Buongiorno Capra! -...
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Buongiorno Capra!
- memorie di una vita improbabile -
La gente da queste parti mi chiama Mamma Abigail.
Ho 106 anni e continuo a fare il pane
con le mie mani
Mamma Abigail, ne L’Ombra dello Scorpione
1 Due anni di terrore
A 10-11 anni avevo vissuto un paio di episodi, ciascuno più corto
di un minuto, entrambi rimossi in fretta e poi tornati solo anni
più tardi. Una volta mi sono alzato dalla sedia, ho preso il
telecomando della TV che stava sopra la credenza e l’ho spostato
sul tavolo. Un’altra volta mi sono alzato dalla stessa sedia, ho
tolto dalla bocca l’apparecchio odontoiatrico e l’ho messo davanti
alla faccia di mio padre che dormiva sul divano, come se volessi
mostrarglielo. Non ero io a muovermi. Il mio corpo aveva fatto
tutto da solo; io guardavo dall’interno e lasciavo che accadesse.
Poi d’un tratto, tornato sulla sedia, tornavo in me e mi domandavo
cosa fosse davvero successo. Mi impaurivo e poi dimenticavo.
Qualcos’altro era scattato nel periodo di Leopardi, non il primo
’800, ma il mio’ periodo di Leopardi, quando la prof di italiano
ci iniettava a forza le sue ansie nelle vene. La concezione del
mondo secondo il poeta di Recanati era andata peggiorando negli
anni. Prima aveva concepito il Pessimismo Individuale (sei triste
perché sei sfigato, ma gli altri stanno meglio), poi il Pessimismo
Storico (se ragioni non puoi essere felice, quindi spaccati di LSD
e spera di bruciarti anche l’ultimo neurone), e infine il
Pessimismo Cosmico (anche se perdi il cervello avrai comunque fame
e sete e soffrirai per nutrirti. Quindi muori senza tante storie).
Peccato che l’unico a non morire fosse proprio il Leopardi, con la
sue poesie da tre facciate l’una che dovevamo imparare a memoria.
Per carità, la mia memoria migliorò di netto con questo esercizio,
ma l’avrebbe fatto anche memorizzando I Corti di Aldo, Giovanni e
Giacomo... In più mi sarei risparmiato mesi di paranoie.
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. É il titolo di
una sua poesia, e l’ultimo pensiero che precedette quell’istante.
Ero seduto al solito banco, un lunedì di terza media. D’un tratto
ebbi l’impressione di essere chiuso in una cella stretta e buia,
con un piccolo spiraglio da cui osservavo il mondo. Era come se
guardassi dalla visiera di un casco o dalla buca delle lettere.
Muovevo braccia e gambe come avevo sempre fatto, le controllavo ma
non erano "me". Erano qualcosa che muovevo a distanza e che
guardavo da un monitor chiamato cervello, attraverso le riprese di
una telecamera chiamata occhio. Io ero altrove, e proprio allora
realizzai che il mondo non esisteva, non più di quanto esistesse
un universo virtuale all’interno di un computer. Credo che i
fratelli Wachowski abbiano sfiorato la verità con l’idea di
MatriX, sebbene il computer in questione non sia fatto di silicio
e non funzioni ad impulsi elettrici. Oltre a questo mi ero reso
conto di essere solo, in senso assoluto, perché nessuno avrebbe
mai potuto raggiungermi realmente, provare le mie sensazioni ed
emozioni, o capire i miei pensieri. La consapevolezza di
quell’istante non può essere spiegata in toto. Con essa compresi
il dubbio dei filosofi idealisti, cioè che neppure l’esistenza
dell’ "altro" è dimostrabile a priori, in quanto anch’egli è parte
integrante del mondo percepito. I protagonisti di MatriX non sanno
distinguere un vero uomo da un "agente", che è un programma, e
quindi in senso stretto non esiste. Ma non è tutto qui, il mio fu
davvero un senso di incolmabile separazione. Ciò che importa è che
provai un terrore indicibile e senza precedenti.
Poi il panico cessò e tornai normale per qualche tempo, finché
non mi ammalai di Rosolia. Non dovendomi svegliare la mattina
dopo, stetti alzato a guardare un film di Mick Garris, L’Ombra
dello Scorpione, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King. Fu la
sera della caduta, la sera della violenza, la sera della mia
pazzia.
Mamma Abigail era seduta sulla sedia a dondolo sul terrazzo
dietro la casa. Era una vecchia casa di campagna in assi di legno,
con un piccolo viale sterrato che scendeva sulla strada. Nell’ora
del tramonto era popolato da gatti randagi che venivano in cerca
di cibo fin sotto la sua gonna, implorando in coro un boccone di
carne grassa. Erano ormai gli unici amici che poteva permettersi
alla sua veneranda età; mentre i figli erano già in paradiso da un
pezzo, dall’alto dei suoi cent’anni Abigail riusciva ancora a
pulire la casa e a cucinare il pollame che lei stessa aveva
allevato. La schiena non le dava pace per tutta la giornata, ma la
notte dormiva ancora come un ghiro e ogni mattina era pronta a
ricominciare.
I suoi occhi infossati, nascosti in un mare di rughe, quella
sera fissavano il profondo del granturco, in mezzo alle spighe
verdi che nei giochi d’infanzia disegnavano un aspro labirinto.
Molte volte aveva corso alla cieca tra un filare e l’altro nel
vano tentativo di perdersi, ritraendosi in un mondo di luci e
ombre dove il sole giocava a nascondino tra pannocchie e foglie
urticanti.
Sapeva di non essere sola; era spaventata ma rincuorata dalla
fede in dio. Dio le aveva parlato attraverso i sogni e le aveva
mostrato quell’uomo dalla pelle scura quanto la sua. Tra non molto
sarebbero venuti da lei tutti gli altri, quelli che l’uomo nero
non avrebbe potuto radunare. Li avrebbe accolti come si fa in
famiglia e insieme avrebbero affrontato il male che si incarnava
in quella creatura. La razza umana stava morendo, sterminata dal
virus azzurro, e le lucciole smarrite si sarebbero radunate a
giorni attorno alla luce di una grande fiaccola, lei o l’uomo
nero.
Fu un fulmine a mostrarne la sagoma, netta nei contorni ma vaga
nelle linee del volto. Una macchia scura, nera, nel mezzo di un
campo di grano. É quanto avrei ricordato senza sosta nei due anni
a venire, appesa come un poster nella testa che ruba spazio ad
altri pensieri ed impaccia la ragione.
Ricordo con vividi dettagli le sere prima di addormentarmi,
quando avrei voluto da mio padre le stesse coccole che ricevevo da
bambino. Ero una volpe impaurita, tremante nella tana delle
proprie coperte, e non potevo chiedere aiuto senza svelare il mio
terribile segreto. Per due lunghi anni l’uomo nero stazionò nella
mia mente. Quando poi se ne andò, senza preavviso, lasciò un solco
tanto profondo che la pazzia del mondo intero ci scivolò
attraverso.
2 Storie di casa mia
La famiglia Nautonier discende da un nobile cavaliere genovese di
nome Bortolamio, che nel 1227 si era trasferito a Venezia per fare
affari. I suoi figli e i suoi nipoti sarebbero nati e cresciuti
nel futuro Quartiere Nautonier della grande Repubblica marinara.
Talvolta ho il sospetto che Bortolamio avesse aderito alle idee
malsane che sarebbero state poi di Isaac Luria (1534-72), Sabbatai
Zevi (1626-76) e Jacob Frank (1726-91), patriarchi più o meno
volontari di una setta sanguinaria. Per lo più gli aderenti erano
banchieri, e molti di essi avevano cambiato il proprio cognome in
riferimento al mare, in omaggio agli déi anfibi dell’antica
Mesopotamia che erano emersi dal Golfo Persico per offrire
all’uomo cultura e gloria.
Da funzionari imperiali, cancellieri e senatori ducali, molti
dei miei antenati erano infine caduti in disgrazia, e ai primi del
’900 lavoravano a mezzadria le terre di altri signorotti. Con
qualche eccezione, è ovvio, come recita la storia di Santa
Adebanke, che era schiava e bambinaia per il nobile Federico
Nautonier. Credo sia stata una fortuna. Non vorrei essere come la
gente che comanda oggi: venduta, arrivista e senza pietà.
Da bambino ascoltavo storie terribili sul passato dei Nautonier,
storie che sembravano senza fine, ancora agitate nei membri più
anziani del mio parentado, e pronte di lì a poco a sconfinare
nella nuova generazione. Quella mia bisnonna, che mi tenne in
braccio fino ai tre anni di vita, mi dissero che fosse una
fattucchiera. E non era l’unica secondo alcuni: mio nonno aveva
avuto maggiore fortuna dei fratelli nel lascito ereditario del
padre, e una lite furibonda era ancora in corso, sebbene
mascherata da sorrisi maliziosi e frasi allusive. Quando mio nonno
si ammalò gravemente, il sospetto cadde subito sui fratelli e
sulle loro "arti" magiche.
Non so se il termine "gravemente" sia corretto, perché mio nonno
era ammalato solo il sabato e la domenica; dopodiché la febbre
scendeva dai 40 gradi ai 36.5 canonici, per risalire
immancabilmente la settimana successiva. Dopo un paio di mesi il
suo fisico era talmente debilitato che si rese necessario il
ricovero.
Febbre a parte, la TAAC e la la risonanza magnetica non
mostrarono nulla di anomalo, e lo stesso le analisi del sangue.
Clinicamente mio nonno stava bene, ma ogni giorno era sempre più
magro e sfinito. I medici si mostrarono perplessi e non poterono
far altro che prevederne la morte prematura a soli sessantacinque
anni di età.
Poi d’un tratto mio nonno si alzò dal letto e visse in salute
per altri ventitre anni, prima di lasciarci l’anno scorso. Cos’era
successo? Qualcuno, mi dissero, era andato con la sua foto
dall’esorcista. Forse era la prima volta che udivo quella parola,
e da allora mi si aprì un mondo, permeato da fascino oscuro ma
soprattutto dal terrore e dall’impotenza umana. Un mondo che
probabilmente è stato solo il frutto dell’immaginazione contadina.
A metà strada tra il ricovero e la morte s’innestò un episodio
di simile impatto, fatto di notti affannose in cui mio nonno si
svegliava soffocando. Quella volta l’esorcista consigliò di aprire
i cuscini e ne uscirono croci e cappi fatti di piume, insieme a
macchie di sangue rappreso. Questo mi dissero, perchè come al
solito non vidi nulla. Ero troppo piccolo per certe cose, ma
grande abbastanza per riempirmi la testa di ansie e paure. Non che
facessero apposta... L’esorcismo era parte integrante della loro
cultura e l’unica cura per malanni ostinati e disturbi psichici.
Un’altro famigliare smise di mangiare; ciò che ingeriva era
subito vomitato. Passarono i giorni e venne un altro ricovero, con
le lastre senza risposte e i medici muti. Dissero che sarebbe
morto in una settimana. Ma non andò così; di nuovo un’anziana
della famiglia portò la foto dall’esorcista e lui vomitò di nuovo,
stavolta un lungo nastro nero, largo un centimetro e spesso quanto
una Vigorsol. Da lì riprese a magiare e tornò in salute. Era stato
davvero una vittima del maligno? Molto dopo udii una vicenda
simile, che riguardava un uomo di ritorno da un viaggio in Africa.
Aveva avuto gli stessi sintomi e lo stesso risvolto finale. Nel
suo caso c’era stata però una diagnosi, un parassita ingerito per
caso con un pasto di pesce crudo, poi cresciuto nel suo stomaco e
diventato così ingombrante da impedire l’ingestione di cibo. Non
posso dire con certezza che i due casi coincidano, e comunque per
molto tempo non ho avuto coscienza del secondo.
Grazie a dio c’era Laika a proteggermi. Laika era un Coker
femmina dal pelo fulvo, classe 1982. Eravamo cresciuti insieme,
mangiando entrambi nella cuccia se il momento lo chiedeva. É
grazie ai miei natali se ho potuto rotolarmi nell’erba in sua
compagnia, correrle incontro e lasciarmi leccare il viso,
coccolare e accudire i suoi cuccioli, così piccoli che le mani di
mio padre bastavano a coprirli. Se fossi nato da un ricco
avvocato, magari a New York, al massimo avrei spalmato il mio
volto di smog come un gringo in battaglia.
L’inverno era forse inclemente con Laika, spesso sola nel
recinto a raggelarsi il cuore. Non me lo fece mai pesare, amandomi
da migliore amica non appena la liberassi, senza rancore. Io però
mi sento in colpa per averla tenuta in prigione mentre sedevo
accanto alla stufa a montare le mie LEGO. Da piccoli si è stupidi
ed egoisti. Qualcuno persevera. Se ne andò da sola mentre stavo in
vacanza con i miei, ad Un Passo Dal Cielo1 sulle dolomiti di San
Candido e Dobbiaco. Avevo appena dimenticato l’ombrello in una
cabina telefonica e ripensavo alle parole di mio nonno, che dietro
la cornetta aveva detto di sentirla guaire. Aveva vomitato. Poi il
giorno seguente arrivò la notizia della sua morte. Piansi a lungo
e incolpai me stesso e i miei genitori per non essere tornati di
corsa, cercando aiuto da un veterinario senza perdere tempo in
canederli e ballate tirolesi.
