Camerun - Ricordi di viaggio di Domenico Tolomei

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Yaoundé - Garoua 30/12/2011

Mi svegliai alle prime luci del mattino. Il richiamo della città fatto di verdi colline, vegetazione lussureggiante, caldo penetrante, del variopinto sciamare di una popolazione policroma, svelò in me un profondo desiderio d’Africa: si, l’energia l’avvertivo nei muscoli, i polmoni avevano bisogno dell’aria dal sapore di equatore, i sensi della miscela di suoni, odori, colori che la città mostrava di possedere. Il sangue fl uì nelle vene come dolce elisir ed il corpo desiderò il contatto carnale con quella terra. Ero pronto per il Camerun e la vita.

La fugace visita della città mostrò la tipica confusione africana con il traffi co completamente congestionato e solitari gendarmi a tentare di regolare l’irregolabile. Le donne con le loro forme imponenti e gli abiti sgargianti si aggiravano in quell’amplesso di metallo con fare disinvolto, rendendo tutto più sopportabile e disponendo al sorriso. I mercati ed i venditori ambulanti, indifferenti alle macchine, si impossessavano degli spazi facendo degenerare il tutto in forma indefi nita.

L’apparire non sembrava sconvolgere la folla, tutt’altro. Essa deambulava libera dall’affanno, come fosse attratta dall’invisibile. Lo sciamare era simile a quello di un formicaio nel quale ciascuno sapeva esattamente cosa fare e dove andare seppur ad un osservatore esterno potesse apparire il contrario.

I palazzi, a loro volta, parlavano di una maestosità fuori luogo soprattutto laddove ,circondati da una vegetazione invadente che sembrava volerli ingoiare e costringerli a sottostare alla forza della natura. E come guardiani implacabili, nel cielo volteggiavano dei pipistrelli le cui ali a membrana assomigliavano, nel volo, ad ombrelli che si aprivano e chiudevano come a voler ribadire la supremazia del creato.

La miscela che derivava dalla fusione degli elementi mi parve generatrice di una rappresentazione che avrei potuto catalogare fra quelle di un museo di arte naif, rappresentazione che seguiva il proprio istinto senza conformismi, confi nando nell’inutile il dettame tecnico dell’espressioni artistiche “evolute”. Era una scena che valeva di per sé, che senza compromessi liberava una visione poetica, fantasticando ed accentuando le forme e la realtà, attraverso gesti elementari, semplici, che raccontavano in modo fi abesco scene di vita quotidiana se in esse il colore puro era la lingua parlata.

La visione di Yaoundè si era tramutata in creatività allo stato puro ed in essa il “primitivo” era divenuto sinonimo di libertà. Nella libertà dell’istante le ore si persero,

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poi, nella frugalità di un pranzo veloce, di incontri casuali, di un vorace osservare, di uno stordito ascoltare, di un intimo richiamo alla vita e del tragitto che riportò all’aeroporto.

Era tempo di lasciare Yaoundè e partire per Garoua. La notte celò l’arrivò. C’era solo il tempo per andare a dormire.

Garoua – Wangai 31/12/2011

Ero a Garoua. Il tempo di fare colazione, incontrare la guida, caricare la jeep del mio bagaglio e di alcune taniche di acqua potabile e via in direzione di Poli.

Eravamo fuori dalla cittadina ed il paesaggio assunse contorni saheliani: erba secca, alberi radi, terreno piatto, polvere.

Lungo la strada ecco comparire villaggi fatti di paglia e mattoni di fango nei quali sciamavano nugoli di bambini sorridenti e spensierati mentre le donne erano indaffarate a svolgere i quotidiani lavori domestici: portare acqua, accatastare legna per il fuoco, preparare le pentole per cucinare, lavare le biancherie. Attività che si svolgeva all’aria aperta e sui bordi della strada o pista che dir si voglia. Anche gli uomini partecipavano alla recita della vita da una posizione defi lata, anche se impegnata a risolvere qualche questione impellente: riparare un motorino o a quello che sembrava assomigliare ad un mezzo di trasporto, cucinare carni su lastre di ferro appoggiate su bidoni adattati a bracieri, dialogare su argomenti apparentemente irrisolvibili, sistemare un tetto cadente. Su tutto l’inevitabile peso di una vita fatta di fatica e dal futuro ostaggio del destino.

Improvvisi, come isole di zucchero fi lato, apparvero covoni di cotone che giacevano all’ombra di grandi alberi in attesa di essere portati in chissà quale stabilimento per essere trasformati nel morbido materiale che compriamo nei nostri negozi. Ma non si vedeva solo il cotone, anche il lavoro dei coltivatori era visibile in quella merce, anche la tensione dei muscoli, il gesto veloce di una mano sapiente durante la raccolta, lo sforzo dei muli per trascinarlo al punto di raccolta. Ed in quelle piccole colline bianche immaginavo anche lo sforzo di donne raccoglitrici forti ma timide, di donne orgogliose ma dolci. Si perché la loro presenza era in ogni dove, quasi come se un continente intero si appoggiasse sulle loro spalle senza per questo togliere dai loro visi una serenità che lasciava all’osservatore un senso di pace che riconciliava con la vita, con il mondo, con l’esistenza.

Lasciammo l’asfalto.La jeep si gettò su una pista sterrata e diffi cile che ci avrebbe accompagnato

per molte ore. Dovevamo raggiungere Poli ed il suo mercato.Le montagne segnavano l’orizzonte e la polvere ne confondeva i contorni. Il

tempo scorreva senza lasciare traccia: le lancette non hanno senso in Africa, c’è il giorno e la notte, tutto il resto non conta.

Senza avvertimenti alcune donne Bororo comparvero ai bordi della pista. Il colore era il loro linguaggio, così come le scarnifi cazioni facciali. Le osservai, le divorai con gli occhi.

La risposta?Un sorriso ed un velo che ne celò il viso.L’istante è trascorso.Proseguimmo.La jeep non diede tregua al suo motore e l’Africa si lasciò conquistare. Io lo ero

già, conquistato, era la decima volta che la visitavo, eppure non bastava mai. Il mio cuore ne aveva bisogno più di ogni altra cosa, come i polmoni hanno bisogno dell’aria per respirare, gli occhi di luce per vedere, le mani di stringere per afferrare, il corpo di cibo per vivere. E la melodia di colori e sensazioni accompagnava .

Giungemmo a Poli.Il mercato si accorse dell’arrivo e gettò negli occhi immagini di vita variopinta

ma, non contento, si appropriò anche dell’udito e produsse suoni di una vita antica, forse dimenticata, fatta di belati, di battiti di martelli, di arnesi ancestrali, di scampanellii, di lingue sconosciute.

Non ci volle molto tempo prima di gettarmi nella “mischia” e lasciarmi trasportare dallo stesso mulinare di quelle genti. I miei occhi guardarono voracemente nell’illusione di catturare anche le emozioni, i battiti dei cuori, le anime. Ma non ne fui appagato. Ero si in quella realtà ma, nel contempo, mi parve sognare. I Peul, i Bororo, i Fulani osservavano me.

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Forse ero un’ombra anche io e come un’ombra evasi da quell’istante per ritrovarmi lontano da Poli alla volta di Wangai.

La strada, tramutatasi in sentiero, conduceva. La sequenza che catturava lo sguardo parlava, ora, di una savana arbustiva nella quale fuochi controllati avevano lasciato una patina nera che chiazzava il paesaggio. Stavamo attraversando il Parco del Faro. Gli animali erano una presenza rara ad eccezione di alcuni babbuini e kobi solitari: l’Africa ne piangeva l’assenza e l’uomo ne aveva colpa ma, su ogni cosa, soccorreva la speranza rappresentata dalla volontà di mantenere in vita quel parco che i rangers testimoniavano con la loro presenza. Il sole al tramonto colorò il malinconico pensiero ed il fi ume Faro che attraversammo, ne confi nò l’amarezza: lo scenario che si mostrò dal ponte era soggiogato dai colori del disco solare ed il passaggio di mandrie al guado ebbero il compito di deliziare lo sguardo. Non vi era fretta negli animali e neppure nello scorrere delle acque. Ogni cosa sembrava appartenere ad un tempo rallentato ove la lentezza era sinonimo di serenità, di pace, di silenzio. I muscoli si rilassarono e con essi la mente: mi sembrò di essere “a casa”, di avvertire un legame con la terra che mi ospitava, di avere un legame ancestrale al quale non sapevo dare una spiegazione ma che alimentava l’io, nutrendolo di energia. Wangai mi attendeva ed il Faro indicò la via. I monti Alantika erano a qualche chilometro di distanza e la loro presenza, a mò di cornice, confi nava lo sguardo. La pista si fece più dura ma solo per alcuni chilometri: il villaggio di Wangai ci accolse con le sue misere case e una piccola moschea. Il Lamido del luogo aveva il proprio “palazzo” sul limitare di uno slargo nel quale polvere, erbacce e polli starnazzanti rappresentavano la scenografi a.

Vi era silenzio.La jeep fermò i motori. Un uomo con una tunica bianca ci accolse all’interno

di un patio del “palazzo”. Ogni cosa sembrava precaria ma l’atmosfera era familiare. Sotto un grande albero montammo le tende, scaricammo i bagagli e ci rinfrescammo con dell’acqua contenuta in secchi di plastica. Domani sarebbe stato il tempo per i Koma. Cena. Le stelle vegliavano. La notte era fresca ma piacevole. Il 2011 fi nì. Bon anè!

Wangai – 01/01/2012

La sveglia era alle ore sei. La colazione fu servita su una stuoia sotto l’albero del patio. L’aria era frizzante. Il gallo ricordò la sua presenza. Il sole incominciò la sua marcia. Le parti più elevate dei monti Alantika erano illuminate dai primi raggi del sole nascente. Wangai giaceva nella sua immobilità, incominciando a rivivere senza strappi, lasciando la scena ai suoi animali domestici.

Il mio animo si nutrì di quella semplicità e me ne lasciai cullare e non fu diffi cile dimenticare l’affanno della città dalla quale provenivo. L’evoluzione fu istantanea se, nella pace di quel luogo, ritrovai il gusto di respirare l’aria, di sentire la terra su di me, di non interessarmi dell’apparire ma solo dell’imparare, del conoscere, dello stupirmi di fronte ad un gesto gentile, ad un sorriso, ad uno sguardo, ad una tazza di caffè gustata all’aria aperta mentre un gregge di pecore sfi lava a pochi passi dalla mia posizione ed il frastuono dell’essere trovò requiem in quel villaggio così lontano e così povero.

Ma povero rispetto a cosa? Forse alle città moderne, ma la sua povertà era ricchezza se modellata ai

ritmi della natura, del sole, del giorno e della notte, della semina e del raccolto, del pascolo e della mungitura. E tutto tornava all’essere, al necessario e non al superfl uo, all’umano e non all’inumano desiderio di vivere al di sopra ed al di fuori della natura. Sentii il bisogno di assaggiare la terra d’Africa, di avvertire la fatica, di sudare, di sfi nire il mio corpo per conoscerla, per ascoltarla, per viverla, per temerla, per stupirmene, per incantarmi di fronte ai suoi misteri. Ero pronto per la scoperta dei villaggi delle popolazioni koma, villaggi che punteggiavano della propria presenza i monti Alantika e nei quali avrei incontrato genti che vivevano come se il mondo si fosse fermato a tanti secoli fa.

Su quelle considerazioni, il giorno consumò il suo destino e lasciò spazio alla notte che ebbe il compito di riabilitare le energie che avevo consumato nei lunghi trasferimenti.

Il mattino seguente mi preparai, insieme alla guida, per la lunga camminata che mi avrebbe consentito di raggiungere i villaggi che solamente poche ore prima immaginavo arroccati sulla catena montuosa che sovrastava Wangai, dipanandosi

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come una muraglia inespugnabile lungo il confi ne con la Nigeria.L’emozione per l’incontro non fece altro che annullare la fatica per i chilometri

percorsi se la mattinata trascorse via senza accorgermene. I campi fecero da accompagnatori, così come la vegetazione selvatica, mentre di tanto in tanto apparivano viandanti solitari che avrebbero raggiunto una meta che allo sguardo sembrava semplicemente il nulla. Il sole ora era alto ma la brezza leggera riusciva a dare al corpo il fresco necessario ed il camminare si tramutò in andatura sognante fra i campi di sorgo, di miglio, di mais.

L’andatura si confuse nel seguire sentieri ora sconnessi, ora impervi, ma non per questo l’io si attardò a rifl ettere sul dove andare, semplicemente lasciò all’intorno il compito di catturare, di prendere la mano e trascinare attraverso il vivere. Non ero io a comandare i movimenti ma una dolce melodia che come le sirene di Ulisse cantava per me, dando alle note il signifi cato di punto cardinale da seguire per raggiungere la meta.

