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ANDREA PERIN

CALLE DI NATALE

RACCONTO BREVE

L'opera è tutelata dalla legge sui diritti d'autore. Potrai comunque condividere o stampare il racconto, senza

modificarlo o farne usi commerciali.

Andrea Perin Copyright © 2017

CALLE DI NATALE

PREMESSA

Il racconto, suddiviso in tre parti, inizia da un centro storico di provincia, spopolato dall'avvento dei grandi magazzini, precisamente, in un anacronistico negozio di camicie giunto ormai sull'orlo del collasso tra debiti e disperazione.Poi, un'ancora di salvezza: la telefonata di un vecchio amico commilitone.La fuga a Venezia; la città magica, bella e cinica o forse, semplicemente, indifferente.Tra miseria, disagio e sofferenza, arriveranno i bei momenti di felicità, quella vera, tanto cercata, poi... la fiaba.

Ad una prima parte dove la narrazione appare nervosa e contorta, si contrappone la seconda, caratterizzata da una lettura sciolta e scorrevole in concomitanza con l'arrivo a Venezia, quasi lo stile narrativo fosse influenzato dallo stato d'animo dei due protagonisti interconnessi con la città.

*****

I - LA VITA DI UN ALTRO

La crisi...

quante che ne dicono di fesserie: a sentir loro sembra che questa nazione, anzi, stato, navighi a gonfie vele.

I giovani migliori se ne vanno, spesso sostenuti da genitori ormai convinti che una laurea e tanta buona volontà servano a poco nulla in uno stato privo di meritocrazia.

L'ultima sparata uscita da quelle menti brillanti, è che abbiamo bisogno di persone da fuori per non fare morire il paese, vista la bassa natalità. Questo a scusare la loro totale incapacità nel gestire un fenomeno ormai intriso di malaffari, corruzione e il peggio che possa offrire il teatrino massimo politicante.

Ma loro; parlo di quelli con le badanti e le tate, con le mogli che non fanno niente se non shopping o salotto...

Loro, dicevo, che si sono decisi lo stipendio, la pensione, le sovvenzioni ai loro partiti e giornali, amici e parenti, e che pure, in molti, non sono

nemmeno stati eletti...

Loro, dicevo; sanno cosa vuol dire metter su famiglia per gente normale? Magari senza genitori, i famosi nonni e che tanto adesso se ne vanno all'estero?

Cinquecento di nido, trecento di baby-sitter, in nero, il minimo se si vuole lavorare in due, pannolini, medicine, visite con ticket ospedalieri folli.

Scuoto il capo. Ora basta! Quando inizio così, poi non riesco più a fermarmi, e tanto non mi serve a niente se non a prendermela col mondo intero e avvelenarmi il sangue.

Ricordo benissimo quando in quei brutti giorni, parlando delle ingiuste spese sanitarie per mia moglie e il piccolo, un contadino del paese mi disse:

''Ormai qui è tutto finito, irrecuperabile. Il mio unico figlio, l'ingegnere, se n'è andato in Canada. Ogni settimana ce n'è una di nuova da pagare. Va a finire che vendo tutto.”

Poi, quasi in lacrime; ''...la mia terra.''Infine, la sentenza:''Ormai in Italia sta bene solo chi è ricco e chi non ha niente.''

Perfetto: noi, non eravamo né l'uno né l'altro. Semplicemente si campava a tirare, segnando sopra a un quadernino entrate e uscite, perfino il caffè del bar, con il conto in banca via via sempre più magro... ma poi tutto cambiò.

Indimenticabile quella fredda mattina dell'altro inverno. Fuori, nel campo dietro casa, tutto stava ghiacciato.Era la vigilia di Natale e dovevamo fare la spesa per il pranzo del venticinque.

In auto, pronti a partire, Giulia corse in casa, con me scocciato per l'ennesima sua dimenticanza.Un colpo di tosse, profondo, chiusa in bagno; sangue nel lavandino.Tutti i nostri pensieri pertinenti ai problemi economici svanirono, dissolvendosi come neve al sole.

Mia moglie ci lasciò dopo sei mesi esatti, il 24 giugno, in un caldo e afoso pomeriggio d'estate.

Dopo aver perso Giulia, decisi di portare avanti la sua bottega, una camiceria d'altri tempi che aveva ereditato dalla madre, appartenuta a sua nonna.

Ed ora, eccomi qua, in preda alle mie rabbiose farneticazioni.

Mi guardo attorno: un tempo di negozi così, in provincia, se ne vedevano pochi.

Il bancone e gli scaffali sono in legno massello, provenienti da un'antica farmacia di Venezia.In un quadretto dietro a un primitivo registratore di cassa, fa bella mostra di sé la ricevuta della prima camicia venduta al ricco veterinario del paese, a inizio '900, confezionata a Napoli. Solo la grande vetrina esterna stona un pochino, vetro e acciaio abbinati ad un lungo maniglione d'ottone a forma di pesce, stile anni '70, gli anni del boom economico. E pensare che aveva chiesto un preventivo per sostituirla... che matta.

Sto pazientemente sistemando le ultime tre camicie. Le avevo tolte e dispiegate dalle confezioni in un disperato quanto patetico tentativo di vendita, mostrandole alla mia ultima cliente, che se ne è andata da poco più di due ore.

Fisso la strada vuota, Via Mazzini, nemmeno un cane, solo delle infelici luminarie con metà lampadine bruciate e i cartelli VENDESI e AFFITTASI incollati su delle tristi vetrine sporche e abbandonate. Mi sembra ancora di vederla, fiera e altezzosa la Signora Bovary di provincia...

***

La signora col grosso portafoglio in mano la osserva, inclinando lievemente la testa di lato, poi arriccia il naso e muove le labbra strofinandole una sopra l'altra, infine gonfia le guance, come stesse facendo dei sciacqui col collutorio. Poi il ''NO!'', deciso, senza appello.Ma non demordo, così levo accuratamente gli spilli, la spiego con dei movimenti di mani decisi ma delicati degni di un ipnotizzatore, e la mostro fieramente.

Ma lei si gira:“Quella!”, indicando la vetrina.Appoggio con cura la camicia bianca, e corro senza nemmeno fiatare: ho veramente bisogno di contante ed è da venti minuti che mi cadono gli occhi sul suo gonfio portafoglio.Gliela mostro, gliela faccio toccare. Afferra i polsini e li passa più volte tra i polpastrelli...

Stesso rituale di prima: arricciamento di naso, strofinio di labbra, sciacquo... NO!

“Signora: sia maledetta! Va bene?!”

Giuro! Pensavo d'averlo solo pensato, invece in quel momento la lingua era perfettamente collegata al cervello.

“Avrà presto mie notizie!”, risponde offesa dopo aver strabuzzato gli occhi.E che ti vado rispondere, questa volta coscientemente: “E chi se ne frega!”

Uscita.

Questo è tutto. Già, un gran bel finale per la storica camiceria del paese.

***

Continuo a piegare con molta cura i capi; sicuramente vorranno tutto indietro quando si accorgeranno che l'ultima fattura non verrà saldata. Inizio ad agitarmi, colto da un profondo senso di vergogna, visto che non ho mai saltato un pagamento a un fornitore, ma la rabbia ha subito la meglio... “si fottano pure loro”, sibilo con cattiveria a denti stretti.Poi riacquisto la calma: “Coraggio! Ce la faremo!”Spillo nel polsino sinistro, spillo nel polsino destro, piego la manica... “AHIA!” Batto il pugno con violenza:“Porca di quella vacca...” mi tappo la bocca.

Sul candido polsino del capo invenduto compare una macchia rossa, che via-via si va allargando.

L'afferro, con forza, e convulsamente l'attorciglio al braccio sinistro iniziando a percuoterla violentemente sul bancone fin quasi a spezzarmi le ossa. Continuo per diverse mazzate finché mi si informicolano le dita. Poi, dolorante ma ancora infuriato, la srotolo e tiro le maniche talmente forte da ferirmi i palmi. Saltano i bottoni dei polsini, ma le ottime cuciture partenopee tengono bene, e non vogliono saperne di strapparsi. Ormai imbestialito, privo del minimo freno inibitore, metto in bocca il colletto, tenendolo ben stretto tra i denti. Lo lacero quasi a metà e tiro, tiro, tiro finché: CRASH! La strappo completamente, sbattendo con le mani serrate a pugno sul bancone.

Qualche secondo e torno in me, ancora con brandelli di camicia stretti tra i denti e le nocche sanguinanti.

Sputo quel che rimane del colletto, insanguinato. Consapevole di non essere un bello spettacolo, vado alla porta e chiudo a chiave.Torno al banco e mi siedo dietro, per terra. Mi allungo ad afferrare con le dita dei pezzi strappati, a penzoloni, e porto le mani sul viso. Mentre il forte sapore di sangue si diffonde per la bocca, (devo essermi ferito alle gengive), inizio a pensare a Giulia; a cosa direbbe se mi stesse davvero

guardando in questo momento, da lassù.

