Canfora, Luciano - Vita Tribolata Del Giacobinismo Italiano

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Luciano Canfora VITA TRIBOLATA DEL GIACOBINISMO ITALIANO Traduzione di Ottavio Fatica Adelphiana www.adelphiana.it 31 gennaio 2004

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Canfora, Luciano - Vita tribolata del giacobinismo italiano - Storia

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Luciano Canfora

VITA TRIBOLATA DELGIACOBINISMO ITALIANO

Traduzione di Ottavio Fatica

Adelphianawww.adelphiana.it31 gennaio 2004

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Al principio di questa lezione inaugurale, che cir-costanze impreviste hanno af$dato alla mia respon-sabilità, debbo fare una premessa. Non per eccessodi audacia, ma in omaggio allo storico insigne cheavremmo voluto tra noi oggi ho scelto di ripren-dere il suo tema, quello del giacobinismo italiano.Non certo perché le mie parole possano surrogare,sia pure in parte, quelle che avrebbero qui risuo-nato, e che saranno da noi pubblicate, ma per unasympátheia profonda, per l’interesse acuto, né solostoriogra$co, verso la vicenda degli «altri» giacobi-nismi, intendo quelli sorti fuori della Francia, co-me affluenti del grande $ume francese.Queste minoranze legate idealmente e ideologica-mente al paese-guida (che allora era la Francia)hanno patito le conseguenze della loro scelta su dueversanti: rispetto agli avversari, com’è ovvio, vistoche essi portavano lo scompiglio, l’aria fresca dellenuove idee nel cuore degli Stati pietri$cati della vec-chia Europa, ma anche rispetto ai propri naturali

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alleati e protettori. Ciò che, ovviamente, è assai piùdoloroso, oltre che imprevisto.Il loro dramma fu di essere entrati in azione, per co-sì dire, in ritardo. E di averlo potuto fare solo quan-do, ad opera del Bonaparte, la guerra difensiva del-la Francia contro la Coalizione, contro le successivee aggressive coalizioni che avevano cercato di stran-golare la Repubblica, si era via via trasformata intravolgente contrattacco, soprattutto grazie alla ful-minea campagna d’Italia.Il loro senso di inferiorità rispetto ai «fratelli mag-giori» francesi nasce dal fatto che questi avevano«fatto la Rivoluzione», mentre loro la trovavano bel-la e fatta e tentavano di assumerne la guida sullascia delle armate della Grande Nation. Ma la sfasatu-ra cronologica ha avuto conseguenze imbarazzanti.I giacobini europei, infatti, e quelli italiani in par-ticolare, entrano in scena proprio quando il climapolitico e l’assetto politico cambiano: la guerra ri-voluzionaria cambia codice genetico e diventa guer-ra di conquista mirante, per questo tramite, a garan-tire alla Francia la «sicurezza»; e intanto si fa strada,apertamente col 18 brumaio 1799, il potere perso-nale. La veduta che tende a imporsi è che l’interes-se del paese-guida sia ipso facto ed eodem tempore l’in-teresse dell’intero movimento giacobino.Se si considera che sinonimo di giacobino, nel lin-guaggio politico del tempo, specie in area tedesca,è «patriota», ben si può comprendere quale lanci-nante contraddizione si sia allora aperta.Le reazioni a tutto ciò sono diverse.Ugo Foscolo ristampa bensì, due anni dopo Cam-

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poformio, l’ode A Bonaparte liberatore, però vi pre-mette una lunga prefatoria, una lettera aperta, nel-la quale lamenta con parole $ere, ma non di rot-tura, il baratto compiuto dal Bonaparte a danno diVenezia (1799). E poco dopo, quando ormai si pro-$lano ben netti i tratti del potere personale, purtuttavia nell’orazione Per i comizi lionesi (dicembre1801) elogia apertamente il primo console, da luide$nito «Salvatore dei popoli conquistati». E perònon dimentica Venezia. E tornando su quel tastodolente ammonisce, ed esorta il Bonaparte ad agi-re in modo che i posteri di lui dicano: «Annientòun’antica Repubblica, ma un’altra più grande e piùlibera ne fondava!».Solo pochi anni più tardi, sarà l’assunzione del tito-lo imperiale, da parte di colui che era ancora sen-tito come il primo generale della Repubblica, a in-durre Ludwig van Beethoven a cancellare la dedi-ca, inizialmente rivolta appunto al Bonaparte, del-la Terza sinfonia, l’Eroica.Il primo libro di Guerra e pace si apre con una scenamemorabile. È la conversazione tra i nobili – sia-mo alla vigilia di Austerlitz – nella accogliente di-mora dei conti Rostov, la caotica, simpatica e ospi-tale famiglia che fa da epicentro all’intero roman-zo. Lì Tolstoj mette in scena la calorosa e imbaraz-zante apologia del Bonaparte, pronunciata dal veroprotagonista di tutto il racconto, Pierre Bezuchov,destinato poi, per volere dell’autore, a tutt’altra e-voluzione, ideale e religiosa. Lo spunto per il viva-ce scontro dialettico, rigorosamente in francese, se-conda lingua, all’epoca, della nobiltà russa, è pur