Fluttuai su di esse.Come d’incanto i villaggi koma si materializzarono senza mediazione,

confondendosi fra le rocce e la vegetazione al punto di assomigliare a qualcosa d’altro piuttosto che luoghi di abitazione. Sembravano, viceversa, ambienti dedicati alla meditazione, alla trascendenza, al mistero dell’esistenza. Doveva essere così, non poteva che essere così se non riuscivo a comprendere da dove quegli uomini e quelle donne riuscivano a trovare ciò che serviva per vivere: i miei occhi vedevano pietre, montagne, anfratti, ostacoli di ogni genere. Ma la mia era un’osservazione superfi ciale se io vedevo solo quello che volevo vedere o evitavo di porre attenzione là dove sembrava che non fosse possibile che qualcosa crescesse.

Era la mia prospettiva ad essere sbagliata.Dovevo dimenticare il visibile e concentrarmi sull’invisibile o quanto meno

concentrarmi sull’insolito. Ecco allora che una pietra diveniva una macina e un buco su una roccia un paiolo. Una cesta su un albero, un alveare per raccogliere il miele, un albero, un silos sul quale legare trecce fatte di pannocchie di mais, un canestro di vimini, una rete da pesca, un baldacchino con un otre sottostante con sopra un contenitore di paglia, un fi ltro per la birra di miglio, un accumulo di rocce, una piccola diga per raccogliere acqua da bere, una catasta di foglie e rami secchi, il concime per i piccoli terrazzamenti che solo ora capivo fatti dall’uomo. In altre parole anche un semplice pezzo di legno o un sasso avevano un ruolo in quei villaggi, avevano una importanza.

Su quella constatazione avvertii la distanza che separava me da quegli uomini, non per sottolinearne la differenza ma, ad evidenziarne l’imbarazzo, si l’imbarazzo per tutte le vanità del mio vivere, del mio lamentarmi, della mia infelicità, del mio necessario e non necessario, dell’essere e del non essere, del concetto di fretta, di possesso. In un istante afferrai il concetto della mia povertà.

Dove si era posato lo sguardo fi no a quel momento?Sul superfl uo.Dove avevo cercato la verità?Nel visibile.Dove avevo riposto il signifi cato di amore?Nel possesso.Viceversa in quel villaggio vi erano donne e uomini per i quali il loro tutto ai miei

occhi appariva nulla ma in quell’apparente nulla i sorrisi, gli occhi, le strette di mano, i saluti apparivano tesori inestimabili se il cuore ne percepiva la dolcezza, il sentimento, l’umanità.

Teka teka mi salutavano ed io, ciao! Ciao per confessare il pentimento. Ciao per confessare la voglia di liberarmi dei miei pesi, delle manie, delle ansie, delle inutilità.

Vedere le donne coperte con un po’ di foglie nelle loro intimità e lasciare all’osservatore la preoccupazione del proprio apparire, diede alla scena l’esatta dimensione di quel momento: a-temporalità e a-fasia. Nel silenzio dell’anima mi lasciai trasportare e fl uttuai simile ad un’ombra, ombra per non disturbare quell’istante, per coglierne l’essenza.

E nel fumo delle pipe che le donne utilizzavano come strumento di voluttuoso abbandono, lasciai che il ricordo si frapponesse fra me e il popolo koma.

Era il tempo di tornare a Wangai.Il camminare seppur diffi coltoso, a causa del terreno, non affaticò il corpo ma lo

ammantò di una sensazione di allontanamento che immalinconì l’animo oltre misura. Non ebbi il tempo di dolermene se improvvisamente una musica rutilante annunciò il convenire di una moltitudine di koma in un piccolo villaggio, là dove, in quella che

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doveva essere una piazza, si svolgeva una danza sfrenata con uomini e donne ad eseguire passi ritmati che davano forma all’energia che quei corpi possedevano. Il tutto accompagnato da poderose bevute di birra di miglio che anziché frenare, liberava i movimenti dal peso del corpo, facendo ondeggiare la moltitudine in direzioni diverse e facendola sembrare una mandria priva di controllo.

La festa sarebbe durata fi no a notte inoltrata. Senza voltarmi mi allontanai, con le note della musica ed il vociare dei koma,

che svanivano lentamente ad ogni passo.

Wangai – Maroua 02/01/2012

Era tempo di smontare il campo e partire per Maroua. Wangai si allontanò attraverso i fi nestrini della jeep. La strada, inizialmente agevole, divenne impervia ma lo scenario di colline, di villaggi, di campi coltivati predispose alla fatica con dolcezza, quasi come se il Camerun volesse scusarsi per quelle vie di comunicazione distraendo con la sua vergine bellezza.

Il mercato Ngong ci venne incontro assumendo le forme di una moltitudine variopinta che nella confusione del luogo era intenta a svolgere attività che richiedevano gesti che solo ad un osservatore presuntuoso potevano apparire primitivi se nel sudore della fronte, se nella tensione dei muscoli, se nella fatica di un corpo si coglieva l’apparente arretratezza.

No.Era quello un tesoro che mostrava il genere umano nel giusto rapporto con

il creato, creato ove il superfl uo non aveva signifi cato e il solo necessario assumeva valore, valore per vivere e ringraziare Dio per un giorno donato alla vita.

La policromia e la polifonia si amalgamavano alle diverse etnie che si concentravano nel mercato dando vita ad un arcobaleno che si mostrava attraverso le forme più disparate: abiti, stoffe, spezie, cibi, arnesi, animali. Ogni cosa contribuiva ad alimentare l’intensità della rappresentazione lasciando ai visi scarnifi cati delle donne bororo il compito di stupire oltremisura. Visi che assomigliavano a pergamene sulle quali, segni simili a geroglifi ci, raccontavano storie misteriose nelle quali l’essere umano apparteneva ad un tempo diverso da quello nel quale mi muovevo, producendo una sensazione di sfasamento culturale che lasciava all’adesso il compito di colmarne il vuoto. Ma l’adesso non fu suffi ciente, se occhi indagatori mi fi ssarono alla ricerca di un tratto, di un geroglifi co che parlasse di me. Alla constatazione dell’assenza seguirono sorrisi e gesti di benvenuto che disposero all’incontro dandomi la possibilità di osservare da vicino quei visi tramutati in rappresentazioni artistiche che attrassero l’immaginazione precipitandola nel desiderio di toccare quelle donne per deliziarmi della loro sensualità. L’estasi che ne seguì tramutò il tutto in rappresentazione onirica nella quale l’io vagò senza limiti.

Io-ectoplasma.Assunsi forme ed espressioni strane se ad esse seguirono parole in libertà di

idiomi sconosciuti. Il vagare si tramutò in volo, pindarico, se non riuscivo a placare il desiderio di vedere il più possibile, di conoscere il più possibile, di toccare, di assaggiare, di saziarmi, di liberarmi dal desiderio.

Ngong era ormai lontana e Maroua prese il suo posto con discrezione.

Maroua – Mercato di Pouss - Waza 03/01/2012

Nelle prime ore del mattino, la cittadina giaceva immobile su se stessa. Lentamente ma, inesorabilmente, i raggi del sole scaldarono l’aria e con essi le strade, prima semideserte, incominciarono ad animarsi e la polvere inizialmente adagiata come un velo, iniziò la sua confusa danza lasciandosi trasportare dalle folate di aria generate da decine di motorini e da un numero più sparuto di macchine e camion. Nessuno sembrava dolersi di quella presenza anche se, ad uno sguardo superfi ciale, ogni cosa appariva più grigia.

Fu solamente un istante.L’energia dello sciamare, ora confuso, si rivalse sulla coltre polverosa, lasciando

all’osservatore la sensazione che essa fosse un sipario provvisorio al quale sarebbe succeduta una scena fantasmagorica che nulla avrebbe celato.

Senza avvertimenti la luce divenne più forte, il cielo di un azzurro accecante, una brezza leggera ma, rinfrescante, si occupò di rimuovere il velo di polvere che nascondeva i colori ed anche i suoni parteciparono alla rappresentazione, amalgamandosi alla scena ed animando di vita ciascun attore della cittadina-

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palcoscenico. Senza fretta ci inoltrammo per le vie di Maroua e nel volger di poco tempo la

lasciammo alle nostre spalle: eravamo diretti a Pouss.Lo scenario era piatto ed arido e per le piste, sempre più polverose, l’apparire di

persone assunse i contorni di ombre simili ad ectoplasmi modellati dai rifl essi del sole e da nuvole di pulviscolo che ne modifi cava la forma, tanto da confondere lo sguardo e non capire la reale dimensione di quegli esseri deambulanti.

I contorni medesimi dell’ambiente circostante apparvero, nel contempo, sfumati ed indeterminati al punto di tramutarne l’essenza in miraggio e lasciare all’interpretazione onirica la libertà di defi nirne la natura. Osservavo con gli occhi o con la mente? O meglio osservavo con gli occhi ma, vedevo con la mente? Alla domanda non seppi rispondere se ad essa seguì la visione di uno specchio attraverso il quale vidi un sorriso, un mio sorriso al sapere il nome del lago artifi ciale che apparve, come per incanto, costeggiando la strada sulla quale eravamo: Maga. Forse veramente una magia si era occupata di quello spazio di terra, preoccupandosi di celarne gli abitanti ad una vista indiscreta. Forse erano Bororo, Peul, Fulani o semplicemente apparenze che a nulla appartenevano, o creazioni della mente, o infl uenze di un’Africa misteriosa. La sensazione si amplifi cò nell’osservare il lago che silenziosamente accompagnava la marcia, laddove un rifl esso accecante ne alterava le dimensioni disperdendolo in un orizzonte infi nito.

L’indeterminatezza di quei confi ni trovò argine verso nord ove il lago contrasse la dimensione assumendo le forme di un fi ume, il fi ume Lagone che, simile ad un pastore, si appropriò delle acque limitandole nel loro fl uire e conducendole in un placido letto che segnava il confi ne con il Ciad.

Sulle rive di quel fi ume, in prossimità di una piccola stazione di posta, si accalcavano genti delle più diverse provenienze, in attesa di caricare le proprie mercanzie sulle lunghe piroghe da trasporto attraccate confusamente sugli argini della via d’acqua. Di tanto in tanto giungevano camion carichi fi no all’inverosimile di sacchi di noccioline e di sale che, giunti a destinazione, venivano svuotati dei loro tesori per essere sostituiti, nel carico, da uomini e donne che, frettolosamente, si accalcavano su ogni piccolo spazio di quei camion che potevano ora, dirsi, mezzi di trasporto pubblico tanto che, nonostante la concitazione di quella improvvisa fermata, ciascuno riuscì a trovare il posto e le persone, sebbene nella precarietà della sistemazione, non davano cenno ad alcuna protesta od imprecazione. Nel mentre delle operazioni di trasbordo e delle partenze delle piroghe, la mia jeep riprese la pista principale per dirigersi verso Pouss.

La terra che stavamo attraversando, apparteneva all’etnia Musgum, una popolazione di pastori e pescatori la cui caratteristica era quella di costruire case a forma di obice, tradizione ormai quasi scomparsa ma, che resisteva in alcuni villaggi che più di frequente, ora, comparivano ai lati della pista. Le loro costruzioni, fatte di fango e paglia, sembravano dei vasi rovesciati ben aderenti al terreno, il loro colore grigio scuro ne aumentava la somiglianza alla parte anteriore di un siluro dando loro un aspetto altero, guerriero, per non dire simile ad una garitta nella quale sarebbe stato facile immaginare la presenza di una sentinella in turno di guardia. Nell’osservarle da vicino, era possibile notare delle scanalature che partivano dalla sommità per terminare nella parte basale a contatto con il terreno, scanalature che assomigliavano a scaglie di pesce e che avevano la funzione di far defl uire più rapidamente l’acqua piovana ed impedire il deterioramento della struttura. Al loro interno la temperatura era simile a quella di un sotterraneo, fresca e piacevole, temperatura così resa possibile anche dalla presenza di un foro circolare di piccole dimensioni nella parte sommitale che generava una corrente d’aria costante con quella proveniente dall’apertura laterale fungente da ingresso.

Ma come distinguere un Musgum dalle altre etnie?La domanda trovò subito risposta. Alcuni uomini dalla statura incredibilmente

sviluppata mostravano tratti diversi dai sempre presenti Bororo, Peul e Fulani, tratti assomiglianti a genti euro-asiatiche ma, accompagnati da qualcosa d’altro. Senza titubanza mi avvicinai ad un uomo seduto all’ombra di un albero e, con sorpresa, mi resi conto che il qualcosa d’altro era rappresentato da cicatrici appositamente create e che a forma di mezza luna partivano dalle orecchie per terminare verso le labbra, disegnando sulle guance una sequenza di linee ondulate che davano al viso un aspetto duro, bellicoso, fi ero ma, che trovava argine in uno sguardo dolce di un uomo ormai anziano depositario di conoscenza e di un’ Africa forse scomparsa.

