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Capitclo 6 Le scelte cliniche tra indecidibili e indeterminabili. Umberto Telfener La comice etica II mio scritto si dividerà in due parti. Comincerò esplicitando un punto di vista sull'etica e, come riferimento teorico rispetto a questo tema, scelgo arbitraria- mente Heinz von Foerster; costruirò pertanto la cornice éntro la quale parlare di cllnica in maniera che l'etica venga rispettata senza cadere nell"'io devo-tu devi". La cibernetica di secondo ordine rappresenta un cambiamento fondamentale non solo nel modo di praticare la scienza ma anche rispetto a come percepiamo l'insegnamento, l'apprendimento, il processo terapeutico, il management, a co- me percepiamo le relazioni nella vita quotidiana e a come ci poniamo rispetto al mondo. Do per scontato che il lettore abbia familiarità con questa chiave di let- tura, con questo habitus epistemico, che è una mia scelta soggettiva, impossibile da imporre. Se in precedenza un osservatore indipendente osservava il mondo (oggettivo) dal luogo di osservazione scelto, oggi un attore partecipante al dram- ma delle reciproche interazioni - del dare e prendere nella circolarltà delle rela- zioni umane - è obbligato a scegliere cosa considerare figura e cosa sfondo. Sarò pertanto responsabile delle mie scelte, nella consapevolezza che sono per princi- pio indecidibili e indeterminabili. Nel 1990 l'epistemologo Heinz von Foerster, colui che ha più stimolato noi si- stemici su questo argomento, e che considero il mio maestro, viene invitato a Pa- rigi a un convegno di terapeuti sistemici sull'etica della cura. Apre la sua relazio- ne ringraziando gli organizzatori, poi, appena ha agganciato la platea nel suo modo abituale, fa presente 1'"ingenuità" degli organizzatori per aver proposto un titolo secondo lui outrageous, incredibile: per averlo invitato a "parlare di etica". Racconta che in America gli chiedevano di cosa andasse a parlare a Parigi. "Di etica e cibernetica di secondo ordine" rispondeva immancabilmente, e tutti a quel punto gli chiedevano cosa fosse la cibernetica, come se sapessero esattamente cos'è l'etica. "Che sollievo questa domanda - dichiara alla platea del convegno -

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Capitclo 6Le scelte cliniche tra indecidibili e indeterminabili.

Umberto Telfener

La comice etica

II mio scritto si dividerà in due parti. Comincerò esplicitando un punto di vistasull'etica e, come riferimento teorico rispetto a questo tema, scelgo arbitraria-mente Heinz von Foerster; costruirò pertanto la cornice éntro la quale parlare dicllnica in maniera che l'etica venga rispettata senza cadere nell"'io devo-tu devi".

La cibernetica di secondo ordine rappresenta un cambiamento fondamentalenon solo nel modo di praticare la scienza ma anche rispetto a come percepiamol'insegnamento, l'apprendimento, il processo terapeutico, il management, a co-me percepiamo le relazioni nella vita quotidiana e a come ci poniamo rispetto almondo. Do per scontato che il lettore abbia familiarità con questa chiave di let-tura, con questo habitus epistemico, che è una mia scelta soggettiva, impossibileda imporre. Se in precedenza un osservatore indipendente osservava il mondo(oggettivo) dal luogo di osservazione scelto, oggi un attore partecipante al dram-ma delle reciproche interazioni - del dare e prendere nella circolarltà delle rela-zioni umane - è obbligato a scegliere cosa considerare figura e cosa sfondo. Saròpertanto responsabile delle mie scelte, nella consapevolezza che sono per princi-pio indecidibili e indeterminabili.

Nel 1990 l'epistemologo Heinz von Foerster, colui che ha più stimolato noi si-stemici su questo argomento, e che considero il mio maestro, viene invitato a Pa-rigi a un convegno di terapeuti sistemici sull'etica della cura. Apre la sua relazio-ne ringraziando gli organizzatori, poi, appena ha agganciato la platea nel suomodo abituale, fa presente 1'"ingenuità" degli organizzatori per aver proposto untitolo secondo lui outrageous, incredibile: per averlo invitato a "parlare di etica".Racconta che in America gli chiedevano di cosa andasse a parlare a Parigi. "Dietica e cibernetica di secondo ordine" rispondeva immancabilmente, e tutti a quelpunto gli chiedevano cosa fosse la cibernetica, come se sapessero esattamentecos'è l'etica. "Che sollievo questa domanda - dichiara alla platea del convegno -

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Umberta Telfener

è facile parlare di cibernetica, ma è impossibile parlare di etica!" Nel suo inter-vento, dopo aver disquisito sulla cibernetica di secondo ordine, von Foerster diceche ora viene la parte difficile, riflettere sull'etica. Come farlo? Da dove comin-ciare? Introduce Wittgenstein, per lui "zio Ludwig", e cita due proposizioni delTractatus, che vorrebbe ribattezzare "Trattato etico-filosofico". L'enunciato 6.421dice: "È chiaro che l'etica non può essere articolata, non può avere a che fare conpremi e punizioni." Dimostra che le persone non rappresentano l'etica ma piut-tosto la incorporano. Letto l'enunciato 6.422, prosegue: "Quando una legge eti-ca viene codificata nella forma 'dovresti...', il primo pensiero è 'cosa succede senon la rispetto?'. È tuttavia chiaro che l'etica non ha niente a che fare con puni-zioni e ricompense nel senso usuale del termine. Purtuttavia, vi deve essere unaqualche forma di ricompensa e punizione etica, ma queste si devono trovare nel-le azioni stesse."