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sempre la fucilazione del duca d’Enghien (21 mar-zo 1804): cavallo di battaglia della propaganda an-tibonapartista. Fucilazione voluta dal Bonaparte, edecretata da un tribunale militare straordinario peril reato di congiura contro il primo console.Tolstoj, che largamente si identi$ca col suo perso-naggio, fornisce – per bocca di Pierre – una vera epropria antologia di argomentazioni pro-Bonapar-te, che ben rappresentano il sentire autentico delgiacobino russo: ultra-minoritario nel suo paese, maostinatamente proteso a dare un senso e una logi-ca alla lunga e certo non lineare vicenda della Ri-voluzione; e inoltre volto a dare innanzitutto a sestesso una giusti$cazione delle proprie scelte. «Na-poleone è grande» dice Pierre «perché s’è messoal di sopra della Rivoluzione, ne ha represso gliabusi, conservandone tutto il buono – l’eguaglian-za dei cittadini, la libertà di parola e di stampa – esoltanto per ciò ha conquistato il potere». E ag-giunge: «“L’esecuzione del duca d’Enghien era u-na necessità politica, e io vedo la grandezza d’ani-mo di Napoleone proprio in ciò: che egli non hatemuto di prendere su di sé, e su sé soltanto, la re-sponsabilità di questo atto!”. “Dieu, mon Dieu! ” sus-surrò con terrore Anna Pavlovna. “Comment, Mon-sieur Pierre, vous trouvez que l’assassinat est grandeurd’âme|! ” disse la piccola principessa sorridendo etirando a sé il lavoro ... Si levarono varie voci. “Capi-tal! ” disse in inglese il principe Hippolyte, e presea battersi il ginocchio ... “Io parlo così” continuòPierre guardando al di sopra degli occhiali e confoga “perché i Borboni sono fuggiti davanti alla

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Rivoluzione lasciando il popolo nell’anarchia; il so-lo Napoleone ha saputo comprendere la Rivoluzio-ne, dominarla; e perciò non poteva, per il bene ge-nerale, fermarsi davanti alla vita di un uomo”. “Nonvolete passare a quell’altra tavola|” disse Anna Pav-lovna. “No”. E Pierre seguitò il suo discorso». Toc-cherà poi al principe Andrej, il protagonista per-dente del grande romanzo, tagliar corto con aristo-cratica freddezza. «“Nelle azioni di un uomo di Sta-to” disse “bisogna distinguere quelle dell’uomo pri-vato da quelle del condottiero o dell’imperatore. Ame così pare”». E anche per lui, che di lì a poco sa-rà ad Austerlitz, ferito in battaglia, e riverso per ter-ra noterà quanto in$nitamente piccolo fosse l’im-peratore dei francesi inquadrato nell’immensa gran-dezza del cielo, il Bonaparte è pur sempre, comeper il suo amico Pierre, «colui che ha capito la Ri-voluzione, che è riuscito a dominarla».Questi uomini avevano intuito il mutamento che siera prodotto, e tuttavia difendevano le ragioni sto-riche e quelle più immediatamente politiche di ta-le mutamento: cercavano di mettere ordine soprat-tutto in se stessi.Ma il mutamento era incominciato ben prima del-la meteorica ascesa del primo console.Un documento appare, sotto questo riguardo, illu-minante. Esso fu pubblicato per la prima volta neiMémoires di Louis-Marie de La Révellière-Lépeaux(1753-1824), convenzionale $lo-girondino, poi mem-bro del Direttorio. I suoi Mémoires furono pubbli-cati cinquant’anni dopo la sua morte. Quel docu-mento è conservato negli Archivi nazionali a Pari-

