Ficino, continua Panofsky, fu dovuto al fatto che esso aboliva “tutte le barriere chenel Medio Evo avevano tenuto le cose separate l’una dall’altra e che dovevano essere nuova-mente erette […] da Galileo, Cartesio e Newton. […], si sforzava di fondere (e non sempli-cemente di riconciliare) i principi della filosofia platonica e pseudo-platonica con il dogmacristiano […]; e in più si sforzava di provare che tutta la rivelazione è fondamentalmenteuna e – cosa ancor più importante dal punto di vista laico – che la vita dell’universo, comela vita dell’uomo, è controllata e dominata da un continuo “circuito spirituale” (circuituso circuitus spiritualis) che conduce da Dio al mondo e dal mondo a Dio. […] L’universoneo-platonico è un ‘animale divino’, che trae vita e unità da una forza metafisica che ‘emanada Dio, penetra nei Cieli, discende attraverso gli elementi e finisce nella materia’. Il micro-cosmo, l’uomo, è organizzato e funziona secondo gli stessi principi del macrocosmo”.85 “Inscriptiones vel Tituli Theatri amplissimi complectentis rerum universitatis singulasmaterias et imagines eximias, ut idem recte dici possit: prontuarium artificiosarum miracu-losarumque rerum ac omnis rari thesauri et preciosae suppellectilis [...]”.

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86 “Lo schema ordinativo [del Theatrum (N.d.A.)] – scrive la Lugli (1983, pag. 84) – in-clude quella che chiameremmo oggi l’attrezzatura espositiva, questa preoccupazione di re-gistrazione totale conferma la natura molto particolare dell’operetta di Quiccheberg, che è ametà strada tra l’inventario di una collezione esistente (e come tale si preoccupa di non esclu-dere nemmeno la suppellettile funzionale) e il progetto dettagliato, operativo, di un museo.Entrambi gli aspetti sono perfettamente armonizzati nel progetto di collezione, che è progettoreale per una serie di categorie che prendono effettivamente posto, in forma di oggetti o diiscrizioni, nell’ordine immaginario del teatro. Di tutta l’allusività simbolica del teatro diCamillo resta solo la forma, la disposizione esteriore. Le immagini sono diventate oggetti e iloci sono gli armarioli, cistellae, abaculi gradati, le mensae, i gradata pulpita in cui è espostala collezione. Rimane intatta l’istanza di conoscenza universale e sistematica, ma quantoalla organizzazione interna degli oggetti siamo già in presenza di un ordine, che mantienepiuttosto la coesione asindetica dell’elenco che non una struttura per categorie distinte, anchese il museo di Quiccheberg ha già l’assetto della collezione enciclopedica, largamente domi-nata dall’accumulo degli oggetti su un’ossatura metodica che si sta delineando intorno aidue grandi raggruppamenti di naturalia e artificialia”.87 Il trattato di Samuel Quiccheberg è stato ripubblicato nel 2013 dal J. Paul GettyTrust.88 Impey e MacGregor (1985) hanno sottolineato che la commistione di naturalia eartificialia faceva sì che una Wunderkammer avesse molto in comune con una Kun-stkammer, da cui Kunst- und Wunderkammer. Una classificazione più precisa prevedeoltre alla Wunderkammer (camera delle meraviglie soprattutto naturalistiche), la Kun-stkammer (raccolta d’arte), la Schatzkammer (raccolta di opere di oreficeria) e la Rü-stkammer (collezione di armature).89 La collezione di Rodolfo II comprendeva capolavori d’arte, quadri di Tiziano,di Bruegel, di Dürer e dell’Arcimboldo, assieme a oggetti di oreficeria, mostruositàe oggetti che si riteneva avessero poteri magici, come le radici della mandragora,e i bezoar. Saccheggiata durante la guerra dei trent’anni, la collezione finì in partea Vienna, in parte a Monaco, in parte a Dresda e in parte a Stoccolma.90 La consuetudine si è protratta nei secoli successivi. Negli Stati Uniti non fameraviglia che nei musei si celebrino con ricevimenti il potere di donatori, diuomini o partiti politici, di aziende. In Europa questo è ancora tema di dibattito,ma ormai si profila un futuro in cui in tutto il mondo tutti potranno celebrarese stessi in un museo pagando le tariffe stabilite dalle direzioni.91 Si tratta del palazzo fatto edificare dai Medici a metà del Quattrocento in ViaLarga (ora noto come Palazzo Medici Riccardi) che fu saccheggiato dopo la loroespulsione da Firenze nel 1494. I tondi di Luca della Robbia che raffiguravanoi 12 mesi e ornavano la stanza della collezione si trovano oggi al Victoria & Al-bert Museum.92 An Itinerary Containing His Ten Yeeres Travell: Through the Twelve Dominions of Ger-many, Bohmerland, Sweitzerland, Netherland, Denmarke, Poland, Italy, Turky, France,England, Scotland & Irelan, Londra, 1617.93 Il palazzo degli Uffizi era stato fatto costruire di fianco a Palazzo Vecchio daCosimo I per stabilirvi gli uffici amministrativi dello Stato Toscano e lo avevafatto collegare dal Vasari a Palazzo Pitti con una lunga galleria nella quale esposeil Museo Mediceo formato da 280 copie dei ritratti del museo di Paolo Giovio. Fran-

