Buon Natale e felice Anno 2015 ai nostri lettori · Anno LX n. 4 Ottobre-Dicembre 2014 Buon Natale...

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PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LX n. 4 Ottobre-Dicembre 2014 Buon Natale e felice Anno 2015 Buon Natale e felice Anno 2015 ai nostri lettori ai nostri lettori

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PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LX n. 4 Ottobre-Dicembre 2014

Buon Natale e felice Anno 2015Buon Natale e felice Anno 2015ai nostri lettoriai nostri lettori

IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, Con la cultura si mangia p. 3

A. Ferrajoli, L’Acquedotto romano dell’imperatore Claudio detto dei Ponti Rossi p. 4

A. La Gala, Un santo inpubblicità p. 11

E.Notarbartolo, Nelle formelle del portone del Maschio Angioino la ribellione dei baroni contro Ferrante d’Aragona p. 13

F. Lista, Il Crocifisso di Procida p. 15

S. Zazzera, Il Natale e l’Aldilà p. 16

R. Runcini, Le anime delFantastico p. 18

F. Ferrajoli, Andrea De Jorio p. 21

A. Del Grosso, I fondaci di Napoli p. 25

P. Carzana, Le abitazioninapoletane di Giacomo Leopardi p. 29

A. Arpaja Flores Edgcombe,Un reuccio discutibile p. 32

M. Ritrovato, Olga Sirignano p. 35

M. Piscopo, L’eredità morale di Raf Vallone p. 36

U. Franzese, Premio Masaniello p. 39

P. Accurso, 1965-2015“Edizioni 2000” p. 41

M. Rovinello, Napoli oggiattraverso la voce dei“Bastardi di Pizzofalcone” p. 43

Libri & libri... p. 45

LA POSTA DEI LETTORI

Nel leggere, con vivo interesse, l'edizione di gennaiodel Vostro periodico, mi sono trovato particolarmentecolpito dall'articolo del dott. Antonio La Gala riguar-dante il culto di S. Gennaro al Vomero. Nella fattispe-cie tale articolo tratta, tra le altre cose, dellevicissitudini di una cappella intitolata a S. Gennaro,la quale ho motivo di credere essere stata legata allamia famiglia e nei cui riguardi condussi a suo tempodelle ricerche, purtroppo fallimentari, presso l'archi-vio storico diocesano. Tale complesso trae infatti ilsuo nome alternativo (di "cappella Vacchiano" come,tra l'altro, viene citata anche nel detto articolo) dalmio quintisavolo d. Antonio Vacchiano, proprietariodella masseria ove sorgeva il luogo di culto. A tal pro-posito mi domandavo se fosse possibile, nella spe-ranza di non abusare della Vostra disponibilità conquestioni forse inappropriate, sapere quali siano lefonti bibliografiche e archivistiche da cui sono statetratte le informazioni, presenti nell'articolo, riguar-danti detta cappella, dacché non trovo riscontro di talinotizie con una ordinaria ricerca d'archivio.

Simone Vacchiano (e-mail)

Risponde Antonio La Gala:Nel ringraziarla per le parole di apprezzamento sulmio articolo, indico le principali fonti alle quali ho at-tinto le notizie sull’argomento che le interessa:Franco Strazzullo, Il Vomero fra storia e poesia, Na-poli, 1985, pag. 95 e nota 15, pag. 98; Giuseppe Pa-radiso, Arenella e dintorni, Napoli 2000, pagg. 32 sg.;Basilica patriarcale diS. Gennaro ad Anti-gnano, Pompei,1942. In particolareil suo antenato è ci-tato nel libro diStrazzullo, come ret-tore di una chiesettadella zona. Da dettefonti comunque nonè possibile ricavareassolutamente nien-te di più sulle pro-prietà della famigliaVacchiano e su dettafamiglia. Nel libroBasilica patriarcale,ecc. si parla di unadisputa sull’abbatti-mento della cappellache si svolse nel 1902su periodici ritengo però ormai introvabili. A mio giu-dizio ricerche potrebbero essere tentate esaminandole pratiche dell’abbattimento della cappella ed espro-prio del suolo, risalenti a metà degli anni Ottantadell’Ottocento, ricerche difficili da effettuarsi presso ilComune di Napoli e il catasto storico. Non vi riporreitroppe speranze.

Contatti: [email protected]

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La Cappella Vacchiano

La discussione che si è accesa tra alcuni componenti della giuria di un premio letterario, durante la ceri-monia di consegna dei relativi riconoscimenti, svoltasi nello scorso mese di settembre in una località

della Campania, ci induce a ritornare sul tema del concetto di “cultura”. In quella sede, infatti, è stata pro-spettata, da più parti, una concezione della cultura di tipo contenutistico – vale a dire, quantitativo –, iden-tificabile con l’acquisizione del maggior numero possibile di dati. Essa, in altri termini, corrisponde a quelconcetto di «cultura liquida», enunciato da Zygmunt Bauman, il quale la identifica in «uno dei reparti diquel grande magazzino dove è possibile reperire “tutto quello di cui hai bisogno e che potresti sognare” nelquale si è trasformato il mondo abitato da consumatori». Ebbene, se le cose stessero realmente così, sarebbeinevitabile riconoscere la correttezza dell’affermazione di quel personaggio del mondo politico, il quale pro-clamò che «con la cultura non si mangia».L’argomento di riflessione che intendiamo proporre qui, brevemente, ai nostri lettori verte, viceversa, sullapossibile concezione procedimentale – vale a dire, qualitativa – della cultura stessa, la quale si realizzerebbeattraverso una fase di acquisizione della nozione e una di comprensione (= individuazione del senso) dellastessa. Per intendersi, un corretto processo di acculturazione dovrebbe concludersi con la “digestione” del datoacquisito, con il che verrebbe ad attuarsi la trasformazione dei singoli “saperi” in un “sapere” unitario. Delresto, la conoscenza altro non è che “con-scienza”, ovvero scienza articolata.Così stando le cose, dunque, avrebbe torto, pur con tutto il rispetto che merita, Padre Dante, quando affermache «non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso» (Paradiso, 5.42 s.): sarà più corretta, infatti, la pro-posizione: «non fa scienza lo ritenere sanza avere inteso». Con l’ineludibile corollario che “con la cultura(vera) si mangia”.

Il Rievocatore

Editoriale

CON LA CULTURA SI MANGIA

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L’ACQUEDOTTO ROMANO DELL’IMPERATORE CLAUDIO DETTO DEI PONTI ROSSI

di Antonio Ferrajoli

La città di Napoli venne fornita della materiapiù preziosa per la vita: l’acqua dai Romani

per mezzo di un acquedotto, veramente gigan-tesco, voluto da Claudio Imperatore.Dopo la caduta dell’impero romano, tale opera,in modo particolare, a seguito del tempo, chevola, fu sottoposta a distruzioni in parte dagliinvasori barbari econ il passare deisecoli, per talecausa cessò la suafunzione.Di questa ciclo-pica costruzionesi sa lo scopo manon l’esatta epocadi quando iniziòla costruzione.Don Pedro di To-ledo (1532-1557),importante viceré,si prefisse di ri-strutturare dinuovo tale opera.Ordinò all’inge-gnere Antonio Lettieri di controllare bene lestrutture dell’acquedotto e di rimetterlo in atti-vità, nell’anno 1561. La relazione fu fatta dalBovio; una copia nel II libro «Volume Inta-rium» il Lettieri disse che la grande opera, cioèl’acquedotto, misurava 50.000 passi romanifino a Baia, e 43.000 fino alla nostra città, e nelmanufatto era in ottimo stato di conservazione

la parte muraria. La ristrutturazione non si ini-ziò perché il viceré defunse giovanissimo.Un ulteriore restauro fu fatto dall’Abate nel-l’anno 1846. Della precisa progettazione la re-lazione era la seguente: «Come ho accennato,non era a Napoli il termine dell’acquedotto,ma sibbene al gigantesco serbatoio la “piscina

mirabile” inBaia. “E, però,internatosi l’ac-quedotto nel colledi Capodimonte,appresso ai PontiRossi” riappa-riva, fino a pochianni fa, si sdop-piava in due rami,d’ambo i latidella via diSant’Eframo Vec-chio, dove ora ènascosto da re-centi costruzioni;indi seguitandoper sottoterra, ap-

pare di tanto in tanto in spiragli, e si osservasempre doppio sotto l’angolo est dell’“orto bo-tanico”. Indi prende la via del monastero di S.Maria ai Vergini, indi dal “Largo delle Pigne”,e sotto la porta di Costantinopoli, e va verso ilcolle di S. Eframo, là dove il Monastero dellaTrinità nel quale fino ai tempi di Carlo V im-peratore resta un grande serbatoio di distribu-

L’Acquedotto Claudio in una incisione del ‘700

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zione di acque, che fu barbaramente distruttoper ingrandire le mura che circondavano lacittà di Napoli».Dal Castel del Carmine l’acquedotto, dopo cheuna gran parte del liquido prezioso era stata di-stribuita per molte strade di Napoli, riprendevail suo percorso in una cavea di tufo vulcanicoove inizia il corso Vittorio Emanuele, dallaparte di Piedigrotta, e inoltre si rivede nuova-mente nelle vicinanze della Grotta di Pozzuolicavata nello stesso banco lapideo. In quel sito,poi, questo corso si divide in due tronconi: unova per oriente della collina di Posillipo, all’al-tezza più o meno della “Gajola”; l’altro versooccidente giungeva alla villa di Bruto (Nisida);l’altro sovrastava il colle che sovrasta il“Lagno diAgnano”, oveversava granparte delleacque inenormi pi-scine; poi per-forando ilmonte Oli-bano nella suadurissima pie-tra basaltica,che fiancheg-gia la via cheporta a Poz-zuoli, indigiungeva inquesta simpa-tica cittadina, distribuendo molta acqua. E dul-cis in fundo con un condotto di piombo dava leacque a Baia e per ultimo alla immensa “Pi-scina Mirabile” di Baia. Indi per sottoterra l’ac-quedotto nel colle di Capodimonte, appresso aiPonti Rossi, riappariva fino a qualche anno fain due rami, percorrendo lateralmente la stradache mena a Sant’Eframo Vecchio, indi percor-rendo sotto il suolo verso l’Orto botanico. Dilà si inoltrava verso il Monastero di S. Mariadei Vergini ch’è presso il Largo delle Pigne,indi passando sotto la porta di Costantinopolie, poi, andava verso il colle di Sant’Eframo,ove è il Monastero della Trinità nel quale ai

tempi dell’imperatore Carlo V restava unenorme serbatoio che fu ignominiosamente ab-battuto.L’Abate – non il pittore – nella sua prima me-moria constatava: «Entrava in Napoli forandosotto il Campo di Marte il colle di Capodi-chino, indi attraversando di sinistra a destra,in profondità l’antica consolare, che mena, dilato della chiesa di San Gaudioso giungendoai “Ponti Rossi” formando degli archi e “470”piloni di muratura mista di pietre a strati oriz-zontali di opera laterizia e reticolato.Appresso a quei ponti l’acquedotto entra nelcolle di Capodimonte, uscendo all’“Orto Bo-tanico” e lungo nella nostra cara città miglia16 e 2 miglia da Afragola e Pomigliano, indi

il resto l’ac-quedotto vasottoterra avarie profon-dità».Ora vi detta-glierò la de-scrizione delLettieri giàprima del-l’Abate. IlLettieri dà laseguente de-scrizione: «Etper tutto sem-pre ho fattodisterrar glispiracoli da

passo in passo et annettar in multi lochi lo pre-detto formale, talmente che è passato andarper dentro in una grande partita et se sono tro-vati integri, et acti ad ritenere l’acqua quandosence intromettesse, et da lo chito esce nellavia detta la Cupa de Miano. Ove apparanoarchi grandi de mattoni con lo formale disopra; et dalla passa per sotto la montagna, etescire per la via che si va ad Sancto Eufrimo,dove appare lo esito detto formale, et da dettavia escie per sotto la montagna alli archi chesono alla via che si va a Santo Jennaro vicinolo Monasterio de Santa Maria de li vergini;deppoi passa a la taglia de Santo Anello et per

La “Piscina Mirabile” di Baia

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sotto la porta de Santa Maria de Costantino-poli de Napoli. Et vicino detta porta un ramodel detto formale entrava dentro Napoli, sin-come si è visto quando se sono fatte le mura-glie nove, et andava per sotto terra fino allacrocevia de Santa Patricia, secondo io hovisto, dappoiché lo scrive Procopio in dettasua istoria; et l’altro ramo esce adcanto lecase de lo magn. Bernardino Moccia, che forodel reverendo cardinale De Aragona; et delladona sopra lo iardino del Mag. Ms. Sberto Be-nedetto (sic) in la strada che saglia al monteSanto Heramo; et in detto locho se deriva unaltro ramo de formale, che tirava verso Napoli,dove appare uno spiracolo, nel quale è statolevato lo terreno da torno et pare una colonnaquatra de fabbrica, che al presente nce è; etdalla passa a lo jardinodel quondam Ms. Gero-nimo Severino. Et dadetto locho se partevaun altro ramo delo pre-dicto formale et tiravafi ad Echia a la casa delillustris. Marchese deTrivio ssicome (sic) sevide in molti lochi.Doppo da ad Ghiainoet per la falda de laMontagna rispondesopra la grotta per la quale se va ad Pezuoli,in suo introito, dove prima sence saglieva percerti gradi ad sua cappella che nce, e al pre-sente; et in questo locho lo formale se spartevain due rami, et l’uno andava per la falda de laMontagna de Posillipo, et l’altro andava iustala volta di detta grotta appareno similmente sispariva in due rami, et l’uno andava ad manomancha per la falda de la predetta montagnade Posillipo dalla banda de ponente per fi a lasua punta, et de più passava più oltre per sopraarchi fatti sopra mare per insino all’isola deNitida, secondo appare evidentemente in moltilochi; et l’altro ramo del predetto acquedottopiglia ad mano dritta, per l’altro et tira versolo monte che sta sopra lo lagno di Agnano; cheal presente si è trovato nella via nova fatta iux-sta lo ponte de fabricha; et passando per detto

monte donava acqua in quelle grandi piscine,che sono sopra detto lagno di Agnano; et ne lavia che se ne va alo lagno de Agnano, ncè unospiraculo quale pare una colonna quatra defabbrica, et tirava lo predetto formale de Pe-zuolo, dove anco si vedono li formali, li qualitiravano verso Pezuolo, sincome si vede al pre-sente sotto le case del Ill. marchese di Trivio;et dallà vanno scorrendo per diversi rami – pertutto quello paese, quale ad tempo de romaniera molto popolato de grandissimi edifici, etdonava copia de acque in molte grandi piscineche sono per tutta quella regione, et de più,passava più oltre ad quella gran piscina mira-bile, fatta acciò che l’armate che se facesseronel porto de Baia, quale non ha acque se aves-sero potuto fornire de acqua in abundantia».

