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LA VITA IN OGNI RESPIRO

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BLanCa BUsQUets

La vita in ogni respiro

Traduzione diGiuseppe Tavani

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titolo originale dell’opera: La casa del silenci Copyright © 2013 by Blanca Busquets in accordo con pontas Literary & Film agency

La traduzione di quest’opera è stata sostenuta da un contributo dell’institut ramon Llull.

Quest’opera è stata tradotta dal catalano da giuseppe tavani

Questo romanzo è un’opera di fantasia. personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi ana-logia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

isBn 978-88-566-3144-9

i edizione 2014

© 2014 - eDiZioni pieMMe spa, Milano www.edizpiemme.it

anno 2014-2015-2016 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

stampato presso eLCograF s.p.a. - stabilimento di Cles (tn)

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teresa

Ho trovato il mio primo violino in una discarica dei ri-fiuti. ed era un violino ottimo, anche se io, evidente-mente, ancora non lo sapevo. Quel che invece sapevo è che si trattava di un violino magico. Me ne resi conto subito, al solo guardarlo, perché, pur essendo un po’ annerito, brillava, e quel che brilla normalmente è ma-gico. non me lo sto inventando, no. Mia madre e io an-davamo spesso a frugare nella discarica per vedere se ci trovavamo qualche cosa da vendere. se adesso lo rac-contassi a qualcuno di quelli che sono qui con me, ne rimarrebbe sbalordito.

a dire la verità, finora non c’era nessuno qui con me, voglio dire a teatro. e d’improvviso si sono sentiti dei passi leggeri che si avvicinavano al boccascena. adesso fa capolino il primo musicista, un trombettista mal-messo, con la faccia di uno che non ha al mondo nes-suna cosa di valore se non la sua tromba. Mi saluta con un gesto della mano e dice qualcosa che non capisco. Credo che sia rumeno, mi pare che qualcuno me lo ab-bia detto.

già da un po’ contemplavo la platea vuota. seduta su una sedia, con il violino in mano perché mi ero stan-cata di muovere le dita e perché avevo voglia di si-

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lenzio. il silenzio della platea e quello che c’è fuori in questa città, nelle piazze, nelle strade. Un silenzio di fo-glie morte. Dalla finestra dell’albergo, prima di venire qui, ho visto foglie che cadevano, foglie che tappezza-vano ancora di più questa terra colorata che l’autunno rende così affascinante. a casa, in Catalogna, per ve-dere questi colori bisogna andare in montagna. su quella montagna che non ho conosciuto se non quando ero una adolescente, perché da piccola non avevo mai potuto allontanarmi da Barcellona.

Quando ho trovato il violino, è cambiato tutto. Dissi, guarda che ho trovato, alzando con una mano lo stru-mento e con l’altra l’archetto, con aria trionfante. e nell’alzarlo, senza volere con la mano sfiorai le corde che mandarono un suono lacerante e acuto, che, ricordo, mi straziò l’anima. non sapevo se mi piaceva o no, era un suono strano. poi me lo guardai ben bene e incollai l’oc-chio a una effe, che allora non sapevo che si chiamasse così, perché non ci vedevo altro che un buco allungato, ma sul fondo c’erano delle lettere scritte a mano e vo-levo leggerle. e le lessi ma non le capii. C’era una data, questa sì che sapevo leggerla, 1672. Che guardi, si la-gnò mia madre, prendilo, ce lo compreranno. Mia ma-dre non badava alla forma di quello che tiravamo fuori dalla discarica, guardava solo di che cosa era fatto per capire se era vendibile. non che vivessimo per strada né in assoluta miseria, o magari sì, a seconda di come la guardi. sì, decisamente, se si guarda con occhi di oggi, perché oggi è mal visto chi smette una dieta equilibrata che comprenda frutta, verdura, carboidrati e non so cos’altro. allora, la nostra dieta consisteva in quel che avevamo, e un giorno poteva essere solo pane e un pez-zetto di formaggio o un po’ di ceci o di lenticchie. Mio padre, io non l’avevo conosciuto, ma da quanto mi disse