Di etica non si può parlare senza scadere nel moralismo. Il problema diventaquello di essere capaci di far restare l'etica implicita, di agirla: la lingua e le azio-ni dovrebbero scorrere nel fiume sotterraneo dell'etica, in modo che il linguag-gio non degeneri in moralizzazione. Come possiamo nascondere l'etica agli oc-chi di tutti e permetterle di determinare il nostro linguaggio e le nostre azioni?Fortunatamente l'etica ha due sorelle che le permettono di essere invisibile, inquanto creano un tessuto tangibile nel quale e sul quale possiamo tessere la tra-ma-delia nostra vita. Le due sorelle sono la metafisica e la dialettica.,.

•/

La metafisica è intesa come le scelte che ciascuno soggettivamente compie,cioè le lenti attraverso le quali il singolo sceglie e decide di osservare ("la neces-sità di scegliere rispetto a decisioni che sono per principio indecidibili"). Diven-tiamo metafisici ogni volta che affrontiamo e prendiamo decisioni su questioniindecidibili in linea di principio. "Se per esempio qualcuno si domanda se un nu-mero qualsiasi (per esempio 24.356.865) è divisibile per 5, la risposta affermati-va è già decisa dal sistema binario della matematica occidentale. Se qualcuno sidomanda come si sia venuto a formare il mondo, nel rispondere si può sceglierequale teoria/ipotesi utilizzare. Solo su quelle questioni che sono indecidibili perprincipio possiamo decidere, non c'è nessuna necessità proveniente dall'esternoche ci forzi a rispondere in un modo o in un altro. Siamo liberi! L'opposto di ne-cessità non è possibilità, l'opposto di necessità è 'scelta'. Ma con questa libertàdi scelta siamo ora responsabili di quello che scegliamo." Nell'ottica della ciber-netica di secondo ordine e del costruttivismo,1 ci viene restituita la libertà di af-frontare una situazione, e con essa ci viene restituita la nostra responsabilità.L'etica diventa implicita, la responsabilità diventa esplicita; la libertà di scelta di-venta un'opzione e, se la si assume, un regalo del ciclo. A questo punto diventa

1 n costruttivismo è una concezione integrata dell'essere umano, considerato parte dell'universo e coinvolto nel prò-

cesso di osservazione.

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importante riflettere sulle conseguenze operative, oltre che epistemologiche, diquesta posizione. Il clinico costruttivista non può non occuparsi dijglori, nonpuò evitare di prendere una posizione "politica" e non può esimersi dall'assu-mersi la responsabilità delle sue azioni. Lavorando con la soggettività dell'altroe con la propria, con le idee e con le emozioni presenti nella relazione, non si li-mita più ad applicare delle tecniche sulle persone.

"La prima decisione indecidibile è se faccio parte dell'universo o se ne sonoapart, separato. "L'ontologia e, chiaramente, l'oggettività sono usate comejjsei-te d'emergenza per coloro che desiderano oscurare la loro libertà di scelta e at-traverso ciò sfuggire alla responsabilità delle loro decisioni - scrive von Foerster. -Separare l'osservatore da ciò che osserva lo libera dalla responsabilità di ciò chefa: viene così ridotto a un ruolo passivo (e oggettivo) di macchina, un semplice re-gistratore del processo che ha luogo al suo interno e fuori di lui. L'invenzione del-l'oggettività e delle gerarchle nelle organizzazioni ha permesso di non localizza-re la responsabilità. Per alcuni la responsabilità è un peso intollerabile, mentre èpiù facile dire 'tu devi', 'tu non devi' e dare origine ai codici morali."

Il secondo aspetto da prendere in considerazione per "agire" l'etica è la diala-gica, intesa come lo scambio linguistico che impegna almeno due persone ("in undialogo parlo con me attraverso te"). È l'uso che del linguaggio si fa per costrui-re la propria identità e per mantenerla nel tempo nel rapporto con l'altro; ma èanche la modalità con cui attraverso il dialogo si generano apprendimento e nuo-ve cornici semantiche: "Le persone devono diventare poeti e lo diventano attra-verso le domande che il clinico fa: è importante, per esempio, fare domande chel'individuo non aveva mai pensato in precedenza, in quanto offre la possibilità diuscire dai soliti copioni, di inventare nuove soluzioni."

Il linguaggio, quindi, diventa un ambito in cui le persone acquisiscono un sen-so di sé, che viene costantemente "riaggiustato" nel rapporto con una comunitàdi osservatori: è costituito dai passi di danza della comunicazione, con o senzala musica (i contenuti), dalla sua dialogicità, dall'invito (e dalla necessitala bal-lare insieme, dallo scambio che rende le persone, attraverso le domande, poeti einventori. Affascinante la magia della lingua, la sua circolarità, l'invenzione checomporta! "L'accesso al linguaggio ha reso l'uomo libero di costruire 'realtà' im-maginarie, virtuali, desiderate o sognate: il linguaggio inaugura la possibilità dinarrare e ri-narrare a se stessi versioni sempre nuove e cangianti della propriaesperienza" ci ricorda Marco Bianciardi (2010).

Le scelte che si compiono su questioni in linea di principio indecidibili e il dia-logo che si mette in campo permettono di incarnare l'etica e di mantenerla comecornice sotterranea. L'etica diventa quell'ambito in cui siamo noi ad assumerci laresponsabilità delle nostre decisioni. "Ogni volta che agisco nel 'qui e ora' - scri-ve ancora von Foerster - non solo cambio io, ma cambia anche l'universo. Que-sta posizione lega inscuidibilmente il soggetto con le sue azioni a tutti gli altri, sta-

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bilisce quindi un prerequisito per fondale un'etica." Nell'interdipendenza, il cli-nico potrà solo dire a se stesso come pensare e come agire; non potrà non resta-re coinvolto nelle scelte che le spiegazioni contengono, e non potrà non essereconsiderato responsabile di ciò che accade negli incontri, in quanto è socialmen-te definito come colui che ha un ruolo sociale, che deve aiutare, e che per questiviene retribuito.