La lunghezza dell’ac-quedotto Claudio com-pleto dalle sorgentiAcquaro e Pelosi fino aNapoli sarebbe stata dikm. 76,766 mentre lasua vera distanza finoalla Piscina Mirabile diBaia fu km. 92,522. Intutto il suo corso l’ac-quedotto presenta unaluce rettangolare, conparte arcata superiore,

eccetto in alcuni punti siti ove il suo cielo è for-mato da grandi lastroni di terracotta, posti a ca-valcione forse per arieggiare l’acqua; ledimensioni cm. 0,79 per 1,85.Da quanto è stato esposto, in questa sintesi,non mancano elementi per tener presente la ne-cessità assoluta di non toccare i ruderi dell’Ac-quedotto Claudio, che sono ancora ai PontiRossi e tanto meno di abbatterli, per allargarela strada in quel posto; sia perché essi sono frai pochissimi residui della Napoli greco-ro-mana, dopo tanti scempi e distruzioni dei nostrimonumenti, e sia perché è possibilissimo che,con una deviazione stradale in quei pressi, sipossa evitare l’abbattimento. Nessuna nazionecivile lo permetterebbe nei nostri tempi e maise lo permisero gli antichi! Anche se qualchevoce discordante ha trovato di recente ospita-

La “Piscina Mirabile” (esterno)

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lità in un nostro autorevole quotidiano, nes-suna persona di buon senso potrà sostenere lanecessità di una tanto cinica demolizione.Senza dubbio essa non sarà riconosciuta pos-sibile e tanto meno approvata dalle autoritàcompetenti statali, Soprintendenti alla custodiae conservazione del materiale storico ed ar-cheologico giunto fino a noi.In passato, avemmo una letteratura, piuttostovasta, dai primi indagatori della topografia deiCimiteri paleocristiani di Napoli; la quale, natada una leggende, la andò sempre più ingran-dendo fino a darle un’apparenza di verosimi-glianza, che alla mia indagine critica dovevarisultare soltanto tale. Cotali pretesi topografiantichi, mossi da un fatto per essi impressio-nante, ritennero che i Cimiteri paleocristiani diNapoli fossero fra loro intercomunicanti,dando per giunta a tale ipotesi – naturalmentesballata – dimensioni favolose. Alcuni non te-mevano di asserire che cotali intercomunica-zioni raggiungessero persino Pozzuoli e, senzainterruzione, addirittura Roma ed i Cimiteri pa-leocristiani romani. Il motivo di cotali assurdeipotesi era riposto in alcune considerazioni difatto. Alcuni del popolo, forse anche prima delsecolo XVI, avevano notato che gruppi di cer-catori di tesori, forniti di fiaccole, lanterne eprovviste di cibarie, si introducevano, attra-verso buche e carafocchiole, nel sottosuolo;dove restavano alcuni giorni, entrando da unaparte e risalendo alla luce da altre consimiliaperture, talvolta abbastanza lontane l’unadall’altra. Quali tesori avessero trovato costoronon si potette approfondirlo mai, per il motivosemplicissimo che esistevano soltanto nellafantasia di cotali poveri illusi. La notizia, per-tanto, non dovette restare a lungo ignota a ladrie malfattori; i quali la sfruttarono benissimo,poiché, quando venivano inseguiti per esserearrestati dagli sbirri del Bargello, scappavanoa gambe levate verso qualcuno degli orificisuddetti, già prima ad essi ben noti, mettendosiin salvo in posti assai lontani dalla città. Nonsempre gli sbirri avevano il coraggio di inse-guirli e la leggenda prese corpo, data talvoltala vicinanza di Cimiteri paleocristiani, soste-nendo che si trattasse di sotterranei ambulacri

e cubicoli catacombali da Napoli a Roma. Gliarcheologi d’allora, coraggiosissimi nelle piùfocose polemiche, senza scomodarsi dai loroampi sedioloni cinquecenteschi, non sogna-vano nemmeno lontanamente di perlustrare ilsottosuolo, tanto più che non era da escluderein quei sotterranei misteriosi qualche non de-siderabile incontro con i diavoli, o con malfat-tori non meno temibili dei diavoli. Per taligiuste e ponderabili ragioni, pure propendendoper le intercomunicazioni fra i Cimiteri paleo-cristiani di Napoli, si astennero, fra gli altri,dalle indagini dirette Giulio Cesare Capaccio,Camillo Tutini, il Burnet, Carlo Celano, Ales-sio Aurelio Pelliccia, il Romanelli, il De Lau-rentis, il Sanchez ed altri non pochicannonissimi d’allora, confortandosi e soste-nendosi a vicenda nel difendere l’ipotesi sbal-lata. I primi sprazzi di luce si ebbero col (v. IlRievocatore) De Jorio, col Bellermann, con loScherillo, con lo Schultze, col Galante, perquanto anche al riferimento all’AcquedottoClaudio.Non è facile, almeno allo stato attuale delle no-stre conoscenze, precisare il percorso di questoAcquedotto dai Ponti Rossi a Sant’EframoVecchio e dalle adiacenze del Cimitero paleo-cristiano di Sant’Eufebio all’angolo settentrio-nale dell’Orto Botanico. L’Abate affermò diaver conosciuto la zona suddetta. Ma l’acque-dotto riappariva con ambedue le bocche in unfosso, che era fuori l’angolo settentrionaledell’Orto Botanico. Certo è che da persone emonaci, nati e vissuti nelle adiacenze dellachiesa di Sant’Eframo, molti anni or sono in-tesi dire che, dal sottosuolo della via BernardoTanucci, dove poi sorsero palazzi nuovi, si po-teva penetrare in un lungo cunicolo, che giun-geva sin nei pressi del Cimitero di SanGennaro Extra Moenia, e che di lì continuavaancora verso Chiaia. Quei popolani dovevanoavere inteso parlare dell’antica tradizione ederano convinti che si trattasse di cunicoli delleCatacombe di Sant’Eufebio, riallacciantisi conla suddetta di San Gennaro. Le nuove costru-zioni, pertanto, avevano chiuso l’orifizio diquesta diramazione dell’acquedotto, in quellaparte, che, partendo dalle adiacenze della

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chiesa di Sant’Eframo, giungeva alla piazza deiVergini, cioè poco lontano dall’antica valledella Sanità, dove perveniva, dopo avere attra-versato la parte settentrionale dell’Orto Bota-nico. Saremmo, quindi, innanzi ad una serie dicunicoli, da poter essere percorsi all’asciutto,probabilmente sin da quando Belisario tagliòl’acquedotto fuori le mura di Napoli, per asse-tare il popolo assediato.Ad ogni modo, se, nel 1561, il Lettieri li potettepercorrere quasi intieramente, e se ciò fu pos-sibile, anche se non intieramente, all’Abate,verso il 1842, non dovrebbe essere consideratoimpossibile che famosi banditi avessero potutoconoscerli in tempi anteriori e servirsene perrapide fughe.Questi cunicoli, attraversando la zona setten-trionale dell’Orto Botanico, si orientavanoverso la Casa dei Padri della Missione ai Ver-gini. Il ramo che da questa piazza andava versol’attuale Museo e, per la porta di Costantino-poli, volgeva verso le falde del colle di San-t’Elmo – verso la zona limitrofa all’attualeOspedale militare della Trinità –, giungendo aPiedigrotta si orientava verso la Piscina Mira-bile di Baia.Meritevole della nostra attenzione è la già ri-portata frase: «escie per sotto la montagna alliarchi, che sono alla via che se va ad sancto Jen-naro». Senza dubbio si tratta di archi di acque-dotto; i quali dalla piazza dei Vergini andavanoverso la basilica di San Gennaro, o per lo menofino alle vicinanze della basilica di Santo Ste-fano innanzi ad essa, nonché dell’altra di SantoAgrippino, vescovo di Napoli. Il Lettieri, se-condo un’ipotesi infondata, avrebbe confuso iruderi di un portico ecclesiastico medioevale,che dalla valle della Sanità – allora non ancoracolmata dai francesi – portasse, nei pressi dellaCatacomba di San Gaudioso, passando innanziall’ingresso della Basilica maggiore di SanGennaro; oppure, al suo tempo ancora esi-stenti, avrebbe riconosciuto autentici archi del-l’Acquedotto Claudio?La competenza del Lettieri, il quale benissimonella sua relazione risulta conoscitore dellaforma caratteristica delle arcate romane degliacquedotti, ben distinguibile dalle arcate di un

portico medioevale qualunque, lo avrebbe benfatto capire. Inoltre, non avendo noi nessunelemento per ipotizzare un portico ecclesia-stico medioevale, che da San Gaudioso me-nasse a San Gennaro, dovremmo avere laprova che gli archi romani non siano esistitimai. Essa potrebbe essere costituita soltantodalla precisa conoscenza del sottosuolo dellaattuale via, che, in pendio sempre decrescente,fino al Tondo di Capodimonte, risale dalMuseo alla basilica di San Gennaro extra Moe-nia. La quota della zona colmata è in rapportoall’altezza dell’attuale piano di calpestio, chesottostà dalla valle della Sanità a quella sovra-stante del ponte di Capodimonte.Pensato che i francesi, nel colmare il sottosuolodella via da essi elevata, non potevano averenessun interesse ad abbattere gli archi dell’Ac-quedotto, già visti dal Lettieri, poiché in essiavrebbero trovato un sostegno di base solidis-simo ed un non indifferente risparmio del ma-teriale colmativo di riporto per riempire la vallesino al ponte; ma al contrario il rinvenimentodei ruderi delle arcate suddette sarebbe, in teo-rica di profondità di quota, semplicissimo, sta-bilendo il rapporto preciso di declivio, in unazona qualunque interna di montagna, dove co-tali cunicoli dell’Acquedotto Claudio sussi-stono ancora, con un non meno esatto punto dideclivio di riferimento fra i Ponti Rossi ed i cu-nicoli cisterne nella parte settentrionale del-l’Orto Botanico. E, poiché i Romani nonconoscevano il sifone, se gli archi suddetti nonfurono demoliti dai francesi, essi potranno es-sere ritrovati sotto la via di Capodimonte allaprecisissima profondità, che corrisponderà alladiscesa in declivio continuante dai Ponti Rossiai summenzionati del piano di calpestio dei cu-nicoli suddetti interni delle cisterne dell’OrtoBotanico.Tutto ci porta a concludere che il Lettieri nonsi sia sbagliato; anche se noi non vedremo maiquello che benissimo potette vedere chiara-mente lui, che non era affatto un visionario. Inconferma di tale nostra opinione sta salda-mente in appoggio l’altra frase del Lettieri: «Etnarra anco Andrea Procopio che, avendo il pre-detto Bellisario assediata Napoli, ad quella

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levò l’acque, che scorreano dentro la città perAcqueducti edificati sopra grandi archi deMattoni; li quali sono quelli che se ne vedonoli fragmenti vicino San Giuliano et fora laPorta de Santo Januario vicino Santa Mariade li Vergini et in altre bande».Dunque, dopo una tale precisazione di raf-fronto, non si può concludere una differenza dicostruzione fra i ruderi dell’Acquedotto Clau-dio a San Giuliano – ossia fra quelli ancora vi-sibili ai Ponti Rossi – e quelli dei Vergini allaSanità, avendo ciò ben chiarito lo stesso Let-tieri: «et sempre per sotto terra dà in mezzo lastrada nominata di Chio sopra la ecclesia diSan Giuliano». Dunque il percorso, come pre-cedentementegià fu riferito,continuava daS a n t ’ E f r e m oVecchio ai Ver-gini, ed indi aSanto Agnello,per sotto la portadi Santa Maria diCostantinopoli.È bene ricordareche dalla via deiVergini, per an-dare a San Gen-naro, si dovevapassare accantoalla piccola Cata-comba di Sant’Eufemia, nel vicolo Lammatari,e più su a quella di San Gaudioso, prima che aquella di San Gennaro. Naturalmente questeadiacenze fortuite ed indipendenti dall’Acque-dotto diedero origine a facili supposizioni diintercomunicazioni fra i Cimiteri paleocri-stiani, attribuendo a continuazioni di essi i cu-nicoli dell’Acquedotto Claudio, del quale, nelMedio Evo e dopo, si era perduta ogni notizia,o quasi.Esaminiamo, intanto, un passo dell’autorevo-lissimo Fabio Giordano, in proposito: «Altervero antiquior Aquaeductus partim subterra-neis cuniculis, partimi pensili rivo, Neapoliminfluebat. Montanamque urbis artem, Theatra,Thermas et Gymnasium in fontium, Balnea-

rumque usum irrigans. Concipiebatur ad XLlapidem in faucibus oppidi quod Samum appel-labant, duplicique quidem alves invicem sub-sidiario, quorum parvo alter altero libramentosuperiori: ut quinto ab urbe lapide in pretiosaMonasterii Sancti Severini villa in subterra-neo, et infra in Fragolano agro ad SanctamMariam in Campanaria Turri, et post D. Ju-liani aedem super Clivi viam, et in Virginumsuburbio in arcuatis substructionibus partimlateritiis, partim tesselatis operibus aliisquefrequenter in locis inspicitur. Apparent in im-minentibus Urbis collibus non parve ejus ae-dificii reliquiae. In Patulci praesertim etOlympiano, ubi in Calamatiorum villa integra,

maximaeque ca-pacitatis castellavisuntur, undeper Hermi mon-tes ad Pausily-pum, Puteolos,Baias, Misenum,Nesidemque ef-fossis foratisquein colle coniculispercurrebat».Nel Liber Ponti-ficalis di Romaabbiamo in Sil-vestro: «Eodemtempore fecit Ba-silicam beatissi-

mus Constantinus Augustus in urbeNeapolitana, cui obtulit et dona haec. Patenasargenteas duas pensan. sing. libras decem. Ca-lices ministeriales 15 pensan. sing. lib. duas.Amas argenteas 2. pens. sing. libras quinde-cim. Phara argentea 20 pensan. singula librasocto. Phara aerea 20. pensan. sing. librasdecem. Fecit autem formam aquaeductus permiliaria octo». Qui, evidentemente, non si parla di una costru-zione di Acquedotto ex novo, ma soltanto di unrestauro, o al massimo di una modifica parzialedel già esistente Acquedotto Claudio, assai piùlungo di otto miglia. In conferma di questaovvia considerazione, abbiamo il ritrovamentorecente di una iscrizione, avvenuto nei pressi

I Ponti Rossi alla fine dell’‘800

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della sorgente, che alimentava l’AcquedottoClaudio a Serino. Da essa risulta che Costan-tino ed i suoi figli Crispo e Costantino II re-staurarono in alcune sue parti l’AcquedottoClaudio. Ciò non si oppone affatto a quanto af-ferma il Liber Pontificalis; anzi lo ribadiscecon una importantissima prova.Nel chiostro del convento di Santa Maria dellaStella, fino a non molti anni or sono, si potevadiscendere ad una notevole profondità nel sot-tosuolo, penetrando in lunghissimi cunicoli,che un vecchio laico dei Padri Minimi percorsein parte e che talora si biforcavano, tanto che,anche egli essendo con altri, ebbe bisogno diuna lunga corda per non perdere l’orienta-mento. Non li percorsero tutti, perché temet-tero che i mozziconi delle candele, cheavevano portati seco, non bastassero al ritorno.Poi più non vi discesero, quantunque se lo pro-ponessero._____________