Vorrei piangere, sentire qualcosa, il suo calore, la sua presenza.Vorrei credere in un dio, in un qualcosa di buono e migliore, anche pronto a giudicarmi... ma non riesco in nessuna di queste cose.

Mollo gli stracci. Passo i palmi sugli occhi e poi li abbasso; sono completamente asciutti e segnati da una vistosa riga emorragica viola sotto la pelle.

Sospiro. Tutte le lacrime di una vita le ho riversate in quei suoi ultimi sei mesi. Poi, da quel pomeriggio d'estate, freddo siderale.La mia esistenza è diventata quella di un altro, vissuta da fuori come stessi guardando un film a cui nemmeno sono interessato.

Bussano alla porta.Mi scosto per vedere chi è.È Matteo, mio figlio, col suo amichetto di colore Gion.Il pensiero corre ai discorsi fatti prima e all'attimo di pazzia seguito.Mi vergogno, spero non mi abbiano visto. È stato solo uno sfogo, o forse più un delirio collerico, anche se giustificato.

Osservo i due mentre continuano a spingere e bussare.Mi alzo deciso, ostentando sicurezza e serenità; torno a vedere il film della mia vita.

Dicono che il mio Matteo sia un bambino molto sveglio e intelligente. Beh, lo è davvero.Fin da quando ha iniziato a parlare, mi sono sempre rivolto a lui come ad un amico, confidandogli anche dubbi e pensieri. Magari non capiva tutto alla perfezione, ma sicuramente il senso sì.

“Cos'è successo papà?”“Poi ti spiego... Gion? La tua mamma viene a prenderti o ti porto a casa io?”Il piccolo mi risponde con noncuranza, mentre raccoglie dei pezzi di camicia a terra assieme a Matteo.“No, passa di qua il papà.”

Cavoli! Cavoli! Cavoli!

Entra il padre di Gion, un omone nero in divisa che lavora come guardia giurata ai grandi magazzini del centro commerciale.Ci stringiamo la mano, due parole di cortesia. Matteo e Gion si salutano, poi lui si gira per andarsene;“Scusami, dimenticavo questo.”

Mi allunga un foglietto, che apro subito: è il conto delle ore di baby-sitter fatte a Matteo dalla moglie.

Non ho nemmeno i soldi per andare fuori a mangiarmi una pizza a Natale, figuriamoci 330 euro!Deglutisco, imbarazzato, col pomo d'Adamo che continua ad andare su e giù per conto suo.

Poi, ostentando sicurezza e serenità:“Certo, che stupido. Mi scuso tanto, ora guardo nel registratore di cassa quanto contante...”

La guardia, Matteo ed il piccolo Gion, mi osservano in silenzio senza staccarmi gli occhi di dosso, come stessero assistendo a uno spettacolo teatrale, anzi, a un provino, in curiosa attesa del susseguirsi degli eventi.

Mi muovo verso il bancone intontito dall'opprimente sensazione di vergogna e dal battito del cuore a martellarmi nei timpani sempre più forte. Apro il cassetto della cassa.I vani porta-banconote sono neri, vuoti, solo qualche euro in quello delle monete.Sto per mettermi a piangere, anche se non ho più le lacrime, ma mi fermo.

Alzo lo sguardo sul papà di Gion, gli sorrido:“Mi dispiace, ma ho pochissimo contante, ormai vogliono tutti il pagamento elettronico... Stasera

prelevo e domani ripassi, va bene?”Lui mi osserva per un attimo dubbioso, ma poi annuisce; “Tutto a posto qui dentro?”Mi appoggio coi gomiti al bancone, il viso tra i palmi, pacifico come stessimo parlando del tempo:“È dura... periodaccio. Comunque domani sarò qui. Come ogni giorno.”“Non preoccuparti, appena puoi...”Gion esce, passando tra le gambe del padre che si gira per andarsene...“Aspetta!”

Faccio il giro del banco, prendo lo sgabello e mi allungo sull'unica fila di scaffali con ancora della merce sopra. Scruto le sigle stampate, poi afferro una confezione e gliela porgo; una camicia sartoriale.“Questa, nella galleria dove lavori tu se le sognano.”“No, non posso accettarla... è troppo.”“Insisto, è Natale.”Sorride, comprensivo, come avesse intimamente intuito il reale valore di quel regalo; uno scambio, magari momentaneo; “Mia moglie ne sarà contenta.” Se ne vanno.

Raggiungo Matteo, rannicchiato dietro al bancone. Mi siedo al suo fianco.Prendo un fazzoletto di carta, lo inumidisco con la saliva e mi pulisco il mento. Poi lo osservo; è

insanguinato... che figura!

“Perché prima eri qui dietro papà?”“Stavo pensando.”“Alla mamma?”“Sì, anche a lei... e a quanto, a volte, sia tutto così difficile.” Lo accarezzo sui capelli, continuo:“E ti sembra che nessuno si accorga del tuo disagio, del tuo soffrire...”Matteo annuisce.“...ma, in realtà, ognuno ha già i suoi pensieri, tanti problemi e chissà che altro... come noi due alla fine, o no?”“Non ti capisco papà.”Sospiro;“Voglio dire, che anche noi non siamo mai stati particolarmente attenti agli altri. Forse i loro problemi sono invisibili ai nostri occhi.”“Ma te e mamma parlavate degli altri.”“Sì, vero, ma era più per spettegolare...”“Non capisco. Intendi dire che li prendevate in giro?”Sorrido, amaro; “In un certo senso... sì.”

Suona il telefono del negozio. Strano che funzioni; è già il secondo avviso di pagamento che mi mandano per posta dopo che ho chiuso l'accredito in banca.

Mi alzo, afferro l'apparecchio e mi risiedo vicino a Matteo.

Non c'è numero; sarà sicuramente l'operatore telefonico che mi minaccia.Mi rialzo di scatto, in preda a un nuovo impulso di rabbia ma che soffoco subito sul nascere premendo ''rispondi''. Lascio che parlino...

“Bruno! Bruno? Ci sei?”Stupito, lo porto all'orecchio; era da anni che non mi chiamavano col mio secondo nome.“Sì, sono io. Con chi parlo?”“Sono Alvise, ci siamo conosciuti a naja, ti ricordi?”“A naja?! Intendi il militare?”“Sì, ero quello di Rovigo...”“Eri?”“Sì, al congedo sono andato in Sicilia con Gulino, a casa sua, per sballarmi... e mi sono trovato sposato con l'amore della mia vita.”“Ma pensa te... E che fai?”“Beh, a Rovigo ci ritorno solo quando non c'è la nebbia... ossia in agosto.”Riesce a strapparmi un sorriso;“Eh, si sta bene laggiù... ma come hai fatto a trovarmi?”“Beh, con l'internet. Vai su camcom metti il nome e ti esce tutto.”“Camcom: il sito della camera di commercio di dà attività e tutto quanto? Ho capito... sai, mi ha fatto piacere averti sentito, magari un giorno.”“'Spetta! Ti ho chiamato perché sono qui dalle tue

parti.”

Non ho proprio voglia di vedere nessuno, non in questo stato, figuriamoci un commilitone di venti anni fa, anche se simpatico, unica cosa che ricordo di lui.

“Guarda Alvise, non è un momento molto buono...”“Meglio. Così ti distrai, o no?”“Che fai di bello?”“Sono a Venezia, ai mercatini di Santo Stefano. Ho una baita di prodotti tipici della Sicilia. Dai che mi aiuti?”“Va bene dai. Se ho occasione... e poi avrai tua moglie, i figli, se ne hai.”“Sì, sì, ne ho tre, ma sono tutti in Sicilia, anche mia moglie, tranne Anselmo, il piccolino, che non ha mai visto la città magica. La suocera non sta tanto bene, ma ormai il mercato qui al nord dovevo farlo. Dai, vieni a salutarmi.”“Nì... ho un po' di problemini adesso.”“Come vuoi, io comunque ti richiamo prima dell'Epifania... Ti saluto che ho tre clienti in fila rabiosi. Te 'speto. Ciao!”

Guardo il telefono mentre si spegne il display: mi richiama? E a quale numero?

Poi sorrido tra me: chissà che staranno pensando quei tre clienti in attesa ad un banchetto siciliano col

proprietario che parla con cadenza veneta.

Mi accorgo che Matteo si tiene le mani premute sugli occhi. Gliele faccio abbassare, gentilmente. Sta piangendo. Alza lo sguardo:“Vero che andiamo a Venezia papà?”

Lo osservo, di nuovo perso; l'ultima volta che c'eravamo stati c'era anche lei...Lo sfogo, la camicia a brandelli, Gion e il padre, la vergogna della miseria... Sono di nuovo seduto in poltrona, a vedermi il film della vita di un altro.

“Sì che ci andiamo!”

Matteo si alza in piedi, cingendomi le gambe molto forte con tutto l'affetto che ti sa dare un bambino di cinque anni in questi momenti.“Grazie paparino... e quando?”