Negli anni sessanta-settanta ci si preoccupava della competenza nell'applicarela metodologia nel processo stesso della seduta. Per esempio, erano consideratedomande legittime quelle che proponevano di riflettere sulla lealtà verso i pa-zienti in terapia: che fare con le persone che non si presentano in seduta, comegestire i segreti, di cosa si può parlare di fronte ai bambini... Negli anni novantail discorso sull'etica si è fecalizzato sull'abuso del potere terapeutico, sull'atten-zione alla relazione impari e alle possibili conseguenze nefaste di abusi (anchesessuali) in tal senso. Attualmente il discorso appare completamente mutato, e sifecalizza sulla responsabilità e sulle scelte del clinico e su ciò che emerge nella re-lazione durante tutto il processo. Ci si occupa dei pattern che favoriscono o osta-colano la costruzione/creazione di significati condivisi e la creazione di unarealtà evolutiva. Diventa imprescindibile chiedersi come far emergere una work-able reality (una realtà terapeutica su cui sia possibile intervenire); come non di-ventare "dottor omeostata"; come non arrischiare il rischio del rischio iatrogeno;come non colludere con il sistema o con l'individuo; come lavorare senza im-porre i propri valori.

Le operazioni cllniche

Se consideriamo plausibile la proposta di Heinz von Foerster di non vederel'etica come una sovrastruttura ma come un atteggiamento nell'intersoggettività, >ragionare di clinica significa ragionare di quale atteggiamento tenere nella rela- Lzione con l'altro (gli altri) che proprio a noi hanno chiesto aiuto. Non si tratta di Iacquisire nuove tecniche, di inventare nuove teorie per leggere i sistemi e i conte—^sti, si tratta di riflettere sempre di più sulla nostra operatività e sulle azioni2 chegià conosciamo/eseguiamo, al fine di costruire una prassi evolutiva condivisa eresponsabile, e di conseguenza etica.

In una prospettiva costruttivista, il terapeuta non sa più o meglio del paziente:le sue teorie, le sue ipotesi, le sue narrazioni non sono né vere né false, sono plau-sibili esattamente quanto lo sono quelle del paziente. Ciò che le differenzia è piut-tosto il fatto che le ipotesi del clinico devono porsi e mantenersi su un diverso or-

?, Tra le Dazioni concrete" possiamo annoverare quegli interventi che si traducono nelle "parole" spese, nelle domandefatte nel Corso della conversazione terapeutica, ma non solo: anche bere il té insieme (oggetto transizionale) oppure, con i mi-granti, accompagnare il paziente da un dottore.

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dine logico rispetto a quelle del paziente: non al livello dei contenuti di cono-scenza, bensì a quello dei processi che costruiscono la conoscenza; non al livello(di primo ordine) del "conoscere", bensì al livello (di secondo ordine) del "cono-scere il conoscere". Questa relazione implica una doppia posizione, come scriveFruggeri (1997): "La prospettiva costruzionista comporta un'osservazione com-binata, non tanto di informazioni e di dati diversi, ma piuttosto di due diversi ti-pi di dati o di informazioni, che appartengono a due livelli logici distinti e reci-procamente implicati, nessuno dei quali è, per così dire, detentorc di un primatoassoluto (...) Un metodo cioè che suggerisce di assumere, nell'analisi del proces-so di intervento, un punto di vista 'binoculare' che combini a) l'osservazionesull'utente e sulle sue relazioni significative, con b) l'osservazione sulla relazioneche si stabilisce fra l'operatore e l'utente, da un lato, e i loro reciproci sistemi diappartenenza, dall'altro." Il clinico non possiede teorie più vere né più oggettive,ma si pone su un altro piano: ha bisogno di una maggiore consapevolezza, unaconsapevolezza non di se stesso in solitudine quanto piuttosto delle operazioniche mette in atto nella relazione con l'altro.

Una costruzione diagnostica diviene così la capacità (l'arte?) di scegliere alcu-ni tra gli innumerevoli elementi che il paziente porta inscritti nella propria realtà,e di riconnetterli in visioni pregnanti e significative per l'individuo, valutando co-me quella scelta possa aprire o chiudere delle alternative. Sono queste "costru-zioni soggettive" che rendono conto del fatto che, tra cento eventuali terapeuti, siinstaurano infinite diverse possibilità di percorsi terapeutici, a partire da una stes-sa sintomatologia. La costruzione di più livelli di ipotesi costituisce un rituale dimodificazione delle mappe cognitive, emotive, relazionali di tutti coloro che par-tecipano alla danza clinica, nonché del sistema di appartenenza delle persone im-plicate e conscguentemente dei rapporti intersoggettivi che mettono in piedi.

fl terapeuta fa costantemente una serie di scelte basate su alcune operazioniche deve necessariamente compiere. Queste operazioni emergono dalla consa-pevolezza:

di essere parte dei processi costitutivi della realtà clinica che coinvolge non so-lo lui e il paziente ma anche gli altri significativi;

di avere la responsabilità della costruzione del contesto terapeutico, affinchèsia evolutivo e processuale (chi scegliere di vedere, quante volte, quando, dove,sottolineando quali tematiche);

di non avere un potere unidirezionale sul giòco che emergerà, di far parte diuna danza relazionale e condivisa, di limitarsi a fare delle proposte, essendo ladanza comune a decidere il significato, attraverso le retroazioni;

di agire attraverso parole e azioni al fine di intervenire sulle relazioni;di riflettere costantemente sulle azioni eseguite e sulle retroazioni ricevute, al

fine di modificare se stesso e i propri comportamenti, qualora ce ne fosse bisogno;di riconoscere un'asimmetria di ruolo: parità umana e personale, trasparenza

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esperienziale, asimmetria nella responsabilità di ciò che accade nel contesto cli-nico.