Sostai alcuni istanti ad ammirare quella bella immagine per poi allontanarmene, lasciando al cuore il tempo di emozionarsi e rinviando di qualche minuto la ripartenza. Il gorgoglio sentimentale, lasciò il campo alla meccanicità della jeep ed alla sempre presente polvere, il compito di chiudere il sipario della rappresentazione.

Pouss attendeva il nostro arrivo.L’agglomerato di case si presentò nel consueto colore della terra, con gli inevitabili

tetti di lamiera per i più fortunati, di paglia e foglie per tutti gli altri, ma, ad eccezione di

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ciò, non vi erano ulteriori differenze se poi comunque ogni attività si svolgeva “en plen air” sui bordi della pista, se ciascuno mostrava la propria quotidianità senza mediazione alcuna, dando al vivere un’umanità senza pari, liberandola dall’obbligo di apparire e lasciando solo all’essere il compito di raccontare.

Racconto che trovò nelle fi gure dipinte sui muri del palazzo del Lamido un tratto favolistico che richiamava ad animali fantastici, a riti primitivi, a segreti inavvicinabili, mentre le guardie sorvegliavano nel tentativo di arginare la mia immaginazione che viceversa riusciva a vedere colori, ad ascoltare suoni, ad ammirare donne, gioielli, vestiti, arredi. Tutto in un istante e tutto in un istante cessò al momento del passaggio di una mandria che sovrappose la sua “verità” all’immaginazione.

La destinazione era l’immancabile mercato che già in lontananza mostrava la sua energia attraverso lo sciamare di una moltitudine indistinta. L’avanzare della jeep modifi cò la pluralità in individualità, defi nendo i particolari della scena, declinandoli nelle razze che componevano la popolazione del Camerun ma, con un elemento in più rappresentato dagli uomini blu, i Tuaregh che con le loro tuniche ora turchesi, ora azzurre, ora di varie gradazioni di blu, si differenziavano da tutti gli altri. Essi avevano un portamento regale, elegante, con gesti misurati, quasi femminili che ne aumentava il fascino. I loro visi sembravano usciti da un racconto epico, laddove cavalieri senza macchia salvavano la bella principessa dalle angherie di un signore malvagio. E così apparvero ai miei occhi quegli uomini venuti da lontano che racchiudevano nei loro sguardi il magnetismo di una forza aliena capace di sfi dare l’immensità del deserto e vincerne i pericoli, ammaestrandolo al proprio volere.

Vedevo realmente quegli spazi senza fi ne attraverso le movenze degli uomini blu?

La risposta la lasciai decantare nell’inutilità di quel sapere rinviando al mercato di Pouss l’essenza dell’adesso, adesso che catapultò nella folla, una folla che però non riuscii ad avvertire più d’interesse. Sentii il bisogno di andare via, di fuggire, di risalire in macchina e proseguire nel viaggio.

Il parco di Waza chiamava come un lupo che canta alla luna e senza infi ngimenti dovetti rispondere al richiamo. Il partire fu dolce e non lasciai rimpianti dietro di me.

I chilometri si succedettero uno dietro l’altro, noiosamente, attraverso un paesaggio anonimo che non mostrava altro che solitudine. Non me ne dolsi se poi anche il volo di un uccello portava ad un dolce pensare. Il tempo scorreva lentamente ma, inesorabilmente, seguendo il medesimo ritmo della jeep che necessariamente doveva tenere per evitare avvallamenti e buche che rappresentavano un ostacolo all’andatura del mezzo. Non solo, anche la vegetazione era un impedimento laddove l’erba, prima rada, assunse forme e dimensioni diverse, tanto che ripiegandosi su se stessa, creava una massa compatta che al passare della jeep si ribellava furiosamente assomigliando ad un mare tempestoso sempre pronto a nascondere nuove insidie e gettandosi con nuovo vigore sul malcapitato navigante e ad aiutarlo nella lotta, quel “mare”, potette contare anche sul buio della notte che ormai aveva sostituito la luce del giorno, imponendo alla scena un aspetto ancora più impetuoso. Nel mulinare della vegetazione, i fari della jeep tentavano di indicare la via di fuga, impegnandosi oltre ogni limite per scalfi re quel muro impenetrabile. Senza avvertimenti la lotta cessò. Il mare scomparve. La tempesta lasciò il campo alla calma: uno spazio sterrato si aprì ai piedi di alcune colline il cui profi lo si stagliava contro il cielo notturno, illuminato dalla fi oca luce di una pallida luna il cui rifl esso, soggiogato da un alone di umidità e nuvole, era debole nella sua energia.

Su quell’immagine raggiungemmo il campo nel quale avremmo trascorso la notte.

Waza – Oudilla - Koza - Mokolo 04/01/2012

Mi svegliai alle prime luci dell’alba e uscii dal mio alloggio. La struttura, fatta di bungalows in muratura e dalla forma circolare, si mimetizzava fra la vegetazione e le rocce di una collina che dominava la piana sulla quale si sviluppava il Parco nazionale di Waza. La vista era superba ed il mio osservare era libero di spaziare senza limite da est ad ovest e lontano fi no all’orizzonte. Gli alberi erano quelli tipici delle savane africane, le acacie, con le loro chiome appiattite a forma di ombrello e la pianura segnata, da sentieri simili ad un apparato “sanguigno”, non rivelava la presenza di visitatori.

L’attenzione si incentrò su alcune pozze d’acqua che chiazzavano il territorio e ciò nella speranza di poter osservare qualche animale all’abbeverata.

Nulla.Le pozze rimanevano ferme nella loro immobilità rifl ettendo i tenui raggi solari

che, di taglio, illuminavano il paesaggio scaldando, nel contempo, l’aria e allontanando

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la foschia mattutina. Il silenzio dominava la scena e l’Africa si mostrò, senza pudore, in tutta la sua bellezza per rapire lo sguardo.

Non dovette combattere a lungo se, dopotutto, l’osservare si tramutò in voglia di assaggiare quella terra, di toccarla, sentirne il sapore: era lei che cercavo, non dovevo fare altro che gettarmi su di lei per impossessarmene.

Senza dare al tempo, il tempo di frapporsi all’unione desiderata, avvertii il corpo assumere una forma immateriale capace di librarsi fra le nuvole per disegnare traiettorie inconsuete che mi permisero di osservare la vita della savana e di non essere visto, a mia volta, da alcun essere vivente. Il volo non trovò ostacoli e la piana di Waza non si curò dell’inaspettato visitatore aereo. Alcuni sciacalli ulularono la loro presenza, le gazzelle, viceversa, mi ignorarono così come alcune gru coronate intente, come erano, a scandagliare un laghetto melmoso alla ricerca di insetti. Più lontano degli struzzi erano distratti dalla presenza di topi, antilopi dal corpo tozzo e collo pronunciato, che solitarie, su un terreno reso arido dal fuoco e dal sole, nel reciproco osservarsi, avevano fatto della fi ssità uno stato permanente. Nel mentre, un branco di elefanti mimetizzava la propria sagoma in una radura circondata da acacie ed arbusti, disinteressandosi degli altri animali. Un’aquila pescatrice, sentinella implacabile e rapace, si accorse del volo e senza titubanze mi raggiunse nella traiettoria aerea. Osservandomi da vicino, si interessò dell’accompagnamento ma, dopo alcuni secondi, scomparve all’inseguimento delle sue prede. Il volo continuò per ore disfacendosi in un dolce atterraggio per lasciare alla calura avvilente di un sole ormai implacabile, il compito di fi ssare nell’immobilità i movimenti degli animali e dileguare nella luce i contorni delle ombre.

Il contatto immaginario con la terra fece estinguere il sogno e lasciò alla fantasia il compito di classifi care quel volo, restituendo all’adesso la necessità di proseguire il viaggio.

Il Camerun non si fece attendere e la pista sulla quale mi ritrovai, si appiattì su un percorso privo di avvallamenti che assecondava un paesaggio desertico e pietroso che nulla lasciava alla fantasia. La temperatura aumentò rapidamente tanto che il calore modifi cò l’azzurro del cielo, in grigio, facendolo confondere con l’orizzonte, laddove, una foschia insistente ed appiccicosa sembrava voler fondere insieme cielo e terra per creare una sostanza gelatinosa nella quale il paesaggio sfumasse i contorni e le persone che avevano l’ardore di comparirvi, lo facessero per pochi istanti, per poi subito dopo diluirsi in qualcosa d’altro che confondeva le idee, tanto da far dubitare di aver visto veramente degli esseri viventi.

Quell’atmosfera eterea non abbandonò per molti chilometri ed il risultato fu di tramutare il circostante in luogo ove le apparenze, sotto l’infl uenza della sostanza gelatinosa, assumevano le forme più strane. Improvvise apparvero delle strutture fi liformi che, basculanti, mostravano da un lato una corda artigianale e dall’altro un grumo di qualcosa che ne permetteva il moto ondulatorio. Intorno ad esse si davano da fare delle donne ed alcuni bambini, almeno così parve.

Avvicinandomi riuscii a capire di cosa si trattasse: argani per portare in superfi cie l’acqua di pozzi improvvisati e scavati a mano, acqua necessaria ad irrigare i piccoli appezzamenti di terreno che, ordinatamente, circondavano le strane strutture che, a decine, punteggiavano l’intorno. Sostai qualche minuto ad osservare il movimento di quei manufatti primitivi che alternativamente scendevano e salivano, lentamente ma costantemente, nell’atto del raccogliere e del riversare l’acqua, assomigliando per ciò stesso al movimento di giraffe all’abbeverata. Lasciato al movimento basculante il compito di ritmare i tempi di quell’agire, fui attirato dai visi delle donne. Avevano sguardi profondi ma duri e nei lineamenti vi era qualcosa di bellicoso che non ne ingentiliva i tratti, tutt’altro. Il portamento fi ero, nonostante la semplicità di quel lavoro, i gesti sicuri e veloci ancorché ripetitivi, i vestiti tutt’altro che trasandati, i bracciali e gli orecchini preziosi, rivelavano l’appartenenza ad un’etnia diversa da tutte quelle precedentemente incontrate.

Rivolgendomi ad una di esse dissi:“A la quelle les genns appartiennent?”“Arabe Choa” rispose.Le due parole spiegavano il perché della loro fi erezza, laddove la parola arabo

riportava ai conquistatori islamici del passato ed ai fasti di una civiltà ormai perduta nella notte dei tempi. Su quella constatazione lasciai alla donna la sensazione di avermi impressionato con il suo mostrarsi. Salii sulla macchina e ripresi la strada per dirigermi verso Col di Koza ed i monti Mandara.

Pietraie e polvere rappresentavano la scenografi a della regione, imbellettata di tanto in tanto di sparuti villaggi che arginavano l’arsura dell’intorno con alte stuoie di vimini e capanne, una vicino all’altra, per impedire ai raggi del sole di

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appropriarsi dell’ombra che in tal modo veniva a crearsi. Soccorrevano, altresì, solitari alberi dai possenti tronchi e dalle folte chiome che di quei villaggi sembravano essere guardiani incorruttibili.

Il percorso si fece sempre più duro a causa del pietrisco, ora onnipresente, e degli avvallamenti che ne deturpavano la stabilità e che richiedevano una guida attenta e necessariamente rallentata ma, nonostante gli impedimenti, il procedere non affaticò poi troppo soddisfatto, come ero, dei luoghi che stavo conoscendo e della presenza delle donne che sempre più numerose camminavano, ora, ai bordi di ciò che poteva defi nirsi sentiero. Ad esse si aggiunsero nugoli di bambini e numerose caprette che lentamente si accingevano ad attraversare il guado di un rigagnolo d’acqua che aveva deciso di attirare l’attenzione su di se, impadronendosi di quel tratto di passaggio.

In pochi istanti l’ostacolo fu superato e tra le grida festanti dei bambini, la macchina riprese il lento procedere per i rimanenti chilometri che separavano da Mora. Chilometri che vennero accompagnati dalla presenza di monti e colline che ne modellavano la traiettoria richiedendo, di tanto in tanto, deviazioni per aggirarne l’ostacolo. Era quella la terra dei Kirdi, “gli infedeli”, così chiamati dagli Arabi poiché per fuggirne la conversione all’islam, quei popoli si rifugiarono sui monti confi dando sulle asperità del terreno e sui nascondigli naturali per impedire di essere catturati.

E così doveva essere stato se raggiunta Mora, ci dirigemmo verso nord inerpicandoci per un tracciato durissimo che saliva verso la sommità dei monti, rivelando asperità che richiedevano un’andatura a passo d’uomo per evitare la foratura dei pneumatici o la rottura dei semiassi. Ovunque pietre, macigni, crepacci, burroni, eppure in quel mondo di roccia ecco apparire la mano dell’uomo: superata la parte più bassa dei monti, la vegetazione lasciò spazio a terrazzamenti che disegnavano linee continue lungo i costoni dei rilievi e per fare da argine alla terra che i Kirdi avevano trasportato, a braccia, su per i monti per riuscire a coltivare mais, sorgo, frumento e quant’altro necessario per vivere senza tornare a valle.