Mi guardo attorno, con la piena consapevolezza che questa sarà l'ultima volta che vedrò la nostra bottega.Arrivato alla vetrina mi fermo; eccola là la mia Giulia, piegata sullo sgabello tutta intenta a sistemare le ultime novità arrivate da Londra per il capodanno, mentre ogni tanto sorride a qualche fugace passante; lei la decadenza di questo paese del cavolo proprio non la percepiva o forse, non voleva vederla.

Scuoto la testa; no! Così non posso più continuare.Guardo il piccolo e gli scompiglio i capelli:

“Hai detto quando?” Batto le mani: “Adesso!”

II - VENEZIA

Uno scossone dovuto al cambio ferroviario, mi dà la sveglia che stiamo entrando a Venezia. Apro gli occhi.Muovo la testa dal vetro appannato. Vi passo sopra un fazzolettino di carta.Eccola! La laguna. Mi giro verso Matteo, che ha dormito per tutto il viaggio. Vorrei svegliarlo, per mostragli lo spettacolo di questo spazio d'acqua perennemente conteso tra mare e fiumi, dolce e salato, e magari dirgli due cosette su come è fatta Venezia e perché si trova là in mezzo... ma dorme talmente pacifico che mi sembra un gran peccato svegliarlo, alla fine, per arrivare alla stazione di Santa Lucia, servono una decina di minuti, meglio se li goda.Appoggio la tempia al vetro e mi assopisco di nuovo coccolato dai sussulti della carrozza e confortato dal bel caldino che esce da sotto il sedile.

Veniamo svegliati di soprassalto dallo sbattere delle porte e dal ripetitivo richiamo ''In carrozza! In carrozza!”

Il treno sta per ripartire, in direzione opposta. Mezzi addormentati scendiamo velocemente, io col troley mentre Matteo con un piccolo zaino con le rotelline sotto.Non diciamo una parola fintanto che ci facciamo

trasportare inermi, dal magma umano fuoriuscito copioso dai numerosi treni in arrivo. Poi, curiosamente, ad un tratto ci troviamo soli, davanti alle possenti porte di vetro e ottone.Ne spingo una lasciando uscire Matteo che subito seguo. “Uau! Papà... che bello!” mi abbraccia. Io lo afferro, lo alzo e lo stringo forte a me. Chiudo gli occhi finché gli annuso i capelli. Ogni volta che lo faccio, mi sembra di sentire anche il profumo di Giulia.

Non ho parole per descrivere quello che sto provando in questo momento. È come se lei fosse qui con noi e non se ne fosse mai andata; imprigionata in quell'istante di tre anni fa, ipnotizzata e rapita dalla bellezza della cupola verde di San Simeon Piccolo con sotto le colonne affondate nella nebbia magicamente fuoriuscita dall'acqua.Guardo la curiosa chiesa, mentre la vista mi si appanna. Appoggio a terra Matteo, mi strofino gli occhi: lacrimano!

“Perché piangi papà?”“Dev'essere l'aria di mare.”“Piangi di felicità?”Divertito dalla domanda, (uscita dalla bocca di un bambino di cinque anni), lo accarezzo sui capelli. Poi

mi inginocchio vicino, levo da tasca il cappellino di lana e glielo sistemo bene, coprendogli anche le orecchie.“No, la felicità penso che sia un'altra cosa.”“Me la spieghi?”“Non ci riuscirei. È una di quelle cose che non puoi far capire spiegandole, la devi provare.”“Ma come faccio sapere se è lei?”“Il bello è questo: quando arriva, te ne accorgi subito che è lei.”“Gion dice che è sempre felice.”“Beato lui!”Ma Matteo mi fissa, in attesa di una risposta.“Anche tu Matteo sei un bambino felice, o no?”Scrolla le spalle.“Non lo so. Forse sì.”“Piange ogni tanto Gion?”“Sì, anche a casa sua...”“Vedi? Essere felici è una cosa, ma provare la vera sensazione di felicità è tutt'altra faccenda, ma ti assicuro che quando arriva te ne accorgi.”“Che cosa difficile papà.”“No, non tanto. Vedrai che prima o po-”“Quando l'hai provata tu?”

Vorrei raccontargli che mi sono sentito la persona più felice del mondo la prima sera che sono uscito con sua madre, vent'anni fa. Precisamente, nell'attimo in cui ho capito che le interessavo, le piacevo... e che ci

sarebbe stata.

“All'esame di quando mi sono diplomato! Ero stufo di studiare e non ne potevo più di andare in giro senza soldi, e non vedevo l'ora di mettermi a lavorare per guadagnare.”

Matteo annuisce, senza dir nulla, forse ha colto qualcosa della mia piccola menzogna... o forse no.

Lo prendo per mano: “Vuoi i guantini?”Scuote la testa; “Dove andiamo adesso papà?”“Andiamo... andiamo a vivere Venezia!”

***

Ci siamo sistemati in un piccolo hotel in una stanzetta con l'unica finestra che dà su una strettissima calle. La prima cosa che ho fatto è stato correre alla finestra, nella speranza vi fosse sotto una piazzetta o almeno un rio. Ma che pretendevo?

Matteo inizia a levare dal suo troley dei super eroi i pochi indumenti presi di corsa e a riporli nel cassetto, come fosse a casa.Lo osservo, mi fa tanta tenerezza. Vorrei dirgli che non c'è bisogno, visto che dubito riusciremo a pagare per più giorni questa camera, anche se è uno degli hotel meno cari della città, ma lo lascio fare.

Purtroppo, non riesco a evitare di correre col pensiero alle lettere ricevute dalla banca, alla fregatura del fondo azzerato, ripulito di quei pochi risparmi rimasti, al pignoramento della casa...

Ma come è possibile che chi ti ruba i soldi, poi ti dia dell'insolvente perché non puoi più ripagarlo!? Quale comunità lascia che si permettano queste porcherie?Ma hanno dei bambini questi porci? Come fanno a guardarli in faccia quando tornano a casa la sera!?Ladri! Ladri!!Brutti bast-

“Papà, papà... hai di nuovo quella brutta faccia!” mi urla Matteo mentre mi scuote il braccio come per destarmi da un brutto sogno.

Lo guardo, sforzandomi di sorridergli.Accidenti! Sta di nuovo piangendo. Lo prendo in braccio sedendomi sul letto e inizio a coccolarlo cantandogli la nostra canzoncina. Questa è la seconda volta che si mette a piangere, da ieri; mi sento terribilmente in colpa.

Lo cullo per qualche minuto, e mentre si sta per addormentare gli sussurro:“Scusami amore, ma papà sta avendo un po' di

problemini e a volte si arrabbia tanto-tanto da solo.”

Matteo si volta a guardarmi, pensavo ormai dormisse, poi si asciuga le lacrime facendo i pugnetti.“Non sei arrabbiato con me?”Lo stringo forte al petto, quasi rischiando di fargli del male:“Ma sei matto?!”Mi scosto per guardarlo meglio in viso: “Non pensarla mai più una cosa del genere, ok?”“Va bene...”“Promesso?”Annuisce, mentre si stende sul fianco abbracciando il cuscino.Nemmeno il tempo di chiudere gli occhi e sta già dormendo.Lo spoglio con calma, mentre il suo corpicino, con gesti istintivi, mi facilita l'operazione. Poi riprendo le sue cosine sistemate nei cassetti e le impilo nello zainetto, in ultima gli scarponcini nuovi... che tenerezza.

Mi sdraio al suo fianco, vestito. Incrocio le dita sopra allo sterno e osservo il soffitto.

Mi sento in colpa per i pensieri cattivi di prima. Non so che mi prende, ma quando parto così, poi... fortuna che mi ha fermato Matteo, che tra l'altro si è anche spaventato. Dovrei proprio riuscire a guardarmi

allo specchio mentre decollo per la tangente...Non voglio rovinare la nostra avventura con Venezia, e sono convinto che tanta rabbia e negatività la guasti, la indisponga; non voglio sporcarla.

Ora basta, davvero: siamo o no nella città magica?

***

Ebbene sì; l'amico commilitone rodigino che vive al sud l'abbiamo poi trovato. Abbiamo fatto società con la vendita di prodotti tipici dalla Sicilia e veneti in controparte, una specie di import-export ''intranazionale''. Matteo cresce bene, ora sta giocando a pallone con dei bambini veneziani appena conosciuti qui nella piazza. La mia nuova compagna, la sorella minore dell'amico, è riuscita con la sua dolcezza e pazienza ad accompagnarmi nel difficile cammino di superare la perdita di Giulia. Ora non penso più a lei, non direttamente, ma è come se si fosse reincarnata nella nuova compagna... non riesco a dare una spiegazione a questo fenomeno.Mi fa l'occhiolino, mentre allunga una borsa piena col marchio della nostra baita ad una cliente. Poi, orgogliosa, mi mostra tenendole basse le tre banconote da cinquanta. Io le sorrido, mentre lei si avvicina per baciarmi, ma a pochi centimetri si blocca.