Per fortuna l’amnesia prende in ostaggio i brutti ricordi e
allora quei posti mi mancano davvero. Ancora oggi un richiamo
primordiale mi trascina attraverso le creste per calpestarne la
polvere bianca macinata dai venti del Triassico. Le Dolomiti hanno
visto 250 milioni di primavere, abbastanza per dimenticare
l’ultimo volo del Quetzalcoatlus, il re dei dinosauri volanti che
occupava i loro cieli... Era un bolide di 250 chili e 12 metri di
apertura alare, il cui nome è preso in prestito da un dio dei
Maya. Ora è sepolto a centinaia di metri sotto strati di roccia
sedimentaria e il suo posto nel cielo è occupato dai rapaci:
falchi, aquile, corvi e poiane affamate. Il loro grido si confonde
nel gorgoglio dei ruscelli che si aprono tutto intorno,
sciolinando all’unisono la lingua di Eywa2. Lassù la borraccia è
inutile perchè l’acqua si trova dappertutto, fresca e buona. Anche
le stelle sembrano più vicine: una sera puntai il dito verso la
regione di Orione, indicando una fascia luminosa che si allungava
nitida nel cielo meridionale. Non avevo mai visto la Via Lattea e
chiesi a mio padre cosa fosse. Sembrava un fiume per davvero, nel
cui letto si specchiavano strane scintille. É naturale che gli
Egizi ci vedessero il Nilo celeste, com’è naturale che le piramidi
attorno disegnassero la mappa di Orione. Pensavo che fosse proprio
quell’acqua a cadere oltre la montagna, per poi riemergere dal
fondo delle sue sorgenti.
Ci sono posti nel mondo, lingue di roccia che si allungano nel
vuoto, pontili che si infossano nel mare, ovunque tu possa andare
sondando il limite tra te e l’infinito, tra te e il vuoto, tra te
e l’abisso profondo. Questi luoghi, capaci di toccare il cuore con
immagini dolci e terribili visioni, sono porte spalancate e ponti
sospesi che uniscono la Terra con il mondo degli Spiriti.
A quel tempo ridevamo di più, sia io che mia sorella. Purtroppo
una sola cosa ci ha accomunato nel tempo: il vedere i problemi
dove questi non ci sono. Ma non da bambini. Da bambini la testa
era libera di sognare e il cuore di innamorarsi. Bastava un muro,
un pallone, un gesso colorato e la voglia di correre.
A dieci anni passeggiavo per la campagna e scoprivo i nidi dei
verzellini mascherati dal fogliame dei vigneti. Se la stagione era
1 É voluto il riferimento alla serie televisiva Un Passo dal Cielo, trasmessa da RAI 1 con Terence Hill protagonista, ambientata
proprio a San Candido. 2 Eywa è la coscienza collettiva così com’è chiamata nel film Avatar di James Cameron. É lo spirito che riempie ogni aspetto del
creato e attraverso il quale ogni essere vivente viene connesso a tutto il resto. Il contatto con Eywa puó attirare gli animali, richiamare la pioggia o curare le ferite, nonché qualunque gesto sia appannaggio della natura. In ambito esoterico una tale credenza è chiamata panteismo.
buona potevo trovarci la madre impegnata nella cova. A fine
inverno cercavo i primi bucaneve e mi sedevo a bordo della roggia
con un ramo spezzato e un coltellino dal manico ricurvo. Passavo
ore intere a cercare il legno più giovane, a pulirlo della scorza
e a ripiegarlo per legarci il filo da un capo all’altro,
stringendo il bandolo tra i denti finché premevo il ramo a terra.
Così costruivo arco e frecce, e mi allenavo al tiro contro
bersagli immaginari. Ero così contento di questa cosa che molti
anni più tardi provai a condividerla con Alys, la mia ragazza.
Purtroppo il filo non era dei migliori e si spezzò al secondo
lancio, ma tanto bastò a colorare una serata in mezzo ai campi,
nel buio pesto di una notte di febbraio.
L’ingenuità e il candore dei bambini è l’unica arma che ci può
salvare dal fracello del mondo. Cosa fa un bambino quando gli rubi
i giochi, la smetti di cambiargli il pannolino e non gli dai da
mangiare? Piange, urla, agita gambe e braccia. Vivere è un suo
diritto. Essere libero è un suo diritto, così com’è il nostro.
Ho molte foto delle vacanze a San Candido coi miei genitori. A
mia mamma piaceva un sacco fare foto e attaccarle con ordine negli
album di famiglia, corredata ognuna da commenti scherzosi o
semplici annotazioni. Poi i figli crescono e mandano a fanculo i
genitori senza pensarci due volte. Ieri mi è venuto in mente il
ricordo di una sera, quando mio padre tornò in ritardo dal lavoro
per passare in videoteca. Non stava noleggiando l’ultimo cine-
panettone, né l’ultima opera di Selen come facevano altri padri.
Era stanco dopo nove ore di lavoro passate chino sotto una pressa
idraulica. Eppure aveva allungato la strada in mezzo al traffico
per noleggiare Il Libro della Giungla di Disney. Sperava di farmi
sorridere ma lo attendeva un muso duro, mezzo offeso e addobbato
da un’irritante "mi fa schifo". Ci penso sempre dopo alle mie
cazzate. Comunque il mio distacco dai genitori portò con sé le
foto, che divennero sempre meno perché erano meno le occasioni di
stare insieme, finché l’avvento del digitale diede l’ultima
mazzata e chiuse gli album per sempre con un accumulo di pagine
vuote sul fondo.
Tra le foto rimaste c’è il ricordo di una passaggiata lungo il
cammino delle venti sorgenti. Per ogni sorgente il CAI aveva fatto
costruire una fontana di legno dove potersi abbeverare, corredata
da un pannello in plexiglas che ne spiegava la storia, il sapore e
le proprietà fisiologiche.
I miei genitori reggevano mia sorella in piedi sul bordo della
vasca, uno per parte così che allungasse le manine e portasse
l’acqua alla bocca. Quando più tardi arrivò Daisy, mio papà usò la
stessa accortezza in maniera creativa. Le sue mani erano grandi
abbastanza da formare una piccola ciotola ermetica, sufficiente a
raccogliere l’acqua e portarla ad altezza tartufo. Daisy affondava
il musetto tra i palmi e raccoglieva piccoli sorsi a colpetti di
lingua.
Per quasi 18 anni ha camminato al mio fianco, e ora è come un
arto mozzato che è perduto ma ancora si sente. Sento i suoi passi,
i colpetti delle unghie contro il marmo del corridoio e il naso
bagnato che sfiora le mie mani in cerca di cibo. Nei giorni a San
Candido la nostra storia era appena cominciata, e lei era un
cucciolo di peluche che soffriva il mal d’auto (aveva vomitato
nella "vaschetta" del freno a mano, riempiendola fino al bordo
senza sporcare oltre). Aveva un anno quando una bimba al parco
giochi indicava il suo codino e chiedeva ingenuamente "Cos’ha? Un
pezzo di gomma?". Poco dopo avremmo camminato sul monte Ortigara,
io, Daisy, mio papà e il nonno, e un signore anziano si sarebbe
spaventato a morte credendola un topo troppo cresciuto.
Da qualche tempo la mia Yorki dorme all’ombra di una rosa; fa
compagnia a mio nonno che sta potando le vigne dei Campi Elisi;
scondinzola e improvvisa un girotondo attorno ai suoi piedi. Non
so perché se ne siano andati insieme, in poco tempo, portando con
sé il papà di Alys. "Si viene e si va, comunque ballando" dice il
Liga.
3 Dov’è il tuo dio adesso?
Cosa sono le religioni? Strumenti di potere, di controllo, di
divisione? Oppure sono davvero la manifestazione di un dettame
divino? In tal caso, manifestando ognuna un dettame diverso, solo
una di esse potrebbe esprimere quello vero. Una oppure nessuna. I
cattivi se ne fregano, oppure ne interpretano a piacere le leggi
per giustificare i propri istinti. I buoni ne seguono i precetti
per paura di apparire cattivi. Perdono ore seduti in chiesa o
inginocchiati in moschea, confessando a sconosciuti i peccati
immaginari di una vita in costante tensione, contrita dalla paura
di agire contro dio. Da qualche parte ho letto che "la religione è
la migliore cura contro le ansie che essa stessa crea". Non potrei
essere più d’accordo.
Non mi dilungherò sulle questioni insulse che riguardano il
sesso, ma qualcosa la voglio dire. I disturbi psichici si legano
al senso di colpa e tra le cause primarie (a sentire il mio amico
analista) rientrano a pieno titolo le ingerenze dei confessori
nella sfera sessuale. Dire a un adolescente che masturbarsi è un
peccato mortale o che potrebbe attrarsi il male (letteralmente)
con le proprie mani, non potrà che turbarlo, specie in un periodo
della vita in cui l’istinto a massacrarsi di seghe è gargantuesco.
Secondo il papa la sessualità dovrebbe limitarsi alla
riproduzione, ma in tal caso dovrebbe spiegare come mai tutti i
preti soffrono di problemi alla prostata, o perchè l’organismo
espelle da sé lo sperma in eccesso quando questo ristagna da
troppo tempo. Insomma, l’attività sessuale è fisiologica e non può
essere evitata senza farsi violenza. Anzi, considerando il
rilascio di benefiche enforfine, si direbbe altamente consigliata.
Qualcuno sostiene che una cosa è la religione e un’altra cosa i
religiosi. Così riesce a dimenticare le conversioni forzate, le
torture dell’inquisizione, le crociate e i massacri degli
gnostici. I cristiani erano stati perseguitati sotto Nerone (37 -
68), Decio (249 - 251), Valeriano (253 - 260) e sotto Diocleziano
(303 - 311), ma neanche cent’anni dopo erano loro stessi a
indossare i panni dei persecutori. É la legge del nonnismo: entri
a scuola e ti picchiano; sei all’ultimo anno e picchi le
matricole. Il cristianesimo divenne religione di stato nel 391
sotto Teodosio e da quel momento risultò difficile distinguire i
vescovi da qualunque altro feudatario di nobili origini.
L’opulenza delle gerarchie fu respinta dagli gnostici, piccoli
gruppi cristiani insediati perlopiù ad Alessandria con emanazioni
in Siria (Giovanniti) e Spagna (Priscilliani). Gli gnostici
rifiutavano le cariche ecclesiastiche e qualunque altro
intermediario tra l’uomo e dio. Tra la fine del IV e l’inizio del
V secolo furono sterminati dall’azione dei vescovi Teofilo e
Cirillo. Allora come oggi, il potere era in lotta per proteggere
sé stesso dalla rivalsa del popolo, non importa quale vestito
indossasse. Gli gnostici rifiutavano la presenza di un 'prete' che
leggesse per loro la Bibbia, preferendo studiarla da sé insieme
alla matematica e alla scienza in genere. D’altro canto, per il
potere organizzato non c’era nemico più temibile di un popolo
sveglio, acculturato e unito. Perciò è molto improbabile che il
movimento cristiano dei primi tempi abbia qualcosa in comune con
la moderna religione che ne porta il nome.
Se escludiamo i discussi ritrovamenti di Qumran, i vangeli più
antichi arrivati fino a noi sono al più del IV secolo. Seppur
copiati da originali più antichi, non possiamo fidarci di
compilazioni collegate all’imperatore Costantino e al suo
enturage. Con il Concilio di Nicea (325 d.C.) Costantino aveva
aperto al cristianesimo le porte di Roma, e aveva usato la
massoneria dell’epoca (il Sol Invictus - Mitra) per diffonderlo
nell’aristocrazia equestre e nella classe militare. Era un unico
cristianesimo, scelto da Costantino tra 100 versioni e diffuso per
mezzo di un gruppo pagano guidato dal Pater Patrum, da cui verrà
il nome "papa" per il vescovo di Roma.
Storie di un tempo? Vogliamo parlare del ventennio 1964 - 1983?