Doveva essere stato uno sforzo sovrumano se tutto l’intorno, a perdita d’occhio, mostrava una modifi cazione della morfologia dei monti, modifi cazione che ai miei occhi somigliava ad un tacito accordo con la natura al fi ne di creare un ambiente diverso, capace di stupire, di tramutare i materiali poveri e trarne, dalla trasformazione, l’energia in essi contenuti, per produrre il cibo per vivere senza per questo, umiliare l’individualità di ciascun componente di quel rapporto simbiotico. Ogni cosa era perfettamente conforme all’ambiente, come mimetizzato, per non mostrarsi oltre il necessario e prevalere sulla natura ma, al contrario per fondersi con essa.

Nel procedere la pista, ormai tramutatasi in sentiero, riusciva a malapena a sostenere il peso della jeep richiedendone, in cambio, un continuo scotimento che ne sollecitava la struttura ed i pneumatici per scaricarsi anche sul mio corpo ed ottenere il giusto tributo di fatica. Ma non ci fermammo, desiderosi come eravamo di attraversare quella terra ed ammirare i villaggi Matakan che nella pietra trovavano la loro conformazione, senza per altro rinunciare ad altri materiali come il legno, il fango, la paglia, per defi nire i dettagli delle dimore e sfruttare, altresì, la conformazione del terreno e la presenza di baobab per fi ssare i migliori punti di appoggio dai quali procedere nella costruzione: era la perfetta rappresentazione della simbiosi tra uomo e natura ove l’uno aveva bisogno dell’altra per defi nire la propria identità senza per questo violarne l’integrità. E le donne e gli uomini kirdi si muovevano in quell’ambiente con agilità, chi con arnesi da lavoro, chi con legna, chi con vasellame, chi con ceste ricolmi di cibi, chi semplicemente per seguire la jeep ma tutti comunque accomunati da fi sici snelli, agili, dalla muscolatura forte, capace di sostenere sforzi e fatiche superiori all’immaginazione. Ma nei loro occhi e nei loro visi c’era posto solamente per la serenità e la consapevolezza di vivere secondo i ritmi della natura, rinviando al volere di Dio il destino riservato alle loro esistenze: ogni cosa fl uiva secondo quanto stabilito dalle leggi dell’universo e senza la necessità di chiedere più di quanto a ciascuno era riservato dalla vita stessa.

In un istante rafforzai la ragione del mio viaggiare in Africa: avevo bisogno di allontanarmi dal futile, avevo bisogno di sentire la terra sul viso, e la fatica, il sudore, lasciare le comodità e ritrovare il valore delle cose semplici, avvertire la felicità di essere circondato da un nugolo di bambini solo per un saluto e non per ottenere qualcosa, di respirare a pieni polmoni, di vedere il vero e non il fi nto di una apparenza fatta solo di abiti, di interventi estetici, di gioielli, di trucchi, di smaccata opulenza. Si mi sentii vivo, felice, sereno e nulla poteva distogliere da tale stato di benessere: il mal d’Africa era un bene d’Africa.

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Senza accorgermene, arrivammo nella parte sommitale del Col di Koza ove una muraglia di pietre nascondeva il “palazzo” del Lamido di Oudjilla, una sorta di re locale o forse meglio un feudatario. Il suo “sarè” si componeva di numerosi ambienti che comprendevano una camera, un granaio, un magazzino ed una cucina per ciascuna delle sue innumerevoli mogli. Il complesso architettonico, inevitabilmente vasto, era circondato da mura a secco alte alcuni metri che lo separavano dal resto del villaggio per testimoniarne l’importanza e la ricchezza e mostrandosi, in tal modo, simbolo di comando. A dispetto di quell’apparato così importante, il Lamido si mostrò nella fragilità dei suoi novant’anni, rimanendo per altro seduto in una ieratica fi ssità, assistito ai suoi lati da due ministri del regno. L’incontro si risolse in un sorriso ed una stretta di mano ed un augurio di buona fortuna.

Nello spazio antistante il palazzo era parcheggiata una vecchia Land Rover, giunta in quel luogo chissà quando, che nulla aveva probabilmente di funzionante ma, che sulla targa riportava la scritta “sua maestà il Lamido di Oudjilla”, che forse un tempo lontano si mostrava nella sua magnifi cenza per le piste polverose del regno. Ora, viceversa, riposava all’ombra di un vecchio albero, come se volesse tentare di recuperare le energie ormai sopite ma, rivelandosi impietosamente nella sua vetusta fragilità. Essa stessa segnalò l’inevitabile scorrere del tempo, se di lì a un’ora, dovemmo riprendere il viaggio e percorrere la pista che ci avrebbe condotto alla meta successiva che sulla mappa era indicata con il nome di Mokolo.

Le ore trascorsero nell’attraversamento di colline pietrose ed aride campagne senza per questo gravare sulla curiosità dell’osservare e sul dolce deliquio che il Camerun stava generando nell’animo.

L’imbrunire si impossessò della scena e come un manto avvolgente, celò l’apparire lasciando alle sole luci della jeep il compito di illuminare. Improvvise comparivano ombre ambulanti ai lati della pista che lentamente ma, inesorabilmente, avrebbero raggiunto la meta del loro vagare ignorando il tempo necessario a percorrere, metro dopo metro, lo spazio mancante: erano quelle uomini e donne che al solo chiarore della luna e al tepore di una calda notte compivano il destino a loro assegnato dal rigore della vita. Rintuzzai in me la domanda relativa alla loro esistenza ammirandone la serenità con la quale camminavano, ignorando la fatica e vivendo l’istante per quello che era, senza chiedere, senza imprecare, senza dolersi.

“Notte dolce che sussurri al mio cuore, lascia che i sogni accompagnino me e l’Africa canti come le sirene di Ulisse per estasiarmi della sua verginità!”

Nel trapasso sognante, Mokolo, si mostrò mediato dalla notte.

Mokolo-Tourou-Rhumsiki 05/01/2012

Il mattino seguente, dopo un sonno riposante, lasciammo Mokolo alle sue confusionarie attività per dirigerci verso Tourou in occasione del mercato settimanale. Dopo un breve tratto di strada asfaltata, lo sterrato riprese il suo dominio, dipanandosi per dolci colline punteggiate di villaggi ricchi di vita e dove fi n dalle prime ore del mattino le donne lavoravano chi per pulire i patii, chi per lavare i panni, chi per battere il miglio, chi per accatastare la legna, chi per macinare la farina, in altre parole per far funzionare quelle comunità agresti.

Fortunatamente per loro, la natura non era stata severa in quella parte di Camerun, poiché la presenza di sorgenti, di corsi d’acqua e di vegetazione, mitigava gli sforzi quotidiani, limitando gli spostamenti a piedi per la raccolta di legna e per attingere l’acqua a qualche chilometro e donando, altresì, ai territori dell’area la fertilità necessaria per generosi raccolti.

Procedevamo in direzione nord ed in breve tempo raggiungemmo il confi ne con la Nigeria, tanto che la pista ne segnò essa stessa il limite, senza peraltro oltrepassarlo, dovendo semplicemente seguirne la direzione per giungere al luogo di destinazione.

Dopo alcuni tratti in salita e poi in discesa ed il comparire ai lati della pista di muli, carrettini, uomini, donne, bambini, ecco apparire le prime casette e capanne di Tourou, villaggio che si adagiava fra gli alberi di dolci declivi collinari che, simili alle dita di una mano, segnavano la morfologia del territorio.

Il mercato si sviluppava alla convergenza delle piste e viottoli che giungevano al villaggio, raccogliendo al suo interno genti che provenivano dai paesi circostanti e dandosi appuntamento in quel luogo di ritrovo per vendere o barattare le merci o anche solo per condividere racconti e storie di vita. Ed il parlare mi parve l’attività principale, se i miei occhi potevano osservare e le mie orecchie ascoltare discussioni infi nite in idiomi sconosciuti, il tutto accompagnato da ricche bevute di birra di miglio. Birra che sembrava essere la cosa più importante di quel mercato se dovunque vi erano donne,

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con orci di terracotta ripieni del prezioso liquido, che ne vendevano il contenuto, ai numerosi avventori, versandolo in contenitori fatti di gusci di zucche svuotate. A ben guardare però, gusci tagliati a metà di zucche più grandi, colorati di rosso e disegnati con linee e forme geometriche, erano utilizzati anche come cappelli per ripararsi dal sole dalle donne di etnia Hidè che in tal modo assumevano un aspetto curioso, accentuato dal piccolo piercing di metallo simile ad un chiodo, che faceva bella mostra si sé, forandone i nasi.

Altre donne, pur prive dei medesimi ornamenti, indossavano abiti variopinti e gioielli importanti che ne abbellivano i corpi caricandoli di una generosa sensualità e regalando agli uomini del luogo, ambite “prede” per indimenticabili notti d’amore.

Quel mercato era un vero e proprio mondo in miniatura nel quale era possibile assistere a una scena teatrale tanti e vari erano i fi guranti, i dialoghi, i costumi, le scenografi e, le regie, scena che generava una nuova arte visiva, percettiva, olfattiva, tattile che ne modellava lo scorrere in un libero divenire. E non dovetti faticare oltremodo ad apprezzarne la teatralità se, all’ombra di un albero, un ragazzo dallo sguardo malinconico, facendo vibrare le corde di uno strano strumento composto da una piccola cassa armonica sormontata da una testiera ricurva, produsse note simili a quelle di un’arpa che, sciogliendosi in una dolce melodia, si sovrapposero al mio osservare, deliziandolo di apparenze soffuse che si intrecciarono in linee armoniose che si tuffarono nel cuore.

Era quella magia?Forse si, se Tourou era già nei ricordi che, simili ad una sequenza fotografi ca,

si susseguirono sui fi nestrini della macchina confondendosi ai nuovi paesaggi che avrebbero accompagnato alla regione di Rhumsiki.

Il viaggiare dimenticò il tempo e con esso la necessità di sapere il quando della meta, solo era mio compito osservare, ricordare, sognare, senza affanni.

E mi lasciai trasportare.Dimensione lunare improvvisa che, senza mediazione, si impossessò

della scena, quella che mi ritrovai ad osservare dopo un tempo indefi nito e che si adagiava lungo il confi ne con la Nigeria. Sembrava un territorio appartenente ad un altro pianeta dove picchi di lava millenaria e simile ad astronavi aliene, fl uttuavano sulla linea dell’orizzonte per spezzarne la continuità e dialogare con il cielo quasi a voler assolvere alla funzione di depositari di una dimensione irreale ed assoggettare, gli uomini e le donne di quel luogo, al dovuto rispetto verso l’entità extraterrestre.

Ed i Kapsiki mostravano, nella loro esistenza, di vivere in relazione con le “astronavi” di lava, se il villaggio di Rhumsiki, che sorgeva nei pressi di quelle formazioni, ne riceveva in cambio una sorta di incantesimo che si rifl etteva sugli abitanti facendone di essi qualcosa d’altro: erano forse dei, miti, fate, maghi, muse, geni, ninfe? Ed il loro destino, era segnato dai pianeti, dalle costellazioni, dalle galassie, dall’universo?

Le domande si rincorsero come satelliti impazziti e come un astronauta fl uttuante nel vuoto, rimbalzarono nella mente nel tentativo di comprendere il signifi cato di quel luogo, di quello spazio interstellare, di quella cosmogonia. Rhumsiki si accorse dello stato d’animo e senza mostrare incertezze, prese per mano e mi portò dall’oracolo del granchio.

Oracolo.Era quella una parola che riportava all’antica Grecia ed alle profezie di un

altro oracolo, quello di Delfi , ed alle tragedie di Eschilo, di Euripide, di Sofocle, o ai personaggi omerici dell’Odissea. In un istante ascoltai i lamenti di Edipo, le suppliche di Ulisse, le profezie di Cassandra, le urla di Clitemnestra, le invocazioni di Ecuba, e poi ancora vidi Tieste, Atreo, Oreste, Antigone, Giasone, Eeta, Medea. Quei nomi, quelle storie si disciolsero nello “spazio interstellare”, generando uno stato confusionale nel quale passato remoto e presente persero i propri confi ni, tanto da ritrovarmi io stesso davanti ad un oracolo e non sapere più dove effettivamente mi trovassi.