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gi, sotto la collocazione III, 442, N. 2. Di esso trat-teremo ora, quanto brevemente possibile.Vi si legge la direttiva politica e militare insieme,emanata dal Direttorio e rivolta al comando respon-sabile delle operazioni in Italia, riguardante il trat-tamento degli alleati. È importante la data: 18 ger-minale anno V = 7 aprile 1797. Ne leggerò alcunistralci, non senza aver prima ricordato che confer-ma del contenuto e della rilevanza di questo testoè venuta di recente con la pubblicazione del Mé-moire sur l’organisation fédérative et indépendante de l’Ita-lie (10.VII.1800: di tre anni più tardi) di Marc-An-toine Jullien de Paris, ex-plenipotenziario di Ro-bespierre in Vandea, congiurato con Babeuf, poipartecipe, al più alto livello, della campagna d’Ita-lia, nonché membro del governo provvisorio – si pre-sti attenzione a questo dettaglio – della Repubblicapartenopea (E. Di Rienzo, «Studi storici», XXXVII,1996, pp. 593-627). Anche da quel Mémoire, conse-gnato a Bonaparte pochi giorni dopo Marengo, e-merge infatti chiaramente una linea della politicaestera francese che era già alla base del documentodel 18 germinale anno V: fare dell’Italia una repub-blica capace di costituire «une ligne de neutralité, unebarrière d’airain», «una linea di neutralità, una bar-riera invalicabile tra Francia e Austria». Torniamodunque al nostro testo.«Il Direttorio esecutivo ha meditato sulla condizio-ne d’Italia in seguito alle vostre vittorie e alla vostrasaggia politica. Essa è tale da farci con ragione con-cepire la speranza di stabilire una potente barrieratra la Repubblica francese e la Casa d’Austria e nel

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contempo di poter raccogliere un frutto non me-no grato e glorioso dei vostri successi, e cioè la li-bertà d’una gran parte d’Italia.«Tuttavia il Direttorio ha sentito che non doveva ap-pigliarsi a un partito tanto immutabile $no a far di-ventare impossibile, o per lo meno allontanar mol-to, l’opera salutare della pace, a meno che non sivenisse a compromettere e l’onore e la salvezza deicittadini di questi posti cedendo prematuramentealle loro replicate domande di indipendenza o la-sciandoli agire in conseguenza.«Due motivi potenti han dovuto e devono ancorafarci resistere costantemente al coronamento diquesti voti. Il primo è il grande inconveniente diesporli alle più crudeli vendette, come abbiamo det-to; e l’altro è il rischio grandissimo di mettere in rivolu-zione un popolo di cui occupiamo militarmente il territo-rio, il che potrebbe disorganizzare l’esercito ed esaurire lerisorse che dobbiamo sfruttarvi per il suo mantenimento eper la sua sussistenza.«Da un altro lato, sarebbe importantissimo di non lasciarla Lombardia nella confusione in cui è. È indispensabi-le fare qualcosa che colmi l’inquietudine in cui le condi-zioni incerte del paese devono mettere i propri abitanti, etogliere anche voi dalla posizione imbarazzante in cui vitrovate nei loro riguardi. Detta posizione potrebbe, o pri-ma o dopo, crearvi dei grandi imbarazzi ... Se non han-no già una forma di governo stabile e solido, essi sidivoreranno da loro stessi senza affermare la loro libertàmentre i re vicini e le vicine oligarchie li manterrannosenza fallo in un caos anarchico tanto particolarmente

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funesto per gli interessi della Repubblica francese quantoper quelli del sistema rappresentativo in generale.«Il Direttorio ha pensato alla possibilità di concilia-re questi diversi punti di vista: ed ecco i mezzi daesso concepiti:«Esso crede in primo luogo, e come voi, che nonbisogna permettere la riunione delle assemblee pri-marie (quanto si è già detto basta per dimostraretutta l’inopportunità e tutto il pericolo), ma nien-te si oppone perché diate loro un governo regolaredi loro convenienza e tale che essi dovranno con-servarlo...«La Costituzione della Cispadana, che ci avete in-viata, quasi interamente fatta sulla falsariga dellanostra, ci sembra perfettamente adatta al caso: pe-rò bisognerebbe portarvi un cambiamento essen-ziale. Invece di far scegliere i membri della tesore-ria nazionale dal Corpo legislativo, bisognerebbefarli scegliere dal Direttorio esecutivo e metterli sot-to la direzione immediata del ministero delle Finan-ze, senza di che non vi è unità d’azione nell’ammi-nistrazione...«Ecco dunque quel che dovete fare. Dichiarereteche l’attuale amministrazione della Lombardia edel paese compreso sotto il nome di Repubblica ci-spadana non ha abbastanza forza né abbastanza re-golarità per assicurare contemporaneamente il ser-vizio degli eserciti francesi e il benessere degli abi-tanti del paese; che, per conseguenza, voi avete sti-mato necessario di $ssare per il momento una or-ganizzazione nuova atta a migliorare le sorti delpaese e quelle dei nuovi eserciti; che, secondo voi,