Si fa seria, poi assume una smorfia di dolore che in un attimo diviene sorpresa amara e infine stupore e paura all'unisono. Giusto il tempo d'abbassare il viso per tossire a terra tre volte di seguito. Schizzi di sangue bagnano il pavimento di legno, poi la sua espressione implorante: ''MA PERCHÈÈÈ?!''

TOC-TOC-TOC

Apro gli occhi, col cuore che bussa deciso ai timpani, quasi a volerli sfondare.Mi tasto la fronte ghiacciata e sudata. Con la mano sinistra tocco il piccolo Matteo. Mi giro a guardarlo; dorme pacifico.

TOC-TOC-TOC

Vado verso la porta e la apro leggermente, compare l'usciere in divisa:“Per cortesia potrebbe seguirmi?”Strabuzzo gli occhi; “Problemi?”“Se poteste seguirmi...”Spalanco la porta e con un gesto della mano indico il bimbo che sta dormendo.Il ragazzo annuisce all'evidenza;“Appena si sveglia, la prego di fare le valige e passare per il conto della giornata.”Sono interdetto: “Non... non... io non capisco?”

Sospira, forse gli faccio pena;“Ci sono problemi con il suo conto.”“Il mio conto è a posto!”“Non ci risulta.” Poi si corregge; “Risulterebbe.”“Mi scusi ma... ma come fate a dirlo?”Fa spallucce:“Le vie del Signore sono infinite.”“Non so che dire... va bene, pagherò il conto in contanti poi andrò alla filiale per vedere che succede.”“Perfetto, l'aspettiamo in reception, ma faccia comunque le valige nel caso optasse per un altro albergo.”Se ne va.Chiudo, a chiave, come potesse servire.Corro al comodino, apro il cassetto ed afferro il portafogli: diciotto euro!

Mi siedo sul letto. Mi porto le mani sul viso, ancora umido del sudore ghiacciato per l'incubo di prima.

Mi avranno davvero bloccato il conto?Ma se ho parlato due gironi fa col direttore di filiale ed era tutto a posto?!E poi, come è possibile tutto questo se ho lasciato in reception solo la carta d'identità?! Come fanno?

Sconfortato, batto il pugno sul materasso: niente panico! La risolviamo!

Vado nel bagno microscopico e mi sciacquo la faccia, deciso a risolvere l'odioso inconveniente. Matteo dorme ancora, messo di fianco avvinghiato al guanciale. Lo bacio sulla fronte ed esco, determinato ad affrontare di petto la situazione. Dall'angolo in fondo al corridoio sento qualcuno parlare concitatamente, un attimo di silenzio e compare una guardia armata.Ma che è?!

Mi richiudo in camera, spaventato, poi prendo la sedia e la blocco con lo schienale sotto la maniglia.

Che vogliono fare? Picchiarci? Arrestarci?Guardo Matteo, se non fosse per lui riderei in faccia a tutti quanti! Ma se poi me lo tolgono?

TOC-TOC

“Matteo sveglia, svegliati!” gli sussurro nell'orecchio quasi in panico. Poi ricordo la finestra che dà sulla calle. Metto in tasca il portafoglio, afferro il giaccone e lo zainetto dei super eroi, apro la finestra e li lascio cadere fuori. Poi prendo il piccolo, ancora addormentato e svestito, mi appoggio sul bordo, alzo le gambe, le passo fuori, stringo forte Matteo e salto giù.

CRACK!

“Porca vacca!” e a seguire una bestemmia.Matteo si desta spaventato; “Papaaa?! Che succede?”“Dormi Matteo. Dormi! Chiudi gli occhi, è solo un brutto sogno!” gli spiego con le lacrime che mi corrono sulle guance.Afferro lo zaino, apro il giubbotto e copro il suo corpicino alla meglio. Inizio a correre più che posso, zoppicante.

***

Non so per quanto tempo siamo scappati, ricordo solo il cuore che mi pulsava forte nelle tempie quasi a farmi scoppiare la testa e un dolore lancinante al ginocchio. Sottofondo il pianto soffocato del mio ometto pienamente consapevole di non vivere un sogno ma la drammatica realtà.Poi, senza farci vedere, complice la nebbia sollevatasi col farsi sera, abbiamo infilato un portone, forse di una chiesa, poi un altro ancora e infine ci siamo ritrovati rannicchiati al caldo, dietro a un altare.

Conforto Matteo:“Tranquillo, siamo al sicuro, qui si sta bene...”“Siamo scappati papa?”“Sì amore, siamo scappati.”“E perché?”

“Perché mi sono spaventato e sono andato in panico.”“Non capisco papà.”“Ho avuto talmente paura che non sapevo più cosa fare... e forse ho fatto una cosa stupida...”“Perché?”Lo accarezzo, mentre levo il suo ricambio dallo zainetto; “Per un momento ho avuto paura di perderti.”Lo bacio sulla fronte. Gli stringo le cosce per sentire se è ghiacciato, ma lo sento caldo. Meno male, almeno questo.Dandomi le spalle, rivolto all'altare dimenticato, inizia a piangere. Mi piego sul ginocchio buono ad osservarlo; ha quell'espressione molto triste e particolare che conosco bene: mi sta per chiedere ''dov'è la mamma?!'', ma ormai è un ometto ed ha capito quanto mi possa far male.

“Papà? Dov'è il mio giubbotto?”“Tesoro, non sono riuscito a prenderlo. Ma vedrai che ne troviamo un altro.”Controllo nel giaccone se ho il telefono... niente da fare, sarebbe stato troppo bello.“Adesso che facciamo papà?”“Sst! Senti? C'è della musica... è Vivaldi.”Quasi al buio vado verso una porta. La apro lentamente. Mi appare una sala enorme ricoperta di dipinti antichi incastonati dentro cornici dorate, persino su tutto il soffitto.

Mai visto roba del genere, e poi non mi ricorda niente. Non ho la minima idea di dove ci siamo infilati.

“Papà, papà!”“Sst! Matteo?! Parla a piano, non scappo via!”“Non lasciarmi qui da solo.”Lo guardo da testa a piedi... le scarpe!“Attento che ti ghiacci i piedini!”

Lo prendo in braccio e spingiamo un'altra porta. Entriamo in una sala enorme, vuota, forse una chiesa. Da qualche parte esce della musica di Vivaldi. Non c'è luce, ma la pala dietro all'altare principale è illuminata. Lo metto a terra e controllo se siamo chiusi dentro al sicuro, tirando il portone. Bene! Un po' di fortuna.Nel frattempo Matteo si è portato sotto al grande quadro illuminato, unico punto luce dell'intera struttura.Lo raggiungo, zoppicante. Mi fermo dietro di lui, gli afferro le mani che lui si porta subito al petto.“Che bello papà... ha tantissimi colori e luce.”“Sì, è bellissimo.”

Un cavaliere col suo scudiero bianchissimo in mezzo ad altre persone, probabilmente tutti santi.“Papà... è strano, ma bello.”Mi chino verso di lui, come a dare più importanza a quello che sto per dirgli.

“Lo vedi così perché è come se il pittore avesse catturato tutti fermando il tempo.”“Anche il cavallo?”“Sì, anche quello.” Sorrido, “E guarda quanti particolari ha il cavallo, o il ponte con sopra l'angioletto cicciottello, le vesti... e tutto questo che te lo fa apparire strano ma bello.”“Come si chiama?”“Non lo so.”“Perché c'è un pianoforte sopra all'altare?”“Bella domanda. Forse non è proprio una chiesa... in verità ce ne sono due.”“Sì, ma l'altro è strano.”“Sembra strano perché è antico e viene usato per suonare la musica di Vivaldi.”Alzo l'indice in aria; “Lo senti tra i violini?”Matteo si gira attorno; “No.”“Appena possiamo te lo faccio sentire, così capisci qual è.”

Mi guardo attorno sereno, anche se dolorante al ginocchio.“Matteo! Ti va se dormiamo qui stanotte?”“Davvero papa?”Me lo chiede con entusiasmo; mi si apre il cuore. Lo abbraccio.“Beh, non qui, fa un po' freddo, però magari di là, dov'eravamo prima.”“Sì sì, va bene!”

“Però mi prometti una cosa?”Annuisce, spingendo in fuori il labbro inferiore con quell'espressione buffa che vedo fare a molti bambini.“Esco un attimo per capire dove siamo e torno subito.”“No, non voglio.”“Matteo, Matteo.” Gli afferro le braccia stringendole un pochino.“Ascolta! Non hai né maglioncino né giubbotto. Ormai è notte e ti ghiacci, e non mi va che ti prendi su qualcosa. Vuoi divertirti a Venezia, o no?”“Va bene...” risponde sconfortato. Riattraversiamo la stanza decorata ''alla veneziana'' e torniamo al nostro altare spoglio, senza quadro.Allargo il giaccone a terra sopra a un soppalco di legno e faccio stendere dentro il piccolo. Poi lo ricopro con lo stesso. Lo accarezzo sul viso:“Ora esco, prendo un po' di soldini e ti porto un bel giubbotto e capellino. Va bene?”Annuisce, senza rispondermi. Quando fa così, vuol dire che è tanto arrabbiato e non c'è storia di farlo parlare.Poi un pensiero, un dubbio, forse un timore che scaccio subito sul nascere come un cattivo presagio, ma che comunque mi fa chiedere:“Matteo, ascolta: per caso hai dei soldini?”Mi osserva, immobile.“Se volevi tenerli per una cosa importante... beh, ora lo sarebbe.”