Descriverei quindi l'intervento clinico come quella serie di azioni eseguite daun clinico a) responsabile delle sue azioni, b) consapevole della necessità di sce- 'gliere rispetto a decisioni che sono in linea di principio indecidibili, e) attento alproprio linguaggio e alle proprie azioni, d) che inette in atto operazioni sulle ope-razioni, e) che agisce su se stesso perché è incluso nel sistema,/) che aumenta ilnumero di scelte per sé e per gli altri, g) che considera ciascuno libero di agire ver-so il futuro che desidera (rispetto), h) che valorizza l'eterarchia computazionale3

(valori, scelte che possono cambiare nel tempo e non sono organizzate in ma-niera razionale e logica).

L'aspetto primario diventa la necessità di assumersi la responsabilità delle pa-role, e delle azioni nel processo in atto, la responsabilità delle operazioni che sipropongono e del compito di modificare i comportamenti, in base a quello cheemerge dalla danA. Cosa significa "responsabilità"? Etimologicamente, è l'abi-lità di rispondere alla situazione che dobbiamo fronteggiare ("che deve render ra-gione delle proprie o altrui azioni; consapevole delle conseguenze derivanti dal-la propria condotta", Cortellazzo, Dizionario etimologico, 1985)./Quali sono le responsabilità del clinico£Dgni clinico ha una responsabilità so-

dale deterrrdnata^ia^àTmanHato da parte-delia comunità allargata che dal risul-tato delle proprie azioni nel mantenere/decostruire delle strutture di potere. Hapoi una responsabilità tecnica, che consiste nella capacità di considerarsi compe-tente rispetto a un modello soggettivamente scelto; e una responsabilità relazionaleche, considerando la relazione lo strumento primario del lavoro, lo induce a ri-flettere sul significato che le proprie azioni hanno (e hanno avuto) sul paziente esugli altri significativi nel contesto condiviso. La capacità di includere se stessi nelprocesso di osservazione degli utenti: entrare in prima persona in rapporto conun altro soggetto al fine di porsi in una posizione di ascolto, di mostrarsi curiosi,di farsi perturbare dall'altro ma, ancora più importante, di mostrare la voglia-di-sponibilità-capacità di mettersi in gioco in prima persona rispetto alle categorie ealle azioni che si sono eseguite per intervenire. Poi, la disponibilità a mutare per-sonalmente (cambiare le griglie di lettura, rivedere i pregiudizi ineludibili, fareazioni diverse) al fine di contribuire a costruire un contesto che sia evolutivo eprocessuale; la capacità di mantenersi aperti a esplorare e a mutare le proprie pre-messe, monitorando i propri pregiudizi, al fine di non cadere in pattern ripetitivie/o collusivi (dì queste competenze bene e spesso ci ha parlato Fruggeri, 1997,2003).

3 Heinz von Foerster considerava uno degli articoli più importanti degli anni sessanta quello di McCullocb (in vonFoeriter, 1974) sull'eterarchia computazionale. In esso l'autore dimostrava che le scelte non sono basate sulla logica masull'estro del momento, diversamente da come pensano i logici.

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Più semplice parlare di responsabilità della responsabilità, intesa come la capacitàdi essere consapevoli di agire i dominii della produzione (le azioni eseguite e ri-conosciute dalla comunità di appartenenza), delle spiegazioni (le storie di ap-prendimento costruite relazionaJmente) e dell'estetica (l'eleganza morale ed eti-ca con cui le prime due operazioni vengono portate avanti) (Lang, Liddle e Cro-nen, 1990), processi dei quali ci si è assunti la responsabilità; si è cioè diventati re-sponsabili delle singole responsabilità che ho citato. La responsabilità della re-sponsabilità si riferisce al dover rendere conto, per primi a se stessi, del processodi costruzione di realtà sociali che si realizzano nell'interazione col problema pre-sentato e il suo sistema di significati. Non c'è bagaglio tecnico né modello epi-stemologico che possa di per sé dare una direzione evolutiva o stabilizzante all'in-tervento terapeutico: il significato di ciò che un clinico fa è negoziato attraversoun processo interattivo di cui tutti i partecipanti sono coautori.

Ci sono alcune azioni che rappresentano, secondo me, il cuore della responsa-bilità da parte del clinico:

la riflessività e le operazioni sulle operazioni di secondo ordine;affrontare l'ignoranza e le zone cieche;tenere sempre presenti possibili esiti indesiderati (collusioni, risonanze, croni-

cità, rischio del .rischio iatrogeno).

La riflessività-e le operazioni sulle operazioni. Per ricorsività - un'operazione nataall'interno della logica matematica - si intende la capacità di computo attraver-so la modalità di riflessione sulle proprie operazioni. In quest'ottica, si proponedi introdurre l'osservatore nel dominio di osservazione, mentre Russell e Whi-

RIFLESSIVITÀla conoscenza professionale come operazione di secondo ordine

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tehead avevano bandito tale possibilità in quanto generatrice di paradossi. L'og-getto di osservazione consiste nell'atto stesso di osservare l'oggetto, ci ricorda Ar-nold Goudsmit (1989), e la riflessività è la capacità di usare se stessi per esplora-re se stessi, di considerare qualcosa nel contesto di se stessi, di riportare l'opera-zione sull'operazione. Come spiegano bene Làura Fruggeri e Massimo Matteini(1988), non un clinico che osserva il cliente alla luce del suo modello di .riferi-mento, ma un clinico che alla luce del suo modello di riferimento osserva se stes-so nell'interazione con il cliente.