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la più capace e rispondente a questi oggetti è quellache è proposta nel piano di Costituzione presenta-to al Congresso cispadano, salvo le poche modi$-che che vi sono parse indispensabili, come per e-sempio quelle da noi indicate sulla tesoreria nazio-nale ... Vi aggiungerete le divisioni territoriali chevoi stessi avrete fatto fare per prevenire ogni dis-puta che interesse locale o sopiti odi potrebberoportare e soprattutto per evitare lungaggini.«Dichiarerete nello stesso tempo che per il momento rite-nete opportuno di nominare le persone che devono copri-re gli impieghi tutti che sono indicati nell’organizza-zione nuova o di af$darne la scelta a chi giudiche-rete conveniente e costituirete così tutte le branchedel nuovo Stato.«Tuttavia non ci sembra utile che voi installiate il Corpolegislativo. È all’avvicinarsi del nostro rientro, se a-vremo la fortuna di dettare le condizioni di pace,che lo farete nominare secondo la Costituzione benreale che avrete $ssata, ma che $no allora, lo ripe-tiamo, non avrete chiamato che “Regolamento”. IlGoverno deve essere in azione in ogni sua parte, ma lavolontà legislativa, $nché ci saremo noi, non deve esseremanifestata che da voi solo».Testo rilevante: perché ci mette sotto gli occhi laquestione che, piaccia o non piaccia, sta al centrodell’intero dramma, destinato a repliche nella sto-ria. Che, cioè, già nella mente dei suoi leader, latutela dell’interesse statuale del paese che ha datoavvio, con sacri$ci immani, a una epocale mutazio-ne, è inestricabile dalla certezza che esso coincida conl’interesse di tutti: anche di coloro che, per dirla col

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linguaggio del tempo, non avevano voluto «essereliberati». Diagnosi che diviene col tempo semprepiù indigesta. Non mancheranno, ad esempio, tragli esuli giacobini napoletani in Francia coloro chepenseranno di rimuovere $sicamente il principaleresponsabile (così essi opinavano) della degenera-zione della politica estera francese in politica dipotenza: cioè appunto il primo console. È in que-sto quadro che matura la congiura legata al cosid-detto «attentato Ceracchi» (ottobre 1800), durissi-mamente repressa dal primo console con proscri-zioni e condanne capitali. La durezza, e persino lospirito di conquista, fanno parte della «creta» uma-na. E non saremo certo noi, ricchi di postera sag-gezza, a stupircene! Le rivoluzioni saranno anche –e io lo penso – le «locomotive della storia», ma im-mancabilmente, e magari impercettibilmente, giun-ge il momento in cui quelle «locomotive» si scopro-no terribilmente indietro rispetto a una storia checontinua a procedere, e che intanto ha macinato,sotto la sua mole, uomini, vite, idee.Ora, dinanzi a questo stato di cose, dinanzi al con-creto esplicarsi della politica di conquista del Di-rettorio, il giacobinismo italiano venne chiamato aun cimento dal quale è uscito irrevocabilmente se-gnato. Dirò di più. Intanto esso ci ha riservato unprezioso lascito di idee e di critica, proprio in quan-to costretto dalle durezze della storia a superare sestesso, a trascendere la propria originaria dimensio-ne e il proprio orizzonte di partenza.Tale superamento avvenne nel fuoco incrociato dientrambe le esperienze che in quel giro di anni sisono date. Le quali sono, da un lato, il deteriora-