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cesco I, suo successore, sistemò le collezioni nel piano superiore degli Uffiziprima occupato dagli artigiani del museo. Della disposizione delle collezioninegli Uffizi esiste una descrizione del 1600, riportata da Bazin (2018, pag. 66):“Nella loggia di levante si trovavano le antichità e le statue del XV secolo, mentre ilmuseo storico raccoglieva i ritratti della famiglia Medici […], nonché la collezione ’gio-vannina’, formata dalle copie del museum jovianum. La tribuna ospitava i dipinti piùcelebri, le medaglie e le monete greche e latine. In un’altra sala si trovavano gli ‘oggettipreziosi della natura e dell’arte’, nell’attico erano sistemate le armi antiche e moderne,nazionali ed esotiche, gli strumenti di matematica e fisica, di geometria e astronomia”.94 “Le nuove esigenze politiche connesse con la sua successione al trono – scrive Olmi(1985) – portò l’uomo che aveva creato lo studiolo all’inizio degli anni Settanta delCinquecento a smantellarlo nel 1584 e a trasferire molti oggetti agli Uffizi. È statospesso osservato che i particolari dominanti e il complesso simbolismo presenti nellostudiolo furono in larga parte fusi assieme nella Tribuna della Galleria, ma è ancheevidente che in questa nuova collocazione architettonica essi assunsero un nuovo ruoloe soddisfecero a esigenze del tutto diverse. Infatti la tribuna e l’intera galleria rappre-sentavano visivamente il polo opposto dello studiolo segreto, notturno. Tutti gli oggettirari e preziosi, che una volta erano destinati alla contemplazione privata del solo prin-cipe, erano ora alla vista di tutti nella tribuna. La necessità di legittimare il Granducae la sua dinastia esigeva che la glorificazione del principe, la celebrazione delle sue gestae il potere della sua famiglia fossero sempre esposti agli occhi di tutti e impressi conforza nella mente di ogni individuo”. Gli ideali che motivarono lo spostamento el’apertura al pubblico della collezione, scrive Shelton (1994, pag. 186), “non pre-vedono più un modello dell’universo con Dio al suo centro, ma invece la rappresenta-zione della creazione che permettesse al magnifico Signore di rivendicare il suo dominiosul mondo, un mezzo per glorificare e celebrare l’ascendente della famiglia e per legit-timare il suo titolo e la sua posizione”.95 Questa necessità delle collezioni favorì il mercato di antichità (“Roma è pocomeno che spogliata affatto delle cose antiche” scriveva nel 1572 Girolamo Garimbertoa Cesare Gonzaga, in Olmi 1992, pag. 260) e di oggetti naturalistici che garantivala presenza di specie esotiche, come i costosissimi corni di unicorno (che solonella prima metà del XVII secolo si scoprì provenissero dal narvalo) e le sensualie altrettanto costose noci delle Seychelles (ritenute un antidoto contro il veleno).Un altrettanto fiorente mercato di falsi forniva alle collezioni mostri costruiti conparti di animali diversi. A Parigi, racconta MacGregor (1983, in Hooper-Greenhill2005, pag. 164), vi era una bottega “denominata l’Arca di Noè, dove bastava pagareper avere tutte le curiosità possibili e immaginabili, fossero naturali o artificiali, indianeo d’Europa, per lusso proprio o per utilità, comprendenti gabinetti completi, conchiglie,avori, porcellane, pesci essiccati, insetti rari, uccelli, dipinti, e un migliaio di altre stra-vaganze esotiche”. Anche gli stessi collezionisti non esitavano a costruire falsi mo-stri in forma animale, come rileva Maximilien Misson, vol. III, pag. 232) che parladi “un po’ di imbroglio [...] per moltiplicare & diversificare le meraviglie”. In generale– scrive Olmi (1992, pag. 192) – i collezionisti accettavano di stare alle regole delgioco: “poiché lo scopo dei proprietari e dei visitatori era rispettivamente quello di offriree di trovare materia di meraviglia, ogni mezzo serviva allo scopo”. 96 Un’ampia panoramica delle collezioni in De Benedictis 2015.