BIBLIOGRAFIA

d. s., Lettera ai Consiglieri del Comune di Napoli sullelinee possibili per convogliare le acque Orciuoli di Se-rino (Napoli, ottobre 1868);d. s., Per provvedere di acque potabili la Città di Napolied 89 Comuni dei suoi dintorni (Napoli 1868);d. s., Lettera sulle acque (12 ottobre 1870, Napoli, lito.);d. s., Progetto per la condotta in Napoli di 100.000 metricubi al giorno delle acque del Serino, adattato ai criteristabiliti dall’On. Consiglio Comunale (Napoli, Tip.dell’Iride, del Giornale di Napoli, 1870);d. s., Su i progetti Laurenzano e Mendia per la condottain Napoli dell’acqua di Serino (Napoli, Tip. del Giornaledi Napoli, s.d.);d. s., La quistione delle acque e la nuova maggioranzanel Consiglio Comunale (Napoli s.d.);

d. s., Sunto di osservazioni sul Rapporto Lauria (Napolis.d., lito);d. s., Parallelo de’ due progetti Firmo ed Abate per leacque della Città di Napoli (Napoli, Tip. del Giornaledi Napoli, s.d.);d. s., Su due progetti per aumentare le acque potabili inNapoli (Napoli, Lombardi, s.d.);d. s., AMADEI L., Progetto di un Acquedotto propostoda una Società Anonima (Napoli, Trani, 1863);d. s., Lettera aperta ai Consiglieri Municipali di Napoli(Napoli, 27 luglio 1863);COSSOLA, LAURIA, MENDIA G., DE RENZI,GIURA, FIOCCA, Relazione su i lavori fatti dalla Com-missione nominata dal Municipio per le acque potabilidella Città di Napoli, rimessa al Sindaco (Napoli, 4 di-cembre 1863);GRAVEN A., Lettera sulle acque (Napoli, 17 luglio1863, lito.);D’AFFLITTO, BOBBIO A., CAPECELATRO E., DELCARRETTO G., DEL GIUDICE F., FIRRAO C., PA-DULA F., Rapporto al Signor Sindaco per la condottain Napoli di acque potabili (Napoli, Giannini, 1869);CLOSE G., Offerta di Giacomo Close e Compagni perla condotta delle acque in Napoli (Napoli s.d.);COMUNE DI ATRIPALDA, Deliberazione del Consi-glio Comunale di Atripalda del 31 luglio 1874. Sedutastraordinaria per le acque del Sabato. Estratto dal vo-lume delle Deliberazioni Comunali di A. È contro il pro-getto Abate. Si richiama alle Note ufficiali dei Comunidi Praia (17 giugno 1867, n. 109), di Pratola Serra (17giugno 1867, n. 36), di San Michele al Serino (18 giugno1867) e alla deliberazione del Comune di Atripalda del16 giugno 1867;GAETA C. e CARRELLI F., Lettera agli onorevoli Con-siglieri Municipali del Comune di Napoli, in data del 22mag. 1870; IDD., Sulle acque del Carmignano (Napolis.d., ma posteriore al luglio del 1866);IDD., Ai Signori Consiglieri del Comune di Napoli. Let-tera contro il progetto delle acque del Serino (Napolis.d., ma 1870?);GIAMBARBA A., Proposta riguardante l’ordinamentodefinitivo del servizio di distribuzione delle acque in Na-poli (Napoli, luglio 1867).

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UN SANTO IN PUBBLICITÀ

di Antonio La Gala

Fra i figli del secondo re angioino di Napoli,Carlo lo Zoppo, c’era Ludovico che non

divenne re perché morì presto. Invece di diventare re, fece però a tempo perdiventare santo.Un santo in una stirpe, quella angioina, i cui ree loro parenti, come scrive Pietro Colletta, «neipenetrali della reggianascondevano enormidelitti», sicuramente co-stituiva a fini politica-mente mediatici unaformidabile carta dagiocare. Anche perché – è sem-pre Colletta che ce lo ri-corda – gli Angioini,«nefandi nei penetralidella reggia, erano sullascena del trono riverentialla Chiesa, ergevano edarricchivano templi emonasteri, davano do-minio ai papi, concede-vano privilegi agliecclesiastici». Anche allora, comeoggi, (ma oggi per for-tuna in maniera menofisicamente cruenta), frai “penetrali” del potere e la “scena” mediaticadi perbenismo morale, qualche incoerenzac’era. Nulla di nuovo sotto il sole. Torniamo agli Angioini. Ludovico era animato da sincero e ardente fer-vore religioso, e vincendo le contrarietà frap-postegli dalla regale famiglia e anche un po’

dal papa, divenne francescano, per di più dellacorrente più pauperistica. Subito fu ordinato diacono, poi sacerdote, nellachiesa di San Lorenzo Maggiore, e infine, con-trovoglia (noblesse oblige), fu nominato ve-scovo di Tolosa dal papa Bonifacio VIII, didantesca memoria.

Ludovico morì a soli 23anni, nel 1287, forseanche a causa dei seve-rissimi stenti, sacrifici emortificazioni corporalia cui si autosottopo-neva. Con procedure veloci, (ibuoni rapporti fra papi ere “devoti” accorciano itempi), fu canonizzatonel 1317.Re Roberto non si fecescappare l’occasione disfruttare mediatica-mente l’occasione diavere un fratello santo,per celebrare il casato,la corona, ecc.Per essere efficace il“messaggio” mediaticodoveva essere ben visi-bile, forte, nonché ben

studiato in che cosa comunicare e come comu-nicarla. Roberto pensò di affidare il messaggio propa-gandistico ad un grande dipinto in una grandechiesa del “regime” angioino. Allora non c’erala televisione: i messaggi visivi li comunica-vano le pareti delle chiese.

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Commissionò una grande pala d’altare raffigu-rante san Ludovico di Tolosa da collocare nellachiesa di san Lorenzo. Il dipinto risultò com-posto da una tavola principale e da una predellaarticolata in cinque riquadri in cui venivanoraccontate storie della vita del santo. In una grande chiesa posta al centro di unacittà, che allora si percorreva a piedi in pochiminuti e in un tempo in cui si entrava e uscivadalle chiese, tale megadipinto non sarebbe ri-masto inosservato. La visibilità era assicurata.Per avere forza il dipinto-messaggio dovevaavere anche un testimonial di richiamo, un pit-tore di alto livello, un grande pennello perun’opera grande, doveva essere un’opera“d’autore”, “firmata”, e firmata da una pain-ting star. Sul mercato artistico del momento stava bril-lando alla grande la star senese Simone Mar-tini, che proprio in quegli anni aveva acquistatoparticolare “quotazione” con la Maestà nel pa-lazzo pubblico di Siena. Come avverrà secoli dopo per le star del calcio,l’ingaggio fu alto: cinquanta once d’oro e il ti-tolo di Cavaliere, (titolo che allora era un altosegno di prestigio – nonché di degnità – per chilo portava). Assicurata la visibilità e l’autorevolezza delmessaggio, occorreva ora studiare bene checosa comunicare e come comunicarlo con ef-ficacia.Doveva costituire un “segnale” che comuni-casse visivamente, assieme, alti valori religiosie la magnificenza della casata. Per ottenere questo risultato, però, bisognava“forzare” un po’ la cosiddetta “verità storica”. Ludovico che aveva scelto una vita di stenti esacrifici, e forse per questo era morto, che in-dossava vesti «sordida e dilacerata», dovevaessere raffigurato in tutt’altra maniera.E infatti, nel dipinto del cavalier Simone Mar-tini, il santo appare con aspetto non macerato,ma sereno, distaccato, regale; indossa unampio e morbido saio e un sontuoso piviale

con una larga bordura in oro, chiuso da un granfermaglio circolare in vetro smaltato ed è se-duto su una specie di sedia dorata e decorata,coperta da una lussuosa stoffa, poggiata su unabase lignea finemente intarsiata alla certosina. E compare in un apparato iconografico cherappresenta la santità con autorevolezza ed ele-ganza. Due angeli lo incoronano con una raffi-natissima corona, una via di mezzo fra lacorona per re e quella per santi. Ovviamente, essendo il beneficiario del mes-saggio, re Roberto doveva comparire nel qua-dro. Per rispetto alla santità, vi appare didimensioni ridotte rispetto al fratello santo, in-ginocchiato, ma comunque nell’atto di rice-vere da Ludovico, mediante un’altra elegantecorona, una “santa” investitura. L’incorniciatura della pala di legno doratoporta i gigli araldici angioini a rilievo; in tuttala tavola i decori sono raffinatissimi, tutti ele-menti che trasmettono ancora di più il messag-gio di potere, dignità, eleganza delcommittente. In origine la pala era ornata divere pietre preziose incastonate nelle corone,nella mitra, negli anelli, ecc. Il giudizio sulla strumentalizzazione mediaticadel santo in famiglia è difficile, perché è veroche Roberto fece “ritoccare” a fini propagan-distici la verità “storica” sul sacrificio che concoerenza Ludovico aveva fatto della sua vita,perseguendo un ideale religioso, ma non va di-menticato che lo stesso Roberto negli ultimianni della sua vita fu colto da una crisi misticache lo portò a prendere i voti dei FrancescaniSpirituali che vivevano nel convento di santaChiara in assoluta povertà. Tuttavia, crisi mistica di Roberto a parte, si puòperò fondatamente dire che un santo in mezzoagli Angioini che non disdegnavano di assas-sinarsi fra di loro, stona un po’.La pala d’altare qui descritta comunque è unadelle opere più rappresentative del Trecentoitaliano in cui Simone Martini raggiunge altilivelli di purezza, nonostante l’indulgenza acerte piacevolezze ornamentali.

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NELLE FORMELLE DEL PORTONE DEL MASCHIO ANGIOINOLA RIBELLIONE DEI BARONI CONTRO FERRANTE D’ARAGONA

di Elio Notarbartolo

Una costante nel tempo del comportamentodi una certa classe dirigente delle nostre

parti è stata sentirsi solo leggermente legataalle strutture dello Stato che, invece, dovreb-bero rappresentare e sentirsi in diritto di cam-biare campo per cercarsi un padrone piùgeneroso.Tutti sanno come finì l’orgoglioso esercito diManfredi a Benevento: i baroni napoletani tar-darono all’appunta-mento al confluviodel fiume Sebeto conil fiume Calore, e,quando comparvero,erano a fianco del-l’esercito di Carlod’Angiò e, da Ghibel-lini, si erano trasfor-mati in Guelfi.Anche la fine di Cor-radino di Svevia fu le-gata ad un fattosimile: il feudatario,da sempre fedele al-l’Imperatore Federicodi Svevia, e poi di Manfredi, fiutando la disgra-zia degli Svevi e del partito ghibellino, preferìpassare alla Storia come colui che contribuisceall’estinzione degli Svevi, consegnando Cor-radino ai feroci d’Angiò.Storie che si ripetono nel tempo sempre uguali:la famiglia Sanseverino non riesce ad accor-darsi completamente con l’aristocrazia an-gioina, si dichiara autonoma da Carlo d’Angiòsenza riuscire a fermare una coalizione capacedi tenne testa a Carlo d’Angiò e deve rifugiarsiprima a Salerno, poi in esilio. Solo Giovannida Procida, fuggendo dal suo feudo, fu tanto

pertinace nel suo odio verso gli Angiò da girareper tutte le sponde del Mediterraneo e oltre percreare quella coalizione che portò ai Vespri Si-ciliani e alla mutilazione dei possedimenti an-gioini dell’intera Sicilia.Fu quel seme voluto da Giovanni da Procidaduecento anni prima che portò alla completadisfatta degli Angiò e alla conquista di Napolidal magnifico Alfonso d’Aragona.

Nonostante la magni-ficenza del regno diAlfonso, pure l’aristo-crazia napoletanacercò di sovvertire ilpotere aragonese nonappena, morto Al-fonso, questo potere sitrovò in condizioni didifficoltà. Ma anchequesta volta i baroninapoletani ebbero lacapacità di portare atermine il loro dise-gno di cambiare pa-drone.

Ferrante, il figlio di Alfonso d’Aragona, ha vo-luto raccontare questo episodio noto come “ larivolta dei baroni” e incaricò lo scultore fran-cese Guglielmo Monaco di cesellare le portebronzee del Maschio Angioino con sei riquadricesellati a memoria di questa storia.Baroni ribelli volevano far tornare Napoli sottoil potere di Giovanni d’Angiò che vantava di-ritti ereditari di successione dal testamento diGiovanna II, ma la loro storia finì nella città diTroia di Puglia.I baroni erano traditori nono solo politica-mente, ma traditori e infidi di bassa lega tanto

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Ottobre-Dicembre 2014Anno LX n. 4da tentarne un agguato al buon Ferrante. Chie-sero a Ferrante di trattare una pace onorevolee proposero un incontro alla Torricella, pressoTeano. Era il 29 maggio 1460, e il giovane reAragonese, scortato da Gregorio Coreglia e faGiovanni Ventimiglia va a incontrare il co-gnato Martino Marziano, duca di Svevia, madei capi ribelli.Il primo riquadro superiore della porta bronzeariporta Ferrante a cavallo che discute con il co-gnato, che è scortato dal Coreglia e dal Venti-miglia. Il secondo riquadro riporta Ferrante dispalle che si difende dall’improvviso attaccodei suoi nemici. Nei due riquadri inferiori sonoriportate scene della battaglia di Accadia: ilprimo racconta la battaglia in atto con, sullosfondo, la collina dei baroni ribelli verso Troia. I riquadri al centro della porta del Castello ri-portano, infine, la battaglia di Troia.

Il primo riporta lo scontro armato sulle rive delfiume Scamandro che scende tortuosamentedalla collina di Troia. Sulla sua destra si scorgel’esercito ribelle in rotta con, in testa, i condot-tieri Giovanni d’Angiò e Jacopo Piccinino coni capitani Giovanni e Gaspare Cossa, mentresulla riva sinistra gli Aragonesi assistono al-l’umiliante ritirata dei nemici.Nel riquadro centrale di destra, si vede l’avan-guardia aragonese che entra nella cittadina inalto sulla collina, seguita dalle truppe con Fer-rante in testa che porta lo scettro e la corona. Bene, ora che abbiamo fatto scendere questastoria dai polverosi scaffali delle biblioteche,qualcuno di voi potrebbe trasformarsi in uncantastorie sotto il Maschio Angioino e raccon-tare una delle tante storie di Napoli, aggiun-gendovi un po’ di meraviglia, un po’ d’incanto,e tanto amore per Napoli.

Per celebrare i 150 anni della Co-munità Ebraica di Napoli, è stataallestita una mostra, che docu-menta la storia della comunitàmediante testi, fotografie e oggettiliturgici, tra cui molti rari docu-menti mai esposti in precedenza.Fra gli oggetti di maggiore inte-resse si annoverano un incunaboloebraico edito a Napoli nel 1492 e

una grammatica ebraico-latina, pubblicata a Venezia nel 1522, mascritta da Abramo de Balmes, esule del Viceregno. Importanti testimonianze provenienti dalla Comunità Ebraica, tra cuiun incunabolo ebraico edito a Napoli nel 1492 e una grammaticaebraico-latina, pubblicata a Venezia nel 1522, ma scritta da Abramode Balmes, esule del Viceregno, costituiscono il nucleo del percorsoespositivo. Ampio spazio è riservato, poi, ai banchieri Rothschild, chepresero in locazione i locali di via Cappella Vecchia, poi acquistati,dove tuttora si trova la Sinagoga, e alle altre famiglie (Soria, Recanati,Campagnano, Sinigallia, Ascarelli), che ebbero un ruolo nella la vitaeconomica degli ebrei napoletani. Completano l’esposizione le fasidelle leggi razziali, della Shoah e della vita odierna dal dopoguerrafino ad oggi. La mostra, ospitata dalla Biblioteca Nazionale di Napolidal 12 novembre al 12 dicembre 2014, sarà trasferita nell’Archivio diStato di Napoli dal 14 gennaio al 28 febbraio 2015.