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più tardi mia madre, era uno straniero che era arrivato, aveva fatto l’amore per un po’ di notti ed era ripartito. e mia madre, che più o meno se l’era sempre cavata da sola, si era ritrovata con una creatura da nutrire, e dun-que non poteva più farcela.

per questo sei bionda e hai gli occhi azzurri. Come lui, mi diceva, accarezzandomi dolcemente la guan-cia con il rovescio delle dita. Me lo diceva da quando ero piccola e vedevo che, a volte, mi guardava e pian-geva, forse perché si sentiva ancora legata a quell’uomo che era venuto con la tramontana ed era andato via con il vento del sud dopo aver deposto un seme magico che sarebbe cresciuto e avrebbe finito con l’essere me. e quando mia madre mi diceva che ero come lui, che avevo gli occhi e i capelli come lui, non sapevo se vo-lergli bene e averne nostalgia o odiarlo per quello che le aveva fatto. era una sensazione di incertezza, di non vederci chiaro, di non sapere dov’era la verità e dove la menzogna. La stessa che provai quando incontrai Karl molti anni dopo.

ricordo che il giorno della discarica, quel giorno che ci eravamo andate più tardi del solito perché ricordo che ci si fece buio, pensai, e questo che roba è, sem-bra una scatola di legno. era nascosto in mezzo all’im-mondizia e non si distingueva bene. allora lo tirai fuori da lì sotto, e quando mi resi conto che era un violino, istintivamente mi misi a cercare con impegno l’archetto lì intorno. non che avessi visto molti violini nella mia vita, ma almeno uno sì, perché a scuola la maestra ci fa-ceva leggere un libro dove erano raffigurati un violino e una bambina che lo suonava chiudendo gli occhi, e io, senza sentirne il suono, riuscivo a immaginarmelo, mi suonava dentro la testa, e la cosa più strana era che suonava proprio come un violino, cioè, quando ne

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sentii davvero uno per la prima volta, notai che era lo stesso suono che avevo immaginato. e la prima volta che lo suonai, chiusi gli occhi, come la bambina del li-bro. Dopo no, dopo li spalancavo come una babbea per tentare di seguire l’intrico di quegli autori barocchi che mettevano a dura prova anche un grande virtuoso, per tentare di disegnare quelle melodie tanto vertiginose da sembrare delle montagne russe.

Ma tutto questo sarebbe venuto molto più tardi. Quel giorno dei miei sette anni, avere un violino tutto e solo per me mi cambiò la vita. porta qui quella roba, muoviti, che è molto tardi, mi aveva sollecitato mia ma-dre, e io avevo dovuto posare il violino nel carretto che usavamo per la nostra raccolta serale. Lei smetteva di cucire, veniva a prendermi a scuola e allora facevamo un giro fino alla discarica. poi portavamo quello che avevamo trovato al rigattiere, e lui si prendeva quel che gli sembrava di poter rivendere. a noi dava qual-che centesimo, e questi centesimi servivano ad assicu-rarci che l’indomani avremmo mangiato, perché quel che mia madre cuciva qualche volta glielo pagavano su-bito, qualche volta bisognava insistere. io non ho mai patito la fame, e non so come ce la facesse a darmi sem-pre qualche cosa da mangiare. Lei invece sì che la pa-tiva, la fame, prima che le venisse in mente di portare quella roba ai rigattieri.

La Barcellona di allora era il rovescio della Berlino di oggi con le foglie che cadono. Barcellona era una città cupa, ancora troppo vicina a una guerra che aveva la-sciato i suoi abitanti senza voglia di vivere. erano an-cora lontane le dimostrazioni degli studenti che avreb-bero cambiato le condizioni ambientali, ancora non c’era nemmeno la televisione.