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mento del rapporto con il paese-guida, dall’altrola micidiale (e, per la Repubblica partenopea, le-tale) saldatura tra reazione «popolare» (insisto suquesta parola) e ancien régime. Saldatura che travol-ge, come dicevo, la Repubblica partenopea, e im-pone drammaticamente ai giacobini tutti (e direi:ai giacobini di tutte le epoche) la domanda auto-critica per eccellenza, che è sempre aperta: «Doveabbiamo sbagliato|».Domanda che apre la strada a un mondo nuovo einedito, che, se si prescinde da quel fallimento, ri-sulterebbe incomprensibile.Ma il giacobinismo, quello italiano forse più di al-tri, fu anche disseminazione di germi dentro il tes-suto solo all’apparenza di mera restaurazione del-l’Europa conseguente al Congresso di Vienna: delresto non vi è mai nella storia un puro e sempliceritorno ad pristinum. Da quella mescolanza di fat-tori molteplici e inediti, che allora si produsse, di-scende l’Europa moderna. L’Europa capace di lì apoco di scrollarsi di dosso i presupposti stessi su cuisi era instaurata – o aveva cercato di affermarsi – laRestaurazione. Insisto su questo punto. Giova ricor-dare, ad esempio, per intendere l’intrecciarsi com-posito di vecchio e nuovo di quella fase cruciale del-la nostra storia, che nella riflessione celeberrima diBenjamin Constant (sulla libertà degli antichi com-parata con quella dei moderni, pronunciata nel-l’anno 1819) «tirannide» è il governo del Comitatodi salute pubblica, mentre improntato a «libertà»è giudicato invece il sistema politico vigente sottoLuigi XVIII e Carlo X. Orbene, di quella inedita

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mescolanza che si realizza nel fervore intellettualee nelle tensioni laceranti del primo quindicenniodella Restaurazione, tra il Congresso di Vienna ela Monarchia di luglio, fa parte anche una soprav-vissuta componente giacobina o se volete post-gia-cobina, che ha fatto tesoro della lezione della scon-$tta, ma non rinnega se stessa né le proprie pre-messe di partenza.Quando invece questo rinnegamento avviene, poi-ché certo anche questo è avvenuto, in quegli annicosì simili ai nostri, allora si sprigiona dalla psico-logia del rinnegato la più feroce delle acrimonie.Isaac Deutscher, lo storico ebreo-polacco scompar-so più di trent’anni addietro, l’ha magni$camentetratteggiata, quella psicologia, in uno scritto magi-strale, pubblicato a Londra nel 1955, intitolato Pro-$lo dell’ex-comunista, e che prende le mosse appunto«dall’amareggiato ex-giacobino» come egli lo chia-ma «di epoca napoleonica e post-napoleonica.«Wordsworth e Coleridge» egli scrive «dapprimaattratti, conquistati, dalle vicende di Francia, eranopoi per così dire “ossessionati dal ‘pericolo’ giaco-bino”. La paura oscurava in essi per$no il geniopoetico. Fu Coleridge che denunciò alla Camera deiComuni un bill per la prevenzione della crudeltàcontro gli animali de$nendolo “la più forte solle-citazione del giacobinismo legislativo”! In Inghil-terra» seguita Deutscher «l’ex-giacobino divenne ilsuggeritore della reazione. Direttamente o indiret-tamente vi fu la sua influenza dietro il bill controgli scritti sediziosi, dietro il bill sulle riunioni sedi-ziose, dietro la sospensione dell’Habeas Corpus Act,

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dietro il rinvio della emancipazione delle minoran-ze religiose. Per$no il commercio degli schiavi» chio-sa amaramente lo storico «ottenne un prolungamen-to di vita nel nome della libertà».Ma non di tutti fu questo l’esito.«Jefferson fu l’amico più fedele della Rivoluzionefrancese nel suo primo periodo eroico. Egli fu di-sposto a perdonare per$no il Terrore, ma si allon-tanò disgustato dal “dispotismo militare” di Napo-leone. Tuttavia egli non ebbe nulla a che fare coni nemici di Bonaparte, gli “ipocriti liberatori” del-l’Europa, come li chiamava. Il suo distacco non erasemplicemente un adattarsi all’interesse diploma-tico di una giovane e neutrale repubblica; era il ri-sultato naturale della sua convinzione repubblica-na e della sua passione democratica.«Diversamente che Jefferson, Goethe visse propriodentro, al centro della tempesta. Le truppe di Na-poleone e i soldati di Alessandro, a turno, si accam-parono nella sua Weimar. In quanto ministro delsuo Principe, Goethe opportunisticamente s’inchi-nò a ogni invasore; ma, in quanto pensatore e uo-mo, non s’impegnò e rimase appartato. Egli era con-sapevole della grandezza della Rivoluzione francesee fu colpito dai suoi orrori. Salutò il rombo dei can-noni francesi a Valmy come l’aprirsi di una nuovae migliore epoca, e capì le follie di Napoleone. Ac-clamò la liberazione della Germania da parte di Na-poleone, e fu acutamente consapevole della mise-ria di questa “liberazione”. Il suo rimanere in di-sparte, in questa come in altre occasioni, gli valse lafama di “olimpico”; e la de$nizione non sempre