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97 “Oggi nel mio microcosmo, si possonø vedere il numero di diciottomila cose diversee fra queste 7000 piante in quindici volumi, secche e incollate, parte delle quali ho vistoal vivo dipinte, il numero delle quali śi degli antichi, śi dei moderni ancora al numerodi 3000 non arrivano; il restante, poi, di animali sanguigni ed esangui, śi terrestri comeaerei et acquatili, et altre cose sotteranee, come terre, succi concreti magri e grassi, pie-tre, marmi, sassi, metalli et altri misti che compiscono il su detto numero. Delle qualiho fatto una scelta di 5000 cose naturali, come di piante, animali di varie sorte e pietre,che possono aver figura, le quali da alcuno scrittore non sono stampate, e quello hofatto disegnare in pero, parte delle quali sono intagliate, le quali tutte possono vedersiin quattordici armadi, da me chiamati Pinachoteche. E poi ne sono nel m’è museo […] dove sono 66 cassette, divise in 4500 cassettive dove sono 7000 cose sotterranee conalcuni frutti, gomme et altre cose bellissime dell’Indie, coi nomi loro, acciò facilmentesi possa trovare, de quali tutti e parte si va descrivedo l’historia; il restante, poi, fino a18 mila, veramente esemplari delle specie prodotte dal grande iddio per utilità del-l’uomo, sebene non ho fatto quelle tavole disegnare, mediante la spesa grandissima,non solo si trovon dipinte nel mio museo, ma di ciascuna si fa e si farà l’historia e de-scrizione, di ciascuna dando il mio giudizio di quelli che di quelle hanno scritto, et os-servatione da me fatte intorno a quelle” (Aldrovandi “Trattato naturale dell’utilitàet eccelenza della lettura d’historia naturale, in De Benedictis 2015, pag. 287).98 Quel Galileo che avrebbe disprezzato le Wunderkammern cinque-seicentesche scri-vendo nelle Considerazioni al Tasso, come riporta Paula Findlen (1997, pag. 47) cheentrare in una di esse sarebbe stato come “entrare in uno studietto di qualche omettocurioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano o per antichità o per rarità o peraltro, del pellegrino, ma che però sieno in effetto coselline, avendovi, come saria a dire, ungranchio petrificato, un camaleonte secco, una mosca e un ragno in gelatina in un pezzod’ambra, alcuni di quei fantocci di terra che dicono trovarsi ne i sepolcri antichi in Egitto[…] e simili altre cosette”.99 Shelton (1994, pag. 182) ricorda che “Ludovico Moscardo aveva diviso la sua collezionesecondo i tre grandi gruppi che aveva derivato dalla Historia Naturalis di Plinio il Vecchio:antichità; pietre, minerali e terre; coralli, conchiglie, animali, frutti ecc.”.100 “[...] La centralità è la struttura portante del pensiero cinquecento e seicentesco [...]. Latavola sinottica dei musei è essa stessa riconducibile alla centralità-circolarità. E ciò derivadal fatto che gli oggetti coprono tutt’intorno lo spazio delle pareti laterali e del soffitto [...].Lo sguardo può così muoversi senza interruzioni, sempre rimanendo fisso a quella centralitàprospettica che ordina tutt’intorno i reperti. C’è una sfericità cui evidentemente questo mo-dello microcosmico della collezione vuole alludere, dandosi una forma così perfetta. E si trattadi una sfera congiunta di mille parti, apparentemente diverse, ma ricomposte accuratamente.Un cielo di oggetti appesi o di animali, come un firmamento riempito di figure e di stelle,immagini del caso e ordine del caso [...]. Un cielo pieno di forme che l’occhio estrae dal caos,esattamente come il collezionista enciclopedico, imitatore del mondo, le colloca pazientementesopra di sé. Non c’è un ordine fisso che guida la disposizione dei reperti, o per lo meno nonè quello che ci si potrebbe aspettare, di un cielo come aria, riempito allora di tutto ciò che èpertinente a questo elemento. In realtà in alto vanno a collocarsi in parte i pezzi più ingom-branti, i grandi mammiferi, i pesci, i serpenti e l’immancabile coccodrillo [...]. Non si puònon rilevare quanto questa disposizione ‘alta’ degli oggetti nelle collezioni cinquecenteschee seicentesche aderisca ad una tradizione di cui si riconosce la continuità dalla chiesa medie-