Si allunga allo zainetto, apre la tasca sotto e tira fuori una busta da lettere sgualcita con ancora dentro il cartoncino d'auguri di compleanno scritto da Giulia.Mi pizzica il naso, mi manca il fiato. Vorrei scoppiare a piangere e abbracciarlo, ma devo essere forte e reagire; qui non si scherza, rischiamo veramente di trovarci messi male!A fianco del cartoncino ci sono dei soldi: un pezzo da dieci e due da cinque. Bene dai! Lo bacio sulla fronte: “Torno subitissimo, non muoverti!”

Trovo l'uscita per dove eravamo entrati, giro l'angolo e mi trovo in una piazza con un mercatino di Natale.Mi bastano cinque minuti per contrattare, a soli tredici euro, un giubbottino e un capello in pile, che, anche se fuori taglia si può ripiegare più volte adattandolo alla testa di un bambino... che poi tanto piccola non è.Esco fuori dal villaggio natalizio ed ecco il bancomat!Inserisco la carta... Dai! Dai! Ti prego.La sputa fuori!Non mi faccio prendere dallo sconforto, siamo sotto le feste, sarà finito il contante; non è la prima volta che mi succede.Giro attorno per la piazza. Eccone un altro!Appartiene allo stesso circuito della mia banca, magari vedo che cavolo è successo al saldo.Inserisco la tessera e attendo impaziente

tamburellando con le dita sul pannello.Compare la scritta: ''A breve sarà disponibile un'altra operazione''.Ma che cosa?!Poi: ''Inserire la tessera''.Se l'è tenuta? Se l'è tenuta?!

Sto per battere un pugno sulla tastiera, ma qualcosa mi ferma... Matteo!Torno di corsa alla chiesa, col ginocchio sempre più dolorante, fermandomi a prendere quattro fette di pizza margherita, una lattina di birra e due bottigliette d'acqua.Arrivo al portone laterale dell'enorme edificio.Accidenti!Ci sono due musicisti, con tanto di contrabbasso in custodia che discutono davanti alla mia via d'accesso segreta.Niente paura, entro direttamente dalla chiesa che ho visto aperta.Una ragazza ben vestita, sta mettendo fuori i cavalletti con i poster del concerto serale. Senza farmi vedere, arrotolo le fette di pizza e le metto in una piega fatta nel maglione, mentre lattina e bottiglie le nascondo nelle maniche del giubbottino che tengo sottobraccio.Le passo a fianco con disinvoltura... andata!Entro, preda dell'ansia; chissà come starà il mio ometto?La porta che dà alla sala decorata è aperta, metto

dentro il naso, non c'è nessuno, l'attraverso di corsa col terrore di essere ripreso.Arrivo alla nostra stanza, quasi buia, affrettandomi verso l'angolino sotto l'altare.Matteo è lì, seduto pacifico, con parte del mio giaccone tirata sopra la schiena. Fissa il vuoto; mi fa un male terribile vedere un bambino sveglio come lui in queste condizioni.Mi siedo di fianco, tenendo dritta la gamba il più possibile; fa un male insopportabile.

“Magia!”Faccio scivolare l'acqua dalle maniche del nuovo acquisto e le fette di pizza dal maglione.Matteo cede, sorridendomi.“Hai tutta la pancia unta papà!”Afferro il maglione, in effetti è intriso d'olio. Scrollo le spalle.Apro la carta cerata che doveva trattenere l'unto, e passo la fetta di Margherita a Matteo:“Occhio a non farla cadere, vuoi che te la pieghi in due?”Mi osserva, dubbioso.“Guarda!”Afferro il triangolo di pizza dal lato più corto e lo schiaccio a metà facendolo richiudere su sé stesso. Ne esce una specie di cono. Mimo di portarlo alla bocca e moderne la punta.Annuisce divertito mentre glielo passo.

Mangiamo in silenzio. Poi apro la birra.Ne bevo un sorso, mentre Matteo mastica allegro canticchiando una canzoncina.Per un attimo svanisce il dolore al ginocchio assieme a tutti i nostri problemi. Per un attimo, pensare a Giulia non mi fa male. “Matteo?”“Sì?”“Ecco, vedi, io in questo momento sto sentendo la felicità!”Mi abbraccia, accorto a non ungermi con quel che gli rimane di pizza.“Ti voglio tanto bene papà!”Annuisco, mentre chiudo gli occhi in lacrime per l'emozione del momento: da tanti anni non ero così felice!

Finita una delle migliori cene che io abbia mai fatto, ho messo il giubbotto a Matteo, con tanto di cappello, e ci siamo sdraiati abbracciati, assopendoci felici.Ogni tanto giungeva distorto qualche passaggio delle Quattro Stagioni di Vivaldi e il fragore degli applausi. Poi, ad una certa ora, un forte vociare proprio in un angolo illuminato della nostra sala, durato forse un'oretta. Infine il silenzio, rotto solo dal suono di campane lontane.

D'un tratto qualcosa mi sveglia. In preda all'agitazione scosto il bambino adagiandolo

sul giaccone. Appoggio il piede sul pavimento; mamma mia! Veramente provvidenziale il palchetto di legno che ci ha salvato dall'umido abbraccio della laguna.Cerco di alzarmi ma non riesco a muovermi. Qualcosa non va. Ho una sete terribile e tanto-tanto freddo.

Poi un dubbio atroce: mi sfilo i pantaloni fino alle caviglie. Tasto il ginocchio inorridendo all'evidenza:è gonfio come un pallone!Cristo no! Ti prego, questa no! Come facciamo?Mi risistemo i pantaloni di velluto non senza qualche difficoltà. Poi reagisco, alzandomi non so come, per trascinarmi verso l'angolo che ho visto illuminato.Mi sembra di metterci una vita ma ci arrivo e trovo subito l'interruttore.Si accende il faretto che avevo visto stanotte. Non ci credo: un tavolino con acqua, vino e dei pandori lasciati a metà.Ma certo! Ecco perché fa un bel caldino qui dentro; dev'essere una specie di camerino dei musicisti.Strappo un pezzo del dolce di Verona e lo porto alla bocca, avidamente. Poi bevo un'intera bottiglietta d'acqua frizzante. Afferro un prosecco a metà e lo bevo d'un fiato.Diminuiscono i brividi man mano che aumenta il dolore al ginocchio. Ma non ho il coraggio di guardarlo; che facciamo ora?

Apro uno dei due armadietti, magari ci trovo un antidolorifico o una crema. Frugo nel cassetto sotto e nel vano sopra senza trovare niente. Metto anche le mani in un giaccone di lana nero, che sembra più il mantello di una maschera veneziana. Nella tasca trovo qualcosa... ma che cavolo?Una bottiglia di gin. Mi sento un po' ladro, la sto per rimettere nella tasca in preda allo sconforto per non aver trovato nulla...

Andremo all'ospedale, in quel bellissimo ospedale. E poi? Matteo? Mica lo posso tenere nascosto come nei film?Se mi stanno cercando per il conto della camera e chissà per cos'altro sicuramente all'ospedale uscirà di fianco al mio nome sul monitor di qualche computer.No, l'ho promesso a Giulia: io e Matteo saremmo sempre assieme. Chiedere aiuto agli imbecilli dei suoi genitori porterebbe solo a conseguenze peggiori, prima cosa chiederebbero la patria potestà su Matteo.Cavoli! Non ho mai chiesto niente a nessuno! Guardo verso la figura di un santo che si scorge nella penombra, mormorando: “Fammi passare questo male insopportabile.”Poi appoggio il mento sul tavolo, chiudo gli occhi e mi assopisco.

DON-DON-DON

Vengo svegliato dal suono delle campane, molto vicine, visto che la stanza sembra quasi vibrare. Sicuramente la struttura dove siamo ha un poderoso campanile. Dalle finestre entrano i primi chiarori dell'alba.Anche Matteo si sveglia, spaventato più dal suono profondo in risonanza che sembra far vibrare ogni cosa. Silenzio.Matteo si guarda attorno, spaventato. Poi mi vede:“Papà!” e corre verso di me.Io non mi muovo, sono ancora intorpidito per la difficile nottata, ma sopratutto, ho una paura folle di scoprire come sta messa la mia gamba.Mi allungo verso di lui, per anticipare il suo abbraccio, in modo non mi tocchi il ginocchio, ma non sento dolore.Lo abbraccio, allungandomi sulla sedia. Mi giro per spegnere il faretto. Poi mi calo i pantaloni, con il piccolo che mi osserva incuriosito.

S'è sgonfiato!