Le operazioni di secondo livello implicano la capacità di costruire una realtà ]condivisa all'interno di un contesto collaborativo e dialogico in cui sappiamo che iquello che diciamo e facciamo può essere letto in maniera diversa dalle nostre in- |tenzioni, e ci modifichiamo al fine di introdurre informazioni, rintracciando unacoerenza. Questo atteggiamento ci porta a parlare di conoscenza della nostra co-noscenza, diagnosi della diagnosi, cura della cura, responsabilità della responsa- ,bilità. ^ I

Un flash clinico^i illustra la mancanza di una posizione riflessiva. j

Una psicoioga in supervisione mi racconta un caso che sta seguendo. Un ragazzo con jsintomi fobici, a seguito di tre mesi di lavoro terapeutico con lei decide, dopo molti an- jni di immobilità, di partire per un viaggio. Parte con una ragazza incontrata da poco e \a dirlo alla fidanzata, che è al mare con i genitori. La mia allieva definisce la ra- ;

gazza con cui lui parte "la sua amante". Che significato ha questa definizione? Non sta jdefinendo anche lei, inconsapevolmente, una gerarchla tra le due donne? Se inawer- Itita, questa definizione può essere collusiva e può dar voce a un'idea tacita del ragaz- ;zo che questa donna sia "di serie B"; può altresì essere letta come una diminuzione di !questa nuova donna da parte della psicoioga, che sembra disapprovarla.' Se il com- jmento è invece fatto in maniera strategica, può assumere un significato completamente^j

.-diverso.

Scrive Bianciardi (2010): "Ritengo che la necessità di una conoscenza di se-condo ordine sia una caratteristica formale della relazione psicoterapeutica: unacaratteristica formale e caratterizzante la quale può essere considerata indipen-dente dalle teorie, dai contenuti, dalle procedure dei differenti approcci e metodiclinici." Ogni rapporto clinico, ogni modello clinico sembra imporci di assume-re questa posizione.

Affrontare l'ignoranza e le zane cieche. L'atteggiamento epistemologico implical'assunzione di più posizioni rispetto al sapere. Nello specifico, oltre alla consa-pevolezza di sapere di sapere (ciò che sappiamo di conoscere, riflessività e consa-pevolezza) e di sapere di non sapere (ciò che sappiamo di ignorare e che ci spinge aessere curiosi) - atteggiamenti che ci conducono naturalmente verso il processodi ipotizzazione - siamo anche consapevoli di non sapere di sapere (ciò che emer-ge nell'intuito e che non è sotto il nostro controllo) e di non sapere di non sapere (lezone cieche a cui non possiamo sfuggire, punti ciechi inevitabili rispetto ai quali

non possiamo che attendere le retroazioni, per poi cambiare per primi noi stes-si). Se diamo ragione a von Fòerster e alla sua ipotesi che abbiamo a che fare coninconoscibili e indeterminabih', diventa imprescindibile fare i conti con la nostraignoranza e con gli imprevisti.

Come gestire l'ineludibile "ignoranza" di fronte alle situazioni? È utile, a mioparere, rendersi conto che possiamo avvicinarci unicamente alle situazioni cosìcome si presentano a noi, senza aspettarci di conoscere "bene" o "meglio" un si-stema. Dobbiamo accontentarci della nostra ignoranza ed espanderla ulterior-mente: non tanto indagare per far emergere quello che non si sa, quanto andarein aree sconosciute, permettendo l'insorgenza di copioni nuovi, tollerando il dub-bio e non pretendendo di tutto controllare. Abbandonare soluzioni deterministi-che. Non domandare per sapere ma piuttosto domandare per perturbare, per faraccadere qualcosa nel "qui e ora" del contesto terapeutico. Ce lo hanno ben det-to i teorici costruttivisti, l'atteggiamento classico sul non sapere fa pensare di averindividuato il problema e di non conoscere la soluzione. Un'epistemologia ciber-netica propone che a essere ignorata non sia solo la soluzione ma anche la por-tata dei problemi.

A mio parere, approfondire il modello sistemico implica accettare fino in fon-do l'idea che siamo anche ignoranti: il nostro conoscere è sempre incompleto,provvisorio, autoreferenziale, il nostro "sapere" comporta un'ignoranza costitu-tiva e ineliminabile che non è sotto la nostra giurisdizione. L'osservazione impli-ca comunque un punto cieco, come ben dimostrava Heinz von Fòerster, pratica-mente, nei suoi seminari. Non possiamo quindi fare affidamento su una pianifi-cazione top-down né basarci solamente su ciò che sappiamo: la nostra compren-sione degli eventi è incompleta, e va bene così, in quanto proprio questa incom-pletezza ci permette di fidarci del nostro intuito, di avventurarci in aree scono-sciute, di affiancare tecnicismo e creatività, di allontanarci da un percorso ripeti-bile e banale, sempre uguale. Mi sto riferendo alla necessità che il clinico, abban-donando il mito del controllo, si accontenti di un sapere provvisorio e si adoperiper non comprendere troppo presto e non saturare la conoscenza del sistema.Che si fidi anche delle capacità di autoguarigione del sistema.

Che cosa determina considerarsi anche ciechi, oltre alla libertà di fidarsi del-l'intuito, di star bene in situazioni che non sono sotto il nostro controllo e di fi-darsi degli altri, permettendo loro di esplorare?

rinunciare alla propria expertise;rinunciare all'idea di conoscere il sistema;tollerare l'ansia di rimanere in tenitori sconosciuti;creare una workable reality, far accadere i processi durante la seduta;rinunciare a controllare il sistema osservante;acquisire un atteggiamento di ricerca attiva (che ha sostituito per me il concet-

to di curare);monitorare costantemente la possibilità di entrare in risonanza.