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vale ai riti di magia taumaturgica, che prevedono largamente l’uso della ‘sospensione’ diparti di animali su ammalati, come la pelle di serpente che andrà appesa sull’anca della par-toriente [...] o il dente di coccodrillo che farà passare la febbre se sospeso sull’ammalato”(Lugli 1983, pag. 100-101). 101 “Vi erano ampie gallerie a volta, in relazione con stanze a volta, il pavimento era copertodi marmi intarsiati, il soffitto di pitture allegoriche. La disposizione degli oggetti esposti mo-stra un gusto raffinato, e gradevole a vedersi; gli oggetti più alti e più importanti erano rag-gruppati al centro, come, per esempio, un certo numero di obelischi egiziani, alla cui sommitàerano sistemati gli emblemi della cristianità. Busti e altri oggetti erano sistemati su colonnelungo le pareti, lo spazio fra loro era arredato con scaffali che portavano gli oggetti più piccoli.Dipinti e mappe astronomiche riempivano la parte superiore della parete, e le cose più pesanti,come un coccodrillo, erano sospese al soffitto. Non ultimo, un oggetto importante del museoè un obelisco, costruito in stile egizio, per celebrare il ricordo della conversione della reginaCristina di Svezia, figlia di Gustavo Adolfo, il re più importante della guerra dei trent’anni,la cui conversione è ricordata sull’obelisco in trentatré lingue diverse” (Hagen 1876).102 La controriforma ha avuto effetti deleteri sulla cultura italiana “mentre le nazionidel Nord avanzavano verso le nuove vie del progresso [...] la patria di Leonardo e di Galileo,i cui pittori e scultori, architetti, musicisti, poeti e cantanti popolavano più che mai le cortid’Europa portando ovunque la loro lezione, a partire dal XVII secolo perde il suo ruolo diguida nel campo scientifico, fatta eccezione solamente per alcuni isolati, luminosi esempi.Francesi, Inglesi, Tedeschi, Olandesi e Scandinavi costruiscono la scienza moderna” (vonSchlosser 2000, pag. 94-95)103 Sul museo kircheriano si veda il catalogo della mostra tenuta a Palazzo Veneziaa Roma (28 febbraio - 22 aprile 2000) a cura di Lo Sardo (2001). Su Kircher si vedaFindlen (2004)104 In Inghilterra, fa notare la Swann (2001, pag. 71), una galleria esponeva l’orgogliodinastico e il successo sociale, spesso con oggetti d’arte, sculture e ritratti dei membridella famiglia e leader con cui la famiglia voleva essere identificata, quali regine ere antichi o contemporanei o imperatori romani. 105 “Hoggidi si usano molto a Roma et Genova, ed in altre città d’Italia quel genere di fab-briche che si dicono gallerie; forse per esser state introdotte prima nella Gallia, o Francia pertrattenersi a passeggio i personaggi nelle corti, le proporzioni loro si cavano dalle Logge; masono alquanto meno aperte di esse. Questa sorte di edificio fu parimenti appresso agli antichi[...]