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IL CROCIFISSO DI PROCIDA

di Franco Lista

Nella scena urbana vi sono alcuni particolari ele-menti che giocano un ruolo importante sia in re-

lazione con l’architettura nella quale sono collocati,sia per la veste simbolica da essi assunta nel corso deltempo.Di questa considerazione ho negli occhi e nella menteun’immagine di cui mi servirò come concreta e realecorrelazione non tanto per non fare apparire comemero enunciato teorico la mia iniziale riflessione,quanto invece per segnalare, un discutibile interventooperato alla Marina Grande di Procida.Si tratta dello storico Crocifisso dipinto e sagomato in legno, risalente alla prima metà dell’800,posto su di una base rivestita di antiche maioliche a stretto contatto con la banchina del porto.Un’immagine rilevante della quale la dettagliata specificazione formale restituirebbe ben pocodel suo stratificato valore simbolico, dal momento in cui in questo Crocifisso si riflette non solola devozione e il diffuso, notorio credo religioso dei procidani, ma direi l’individualità, le rela-zioni e gli affetti della famiglia procidana. Mimì Ferrara ne fece, nei suoi ammalianti versi, fontedi quel sentimento insorgente nell’uomo di mare procidano quando si distacca dalla sua isolaper la lunga navigazione o quando ritorna e, nel percepire sin da lontano la sagoma del Croci-fisso, s’appresta alla gratificante e riconoscente accoglienza isolana.

* * * Allora, mi chiedo, perché mai questa riconoscibilità del Crocifisso,assicurata dalla sua interiorizzata sagoma non è stata conservata?Il recente restauro, per ovvie ragioni di conservazione, ha provvedutoa chiuderlo in una sorta di bacheca che però non ne assicura la buonapercezione. Infatti, la storica sagoma del Cristo sulla croce non siscorge più poiché uno dei due lati della bacheca protettiva, realizzatain lamiera dipinta, non è trasparente come quello anteriore.Il semplice confronto tra “il prima e il poi”, affidato a due fotografie,è indicatore di una non lieve mancanza di sensibilità e meravigliamolto che nessuno finora abbia messo in evidenza questa imperfe-zione, alla quale, naturalmente, si può riparare.Questo, in sostanza vuol essere lo scopo della presente nota: solle-citare i protagonisti dell’operazione di restauro a rimuovere il fondo

opaco e sostituirlo, come per il lato anteriore, con un fondo trasparente in modo da ripresentareil Crocifisso con la sua sacra e storica sagoma.Speriamo bene!

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IL NATALE E L’ALDILÀdi Sergio Zazzera

Un’antica tradizione napoletana – pur-troppo, andata perdendosi nel tempo –

vuole che la domenica successiva all’Epifaniadal Presepe domestico1 siano tolte tutte le fi-gurine dei pastori e al loro posto siano collo-cate quelle delle “Anime del Purgatorio”2, lestesse che sono presenti in numerose edicoledevozionali della città3. La singolarità di taleusanza impone che se ne indaghi, da una parte,il senso e, dall’altra, l’origine.Orbene, il senso della pratica in questione èravvisabile nella relazione fra il “mondo deivivi” e quello “dei morti”, che nel napoletanoassume una connota-zione particolare, atratti perfino folklori-stica4. Più precisa-mente, il ricordo deidefunti, che il calenda-rio liturgico dellaChiesa cattolica col-loca immediatamentedopo la festività diOgnissanti, nei primidue giorni del mese dinovembre5, si ripete, a Napoli, nel giorno chesegue immediatamente le principali feste del-l’anno: il 26 dicembre e il Lunedì in Albis, in-fatti, sono dedicati dai napoletani alla visita alCimitero, quasi che anche ai morti si voglia faravvertire la gioia di quei giorni lieti. Non di-versamente, dunque, la domenica che segueimmediatamente l’Epifania, la memoria deitrapassati si celebra mediante la collocazionedelle statuine delle Anime purganti nella grottadel Presepe; d’altronde, secondo un’antica tra-dizione orale, quelle medesime anime, liberate

dalle messe celebrate il 2 novembre, si tratter-rebbero sulla Terra proprio fino al 6 gennaio6.Un accenno, peraltro, merita la composizionedel gruppo di statuine, che consta, oltre che delCrocifisso, dell’Addolorata, dell’Angelo pian-gente e del teschio, anche dei quattro bustiemergenti dalle fiamme, vale a dire, quelli delGiovane, del Vecchio, della Donna e del Sacer-dote, nei quali, con modalità estremamentesemplificativa, il popolino intende classificarel’intera umanità.Né, altresì, la consuetudine napoletana èl’unica che si estrinseca nell’arco temporale

delle festività natalizie,ché può essere ricor-data, quanto meno,quella costituita dalPresepe pugliese, tipicodell’area di Grottaglie7,nel quale, oltre alla pre-senza della Morte ar-mata di falce, si registraquella di una quantitàdi cortei funebri, che,con la partecipazione di

confratelli negli abiti più disparati (rossi, vio-lacei, verdi, neri) e di sacerdoti in cotta e tri-corno, muovono in tutte le direzioni.Quanto, poi, all’origine della pratica, non sem-bra azzardato il richiamo al culto domestico deiLares, radicato nel mondo romano, dove nel-l’atrium delle case un’edicola accoglieva laraffigurazione plastica – ma, talvolta, anchesoltanto dipinta – degli antenati della famigliache le abitava8. La funzione, infine, che tali statuine assolve-vano, era quella di difendere la sicurezza della

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casa dei loro discendenti, favorendo la prospe-rità e la fedeltà di questi ultimi9. Si può, dun-que, concludere nel senso che, in manieraanaloga, la collocazione dei simulacri delleAnime purganti nella grotta del Presepe av-viene con la finalità di propiziarsene la prote-zione; né la limitazione temporale della loroesposizione può far ritenere parimenti limitatanel tempo tale protezione, giacché, come sisuol dire a Napoli, “basta il pensiero”.

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1 Sul quale cfr. O. DENTE GATTOLA, Mo’ vene Na-tale..., Napoli s.d., p. 28 ss.2 Cfr. U. FRANZESE, Facimmoce ‘a Croce, Napoli2009, p. 17 s.; G.C. SANNIA, La rappresentazione delPresepe, in La Rassegna d’Ischia, n. 6/2012, p. 31. Nel

Presepe della chiesa di Santa Marta la grotta delle Animedel Purgatorio è stabile: cfr. C. CANZANELLA, Raz-zullo e la Sibilla, Napoli 2006, p. 168.3 Sul punto cfr. A. MARINIELLO, Il culto dei defunti aNapoli, Napoli 1982, p. 42 s.4 Cfr. A. MARINIELLO, o. c., p. 13 ss.; S. DE MAT-TEIS - M. NIOLA, Antropologia delle anime in pena,Lecce 1993, p. 13 ss.5 Cfr. A. CATTABIANI, Calendario, Milano r. 1994, p.311 ss.6 Cfr. G. RANISIO, La città e il suo racconto, Roma2003, p. 145.7 Cfr. R. DE SIMONE, Il presepe popolare napoletano,Torino 1998, p. 71 ss.; C. CANZANELLA, o. c., p. 114;137.8 Cfr. U.E. PAOLI, Vita romana, Milano r. 1990, p. 59;N. TURCHI, Il Paganesimo, in Guida allo studio dellaciviltà romana antica, dir. da V. USSANI e F. AR-NALDI, 1, Napoli 1971, p. 200.9 Così F. RAMORINO, Mitologia classica illustrata16,Milano 1988, p. 262.

Come avviene, ormai, da alcuni anni, le celebrazioni delle QuattroGiornate di Napoli sono state concluse, il 2 ottobre scorso, da un

corteo, che commemora quello che, inquello stesso giorno del 1943, accompagnòi caduti della masseria “Pezzalonga” alla se-poltura nello Stadio vomerese. La manife-stazione, organizzata dal Comitatoprovinciale A.N.P.I. diNapoli, d’intesa con la5a Municipalità Vo-

mero-Arenella e con il Liceo classico “J. San-nazaro”, ha visto la partecipazione di studentiprovenienti anche da altri istituti d’istruzionesecondaria e si è conclusa in via Luca Giordano, nello spazio anti-stante la scuola elementare “L. Vanvitelli”, dove un coro di bambiniha intonato Bella ciao.

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Presepe pugliese(Procida, chiesa di San Giuseppe)

Realismo e simbolismo costituiscono sulpiano letterario i due poli di rappresenta-

zione mimetica o anamorfica della realtà. Latestimonianza diretta del vero e l’indirettaopera di finzione corrispondono a questi duepoli creativi in quanto registrazione o inven-zione dell’evento. Tra i due poli esiste uno spa-zio neutro, o piuttosto un’area disponibile aun’attività artistica distante tanto dal concreto

che dall’astratto, dal basso come dall’alto, mache riesce a coinvolgere quegli opposti livelliin un discorso narrativo apparentemente senzaprospettive tematiche, senza alcun senso, uneccentrico gioco di parole. Da questo giocoperò nasce la fantasia.In quello spazio neutro si inserisce appunto ilfantastico, un genere artistico e letterario pro-iettato sull’ignoto che attraversa i vari livelli e

LE ANIME DEL FANTASTICOdi Romolo Runcini

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Per commemorare la scomparsa di Romolo Runcini, sociologo e Maestro della letteratura delFantastico, avvenuta l’8 settembre scorso, ripubblichiamo questo suo scritto, già apparso nelfascicolo del 2004 di questo periodico. Le illustrazioni (a eccezione di The Time Machine) sonotratte dal catalogo della mostra I segni del fantastico (1958-2008), dell’incisore Mario Scarpati,che di Runcini fu amico e che ringraziamo per averne autorizzato la pubblicazione .

* * *

Pagine vive

gradi di manifestazione dell’evento e della suareazione fisiologica e culturale, la paura. Pas-sando dall’istintivo stato di allarme alle altera-zioni mentali dell’angoscia, dal terrore chespinge alla fuga all’orrore che blocca l’appa-rato psicomotorio, la paura costruisce sullacarta un labirinto di segni in cui racchiude lafigura inquietantedell’enigma.Ritenuto a torto un ge-nere narrativo minore,perché opera su eventie situazioni irrazionali,il fantastico sta attual-mente conquistando loscenario figurativo ci-nematografico e tele-visivo. Dal gothicromance del XVIII se-colo, che parlava dispettri e castelli infe-stati del medioevo, alroman du crime, cheparla della città otto-centesca, ossia dellarealtà quotidiana;dagli scientific tales diH.G. Wells, con cuinasce la fantascienza,agli attuali cyberpunktales, ossia racconti di una realtà virtuale, lascrittura fantastica ha costantemente segnato ipercorsi più audaci dell’incontro con l’altro dasé, con l’altrove, avvicinando – nel viaggio ini-ziatico e inquietante nelle tenebre della paura– l’impatto con una lettura profonda e violentadel nostro inconscio.Lo stile fantastico non si chiude mai in séstesso, non è autoreferenziale come può esserlolo stile lirico o tragico. Esso procede semprenel suo itinerario ambivalente fra determinatoe indeterminato. In basso e in alto, fra coseviste e intraviste. La sua cifra estetica è l’am-biguità; la sua scrittura folgorante e abbagliantescatena i brividi della paura affascinando il let-tore sull’immagine appena creata. Il piaceredella paura – che sovrasta qui il piacere deltesto – consiste così nell’affidarsi a stimoli e

sensazioni forti che conducano in un mondoaltro, diverso dal quotidiano eppure pericolo-samente legato ad esso: è un mondo scono-sciuto ma sempre immaginato, un approdovicino/lontano di ricordi e di incubi, uno spazioesistenziale inquietante.È in questo spazio insolito e inafferrabile che

spesso noi cadiamoallorché entriamo osiamo gettati in crisi.L’incrinarsi di senti-menti e di valori, losfaldarsi del soggettoe della comunità, ilvuoto personale e so-ciale provocano neltempo esistenziale estorico la crisi dell’ioe del noi.Ora dove la comuni-cazione letteraria delrealismo e del simbo-lismo non può rag-giungere erappresentare la dina-mica di un muta-mento simultaneopersonale e sociale,proprio la scritturafantastica riesce a co-

gliere i sintomi e le vibrazioni della profondaangoscia comune di fronte a situazioni minac-ciose e incommensurabili.È così che con la nascita in Inghilterra della Ri-voluzione industriale, a metà del XVIII secolo,con cui cadevano le ultime strutture feudali delPaese, emerge, nell’impatto emotivo e socialedi una crisi lacerante del vecchio ordine pro-duttivo di lavoro, l’istanza di rispecchiare (benoltre il realismo avventuroso e sentimentaledella prima metà del secolo) i disastri provocatisull’artigianato, sul commercio, sul sistemaamministrativo. Nasce allora, con il nuovissimo romanzo diHorace Walpole, The Castle of Otranto (1764),il gothic romance, il primo testo narrativo delfantastico moderno. Seguiranno testi di tal ge-nere di M.G. Lewis, A. Radcliffe, C.R. Matu-

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rin, C. Reeve e molti altri fino al terribile rac-conto di Mary Shelley, Frankenstein, or themodern Prometheus (1818) con cui si conclu-derà la serie gotica. In Francia, le derive urba-nistiche dell’industrialismo condurranno ametà dell’Ottocento agli sgomenti e alla de-nuncia sociale dei turpi misteri della città, cioèal roman du crime di H. Balzac, E. Sue, A.Dumas. Più tardi le paure per il troppo rapidoe invasivo sviluppo tecnologico porteranno,dopo il celebre romanzo di H.G. Wells, TheTime Machine (1895), all’avventura novecen-tesca della fantascienza.Oggi la paura del noto (la bomba atomica),piuttosto che dell’ignoto, è entrata dentroognuno di noi e può nascondere l’enigma mi-sterioso e catastrofico in qualsiasi angolo delquotidiano di fronte a noi, sotto di noi. Non èil futuro che ci atterrisce ma il presente: alle

apocalissi di fine del mondo si sono sostituite– per via delle crisi economiche, delle guerreregionali, degli stermini da ogni parte in causa– le apocalissi quotidiane. Chi meglio di Ste-phen King, prolifico e penetrante scrittore delfantastico, può interpretare e rappresentare inostri incubi per le inquietudini del mondo?Ad ogni modo il fantastico può vantare, nel suoattraversamento trasversale della scrittura digenere, alcuni fra i più grandi autori della let-teratura mondiale, da Luciano di Samotraciaad Apuleio, da Dante a Shakespeare, da Goethea Hoffmann, da E.A. Poe a H. Melville, e poia Conrad, a Kipling, a Lovecraft, a Landolfi, aBuzzati, fino a King che da quegli scrittori haereditato la forza creativa di rappresentare gliorrori del mondo in una trasfigurazione esteticain cui il piacere del testo si trasforma nel pia-cere della paura.

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The Time Machine

La lingua ci unisce a condizione che non venga confiscata da parte di nessuno.

L’istruzione è un modo di destare la coscienza degli uomini.