Il colore non è buono, ma almeno non è più gonfio come prima.Tiro un sospiro di sollievo, sto per ringraziare i santi

che tappezzano le pareti, ma inavvertitamente mi cade l'occhio sulla bottiglia di gin che avevo trovato nell'armadietto: è vuota!

L'afferro, mentre scuoto la testa incredulo; non ci posso credere. Scoppio a ridere.

“Papà? Che hai?”Lo accarezzo, poi lo prendo in braccio:“Sono tanto contento che mi sta passando il male alla gamba, il ginocchio si è sgonfiato.”Matteo osserva, annuendo.“Però è nero.”“Sì, quello è il sangue che è uscito da una vena che si è rotta, invecchia e muore, ma pian piano viene cambiato...”“Come nel cartone animato, vero?”“Esatto!” gli scompiglio i capelli.“Coraggio dai, usciamo prima che ritorni qualcuno, troviamo un bar, ci sistemiamo e facciamo anche colazione.”

***

Non abbiamo molti soldi, poco più di una quindicina di euro, ma non posso negare il piacere di una colazione al caldo a un bambino che ha appena dormito sotto l'altare di una sacrestia-magazzino.

Fortuna che il bagno è funzionante e che l'acqua calda ci sia. Con della carta riesco anche a tamponare l'unto dal maglione.Cerco un po' di normalità sfogliando il giornale, mentre Matteo osserva i giochini elettronici delle slot.Niente meno che dalla prima pagina, sembra arriverà presto un'ondata di gelo su tutto il nord-est che si scontrerà con una perturbazione atlantica anch'essa fredda e umida.Un brivido mi passa la schiena.Cambio pagina passando alle ultime. Eccoli! I mercatini di Natale. Ci sono più punti di banchetti, ma a me aveva detto piazza Santo Stefano.

Perfetto:troviamo il commilitone, provo a parlarci, magari sa darmi qualche dritta su come levarmi da questa situazione.

“Matteo, metti il capellino che andiamo.”Mi avvicino al banco per pagare, una signora col troley della spesa parla del cattivo tempo in arrivo, sembra agitata e spiega che farà altri due giri al supermercato per esser sicura d'aver tutto.Ormai a due metri, entrano due carabinieri con la mitraglietta.D'istinto mi giro di scatto verso Matteo, mi inginocchio e faccio finta di sistemargli il cappellino.

Bevono un caffè, due parole e poi escono subito di pattuglia. Matteo nel frattempo non ha mai smesso d'osservarmi perplesso, ma è rimasto in silenzio.Inspiro profondamente, devo calmarmi; non possono aver mostrato una mia foto all'esercente... o no?

“Mi fa il conto per favore?”“Nove euro.”Alla faccia! Beh, se non altro abbiamo sfruttato il bagno per bene.Pago e rimango in attesa dell'euro di resto.Il barista, un ragazzotto palestrato completamente calvo, appoggia la moneta sul piattino.“Eccola!” esclama, come a farmi un regalo. Poi aggiunge, guardando fuori: “Certo che pattugliare col freddo che arriva... son bravi dai!”“Eh...” sospiro “se non ci fossero loro.”“Ma pensa che ieri ne sono scappati due da un albergo senza pagare.”Scuoto la testa contrariato mentre con la coda dell'occhio osservo Matteo, pronto a reagire a qualsiasi evenienza.“Son saltati dalla finestra, roba da ''coparse''. E se c'era il rio sotto sicuramente annegavano.”Devo dire qualcosa, si vede benissimo che noi non siamo freschi da una notte in albergo, potrebbe sospettare.

“Incredibile!”“Ah sì, un adulto con 'na creatura come la sua!”“Eh, per dire; io ieri ho sentito un mio amico che ha il banchetto a Santo Stefano... mi ha detto che anche lì bisogna tenere gli occhi aperti, gli sfilano la roba senza che se ne accorga.”Poi mi arriva una domanda che mi ghiaccia il sangue nelle vene:“Voi, dove alloggiate?”

La mia vita va da schifo, vero, ma questo non significa che sia un fessacchiotto... questo sospetta qualcosa.Gli parlo in dialetto, non veneziano, ma abbastanza vicino da fargli capire che non ci serve pernottare potendo venire tranquillamente in giornata.“Macché albergo! Semo mordi e fuggi, bassa padovana.” Sorrido; “Facciamo prima noi, che quelli dalle isole.”Annuisce; “Facile, con questo freddo cane!”“Scappiamo, saluti.” Annuisce col capo, mentre usciamo.Prendo Matteo per mano, infilo la prima calle deserta e ci allontaniamo.

Dopo venti minuti di camminata il ginocchio inizia a farsi sentire, pulsando. Ci fermiamo in un campo, una piazza, anche se non ho ben idea di quale sia.Ci sediamo sopra ad una panchina, fortunatamente di

legno. Inizia veramente a far freddo.Il sole arriva pulito, abbacinante, ma non scalda nemmeno se lo fissi con le palpebre chiuse.Rimaniamo fermi, come le iguane marine immobili sugli scogli in cerca di calore.“Papa?”“Sì Matteo.” Rispondo senza muovermi, sempre con gli occhi chiusi.“Ma stiamo scappando?”Mi giro verso di lui. Sta dondolando le gambe, con le mani sotto le cosce mentre osserva le sue nuove scarpine.“Solo momentaneamente... devo capire cosa è meglio fare per noi.”“Rimaniamo a Venezia?”“Beh, a 'sto punto sì!”“Evviva!” Matteo salta giù dalla panchina e inizia a correre attorno all'antica vera del pozzo. Io chiudo gli occhi, sposto il viso e mi posiziono perpendicolare al sole.

Lo sento correre e cantare, sembra felice, mentre io, se mi concentro solo sul viso, riesco anche a sentire il calore sulla pelle...

Giulia, non so come, né perché, ma ora, quando ti parlo, non sento più quel dolore al petto che mi blocca lo sterno privandomi del respiro. Io qui ci voglio

rimanere per sempre. Sei d'accordo?

Una fitta al ginocchio mi desta dai miei pensieri.Apro gli occhi, abbagliato abbasso lo sguardo.“Papà, papà!”Arriva Matteo, spingendo un passeggino.“Matteo! Riportalo subito dov'era!”

Mi alzo, col ginocchio dolorante.Il bimbo, con lo sguardo a terra, sconfortato, mi conduce fino all'estremità opposta del campo. “Era lì.” Indica verso un mucchio di cose vecchie e rotte. Poi aggiunge, con naturalezza;“Me lo ha detto la mamma.”Lo guardo serio; “Matteo! Ti prego, non iniziare...”Quasi piange, offeso per non essere creduto.“Ti dico che si può prendere papà! Sono tutte cose che gli altri hanno già buttato via!”Muovo due passi attorno al mucchio. In effetti, sembra tutta spazzatura. Alzo in aria il passeggino per le maniglie, sembra integro.Poi lo scuoto a terra; non cadono pezzi.“Prova a sederti Matteo.”Non se lo fa dire due volte. Si butta sopra su di un fianco, poi si gira seduto, quasi ad incastrarsi.Lo spingo per il campo. Nonostante lo sforzo, la leva sulle maniglie dà un inaspettato sollievo al mio ginocchio.

Sorrido; “Bravissimo ometto!”Si gira, goffo, e alza il bordo del cappellino scivolatogli sugli occhi:“Grazie papà. Così ora riposi la gamba.”Lo bacio sulla guancia, felice e quasi incredulo:“Ma come l'hai pensata?”“Non ti arrabbi... vero?”Scuoto il capo, serio.“Davvero papà?”“No, e come potrei.”Matteo abbassa gli occhi; “La mamma...”

Rimango serio, mentre lo fisso.Poi con un cenno del capo mi indica la parete di un palazzo che ci sta di fianco. “Ma tu, hai visto la mamma?” Gli chiedo serio, scandendo le parole.“NOO!” Urla con tutto il fiato che ha nei polmoni, scende dal passeggino, inciampa e si mette a correre verso l'altra parte della piazza.

Lo guardo, basito. Poi mi giro verso la facciata.Le finestre hanno tutte le imposte chiuse, alcune serrate con delle assi inchiodate; il palazzo sembra disabitato.L'occhio non evita di soffermarsi su uno dei tanti bassorilievi di pietra bianca murati sulle case. In questo caso, quel che rimane di una Madonna della Misericordia; una donna gigante che grazie al suo

mantello protegge tutti quelli che vi stanno sotto.

***

Abbiamo camminato per alcune ore rifocillandoci di tanto in tanto all'interno di qualche chiesa. Una in particolare era molto calda, e aveva dei bellissimi dipinti, un'altra sorpresa inaspettata, anzi, un regalo fattoci dalla città come volesse aiutarci.In un'altra stavano facendo delle prove per un concerto d'organo a quattro mani, o almeno così asserivano i volantini e le locandine appese sulle colonne. Non avevo mai sentito niente di simile.Infine, uno squisito rotolino prosciutto e funghi con acqua e vino seduti al calduccio di un piccolo bar gestito da asiatici.