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Tenere sempre presenti possibili esiti indesiderati. Qui ha inizio la parte di questoscritto a cui tengo di più, quella su cui mi fecalizzo con insistenza, in quanto con-sidero questo argomento uno dei più importanti del nostro agire etico, spesso da-to per scontato o trascurato.

Sistema non è ciò che esiste in una realtà fuori di noi, ma è un'ecologia di ideeche emerge da ciò che contribuiamo a far emergere insieme con i nostri utenti econ gli altri significativi, che possono essere medici, altri operatori, parenti e ami-ci degli utenti e nostri colleghi e supervisori, che tutti insieme determinano signi-ficati e azioni e ne vengono determinati. Nel caso di un percorso terapeutico, nonè solo ciò che viene scelto dal terapeuta come "terapeutico" ad avere degli effetti"terapeutici", ma anche ciò che può risultare di contorno o del tutto inutile, ciòche si è fatto ma anche le strade non intraprese. I terapeuti, attraverso un'attentastrategizzazione, si impegnano a raggiungere un obiettivo terapeutico. Il nostrofocus è il "pattern che connette" il sistema consulente al sistema committente, at-traverso un processo che mette in atto spinte sia verso la stabilità che verso l'evo-luzione. H cambiaménto emerge da una coordinazione di una coordinazione trapersone, all'interno di uno spazio di discorso condiviso. Le parole e le azioni chefacciamo e che non facciamo costruiscono la danza interattiva e possono portareo non portare gli effetti desiderati, proprio in virtù del fatto che, in un processo dico-costruzione, non è solo il terapeuta a determinare gli effetti di ciò che accade,ma sarà anche e soprattutto l'altro ad attribuire un "senso" a ciò che viene espres-so, retroagendo sulla base di questo "senso" attribuito (Fruggeri, 1999). I succes-si e i fallimenti non dipendono unilateralmente dal clinico o dal sistema che chie-de aiuto, ma emergono all'interno della storia della relazione e del loro reciprocoincontro. Emergono dalla coordinazione della coordinazione di azioni e signifi-cati. Non ci sono procedure oggettive in psicoterapia, e quello che sarà chiaro eautoevidente alla fine di una terapia - sostiene Goudsmit (1989) - non è prevedi-bile prima dell'incontro psicoterapeutico.

Alla luce di quanto affermato, o ci si arrende, disperando di poter sapere dovesi deve andare, o si considera terapeutico il semplice entrare in un sistema (comeaveva supposto il costruzionismo sociale in una prima fase; si veda Anderson eGoolishian, 1988), o ci si pone nella posizione di intendere il colloquio terapeu-tico come un continuo e costante intervento di secondo ordine, durante il qualeil terapeuta si interroga costantemente su quanto sta accadendo, sia a livello del-le proprie premesse generali, sia a livello delle azioni terapeutiche concrete (adesempio la scelta di una domanda più che di un'altra, di un tema, di un percor-so). Secondo quest'ultima proposta, si effettua una continua valutazione degli ef-fetti delle azioni passate e in corso, per costruire nuovi piani d'azione, per antici-pare le conseguenze di varie alternative, e per decidere come procedere in ogniparticolare momento, ma ci si lascia anche trasportare dalla corrente e ci si fidadel processo e della relazione che si è stabilita, al fine di massimizzare l'utilità te-rapeutica.

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I comportamenti del clinico non hanno un effetto costruttivo di per sé, né inpositivo (evoluzione) né in negativo (patologia). Hanno effetti all'interno delledefinizioni o rappresentazioni condivise sul piano relazionale e sociale. Gli esitidegli interventi emergono cioè da un gioco interattivo in cui il clinico non è il so-lo soggetto attivo e in cui, peraltro, le rappresentazioni sociali che informano icomportamenti non hanno per oggetto soltanto la figura del terapeuta. Le con-seguenze non volute sono l'esito di un'azione congiunta, non riferibile ai singoliindividui, ma non sono neanche causate da fattori esterni. I partecipanti all'inter-azione hanno un ruolo attivo nel formare il percorso dell'azione congiunta, ma ilpercorso stesso è contingente, processuale e storico.

Quali sono gli esiti indesiderati?Non certo gli errori, che all'interno della cornice cibernetica sono segnali che

possono aiutare il clinico a correggere la sua strategia (si espletano nel dominiodei comportamenti, e sono dei segni). È impossibile, anzi è errato proporsi di nonfare errori: la possibilità dell'errore non si distingue dalla possibilità stessa dellaconoscenza. Si fanno errori rispetto a una determinata teoria che sola può dirci'che cosa considerare come rilevante o meno, che cosa perseguire o evitare, checosa è giusto e che cosa è sbagliato. La base per l'autocorrezione cibernetica de-riva dalla possibilità di generare errori e differenze che permettono di modificarei propri comportamenti (Keeney, 1985; Telfener, 1985). Neppure l'impasse puòconsiderarsi un effetto indesiderato, in quanto è inevitabile, è una situazione dif-ficile in cui ci si viene a trovare quasi all'improvviso e a volte inspiegabilmente:un punto di biforcazione che non avevamo previsto e che ci obbliga a prendereuna via alternativa. È usualmente il risultato della storia di quella terapia, dell'in-contro tra paziente, clinico, modello di intervento, contesto e narrazioni emerse;si dipana nel tempo e nello spazio segnalando la necessità di ripensare al propriooperato, e può dare origine a momenti evolutivi importanti. È difficile anche con-siderare gli insuccessi come eventi indesiderati. Quello che può essere un succes-so per un membro del sistema terapeutico, può essere letto come insuccesso daun altro membro. Non ci sono quindi insuccessi oggettivi, ma solo insuccessi ri-feriti a un particolare punto di vista (Telfener, 1996). Così i dropout (abbandonodella terapia non contrattato che avviene di solito entro le prime sedute), vere eproprie fughe, più o meno inspiegate, che possono risultare terapeutiche, quan-do con la sola perturbazione iniziale la situazione evolve, oppure non terapeuti-che, quando le cose rimangono uguali o peggiorano. Anche la risonanza è inevi-tabile. Si tratta delle reazioni emotive, spesso inconsapevoli, a situazioni, eventi,traumi affettivi emersi dalle storie degli utenti, che richiamano aspetti personalinon elaborati nella storia personale del clinico, fatti o emozioni che non prendeili considerazione e che lo rendono cieco. Entrare in risonanza significa non ac-corgersi di alcuni eventi, essere ciechi ai propri stati d'animo rispetto a queglieventi e non cogliere le stesse sfumature che colgono gli altri. (Il rischio della ri-