É il periodo che comincia grosso modo con la fondazione della
Gladio e si conclude con le uccisioni di Mirella Gregori e Manuela
Orlandi. Monsignor Montini era appena diventato papa dopo più di
vent’anni trascorsi a capo dei Servizi Segreti Vaticani. Aveva già
scelto per Roosevelt i rappresentanti delle Commissioni Europee
nei paesi non alleati, e adesso si prodigava nel creare una cella
italiana della CIA chiamata Gladio. Lo stesso avveniva negli altri
paesi del blocco NATO, con la cella svizzera che prendeva nome P26
e che avrebbe sforato in Italia nella loggia massonica P2. Nei
suddetti vent’anni si assistette a una commistione tra Vaticano,
Mafia, Massoneria, Brigate Rosse, Nuclei per la Difesa e Servizi
Segreti. Le stragi di Piazza Fontana (1969), Peteano (1972),
Perugia (1980), le uccisioni di Aldo Moro e Giovanni Paolo I
(1978), il Golpe Borghese (1970), l’omicidio di Roberto Calvi
(1982), sono stati tutti tatticismi all’interno della cosiddetta
"strategia della tensione", volta a far oscillare continuamente
l’opinione pubblica in modo tale che nessuna forza politica
prevalesse nettamente sull’altra. Erano gli anni in cui lo IOR
riciclava centinaia di miliardi di lire per la mafia, usando il
Banco Ambrosiano come copertura. La mafia a sua volta vendeva la
droga della CIA, ricevuta in pagamento per la vendita clandestina
di armi all’iraniano Khomeyni e ai Contras del Nicaragua. Oltre al
resto, il direttore dello IOR Monsignor Marcinkus (già avverso a
G.Paolo I) organizzava festini pedofili nell’abbazia di
S.Apollinare in Roma, con l’assenso del rettore della chiesa
Monsignor Pietro Vergari, del segretario di stato Cardinale
Villot, del vicecapo della vigilanza vaticana Raoul Bonarelli
(tutt’ora in servizio), e presumibilmente di Jimmy de Pedis (il
capo della Banda della Magliana). Una vicenda che coinvolse le
giovani Emanuela e Mirella, di 15 e 16 anni.
Parlavo di questo già a 14 anni, spesso a sproposito e come atto
di ribellione. Un pomeriggio avevo finito i compiti e mi ero
alzato dalla sedia; avevo guardato mia madre indispettito, coi
pugni stretti e le braccia in tensione lungo i fianchi. Il mio
"non credo" era stato più esitante di quanto volessi e a fatica
avevo nascosto il tremore delle mani. "Non credo a Gesù né ai
miracoli" avevo aggiunto a rincarare la dose. Lei era rimasta in
silenzio per pochi secondi, scoppiando poi in lacrime una volta
elaborato il messaggio.
Forse mi avrebbe preso a schiaffi se non mi fossi defilato sul
retro di casa. Perciò trascorsi il resto della giornata con le
gambe a penzoloni dal muretto dello scivolo, aspettando che mio
padre tornasse dal lavoro. Contavo che mi avrebbe fatto da guardia
del corpo, portando i toni della discussione a un livello
tollerabile senza pianti né urla. Era freddo, buio e c’era la
nebbia, il perfetto cliché da giorno del giudizio.
In qualche modo la discussione si acquietò. Me la cavai col
soliloquio del genitore fallito che mortifica sé stesso per
stillare nel figlio i sensi di colpa. Sorbii la sua ammenda: "io
ho fatto di tutto per insegnarti qualcosa di buono, ma
evidentemente non sono stata capace". Era un modo come un altro
per affermare che i puri di cuore dovevano credere, altrimenti
avrebbero permesso al male di inondare le loro vite. Non era
cattiveria la sua, ma soltanto paura. Mia madre temeva davvero che
il male invadesse la nostra famiglia, suggestionata com’era dai
fatti succitati. Purtroppo a breve sarei stato più impaurito di
lei.
Nell’estate 1997 avevo 'comprato' un videogioco per l’Amiga 500.
Apparteneva alla fortunata serie della Lucas Arts che aprì un
genere a sé stante detto "Avventura Grafica". Per chi è cresciuto
a pane e Indiana Jones era stata esaltante la produzione di una
quarta storia (dopo I Predatori dell’Arca Perduta, Il Tempio
Maledetto e L’Ultima Crociata), sebbene come gioco e non in film.
La qualità grafica era un passo in avanti rispetto qualunque gioco
già visto; inoltre Harrison Ford aveva concesso la propria
immagine per i documenti e i giornali che apparivano nella nuova
avventura: Indiana Jones and The Fate of Atlantis. Già allora si
parlava di un quarto film, che se avesse seguito la trama del
gioco sarebbe stato a dir poco fenomenale. Invece abbiamo atteso
il 2008 per la patetica farsa di Indiana Jones e Il Regno del
Teschio di Cristallo.
Nel gioco si parlava di Atlantide, l’isola perduta dove
l’umanità avrebbe raggiunto un progresso invidiabile per poi
decadere in seguito a un cataclisma. I suoi superstiti avrebbero
fondato la civiltà Egizia, quella Indiana e quella Olmeca in
Messico. Indiana Jones si muoveva dagli scavi in Islanda al
labirinto di Cnosso a Creta, passando per il tempio Maya di Tikal,
il deserto algerino e una Monte Carlo insidiata dai nazisti.
Soprattutto seguiva gli indizi mascherati da Platone e dal suo
esegeta Charles Sternhart.
Iniziai a mangiare libri, partendo da Il Mistero di Orione di
R.Bauval e Impronte degli Déi di G.Hancock, alla ricerca di una
verità che si innestasse alla base del mito. Fu sorprendente la
scoperta di quanta scienza si celasse nella storia di Atlantide:
il nostro mondo era stato davvero il bersaglio di meteoriti e
drastici cambiamenti di clima ad intervalli di 10-15.000 anni.
L’ipotesi che la Sfinge e il suo Tempio fossero precedenti a
qualsiasi civiltà non era poi così peregrina. In superficie
recavano i segni di piogge copiose cadute tra il 9.500 e il 3.500
a.C.. Il tempio mostrava sporgenze lavorate a davanzale e pietre
angolari tagliate ad L che esistevano uguali in Perù e Cambogia,
secondo uno stile che doveva rifarsi a un antenato comune.
Il mio entusiamo fu però schiacciato dal mio stesso cervello
impazzito. L’uomo nero era scomparso ma al suo posto aveva
lasciato qualcosa di peggio. Cos’era quel pulviscolo? Cos’era
quel minuscolo filo di lana attorcigliato che si nascondeva nel
ripiego delle pagine? Quante volte le pagine dei vostri libri
hanno avuto tracce di polvere o macchie di caffé, cioccolato o
quant’altro? Le persone 'normali' risolvono tutto con un soffio o
semplicemente se ne fregano e vanno avanti. Le persone com’ero io
non possono. Possono soffiare e la polvere resterà, indelebile
nelle loro coscienze, e saranno costrette a guardare e riguardare
la stessa pagina per convincersi che la polvere è andata. In caso
contrario quell’immagine bloccherà la mente senza lasciare spazio
a nient’altro. Interferirà con ogni piccolo pensiero e ogni
articolazione. Camminare con la schiena dritta, mantenere
l’equilibrio, tenere gli occhi aperti o la bocca vuota di saliva,
tutto è compromesso. Diventi un ritardato che non sa camminare né
parlare, solo per un pizzico di polvere.
4 Sogno di una notte di mezzo autunno
Stanotte ho sognato di svegliarmi. Sollevavo la schiena e mi
appoggiavo alla testiera del letto, scoprendo disorientato il
posto vuoto alla mia sinistra. Le coperte erano state
accartocciate verso il basso e un foglio bianco era stato
abbandonato sul materasso. C’era una scritta in pennarello nero:
"è arrivato il momento di crescere". Ho preso il foglio tra le
mani e ho pianto la mia compagna; l’ho chiamata 'bambina', come se
quel nomignolo affettuoso fosse stato reciproco, come se lei se ne
fosse andata con la coscienza di aver tenuto il suo candore fino
all’ultimo giorno.
La malinconia non mi abbandona nemmeno quando dormo. Forse avrei
dovuto uscire di casa lo stesso, tanti anni fa, senza paura che la
mia deficienza mi rendesse sgradito o mi trasformasse nel perfetto
bersaglio per i bulli di quartiere. Gli amici delle medie stavano
aprendo le porte alla libertà, tra droghe, alcool e atti
vandalici. Periodicamente occupavano le pagine dei giornali nelle
vesti de "i soliti ignoti": dopo 15 anni c’è ancora qualcuno che
addobba l’albero di Natale con le palle di vetro rubate al pino di
Piazza Libertà. Ma non era certo questo a spaventarmi, né i
cassonetti rovesciati nei fiumi o i vapori della ganja consumata
in "stanzetta". Mi spaventavano i silenzi, le domande non risposte
perché la mia mente viaggiava altrove, e tutti quei pegni che
avrei pagato per la mia distrazione. Avrei fumato sigarette di
cenere e cacca di gatto, avrei raccolto pugni alla bocca dello
stomaco e avrei strisciato per terra, avrei cantato a richiesta
come un juke box stonato e avrei portato a vita dei nomiglioli
fastidiosi. Credevo di risparmiarmi il dolore, ma la versione
light l’avrei comunque subita qualche anno più tardi.
Intanto il tempo lo passavo a casa, e i miei genitori si
sentivano felici, perché non piantavo grane e non davo grattacapi.
A scanso di equivoci mi avevano proibito il motorino, precisando
che non potevo comprarlo neppure coi miei soldi. Potevo inseguire
i miei coetanei in bicicletta, aggravando la mia già debole
posizione, ma preferii non farlo e me ne stetti buono buono.
Nell’estate tra medie e superiori non cercai nemmeno un lavoro: i
soldi non mi servivano.
In compenso ero stato spedito al gruppo Giovani della
parrocchia, dove avrei goduto della compagnia di altri sfigati
come me: i ragazzi vincenti stavano fuori dalla porta e la
aprivano di tanto in tanto per gettare all’interno petardi accesi.
Diversamente da loro ero una bestia chiusa in gabbia, magari non
frustata e seviziata, ma docile agli ordini e accucciata
nell’angolo di una stanza buia che solo io potevo vedere.
La scuola era intanto una valvola di sfogo. I più scapestrati mi
rispettavano purché li lasciassi copiare, una cosa che avrei fatto
comunque, per vanità, perché fregare i professori mi dava gran
soddisfazione, perchè molti di loro non meritavano quel posto. Ci
fu un compito di algebra e metà classe prese voti sopra il 7,
mentre il resto stazionò dal 4 in giù. La planimetria dell’aula
mostrava due zone separate di netto, con il mio banco al centro
della zona 7. La matematica per me era un gioco, un ritmato
susseguirsi di ovvietà... in molti casi non serviva che studiassi
e nemmeno che stessi attento alla lezione: nella mia testa c’era
un unico sentiero praticabile.
Studiare non era poi così importante, non i libri di scuola. La
mia mente aleggiava piuttosto sugli oceani, sulla nave Ra di Thor
Heyerdahl3. La sua avventura mi aveva riempito d’ammirazione. Il Ra
3 Thor Heyerdahl (Larvik, 6 ottobre 1914 - Colla Micheri, 18 aprile 2002) è stato un antropologo, esploratore e regista norvegese.
Biologo, specializzato all’Università di Oslo in antropologia delle isole del Pacifico, svolse la sua attività preminentemente come archeologo. Pronto a mettere in discussione le teorie allora correnti sulla diffusione umana via mare sul pianeta, non esitò ad organizzare ardite navigazioni con natanti ritenuti rudimentali. I suoi progetti navali si basavano in realtà su precise documentazioni storiche o protostoriche ed erano eseguiti con l’aiuto di maestranze indigene ancora abili a tali lavorazioni. I
era una barca di cinque metri per due, realizzata con fasci di
papiro tenuti insieme da corde naturali, secondo i precetti di
Antichi Egizi e antichi Teotihuacani (popolo boliviano). Benché
separati dall’Atlantico, 5000 anni fa costruivano barche identiche
intrecciando steli di papiro: Heyerdahl navigò per 3.270 miglia
dal Marocco ai Caraibi, con lo scopo dichiarato di dimostrare un
antico contatto tra i due popoli. Gli artefici del mezzo erano gli
indios Aymara, i discendenti dei Teotihuacani che abitano ancora
oggi il lago Titicaca, sulle Ande boliviane. Un popolo misterioso,
la cui lingua è talmente rigida negli schemi da apparire
artificiale, tanto che molti software di traduzione usano proprio
l’aymara come passo intermedio tra una lingua e l’altra.
Preferivo sorprendere i compagni con digressioni in questi lidi
poco chiari, piuttosto che perder tempo sui quaderni. Ogni tanto
sfoggiavo un’interrogazione o un compito eccellente, annunciando
in anticipo il risultato così da ricordare chi fossi e dove
potessi arrivare. Dalla prima media non facevo i compiti per casa,
e sono stato coerente fino alla fine della quinta superiore,
indifferente alle note di demerito che risolvevo a firme false o
strappando le pagine del registro di classe. Non sono mai stato
capace di abbassare il capo davanti al padrone. Similmente non ho
letto libri finché mi hanno ordinato di farlo, mentre oggi non ho
abbastanza spazio in casa per contenerli.