Ma io avevo un violino magico. arrivammo dal ri-

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gattiere e mi piantai davanti al carretto prima di en-trare. per favore, per favore, non vendere il violino, dissi giungendo le mani in tono supplichevole. Mia ma-dre mi guardò sorpresa, ma teresa, se lo vendiamo pos-siamo cavarne un bel po’ di soldi. sì, ma da sempre de-sidero diventare una violinista, inventai lì per lì. Mia madre raddolcì lo sguardo, ah, sì, non lo sapevo, non me l’avevi mai detto. per favore, insistetti.

portammo il violino a casa. non avevo mai pensato di fare la violinista, evidentemente, ma a scuola c’era il libro con la bambina che suonava il violino a occhi chiusi, e io avevo appena trovato quello strumento che pareva magico. sentii che dentro di me nasceva la mu-sica, quella che ha sempre fatto parte di me. Mi salì su come un fiotto di melodie, e allora pensai che sì, che dovevo diventare violinista.

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Maria

«Maria, non ci si addormenti!»«no, non mi sto addormentando, vengo subito...»ora vogliono che corra perché vanno di fretta a

causa della prova, e io dietro. Ho mal di stomaco, me lo sto trascinando da giorni e poi non ho più l’età per cor-rere. sono diventata vecchia, signor Karl, sono diven-tata vecchia.

ora mi tocca sentire di nuovo quella musica che co-nosco a memoria, tante le volte che l’ho sentita, quella musica che mi scombussola dentro, che mi fa venire vo-glia di piangere, proprio a me che non piangevo più da tanto tempo. Ma mi hanno promesso che la sentirò da una poltrona rossa, come se fossi una vera signora, e a me che non voglio essere una signora adesso tocca es-serlo per forza. Questo è quanto mi ha promesso il si-gnor Mark, naturalmente, perché la signora anna nean-che mi guarda in faccia, né vuole saperne niente di me.

ieri ho preso un aereo. non l’avevo mai fatto ed è stato terribile. non stare con i piedi per terra proprio non mi piace, non sai dove ti trovi, non sai che sta suc-cedendo. e debbo ancora prenderne un altro per tor-nare a casa, vergine santa.

non conosco questa città e la trovo strana, ma d’al-

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tra parte mi sembra che emani tutta l’odore del signor Karl, un odore che mi mette in allerta qualsiasi cosa mi succeda intorno, un odore che mi sconvolge. non mi va di uscire dall’albergo da sola perché sono sicura di perdermi, ho detto al signor Mark. allora restatene chiusa qui dentro, Maria, mi ha risposto lui, o vieni con tua sorella, non sei stata con lei, ieri? oh, sì, ma lei ha da lavorare, ho detto fingendo di non capire, me ne re-sto qui, resto qui fino all’ora della prova. ed è proprio quello che ho fatto. Ma domani dovrò uscire di nuovo e dovrò vestirmi elegante per andare al concerto, come se fossi una cantante d’opera, come quella che veniva a cantare a casa. e domani dovrò fare quello che mi sono proposta di fare.

il signor Karl mi aveva chiesto se volevo imparare a suonare il violino o il piano. Ma signore, che dice, avevo risposto io spaventatissima. e mi tornò in mente il prete del mio paese, giù in andalusia, che quando facevi la prima comunione ti faceva cantare, lo volessi o no. se no, non te la faceva fare. Un pochino, solo un pochino, ti diceva. e allora tu cantavi, era «Che gioia quando mi è stato detto: andiamo nella casa del signore...». Be’, adesso che non mi sente nessuno, dirò che in verità me la cavavo abbastanza bene. e poi avevo via via preso co-raggio e mi mettevo a cantare sotto la doccia, e poi per la strada, e poi, quando arrivai a Barcellona, cantavo ormai anche mentre facevo le pulizie nelle due case di quelle signore così ben vestite dove avevo lavorato prima di venire dal signor Karl. Quando andai a finire a casa sua e capii che poteva pagarmi bene e che era una buona casa, anche qui presi a cantare. e lui, all’al-tro capo della casa, suonava il piano e non smetteva. e io cantavo più forte, ogni volta di più, perché se no non sentivo quelle canzoni d’amore che mi arrivavano