. Ancora che in questa città [Venezia] non sia assolutamente l’uso delle gallerie, come inFrancia, in Spagna e altrove, tuttavia da qualche tempo in qua con l’esempio di Roma, oltrealle cose Pubbliche, si sono introdotte nelle case di molti Senatori, e gentiluomini, e personevirtuose il far raccolte e studi di anticaglie, di marmi e bronzi, e medaglie, e altrui bassorilievi,e parimenti di pitture de’ più celebri e diligenti maestri che si siano stati fino all’età nostra”(Scamozzi 1615, in Bazin 2018, pag. 110).106 “Quando si sia raccolta in un luogo una ingente quantità di rarità di ogni tipo, siscelga per la loro sistemazione un posto che per comodità dei venti sia situato a sud-est, che abbia mura ben asciutte, soffitto a volta, buona distribuzione di luce diurna esia inoltre ben protetto da ogni inconveniente. Le pareti e il soffitto non abbiano altradecorazione che una luminosa tinta bianca. Questo museo di rarità da me pensato è inlunghezza due volte più grande che in larghezza, ed è esposto in piena luce, in modoche in esso possano essere apprezzati anche i minimi particolari. L’ingresso è situato

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esattamente nel mezzo e chi entra vede subito da entrambi i lati fino al soffitto reposi-toria in forma di abituali scaffali per libri, i cui ripiani sono posti in modo che quelliinferiori siano più alti, ad esempio un braccio-un braccio e mezzo, e vadano gradata-mente rimpicciolendosi verso l’alto, diminuendo la distanza fra l’uno e l’altro pressap-poco di una spanna per volta. Tali repositoria possono essere quindi contornati conuna graziosa loggetta o arco sul davanti, e dipinti con un colore piacevole ma conve-niente. Si vedono sei diversi repositoria, due da ogni parte della porta, dei quali quattrosono dedicati ai naturalibus ovvero alle rarità naturali. Nel primo in alto si vede ognisorta di quadrupedi e di uccelli, dei quali i più grandi per lo più imbalsamati sono col-locati sugli spaziosi ripiani inferiori, mentre i più piccoli sono collocati a seconda delleloro dimensioni sempre più in alto fino a che sull’ultimo ripiano troviamo gli animaliconservati sotto aceto, anche per maggiore sicurezza. Il tutto riposto in modo da poteressere visto contemporaneamente, col maggior diletto dell’animo e dei sensi. Nel se-condo repositorium si vede ogni sorta di pesci, serpenti, lucertole, ecc., ordinati comenel primo scaffale. Similmente, anche il terzo repositorium, contenente ogni sorta divegetali, minerali e fossili, è ordinato in modo che i pezzi più voluminosi occupino i ri-piani inferiori e i più piccoli proporzionalmente i ripiani superiori fino all’ultimo inalto. Il quarto e ultimo repositorium contiene ogni sorta di creature marine, molluschie conchiglie, ecc., esposte in modo ragionevole ma anche aggraziato, per diletto dellamente e degli occhi. Abbiamo ora da entrambi i lati dell’ambiente uno spazio libero,dove possiamo collocare i rimanenti due scaffali,, l’uno all’inizio della stanza e l’altroalla fine. Nel primo si vedono molti prodotti dell’anatomia, soprattutto umana, comemummie, piccoli bambini imbalsamati parimenti anatomizzati, i cui scheletri, comepure quelli di persone adulte, stanno distesi sui ripiani accanto ad altre parti di uominio animali anatomizzate e trattate con balsami o con particolari vernici. Nell’altro re-positorium, situato alla fine della stanza e dirimpetto a questi, si trovano numerosi cu-riosa artificialia ovvero prodotti dell’artificio umano, per i quali va fatta unafondamentale distinzione tra antichi e moderni, esposti però sia gli uni che gli altri inmodo che si possa chiaramente apprezzare sia la loro arte che la loro funzione. Questoambiente da me pensato ha quattro finestre divise in quattro parti, situate di fronte aiquattro scaffali di cui si è parlato all’inizio, posti dal lato dell’ingresso; conseguente-mente rimane spazio tra le suddette quattro finestre per tre pilastri in muratura. Il me-diano tra questi pilastri viene così a trovarsi proprio di fronte all’ingresso o alla portache dir si voglia. Proprio qui era mia intenzione collocare un armadietto di legno, lac-cato in colore naturale, per farne un cabinet di monete e medaglie. Questo armadiettodovrebbe essere fatto in modo da poter ospitare sopra di sé un altro cabinet più piccolo,pieno