“Papà. Adesso dove andiamo?”“Cerchiamo il mio amico e gli chiediamo se può aiutarci.”“C'è tanta strada ancora?”“Un pochina...”“Inizio ad avere freddo.”Guardo il cielo, ormai prossimo al tramonto. Sì, fa freddo, tanto freddo. Non mi aspettavo che una città sul mare fosse così gelida.Osservo Matteo, che da un'oretta ha smesso di sorridere, evidentemente inizia a sentirsi preoccupato. Provo sconforto, la rabbia ormai è svanita assieme a

tutti quei problemi che ora sento lontani e insignificanti. Ma dobbiamo porre rimedio a questa situazione e cercare di uscire dalla spirale che ci trascina sempre più in basso...“Papà. Le lucine!”Girato l'angolo ci troviamo proprio sotto al Ponte dell'Accademia.

Matteo fa tutti gli scalini di corsa, fermandosi sopra ad ammirare lo spettacolo del Canal Grande, mentre io procedo lento col passeggino facendo leva sulle maniglie a dar sollievo al ginocchio.

“Che bellissimo quadro papa!”“Sì, una vera bellezza. Hai ragione, sembra dipinto.”Poi si fa triste; “Manca tanto papà?”Mi guardo attorno... ora ricordo!“No! La piazza dove c'è il mio amico è proprio là dietro, finito il ponte!”

Scendiamo, lentamente.Fatto qualche metro mi blocco, incredulo.“Che hai papà?”Scuoto la testa: “Qui è dove abbiamo dormito stanotte! Cavoli! C'eravamo già ieri sera qua. Il giubbotto te l'ho preso proprio ai banchetti di Natale!”

Mi avvio veloce, dopo aver fatto salire Matteo sul passeggino. Nemmeno il tempo di arrivare a Campo

Santo Stefano, cinque minuti, ed è già addormentato. Lo bacio, coprendolo per bene col colletto e il capellino: mi dispiace per tutto questo amore, ma sento che Alvise ci potrà aiutare.

Passo le prime casette di legno che con mio stupore vedo chiuse. Poi altre aperte, forse cinque o sei in tutto.Ci sono pochissime persone, quasi tutte concentrate al chiosco del vin brulé.

Arrivo all'ultima rimasta aperta, talmente agitato e ansioso, da non essermi accorto d'aver ghiacciato le mani sull'impugnatura del passeggino.Allungo il collo e sbircio dentro, inquieto.Vedo un uomo con in braccio un bambino, seduti nell'angolo vicino ad una stufetta elettrica. Indossa una pelliccia e dei moon boot di gomma.È Alvise!

Mi levo il cappello, per farmi riconoscere. Lui esce fuori di corsa e mi abbraccia, mentre io scoppio a piangere.

***

Matteo e Anselmo giocano per terra, sopra a una grossa coperta di lana stesa sul pavimento. La casetta di legno ora è chiusa, permettendo alla

stufetta elettrica di dare il meglio.Teniamo ambedue in mano un bicchiere di vin brulé mentre ci raccontiamo le sventure degli ultimi giorni.

Alvise, con questa operazione ci ha rimesso dei soldi, così ha deciso di partire il prima possibile. Inoltre, non si aspettava tutto 'sto freddo, senza contare che ne arriverà dell'altro. La pelliccia e gli stivali da neve li aveva presi al mercatino dell'usato della vicina parrocchia.

Che fare? Vuoi l'orgoglio, vuoi la paura d'annoiare un vecchio amico passando per tragico o lamentoso, non me la sono sentita di raccontargli come stavamo vivendo noi questi giorni. Sono riuscito però a farmi prestare qualche decina di euro, con la promessa di spenderli per un pasto caldo e per prendere il primo treno per tornare a casa... ma quale casa?!

***

Spingo il passeggino tra le calli di una città deserta, mentre Matteo canticchia sempre la stessa canzoncina di Natale. Il vento è freddo e pungente, le fontanelle sono tutte gelate e persino alcuni canali iniziano a ghiacciarsi.Accelero con i brividi che mi passano la schiena; ho

un brutto, bruttissimo presentimento.La paura di incontrare Carabinieri o Polizia ormai è svanita; quello che più mi interessa adesso è di raggiungere al più presto la Stazione di Santa Lucia.Facciamo le vie principali, deserte, quelle che normalmente verso sera, anche col freddo, ribollono di turisti, luci e pacchettini colorati.Ci concediamo un'unica tappa, io per un punch caldo, al room, bevuto d'un fiato, forse più per lenire il dolore alla gamba che per scaldarmi, Matteo una merendina di quelle super energetiche.Nel piccolo bar senza tavolini, i cinque avventori stanno tutti sotto alla TV intenti a guardare una graziosa signorina, in tailleur natalizio rosso e verde, mostrare le cartina del freddo ormai arrivato.

Matteo, poi, dorme per tutto il tragitto; una fortuna.

Mi dispiace molto lasciare Venezia, ma che possiamo fare?Ci ritorneremo, ma devo trovare un aiuto economico, un avvocato, un'associazione che ci aiuti.

Arriviamo a Santa Lucia dopo un'oretta. La stazione è deserta, come fosse chiusa. Dal tabellone si evince che tutte le partenze sono state cancellate. Chiedo lumi all'unica persona presente, un porta-bagagli che mi spiega che i binari sono ghiacciati, e i convogli sono stati spenti e chiusi per

abbassare il carico sulla rete. Volendo però si può passare la notte nella sala d'attesa riscaldata, in via eccezionale accessibile per tutta la notte... E io che pensavo che le stazioni fossero sempre aperte!

Mi avvicino alle porte di vetro col passeggino; bene, ci sono dei posti liberi. La guardia seduta dietro al bancone, vedendoci, aziona l'apertura dei vetri. Guardo un attimo dentro; la Polizia sta chiedendo i documenti o forse il biglietto ai presenti.Accidenti! Non ci voleva!Sono stanco, dolorante, sfinito... non posso affrontare tutto adesso!Giro il passeggino e mi dirigo verso l'unica porta rimasta aperta come uscita.Scendiamo gli scalini, all'indietro. Un signore in divisa ci viene incontro, spiegandoci che l'ultimo vaporetto sta per partire. Poi, si vedrà.Penso che dovrò fare il biglietto sopra, e che la corsa per due mi costerà un follia. Visto la situazione in cui ci troviamo, meglio se me la risparmio.Lo ringrazio, avviandomi di buon passo per la via che mi ricondurrà all'edificio dove abbiamo dormito anche ieri.

***

“Papà, perché piangi?” mi chiede Matteo allungandosi dal passeggino.Abbasso le mani dal viso. Lo accarezzo con le nocche ghiacciate sulla guancia, che grazie a Dio sento calda.La faccia mi pizzica, ma non è solo per i freddo... c'è dell'altro. Mi alzo dai gradini spostandomi ad osservare un lampione: nevica! Nevica copiosamente, ma il vento è talmente forte che non si nota, tranne, quando i fiocchi di ghiaccio ti colpiscono la faccia.Torno verso Matteo che mi osserva curioso.“Nevica!”Matteo salta giù dal passeggino e mi abbraccia.“Nevica la Natale papa! Finalmente!”“Sì è vero. Non ci avevo pensato, era il sogno di...”“Della mamma,” aggiunge Matteo. Poi mi chiede:“È per quello che stavi piangendo?”“No Matteo. Sono solo un po' preoccupato, dove volevo farti dormire come ieri è chiuso. Devo trovare un'altra soluzione.”Come a dar valore alla mia spiegazione, do un paio di spinte al portone vicino, poi uno strattone alla maniglia.Matteo senza dire niente salta sul passeggino. Ripartiamo.Attraversata la piazza dei mercatini senza vedere anima viva sentiamo delle voci, un coro. Sì, stanno

cantando; una messa.Andiamo verso la grande chiesa gotica ed entriamo.Dentro è freddissima e silenziosa, non si vedono fedeli.Percorriamo la navata centrale, poi, da una porta laterale escono delle persone che vanno di fretta, inquiete, smaniose di andarsene.Magari nella stanza da dove sono usciti fa più caldo, potremmo infilarci dentro per passarvi la notte.Mi avvicino, ma un prete assieme a un ragazzo ci indicano con un pochino d'arroganza che tutto sta per essere chiuso ripetendo ''No visite, no visits''. Ce ne usciamo e prendiamo per San Marco, qualcosa troveremo per scaldarci un pochino.

***

Ho spinto il passeggino per calli e su e giù per ponti per quasi un'ora. Ormai per strada non si vede più nessuno. I canali stanno ghiacciando e certe calli non sono percorribili per il forte vento carico di neve ghiacciata.Sono stato uno stupido, potevo chiedere aiuto al prete dell'ultima chiesa...“Papà, papà!”Mi chino verso Matteo che inizia a essere imbiancato.“Perché non torniamo all'albergo?”Più che una domanda, sembra una supplica... ma perché no? In fondo adesso ho qualcosa da dargli, e a

noi basterebbe anche lo scantinato... vero! A Venezia non ci sono cantine...“Perché ridi papà?”“Inizio a essere un po' stanco amore. Però l'idea è buona, magari si impietosiscono oppure ci trattengono, che a 'sto punto non è la peggiore delle cose.”