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sonanza viene risolto attraverso il lavoro del team, la super/pari-visione, la ri-flessione comune.)

Fanno parte invece degli unintended events quelle situazioni che accadono e ciprendono la mano: un momento in cui ci troviamo paralizzati perché troppo in-vischiati, perché abbiamo perso la nostra autonomia e pensiamo come pensa il si-stema che ha chiesto aiuto, quando non vediamo alternative al pattern usuale dicomportamento, quando abbiamo perso la nostra curiosità o costruito una situa-zione immutabile; quando si è persa la processualità, intesa come la possibilità diandare avanti, di svolgere ciò che accade come se fosse un nastro.

La collusione è la spinta a stare al gioco dell'altro, l'aver accettato il suo puntodi vista e trovarsi invischiati in un gioco che non è evolutivo:

si perde lo sguardo individuale a favore di quello collettivo;si vedono solo alcuni aspetti;si, fotografa la realtà, la si blocca;si perde la spinta strategica;si mettono in campo pensieri/azioni che invece di far evolvere la situazione rei-

ficano lo status quo.La collusione accade quando a) si cade nella patologia, non la si vede in ma-

niera evolutiva; b) si cade negli interventi ortopedici; e) ci si occupa solo del si-stema osservato; d) si perde la dimensione temporale e contestuale; è) si mantie-ne una relazione di potere;/) si cade nei protocolli, perdendo la curiosità; g) si ri-definisce positivamente a tutti i costi, senza "com-prendere"; K) si aderisce ec-cessivamente alle indicazioni del modello teorico; ì) si "comprano" le ipotesi delsistema; /) si cade in una logica dell'emergenza; ni) si salta l'analisi della doman-da o si offre terapia nelle situazioni in cui non c'è una domanda esplicitata; n) sicade nella normatività; o) non si è consapevoli delle mappe utilizzate per leggerele situazioni, e quindi non si è disponibili a metterle in discussione.

Si ha cronicità quando una mappa di patologia viene condivisa da tutti i com-ponenti della rete relazionale che comprende il cliente, i familiari, i curanti, gli in-vianti: quando tutti sono d'accordo e non c'è più nessuno scambio di informa-zioni.

Il rischio del rischio iatrogeno (iatreia = "cura medica"; gignomai = "nascere") èl'altra conseguenza inattesa che emerge dai processi interattivi (anche quando ilmodello viene applicato correttamente) e deriva dalla pratica della cura, indi-cando situazioni in cui si ipotizza che il peggioramento non sia dovuto alla per-sonalità delle persone in cura ma sopravvenga a seguito delle operazioni del cu-rante. Se pensiamo che gli umani e le situazioni sono in costante divenire, il ruo-lo dell'operatore diventa quello di non bloccare il cambiamento. Non dobbiamospingere verso una nuova organizzazione, ma dobbiamo stare attenti a come gliinterventi che proponiamo possono fermare-staticizzare una situazione oppurerenderla evolutiva. I sintomi più frequenti in questi casi sono un aumento dell'an-sia, senso.di sgretolamento di sé, senso di trasparenza, pensieri di incapacità e

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inadeguatezza.'ll rischio non è quindi che il terapeuta ignori qualcosa dell'og-getto di conoscenza (questo è inevitabile e salutare), il rischio è che ignori qual-cosa di sé, ovvero ignori le caratteristiche costitutive di potenzialità e di ridutti-vità dei propri percorsi e delle proprie modalità conoscitive in rapporto a quelledei clienti. Che ignori la propria ignoranza. Questo confondere i propri mezzi co-noscitivi con la realtà è la radice di ogni possibile rischio di un danno iatrogeno.

Direi che il rischio iatrogeno può essere messo in relazione a due fattori:un'epistemologia implicita secondo la quale l'osservatore è separato dall'osser-vato, e una teoria che prevede e descrive tappe normative che una persona do-vrebbe superare per arrivare alla sanità o alla maturità.

Riconoscere il rischio di poter diventare "dottor omeostata", di avere inelutta-bilmente dei punti ciechi, di non sapere di non sapere, di poter colludere col si-stema, porta a operare "senza memoria e senza desiderio" e a non porsi lo scopodi attuare una correzione morale, né una riabilitazione psicologico-normativa.