Se la mia mente impazziva, finivo sdraiato sul pavimento, al
freddo del marmo accartocciato sotto la scrivania. Allungavo una
mano cercando il viso di Daisy, sperando che mi leccasse le dita o
mi scaldasse lo stomaco, riportandomi in qualche modo alla vita
sensibile. Più avanti avrei imparato a graffiarmi o a mettere le
mani nel fuoco del camino, svegliandomi tra grida soffocate.
Pensavo a Caio, il dinasta di Hokuto in terra siriana, forgiato
dal dolore al punto tale da non provare alcunché mentre tendeva le
mani alle fiamme.
A febbraio 1998 rientrai di diritto tra i candidati alla
bocciatura, così che mia mamma tornò incazzata nera dal colloquio
coi professori. Avrei pensato "stai scialla, sorella", se non
fossi stato troppo impegnato a schivare ciabatte volanti. Da parte
mia ero sicuro che non mi avrebbero bocciato, e infatti recuperai
tutto nei 4 mesi successivi, uscendo senza debiti e salutando i
ben dieci bocciati con cui avevo condiviso la nomination.
Nel frattempo avevo conquistato la nomea di piromane e avevo
rischiato di incendiare la scuola, un’evenienza che mi avrebbe
avvicinato all’eroina dell’epoca, la biondina Buffy o
l’ammazzavampiri di Sunnydale. Nel mio caso non si trattava di una
frotta di vampiri, da intrappolare in palestra e gettare nel
fuoco, ma del semplice fascino di una fiamma lenta che consuma la
vita. Arrotolavo pezzi di carta e li strizzavo come un panno
bagnato. Dopodiché bastava un accendino, una piccola vampata sulla
punta che subito veniva spenta e lasciava spazio ad una brace
rossa. Il "cannone" avrebbe spruzzato il suo fumo per tutta l’aula
dubbi della comunità scientifica dell’epoca si riferivano generalmente all’uso di materiali poco noti e ritenuti inaffidabili quali Legno di Balsa, Papiro, Giunco.
e per il tempo necessario a consumare la carta, salvo incediare
uno zaino troppo vicino al bersaglio di tiro.
5 Senza farti distrarre dai prodigi
"Senza farti distrarre dai prodigi, osserva ciò che hai davanti
gli occhi: quest’uomo è ancora vivo". Così aveva detto la maestra
alla giovane strega mentre volgevo le spalle alla casa nel bosco.
Sono stato concepito nella prima metà di dicembre, come doveva
essere per i re della stirpe di Davide. Ho emesso il primo vagito
in un pomeriggio di settembre, vomitando sangue e liquido
amniotico; il primo abbraccio l’ho ricevuto da un’incubatrice che
cercava disperatamente di darmi calore. La mia sopravvivenza vìola
il buonsenso; forse avrei dovuto passare per il camino di
Auschwitz e andarmene insieme agli altri. Morte, vita, passione e
violenza: tutto cade nello stesso vortice che tutto logora. Questo
mondo non ha alcun senso. Si ride e si soffre per abitudine, si
lavora per abitudine, si muore con l’aiuto di troppi dottori4.
Siamo robots sulla linea di montaggio, ingranaggi di una macchina
perfetta. Nessuno si chiede se sia giusto o sbagliato, semmai
legale e obbligatorio. Puoi lavorare alla Bayer per anni, gustarti
la pubblicità del papà perfetto che alza il figlio tra le braccia
mentre passa la scritta 'Sanofi Aventis', senza sapere che
800.000.000 di persone sono morte per causa loro. Non per errore
ma per il gas, per il Zyclon-B, un prodotto la cui natura e
obiettivo è soltanto la morte.
Stanotte ho creduto di andarmene, per l’ennesima volta, con la
mente logora e il respiro affannoso, la gola stretta da una mano
invisibile. Eppure sono vivo, come le altre volte. Ogni volta,
all’ultimo istante, è arrivato qualcosa o qualcuno per tenermi in
vita. Sono stato io a vederlo? Forse sono state scuse, inventate
dall’inconscio per sfuggire all’ignoto che si inoltra nella notte.
La prima volta che ho visto il baratro non dormivo da 72 ore, ero
ubriaco fradicio e non sentivo più il mio battito. Il formicolio
mi induriva braccia e gambe, incespicavo, cadevo e vomitavo. Poi
ho aperto quella porta e ho visto le ragazzine. Provavano un
balletto per il corso di Hip Hop. Avevano gli occhi di chi non
vede il male, occhi di speranza e voglia di scoperta. Erano la
vita, soprattutto lei che aveva la luce della piccola leader, la
più carina e la più cretina. In un istante ho capito che per tutte
loro avrei dovuto restare. Il mondo doveva cambiare, e forse
proprio per questo sono ancora vivo.
Nemmeno tre mesi prima ero venuto al mondo, legando a catene la
timidezza e spingendo il mio corpo a muoversi in avanti, per
affondare lo sguardo tra la gente. Ero uscito di casa e mi ero
presentato in mezzo a loro, a tutti i miei coetanei già saturi di
sesso e cocaina. Non traspariva una vena di emozione, una ruga del
volto o lacrima dagli occhi. Ero immune alle inutili domande e mi
facevo strada tra i sorrisi di scherno. Afferrai un bicchiere
4 La frase “Muoio grazie all’aiuto di troppi dottori” è attribuita ad Alessandro Magno, Re di Grecia e Macedonia, Imperatore di
Persia (356 - 323 a.C.)
colmo di birra appena spinata. Non sapevo di chi fosse ma lo
alzai, affermando a gran voce di voler essere uno di loro, bevendo
d’un fiato e chiedendo gli attrezzi per tagliare le frasche. Poche
ore più tardi eravamo insieme sul carro della cuccagna, protetti
da una foresta di corniolo che a fine serata sarebbe finita
sull’asfalto e ci avrebbe costato una denuncia. Il carro ci
avrebbe portati in piazza e da lì saremmo scesi per iniziare la
scalata e conquistare la folla. Le ragazze piangevano in preda
alla sbornia, e tutti quanti puzzavamo del grasso di motore che
colava dalle nostre facce. Iniziammo rimbambiti e disorganizzati,
con poca paglia e zero rispetto, stritolando i nostri colli e
incastrando arti su arti nel tentativo di realizzare la piramide
umana. Ci riuscimmo, merito di Mike, il sobrio e patetico Mike.
Di notte riempimmo le strade di graffiti e solo l’alba
accompagnò il mio rientro. Mia madre aspettava sulle scale,
preoccupata da quel figlio che fino a ieri stava accucciato sul
divano e dondolava la testa in un tic nervoso, affondando le mani
nella scatola di LEGO. Tre mesi di gloria videro il mio esordio
nei bar notturni, tra le labbra e i seni immaturi di una
sconosciuta dai riccioli biondi. Non ero ancora tornato da
Sandy... per la patente mancava un altro po’.
6 Il Bellissimo Mestiere
Era il 2001 quando Marco Masini se ne usciva con Uscita Sicurezza
e il singolo graffiante de Il Bellissimo Mestiere. Lo stesso grido
disperato che Marco sparava sul microfono, a fatica aveva lasciato
la mia gola; quella storia così urlata, forse vissuta, era ancora
fresca tra i miei pensieri.
"Michela è una poco di buono" dicevano di lei in sua assenza, o
almeno così dicevano i ragazzi educati per evitare parolacce. Gli
altri davano sfogo all’intero vocabolario del perfetto scaricatore
di porto. Pensavo si dovessero capire. Diciottenne e già portava
tacchi a spillo, minigonna ascellare e una scollatura che dava un
posto d’onore al suo ampio e sodo seno. Le labbra carnose erano
ripassate con un rossetto scarlatto, e così gli occhi con un filo
di ombretto azzurro brillante e mascara sulle ciglia. I capelli
scuri, lunghi e lisci spargevano profumo per l’intero locale,
seguendo il suo passo così prezioso e controllato come fosse in
passerella. La vedevano spesso con uomini maturi, forse sposati
con figli; durava un mese, poche volte due o tre, finché tutto
finiva e lei tornava al solito locale. Qualche volta andava a
Milano, per fare il colpo grosso, dicevano. In realtà non sapevano
un cazzo di lei. É sempre così, la gente non sa un cazzo e parla,
parla, parla finché non si addormentano tutti.
Ero a Marsiglia quando le ho parlato per la prima volta, chiuso
in casa con la febbre che sospiravo guardando il porto vecchio
oltre la finestra. Giravo su facebook cercando di ammazzare la
noia e chiedevo amicizie a caso sperando di beccare qualcuno di
divertente, o perché no, una bella ragazza cui indirizzare le mie
fantasie. Così caddi su di lei, trascinato più da un risveglio
ormonale che da un reale interesse.
Era brava con le parole, molto più ricercate e intelligenti di
quanto mi aspettassi. Parlava di fiori, di un’aiuola da costruire
al posto della vecchia baracca, di Aky che aveva il vizio di
mangiarsi ogni nuova piantina, della preoccupazione che qualche
polline lo facesse stare male. Lei con zappino in mano e la terra
sotto le unghie proprio non la vedevo. Stavo davvero parlando con
lei? Ad un certo punto non ci facevo più caso. Era riuscita a
scivolare nella moda, i vestiti e le acconciature, ma lo aveva
fatto accompagnandomi per mano nei salotti dell’Inghilterra
vittoriana. Conosceva le buone maniere, il modo di stare a tavola
e tutte le attenzioni che un buon cavaliere avrebbe dovuto alla
sua dama. Era colta, benché non avesse che la terza media, e con
machiavellica strategia argomentava il suo piacere di stare in
alto tra i benlocati, fuggendo dai poveracci come atto di rispetto
verso sé stessa.
Era riuscita ad offendermi e a istillarmi nello stesso tempo una
curiosità morbosa. Ogni volta che parlavamo trovava un modo per
rinfacciarmi la mia umile condizione. Eppure mi cercava troppo
spesso: solo un piacere sadico o c’era dell’altro? Alla fine mi
invitò a passare da lei. Mi voleva a portata di schiaffo per
passare dalle parole ai fatti?
Sia chiaro, non sarebbe mai uscita con me. Venivano a prenderla
quegli altri, con le loro macchinone, il blazer e gli stivali
marchiati Prada. Capitavano lì nel tardo pomeriggio del sabato; a
volte ero ancora lì; a volte la guardavo truccarsi e l’aiutavo a
scegliere i vestiti. Lasciavo la sua casa quando lei se n’era già
andata, e sopportavo quella piacevole umiliazione perché oramai ne
ero dipendente. Cos’era successo? Com’ero diventato il suo
paggetto?
La prima volta non mi aveva dato il tempo neppure per parlare.
Mi aveva aspettato sulla soglia in camicia da notte e mi aveva
lasciato un bacio veloce sulle labbra prima di impormi il silenzio
e trascinarmi per mano in camera sua. Nel corridoio in penombra
incrociai lo sguardo di un signore di mezza età dal volto scavato,
intrappolato in una camicia di flanella e pantaloni di velluto che
non vedevano da mesi un ferro da stiro. Quello spettro era suo
padre; in quella casa, e in quegli attimi di indifferenza, lui
scontava le sue colpe.
Michela mi insegnò a fare l’amore. Non ero vergine ma al suo
cospetto era come se lo fossi. Era eccitata nel farmi da maestra;
guidava le mie carezze fuori e dentro di lei, invitava la mia
lingua sui suoi sentieri e mi insegnava ad alzarle una gamba
contro la mia spalla così da spingere fino in fondo. Dopo l’amore
sedevamo uno di fronte all’altra, a gambe incrociate per
raccontarci storie di draghi, principesse e cavalieri. Usavamo i
pupazzetti che abitavano la testiera del letto e che mi spiavano
sornioni ogni volta che mi chiudevo con lei in quel mondo di 4m2
che sì, era piccolo, ma almeno tutto nostro. Pensandoci adesso,
vedo in noi due solo la voglia di giocare, abbandonando i ricordi
e le ossessioni al di là di un giro un chiave. Lì dentro non
entrava la sporcizia del mondo. L’odio, l’invidia, il rancore, ci
spiavano da fuori, attraverso lo specchio, da quella specie di
altare in cui ci guardavamo per ore intere. Ore e ore trascorse
senza bere né mangiare, senza neanche respirare ma solamente a far
l’amore, senza neanche andare in bagno per non risvegliare il
sogno, su quell’isola di un letto allontanata dall’affanno5.
Tempo dopo ho saputo la sua storia, che era nata gemella di un
maschio che adesso stava con la madre, un avvocato di successo che
aveva evitato l’aborto al solo scopo di chetare le malelingue.