Daniel Pennac

ANDREA DE JORIO

La maggiore verità storica è che da grandiuomini sorgono uomini grandi! Così la

bella isola di Procida, che si eleva di fronte algolfo Partenopeo, ha dato in tutti i tempi uo-mini politici degni di memoria, martiri per lalibertà, prelati insigni, e tuttora si onora di averdato i natali a valorosi capitani di mare.Andrea de Jorio – chenacque a Procida il 16febbraio del 1769 daFrancesco de Jorio eRosa Galatola – appar-tiene a questa schieradi uomini illustri. Ri-masto orfano a dodicianni, per la cura affet-tuosa dei suoi zii, mon-signor Domenico,vescovo di Semeria, eil canonico d. Vin-cenzo, fu avviato aglistudi ecclesiastici e alleprofonde dottrine dellaChiesa, sotto la valen-tia di eccellenti istitu-tori, corredando il suo fervido ingegno dilingue classiche, francese, inglese, musica e di-segno.Giunto al sacerdozio, faceva sentire dal sacropergamo la sua alta parola sul Vangelo, por-tando ovunque il balsamo delle divine conso-lazioni, e, per queste nobili virtù, nel 1805, asoli 37 anni, fu elevato alla dignità canonicalenel Capitolo del Duomo e nel 1810 ebbe la no-mina d’ispettore della Pubblica Istruzione. Perl’ampia erudizione greca-latina e la sua pas-sione per l’archeologia, nel 1811 fu nominato

Conservatore della grande Sala dei vasi fittilidel Real Museo.E in quel tempio vastissimo dell’arte, sacrariodi ogni remota antichità, a contatto con un as-sortimento di vasi di terracotta, dai più umili aquelli più decorati di fabbrica aretina – che for-mano il gruppo più interessante del museo –,

il de Jorio si spinse adaccedere nei penetraliastrusissimi dell’ar-cheologia, con unaserie di pubblicazioniche, ricorrendo que-st’anno1 il bicentenariodella sua nascita, desi-deriamo ricordare peronorare la sua memo-ria.Dirò subito che le sueopere furono così pre-ziose da mettersi a li-vello dei più noti estimati studiosi d’Eu-ropa, tanto che fu pro-clamato socio ordinario

dell’Accademia Ercolanese e successivamentedelle Belle Arti.Conoscitore profondo della letteratura classica,seppe gustarne tutta la bellezza addentrandosinel fitto buio dell’antichità con lo studio dei se-polcri: la tomba, che era la dimora sacra, oveil corpo attendeva all’immortalità dell’anima,era diventata l’espressione delle supreme uti-lità sociali, e per questo aveva preso una formaed era diventata opera d’arte intorno alla qualefiorì una splendida lavorazione di ceramiche,che ricordavano, oppure illustravano, la vita

di Ferdinando Ferrajoli

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terrena del defunto.La peregrinazione nei Campi Flegrei, a scopodi studio, fece conoscere al de Jorio un conta-dino che aveva scoperto un sepolcro presso illago di Licola. Dopo averne egli stesso dise-gnato i tre bassorilievi marmorei dell’artisticosarcofago, uno dei quali rappresentava la danzadegli scheletri, nel 1812 pubblicò questo suostudio col titolo: Gli scheletri Cumani, che de-scrisse magistralmente e, da perfetto anato-mico, distinse fra essi il sesso muliebre per lamaggiore ampiezza della pelvi delle donne.Successivamente, nel 1813, illustrava i vasicontenuti nella tomba, col titolo: Metodo degliantichi per dipingere vasi.Per questi lavori si levò un coro di lodi e di giu-dizi favorevoli dai più noti studiosi e critici eu-ropei: dal celebre Federico Hausman,professore dell’Università di Gottinga, a Ja-copo Christie, illustre archeologo inglese, ecosì pure il famoso naturalista europeo Blu-menbak. L’illustre P. Marquez messicano, au-tore dell’opera: Comento di Vitruvio, il 25marzo 1812 così scriveva in una lettera inviataal de Jorio:

Lessi dunque, e rilessi con piacere l’erudite vostre os-servazioni sopra gli scheletri Cumani, oggetto, come di-mostrate per molti riguardi nuovo e interessante. Di fattichi mai ha pubblicato scheletri così belli ed espressivi?Altri sono tali che fanno paura e mettono terrore, i vostrirallegrano, e ci ricordano certe idee di piacere che go-dono i trapassati: si vedono i primi presentarsi nudi econtenti perché agli Elisi niente portano di qua, ed en-trano a possedere i beni di là, i secondi ricevuti dentrosono vestiti di abiti nuovi, e quasi d’immacolità, e ne go-dono i più, i terzi si mostrano in possesso di quello chedesideriamo.Ma che vado io aggiungendo riflessioni alle tante vostree dotte, e più al proposito. Invece di ciò farò plauso allavostra critica, ed alla scelta dell’erudizioni che in pochepagine avete saputo spargere a tempo e a luogo, e viesorterò a scrivere in simile modo altre opere per arric-chire la letteratura antiquaria. Di questa si è poco faeretta una accademia in Roma, della quale voi doveteessere uno dei membri. Io faccio vedere i vostri ScheletriCumani al Segretario, e credo che ne sarete invitato,come forse lo sarà stato il P. Andres. A questi vi pregodi porgere i miei rispetti ed a voi di contarmi tra i vostriamici e servitori. Roma 25 marzo 1812. Aff.mo vostroPietro Giuseppe Marques.

Il Petrarca che vide nei Campi Flegrei l’incan-

tesimo di un passato meraviglioso che difficil-mente si trova in un altro punto della terra,scrisse una lettera da Baia al Cardinale Gio-vanni Colonna ove esprime tutta la sua mera-viglia:

Ho visto i luoghi di Virgilio e, ciò che più ammirerai daOmero molto prima descritti… Ho visto i laghi diAverno e di Lucrino, anche le acque stagnanti di Ache-ronte, e la piscina dell’infelice nato per sevizia di Augu-sta; la via Caio Calicola, una volta superba ed orarovinata dalle onde, e la diga spinta da Giulio Cesare nelmare. Ho visto la patria e la casa della Sibilla, e quelloorrido speco, senza ritorno per gli stolti, senza accessoper gli scienti. Ho visto il monte Falerno… Ho visto nonsolo la grotta napoletana, di cui parlò Seneca scrivendoa Lucio, in vari punti i monti perforati e rivestiti di voltemarmoree, fulgenti di eccelso candore… Già ammiro dimeno le mura di Roma, le torri di Roma, i palazzi diRoma.

Siffatto magico incanto entusiasmò anchel’animo del de Jorio, che dopo lunghe peregri-nazioni per questi luoghi, nel 1817 pubblicò:La guida di Pozzuoli e contorno. Il dotto au-tore, senza ledere la dottrina dei sommi chel’avevano preceduto, descrive il tempio di Net-tuno, la villa di Cicerone, le Carceri di Nerone,o Cento Camerelle, l’Anfiteatro, le Terme, iTeatri, gli acquedotti e ville e ne precisa l’ori-gine e le loro funzioni. Soltanto del famosotempio di Serapide fece uno studio a parte chepubblicò nel 1820.Di questa stupenda regione, compresa tra ilpromontorio fatale delle Sirene e quello nonmeno fatale di Circe – ove i Greci intesseronole prime visioni dell’Odissea, e più tardi, cal-cando l’eroe omerico, discese nell’Avernoanche l’eroe virgiliano –, nessuno aveva saputoprecisare dove fosse l’inferno indicato nei din-torni di Cuma, tanto che uno scrittore francesedisse che bisognava vedere Cuma senza leg-gere l’Eneide oppure leggere l’Eneide senzavedere Cuma. Ebbene, il de Jorio con il suoViaggio di Enea all’Inferno fa una scrupolosae precisa descrizione dei luoghi, in corrispon-denza della narrazione fatta nell’Eneide. Cosìridestando l’ombra di Enea, conduce il viag-giatore all’inferno, agli Elisi, negli antri, nelleselve, nello Stige e negli abissi decantati dalmantovano poeta. Quest’opera classica di così

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alto interesse non poteva sfuggire agli studiosieuropei e venne tradotta in inglese da GiovanniRichard Best e in olandese dal valente Boot, neLa Rivista enciclopedica.Dopo i monumenti della Grecia e della Romaimperiale sparsi per i Campi Flegrei, il de Joriopassa a descrivere la pittura degli affreschi diPompei, Ercolano e Stabia che si trovavano nelGabinetto del Real Museo Borbonico di Porticie di Napoli, nel 1825 pubblicò in lingua fran-cese la Description de quelques peintures quiexistent au Cabinet du Royal Musée Bourbonde Portici e nel 1830 la Guide pour la galeriede Peintures anciennes.Con questa sua inarrivabile valentia di scrit-tore, ove si scorge l’invitto apologista, il criticosennato, il politico cristiano e il filosofo pro-fondo, il chiaro autore descrive le scene rap-presentate nelle stupende pitture parietali,ispirate alle inesauribile mitologia greca, avolte circondate da un vivace paesaggio, inqua-drate da cornici dorate, che sono i più vistosielementi per conoscere gli stili: così parlandodi una pittura di Pompei rappresentante il de-sinare di una coppia, ricorda i diversi triclini diquella città. In un’altra – due funamboli – favedere quanto antico sia il costume di pitturarsiil volto e le membra del corpo, giusto come sipratica ancora ai nostri giorni. Vedendo in undipinto due vasi, uno dei quali rovesciato alsuolo, da sommo conoscitore delle antiche co-stumanze ricorda le feste Plemochoe che si ce-lebravano nel giorno dell’Eusine, nelle quali sifacevano le libagioni con due vasi, versando ilvino in onore del dio. In un altro dipinto rav-visa una donna fuggente inseguita da un gio-vane armato: la sventurata donna per evitare ilgelido ferro omicida, si attacca, forse invano,al sacro asilo di una colonna sepolcrale.Ormai l’attività di questo famoso archeologo èinstancabile e nel 1825 pubblica la sua operasui papiri ercolanesi dal titolo: Museo Borbo-nico officina dei papiri e in poche pagine trattamagistralmente la materia breve sì, ma ampiae importante per le idee contenute.Dopo di che il de Jorio si rivolge alla città diPompei, che allora usciva dalle tenebre – ripor-tando alla luce i suoi vetusti monumenti, le sue

antiche magnificenze, i suoi costumi –, e pub-blica in lingua francese il Plan de Pompei. Va-gare per la città dissepolta con questa guida èun godimento spirituale: il de Jorio fa rivivereil Foro, la Basilica, il Teatro grande, le Termepubbliche, i templi di Augusto, d’Iside, di Mer-curio, di Nettuno, le Curie, il monumento ele-vato alla sacerdotessa Eumachia dai tintori, eci guida per le fastose case dell’Ancora di Dio-mede, di Apollo, di Narciso, di Castore e Pol-luce, del Cinghiale di Meleagro, di Pansa etante altre. Porta a sommo pregio la vastità del-l’Anfiteatro, che conteneva ventimila spetta-tori, con i principî applicato da Vitruvio, edescrive l’eleganza architettonica delle tombeche fiancheggiano la via fuori Porta Ercola-nese, lamentandosi che non sono state ancorascoperte quelle grandiose di Pansa padre e fi-glio, di Caio Pupidio figlio, di Caio e di CaioQuinto Valgo. Il suo parlare sapiente sulle rovine della sepoltacittà, sull’arte degli stucchi e sulla vaga poli-cromia parietale delle case viene completatocon altre due pregevoli opere: prima la raccoltaepigrafica pompeiana e, poi, nel 1832 La mi-mica degli antichi investigata nel gestire na-poletano che dedicò a S.A.R. FedericoGuglielmo Principe ereditario di Prussia. L’artenon imita, né fa induzioni, ma crea. Crea unanuova realtà coerente e totale in cui tutto èespresso, corpi ed azioni ad un tempo. Infatti,il pittore che vuol raffigurare le bellezze di unadonna, crea non solo il colore del viso, la graziadelicata delle sue linee, l’armonia interiore del-l’anima, ma crea ancora le sue movenze gentilied i suoi gesti. Egli sente e rivela come tutte leparti di un’opera: immagini, atti, gesti e lastessa musica del colore, tutto sia creazione;tutto sia così intimamente aderente e sé e allacreazione totale dell’opera, da riunire una solacosa con essa: la legge dell’individuale vi-vente.Il de Jorio aveva intuito che ogni artista, fin daipiù antichi periodi della civiltà, nella sua crea-zione pittorica o scultorea rivela – gesti edespressione fisica che noi chiamiamo “espres-sione esteriore” – una sua mimica particolare,sotto il triplice aspetto filosofico, artistico e ar-

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cheologico. E prima di affrontare questo arduoe interessante lavoro studiò profondamente ilmoderno gestire napoletano, che mise a con-fronto con i soggetti pittorici da studiare, trac-ciando così un piano tutto nuovo daraggiungere il suo altissimo grado: e l’operaclassica riuscì perfetta, mirabile e solenne.Oramai tutti i rami dell’archeologia erano statitrattati nella Campania Felix, rimaneva sol-tanto la necropoli cristiana napoletana: le Ca-tacombe, cioè quelle di S. Gennaro dei Poveri,della Sanità, di S. Maria la Vita e di S. Severo.Dopo averle mille volte visitate, specialmentequelle di S. Gennaro; dopo aver affrontato, asue spese, i numerosi scavi che portarono a ma-gnifiche e interessanti scoperte e resi praticabiligli ambienti ch’erano in gran parte inaccessi-bili; dopo avere ripristinato alcuni antichi spi-ragli che squarciarono di luce quei tenebrosisotterranei facendo apparire ignote bellezze diquella veneranda antichità; dopo laboriose eapprofondite indagini, il de Jorio, nel 1835,pubblicò la Guida per le catacombe di S. Gen-naro dei Poveri. Il dotto e chiaro autore af-ferma che un principio antichissimo moveva ipopoli ad esser seppelliti nella pietra della loroterra natale, perché questo principio è anticoquanto l’uomo stesso, nascendo dal desiderioche portiamo dentro di noi, che il nostro sepol-cro sia inviolabile: al che, da una parte le leggio le consuetudini dei diversi popoli provviderodichiarando sacre le tombe, e dall’altra lastessa diligenza dell’uomo studiando fece sìche la sua pace non venisse turbata nel suo ul-timo asilo. Tra i quali un sepolcro scavato nelseno di un monte dié sempre maggiori garanziedi tal sicurezza, che uno eretto fuori della terra.Così gli antichissimi patriarchi e gli Ebrei a taluopo si servivano delle spelonche naturali, op-pure appositamente cavate nei fianchi dellerupi, per cui vennero cavati nelle viscere dei

monti i famosi sepolcri di Persepoli, della Siriae della Palestina.Essendo dunque la collina di Capodimonte e lapianura che le si distende dinanzi il luogoscelto ab antiquo dai napoletani per i loro se-polcri, avvenne naturalmente che quando i cit-tadini, mutata religione, divennero cristiani,questa regione seguitasse ad avere la sua desti-nazione. E poiché in quei secoli il nome cri-stiano era preso di mira dai romani imperatori,accadeva che i cristiani si riunivano col loroPastore, come una sola famiglia, in questi sot-terranei.Il de Jorio con l’opera sulle Catacombe napo-letane riuscì a completare quello su cui i suoiillustri predecessori e colleghi – quali un Ce-lano, un Mazzocchi e un Pelliccia – avevanosoltanto accennato poche notizie per paura dicontagio, dovendo praticare quelle tombe neglioscuri sotterranei. Ecco perché la guida del deJorio deve considerarsi l’opera di un linguag-gio di maggiore universalità, perché tratta leCatacombe come monumenti in rapporto diarte e di antichità e non sotto l’aspetto del co-stume cristiano dei primi secoli della Chiesa.La sua grande erudizione nell’archeologia fecerinascere in gran numero quegli oscuri e anti-chissimi monumenti – che alla sola Napoli no-stra era conceduto di far conoscere alle altrenazioni –, lo elevò a tanta fama ed a tanta glo-ria, che le più note accademie della colta Eu-ropa di quel tempo lo annoverarono comesocio, e il re di Prussia, che lo fece ritrarre nelbronzo, nel 1843 lo decorò dell’Aquila rossa.Noi pertanto facciamo voto alle autorità proci-dane, affinché prendano l’iniziativa di elevareuna lapide a ricordo di questo diletto figlio, inuna piazza dell’isola ch’egli tanto amava2.______________________

1 1969, anno in cui fu tenuta la presente conferenza.2 A tutt’oggi ciò non è affatto avvenuto (n.d.r.)