Mitologia o realtà.Passato o presente.Fine o inizio.Essere o non essere.Oracolo del granchio.Difronte a me vi era un uomo anziano con sul viso rughe profonde ma

che nulla avevano di severo, tutt’altro, sembravano esse stesse un racconto, si, il racconto di una vita attraversata con dolcezza e giunta all’adesso per svelare i

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segreti del vivere.I suoi occhi osservavano me ed i suoi movimenti, poi, senza mediazione,

si appropriarono del mio sguardo facendomi allontanare dall’intorno e, come un incantatore di serpenti, mi attirò nel luogo della divinazione. Luogo ricavato in un patio accanto ad una capanna circolare fatta di pietre ed un tetto di paglia, capanna che sorgeva accanto alle tombe dei padri a testimonianza della tradizione tramandata nel tempo. A terra vi erano due orci, uno dei quali conteneva sabbia con dell’acqua, dove erano stati posizionati bastoncini di legno e piccoli sassi, mentre l’altro era la dimora di un granchio. L’anziano estrasse l’animaletto, ci sputò sopra, lo adagiò nel primo orcio e attese qualche minuto affi nché il granchio potesse dar sfogo al suo movimento e servirsi dei pezzetti di legno e dei sassolini per smuoverli dalla posizione originaria e riposizionarli secondo la sua volontà. Terminata l’operazione a giudizio dell’oracolo, quest’ultimo, sulla base delle conoscenze dei segni emise la divinazione, assecondandola con gesti che, rifacendosi alle tracce lasciate dal granchio sulla sabbia, ne confermavano l’esattezza.

Lo ascoltai con rispetto e ne attesi la traduzione da parte della mia guida: la profezia aveva ad oggetto l’amore, la salute, il lavoro, il denaro, la durata della vita, non in termini di anni ma, di raggiungimento della vecchiaia in senso lato. Soddisfatto per la bontà delle previsioni, gli strinsi la mano e lentamente me ne allontanai lasciandolo a due vecchie signore che, distese su una stuoia, attendevano il proprio turno all’ombra del grande albero che sovrastava il magico luogo dell’anziano oracolo.

La profezia era stata positiva per il mio futuro e con un fugace sorriso ne trassi un benefi co effetto che lasciai scorrere sul corpo come un balsamo, rinviando ad un “sarà quel che sarà” il discorso sul destino. Rhumsiki capì il soave compiacimento e come per incanto, una gazava incominciò a suonare una dolce melodia che rapì l’io e lo comandò!

Mi lasciai, così, trasportare dal panorama spettacolare che da un punto di osservazione “segreto” oltre una collina, mi consentì di vedere la valle dei Kapsiki distesa innanzi a me, senza veli, nuda nella sua verginità, procace nella sua generosità, sensuale, attraente, irresistibile. Fu un incontro ravvicinato che ribadì l’astrazione temporale e spaziale, che liberò le forze gravitazionali che le astronavi di pietra detenevano all’interno delle proprie strutture, che fece collimare in un’unica traiettoria galattica l’attenzione dell’io, quella della via lattea. Nella realizzazione del sogno, l’assolo divenne pindarico e senza resistenze soggiacqui all’utopico vedere, liberato dal peso del corpo, incapace di resistenza, prigioniero delle magie della terra madre.

Non seppi quanto tempo rimasi in quello stato ipnotico, solo rinvenni al verso ripetuto di un falco che volteggiò sopra di me con un battito d’ali rapido, fi ngendo brevi picchiate seguite da rapide risalite. Il suono squittito nell’aria penetrò nei timpani e liberò la mente dall’apparenza incantata.

Rhumsiki svanì così come era comparsa.Le astronavi si dissolsero.Le forze gravitazionali tornarono al loro posto.Via lattea.La terra era su di me, di nuovo.

Rifl essione 06/01/2012

L’aria fresca del mattino accarezzava il viso mentre il sole delicatamente toccava, con i suoi raggi, la terra d’Africa donandole un colore dorato che ne esaltava l’essenza. Terra rossa ed ocra che simile ad un tappeto d’oriente accompagnava i passi per deliziare l’incedere.

Assecondai il movimento osservando le tracce che lasciai su di essa: avrei voluto che quelle orme parlassero di me, avessero potuto rappresentare un segno tangibile di me, del mio passaggio, avrei voluto rimanessero scolpite per sempre e lasciare all’Africa il ricordo di me.

Come una pozione magica il desiderio di quel continente misterioso si diffuse nel sangue “per intossicarlo si sé”, per esigerne il tributo. Tributo di sangue che il cuore accettò, nella certezza del desiderio irrefrenabile che simile ad un ululato ancestrale profanò l’io, piegandolo al suo volere.

Terra rosso sangue, nell’intorno.Non ho bisogno di altro per capire.

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Io sono là dove voglio essere.Africa.Io.

Rhumsiki – Gole di Kola - Garoua 06/01/2012

Rhumsiki.Ricordi.Un’ultima occasione.Lungo il tracciato che avrebbe condotto a Garoua, in un sarè isolato, avemmo

l’occasione di incontrare il fabbro. Era quello un novello Efesto che possedeva l’arte del fuoco e del ferro?La sua fucina avrebbe parlato di Lemnos, di Vulcano, di Etna, di Prometeo?O forse le visioni mitologiche scaturivano dalle viscere della terra?La verità era che il tempo del mio orologio non coincideva con il tempo che

“viveva” in quel luogo.La fucina era la capanna, gli utensili strumenti appartenenti a chissà quale

oggetto e ricomposti a formare qualcosa d’altro, il metallo da estrarre ed utilizzare per i lavori era imprigionato nelle vene delle pietre ammonticchiate nello spiazzo antistante l’offi cina, le braci raccolte in ceste di vimini, la fornace al margine di un sentiero che, dipanandosi attraverso i campi, distava alcune decine di metri dal punto nel quale ci trovavamo.

La scena immersa in un tempo mitologico sottoponeva il gesto dell’uomo alle regole della natura e non a quello della evoluzione della tecnica, tutto era ricompreso nella sapienza e nella manualità del fabbro, apprese attraverso la tradizione orale tramandata di padre in fi glio, nell’aiuto del fuoco, dell’acqua e dell’aria.

In quell’istante il fabbro stava modellando con della cera una campanella, terminata la quale, utilizzò dell’argilla per ricoprirla, a sua volta, completamente, lasciando uno spazio che riempì con pezzetti di metallo, prima di sigillare il tutto. L’oggetto venne “cotto” sul fuoco per sciogliere la cera e creare in tal modo l’intercapedine all’interno della quale sarebbe confl uito il metallo fuso al fuoco della fornace. Compiuta l’operazione di eliminazione della cera, il fabbro con il manufatto in mano, si avviò nel sentiero ove vi era la fornace. Era questa una struttura cilindrica, alta circa trenta centimetri, fatta di pietre tenute insieme da un impasto di argilla ed aperta da un lato dove erano posizionate, nella terra, due vaschette dalle quali partivano due piccoli tunnel il cui foro terminale si rivolgeva alla struttura cilindrica nella quale, nel frattempo, il fabbro posizionò del carbone, delle pannocchie secche e degli arbusti.

Subito prima di accendere il combustibile naturale, egli provvide a coprire ermeticamente le vaschette riempite d’acqua, con delle pelli umide strette con alcune corde a formare dei veri e propri mantici che, schiacciati con la forza delle mani, spingevano l’aria attraverso i due tunnel collegati alla fornace alimentandone la combustione. E fu realmente così subito dopo l’accensione. Il fuoco alimentato dalla compressione dell’aria dei mantici, ardeva come non mai, mentre le pietre ne confi navano il calore nella parte centrale laddove il fabbro, con gesto sapiente, pose la forma in precedenza creata. La fi amma arse in modo costante, generando un calore molto elevato che per circa quaranta minuti avvolse il manufatto che, sotto l’occhio attento del fabbro, nascondeva al suo interno la dinamica della fusione.

Al momento prestabilito l’uomo, munito di una lunga tenaglia, afferrò l’oggetto sottraendolo alla fornace per poi immergerlo in una bacinella d’acqua “assopendone” il calore in una nube di vapore. Rotto l’involucro di terracotta, ecco apparire la campanella di bronzo, annerita nei particolari ma completa nella sua forma. Il tutto fu realizzato a mano senza aiuti di macchinari, eseguendo gli stessi gesti che forse in ere remote il progenitore dell’uomo moderno aveva compiuto per realizzare i suoi utensili e sottrarsi al giogo della natura.

Retrocessione temporale in una dimensione attuale.Tempo di riprendere il viaggio. Il fabbro ormai è lontano.Le piste del Camerun tornano protagoniste e le lancette dell’orologio segnano

le ore.Il procedere si fece faticoso a causa, ora della temperatura opprimente,

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ora per la polvere sottilissima che simile ad una nuvola di cipria, inevitabilmente, si alzava all’avanzare della jeep penetrando al suo interno. Ma non me ne dolsi, in fi n dei conti, l’Africa era stata generosa con me e di certo qualche fastidio era un pedaggio assai misero da pagare a fronte delle emozioni provate nell’ammirarne i paesaggi e le genti. L’itinerario non volle, però, mitigare le diffi coltà come volesse ritardare il più possibile la marcia ed impedire che il viaggio fi nisse prima del tempo, come volesse costringere a più e più soste per mostrarsi in tutte le sue fattezze, senza veli, come un’amante desiderosa di un amplesso.

Voracemente mi accontentai del guardare attraverso il fi nestrino della jeep, impotente di fronte alla necessità del procedere ed alla carnalità che il Camerun voleva offrire.

Il motore rombò e le marce aggredirono il rifl ettere. La pista scorse come la pellicola di un fi lm.

Avanti.Dovevamo raggiungere le gole di Kola.La meta, giunse improvvisa, senza peraltro rivelarsi nelle sue dimensioni.

Eravamo, infatti, di fronte al letto pietroso ed asciutto di un fi ume, maestoso nella larghezza, nella lunghezza, e nella dimensione delle rocce ma, piatto ed anonimo nell’apparire. Non riuscivo a cogliere la presenza delle gole e neppure la presenza di segnali che potessero rivelarne l’ubicazione.

Lasciata la jeep, ci incamminammo lungo un tratto del fi ume di pietra aggirando, di tanto in tanto, i massi più grandi per mezzo di angusti sentieri che ne evitavano l’ostacolo, per ritrovarci al di là di esso e proseguire la marcia. Percorse alcune decine di metri, ci dirigemmo verso l’interno della distesa pietrosa dovendo, in questo caso, procedere con estrema cautela e saltando di sasso in sasso, attenti a non perdere l’equilibrio ed evitare di confi ccare le gambe in qualche anfratto. Improvvisamente le pietre sembrarono come ritrarsi per lasciare spazio ad una frattura che, longitudinalmente per centinaia di metri, tagliò il letto del fi ume e nel quale si annidava, sul fondo, un mansueto rigagnolo d’acqua che scorreva su un terreno sabbioso, stretto fra pareti di basalto nero.

Il sentiero ne assecondò la direzione per poi incunearsi in una angusta fenditura che lentamente ma, ineluttabilmente, lo trapassò per tutta la sua altezza, facendoci ritrovare alla base “della scogliera”. “Scogliera” che su ambi i lati si ergeva per una decina di metri delimitando la visione del cielo, tanto da non permettere al sole di raggiungere, con i suoi raggi, il letto sabbioso e l’acqua che ne rigavano l’anima.

Il camminare all’ombra delle formazioni basaltiche, si tramutò in navigazione laddove le striature bianche che segnavano il nero del basalto, assomigliavano alla spuma di onde marine e le pietre stesse, scavate dalla millenaria erosione dell’acqua, in marosi impetuosi che modifi carono la scena, liquefacendola in oceano mare. Il moto ondoso trascinò attraverso la gola, per tutta la sua lunghezza, facendomi riemergere in un punto imprecisato nel corso del fi ume, ove la fenditura si rimarginava in un blocco compatto di pietra, dove l’acqua aveva scavato solamente un piccolo avvallamento e nulla più. La riemersione mi mostrò un ammasso di pietre incoerenti e più oltre una vegetazione rada che dava ospitalità ad una rumorosa comunità di uccelli.

Nei campi circostanti deambulavano alcuni uomini che, stancamente, si affaccendavano nella raccolta di arbusti secchi che sarebbero serviti al loro focolare, mentre in lontananza delle donne legavano del miglio in fascine riponendolo, nel contempo, in granai fatti a mo’ di grandi giare, sollevate da terra e chiuse nella parte superiore, per impedire agli animali di approfi ttare di quel cibo.

Il sole, prima alto, era ora velato da spesse nubi che ne attenuavano il calore, generando un’ombra rinfrescante e una brezza leggera, che consentì a quegli uomini e a quelle donne, di compiere gesti più agili, impedendo alla fatica di impossessarsi dei loro corpi.

Con le gole di Kola pietrifi cate nella loro fi ssità, il richiamo della pista che ci avrebbe condotto a Garoua non rimase inascoltato: dovevamo ripartire.

E così fu.L’itinerario si manifestò in una piatta monotonia, spegnendosi stancamente al

sopraggiungere della sera. L’unico ricordo, i chilometri.Le prime abitazioni di Garoua si mostrarono senza mediazione: ogni cosa

era avvolta dalla notte e, di tanto in tanto, i fanali di una macchina illuminavano la scena. La polvere, portata dal vento sulle poche strade asfaltate, si sollevava al passaggio di ogni singolo mezzo, accompagnandolo nella direzione e generando una nebbiolina che i fari della nostra jeep tagliavano a piacimento ma, che nel contempo, ne illuminavano la composizione in tutto il volume.