Aveva solo otto anni quando i suoi si erano lasciati; trattandosi
di divorzio consenziente, i bambini avevano potuto scegliere con
chi stare. A dodic’anni già lavorava in un negozietto dopo scuola,
mentre il padre si ubriacava al bar dell’angolo. Gli amici del suo
vecchio, che raramente passavano per casa, avevano iniziato ad
apparire al negozio, per comprare sciocchezze, come una stecca di
cioccolato o un pacchetto di sigarette, accompagnando i saluti con
occhiate languide. Poi i soldi erano finiti e si era trovata ad
accettare un biglietto da cinquanta e un passaggio verso le sale
sconosciute di un motel. Aveva imparato il mestiere e si era fatta
ambiziosa, prendendosi il lusso della scelta e del prezzo. I soldi
non mancarono mai più, ma in tutto quel sesso non c’era spazio per
l’amore; poi un giorno, lasciandosi cadere sul mio petto, scoppiò
in pianto interrotto dai singhiozzi. All’improvviso quel corpo da
déa divenne il corpo di una bambina indifesa, e io non potei fare
a meno di sentirmi in colpa. Ero inerme; cominciai a carezzarle i
capelli e a baciarla ripetutamente sulla nuca. Presi a piangere
anch’io senza un vero motivo, per non lasciarla sola. Sentivo il
suo seno pesante, caldo e piacevole come una coperta la mattina di
Natale. Non era più tempo per giocarci; quel pianto segnava il suo
addio. Si stava innamorando e non poteva, non voleva, perché
l’amore le avrebbe preso la linfa di cui si nutriva. "É un mondo
di soldi, non di cuori" ripeteva. Si alzò di scatto e scese dal
letto. Rivestendosi si asciugava le lacrime e mi intimava di
andare per non farmi più vedere.
Quando la chiamai era passato un anno e lei se n’era andata. Ora
stava a Grosseto, sul mare, per sfuggire a una malattia autoimmune
comandata da un ironico destino. Proprio lei ch’era sempre più
bella e viveva di creme e di lacca suoi capelli, adesso non aveva
più un capello, nemmeno uno. Aveva perso ogni altro pelo, dal pube
alle ascelle, perfino ciglia e sopracciglia. Non voleva uscire di
casa, non davanti a occhi conosciuti. Rifiutava le visite, anche
le mie.
Un amico di famiglia le trovò una tana e un impiego in un
negozio di estetica. Così poté cambiare parrucca e ciglia finte
con la frequenza che voleva. Poi lentamente comprese. Ci arrivò
percorrendo una strada tortuosa e dissestata, ma alla fine fu
chiaro anche a lei come i più poveri tra tutti fossero proprio
loro, quelli che avevano soltanto i soldi.
Oggi è rinata, è una donna che ha imparato ad amare; ora ha un
uomo che la merita, e una bimba che la chiama mamma con tutta la
5 Periodo ispirato al testo de Il Bellissimo Mestiere, di Marco Masini.
forza che a lei è mancata. L’ho vista una volta di sfuggita,
mentre viaggiavo verso Roma; ero uscito dall’autostrada e avevo
preferito sgranchire le gambe di fronte al tramonto sul mare
mosso, piuttosto che al solito autogrill. Era lei, ne ero sicuro
benché quello sfondo infuocato trasformasse la scena in un
miraggio da cartolina. Era seduta sul molo con le gambe a
penzoloni e rideva di gusto insieme a loro. Non potevo chiedere di
meglio per lei. Non l’ho chiamata ma l’ho molto pensata; ho
continuato la strada, piangendo come un deficiente mentre
ascoltavo le canzoni della radio. Ero incazzato da morire, ma non
con lei, con l’amore, perché lei io la odiavo, sì, ma così
teneramente che anche un cieco se ne sarebbe accorto. Quel
bastardo non me l’aveva detto che avrei sofferto come un cane una
volta passato l’effetto. L’amore fa sempre quello che gli pare, e
noi paghiamo il conto, amore mio6.
Oggi ho ripreso la mia vita, più maturo e più coerente. Ho
capito che il tuo foglio si è disteso sotto un’altra matita, e che
io posso scrivere il mio nome su un’altra vita7; in fondo ci siamo
consolati a vicenda per un po’, per il tempo che è servito.
Guardarsi indietro rende chiaro il cammino percorso, nel mio
caso un sentiero ben scavato dal karma. Mi aiuta a sfuggire da
quei pensieri ossessivi che trasformerebbero il mio corpo in
concime per le piante. In un mondo ideale non starei qua, a
sfogare battiti di tristezza davanti a una tastiera, sperando
nella comprensione di qualche sconosciuto. In un mondo ideale
sarei seduto con gli altri attorno ad un falò, ad addormentarmi
dopo una cena fatta del mio bottino di caccia. Avrei sacrificato
una lepre alla mia fame con la coscienza della vita che si è
spenta per alimentare la mia, nel suo rispetto finanche nella
morte. Nel mio mondo ideale non ci sono polli in batteria e non ci
sono uomini in batteria, in catena di montaggio, al servizio di
qualche coglione figlio di papà che si fa pignolo nel misurare i
loro tempi di lavoro. Bestie da soma, marchiate, senza diritti,
senza via di fuga perchè ingabbiati dal pensiero pubblico, di chi
ti vuole in casa, pulito, accessoriato col cellulare e la TV a 300
canali, di chi ti vuole al tuo banco alle 8 se non prima, fino
alle 8-9 ore che ti mandano a casa stanco con la sola forza di
assorbire qualche stronzata dal TG. Siamo schiavi e ce ne
vantiamo, ascoltiamo i tecnici mentirci spudoratamente
sull’assenza di soldi, inventando un debito che non esiste mentre
si innalzano i loro palazzi di specchi a Babilonia. Siamo tutti
divisi, un socialnetwork serve solo ad allontanare la tentazione
di incontrarci per la strada, di dirci in faccia l’un l’altro
quanto siamo stronzi, di consumarci a scazzottate o nel letto di
una sconosciuta. Siamo soli, dimentichi del sole nascente e del
mare che s’infrange sulla battigia. Sappiamo descrivere nei
dettagli le applicazioni di un I-Pad ma se parliamo di tramonti ci
viene solo "è rosso". Di quanti uccelli conoscete il nome? Di
quante piante? Sapete quali semi o erbe raccogliere e lavorare
6 Ibidem.
7 Ibidem.
per farne unguenti e medicinali? No... Non sappiamo nulla di
quelllo che conta... siamo soli, intrappolati. Vedo le foto delle
ragazzine a cui importa solo uno scatto, un album, i capelli
colorati, le finte adulazioni di chi vuole scoparsele fingendo di
amarle. Vedo il vuoto, volti vacui di gente ubriaca o narcotizzata
dalla moda, persi in ridicole pose da bestie nei bar o in foto
deformate con la scritta di un locale del cazzo. Sono tutti
uguali. Dov’è l’individuo? Dov’è l’artista? Dov’è la nuova
generazione che può cambiare il mondo? Mentre degustate il vostro
decimo cocktail della serata consumando la busta paga di vostro
padre, persi sugli schermi dei vostri I-PAD, senza guardarvi in
faccia l’un l’altro, ubriachi e senza dignità, pensate a quanti
bimbi sono morti per spalare le miniere da dove esce il bel
rivestimento anti-graffio, o chiedetevi quanti morti ha sulla
coscienza chi produce la vostra tecnologia, le vostre bibite, il
tizio che scrive il nome sulle vostre mutande. Basta continuare a
dire "tanto non si può far niente"... non è vero, non è così...
siete colpevoli... io sono colpevole per primo... è così evidente
la verità... il sangue scorre sulle nostre teste. Non siamo noi il
boia, ma siamo noi il re nell’ombra che detta la condanna... Dov’è
l’amore?
Ogni sera, durante la settimana, guardo mio padre che crolla
stanco sul divano o sulla sedia, con il gomito appoggiato sul
tavolo e il palmo della mano sulla guancia. Potrebbe
risparmiarselo se la vera scienza fosse accessibile a tutti.
Potremmo risparmiarcelo tutti, lavorare non più di cinque ore al
giorno e andare in pensione a cinquant’anni. Mio padre dovrebbe
essere in pensione e pensare soltanto a come godersi la vecchiaia,
in mezzo agli animali e alla campagna che ama tanto. Purtroppo,
gli stessi "uomini" che hanno riempito i campi di catrame, hanno
deciso che i poveracci come noi devono lavorare fino a crepare
d’infarto, sotto una pressa deformante o nel fumo di un altoforno.
Io credo nel perdono e nella comprensione dei peccati ma, se mi
trovassi faccia a faccia con gli idioti della politica, non so se
mi tratterrei dal picchiarli a sangue secondo la legge della
jungla.
7 Due passi a Parigi
Tra gli specchi di Versailles mi trovavo a casa, in mezzo all’oro
colante e ai candelabri di ghiaccio illuminati da tremila
fiammelle. Osservavo quei volti familiari che mi fissavano dal
’700 con l’aspetto di incontri fugaci intercettati sui gradini
d’ingresso. Era come se ci avessi parlato lì fuori, sotto la
statua equestre di Luigi XIV tra le fontane dei giardini. Mi
fermai davanti al trono e guardai diritto sul fondo, indifferente
ai turisti ma avvolto nel ricordo di balli perduti, di abiti ampi
e crinoline sottogonna. Le vedevo ondeggiare al suono degli archi,
disegnando labirinti di passi da un capo all’altro dell’immensa
sala. Il trono era mio, c’ero già stato seduto. Eppure io odiavo
quella gente, persa nei loro fronzoli mentre i topi e la peste si
nutrivano del volgo.
Coi topi ci dormivo anch’io nelle notti insonni di Parigi, in un
ostello fatiscente a pochi passi dalla Torre Eiffel. Era aprile e
dal vetro rotto della camera seguivo le luci intermittenti che si
inseguivano sulle travi fino al cielo, per poi tornare a terra
come stelle cadenti sui Giardini del Trocadero. Se parli di
Parigi, la gente pensa al Louvre e immagina di superare l’ala
Denon per arrivare alla Gioconda. Ignora la statua di Nike e si
infila tra la folla per liberare i flash di fronte alla tela di
Leonardo, chiocciando sul come Napoleone la rubò all’Italia. Non
sanno che al tempo di Napoleone il dipinto si trovava in Francia
da quasi 300 anni, regalato dallo stesso Leonardo al sovrano
Francesco I Valois. Ma la Gioconda è vanitosa ed emana profumo di
loto, così che i turisti notano appena la grande tela alle loro
spalle, le Nozze di Cana del Veronese che ricoprono un’intera
parete di dieci metri per sette. Semmai è di questo quadro che
Napoleone fece bottino di guerra.
Ho visto Parigi in due giorni e ho camminato fino a sfiancarmi,
dispensando occhiate dalla bastiglia ai gradini di Montmartre, con
il vento che sfogliava immagini di vita borghese mentre mille
pensieri mi scalfivano nell’intimo. Allora ero capace d’amare, ero
pieno di Lei benché cuore e mente fossero agitati dal timore di
perderla. Ero dipendende da Lei come fosse una droga. Solo oggi mi
rendo conto che il bisogno di qualcuno, o di qualcosa, ti rende
incapace di offrire sia pace che passione. E una donna ha bisogno
di entrambi. Se non ti basti da solo, allora sei destinato a
perdere tutto. Non sei diverso da uno stalker o da un tossico.
Parlerò di Lei a tempo debito, perché Lei mi ha salvato nel 2007,
dopo 4 anni di caduta nel Maelstrom.
Molti anni fa l’edificio del Louvre era il palazzo dei re di
Francia, destinazione che mantenne finché il Re Sole non costruì
Versailles. Così si spiegano gli intarsi dorati, il tesoro
sottovetro e il trono regale. Il museo è orientato in direzione
est-ovest, con un viale d’accesso che scorre tra la Senna a sud e
Rue de Rivoli a nord. Ci camminavo nel mezzo con la testa tra le
nuvole, distratto dall’immensa piramide di vetro nella Cour
Napoleon. Gli schiamazzi di anatre e cigni si confondevano
felicemente col rumore di clacson e motori scarburati. Poco più
oltre, verso ovest, a sbarrarmi la strada si parava l’Arc du
Carrousel, sormontato da una quadriga dorata che era stata
sottratta a Venezia nel 1798. Del resto la stessa Venezia l’aveva
rubata ai Bizantini nel 1204, durante il sacco di Costantinopoli.
I magnifici cavalli, scolpiti da quel Fidia che fece grande Atene,
celebravano adesso la vittoria di Napoleone ad Austerlitz contro
gli imperi di Russia e Germania. Forse Napoleone era solo un
nanetto megalomane, o forse no... Attraverso il velo del tempo che
confonde la memoria, mi pareva di scorgere in lui quel barlume di
grandezza che era già stato di Alessandro il Macedone.