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all’anima e mi facevano sentire così bene. Ce n’era una che diceva: «Linda paloma míiia, ven hacia miii...». era quella che mi piaceva di più e che cantavo di più, e arri-vavo a piangere dalla commozione, quando lo facevo. e la cantavo ogni volta più forte e alla fine non sentivo più il piano, ero riuscita ad astrarmene. oh Dio, lo credevo io, perché la realtà era che il signor Karl aveva smesso di suonare e già il primo giorno si era affacciato alla porta e si era messo un dito davanti alle labbra mentre faceva ssst. e io, che credevo che venisse a farmi i com-plimenti, restai di sasso. Chiusi subito la bocca e non la riaprii mai quando il signor Karl girava per casa, perché non volevo restare senza lavoro ma anche perché mi aveva offeso. e il signore si metteva sempre a suonare il violino o il piano, sempre l’uno o l’altro, e io conti-nuavo a cantare quando lui non c’era, finché un giorno mi colse in flagrante e mi disse che se volevo imparare a suonare il piano o il violino, potevo scegliere. e io mi sentii le guance tanto rosse e così calde che di più non potevano. Quando gli dissi, molto tesa, di no, no grazie, mi sembrò parecchio deluso.

il signor Karl era di quelli che si fanno guardare. Lo trovai subito attraente appena lo vidi, quando vennero a dirmi che aveva deciso di vivere a Barcellona e che aveva bisogno di una domestica, e che se cercavo la-voro, andassi da lui. Ci andai, e aprì la porta e mi disse salve e nient’altro, perché non sapeva dire altro in una lingua che io capissi. Ma io sono sempre stata molto sveglia e capii immediatamente quando, a gesti, mi disse quel che voleva. poi mi mostrò una stanza con un letto e un lavabo, accanto alla cucina. oh, santa ver-gine, non avevo mai servito in una casa come quella, e tanto meno ci ero rimasta a dormire. Quell’uomo vo-leva che io vivessi lì. Dapprima esitai, ma l’esitazione

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durò pochi minuti, solo fino a quando lui mi mise sotto il naso un foglio di carta con dei numeri, numeri anche quelli che non avevo mai visto, e che mi sembravano astronomici, e inoltre un giorno libero la settimana. era più di quello che avrei mai potuto avere in qualsiasi al-tro posto. D’accordo, dissi senza discutere. il fatto è che, nella mia testa, già facevo i conti di quello che po-tevo comprarmi con tutti quei soldi, potevo comprarmi quanta cioccolata volevo, e vestiti e gioielli, perché po-tevo davvero comprarmi anche qualche gioiello, un bell’anello e perfino degli orecchini, e per di più non dovevo spendere niente perché sarei vissuta in una casa che non era mia. il signor Karl mi tese la mano e io, sor-presa, gli porsi la mia. anche questo non mi era mai successo. Che forza aveva il signore. per poco non mi misi a gridare dal male che mi fece. Ma non gridai, no. Mi dominai e restai.

Quella era la casa del silenzio. Certo c’era la musica che risuonava, ma risuonava lontano, il signore si chiudeva in una sala e lì faceva le sue cose, voglio dire che suonava il violino e il piano, o tutti e due, o tutti e due e in più can-tava, e cantava molto forte e un giorno vidi che dopo scri-veva delle annotazioni su un foglio di carta, e io non ca-pivo di che si trattava ma non mi azzardavo a chiederlo, e lui mi guardò negli occhi e mi disse, compongo, Ma-ria. Ma questo succedeva quando già ci parlavamo. per-ché all’inizio non ci parlavamo, no. all’inizio sembrava che il signore non volesse dire niente di quel che dovevo fare o di quel che non dovevo fare. io gli chiedevo, si-gnore, che cosa le serve, e lui non sentiva o faceva finta di non sentire, e alla fine mi disse, l’ho assunta perché faccia quel che le sembra di dover fare, io non ho tempo di pensarci. D’accordo, signore, dissi, e mi ritirai e pen-sai, Maria, puoi farti ormai un elenco di quel che c’è da