di cassettini dove poter conservare le cose più piccole e più preziose, che altrimentipotrebbero perdersi di vista e smarrirsi. In questo secondo armadietto dovrebbe regnareun ben preciso ordine: una parte dovrebbe essere riservata alle rarità naturali, comebezoari, pietra del porco, pietre del ‘testiculo castoris’, lacrime di cervo: e così pure iminerali preziosi come oro, diamanti ecc.; un’altra parte dovrebbe essere dovrebbe esserededicata ai prodotti dell’arte di particolare valore, come anelli con particolari serraturee torri di avorio. A tali oggetti dovrebbe essere riservata rispettivamente la metà delpiccolo cabinet, ed essi dovrebbero essere disposti secondo un ordine prefissato. Le partilaterali di questa parete muraria sono ancora libere: si può occuparle con scaffali appo-sitamente costruiti e ornati che ospitino libri di argomento confacente a musei e raccolte

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di rarità […]. Infine si può collocare nella stanza, sotto gli stipiti delle finestre o nelmezzo, un lungo tavolo piuttosto stretto, dove si possano appoggiare gli oggetti presidagli scaffali per esaminarli o i libri per la consultazione […]. Alle due estremità di ta-volo si possono inoltre collocare due grandi globi, mentre al soffitto si possono appen-dere alcuni animali mostruosi, come un giovane pescecane, un grande coccodrillo, unafoca, serpenti e così via; all’entrata invece si potrebbero collocare due feroci leoni, o dueorsi, oppure due tigri, naturalmente impagliati. Lo spazio rimasto ancora eventual-mente libero tra le finestre e gli armadi può essere occupato e coperto da rari dipinti difamosi Maestri. Questo sarebbe dunque il museo ch’io ho pensato e allestito nella miamente e che m’impegno a realizzare nella realtà in qualsiasi momento” (Neickel, Mu-seographia, in von Schlosser 2000, pag. 95-97). 107 Nel primo volume Valentini ripubblicò l’opera di Johann Daniel Major del 1674,un altro compendio di collezioni con suggerimenti per organizzarle (Schulz 1994).108 Sull’opera di Valentini e di Neickel vedi Schulz (1994, pag. 182-185).109 Su Elias Ashmole vedi Swann 2001, pag. 38-54.110 “Nel museo del signor John Tradescant vi sono le seguenti cose: in primo luogo nelcortile giacciono due costole di una balena, anche un piccolo battello di corteccia moltoingegnoso; poi nel giardino ogni tipo di piante esotiche, che si possono trovare in unpiccolo libro specifico su di esse che il Sig. Tradescant ha fatto stampare. Nel museo sivede una salamandra, un camaleonte, un pellicano, una remora, un lanhado africano,una pernice bianca, un’oca che è cresciuta in Scozia su un albero, uno scoiattolo vo-lante, un altro scoiattolo simile a un pesce, ogni tipo di uccelli indiani colorati, un buonnumero di cose mutate in pietra, fra le altre un pezzo di carne umana su una pietra,zucche, olive, un pezzo di legno, una testa di scimmia, un formaggio, ecc; tutti i tipi diconchiglie, la mano di una sirena, la mano di una mummia, una mano di cera moltonaturale sotto vetro, ogni tipo di pietre preziose, monete, un quadro fatto con penne,un piccolo pezzo di legno della croce di Cristo, ritratti in prospettiva di Enrico IV e diLuigi XIII di Francia, raffigurati, al naturale, su uno specchio di acciaio levigato si-stemato verso il centro del quadro, una piccola scatola in cui si vede un paesaggio inprospettiva, immagini dalla chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli copiate in un libroda un ebreo, due trofei di rinoceronte, un trofeo di un alcedo indiano una sorta di uni-corno, molte scarpe e stivali turchi e di altri paesi stranieri, un pappagallo di mare,una rana pescatrice, un zoccolo di alce con tre unghie, un pipistrello grande come unpiccione, un osso umano del peso di 42 