Superato l’arco mi sono accorto della strana scelta di Le Notre,
il famoso architetto del ’600: l’asse del Louvre deviava verso
nord poco prima di infilarsi nei giardini di Tuileries, per la
precisione 26° a nord dell’ovest. Oltre i giardini, oltre le corse
dei cani e le carezze di giovani innamorati, mi aspettava Place de
la Concorde, dove svetta un obelisco alla testa dei Champs-
Élysées. (Un obelisco? Un ago?) Il viale dei Campi Elisi è famoso
più che altro per le sue boutique, ma chi lo costruì era mosso da
ideali più alti della moda vestiaria, e a causa di questi ideali
mantenne i 26° fino a sbattere sull’Arco di Trionfo. Il motivo
della scelta è di casa in Egitto, precisamente a Karnak. Pochi
sanno dei legami tra Parigi e l’Egitto, a partire dal nome Par-
Iseos (lett. 'vicino al tempio di Iside'). Se ci trovassimo a
Karnak, potremmo uscire verso ovest dal santuario del dio-sole
Amon-Ra, superare una serie di piloni e incontrare il gemello
dell’obelisco di Parigi che oggi si erge solitario dove prima si
alzavano in coppia. Da qui ci si inoltra nella grande sala
ipostila, un labirinto di 134 colonne dal tronco massiccio e
ricoperte da cima a fondo di geroglifici. A venticinque metri
dalle nostre teste resistono ancora le travi maestre che un tempo
sostenevano il tetto. É proprio qui che il faraone Seqnenre fu
ammazzato da Jubelo, quando Karnak e Luxor erano unite nell’antica
città di Tebe, in egiziano "Waseb". L’Egitto era diviso in due:
l’Alto Egitto, a sud, governato dai sovrani Hyksos, venuti da
Oriente; e il Basso Egitto, a nord, governato dai sovrani
autoctoni. Jubelo era un sicario del faraone del Nord, Apope II,
mentre Seqnenre era faraone al Sud. Quell’assassinio avrebbe
volute chiudere una volta per tutte gli scontri di potere, un
potere che non riguardava soltanto l’Egitto, ma che in modo
complesso coinvolgeva i mandanti di due gentiluomini in abito nero
che avevo incontrato a Losanna8.
Ma continuamo a camminare. Ci stiamo muovendo in linea retta, di
nuovo 26° a nord dell’ovest. Un viale di colonne conduce al
portale, massicce mura rastremate che incorniciano l’uscita,
protette dalla statua gigante di Ramses II. É difficile sfuggire
alla sequenza tempio/palazzo - obelisco - arco/portale. Il viale
punta al sole che 4.000 anni fa tramontava 26° a nord dell’ovest
nel solstizio d’estate e sorgeva 26° a sud dell’est nel solstizio
d’inverno. Davanti al Sole si scorgeva Sirio (la stella di Iside),
tornata visibile per pochi istanti dopo ben 70 giorni d’assenza.
Per magia del destino le stesse osservazioni valevano a Parigi nel
regno del Re Sole. L’astro tramontava 26° a nord dell’ovest l’ 8
maggio (festa di San Michele du Printemps, popolare nel medioevo)
e sorgeva 26° a sud dell’est il 6 agosto (festa della
trasfigurazione di Cristo). Ad accompagnarlo c’era di nuovo la
stella di Iside. Quando Le Notré copiò il progetto, i 26° di
Karnak passarono a Parigi. Il figlio del Sole, Ramses II,
rinasceva in Francia nel Re Sole, Luigi XIV.
La stessa inclinazione dei Champs-Élysées venne mascherata in un
famoso edificio a est del Louvre, qualche centinaio di metri più a
valle. É la maestosa cattedrale di Notre Dame sull’Ile de la Cité,
una singolare isoletta a forma di barca in mezzo alla Senna. Qui
l’allineamento di 26° è incorporato nell’asse della cattedrale
8 Si veda il breve racconto di fantasia inserito nel noto articolo sull'Esperimento Philadelphia.
stessa, sorta sulle macerie della cattedrale di Santo Stefano,
poggiata a sua volta su un antico Iseion9. In un impeto di
conquista avevo promesso di sposarLa laggiù, nel gioco di vetrate,
ombre di santi ed echi di preghiere, immaginando il Suo abito
bianco che sfilava tra colonne e archi rampanti. Mi chiedo cosa
valga adesso quella promessa, ora che lei non c’è più ed io non
credo più nello stesso dio.
André Le Notre non lavorò secondo i propri dettami, ma seguì uno
schema comune con Christofer Wren e Gianlorenzo Bernini. Nel 1665
i tre architetti erano stati riuniti nella capitale francese per
un concordare un progetto che avrebbe portato Karnak a Parigi,
Eliopoli a Roma e che avrebbe ricostruito Londra sul modello
dell’albero sefirotico, dopo che l’incendio del 1666 ne aveva
cancellato i lineamenti. Sullo stesso modello si basava la
cappella del King’s College (costruita tra il 1446 e il 1544),
come emerge dalle carte di John Byron (1723 - 1786), un massone
della "Taverna del Cigno Nero" e parente acquisito del famoso
astrologo John Dee. Erano gli anni in cui i grandi architetti
venivano assorbiti dalla neonata massoneria, la vera erede di
Apope e Seqnenre. É strano che la gente non si accorga delle
"coincidenze", altrimenti avrebbe messo insieme questa strana
sequenza di eventi:
• 4 marzo 1665, scoppio di una guerra tra inglesi e olandesi;
• Luglio 1665, diffusione a Londra delle peste bubbonica e
conseguente morte di quasi 100.000 persone (1/5 dell’intera
popolazione londinese). Migrazione dalla capitale di ben 2/3
dei sopravvissuti;
• 2 settembre 1666, Grande Incendio;
• 1688, ascesa al trono di Guglielmo d’Orange e costruzione di
un nuovo centro finanziario per accogliere il nucleo operativo
dell’Occhio che Tutto Vede, in trasferimento da Amsterdam a
Londra.
L’Occhio che Tutto Vede è la testa del 'ragno'; la massoneria è
una delle zampe, che non sono otto, ma otto decine almeno. Il
progetto di Wren fu forse concepito per onorare i nuovi arrivati,
e l’incendio del ’66 fu la scusa ottimale per metterlo in pratica.
Il piano comprendeva la Cattedrale di St. Paul, con la sua
imponente cupola, copiata poco dopo nel Pantheon di Parigi e nel
Palazzo del Congresso a Washington DC. La cattedrale si innalza in
corrispondenza della Sephirah Tipheret (bellezza) dell’Albero
della Vita cabalistico (a cui si ispira la mappa della città post-
incendio). Dal punto di vista astrologico questa Sephirah
rappresenta il Sole, il centro dell’universo che emana la luce e
la vita. St. Paul doveva essere il centro spirituale della città
rigenerata, risorta dalle proprie ceneri come una fenice per
guidare sul cammino spirituale la rinata monarchia Stuart (appena
restaurata dopo la rivoluzione di Cromwell).
9 Come ha osservato lo storico parigino Jean Phaure, l’asse della cattedrale parte da un angolo di 23,5° a nord dell’ovest, ma
incorpora una deviazione volontaria finendo con 26° a nord dell’ovest.
A Londra si trovava la sede inglese dei Templari, inizialmente
nella zona che oggi corrisponde ad High Holborn. Nel 1611 si
spostarono in una zona vicina che ancora oggi si chiama Temple
Bar. Qui si trova una chiesa a pianta circolare, secondo lo stile
tipico dell’Ordine, oltre ad alcune tombe di cavalieri. Tra le
proprietà dei Templari figurava anche la zona di Londra nota come
Strand e gran parte di Fleet Street la quale, fino a poco tempo
fa, fu sede dei giornali britannici nazionali. Il simbolo del
tabloid nazionale The Daily Express, che un tempo aveva il suo
quartier generale proprio in Fleet Street, è un cavaliere munito
di scudo recante il simbolo templare della croce rossa su sfondo
bianco. Le proprietà dei Templari si estendevano lungo le sponde
del fiume Tamigi, dove essi avevano i loro magazzini e uffici.
Durante il regno della regina Vittoria (r.1837-1901), l’Occhio che
Tutto Vede eresse un obelisco proprio in quella zona, e vi
affiancò una sfinge su entrambi i lati. L’Obelisco proveniva da
Eliopoli (come quello di Piazza San Pietro a Roma), e oggi è noto
come "Ago di Cleopatra"!
Dovrebbe essere chiaro che i tre aghi - di cui parlavano i
faccendieri di Losanna - sono proprio i tre obelischi di Parigi,
Londra e Roma. Dare un’occhiata oggi è impensabile, oltre che
inutile. L’anno scorso qualcuno ci è arrivato da sotto, scavando
gallerie. Hanno usato pompe pneumatiche e strisce di esplosivo,
sulla falsa riga del film Entrapment di Jon Amiel. Sotto
l’obelisco di Parigi e quello di Londra sono state recuperate due
scatole ermetiche di piombo. Una volta aperte col flessibile, al
loro interno hanno mostrato due pietruzze grezze di Uranio 236 e
Nettunio 237. In tutto questo c’è un problema: le scatole di
piombo sono state interrate nel 1800, ma c’è soltanto un posto
dove i minerali contenuti esistono allo stato naturale, e questo
posto è la Luna.
Sotto l’obelisco di Roma c’era invece una tela, il famoso quadro
di Nicholas Poussin, Les bergers d’Arcadie. Il nome di Poussin
viene a galla ogni qualvolta si parla di esoterismo o di "pensiero
sotterraneo". Poussin era nato nel 1594 a Les Andelys, un paesetto
vicino a Gisors, in Normandia. Proprio Gisors fu la città-
roccaforte dei Sinclair, una tra le famiglie più potenti
all’interno dell’Occhio che Tutto Vede. Di sangue vikingo, nel
1398 i Sinclair erano approdati in Nuova Scozia (Canada) in netto
anticipo su Colombo, grazie alla spedizione del barone Henry di
Rosslyn e del marinaio veneziano Antonio Zeno.
Nel 1623 Poussin eseguì sei tavole sulla vita di Ignazio di
Loyola per i gesuiti; arrivò in Italia nel 1624, sotto la
protezione del cardinale Barberini, ricco collezionista e mecenate
e, successivamente, incontrò Giambattista Marino, poeta alla corte
dei Medici che gli aprì le porte delle ricche famiglie romane. Per
la Basilica di San Pietro a Roma realizzò il "Martirio di
Sant’Erasmo" (1628 - 1629). Ripetutamente invitato a rientrare in
Francia, accettò soltanto nel 1640, quando venne a cercarlo il suo
amico più devoto, Paul Fréart de Chantelou. In patria fu ricevuto
con grandi onori: Luigi XIII (il padre del Re Sole) e il cardinale
Richelieu (consigliere del Re) gli chiesero di assumere la
supervisione dei lavori del Louvre; fu perciò nominato primo
pittore del re e direttore generale degli abbellimenti dei palazzi
reali.
Le opere di Poussin sono un costante richiamo all’Alfeo, il
fiume che costeggia Olimpia e spinge le proprie acque nelle grotte
profonde dell’Arcadia, da qui per poi riemergere nella fonte
Aretusa in Sicilia. (Questa almeno è la credenza popolare.)
L’Alfeo è il simbolo naturale del pensiero occulto, associato alla
saggezza dei Pastori d’Arcadia e al motto ET IN ARCADIA EGO
(anagramma di Tego arcana Dei, "Io celo i misteri di Dio"). Il già
citato re Sole era ossessionato da Poussin, al punto che fece
imprigionare a vita il solo cortigiano che avesse avuto contatti
con il pittore: il sovrintendente alle finanze Nicolas Fouquet.
Luigi impedì ai funzionari di toccare le carte e la corrispondenza
di Fouquet, pretendendo di esaminarle personalmente e in privato.
I soldati che parlavano con lui erano mandati nelle galere o
impiccati. Fouquet mantenne la vita grazie all’intercessione della
Compagnia del Santo Sacramento, una potente confraternita
insediata nel seminario di San Sulpicio (un nome da tenere a
mente). Nel 1685 Luigi riuscì a procurarsi il quadro di Poussin I
Pastori d’Arcadia e finalmente poté rinchiuderlo nei suoi
appartamenti privati.
La tela trovata a Roma aveva però una differenza sostanziale: la
scena si svolgeva di notte anziché di giorno, e nel cielo si
stagliava nitida la luna piena.
8 Scintille dal Gruppo Estivo
Nell’estate 2003 avevo appena finito il primo anno di università
con risultati più che apprezzabili. Ero tornato a fare l’animatore
per il grest parrocchiale e per un mese avevo scordato i miei
problemi. Non ho mai capito come funzionasse, ma quand’ero in
mezzo ai bambini tutte le mie ansie scivolavano via. Con loro mi
sentivo migliore, orgoglioso di ciò che insegnavo e orgoglioso per
le cose semplici: le battute, gli scherzi e i quattro tiri a
pallone. Mi volevano bene, tutti quanti. Le ragazzine mi correvano
dietro e facevano a gara per mettersi in mostra, facendomi sentire
bello per quanto possibile. Ricordo i loro nomi e i loro volti;
riesco persino a confrontarli con quelli di adesso, a compiangerne
il candore perduto e a soffrire per le finte ribelli, o forse
dovrei dire "conformiste travestite da ribelli"10. Sono convinto
che molte di loro abbiano cambiato opinione e mi considerino il re
degli sfigati. Che mi importa? Non dimenticherò mai la gioia in
piazza a Bassano quando vincemmo i mondiali e portai Jessica sulle
spalle... non era amore né perversione, era il piacere di sentirsi
accettati.