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Riportiamoci circa 125 anni indietro nellastoria della nostra città. In una zona che

originata nel 903 cadde sotto il piccone demo-litore solo nel 1889.Quanto scrivo è frutto di una mia accurata ri-cerca. Potrei scrivere di altri argomenti, ma scelgo ifondaci di Napoli, senza voler far politica, ana-cronismo, retorica o retrospettiva su fatti diquesta città che molti credono ormai tempi an-dati ma che sotto vari aspetti, non sono andati.Sui fondaci ne scrisse una serie di articoli lagrande giornalista Matilde Serao, nata nel 1856e morta nel 1927, I suoi articoli furono poi rac-colti nel libro Il Ventre di Napoli.Dove erano i fondaci? Essi si estendevano avalle, da piazza Municipio (allora largo del Ca-stello) dov'è ora via Marina, sino ad oltrepiazza Mercato ed a monte sino a poco più sudi Piazza Nicola Amore verso Piazza Gari-baldi.Cosa erano i fondaci? Tutto, tutto fuorché delleabitazioni, invece erano proprio delle abita-zioni.Quanti erano? Nel 1870 erano 108 suddivisi invari quartieri.Ogni fondaco consisteva in un agglomera-mento di decadenti costruzioni umide e fetidenel cui cortile affacciavano terrazzini e balconi.Gli ingressi erano bui e senza finestre; la riti-rata era una sola ed in comune, essa scaricavai liquami nel cortile, dove ristagnavano ed ibambini spesso vi giocavano intorno. Questiambienti pieni di ogni genere di insetti ed ani-mali erano grandi focolai di infezioni. Lamorte vi era di casa.In una testimonianza di un abitante dell'epoca

è scritto: «Qui non si può respirare, le ritiratesono in comune e non sono altro che un bucoper terra che poi scarica nel cortile, vi lascioimmaginare l'odore che ne esce. Pensate chedopo che ho lavorato per più di 8 ore al giorno,pagate una miseria, la notte non posso dormireperché devo cacciare le zoccole che danno amorse ai figli miei. A volte quando tiriamo l'ac-qua dal pozzo la troviamo mischiata (con ri-spetto parlando), ai nostri escrementi...»Nei fondaci vi erano anche delle taverne e dellelocande, il cui bagno o ritirata era un buco aterra situato in cucina.Questa era la realtà napoletana dell'epoca neifondaci, particolarmente della parte bassa dellacittà, quella che abbracciava i vari ampliamenticompiuti al tempo dei Ducati e sotto le domi-nazioni: Normanna, Sveva, Angioina, Arago-nese e Vicereale, avvenuti dal 903 al 1596 incirca sette secoli, riducendo e congiungendosenza ordinamento, diverse borgate col restodella città. Rendendo la parte bassa di Napolila più irregolare ed insalubre, anche perchépriva di ventilazione.Alla insalubrità di quei quartieri, concorrevanooltre le caratteristiche topografiche, la presenzadi lavori nocivi alla salute che producevano pe-ricolose esalazioni.Le zone di Porto, Mercato e Pendino ospita-vano gran parte dell'artigianato napoletano,esercitato in condizioni di assoluta inefficienzaigienica.A Mercato, esisteva, sin dall'età angioina laconcia delle pelli. Questo lavoro lungo e com-plesso avrebbe richiesto spazi ed un sistema ef-ficace per lo smaltimento dei rifiuti, a causadella tossicità degli stessi. Una soluzione fu

I FONDACI DI NAPOLI VERITÀ, FATTI E RIFLESSIONI

di Alberto Del Grosso

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adottata da Re Ferdinando II nel 1835, con lacostruzione del borgo denominato ConceriaNuova, tra il ponte della Maddalena ed il mare,facendovi trasferire i conciatori.Tuttavia alla fine del secolo, la concia conti-nuava ad essere praticata all'interno delle abi-tazioni stesse dei conciatori, che abusivamentetrattavano ogni tipo di pelle, anche di cani egatti, inquinando pozzi ed imbrattando strade.Nel quartiere Pendino si riscontrava analogasituazione, infatti nel 1865 esistevano 49 tin-torie in pieno abi-tato, senza alcunaforma di sicu-rezza. Nei variangusti vicoliadiacenti, tra iquali: vico FerriVecchi, vicostorto di SanMarcellino. Nellacalata di San Se-vero c'erano pic-cole fonderie,fabbriche di sego,di sapone, difiammiferi edaltro; oltre a de-positi di derrate alimentari, salumi e baccalà,non certamente gradevoli all'olfatto.In conseguenza delle condizioni ambientali,particolarmente in queste zone, proliferavanomalattie come il rachitismo, la tisi, la scrofola(una forma di tubercolosi generalizzata), la clo-rosi (una forma di anemia che conferisce uncolorito giallo-verdastro) e le febbri tifoidi.È in questo scenario che si sviluppavano ripe-tute epidemie di colera che seminavano stragetra la popolazione. Tra le più violente quelledel 1836-37, del 1854-55, del 1865-67, del1873 e del 1884. Per una malattia ciclica comeil colera, la mancata rimozione delle cause diinsalubrità si rivelò fatale.Il colera del 1884, fu violentissimo e svolse unruolo essenziale: portò Napoli al centro dellecronache nazionali. La città ed i quartieri bassiebbero l'onore di accogliere re Umberto I ed ilPresidente del Consiglio Agostino Depretis i

quali, si convinsero che era giunto il momentodella bonifica.Sui termini di realizzazione e sui progetti dellabonifica vi furono disaccordi e critiche che du-rarono sino al 1889. Tra queste, Matilde Seraoimputava al governo ed in particolare al Presi-dente del Consiglio ignoranza ed indifferenzaverso i problemi di Napoli. Riferendosi allafrase «Bisogna sventrare Napoli» pronunciatada Depretis in occasione della sua visita, laSerao sosteneva la inadeguatezza dei provve-

dimenti che si an-d a v a n oprendendo per il"Ventre di Na-poli".Il 15 Giugno1889 (quattroanni dopo la pro-mulgazione dellalegge), nellaPiazza del Porto,alla presenza deisovrani si inaugu-rarono i lavori dirisanamento. Ilsindaco NicolaAmore pronunciò

il discorso iniziando con queste parole: «Sottoquel supportico addimandato dei nastri, che ciè dinnanzi, e che dovrà tra poco essere abbat-tuto, vedesi una vecchia lapide con al disoprauna iscrizione del concetto seguente: INTEMPO DELLA PESTE DEL 1656 NON SIAPRA AD ALCUNO; e per circa due secolitutti si arrestarono spaventati innanzi alla mi-steriosa iscrizione e nessuno si ardì di muovereuna pietra».In quel momento di trionfo, tutta l'opera deiquartieri bassi e la costruzione dei rioni di am-pliamento era dinnanzi agli occhi di NicolaAmore.Sulla facciata dell'edificio che fa da sfondo allaPiazza Giovanni Bovio (Piazza Borsa) c'è unalapide con pari data, che ricorda la posa dellaPrima Pietra per la trasformazione del Mercatodi Porto in Piazza Borsa. Un monumento fu eretto a ricordo di Nicola

Strettola degli Orefici

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Amore nella omonima piazza. Esso fu spostatosu di una aiuola a Piazza Vittoria, nel 1938 peril passaggio del corteo durante la visita di Hi-tler a Napoli.Dei fondaci risultarono utili soltanto le macerieche servirono a colmare lo spazio tra S. Luciaed il mare su cui fu costruita tutta la zona sinoa via Nazario Sauro.Tra i giudizi della Serao, dopo il risanamento,nel 1904, ella scrisse del Rettifilo: «Un impo-nente palazzo, rossastro, pomposo si pavoneg-gia con le sue cento finestre e, accanto, voiscovrite un vuoto, un muretto basso si pro-lunga, si prolunga, un muretto su cui la pubbli-cità allegramente appende i suoi quadri, daanni e anni, e dietro questo muretto, molto piùindietro sorgono delle masse di case lercie, ca-denti, miserabili, di tutte le misure, macchiatedi tutte le stigmate della povertà e del vizio.Ciò sparisce: un'altra costruzione moderna chetenta di ridarvi una parvenza di civiltà, ma fattoaccorto, voi cercate ficcar l'occhio, ai fianchi,alle spalle, e subito dietro a 8 o 10 metri ecco,di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cuifinestre pendono i cenci più indecenti, magaricon la poesia del vaso di basilico e del poponesospeso a un giunco» (da Il Ventre di Napoli,1994, pag.92).Successivamente è ancora la Serao a scrivere,affermando che le grandi idee dei grandi uo-mini, i vasti progetti a base di milioni e le co-lossali opere che volevano il risanamentoigienico e morale di Napoli, avevano fatto fia-sco. Ella si domandava se vi era alcun rimedioo altro da fare di fronte a tanta tristezza, a tantidisastri ed a tanti pericoli sociali, concludendocon una frase che può dare adito a diverse in-terpretazioni, dubbi, avvertimento o speranza!«Chi sa! Vedremo!»È ancora Matilde Serao che scrive: «Lì dovel'impero del lordo marciume, dell'ignoranza edegli escrementi si espande, è normale che leepidemie, la povertà più imbarazzante e la cri-minalità dilaghino.Questo è il Ventre di Napoli, la vita delle stra-dine ove il sole più non arriva e, con esso,anche le istituzioni, cieche di fronte ad una re-altà abbastanza aberrante e lontane dal puzzo

mefitico dei liquami che si espandono per leviuzze dissestate. Vero che in questi stessi ri-cettacoli di insanità, a fianco della miseria viveil folklore, la pietà degli umili per gli umili, lacarità, le vane speranze del gioco d'azzardo, illotto, la pizza, il mandolino, e le botteghe dellearti impareggiabili nel mondo».La Serao ha percorso quelle stradine; ha affron-tato il pericolo, andando lì dove le autorità nonpassavano ieri, come oggi, perché contentedella gioia che riempie gli occhi di chi oggi,transita per via Caracciolo, di chi si accontentadi vedere il bel panorama, di visitare Posillipo,apprezzare il folklore....di chi si accontenta disentir parlare della miseria e dei problemisenza andare a farne la conoscenza diretta... dichi si accontenta di prendere decisioni su realtànon ben conosciute.In un centinaio di pagine, Matilde, che amaNapoli, ricorda alla politica che non servespendere milioni per far funzionare la città, nonserve costruire nuove strade lussuose; c'è solobisogno che le istituzioni svolgano il loro com-pito.Sui fondaci ne scrissero anche altri nomi im-portanti, tra cui Pietro Ferrigni nel 1877 (conlo pseudonimo di Yorick) dove un periodo re-cita: «Lì, dentro ai mille bugigattoli oscuri ecrollanti, stanno fino a quattrocento famiglieammonticchiate, mescolate, confuse, perdutein quei labirinti; lìnascono vivono e muoiono migliaia di indivi-dui che non hanno mai veduto Capodimonte néil Vomero; e che non usciranno né per amorené per forza, finché il piccone dei demolitorimunicipali non riduca il topaio in un mucchiodi rovine». Queste rivelazioni delle miserie diNapoli destaronogrande impressione, ma il governo non feceniente per risolvere la situazione sino al 1884quando comparve la più disastrosa epidemiacolerica.Ritengo che l'idea che si possa risanare unacittà semplicemente cambiandone l'assetto ur-banistico e senza controlli, è quantomeno biz-zarra.Oggi come allora, molti vicoli sono impenetra-bili ed impenetrati sia dai napoletani che dalle

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istituzioni che dal Sole.Il Ventre di Napoli e quello di Yorick sono libriche dovrebbero leggere coloro che dicono chebisogna parlare del bello e non del brutto dellacittà: cosa sbagliata, perché questi concetti fon-damentali valgono per qualunque luogo delpianeta vittima di se stesso, degli altri e del di-sagio di essere una metropoli.Per Napoli, questa stupenda città che è moltianni più vecchia di Firenze e più antica diRoma, che possiede un patrimonio di opered'arte, di musei, di monumenti che copronotutto l'arco della nostra storia, poiché vittimadi un progressivo degrado, credo sia giuntal'ora di dire basta a quelli che nonfanno perché non sanno, che proprio da Napolisono partite le peggiori epidemie, a quelli chesanno ma non fanno per loro convenienze, aquelli che sanno ma fanno finta di non sapere,che ai tempi dei fondaci le gravi epidemie im-piegavano tempo per raggiungere altre città ea quelli che sanno ma che non possono fare onon sono in grado di fare per ragioni a noi sco-nosciute. Da cosa furono causate le epidemie dei fon-daci? Da bombe batteriologiche. Mi si po-trebbe obiettare che da allora c'è statoprogresso; è vero dico io, ma il progresso ac-canto a fatti positivi, ne porta tanti negativi,perché quando mal gestito. provoca regressomorale e materiale in tutti i campi. Oggi oltrealle bombe batteriologiche della spazzatura, ilprogresso ci ha portato l'inquinamento dei ter-reni, atmosferico, del mare, dei fiumi e laghi,la diossina, i veleni che mangiamo attraversocibi ed acqua, le droghe, che stanno distrug-gendo i cervelli dei nostri giovani, onde ma-gnetiche, radioattività dalle centrali nucleariche causano tumori, (a Latina scorie insicure,quattro vecchie centrali del Garigliano realiz-zate tra gli anni 50 -70 da svuotare, demolire e

riportare a prato verde richiedono milioni perla bonifica. I tempi? Non prima del 2024) e...circa il computer? Cosa dire?Il progresso ci ha anche allungato la vita, ri-spetto ai tempi dei fondaci, ma in che qualità?Spesso solo vegetale o tra gravi sofferenze!Quando mi domando quale futuro stiamo pre-parando alle nuove generazioni, la diagnosi èferoce, la prognosi? fatela voi! Distolgo un attimo il mio pensiero dal resto delmondo per tornare alla nostra cara città, cheoggi come ieri, anzi peggio di ieri è stata por-tata negativamente all'attenzione del mondoper problemi che se non affrontati con capacità,decisione, buona volontà ed onestà, non sa-ranno risolti e porteranno Napoli alla fine diuna strada già imboccata: quella di una viasenza ritorno! Che la società insegni ai nostri ragazzi, i valoridella vita e della famiglia, che sia ridata loroquella fiducia che hanno persa in una realtà allaquale il loro "io" si oppone attraverso sballo didroga, prostituzione e atti criminosi. Che siaridata ad essi possibilità di lavoro che eviti laloro emigrazione verso lidi più accoglienti. Tutti siamo responsabili dei nostri figli, perchéessi sono il risultato di un nostro atto d'amore,di un nostro desiderio, di una nostra speranza,essi non hanno chiesto di nascere, ma siamostati noi a dargli la vita! È auspicabile che i responsabili di tanto de-grado, si scorcino le maniche e lavorino seria-mente per ridare a questa città, madre di grandinomi, lo splendore che l'aveva resa famosa nelmondo per le sue bellezze naturali, per le suetante ricchezze artistiche, per l'abilità dei suoiartigiani e per l'ospitale carattere del suo po-polo, che ha richiamato qui turisti di ogni cetosociale.E... speriamo che Dio non ci volti mai le spalle!Se non ce le ha già voltate!