libbre, frecce indiane come quelle che sono usatedai carnefici nelle Indie Occidentali – quando un uomo è condannato a morte, gli vieneaperto il dorso con esse e muore di questo, uno strumento usato dagli ebrei nella cir-concisione, alcuni leggerissimi legni africani, il mantello del Re della Virginia, pochibicchieri d’agata, una cintura come quella che i turchi portano a Gerusalemme, la pas-sione di Cristo incisa con molta raffinatezza in un pietra lavorata, una grande pietramagnetica, un San Francesco in cera sotto vetro, come anche un San Girolamo, il PaterNoster di Papa Gregorio XV, pipe delle Indie Orientali e Occidentali, una pietra trovatain acqua nelle Indie Occidentali, sulla quale sono incisi Gesù, Maria e Giuseppe, unbel dono del Duca di Buckingham, d’oro e di diamanti fissati una penna grazie allaquale i quattro elementi risaltano, il MS del de natura hominis di Isidoro [il bestiariodi Ashmole, MS Ashmole 1511 ora nella Biblioteca Bodleiana dell’Universitàdi Oxford (N.d.A.)], una sferza con cui si dice che Carlo V si flagellasse, una banda

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di cappello di ossa di serpente” (Dal diario di viaggio di Georg Christoph Stirn,1638). Sulla collezione Tradescant si veda Swann (2001, pag. 27-38)111 In alcuni pannelli esposti all’inizio delle gallerie del Museo di Storia Naturaledi Ginevra si legge: “Nel 1816, il ritorno di A.P. de Candolle [il botanico AugustinPyramus de Candolle] dopo un lungo soggiorno a Parigi, la creazione di una veracattedra di storia naturale e di un nuovo giardino botanico annunciano un svilupposenza precedenti delle scienze naturali a Ginevra. Questo contesto spinge il Senato Ac-cademico a far funzionare il Museo che già esisteva teoricamente dal 1810-11. Nel lu-glio 1818, l’amministrazione è trasferita a un Consiglio composto di professori chiamatia tenere dei corsi. Le collezioni sono trasportate al palazzo dell’ex governatore franceseal palazzo in Grand-Rue al numero 11, di nuovo divenuto disponibile nel 1814 dopo lafine dell’occupazione francese. Considerato come un istituto complementare dell’Ac-cademia, il Museo a partire dal 1819 accolse corsi pubblici di zoologia, botanica, fisicae meccanica applicata alle arti, di chimica, astronomia, ma anche di economia politica,di storia e giurisprudenza romana, e persino di antichità orientali”. Questo MuséeAcadémique fu inaugurato il 9 marzo 1820 e nello stesso anno divenne pro-prietà della Città di Ginevra, arricchendosi poi nel corso degli anni con le col-lezioni di importanti scienziati ginevrini, quali il meteorologo e astronomoMarc-Auguste Pictet, il politico Jacques Necker (padre di Madame de Staël) eil geologo alpinista Horace Bénédict de Saussure, i quali peraltro già nel 1794,sull’onda delle idee portate dalla Rivoluzione Francese, avevano pensato allacreazione di un museo. Nel 1872 la crescita delle collezioni obbligò alla costru-zione di un nuovo edificio di 5000 mq annesso a quello dell’Università ai Ba-stions. Qui il museo dovette rimanere fino al 1967, lottando con la mancanzadi spazio, le avversità del primo conflitto mondiale che fermarono la costru-zione di un nuovo edificio, quando finalmente fu costruito un nuovo palazzonel quartiere di Malagnou. Il Muséum d’Histoire Naturelle (nome ufficiale as-sunto nel 1907), composto da due edifici per complessivi 19.000 mq di superfi-cie, ha superbe collezioni e una serie di gallerie espositive su tre piani realizzatefra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta nello stile tipico di quegli anniche consisteva nell’alternarsi di gallerie a diorami e gallerie a vetrine illustrantirispettivamente la fauna degli ambienti naturali e la sistematica zoologica.

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