Sia quel che sia, fatto sta che l’ex bambino timido era
diventato una bestia da palcoscenico, capace di afferrare un
microfono e trascinare la platea. L’anno precedente avevo legato
fortemente con Linda e Nicole, le ragazzine che per prime mi
10
L’espressione “conformisti travestiti da ribelli” è stata coniata da Marco Masini per il singolo Vaffanculo, 1993
avevano messo sul piedistallo, e che per prime mi avevano visto
rotolare nella polvere. Avevo trovato mille scuse per mantere i
contatti, fregandomene delle chiacchiere di paese che mi
accusavano dei peggiori peccati. Nel 2003 le trovavo al mio
fianco, fiere colleghe e compagne di pizze sul cartone, mangiate
sul palco del teatro con le mani zeppe di pomodoro. Le avrei
abbandonate solo tre anni più tardi, accorgendomi a mie spese di
quanto fossero importanti. Erano finiti gli on-the-road, i lanci
col frisbee sul campetto del nostro wyoming, gli autogrill e le
luci dell’autostrada. Gli inverni erano di nuovo freddi. Soffrii
molto quando incontrai Linda e sentii accusare la mia scomparsa.
Senza saperlo ero stato il suo migliore amico, e me n’ero andato
senza permettere repliche. É tipico di me, fuggire da qualcuno
quando mi fa star bene. Allo stesso modo me ne fuggii dalla
ragazza ricciolina, dicendole che in fondo era soltanto sesso e
che lei meritava di meglio. Quando mi disse che io avevo bisogno
di fare il buono, che volevo fare il buono ma non lo ero, per un
po’ le credetti. Fu sempre Niki a farmi rinsavire, mandandomi a
fanculo, affermando che non aveva mai visto nessuno felice quanto
me in mezzo ai bambini. Forse allora ero buono per davvero.
Tra i ricordi più dolci si fa spazio una bimba che si diceva
innamorata pazza; non mi lasciava un solo istante e non perdeva
occasione per infilarmi in situazioni imbarazzanti, come se quasi
ci provasse gusto. Un giorno mi lasciò una lettera sopra lo zaino
alle piscine comunali, mentre mi allontanavo per una nuotata. Era
scritta con molte matite colorate e sul fondo era stato incollato
un piccolo orsacchiotto. Non ricordo il contenuto a memoria, ma
diceva qualcosa del tipo "l’amore non ha età", e poi la frase più
simpatica "le altre ragazze si innamorano per l’aspetto fisico ma
io mi sono innamorata perchè sei buono e gentile". Forse ero
proprio bruttino... Ho conservato quella lettera nel portafoglio
per anni finché l’ho persa insieme ai soldi e ai documenti, in
mezzo ai boschi della Sila.
Un altro ricordo, dolce, riguarda un’altra ragazza, anche lei
che portava quel nome: Sandy. Non so se fosse amore, perché lei
era troppo piccola rispetto a me, forse soltanto un affetto più
forte di altri. Sembrava di un altro paese: occhi azzurro cielo e
capelli lunghi, lisci e biondi. Non quel castano sbiadito che qui
chiamiamo biondo per accontentarci, ma una cascata di oro liquido
che brillava splendida sotto i raggi del sole.
Erano i giorni della mia buona stella, quando Nicole suonava la
chitarra nei corridoi dell’oratorio, ed io le ripetevo allo
sfinimento di quanto le stelle avessero a cuore la mia sorte.
La sorella di Sandy aveva più o meno la mia età e le stavo
decisamente sulle palle. Come darle torto? Le avevo dato della
prostituta... A mia difesa devo dire che non ero pienamente in me.
La mia patologia era ai massimi livelli e possedevo l’intelletto
di una locusta. Mi uscivano parole a caso, e quel "prostituta"
aveva preso il posto di "pagliaccia" usato tra l’altro in senso
ironico, per dire che la trovavo divertente. Ma vaglielo a
spiegare che si trattava di una strana dislessia e non di
un’offesa volentaria. Ci ho provato ma ho peggiorato le cose.
Poi però accadde uno spiacevole imprevisto: la 'sorella' cadde
dall’albero della cuccagna durante la sagra del paese. Doppia
frattura a tibia e perone, scomposta e frammentaria. Per un po’
sembrò che quell’incidente segnasse la fine di una tradizione
secolare. Ma è stata lei stessa, forte come una montagna, a
battersi affinché la tradizione continuasse. La andai a trovare
all’ospedale, una, due, tre, quattro volte. Ero lì spesso. Molte
volte ci trovavo Steven, un ragazzino che riusciva a farmi ridere
e farmi scordare il mio dolore. Purtroppo la sua vita ha preso uno
strano percorso: è diventato il bello della zona, aveva donne in
ogni paese e si sentiva un dio. Quel dio che si credeva immortale
ha scelto la droga per celebrare la sua estesi, e infine è caduto
nello spaccio per aumentare ancor più ricchezza e prestigio.
Purtroppo la vita non può essere imbrogliata a lungo, e anche per
lui arrivarono le manette, le sbarre e la fine della gloria. Alla
fine sono rimaste soltanto le malelingue.
Comunque chi amavo di più in quella stanza era certo lei, Sandy,
che ogni volta mi imbottiva di biscottini al cioccolato. Recuperai
il rapporto con la sorella e anche Sandy lasciò cadere le ultime
barriere. Lei mi aveva sempre apprezzato, ma il giudizio della
sorella la condizionava pesantemente.
Vivevano in mezzo ai campi; non c’era una strada asfaltata nel
raggio di due chilometri. Per arrivare da lei costringevo le
sospensioni dell’auto a una tortura di buche e dislivelli. Ma ne
valeva la pena. In mezzo alla vigna potevamo sederci con un fiore
tra le labbra e fantasticare di stelle e castelli.
Era stata lei a farsi dare il mio numero. Ricordo chiaramente
quanta felicità mi venne addosso quel giorno. Suonò il cellulare:
un messaggio da un numero sconosciuto. Lessi: "Ciao, sono Sandy.
Spero non ti dispiaccia se ho chiesto il tuo numero a mia
sorella". Come poteva dispiacermi? Lei, la mia preferita, mi stava
cercando.
Quando compì quattordic’anni le scrissi una lettera...
Ciao Sandy, Buon Compleanno.
Per me in questi tempi è quasi divenuta una tradizione
scrivere una lettera per il compleanno di coloro che son
felice di trovare dentro la mia vita; mi piace scrivere,
per me è come se le parole riuscissero ad ancorarmi al
momento in cui le poso sul foglio, al pensiero delle
persone a cui sono rivolte. Ultimamente ti ho sentita
vicina, cosa insperata se ricordo com’era la situazione di
un anno fa, quel litigio con tua sorella che lei credo
abbia capito essere stato frutto di un periodo in cui non
stavo tanto bene con me stesso.
Non so se merito o sono in grado di darti dei consigli; ho
sentito tante persone dire "fai questo, non fare quello"
dettando principi e valori privati, principi in nome dei
quali tante vecchie si ritrovano sedute in sala d’aspetto
dal dottore o sui sedili di un autobus, permettendosi di
criticare ed etichettare.
Nei miei vent’anni o forse solo negli ultimi, ho capito che
l’unico valore che conta davvero è il rispetto, il
chiedersi se quello che sto per fare porterà più del bene o
più del male a chi mi sta attorno, l’imparare a tapparsi le
orecchie alle chiacchiere, ragionare da soli strappandoci
dal cuore i germogli d’invidia.
So che crescerai bene e so che anche tu, come chiunque,
farai degli errori, grandi e piccoli, so che t’innamorerai,
piangerai e riderai, vedrai spiagge e montagne, mari e
laghi, che forte il vento soffierà tra i tuoi capelli, e
caldo e freddo sentiranno le tue mani e le tue labbra.
Non scordarti mai di guardare il cielo, forse non lo sai ma
ha bisogno del tuo pensiero, non scordarti mai di ascoltare
il mare, forse non lo sai ma ha bisogno di parlarti11, non
smettere mai di emozionarti di fronte ad un’alba od al
primo fiore che sboccia in primavera, perché è in questa
semplicità che l’anima trova la serenità della sua casa.
Ti auguro di andare lontano, di superare i tuoi sogni più
profondi e di non dimenticare mai di crearne nuovi, ti
auguro di tenere un giorno tra le braccia un bimbo che ti
chiami mamma.
Spero ci rincontreremo lungo la strada od almeno, se così
non sarà, se il tempo o gli uomini ci allontaneranno, spero
ci ritroveremo una sera con lo sguardo alzato al cielo a
guardare la stessa stella tra le stelle. Trovo affascinante
pensare a quegli uomini che migliaia di anni fa, seduti
attorno a un fuoco, innanzi una capanna ci vedevano storie
di eroi e chimere e i volti di padri che solo il ricordo e
la tradizione tenevano in vita. Mi piacerebbe accendere lo
stesso fuoco un giorno e guardando il firmamento, leggere
le nostre storie per riscoprirci tutti i particolari che
avremo scordato, tutti gli amici e gli amori persi e
ritrovati, i viaggi, i sorrisi e le grida, così... ,per
poter portarli con me nella gita finale, quando il fiore,
stanco e appassito si chiuderà per l’ultima volta...
Ancora Buon 14esimo Compleanno!
Divenni "di casa" e anche sua mamma cominciò a volermi bene.
Qualche domenica più tardi Sandy avrebbe voluto andare in
discoteca di pomeriggio, al Theatro. Sua madre giustamente era
preoccupata, perché nessuna tra le amiche di infanzia, quelle che
lei conosceva bene, sarebbe stata con sua figlia. Ci andavo
anch’io ogni tanto in quella disco, e probabilmente Sandy ne era
cosciente quando mi scrisse quel messaggio: "Cosa fai oggi? Io
volevo andare al Theatro ma non sono riuscita a convincere mia
mamma". Bastò davvero poco, "Dille che ti accompagno volentieri
io", le risposi. Sua madre acconsentì. Mi vedeva come un figlio
acquisito, il fratello maggiore di Sandy. Ebbe da ridire più
tardi, quando scoprì che provavo per lei dei sentimenti. Per
qualche mese mi guardò col broncio, ma poi ci parlammo e comprese
che mai e poi mai avrei alzato un dito su sua figlia.
Quella domenica ricevetti un altro messaggio: "Ti mette a
disagio se mi metto la minigonna?". Non ho ancora capito perché
11
Ispirato a Non Scordarti Mai, una canzone di Leano Morelli
mai avrebbe dovuto dispiacermi. Godere della sua bellezza, sia
pure da critico distaccato, sarebbe stato comunque un privilegio.
Era una gonna corta, bianca e pieghettata, da cui scivolavano due
gambe lunghe e rosa porcellana.
Quando il mio amore venne a galla, anche lei si allontanò,
insieme alla madre. Servì un’altra lettera per farle sapere ciò
che non potevo più dirle di persona:
Un giorno di tanti giorni fa ho trovato un messaggio sul
telefono... un numero nuovo... ciao... spero non ti
dispiaccia se mi son presa il tuo numero... non era
inaspettato... era bello... Oggi a quel numero avrei voluto
chiamarti, non so infine perchè non l’ho fatto, forse
perchè di preciso non avrei saputo che dirti, volevo sapere
come stai, come vivi; sono passati molti giorni dalle
nostre ultime parole e mi dispiaccio poichè avrebbero
potuto essere migliori. Non sono stato ottimo con te quella
sera, non ero al meglio, troppe cose non andavano allora,
qualcuna è stata sistemata, altre ancora no, troppo forte
era il bisogno di una donna che mi stesse accanto e troppo
facile era cercarla in te, avrei voluto importi quel ruolo,
almeno nella mia testa, per rendere perfetta almeno una
parte della mia vita. Forse troverai note tristi nelle mie
parole, non voglio te ne preoccupi, io sono uno che cade e
si rialza, purtroppo a volte perdo la testa quando sono a
terra e quella luce perduta, mia ispiratrice in tanti
scritti, a volte è madre di atti che non vorrei. Mi
piacerebbe tornare a quella sera in collina, non so se la
ricordi banale, a volte me ne hai dato la sensazione, ma
quella è stata l’ultima volta in cui siamo stati fratello e
sorella, poi tutto se n’è andato e si è spento, siamo
diventati due conoscenti per cui un "ciao" può bastare...
vorrei riabbracciarti, un abbraccio meno forzato di quella
sera a casa tua, vorrei guardarti negli occhi in silenzio
aspettando le tue parole, vorrei passare una notte in giro
assieme a guardare le luci degli uomini e quelle più alte
di Dio, ma chissà, potrei tornare ad innamorarmi di te e
ancora ne soffriremmo, ne soffrirei... Non ti chiedo che
una cosa, fa che non sia tutto qui, fa che il mio ricordo,
quando ne tocchi per caso la corda, non suoni come la voce
di uno qualunque, dagli almeno un posto caldo accanto al
tuo cuore ove possa salvarsi al tempo e agli sbagli.