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LE ABITAZIONI NAPOLETANE DI GIACOMO LEOPARDI

di Paolo Carzana

Giacomo Leopardi giunse a Napoli per laprima volta, proveniente da Roma, mer-

coledì 2 ottobre 1833 in compagnia dell’amicoe sodale Antonio Ranieri.Il viaggio, durato due giorni, si svolse senzaparticolari problemi (nonostante il transito perle Paludi Pontine) in una «buona carrozza» a«due piazze vis-à-vis»1.Il primo alloggio fu in un appartamento ammo-biliato, fissato in precedenzada Costantino Margáris, amicodi Ranieri e maestro della so-rella di questi Paolina: era ubi-cato in via San Mattia n. 88, 2°piano.«Il quartiere (appartamento)era alla cantonata di Via SanMattia, dava sulla così dettaLoggia di Berio, ad un orienteed a un mezzodì saluberrimi, apochissimi passi da Toledo, apochi dal Palazzo Reale»2.Un attento studio sulle abita-zioni napoletane del poeta esulla loro esatta localizzazioneè stato condotto da Carlo Rasoin un ampio articolo uscito a più riprese tra il1970 e il 1981 in questo stesso periodico. Ora,secondo Raso, l’identificazione di questa primaabitazione non presenta grosse difficoltà, seb-bene la zona abbia subìto, dall’Ottocento adoggi, numerose trasformazioni edilizie che nehanno alterato alquanto l’assetto urbanistico.Infatti, come si può rilevare dalle antichepiante topografiche della città di Napoli, primafra tutte quella del Duca di Noja del 1775, allespalle del palazzo Berio si estendeva un giar-

dino, limitato a sud e a nord dagli attuali vicoBerio e gradini Conte di Mola e chiuso su viaSperanzella da una loggia, elemento caratteri-stico e frequente nei palazzi nobiliari del Set-tecento. Il palazzo Berio, di origineseicentesca, era stato infatti radicalmente tra-sformato nel 1772 secondo il disegno di LuigiVanvitelli. Per quanto riguarda la “Loggia diBerio” citata da Ranieri, essa probabilmente

sparì insieme con i giardini,nella seconda metà dell’Otto-cento, per far posto ad un edi-ficio contenente impianti dellacorrente elettrica. Fatte questepremesse e confrontatele con ilracconto di Ranieri, si può con-cludere che dei due palazzi adangolo con via Speranzella,solo quello di via San Mattia n.88 risponde al requisito di tro-varsi ad angolo, con esposi-zione ad oriente e amezzogiorno e di affacciaresulla “Loggia di Berio”, oggisostituita dall’edificio del-l’ENEL.

L’appartamento di cui trattasi era di proprietàdi una certa Rosa Lang la quale in data 17 no-vembre 1833 rilasciava ad Antonio Ranieri ri-cevuta per la somma di ducati 22: «Ho ricevutodal Sig.r Antonio Ranieri la somma di ducativentidue per un mese di fitto di tre stanze mo-biliate e uno stanzino del mio quartiere sito ViaS. Mattia N.° 88 – 2° piano. Detto mese è co-minciato dalla mattina di domenica 10 del cor-rente mese»3.Benché la ricevuta si riferisca al solo mese di

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novembre, è certo che fin dagli inizi di ottobrei due amici avevano abitato lì. In una lettera alpadre del 9 marzo 1837 Leopardi ricorderàquella sua prima dimora napoletana, qualeesempio dei «prezzi enormi» dei quartieri am-mobiliati «a mese» e riferirà che per il primomese aveva dovuto pagare 15 ducati, per il se-condo 22. Dunque manca all’appello la rice-vuta di quei primi 15 ducati o perché andataperduta o perché mai rilasciata. L’aumento delfitto tra il primo e il secondo mese è forse dariferirsi a un episodio ricordato da Ranieri, se-condo cui la padrona di casa, spaventata dallecondizioni di salute di Leopardi e temendo chefosse tisico, avrebbe voluto essere sciolta dal-l’affitto. Le rassicurazioni del dottor Mannella,medico del Principe di Salerno, chiamato perl’occasione, e forse anche l’aumento del ca-none avrebbero finito col tacitare «gl’impor-tuni terrori dell’albergatrice»4. Sempre con l’aiuto di Costantino Margáris futrovato un secondo appartamento in cui i duesodali potettero andare ad abitare fin dal di-cembre 1833 e dove restarono per oltre unanno. L’appartamento situato nel palazzo Cam-marota, in strada nuova Santa Maria Ognibene,si trovava, allora che non esisteva ancora ilcorso Vittorio Emanuele, in una delle zone piùalte della città sotto il colle di Sant’Elmo e laCertosa di San Martino da cui si dominaval’ampia veduta del golfo di Portici col Vesuvioproprio di fronte.Abbastanza più complessa, rispetto alla prece-dente, è l’identificazione di questa seconda abi-tazione. I documenti dell’epoca concordanonell’indicarla al n. 35 di strada nuova SantaMaria Ognibene, ma la numerazione dellastrada è stata rifatta più volte. Ridella, nellenote esplicative alla carta topografica delle abi-tazioni occupate progressivamente a Napoli daidue amici, affermava che all’epoca in cui egliscriveva (fine Ottocento) palazzo Cammarotasi trovava al n. 555. Ma dopo l’attento studiocondotto da Carlo Raso, basato su un circo-stanziato esame di documenti d’archivio, sem-bra non ci siano più dubbi circal’identificazione dell’antico palazzo Camma-rota con quello che attualmente si trova al n.

52. Dell’appartamento, rimasto sfitto a causaforse dell’eccessiva ampiezza, Leopardi e Ra-nieri riuscirono a ottenere in fitto una parte concucina separata: «E furono (parole di Ranieri)(con altre d’uso) le più vaste e belle stanzech’io vedessi al mondo; le quali, a poca di-stanza di Toledo, dominavano tutto il golfo»6.Anche Leopardi ebbe occasione di decantarela bellezza della vista goduta dalla nuova casae la salubrità dell’aria in una lettera al padredel 5 aprile 1834: «Il giovamento che mi haprodotto questo clima è appena sensibile:anche dopo che io sono passato a godere la mi-gliore aria di Napoli abitando in un’altura avista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio,del quale contemplo ogni giorno il fumo e ogninotte la lava ardente».Il contratto di affitto di questo appartamento fustipulato fra Vincenzo Cammarota e AntonioRanieri il 31 gennaio 1834 ove ci si riferisce al«al primo piano nobile».A proposito di palazzo Cammarota posso for-nire una diretta e, spero, interessante testimo-nianza. Il prof. Carlo Raso nel corso di una conferenzatenutasi presso la Facoltà di Lettere (a via Portadi Massa) il 6 dicembre 1988 dal titolo: Le pe-ripezie domiciliari di Giacomo Leopardi e unasconosciuta abitazione napoletana del poeta,alla quale, come accennavo, ebbi il piacere diassistere, diede comunicazione ufficiale di unasua scoperta scaturita da un attento esame dellaregistrazione del cambio di domicilio su cartaintestata della Prefettura di Polizia, datata 10dicembre 18337, dalla quale si evince chiara-mente che l’appartamento di cui, parzialmente,presero possesso i due sodali era ubicato al 2°piano del palazzo, a dispetto di quanto indicatonel contratto di affitto. Ciò avveniva già primadel 31 gennaio (data ufficiale del contratto)come risulta da una prima bancale rinvenutafra le Carte Ranieri, emessa a favore di Vin-cenzo Cammarota per 7 ducati in data 4 dicem-bre 1833: fu, probabilmente questo il motivoper cui i due amici andarono ad occupare mo-mentaneamente l’appartamento al 2° piano ecioè per non trovarsi in difetto rispetto ai do-cumenti ufficiali; non dimentichiamo che sia

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Ranieri, per le sue idee liberali e trascorsi diesule politico, sia Leopardi, per le sue giovanili“canzoni” patriottiche e per il suo conclamatoateismo e anticlericarismo, erano tenuti sottosorveglianza dalla occhiuta polizia borbonica.Di fatto i due sodali occuparono fino al maggio1834 un appartamento al 2° piano (di cui nullasi sapeva) e fino al maggio 1835 un altro ap-partamento al 1° piano, situato sulla stessa ver-ticale. Le parole di Ranieri, precedentemente ripor-tate, che magnificavano la veduta di cui si po-teva godere sul golfo e che si riteneva fosseroriferite all’appartamento al 1° piano, in realtà,sono da collegarsi con quello al 2° piano.Il quarto e ultimo appartamento abitato a Na-poli da Leopardi e Ranieri era ubicato in vicoPero n. 2. Il proprietario del quartierino era un certo Pro-spero Jasillo. Il contratto di affitto, estrema-mente meticoloso, fu stipulato fra MicheleGiura, procuratore di Jasillo, e Antonio Ranieriin data 9 maggio 18358. L’appartamento si trovava al secondo piano delpalazzo di vico Pero (3° piano se visto da viaSanta Teresa degli Scalzi) e non era precisa-mente a Capodimonte, ma nelle vicinanze, cioènel rione Stella. Allora, con le case di via Ma-terdei, di vico Noce e di vico Pero terminavala zona abitata di Napoli dalla parte nord, lìdove sarebbero poi sorte le altre case della viaNuova Capodimonte. Al tempo, non c’eranoche orti e terre coltivate, tanto da dare la sen-sazione di essere in campagna. L’alloggio fuscelto da Ranieri in quanto sullo stesso piane-rottolo abitava lo zio Domenico il qualeavrebbe potuto aiutarlo in caso di necessità,

viste le precarie condizioni di salute del-l’amico.Leopardi espresse la sua soddisfazione per lasalubrità della zona in una lettera ad AdelaideMaestri (forse l’unica donna che l’abbia vera-mente amato) del 5 marzo 1836 «Io da un annoe mezzo non posso che lodarmi della mia sa-lute, ma soprattutto da che, circa un anno fa,sono venuto ad abitare in un luogo di questacittà quasi campestre, molto alto, e d’ariaasciuttissima, e veramente salubre».Fu in questa casa che nel pomeriggio del 14giugno 1837 Giacomo Leopardi passò (è pro-prio il caso di dire) a miglior vita9.

__________________

1 A. RANIERI, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leo-pardi, Napoli 1965.2 Ivi.3 Ricevuta manoscritta conservata presso la BibliotecaNazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli.4 In realtà Rosa Lang ci aveva visto giusto (o quasi). Nonsi trattava di tubercolosi polmonare (come paventatodalla Lang) ma, sulla base della sintomatologia che sievince dalle testimonianze dello stesso Leopardi e di chigli viveva accanto, di tubercolosi ossea (morbo di Pott).Questa tesi viene data per acclarata da P. CITATI, Leo-pardi, Milano 2010; cfr. anche nt. 1.5 F. RIDELLA, Una sventura postuma di Giacomo Leo-pardi. Studio di critica biografica, Torino 1897.6 Cfr. nt. 1.7 Documento manoscritto conservato presso la Biblio-teca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli.8 Ivi.9 La gran parte delle notizie qui riportate e rielaboratesono tratte dal volume Giacomo Leopardi, curato dallaBiblioteca Nazionale di Napoli in occasione del 150° an-niversario della morte del poeta (1987).

Con la chiusura de “L’Arte Tipografica” di Angelo Rossi, annunciata dai media loscorso mese di settembre, Napoli perde un altro importante frammento del suospessore culturale. Nata dall’evoluzione della tipografia degli “Artigianelli”,ch’ebbe sede nel quartiere di Materdei, “L’Arte Tipografica” ha pubblicato, nelcorso degli anni, nella sua storica sede di Palazzo Marigliano, opere delle figurepiù significative d’intellettuali napoletani, da Benedetto Croce ai Nicolini (Fausto,

Nicola e Benedetto), da Giuseppe Galasso a Marcello Gigante, da Giovanni Pugliese Carratelli aIole Mazzoleni, nonché riviste, fra le quali proprio Il Rievocatore, durante il periodo che spazia dal1994 al 2013. È doveroso, perciò, da parte nostra, rivolgere un saluto affettuoso alla prestigiosaistituzione, con l’augurio che possa trovare attuazione il progetto, auspicato da Angelo Rossi, d’isti-tuzione di un Museo della Stampa nella sua sede.