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fare in questa casa, perché da questo momento in poi è come se fosse casa tua. La stessa cosa successe al mo-mento di riscuotere il primo salario. io vedevo passare i giorni e il signore non mi pagava, e quando erano or-mai due mesi che lavoravo lì e non avevo ancora visto un centesimo, mi azzardai a dirglielo. Mi fece andare con lui fino a una scrivania e da un vaso tirò fuori una chiavetta che apriva un cassetto. e vidi che lì dentro c’erano soldi, molti soldi. non dissi nulla ma gli occhi mi diventarono come due arance. tenga, disse lui, da qui se li prenda ogni mese, perché di queste cose io non me ne ricordo. D’accordo, signore, dissi di nuovo. Lui allora se ne andò via e io restai sola a prendermi da me la mia mesata, pen-sando adesso potrei portarmi via tutto e non tornare. Ma dopo che la tentazione mi ebbe ronzato un po’ intorno, decisi che non ero nata per fare la ladra, e lasciai perdere. Chiusi il cassetto con la chiave, la rimisi nel vaso, guar-dai i miei soldi e mi dissi che ancora non arrivavo a com-prarmi un gioiello, ma che potevo comprarmi un po’ di cioccolata tutta per me.

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teresa

Dopo il trombettista hanno cominciato ad arrivare tutti. tutti meno loro, anna e Mark. sono in ritardo. Mac-chinalmente, faccio come i violinisti dell’orchestra e mi metto il violino sulla spalla per cominciare ad accor-darlo. adesso non c’è più silenzio. Dopo, se ho tempo, ripasserò di nuovo i passaggi difficili della mia parte, con il violino che avvia questo gioco geniale di suonare e tacere con note inventate da Bach. so già che, quando entrerò in gioco, il concerto mi farà versare lacrime, mi inonderà il cuore di tristezza, mi ricorderà l’ultima volta che lo interpretammo, qui, e anche il giorno in cui Karl mi chiamò a suonare per la prima volta con lui. Mi disse, l’ho sentita e ho visto che lei interpreta Bach come io credo che debba essere interpretato.

sono dieci anni che è morto, ma certe volte mi sem-bra che non sia così, mi sembra che oggi stesso mi dirà di nuovo di non metterci tanta anima. Ma allora, se non vuoi che ci metta tanta anima, perché mi hai chiamato a suonare, gli dissi una volta, esasperata. Lui mi guardò negli occhi e mi rispose, perché è più facile togliere un po’ d’anima che mettercene. e c’è poca gente che mette l’anima nella musica.

io, se c’era qualche cosa che ci mettevo da sempre,

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era l’anima. La musica mi faceva piangere. se adesso mi è difficile mantenermi serena, per molti anni co-minciare a suonare e dovermi asciugare le lacrime era tutt’uno. anche il giorno dei miei sette anni, quando mi portai il violino a casa con il permesso di mia ma-dre, piansi anche se non sapevo ancora esattamente come tenere lo strumento, né come suonarlo. guardai di nuovo le lettere scritte dentro e di nuovo non le ca-pii, capivo solo il 1672, e cercai di ricordarmi il disegno della bambina che suonava il violino. Cercai di ricor-darmi come lo teneva, e feci così anch’io, prima di pas-sare quell’archetto sulle corde. il risultato fu un suono elettrizzante, stonato ma profondo, un suono che mi emozionò e mi lasciò senza fiato. non ho mai capito chi, in un periodo di privazioni, abbia potuto gettare nella spazzatura un violino di tanto valore, che, inol-tre, era ancora abbastanza intonato e con i crini dell’ar-chetto ben tesi quando l’ho trovato.