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Le poche persone che camminavano sul ciglio della strada erano ombre e il loro procedere, un procedere senza meta che ne aumentava il mistero. Si, perché nel buio le possibili mete non erano visibili e il deambulare mi parve assomigliare a quello di personaggi danteschi alla ricerca del “girone” spettante. Ma non era tempo per indagare e neppure ,in fi n dei conti, ne avevo l’interesse. I chilometri percorsi e la fatica accumulata richiedevano al corpo il meritato riposo.

La notte si impossessò di me, costringendomi al sonno.

Garoua – Nganderere – Yaoundè 07/01/2012 La sveglia suonò presto: raggiungere Nganderere avrebbe richiesto un lungo

percorso.Consumata una frugale colazione, caricammo i bagagli ed in pochi minuti la jeep

si ritrovò per le via di Garoua. Alle prime ore del mattino, le strade si mostrarono libere di ingombri, consentendoci di procedere senza ostacoli, ritrovandoci in pochi minuti al di fuori della cittadina. Dopo un breve tratto di sterrato, l’asfalto s’impossessò della sede stradale consentendoci di evitare gli sforzi dei giorni precedenti.

La regione centrale del Camerun non si rivelò ostica e neppure arida come le regioni settentrionali.

Il verde era rigoglioso ed anche i corsi d’acqua, seppur non importanti, erano capaci di discrete portate. I villaggi ne traevano benefi cio, tanto da apparire più grandi, ricchi e vivaci. L’aria era fresca ed il procedere si mostrò come una sequenza ininterrotta di paesaggi che rivelavano colori più nitidi, saturi, facendo della polvere un ricordo lontano.

Il tempo trascorse veloce e la distanza dalla meta prefi ssata, venne colmata con facilità: Nganderere si mostrò attraverso la sua confusa moltitudine di case e di strade con l’inevitabile traffi co. Traffi co convulso a causa della tipica consuetudine, tutta africana, di svolgere qualsiasi attività commerciale e non sui marciapiedi e sui bordi delle strade, con la conseguenza di costringere i pedoni a deambulare sul nastro di asfalto e di rimando impedendo il passaggio naturale delle macchine, con il risultato di creare un caos indescrivibile.

Lentamente ci inoltrammo nel groviglio di lamiera nel tentativo di raggiungere la stazione ma, dopo vari tentativi, preferimmo sottrarci alla snervante attesa dirottando per una stradina laterale che ci avrebbe condotto al palazzo del Lamido.

Il percorso richiese una buona dote di pazienza e di scaltrezza nella guida del mezzo dovendo, quest’ultimo, sottrarsi ad ostacoli di ogni genere, umano, animale o materiale che dir si voglia, ma nonostante tutto il tempo impiegato fu relativamente breve.

La residenza del Lamido sorgeva accanto ad una moschea colorata verde e dall’alto minareto che sembrava voler affermarne la prevalenza rispetto a quell’abitazione civile e sottoporla in tal modo al suo comandamento, residenza che, peraltro, attraverso un ingresso con scale e un modesto porticato pareva accettare quella “imposizione” rinviando alla parte interna e privata, l’esposizione delle proprie attrattive. Entrati, essa si mostrò con ambienti a pianta circolare separati tra loro e sormontati da tetti di paglia a forma di cono che ne modifi cavano completamente lo stile, mettendoli in contraddizione con le linee essenziali dell’entrata.

Sensazione che si rafforzò all’interno delle sale, laddove colori sgargianti e fi gure geometriche, facevano bella mostra di sé rivelando un mondo gauguiniano che proiettò sogni tahitiani in luoghi africani: Manao tupapau, Vahine no te tiare, te tamari no atua, si sovrapposero al mio osservare generando una miscela colorata che mulinò nell’aria come un arcobaleno per dare alla visione un accento pittorico di evasione, astratto, ove il tratto lasciava spazio alle sensazioni interiori, ove la rappresentazione non si mostrava per com’era in realtà, ma per come la sentivo.

Attardato da quella rifl essione simbolista, lasciai che l’intorno trascinasse per il suo itinerario, indifferente alle spiegazioni che un solerte “funzionario di palazzo” stava recitando meccanicamente. Non dovette durare molto tempo il deambulare se, senza avvertimenti, mi ritrovai fuori dalla dimora. Il colore era scomparso ma, tutt’intorno, al posto di sale, portoni, patii, mi ritrovai cavalli e cavalieri bardati di paramenti multiformi e multicolori. Erano quelle le guardie del palazzo che, senza freni, galoppavano nel viale antistante la dimora del Lamido, mostrandosi in tutta la propria forza e bellezza, dando vita ad un frenetico carosello equestre che impegnò ripetutamente gli animali e gli uomini.

Altro mondo?O altro sogno?La stazione di cemento e mattoni di Ngaunderere si preoccupò di riportarmi

all’adesso ed il treno rosso per la capitale Yaoundè ricatturò il tempo, fi schiandone l’esistenza.

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La partenza era fi ssata alle diciotto e trenta.Sulla banchina, le persone attendevano di salire sul treno affaccendandosi, nell’attesa,

a riassettare pacchi di ogni forma e dimensione, mentre i bagagli, anch’essi imponenti, giacevano a terra per l’impossibilità di essere sollevati con la sola forza di un uomo. I ferrovieri, nella loro divisa impeccabile, sorvegliavano le operazioni, intervenendo in favore di questo o di quel passeggero per indicare la carrozza di destinazione ma, disinteressandosi, di qualsiasi operazione di carico. Pur con la necessità di rimuovere quei pesi, ogni operazione sembrò svolgersi senza affanno e pur nell’apparente disordine iniziale, il trenò si riempì in ogni scompartimento, digerendo al suo interno l’ammasso di materiali e passeggeri che solo pochi istanti prima si trovavano sulla banchina, rimanendovi solamente coloro che avrebbero salutato i partenti.

Presi posto nella mia cuccetta che, pur nella sua essenzialità, apparve pulita ed in ordine. Non appena sistemai il bagaglio, il fi schio del capostazione segnalò l’ordine di partenza e lentamente il treno si mise in moto, generando fragori meccanici per l’attrito con i binari e per le giunture tra vagone e vagone.

Ma fu solo per poco.Il corpo metallico del treno sembrò riscaldarsi nelle sue membra con il graduale

aumentare della velocità, sostituendo allo sferragliare precedente, un suono meno tenebroso ma, fl uido, costante, che segnò il defi nitivo superamento dell’impaccio iniziale. La stazione di Ngaunderere divenne sempre più piccola e, nell’incapacità di trattenere il treno, lasciò alla foresta il compito di accompagnare nel viaggio.

Nel trapasso, sostai al fi nestrino per assaporare la fresca brezza serale e per ammirare la lussureggiante foresta equatoriale che sembrava inghiottire treno e binari ma, il veloce tramonto e l’inestricabile groviglio di vegetazione che giungeva al limite della massicciata, mi impedì di distinguere le forme e senza rimpianti mi rintanai nella cuccetta per il riposo notturno.

La notte trascorse rapidamente.Sul fi schiare del treno mi svegliai di soprassalto: avevo dormito per tutto il tragitto.

Mi alzai e guardai fuori dal fi nestrino. La stazione di Yaoundè fece la sua comparsa ai piedi di una collina, mostrandosi con il suo edifi cio principale colore bianco e rosso e la sua alta torre di mattoni sulla quale spiccava un orologio che segnava le otto e trenta.

Le banchine erano affollate di portatori che facevano a gara per accaparrarsi il maggior numero di clienti, di venditrici di frutta e bevande che tentavano di vendere la propria merce, di addetti alle ferrovie che controllavano binari e strutture dei vagoni, mentre sui binari circostanti treni da trasporto riposavano le strutture antiquate in attesa del prossimo viaggio.

Uscire dalla stazione non fu facile. La folla sciamava confusamente alla ricerca di amici, familiari, parenti, mentre i portatori carichi all’inverosimile di pacchi e bagagli, nel muoversi a fatica da un lato all’altro mulinavano involontariamente il tutto come magli rotanti, movimento che creava il vuoto intorno a loro ma che nel contempo costringeva le persone a scansarsi per evitare di essere colpite e pressarsi fortuitamente contro altri viaggiatori. Superata la calca delle banchine e trovata l’uscita attraverso la sala passeggeri, il piazzale antistante la stazione si mostrò intasato di taxi, macchine private, autobus, pile di bagagli, persone, bancarelle, e laddove un solitario vigile, con rigorosa divisa e guanti bianchi, nulla poteva difronte a quella matassa inestricata ed inestricabile, limitandosi a mulinare freneticamente le braccia in aria e ad emettere fi schi che si perdevano nel rumore circostante.

Per nostra fortuna, il pulmino che ci avrebbe accompagnato attraverso Yaoundè, era al di fuori del piazzale in una posizione defi lata che, nonostante il peso dei bagagli, raggiungemmo in pochi minuti. Riuscimmo, così, ad allontanarci dalla stazione ma, nonostante l’abilità del guidatore e delle sue manovre spericolate dovemmo, comunque, fare i conti con il traffi co delle strade circostanti e con gli assembramenti di persone degli immancabili mercati.

La capitale del Camerun sin dalle prime ore del mattino mostrò, così, tutta la sua vivacità miscelandosi in un cocktail di colori, di suoni, di odori che la facevano assomigliare ad un caleidoscopio nel quale le donne e gli uomini apparivano nelle forme e nei modi più disparati, contribuendo ad accentuarne la similitudine. Similitudine che trovava riscontro anche nelle incredibili forme architettoniche dei palazzi principali del suo centro, laddove Yaoundè si tramutò in rappresentazione cubista tanto le forme dei Ministeri, delle Ambasciate, delle banche, delle chiese, si intersecavano fra di loro generando manufatti che potevano assomigliare a giostre o navi spaziali ed ospitare al proprio interno chissà quali creature.

Era quella una galleria d’arte a cielo aperto nella quale sarebbero potuti comparire da un momento all’altro i creatori delle opere, i critici, gli acquirenti, il battitore d’asta e procedere alla vendita fantasmagorica. Ma non ebbi il tempo di parteciparvi: la visione fu interrotta dal suono noioso e ripetuto di un clacson e dal vociare litigioso di due uomini che, ignari della mia presenza, non ebbero riguardo delle operazioni di acquisto, facendole evaporare nell’immaginario.

Su quella constatazione, tornai alla materialità della città e sulla necssità di lasciare

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Yaoundè per raggiungere il campo di Somalomo nella riserva naturale du Djà: sarebbe stato quello il punto di partenza per visitare la foresta primordiale ed incontrare il pigmei Baka.

Ci volle circa un’ora e trenta per uscire dalla capitale e liberarsi del suo traffi co. Superato l’ostacolo, ci ritrovammo a percorrere un’ampia strada asfaltata che si snodava, in direzione est, attraverso campi e porzioni di foresta, inoltrandosi in una zona vergine del Camerun dove avremmo potuto vivere un’Africa remota, misteriosa, un luogo nel quale quel continente poteva ancora mostrare, con fi erezza, la sua incomparabile e malinconica bellezza.

Dopo alcune ore di viaggio, giungemmo ad un incrocio dove un posto di blocco militare ci fermò, ispezionò il mezzo, controllò i documenti, e ci lasciò proseguire senza diffi coltà. Abbandonata la strada principale, la nuova direzione fu rappresentata da una pista in terra rossa ai lati della quale, una foresta rigogliosa, fatta di alberi dai fusti possenti e dalle chiome altere, sembrava pronta ad ingoiare lo stretto passaggio e con esso gli ignari viaggiatori. Era quella una zona popolata da genti Bantù che, per vivere, si affi davano a piccole coltivazioni agricole e a qualche animale domestico, soprattutto polli e capre, lasciando alla foresta il compito di fornire altro cibo sotto forma di tuberi, frutta, vegetali. Non passò molto tempo prima di vedere le loro casupole sbucare dalla boscaglia, mostrandosi in strutture fatte di rami e mattoni di fango, con patii delimitati da aiuole e stuoie intrecciate.

La mia attenzione, però, si incentrò sulle strane forme rivestite di maioliche colorate che comparivano in quei patii come presenze indispensabili: tombe. Si, erano tombe che assumevano la forma di piccoli mausolei, sormontati da croci cristiane di varie forme e dimensioni. Il contrasto tra i monumenti funebri e le casupole era stridente laddove, per le une erano stati utilizzati veri e propri materiali per costruzioni, per le altre viceversa, i miseri materiali raccolti nella foresta, quasi a volere sottolineare l’importanza della vita dell’aldilà rispetto a quella sulla terra.