Riparto, spingendo a fatica il passeggino; le ruote si sono ghiacciate.Il mio ometto se ne accorge, scende e inizia ad aiutarmi.

Non so come, ma dopo un'oretta arriviamo vicino all'albergo da dove siamo fuggiti. Ormai è tutto innevato e col passeggino non si riesce più a muoversi. Decido che è giunto il momento di abbandonarlo. Faccio scendere Matteo, lo prendo in braccio e zoppicante mi avvio verso l'albergo. Incontro due passanti, che cerco di fermare per chiedere aiuto, ma nemmeno si voltano.La porta dell'albergo è sbarrata da una saracinesca tutta imbiancata, e sul muro non si vede nemmeno dove poter suonare.Do un paio di pugni, ma non succede niente.Inizio ad aver paura. Stringo Matteo a me, per darmi forza. Poi lo guardo alzandogli il berretto da sopra gli occhi.

“Tutto a posto ometto?”“Ho paura papà!”“Di cosa, tesoro?”“Del freddo.”Appoggio a terra il bambino, meglio farlo muovere, e inizio a guardarmi attorno impaurito, ormai in preda al panico.Lo prendo per mano e andiamo dietro alla calle, se la finestra da dove siamo scappati non è chiusa da imposte, potremmo trovare il sistema di saltare dentro rompendo il vetro.No; gli scuri sono chiusi e ghiacciati... e poi dai? Ma che m'era saltato in mente?

Stanco e affranto, mi siedo sopra a uno scalino ricoperto di neve, noncurante del freddo; ho bisogno di due minuti per pensare. Abbraccio Matteo tenendolo ben stretto a me.Poi l'aria che proviene dalla profondità della calle si fa meno fredda, quasi tiepida e piacevole.Ci alziamo, speranzosi, muovendoci verso l'interno.Camminiamo per una ventina di metri, trovandoci di fronte a una specie di rinfresco sulla neve tenuto per gli ospiti di un albergo tutto illuminato da luci e insegne colorate.“La calle di Natale!”, esclama Matteo.

Una dozzina di persone bevono e mangiano pandoro, riscaldate da due funghi a gas.

Ci avviciniamo lentamente al tavolo. Una ragazza ci prepara due bicchieri di cioccolata bollente con due fette di pandoro. Mette tutto su un piccolo vassoio e ce lo porge sorridente.La guardo in volto: è Giulia!Faccio per dirle qualcosa, ma non mi escono le parole, poi vedo due uscieri avvicinarsi e inizio ad arretrare; non mi va di fare la figura dello scroccone davanti a lei. Prendo il vassoio e chino la testa ripetutamente nel ringraziarla.Usciamo dal gruppetto e scendiamo una decina di metri lungo la calle. Un angolino privo di neve sembra messo lì apposta per noi. Mi siedo sullo scalino, attento a non rovesciare il vassoio. Matteo si sistema al mio fianco, tutto contento. Divoriamo il pandoro allietati dal bel caldino che esce da una finestrella proprio dietro la nostra schiena.Il bambino prende il suo bicchiere di cioccolata, ancora calda, e mi viene in braccio. Io, d'istinto, apro il giaccone facendolo accomodare al caldo e lo ricopro. Si gira fissando verso l'alto. Poi... ride!Matteo ride, felice, da anni non lo vedevo così. Beve un sorso e si gira a guardarmi.“Ora la sento papà... la felicità.”Lo osservo, confuso ma divertito. Continua a

sorridermi con la bocca sporca di zucchero a velo e cioccolata:“La mamma ci ha dato prima da magiare e poi il caldo, per non farci soffrire.”Annuisco, pensando all'incredibile somiglianza della ragazza di prima con Giulia, la sua mente deve aver fatto un transfert, ma decido di assecondarlo e di non rovinargli la magia.Leva la manina dalla giacca e saluta, sempre verso l'alto, lo stesso punto di prima: “Ciao mamma!”Guardo anch'io. Di nuovo una scultura sulla parete, visibile a malapena per la neve e il ghiaccio ormai presenti ovunque. Maria protegge col suo mantello le due persone di sotto.Sorrido, non ci credo! Mi arrendo:“Grazie Giulia.”

Sì... stiamo messi male, non ci piove, ma ho vissuto questa nostra difficile avventura a Venezia sentendomi vivo, reale, completamente in sintonia col mondo che mi circonda, potendo finalmente vivere in prima persona il film della mia vita. Questi due giorni, nel bene e nel male, sono valsi per me più di due anni di vita.

Afferro le mani del mio tesoro e lo stringo forte.Ci assopiamo felici.

III - LA FIABA

Anselmo chiude l'ultima basculante del chiosco di prodotti veneti. Le luci del villaggio di Natale sono state spente, ma solo per metà. Quelle sulle palme continuano a lampeggiare festanti. Ha così deciso di rimanere, pensando che dopo cena, forse, toneranno altre persone in cerca del regalo dell'ultimo momento. Neve e ghiaccio su tutto il nord; chissà come se la staranno passando i parenti andati lassù, in Veneto?

Si siede a terra, sul parquet quasi caldo, fuori ci sono dodici gradi; il mite inverno siciliano.Incrocia le gambe di fronte ai cinque bambini dai tre a cinque anni che lo osservano in religioso silenzio.Il più piccolo gli allunga un libro di fiabe, ormai consunto e sgualcito.Le pagine sono poche, nemmeno una decina, ma molto spesse, di cartoncino.

“Pronti per la fiaba del mantello di neve?”“Sìì...” tutti in coro.

Anselmo tira su il colletto e indossa una sciarpa che allunga fin sopra il naso, poi, teatralmente, simula i brividi per il freddo, calandosi così nella storia.

“Su al nord, faceva tanto-tanto freddo. Il piccolo

Matteo e suo papà vivevano dentro a un negozio che non potevano riscaldare perché nessuno comperava più le loro cose.”

Anselmo mostra la pagina:“Oh...” tutti in coro.

“Poi una telefonata. Un am-”

“Vero... vero papà che è stato il nonno a chiamare? Vero che era il nonno?” Chiede con orgoglio Alvise, uno dei piccoli.

I cinque pendono tutti dalle sue labbra:“Sì, era tuo nonno Alvise... raccontano.”

Anselmo gira la pagina.“Li invitò a Venezia... Arrivati furono incantati dalla sua bellezza e decisero di rimanerci.”

Mostra a loro i disegni da cui spicca la cupola verde di San Simeon Piccolo che sembra appena uscita fuori dall'acqua.“Che bella! Uau, che strana città...”

Ma di nuovo il figlio: “Papà, papà... vero che tu hai giocato con Matteo della fiaba?”

Anselmo abbassa la sciarpa e sorride mentre appoggia

a terra il libro.

“Ve la racconto a memoria, che facciamo prima...

Giunti a Venezia, però, non trovarono più i loro soldi, così furono costretti a vivere come i barboni, i senzatetto, per giorni.Erano stanchi e sporchini, ma erano tanto felici.Il papà aveva dei guai con la legge da risolvere, così non poteva nemmeno chiedere aiuto in giro, non si fidava.Dormirono nelle chiese finché una sera trovarono una calle, una via lunga e strettissima tra le case, dove poterono accovacciarsi, visto che lì, magicamente, faceva sempre caldo.Poi venne la bufera ghiacciata, il Mostro Blizzard che li sorprese a tradimento mentre dormivano.

La città si risvegliò coperta di neve e ghiaccio.Preoccupati, in molti andarono in cerca dei due, anche il nonno Alvise corse a cercarli, ma non li trovarono.Quando giunsero nella via dove si rifugiavano, videro un buco tra il ghiaccio con l'impronta dei loro corpi; se n'erano andati! Il Mostro Blizzard non era riuscito a prenderli. Sopra alla nicchia dove stavano, sporgeva una lama di ghiaccio e neve dalla forma di mantello, forse a proteggerli.

Le ricerche non portarono a nessun risultato, ma in quei giorni freddissimi, dei fatti strani accaddero in città: qualcuno affermò con sicurezza di aver visto i loro volti tra le sculture della Madonna che sono sparse sui muri di tutta Venezia, sì, proprio sotto al suo mantello, protetti e sicuri, finalmente riparati al caldo da qualcuno che li amava.”

“Che fiaba bellissima papà!” esclama il più piccolino.

Anselmo, tornando con la memoria ai racconti del padre Alvise, forse un po' tristi per il rimorso, aggiunge commosso:

“Ed ancora oggi, a Venezia, nelle fredde notti di Natale, se per caso nevica, chi cammina tra le calli deve prestare attenzione alle sculture sui muri; potrebbe imbattersi nei due, bisognosi di calore e affetto.”

*****24 dicembre 2017

Grazie del tempo che hai dedicato per leggere questo racconto; spero ti sia piaciuto.

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