Mia madre e io vivevamo in un bilocale composto da un gabinetto, una cucina e una stanza. tutti i nostri averi erano lì, ammucchiati in un angolo perché non avevamo un armadio. Ma tutti i nostri averi messi in-sieme non valevano quanto la macchina da cucire, il nostro mezzo di sussistenza, il solo che mia madre non aveva venduto quando avevamo dovuto lasciare la casa in cui era vissuta con i miei nonni fino al momento in cui, qualche anno prima che nascessi, era rimasta sola, proprio sola. e con i soldi che guadagnava cucendo aveva potuto prendere in affitto quello straccio di casa dove ero nata e cresciuta, e dove la mattina avevo sem-pre un pezzo di pane, a mezzogiorno e la sera un piatto in tavola, scarso sì, ma dove ancora, di tanto in tanto, mi toccava un po’ di surrogato di cioccolata che ci re-galavano i vicini, che a me sembrava delizioso ma che,

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se lo mangiassi adesso, credo che mi farebbe vomitare. a volte mia madre era troppo occupata per mangiare e cuciva e cuciva mentre io pranzavo o cenavo, e se non c’era niente da cucire, faceva le pulizie. io la guardavo mentre lavorava, lei nervosa e io con la bocca piena, an-che se finivo subito quel piatto che, poi, era ben poca roba. Me ne stavo lì a contemplarla, finché un giorno, davanti a me, cadde a terra. Lanciai un grido, avrò avuto cinque anni e mia madre era tutto per me. andai a scuoterla un po’, mamma, mamma, e lei non reagiva, l’avevo sentita battere la testa mentre cadeva e mi spa-ventai tanto che corsi a chiamare i vicini, quelli del sur-rogato di cioccolata. Bussai freneticamente alla porta, e scoppiai a piangere e quando mi aprirono non riuscii a dire altro che mia madre è caduta a terra, non so che le è preso, parlavo a scatti, singhiozzavo atterrita, mamma per terra e con gli occhi chiusi, non sapevo che fare, le madri di bambini e di bambine non cadono mai a terra, ed entrarono tutti e due, il signore e la signora, e lui era corso a chiamare un medico mentre lei cercava di farla rinvenire, ed era venuto un medico quando già mia ma-dre chiedeva sussurrando che cosa le era successo. al-lora mi avevano mandato via, ma mentre la signora e uno dei bambini con il quale a volte giocavo mi spin-gevano nella casa accanto, con un orecchio sentii che il medico diceva, questo, signora, ha un nome solo, fame.

i vicini ci nutrirono per qualche giorno, non avevano molti soldi ma quel signore lavorava e, se non altro, po-tevano mangiare. Mia madre era così debole che non riusciva neppure a cucire mentre si rimetteva. e adesso che farà, le chiese la vicina sottovoce quando credeva che non la sentissi. Mia madre dapprima si mise a pian-gere, ma poi disse, appena mi sono rimessa troverò qualche cosa, la bambina ha bisogno che io mi faccia

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forza. e fu così che mia madre si inventò il lavoro della discarica.

Bach mi assorbe. il signor Mark mi guarda sempre negli occhi prima di attaccare la prima nota, che mi appartiene, la prima nota è sempre stata mia dopo la morte di mia madre. non fu allora che morì, ancora non poteva permetterselo, doveva farmi ancora cre-scere, morì dopo qualche anno, quando ero già profes-soressa al conservatorio e avevo smesso di fare pulizie in case altrui, perché per qualche tempo le avevo fatte anch’io, il tempo della discarica era finito, c’erano si-gnore che cercavano donne per le pulizie di case che si trovavano dall’altra parte della città e che ti volevano a ore, ogni giorno un po’, e ci andavi e facevi di tutto, sti-rare, lavare piatti, pulire i bagni e anche andare a pren-dere i bambini a scuola e portarli a giocare al parco.

io facevo le pulizie e suonavo il violino.

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