Tornai all’adesso.Al nostro passaggio i Bantù si mostrarono amichevoli, salutandoci con ampi gesti

e larghi sorrisi chiedendosi, con sguardi interrogativi, il perché della nostra presenza in quei luoghi sperduti. I bambini non si fecero sfuggire l’occasione dell’inaspettato passaggio, per liberare tutta la loro carica di energia nel tentativo, addirittura, di tenere la velocità del pulmino, correndo a perdifi ato ed urlando la di felicità. Scene che mi riportarono all’infanzia, alle corse nei prati, alle partite di pallone in campetti improvvisati, al nascondino, alla spensieratezza del gioco, alla scuola e alle vacanze estive. Quel mondo mi apparve, in tal modo, lontano, come fosse cristallizzato in un’altra esistenza ma non più reale, separato del mondo circostante. E l’umore ne risentì, se volse alla malinconia generata da domande su quanto, la libertà dei Bantù, avrebbe potuto resistere alle pressioni esterne della civiltà o al mutamento delle condizioni politiche ed economiche del Camerun.

Per impedire che rifl essione rimanesse sospesa nell’aria, cercai di arginarla concentrandomi sulla bellezza innocente del luogo e di quelle genti. Gettati i pensieri nel dimenticatoio, mi abbandonai all’intorno, dando allo sguardo ed al cuore il compito di condurmi attraverso la foresta equatoriale.

Il proseguire si tramutò in dolce navigare, laddove, un mare calmo e privo di pericoli accolse il vagare. Ed ancor di più mi parve navigare, se nel bel mezzo della foresta apparve una piscina naturale nella quale alcuni bambini erano impegnati in tuffi , lanciandosi da tronchi-trampolino, ed in giochi d’acqua. Acqua, che simile ad un liquido magico, aveva assunto il colore rosso della terra, divertendosi a cambiare tonalità dove sabbia e foglie ne fi ltravano le impurità, servendosi, altresì, dei raggi del sole che penetravano attraverso le fronde degli alberi per riassumere sfumature diverse, ora di azzurro, ora di verde, ora di blu.

Ma la foresta non aveva intenzione di rimanere ai margini del mio immaginare!

All’istante riapparve in tutta la sua potenza, negando all’acqua ed alle radure, qualsiasi possibilità di mostrarsi: il muro creato dall’ammasso di radici, tronchi, rami, fronde, foglie, liane, correva lungo la pista non rinunciando ad invaderla e a formare, di tanto in tanto, ostacoli impegnativi che richiedevano decelerazioni improvvise ed aggiramenti attraverso precarie aperture laterali. La foresta ci stava inghiottendo nelle sue interiora, sprofondandoci in luoghi ancestrali e misteriosi dove forse si aggiravano non solo animali ma, anche maghi, draghi, erinni, amazzoni. La foresta ipnotizzò: vidi Lemno, Iolco, le rupi Simplegadi, la Colchide, e le toccai, le sentii. Ed Era invitò a proseguire senza sosta, senza paura rinvigorendomi nei muscoli.

Sveglia, siamo arrivati a Somalomo!Stordito dal sonno ripetei meccanicamente, Somalomo!

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Trascorse qualche minuto prima di riprendermi.Ero fi nalmente sveglio ma, l’avamposto nel quale ci trovavamo, poteva appartenere al

mondo dei sogni nel quale ero precipitato qualche istante prima. Somalomo era un luogo-non luogo nel quale foresta, pista, dimore, uomini, donne, si mescolavano fra loro per generare un ambiente sospeso in un limbo nel quale era impossibile stabilire una gerarchia, dovendo ogni elemento soggiacere alle leggi della natura. Era quello un santuario nel quale potevo percepire la mitologia del giardino dell’Eden, se nel cielo i rami degli alberi si protendevano all’infi nito, se i raggi del sole ormai al tramonto coloravano di fuoco l’apparire, se il canto degli uccelli recitava salmi, se la terra era rossa come il sangue del “fi glio dell’uomo”, se un senso di pace e di religiosità pervadeva ogni particella di me.

Il campo di mama Rose raccolse le sensazioni, e quella signora paffuta e dai gesti gentili e premurosi, fu la esatta rappresentazione di una donna amorevole, capace di toccare il cuore con la sua ospitalità. Era quello l’ultimo centro abitato, per così dire, dal quale partire per l’esplorazione, a piedi, della foresta, l’avamposto prima di addentrarsi nella impenetrabile riserva du Dja. E mama Rose ne era la direttrice, l’organizzatrice, nonché la cuoca del campo base, attività che svolgeva avvalendosi di collaboratrici e collaboratori che facevano parte della famiglia ma, con gradi di parentela di diffi cile comprensione. Comunque, non era importante sapere. L’importante era il campo che ci accolse alla meglio con le sue strutture spartane, e la cena, che consumammo in uno slargo circondato dalla foresta, illuminato dalla luna e da torce da campo, fu la conclusione della giornata che ci aveva condotto al limite del mondo conosciuto.

Somalomo – Riserva du Dja 08/01/2012Alle prime luci dell’alba fu data la sveglia. Dopo un sonno profondo nel dolce trascorrere

della notte, il corpo recuperò le energie per intraprendere la marcia e raggiungere il luogo ove avremmo potuto incontrare i pigmei Aka. L’aria era frizzante ed i raggi del sole, fi ltrati dagli alberi, non avevano effetto in termini di calore. Di tanto in tanto il verso di invisibili uccelli, adagiava le sue note sull’immobilità del silenzio che pervadeva l’intorno, perdendosi nel folto della massa arborea. Il cielo limpido confortò i colori che ne trassero benefi cio, mostrandosi nelle più svariate tonalità e nel trapasso di quell’arcobaleno, il tempo si contrasse riducendosi ad un istante: consumata una frugale colazione, raggiungemmo la guida che ci attendeva lungo il sentiero che, dal campo, conduceva alla giungla.

Lentamente ci inoltrammo all’interno dello stretto passaggio che si apriva tra gli arbusti, ritrovandoci immersi in un giardino incantato dove il rumore dei nostri passi veniva sopraffatto dai suoni della foresta, suoni fatti da versa di uccelli sconosciuti, dal richiamo di scimmie, dallo stridere di rami, dallo stormire di foglie, dallo sciacquettio di un rivolo d’acqua. Acqua che d’un tratto si materializzò in un fi ume, il Dja, che tagliò il percorso impedendoci, almeno all’apparenza, di proseguire. Ma fu solo apparenza poiché, superato un avvallamento, sulla riva si mostrò una imbarcazione consistente in un tronco scavato e sagomato con una prua ed una poppa. Quella sorta di piroga, svolse il compito alla perfezione: in pochi minuti, il “marinaio” che la conduceva, ci trasportò sulla sponda opposta lasciando il Dja alle nostre spalle. Giunti

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a riva, seguimmo il nuovo sentiero per un centinaio di metri, fi n dove fu possibile, poi alla scomparsa di esso, ci inoltrammo nel groviglio della boscaglia con la guida ad aprire varchi con il machete e noi dietro ad approfi ttare dei suoi sforzi.

L’umidità ed il caldo, ora opprimenti, impregnavano l’aria mentre la vegetazione se ne serviva per tramutarla in essenza vitale. Ed i risultati erano smisurati nelle forme e nella concentrazione: i fi ori, le foglie, i tronchi, gli insetti, sembravano fatti per compiacere i ciclopi e non uomini dalle normali dimensioni.

Ma non ci scoraggiammo.La marcia proseguì per circa un’ora e trenta quando raggiungemmo una radura

che squarciò la foresta, rivelando quella che doveva essere stata una bolla di lava incandescente, solidifi catesi ora, in roccia color pece che formava una collina libera dalla vegetazione ma, circondata in tutta la sua estensione dalla foresta, e mostrandosi, in tal modo, simile ad un’isola.

Ci inerpicammo su di essa, avvertendo nelle scarpe e nei piedi, il calore della roccia che al sole sembrava ribollire, nel tentativo di rimodellarsi in qualcosa d’altro. Su di essa vi erano segnate delle striature bianche che dalla sommità e dai lati rigavano, in senso longitudinale, la roccia per terminare alla base della collina al limitare della foresta: era quella sostanza, sodio, di cui gli animali di foresta avevano bisogno per integrare la dieta vegetale.

Ed ecco spiegato il perché di quella meta: i depositi di sali minerali. Ci appostammo al riparo di una roccia sporgente osservando, in silenzio, l’intorno. Il tempo trascorse veloce ma, degli animali, nessun segnale.

Senza avvertimenti un potente barrito, simile ad un tuono, lacerò il silenzio. La vegetazione venne scossa da un brusco movimento, quasi a voler annunciare l’arrivo di un pachiderma ma, così come si generò, così cessò: nulla comparve ed una calma irreale si appropriò della scena. Probabilmente l’odore dei nostri corpi era stato percepito dall’animale che, con un rapido dietro-front, si era allontanato dal pericolo servendosi dei passaggi nella foresta che simili a tunnel foravano l’inestricabile vegetazione, consentendogli di muoversi con agilità senza essere visto, se non al momento in cui la radura non ne interrompeva il tragitto.

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L’appostamento era, così, fallito e non sarebbe servito a nulla rimanere in attesa. Sfi duciati ci allontanammo per ripercorrere, all’indietro, il percorso fatto in precedenza e battere la nuova pista che ci avrebbe condotto dai pigmei. La marcia fu faticosa. La temperatura salì rapidamente ed il sudore incominciò ad inzuppare gli abiti contribuendo ad amplifi care lo sforzo. Il procedere assomigliò ad una retrocessione geologica che, ineluttabilmente, assorbì l’adesso per sostituirlo con riti ancestrali, con armi primitive, con fuochi scaturiti dallo strofi nio di rocce, con lingue sconosciute, con battute di caccia, con uccisioni cruente, con scuoiamenti, con l’immagine di uomini per i quali nulla era cambiato dal tempo della creazione. I contorni di quel mondo sembrarono sfumare in una sostanza nebulosa che, anziché, concentrarsi in un nucleo denso tramutò in materia gelatinosa che soggetta ad un movimento sincopato proveniente dalle viscere della terra, ne modifi cò a tal punto la forma, da essere prossima all’esplosione.

La vista sembrò perdersi alla ricerca di un orizzonte, il corpo di una materialità, la mente di una defi nizione.

Ma non potei nulla.L’ambiente circostante assorbì energia e, come una nube piroclastica, si scaricò su di me

travolgendo ogni resistenza. Nel gorgo magmatico, fl uttuai come un sughero sull’acqua, incapace di recuperare le forze per oppormi al moto. Solo mi lasciai andare. E su quell’andare persi la cognizione dell’essere, ritrovandomi a contatto con i pigmei Aka.

Ero ancora nella foresta oppure era quella un visione onirica?Il silenzio era totale ma, la foresta parlava, o almeno così parve. Erano suoni fruscianti,

sui quali si sovrapponevano vibrazioni e ronzii di insetti che si nascondevano nella boscaglia, salmodiando la propria litania perenne. Su quella colonna sonora subentrò la presenza dei pigmei e del loro villaggio. Presenza che non diradò gli interrogativi sull’essere o sul non essere ma, che solo subii accettandone l’esistenza. Lo sfasamento materiale lo avvertii in ogni cellula, come se il corpo si dovesse adattare alla nuova realtà prima di poter comprenderne il signifi cato. Lo stato confusionale si protrasse per un tempo indefi nibile, cessando nel momento stesso in cui alcuni pigmei incominciarono ad accendere un fuoco, a suonare dei tamburi, a parlare tra loro, in altre parole nel momento in cui la loro quotidianità prese il sopravvento sulla mia presenza. In quell’istante rinvenni e potei osservarli libero dalla tossine della civiltà.

I loro corpi minuti si muovevano con misura, quasi a voler centellinare ogni energia, rivelando nel contempo una estrema gentilezza nei gesti e nel modo di comunicare l’un l’altro, modalità che si ripetevano anche nel momento della conservazione e della preparazione del cibo, del gioco con i bambini, della mescita dell’acqua. Nei visi, negli sguardi, nei comportamenti era possibile percepire uno stato di profonda serenità che si contrapponeva, senza mediazioni, alla incombente e possente presenza della foresta, sinonimo essa stessa di pericolo, di diffi coltà, se non di morte. La contraddizione visiva era talmente presente difronte a me che non riuscivo a capacitarmi di come, quegli esseri così piccoli, riuscissero a superare prove tanto grandi.

Cercai di sforzarmi per comprendere. Ma come comprendere?Avrei dovuto liberarmi di tutto ciò che ero e tentare di immaginare come sarebbe stato

vivere in quel luogo, con la necessità di procurarsi quotidianamente il cibo, l’acqua, curarsi senza dottori, sopravvivere senza un letto od una casa, senza nulla, con il tutto rimesso al caso, al libero scorrere della vita e della foresta. La constatazione rivelò la mie fragilità, la mia assoluta dipendenza dalla civiltà, la mia stretta dipendenza dalla quotidianità della vita in città.