Un flash clinico:

Maria è una donna di trentacinque anni con un figlio appena nato. È stato fatto nasce-re anticipatamente perché lei era molto agitata, insonne e con idee di riferimento. Micontatta quando il figlio ha venti giorni, e viene convocata col marito. Si mostra confu-sa, eccessivamente accomodante verso di lui, poco esplicita circa i suoi timori. Dicequello che il marito vorrebbe sentirle dire, da tutto il potere a lui e non sembra rendersiconto del nuovo nato, che ha affidato a una badante e che definisce "un peso". La se-conda volta viene convocata insieme al marito e ai genitori, e il suo comportamento ap-pare molto diverso. Sembra presa in mezzo tra due alleanze, propende esplicitamenteper le opinioni dei genitori, tende ad accondiscendere, trascurando, almeno apparente-mente, il marito. In entrambe le situazioni non ha un suo punto di vista e appare moltosospettosa; continua a non trattare il tema della nuova maternità. Come intervenire perprendere in carico la coppia, per costruire attorno a loro un confine, per ridare compe-tenza a entrambi, per recuperare le loro risorse? Come non cadere nella trappola di "cri-ticare" la donna, che trascura il figlio in maniera evidente?Quando la coppia viene inviata all'ospedale pubblico di riferimento per "farsi aiutarecon i farmaci per la sua sospettosità", su indicazione del clinico e previo colloquio tra icuranti dei due setting (terapeutico e ospedaliero), non incontra lo psichiatra di cui ha ilnominativo (è in malattia) ma un altro, che dopo il primo colloquio dichiara la propriaintenzione di incontrarsi con il padre e il marito, per esplicitare la situazione e la dia-gnosi, escludendola dal processo.

1. L'intenzione di vedere padre e marito, tenendo fuori lei e la madre, collude con l'im-portanza che le due donne danno agli uomini e con la loro impotenza manifesta; 2. sirischia di squalificare ancora di più la donna, che già delega se stessa agli altri; 3. l'in-tenzione dello psichiatra di dichiarare la diagnosi di "psicosi" potrebbe bloccare la si-tuazione, definirla attraverso un'etichetta che tenderà a rimanere indelebile nel tempo;4. essendo il padre della ragazza (medico) in lite col marito di lei (operaio) e avendo lafamiglia di lei sempre protetto la figlia da ogni responsabilità, si rischia che la diagnosioffra ài genitori una buona scusa per farsi carico nuovamente di Maria e del nipote, ab-bandonando il marito al suo destino.Lo psichiatra sembra avere una visione lineare e causale della malattia, in accordo con

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Ìt>u?

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il suo training formativo, un'idea oggettiva dei sintomi, che possono essere monitoratie controllati attraverso i farmaci (intervento istruttivo) e la presa in carico della pazien-te da parte degli addetti ai lavori. Diventa pertanto necessario che lo psicoterapeuta con-tratti con lo psichiatra una condotta che non reifichi il problema e offra a marito e mo-glie una spiegazione evolutiva dei sintomi e della situazione.

Più passa il tempo, più faccio supervisione in contesti diversi, più mi accorgoche cimici anche ben formati non prendono tempo per riflettere sulla loro parte-cipazione a quello che succede nel processo e non prestano sufficiente attenzio-ne alla rete che emerge attorno a ogni singolo caso. Partecipano così a un pro-cesso che diventa sempre meno evolutivo, e in questo modo perdono la possibi-lità di rispettare le esigenze etiche del processo denominato "intervento clinico"o "psicoterapia".

Conclusioni•

Potremmo chiamare "relazionale" questo atteggiamento verso l'etica, e ag-giungere che esso esclude totalmente la possibilità di chiamarsi fuori, di fare unadiagnosi da un luogo privilegiato di osservazione senza occuparsi delle conse-guenze delle proprie azioni (come abbiamo visto nell'esempio, il rischio di fareuna diagnosi e comunicarla a una sola parte del sistema). Spero che si sia com-preso che la mia proposta è quella di considerarsi ineludibilmente parte del pro-cesso, osservare le retroazioni, e se non ci piace ciò che è emerso, mutare il nostroatteggiamento, il nostro modo di essere con l'altro/con gli altri.

"Ne consegue che lo psicoterapeuta deve sapersi e riconoscersi non solo re-sponsabile nel senso classico secondo cui ogni professionista è responsabile del-la corretta applicazione del proprio metodo e delle tecniche che tale metodo pre-vede. Lo psicoterapeuta deve anche, e soprattutto, sapersi responsabile come per-sona, e responsabile in prima persona, di quanto avviene nell'incontro con l'altroe dell'esito che tale incontro avrà. Lo psicoterapeuta è in ogni caso responsabiledi come la relazione si definisce ed evolve nel tempo; e, d'altra parte, le caratteri-stiche specifiche della relazione psicoterapeutica comportano che il buon esitodel 'trattamento' non possa essere garantito dalle teorie e/o dalle tecniche, né dal-la loro corretta applicazione. Per questo, in quanto psicoterapeuta, lo psicotera-peuta è responsabile in prima persona" (Bianciardi, 2010). La responsabilità delterapeuta diventa una responsabilità soggettiva e personale, ed è in questo sensoche la psicoterapìa deve essere intesa come pratica "etica".

Un'ultima riflessione: perché questo avvenga, il clinico deve poter passare dalpotere al rispetto.

Forse la più importante accezione del termine "cambiamento" nell'ottica si-stemica è proprio quella di "rispetto". Se un terapeuta sistemico si avvicina alla

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persona come un professionista consapevole della dialettica caos/ordine, stabi-lità/cambiamento, disponibilità/ritrosia, questo equivale a nutrire un profondorispetto sia per se stesso e per i propri pregiudizi/premesse, sia - e soprattutto -per la persona, con la sua richiesta di aiuto, i suoi "sintomi", la sua storia e i suoiprofondi legami con un bagaglio di pensieri e comportamenti che un senso adat-tativo hanno avuto e che, tra l'altro, potrebbero tornare nuovamente utili in futu-ro, proprio sotto quella stessa forma che, al momento dell'incontro con il tera-peuta, crea invece disagio.

Ho parlato della possibilità di costruire una prassi processuale, evolutiva ed eti-ca. Vorrei finire con un imperativo etico del mio maestro Heinz von Foerster cheha costituito per molti di noi uno stimolo alla libertà di pensiero e di azione, fon-damentale nella prassi lavorativa:

"Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte tue e altrui."

Riferimenti bibliografici

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