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ebbe l’intenzione di essere una lode. Ma il suo a-spetto olimpico fu dovuto meno che mai ad una in-teriore indifferenza verso la sorte dei suoi contem-poranei; a velare il suo dramma fu la sua incapaci-tà e riluttanza a identi$care se stesso con delle cau-se, ciascuna delle quali era un inestricabile garbu-glio di giusto e ingiusto».Ma ciò che fa unico il destino dei giacobini soprav-vissuti alla bufera non è, forse, tanto il livore dei rin-negati o l’implacata e mai dismessa ostilità degli av-versari, quanto il distacco critico, senza concessionedi attenuanti, che mostrarono nei loro confrontiproprio coloro che vennero dopo e continuarono laloro opera. In un mondo ormai diverso accadde aquesta nuova leva di precisare a se stessa e agli altrila sua nuova identità, proprio in quanto rimarcavala distanza che la separava da quei lontani (non neltempo – che era breve – ma nella visione politica!)progenitori. I quali nondimeno erano stati degli «a-vamposti» della nascente modernità. Tali essi furo-no, e come tali vanno dopo un così gran tempo ap-prezzati da noi, con buona pace della freddezza,quando non del sarcasmo, dei loro eredi. Giacchésenza quegli avamposti, non sarebbero venuti a com-pimento né Mazzini né Marx, quale che sia il distac-co con cui e l’uno e l’altro (Marx con mordente sar-casmo) parlarono di quegli scon$tti.E allora è parso necessario, per equità storiogra$-ca, e a parziale riscatto di una esperienza conclusa,ricordare qui, conclusivamente, quel giacobino ita-liano, ma cosmopolita per cultura e per militanza,

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che per durata di vita si spinge molto addentro nelsecolo decimonono: Filippo Buonarroti.Buonarroti, morto a Parigi il 17 settembre 1837, è,come si sa, un «ponte» tra i due secoli. Robespier-rista, adepto sotto i colpi della reazione termidoria-na della congiura di Babeuf, storico – assai tempodopo (la Conspiration pour l’égalité dite de Babeuf escea Bruxelles nel 1828) – di quella ingenua congiuravotata al fallimento, «maestro» di nuove leve cari-che di futuro (penso alla formazione politica e co-spirativa di Mazzini). Per aver visto e direttamentesubìto la reazione termidoriana, si potrebbe direche Buonarroti aveva avuto la ventura di percepirein anticipo tutto lo sviluppo futuro: la distorsionedella Rivoluzione e i suoi effetti, premonitori dellacrisi $nale. Aveva cioè fatto diretta esperienza diquella «sfasatura cronologica» di cui s’è detto alprincipio di questa nostra riflessione: sfasatura cheaveva comportato l’entrata in scena dei giacobinidei «paesi fratelli» quando ormai i termini della par-tita erano cambiati. E nondimeno, scrivendo, annie anni dopo, su quella vicenda e sull’insegnamentoche ne scaturiva, Buonarroti, ormai prossimo al tra-passo, trae un bilancio e fa una professione di fedeche la percezione della $ne ancora più rende lucidae veritiera: parla dei congiurati di Babeuf, ma par-la essenzialmente della Costituzione dell’anno II:«Non ignoro che i princìpi politici ed economici cheho dovuto esporre incontreranno molte disappro-vazioni: non è una buona ragione per non pubbli-carli. Altri pretesi errori sono poi divenuti verità in-contestabili. Ci saranno pur uomini che non si la-

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sciano abbagliare ... Essi forse apprezzeranno l’im-portanza di questi princìpi e rimpiangeranno lamemoria dei cittadini coraggiosi che, convinti del-la loro giustizia, li suggellarono, in$ne, col sangue.Strettamente legato a loro da sentimenti comuni,io condivisi le loro convinzioni e i loro sforzi. E seerrammo, il nostro errore fu, almeno, integrale: es-si vi perseverarono $no alla morte; e io, dopo aver-ci riflettuto in seguito e a lungo, sono rimasto con-vinto che l’eguaglianza da loro vagheggiata è la so-la istituzione idonea a conciliare tutti i veri bisogni,a ben dirigere le passioni utili, a contenere quelledannose, e a dare alla società una forma libera, fe-lice, paci$ca e duratura».

© 2004 luciano canfora

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