Oggi sono tornato lassù, mi sono seduto sul palco e ho
guardato verso il mare, il mare che mi immagino nasconda e
confonda l’orizzonte, e ti ho rivista seduta con le
ginocchia sollevate di fronte a me, ma non m’è rimasto che
il profumo dell’edera selvatica cresciuta a ridosso del
muro... Io ti voglio bene... ancora...
Per un po’ in discoteca dovetti andarci con Steven e un altro
amico dei suoi. Per loro fortuna non ero cosciente dei carichi di
droga che portavo in macchina. Altrimenti li avrei smontati in una
cava e li avrei presi a calci in culo fino a farli rinsavire.
9 Una lettera dall’inferno
Avete mai scritto un testamento? Io sì, e senza il minimo accenno
ai patetici beni di mia proprietà. É stato soltanto il mio ultimo
saluto al mondo, e un grazie, per le brevi gioie del cuore. Anche
stavolta è stato inutile, un po’ come quei saluti che rivolgi ai
compagni di viaggio pensando di non vederli mai più, ma che poi ti
ritrovi ancora di fianco e guardi con imbarazzo nel tragitto tra
la stazione e il centro.
Una sera di agosto ero appena uscito dalla stanza numero 6 del
reparto di ortopedia, dove la sorella di Sandy era bloccata da
quasi 15 giorni. Al di là delle finestre il sole si mostrava basso
sull’orizzonte e si univa all’odore acre di disinfettante per
spargere malinconia nei corridoi. Ed eccolo lì, appena oltre le
porte scorrevoli, che spingeva a fatica nell’atrio la carrozzina
di una donna anziana. Era il cardinale Quirini, un uomo di chiesa
che aveva superato da poco gli ottant’anni, mentre la donna
paraplegica era la sorella, ancora più anziana di lui. Gli passai
di fianco e mi fermò, uno fra tanti, chiedendo una mano per
avvicinare la carrozzina agli ascensori. Lo aiutai, non tanto per
la toga quanto per l’età, e mi offrii spontaneamente di allungare
il mio favore fino in camera. La donna era in visita al marito che
si trovava in terapia intensiva e, quando fummo davanti la stanza,
chiese cortesemente di entrare da sola. Così me ne stetti a
chiacchierare al di là del vetro con il signore dalla coppola
rossa, un uomo stranamente di ampie vedute per il ruolo che
ricopriva.
Ad un certo punto mi sentii abbastanza in sintonia per potermi
confidare, sperando che dall’alto dei suoi anni potesse trovare
una spiegazione ai miei problemi. Credevo ancora che la Chiesa
avesse una risposta per ogni quesito, però che la tenesse nascosta
per impedire vendette private. Purtroppo dovetti ricredermi,
perché il cardinale iniziò a raccontare una storia senza senso,
quasi una favola per bambini che non c’entrava nulla con la nostra
discussione: "Un gruppo di uomini uscì dall’Egitto ai tempi
dell’Esodo" attaccò "e strinse un patto con alcune società segrete
disperse tra la Siria e Babilonia."
"Partiamo da lontano..." commentai irrisorio, ma mi ignorò e andò
avanti.
"Di comune accordo inquinarono i vertici della comunità ebraica e
più tardi di quella cristiana; gli stessi uomioni avrebbero
comprato i giornali, creato banche, fondato multinazionali e
infangato i governi. Oggi sono loro che succhiano il sangue
dell’Africa e ne fanno carburante per il consumismo da essi stessi
attivato in Europa e America. Tutto era iniziato in un periodo di
violenti cataclismi: inondazioni, terremoti ed eruzioni
vulcaniche. Questi eventi avevano spinto i popoli ad eleggere un
comitato di eletti, uomini fidati che avrebbero avuto la gestione
delle risorse economiche e il compito di proteggerle. Al principio
si trattava di sementi, specie animali, utensili, indumenti,
ceramiche, ma col tempo si aggiunsero le armi, le memorie scritte,
l’oro, e infine il peggiore di tutti, il denaro. Al comitato
spettava l’elezione di un nuovo re qualora si interrompesse la
successione dinastica, e la loro scelta era al contempo
irrevocabile e indiscutibile. Ancora oggi viene fatto dalle banche
centrali, seppure in modo subdolo, manovrando i mass media e
tramite essi l’opinione pubblica. Se all’inizio gli intenti erano
buoni, col tempo il ricordo degli eventi si affievolì e il
comitato dimenticò il motivo della sua nascita: preservare il
progresso umano da ogni possibile catastrofe. Il potere li rese
avidi e bramosi di ulteriore controllo. In quel momento era già
troppo tardi per tornare indietro; ormai erano abbastanza forti da
sopravvivere per millenni, fino al giorno d’oggi."
"E questo cosa c’entra?" gli chiesi stizzito.
"C’entra, perché questi uomini controllano tutto. Hanno la
tecnologia e ne dispongono l’utilizzo. La usano per fare avverare
profezie e rafforzare la suggestione dei popoli. Non mi
sorprenderei se usassero la stessa tecnologia per disturbare le
menti".
A quel punto pensai che fosse uscito di senno. Lo ringraziai per
la chiacchierata e lo salutai avvicinandomi all’uscita. "Stammi
bene ragazzo... e alza gli occhi al cielo ogni tanto." "Intendi a
dio?" "Un po’ più vicino". Era serio (pensava alla luna). Me ne
fregai, schioccai la lingua sul palato e mi diressi verso casa.
Quando arrivò la notte maledetta mi mancava l’odore del fieno, i
pomeriggi passati a bordo della roggia ad inseguire raganelle.
Molte volte mi sono seduto sull’erba bagnata con un quaderno in
mano per raccogliere poesie dall’armonia dell’acqua. Anche di
notte ci andavo a piedi per smaltire una sbornia o soltanto per
chetare la malinconia, sperando magari che mi raggiungesse
Sabrina, la figlia dei vicini dai capelli biondi. Oggi mi manca di
più, come mi manca mio nonno; per quanto gretto e limitato ho
sempre provato ammirazione per la sua instancabile dedizione alla
vita contadina e in generale per la sua forza. Mi sembra strano
non vederlo più sul trattore o in mezzo alla polvere col rastrello
in mano. Mi avrebbe battuto a braccio di ferro fin prima di
salutarci. Ma adesso i campi non ci sono più... venduti dalle zie
al migliore offerente. Non ci sono più le mucche, ne il latte che
ogni sera andavo a prendere a casa sua, seguito a ruota da Daisy
per cui la frase "andiamo a prendere il latte" significava
"andiamo dalla nonna che magari ti dà un pezzo di carne". Anche
Sabrina se n’è andata. Ha preso un aereo e se ne sta ad un bancone
dei Caraibi, aspettando che un marinaio la porti via con lui.
É da alcune righe che tergiverso, aspettando il momento
opportuno per parlare di qualcosa che mi fa soffrire al solo
pensarci. Evidentemente quel momento non esiste, ne per parlarne
al mondo, ne per parlarne a pochi intimi. Arriva il momento
dell’inevitabile rivelazione, e non è mai opportuno. Ero sdraiato
sulle gradinate della piscina comunale quando la voce
dell’altoparlante mi convocò in portineria, dove mio padre mi
chiese di cambiarmi e di correre a casa perchè mia sorella stava
male. Ci cascai come un idiota, ancora convinto che esistessero
due mondi, quello reale e le mie "fantasie" popolate di demoni,
due mondi che mai avrei creduto venissero in contatto. Mia sorella
era in testa al divano, accartocciata contro i cuscini con il
volto con l’espressione catatonica. Poi alzai lo sguardo sul
tavolo della cucina e notai un foglio di carta a righe con
impressa la mia scrittura. Mi ero scordato di toglierlo dal
cassetto del comodino - tanto nessuno apriva mai quel cassetto - e
mia sorella aveva aperto il cassetto, alla ricerca di qualcosa che
non seppe mai spiegare. Ebbi un mezzo mancamento e iniziai a
piangere, gridando tra le lacrime che nessuno avrebbe dovuto
saperlo, che quello era il mio mondo nascosto e che non aveva
nulla a che fare con il mondo esterno. Dissi che quel mondo "non
esisteva". Invece era fin troppo reale, perché per ben due notti
aveva cercato di uccidermi. La pazzia possiede sfumature che non
si trovano nei film. Così in quelle notti ero convinto di non
respirare. Ero io che bloccavo i polmoni ma non me ne rendevo
conto. Se volevo respirare dovevo gonfiare e sgonfiare
coscientemente lo sterno e, non appena provavo a staccare la
mente, la respirazione si fermava, soffocavo... Ero sempre io a
fermarla, ma non me ne rendevo conto. Ora so che basta la fiducia
nel mio corpo e tutto si muove secondo i ritmi naturali. Basta
questo pensiero e il mio respiro va da sé mentre la mia mente
viaggia in mille più felici orizzonti. Per due notti però me
stetti a soffocare, invaso dall’ansia e dal sangue che inondava il
mio petto raffreddandolo. Di giorno riuscivo a distrarre la mente
con un tuffo in piscina: l’abbraccio dell’acqua era come la
carezza rincuorante di una mamma, la stessa che poco dopo avrei
cercato nella preghiera alla Madonna. Ma la seconda notte capii -
credetti di capire - che la sola soluzione fosse darmi la morte,
ma prima avrei dovuto salutare. I bambini del grest mi avevano
fatto capire il senso della vita, l’amore gratuito che poi
gratuito non è, perché il sorriso di ritorno è energia allo stato
puro. Grazie a loro mi ero sentito utile, un pezzo di un grande
puzzle che valeva quanto gli altri ma che era indispensabile
all’armonia dell’intero disegno. Salutai Amy, la ragazzina del
ballo che mi avrebbe salvato, e con lei tutti gli altri bambini
che mi avevano regalato un momento speciale, uno alla volta.
Aggiunsi che il diavolo mi stava perseguitando da cinque anni e
che ormai non c’era nulla da fare.
Dopo quella lettura i miei genitori credettero che odiassi la
mia vita e la volessi terminare. In verità era tutto il contrario:
io amavo la mia vita, in quei tempi più che mai, ma non ero più in
grado di viverla e non ero più in grado di reggere il dolore,
fisico e mentale. Fecero quello che era in loro potere
conformemente alla loro cultura: fui mandato dall’esorcista. Mia
sorella si riprese lentamente dallo shock grazie alla presenza
continua dei miei genitori che prontamente la portarono a
Gardaland e a Caneva World. Finalmente li aveva tutti per sé,
senza spartirli con quello strano fratello che in molti ritenevano
geniale ma che evidentemente si mostrava inetto nei rapporti
umani.
Quel fratello le avrebbe rovinato la vacanza. L’ultimo giorno
erano a Caneva quando arrivò la chiamata di mia zia. Non dormivo e
non mangiavo da tre giorni. Ero sopravvissuto alla mia festa di
compleanno ubriacandomi di birra e superalcolici per non sentirmi
soffocare. Avevo vomitato a destra e a manca come un cane malato.
I miei genitori non ebbero altra scelta: dovettero anticipare il
ritorno, sottraendo mia sorella agli scivoli d’acqua per
ricordarle - loro malgrado - lo stesso episodio che cercava di
dimenticare.
Ció che ebbe inizio quel giorno fu una bella lavata di cervello
il cui unico risultato fu aumentare le mie paure e chiudermi in
gabbie dorate sorvegliate dalla religione. Preoccupato dei miei
peccati, concentrato nella messa e nel rosario, anche l’azione più
ridicola e naturale finiva per ferirmi, convinto com’ero che un
pensiero avverso o una sega solitaria aprissero le porte a Satana.
Fu solo all’inizio che l’effetto placebo servì a chetare la mia
ansia e tenermi in vita, unito ad uno strano episodio accaduto
alla sagra di quell’anno e che riguardava un’altra delle mie
bambine. Ad ogni modo, chi più di tutti mi aiutò con fatti chiari
e parole impegnate fu soltanto Niki. Dopo il mio compleanno venne
lei, con Linda, a pulire lo stabile dove avevo fatto festa. Di lei
mi innamorai... fu la seconda, la prima dopo Sandy. Di lei avevo
già scritto anni orsono; pertanto, per non violare l’integrità di
quei pensieri, mi limiterò a copiare una lettera di addio.