In quell’istante mi resi conto di quanto in realtà i pigmei fossero forti, di quanto resistenti dovessero essere i loro fi sici e le loro volontà, di quanto lo spirito di sopravvivenza li avesse temprati, generazione dopo generazione, per sopravvivere a quell’ambiente ostile. Ostile solo a miei occhi, se per loro la foresta equatoriale rappresentava viceversa la propria casa, la propria fonte di sostentamento, la propria vita, la propria essenza, il proprio destino.

Per questo i loro occhi mostravano serenità e per la medesima ragione risposero gioko, gioko al mio saluto. Si, quelle due paroline rivelarono la paciosità del loro esistere e nel contempo l’assoluta identifi cazione con l’ambiente circostante. E non importava se le capanne erano igloo

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fatti di foglie, se l’indumento esclusivo era un gonnellino fatto di fronde, se il vivere era scandito dalle attività connesse alle esigenze fi siologiche, se lo svago era rappresentato da canti e suoni tribali, se il tempo era contenuto nel trascorre delle stagioni della foresta, se i morti erano arrotolati in foglie e sotterrati nella foresta per esserne suo cibo. L’importante era la comunità, lo stare insieme, il cacciare insieme, il pescare insieme, il mangiare insieme, il riscaldarsi insieme, senza necessità di possedere, produrre, avere più del necessario.

Gioko, gioko.Ripetei mentalmente quelle parole mentre, seduto su una panca fatta di rami intrecciati ed

impiantati nel terreno, continuai ad osservare le capanne di foglie al cui interno, solo ora mi resi conto, vi erano altri pigmei che a rilento rinvenivano dal riposo, affacciandosi da piccole aperture laterali per poi rintanarvisi immediatamente come a voler capire il momento adatto per uscire ed incontrare l’inaspettato visitatore. L’andirivieni durò svariati minuti, dandomi la sensazione che fosse un comportamento teso all’adattamento reciproco ma, anche rivelatore della loro profonda discrezione, tanto da mostrare titubanza nel riprendere le normali attività, come se dovessi essere io stesso ad autorizzarne l’inizio.

Il villaggio ed i pigmei seppero, così, trasmettere una sensazione di familiarità che prescindette dal tempo lì trascorso, tanto da farmi dubitare di trovarmi tra di loro da così poche ore. La percezione che ebbi fu tutt’altra. Quel luogo aveva inglobato la foresta nella propria esistenza e su di essa misurava le stagioni della vita, cadenzandole sui ritmi delle piogge, della siccità, della caccia, della raccolta, della fi oritura e così via, annullando la dimensione segnata dalle ore, per sostituirla con quella dell’assenza. Assenza delle ore perché inutili, e su quell’inutilità accertai anche la mia incapacità ad individuare le età dei pigmei.

Venti, trenta, quaranta anni, o forse cento, duecento anni, e perché non un’intera era geologica. La mia presenza nel villaggio forse risaliva ad un altro periodo storico o forse no. L’intrigo temporale si riprodusse all’infi nito così come quello legato alle età, cessando nel momento stesso in cui tolsi l’orologio per gettarlo nel fondo dello zaino.

Il gesto liberò dal dilemma, consegnandomi alla loro realtà.Realtà nella quale le donne erano dedite alla cura della prole e del villaggio mentre gli

uomini, apparentemente apatici, meditavano, fi ssando un punto indefi nito della foresta quasi fossero ipnotizzati da un qualcosa che non riuscivo a percepire.

Guardai intorno a me nel tentativo di osservare la medesima cosa ma, nulla. Riuscii solamente ad ascoltare suoni isolati ma, lontani, che nulla mi rappresentavano. Eppure ciascuno di quei suoni era per loro un vedere, un vedere oltre, un vedere oltre il folto della giungla e al quale associare la vittima della caccia, un vedere che nascondeva capacità superiori, se a dispetto delle loro minute dotazioni fi siche, riuscivano a procacciarsi anche animali di grande taglia. Nelle pieghe del pensare, evidentemente non mi resi conto del sopraggiungere della sera se lentamente ma, inesorabilmente, si intromise come un ospite inatteso. La foresta se ne compiacque, colorandosi di nero ed imprimendo sull’intorno il peso dell’infi nito. L’assolo non durò molto tempo se, prima i fuochi dei pigmei, poi la luce della luna, il rifl esso delle stelle, la presenza di centinaia di lucciole, violarono l’oscurità defi nendo contorni e scoprendo profondità, modifi cando l’essenza stessa della foresta da luogo di paure in luogo di incantesimi, da luogo di nero marziale in luogo di iridescenze argentate, da luogo per magie nere in luogo per sacre rifl essioni. Un suono interiore si sovrappose alla visione, accompagnandosi al canto che nel contempo i pigmei intonarono, dando vita a danze circolari che sembravano voler confi nare il fuoco in un cerchio magico, cerchio dal quale trarre la forza degli spiriti necessaria ad affrontare le prove che la foresta avrebbe loro riservato.

Le braci ardenti arsero senza sosta, riunendo su di esse il centro di gravità permanente di quell’istante. Istante che si smaterializzò nella notte, se ora il canto cessò, i pigmei tornarono nelle capanne ed io nella tenda montata ai margini del campo. La giungla lasciò fare, accontentandosi di agire su di me all’oscuro della notte, servendosi dei sogni per ipnotizzare e costringere all’orazione. Non ricordavo di essermi addormentato e neppure ricordavo il quando ma, l’evidenza diceva che nel cuore delle ore notturne mi dovetti svegliare, avvertendo un richiamo simile a un canto gregoriano, un canto monodico che richiese la partecipazione. Uscito dalla tenda, mi guardai attorno rendendomi conto di essere in una cattedrale: i fusti degli alberi illuminati dal chiarore della luna assomigliavano a colonne romaniche, il cielo stellato ad una volta affrescata, le fronde a paramenti religiosi, le liane alle canne di un organo.

E davvero ascoltai un canto salmodiante una melodia celestiale, e davvero mi parve osservare una comunità orante che, attenendosi alla liturgia, seguì il celebrante, e davvero la lode si fuse ad esso per rivolgersi alla comprensione di Dio.

La notte tramutò in pensiero.Il riposo in estasi.

Riserva du Dja – Somalomo 09/01/2012Le prime ore del mattino si annunciarono con un’aria frizzante che, piacevolmente,

rigenerò le membra. L’effetto fu amplifi cato dall’ombra creata dalla volta della giungla e da un sottile velo di umidità che, nella notte, si era posato su di essa. Lentamente l’intorno si animò di suoni e dell’apparire dei pigmei.

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Le donne incominciarono a districarsi tra bambini e faccende domestiche mentre gli uomini confabulavano tra di loro, ad eccezione però, di quello che sembrava il capo e che, in disparte, apparve con il viso coperto di un alone nero dipinto con la cenere raccolta dal fuoco spento la sera precedente con il resto del corpo che non presentava colorazioni di sorta. Ai suoi piedi vi era un machete ed altri strumenti di legno e pietre acuminate che potevano essere frecce o coltelli. La guida, accortosi del curiosare, si avvicinò per avvertirmi che quello era il momento di preparazione della caccia che, usualmente, i pigmei effettuavano di primo mattino o di sera per sfruttare la mimetizzazione offerta dalla poca luce fi ltrante attraverso la volta degli alberi e per avvantaggiarsi della temperatura mite di quei momenti della giornata.

In pochi minuti l’uomo con il volto dipinto e due donne si misero in marcia, facendo cenno alla guida e a me, di seguirli. Non ci misi molto tempo per capire quanto i pigmei fossero adatti a muoversi nella giungla: il camminare era agile nonostante i piedi nudi, i movimenti rapidi e silenziosi, lo sguardo vigile ad ogni traccia, l’udito attento a ciascun rumore, l’olfatto teso a cogliere il benché minimo odore. Era quello un mondo nel quale piante e animali appartenevano ad una stessa medaglia le cui facce avrebbero potuto avere due esiti completamente diversi: da un lato la vita e dall’altro la morte. I pigmei, forti della loro conoscenza, agivano quotidianamente sul crinale di tale alternativa senza che l’agire facesse trasparire preoccupazioni di sorta.

Il procedere mutò da semplice seguire i pigmei, a imparare dai pigmei i segreti necessari alla vita nella foresta. Ecco allora fermarci nei pressi di una pianta a foglie lunghe e strette che, tagliate in porzioni più piccole, erano usate per la cicatrizzazione e la guarigione di vari tipi di ferite, ed ancora ecco ritrovarci a cospetto di un possente albero dal cui tronco fuoriusciva un liquido biancastro e resinoso, utilizzato come combustibile, e poi ecco mostrato il modo di proteggersi dall’attacco di felini o elefanti di foresta rifugiandosi nel fi tto delle radici di mangrovie, e poi il modo di abbeverarsi con l’acqua contenuta in un particolare tipo di liana piuttosto che con quella contenuta in un’altra altrimenti mortale.

E che il loro camminare nella foresta non fosse infl uenzato dalla mia presenza ma, rivolto alla caccia, mi fu testimoniato nel momento in cui con un balzo felino l’uomo e le due donne si gettarono sopra un grosso tronco adagiato a terra, incominciando a scavarvi intorno con le mani e a battervi sopra con il machete. La sequenza fu rapidissima e senza dare possibilità di fuga all’animale che avevano individuato, estrassero dall’interno della tana improvvisata

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un pangolino, un piccolo mammifero, con testa, tronco, coda e zampe rivestiti di grosse squame cornee, dure e mobili. Catturato, l’animale non emise alcun verso ma, si avvolse a formare una palla nel tentativo di difendersi, tecnica di difesa utile con predatori animali ma che, per sua sfortuna, non gli avrebbe evitato di diventare cibo per i pigmei.

Fu quella la prima cattura della giornata ma, purtroppo, non avrei potuto continuare a seguirli perché erano diretti in una parte di foresta molto più diffi cile e pericolosa di quella battuta fi no a quel momento, zona nella quale avrebbero cacciato animali anche di grande taglia e per i quali la mia presenza sarebbe stata un impaccio per loro e un pericolo per la mia stessa incolumità. A malincuore mi resi conto di doverli salutare proprio nel momento in cui la loro presenza mi stava mostrando la bellezza della foresta, rivelandola una vera e propria miniera di risorse che i pigmei riuscivano a sfruttare nel modo migliore e senza che il loro fabbisogno minacciasse l’esistenza di quel luogo incantato e degli animali che vi abitavano.

Il tempo era volato via senza mediazioni, così come lo spazio percorso nella foresta. Giunti nuovamente in prossimità del fi ume Dja ma, da un’altra direzione, ci fermammo in una piccola radura laddove una imbarcazione attendeva me e la guida per essere riportati al campo di Somalomo.

I pigmei rimasero in una posizione defi lata, all’ombra degli alberi.Li guardai negli occhi. Loro fecero altrettanto.Ci sorridemmo reciprocamente.Il mio stato d’animo era percorso da sentimenti di malinconia e di felicità insieme, di

malinconia per l’abbandono e per l’incapacità di sapere per quanto tempo ancora i pigmei avrebbero potuto vivere nella foresta seguendo le loro tradizioni, di felicità per avere avuto la possibilità di condividere con quel popolo gentile anche un solo giorno della mia vita.

Salito sulla barca, mi volsi verso i pigmei e con la mano li salutai. Loro mi osservarono dalla posizione di attesa nella quale si erano fermati, rispondendo con un gesto all’addio. Lentamente, l’imbarcazione con me, la guida e il conduttore, si allontanò dall’attracco per seguire la corrente del fi ume mentre i pigmei, nel frattempo, s’inoltrarono nella giungla scomparendo dalla vista.

Il Dja cullò la navigazione nella calma delle sue acque e del percorso sinuoso, mostrandoci una foresta rigogliosa che nel tentativo di imbrigliare il fi ume nelle sue spire, ne veniva respinta sia dalla maestosità del corso d’acqua, sia dalla forza corrente ma, che nel fi ume aveva comunque la possibilità di cibarsi per mezzo degli apparati radicali che peraltro ne modellavano le sponde, dando vita ad un impenetrabile muro vegetale nel quale anche tronchi, radici, liane, formavano la struttura portante.

Il silenzio era rotto dal solo rumore del remare e dallo sciacquettio della prua dell’imbarcazione, prua che disegnava sull’acqua una scia a forma di lettera v rovesciata che andava a spegnersi su di essa, incapace di giungere così agli argini del fi ume. In volo, a pelo d’acqua, si rincorrevano degli uccelli mentre, di tanto in tanto, solitarie aquile pescatrici si mostravano dalla sommità degli alberi nel tipico appostamento prima di una picchiata nel fi ume per catturarne i pesci preferiti.

Non ci vollero più di due ore prima di giungere all’attracco del punto dal quale il giorno precedente attraversammo il fi ume per inoltrarci nella foresta: era il segnale che il viaggio stava per terminare.

Somalomo ed il suo campo non avrebbero ospitato per un altro giorno. Solamente Yaoundè lo avrebbe fatto, prima di lasciare al Camerun il compito di colorare di sé i miei ricordi.

Domenico Tolomei

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