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UN REUCCIO DISCUTIBILE

di Andrea Arpaja Flores Edgcombe

Vittorio Emanuele III di Savoia-Carignano,re d’Italia e d’Albania e Imperatore di

Etiopia, nella sua dimensione umana possiamodire che è un personaggio abbastanza discuti-bile.Di carattere chiuso e scorbutico, forse com-plessato dal suo fisico infelice, appariva sem-pre all’interlocutore freddo e cinico.Egli, essendo nato a Napoli ed essendo, inquanto erede al trono, designato Principe diNapoli, tuttavia detestava questa città e di-sprezzava i napoletani. Valga per tutti questoesempio.Prima guerra mondiale: disastro di Caporetto(principale responsabile il piemontese Bado-glio). Ben sette divisioni tedesche (non austro-ungariche) sfondano il fronte italiano (untenentino di fanteria si chiamava Erwin Rom-mel) ed il Regio Esercito è costretto a ripiegaresul Piave. Si era in una situazione criticissima.Probabilmente, se le divisioni tedesche fosserostate aumentate a dieci o dodici, poteva ancheverificarsi uno sfondamento, specialmente nelsettore delle grave di Papadopoli, più facili daguadare. Ne sarebbe seguito un dilagare delleunità tedesche ed austro-ungariche nella VallePadana ed una molto probabile uscita dell’Ita-lia dal conflitto, con un conseguente armistiziosimile a quello già firmato a Brest-Litowskdalla Russia zarista. Invece, per nostra fortuna,la Germania ritirò le sue truppe e gli Austro-ungarici non ce la fecero a sfondare.Ma nel frattempo era accaduto un notevolecambiamento. I nostri alleati franco- inglesiavevano accettato di aiutarci ad una condi-

zione. Che si fosse cambiato, da parte nostra,il Capo di Stato Maggiore Generale, perchénon avevano più fiducia nel macellaio Ca-dorna. Ora l’unico che poteva operare talecambio era solo Sua Maestà il Re; nulla potevail Capo del Governo; nulla poteva il Ministrodella Guerra. Tuttavia, per facilitare la sceltadel Re, gli fu sottoposta una listarella di trenomi. Al primo posto figurava il GeneraleGiardina, ottimo elemento, per quanto non civoleva molto ad essere migliore di Cadorna. Alsecondo posto un altro ottimo elemento, il Ge-nerale Enrico Caviglia, in seguito Maresciallod’Italia. Al terzo posto uno sconosciuto, uncerto Armando Diaz, che però era stato il brac-cio destro del Generale Pollio, predecessore diCadorna nell’incarico.Il Re scorre rapidamente i tre nomi e poi dice:«Facciamo questo Diaz perché è napoletano.Così se perdiamo la guerra, la colpa sarà di ungenerale napoletano». Invece, alla faccia sua,Armando Diaz con una splendida manovra aVittorio Veneto vinse; gli Austro-Ungarici fu-rono sbaragliati e la guerra terminò un annoprima del previsto.In seguito Armando Diaz fu chiamato, comeMinistro della Guerra, nel primo GovernoMussolini, insieme al Grand’AmmiraglioPaolo Thaon de Revel come Ministro dellaMarina.Altra responsabilità da far risalire a VittorioEmanuele III (e questo pochi lo sanno) è il de-litto Matteotti. Tale deputato socialdemocraticoaveva scoperto i contatti che il Re intrattenevacon certe compagnie petrolifere inglesi per la

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ricerca ed eventuale sfruttamento del petrolioin Libia (allora territorio italiano). I britannicisapevano che se avessero avanzato tale richie-sta a Mussolini, certamente ne avrebbero avutoun rifiuto; pertanto avevano pensato di aggirarel’ostacolo trattando direttamente con il Re, alquale, verosimilmente, Mussolini non avrebbepotuto dire di no. Ma, non si sa come, GiacomoMatteotti era venuto a conoscenza della tresca;aveva raccolto un dossier che portava semprecon sé in una borsa e stava per svelare tutto aMontecitorio, dove lui era deputato. Ma il Relo venne a sapere e convocò un suo fedelis-simo: il Generale dell’Esercito Emilio DeBono, Quadrumviro della Marcia su Roma, matuttavia ligio agli ordini di Sua Maestà. In quelmomento era anche il Ministro degli Interni.Il Re gli ordinò di sot-trarre a Matteotti la borsacon i documenti compro-mettenti e De Bono lo as-sicurò in tal senso senzabatter ciglio. Per la biso-gna arruolò quattro scal-manati attivisti (AmerigoDumini, Albino Volpi ealtri due) i quali, teso unagguato al Matteotti, lopercossero violentementee gli portarono via laborsa con gli scottantidocumenti. Ma non sape-vano, gli sciagurati, chela vittima era malata di cuore; essa ebbe un in-farto e loro se lo trovarono morto fra le mani.Indubbiamente omicidio fu, ma del tutto pre-terintenzionale. Comunque la borsa fu portataa De Bono e da questi al Re. E non se ne seppepiù niente.Tuttavia, dalla severissima inchiesta che seguìal fattaccio, i responsabili furono individuati,arrestati e processati per omicidio preterinten-zionale. Furono condannati sia in primaistanza, sia in appello; e si fecero un bel po’ dianni di galera.Lo scandalo sta nel fatto che, nel secondo do-poguerra, costoro siano stati arrestati e proces-sati una seconda volta, in barba al

fondamentale principio giuridico del ne bis inidem. Ma chi sa bene tutta la storia è propriola famiglia Matteotti. Nel secondo dopoguerrail figlio della vittima, l’onorevole socialdemo-cratico Matteo Matteotti, aveva tentato di sol-levare il velo calato sulla questione, perfinalmente far vedere agli italiani almeno partedella verità. Aveva cominciato a scrivere qual-cosa su qualche giornale amico, ma fu peren-toriamente zittito dal suo stesso partito, perchéandava a smentire almeno parte di quella chedoveva essere la verità ufficiale di Regime.Non fu più messo in lista e quindi non fu piùeletto deputato.Torniamo al nostro “Reuccio sciaboletta”. Nel1940, quando si ebbe, del tutto inopinato, il ro-vinoso crollo della Francia (si tenga presente

che, fino a quel mo-mento, l’esercito franceseera ritenuto il più potenteesercito del mondo. Altroche Stati Uniti, altro cheRussia sovietica, altroche Germania!), egli in-cominciò a dare in sma-nie affinché l’Italiaentrasse in guerra e se laprendeva con Mussoliniperché, secondo lui, nonapprofittava del momentofavorevole. Le sue frasisono riportate dal diariodel Generale Paolo Pun-

toni, aiutante di campo di Sua Maestà: «Macosa fa quel testone! Ma cosa aspetta! Ma per-ché non ne approfitta!»; e quando finalmente(secondo lui) il Capo del Governo venne a co-municargli la dichiarazione di guerra a Franciaed Inghilterra egli, nell’accompagnarlo allaporta, continuava a dirgli: «Mi raccomando: siricordi di Nizza e della Savoia», dimostrandocon ciò una meschinità e una ristrettezza diidee davvero squallida. Tali località la Franciale aveva acquisite in seguito ad un ben precisoaccordo fra Cavour e Napoleone III, ma non leaveva tolte al Regno di Sardegna in seguito aduna guerra vinta.Occorre qui fare un passo indietro per una serie

Immagine esposta nella galleria della cioccolateria “Baratti & Milano”, in piazza

Carignano a Torino, che ridicolizza la statura diVittorio Emanuele III, raffigurato tra i genitori

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di considerazioni. Nel 1939 Mussolini non nevoleva sapere proprio di entrare in guerra. Mal’Inghilterra stava facendo di tutto contro l’Ita-lia per trascinarcela. Mise in atto, ai nostridanni, un blocco navale davvero assurdo e pro-vocatorio. Tanto che Mussolini sbottò dicendo:«A questo punto i cannoni sparano da soli!», etuttavia anche tutto ciò non sarebbe bastato senon ci fosse stata la pressione del Re; le agita-zioni di piazza pilotate da qualche incoscientee (soprattutto) le lusinghe del volpone WinstonChurchill, che lo indussero a compiere il passofatale, accompagnato però dalla frase infelice:«Stavolta la guerra la dichiaro ma non la fac-cio». Assurdo!Raimondo Montecuccoli ammonisce:«Quando la parola è al cannone ogni altra voceconvien che taccia!»; d’altra parte troppi eranoin casa nostra coloro che remavano contro. Lostesso Badoglio, quando la Francia, nostra po-tenziale nemica, dichiarò guerra alla Germanianostra alleata, disse: «Adesso il mio amico Ga-melin darà una bella legnata ai tedeschi». Inol-tre tutto Supermarina, con i suoi vari Maugeri,Brivonesi, eccetera, era tutto un nido di spie.Inevitabilmente, per tutta una serie di errori, di

insufficienze e di incapacità, le cose andaronomale. E che ti fa il nostro reuccio? Assieme alsuo degno compare Pietro Badoglio pensa dipoter fare il salto della quaglia. In pratica, direai tedeschi: «Sapete, siccome con voi le cosevanno male, noi passiamo dall’altra parte». Eper essere libero di fare questo giochetto, fa ve-nire a casa sua il Primo Ministro e lo fa arre-stare dai Carabinieri. Perfino quella santadonna di sua moglie, la Regina Elena, tuttascandalizzata esclamò: «Queste cose non suc-cedono nemmeno nel mio paese!», cioè nelMontenegro, un piccolo staterello balcanico,dove per la verità i montenegrini non sonodegli stinchi di santo. Ovviamente l’operazione abortì e noi ci ritro-vammo con un’Italia spaccata in due, con ilSud occupato dagli Anglo-Americani e il Nordoccupato dai Tedeschi; con la guerra civile incasa e con gli italiani che si sono sparati tra diloro.In conclusione, possiamo dire che “chi è causadel suo mal pianga se stesso”. Il guaio è che lasventura finale che ha colpito Vittorio Ema-nuele III ha travolto anche tutta la sua dinastiae, con essa, anche l’Italia.

Raimondo d’Aronco con gli allievi della sua classe dell’Accademia di Belle Arti di Napoli

(1° da destra, Ferdinando Ferrajoli)

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OLGA SIRIGNANOdi Mariagrazia Ritrovato

Sono ormai molti anni che la mia attenzione di pianista è rivolta a compositrici del passatopoco conosciute e ai loro brani poco eseguiti. Tutto è cominciato da una promessa fatta a

mio marito Mario Buonoconto (pittore, scrittore, storico dell’arte, poeta), che mi parlava spessodi una sua zia pianista e compositrice, Olga Siri-gnano. Mio marito mi chiese di suonare le sue musi-che e di far riecheggiare la casa di Cascano (dove ziaOlga visse molti anni) delle note delle sue composi-zioni. E così è stato.Olga Sirignano, figlia di Giuseppe, primo flauto delTeatro di San Carlo, nasce nel 1892 e muore nel 1954.Anche la sorella maggiore era musicista, eccellentearpista, mentre l’altra era violinista. Allieva di Vin-cenzo Romaniello, si perfezionò con Gennaro Napolie Antonio Savasta. Fu apprezzata pianista, eccellentecompositrice e mamma affettuosa di quattro figli, nes-suno dei quali però, pur studiando musica, seguì leorme né del padre (tenore) né della madre.L’aspetto di zia Olga, in una foto di famiglia, apparesevero, ma la sua musica è sensuale, appassionata eal tempo stesso dolce e delicata. Nella sua corposaproduzione ci sono brani per pianoforte (spesso dielevate difficoltà tecniche), per canto e pianoforte, musica da camera e canzoni napoletane dicui scriveva anche i testi, spesso ironici e divertenti.Tra i brani per pianoforte più significativi, amo suonare il Valzer romantico, lo Scherzo in solminore e soprattutto il Notturno per la sola mano destra, che scrisse per poter suonare con unamano poiché con la sinistra cullava il secondogenito appena nato.

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Nella sede di via Costantino, 25, il 28 novembre scorso è stato celebrato il 50°anniversario della fondazione dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenzadell’Antifascismo e dell’Età contemporanea “Vera Lombardi”, con la relazionedel presidente, prof. Guido D’Agostino e con gl’interventi del sindaco Luigi DeMagistris, di Alberto De Bernardi, delegato INSMLI, di Giorgio De Francesco,presidente della Municipalità Fuorigrotta-Bagnoli, e di Antonio Amoretti, presi-dente del comitato provinciale A.N.P.I. di Napoli, moderati da Giulia Buffardi.Dopo il taglio della torta, ai presenti è stato distribuito il volume collettaneo 50anni al servizio della Città e della Regione (1964-2014).

L’EREDITÀ MORALE DI RAF VALLONE A colloquio con i figli Eleonora, Arabella e Saverio

di Mimmo Piscopo

Sperlonga, 8 di agosto, mese capriccioso diuna estate che non si può considerare tale,

con un mare agitato, ma comunque invitante arefrigeranti tuffi per mitigare la pur sporadicacalura di questo luogo incantato della costa la-ziale, che da anni accoglie bagnanti romani enapoletani, creando amicizie e storie d’amore.Tra saluti e convenevoli, con l’opportuna di-screzione, ho avuto il piacere di intervistare lesorelle Eleonora e Arabella,figlie del compianto e mai ab-bastanza celebrato attore RafVallone, con il consenso dellamamma, l’attrice Elena Varzi,che da tempo ossequiavodall’ombrellone al gazebodella loro villa e che ciavrebbe lasciati il 1° settem-bre. La loro gentile ritrosianon mi ha fatto desistere dalporre domande, per rievocareil loro padre, divenuto famosoai tempi del neorealismo cine-matografico. All’incontro eraassente Saverio, col quale ho avuto un collo-quio telefonico il 7 ottobre.Le risposte dei tre fratelli alle mie domandepresentano sfumature leggermente diverse,date le differenze dei loro caratteri.

Figli d’arte, come vi siete sentiti in questoruolo?Arabella: Privilegiata.Eleonora: Ho vissuto come in una favola.Adolescente seriosa, alla ricerca della propriaidentità, da giovanetta ribelle a diciassette anni,continuando gli studi classici dalle suore, a

sposa innamorata che ambiva all’indipen-denza, fino al divorzio, con la condiscendenzadella mamma, ma con il malumore e l’opposi-zione di papà Raf.Saverio: Con una grande voglia di osservaretutto ciò che mi circondava, per acquisirequello che potesse essermi utile.

Che cosa ha significato essere figli di un mitoamato dagl’italiani, e parti-colarmente dalle donne?A.: Una importanza che neltempo è divenuta consapevo-lezza.E.: Consapevolezza non solod’essere figlia di una personadi successo, ma soprattutto diun personaggio molto amato.S.: Motivo di orgoglio, per-ché mio padre era osannatodal pubblico, specialmente al-l’estero e particolarmentenegli U.S.A., in California,dove ho fatto la conoscenza di

noti ed amati attori, come Steve Mcqueen, An-thony Quinn, Al Pacino, Liz Taylor e BrigitteBardot, e registi del calibro di Otto Preminger,John Ford e John Huston, con i quali egli avevalavorato.

Quando vostro padre, conosciuto quale uomogeneroso, è morto, all’età di 86 anni*, checosa vi ha lasciato della sua etica e dei suoiinsegnamenti? e quale rapporto filiale ed arti-stico avete avuto con lui?A.: Il suo buonumore, l’ottimismo, la positivitàed una grinta, per quanto concerne l’amore fi-

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Raf Vallone

liale. L’utile insegnamento di averci trasmessoil valore di una coscienza pulita, l’amore infi-nito per la natura, per gli animali ed un granderispetto per il prossimo.

Eleonora e Arabella Vallone con Mimmo Piscopo

E.: Il senso dell’amore per la vita nella sua in-terezza, la bellezza nel riconoscere le cose, lanatura, le persone e la famiglia. Il senso dellagiustizia sociale verso il prossimo bisognoso,del condividere le difficoltà, del rispetto del-l’altrui pensiero.S.: La spinta a non desistere dalla fatica del-l’approfondimento. Ho lavorato con lui consoddisfazione, orgoglio e gioia, acquisendouna profonda esperienza. Pretendeva di essereaccettato da tutti coloro con i quali lavorava esoprattutto da me. Non era egocentrico, ma ge-neroso con tutti, e mi ha dato la possibilità diun supporto utile nell’adolescenza, con tantaseverità. Nella maturità, poi, si stabilì un rap-porto di fratellanza e di confidenza, con reci-proco scambio di pensieri.

Che cosa ha rappresentato per voi la mamma,ammirata e bella attrice?A.: È stata una mamma molto bella, dal carat-tere forte e con tanta pazienza, consapevole dichi le era vicino.E.:È stata una icona d’amore, esempio e sim-

bolo di amore coniugale e filiale.S.: Era come un rifugio, un porto, che acco-glieva con protezione; una donna eccezionale,intelligente e dolce, con una bella personalitàdi nonna affettuosa.

Quali sono state le origini e la carriera arti-stica di vostro padre e quale influenza ha avutosu di voi?A.: È come se papà avesse avuto tre vite: Uni-versità con lauree in legge e in filosofia; gior-nalista della terza pagina culturale de L’Unità;attore e regista di opere liriche in Italia e al-l’estero (U.S.A., Canada), quale appassionatomelomane.E.: Nonostante i suoi numerosi impegni, contanta severità, era così affettuoso da organiz-zare con la famiglia i suoi numerosi viaggi.S.: Un esempio sano, un’immagine straordina-ria sotto tutti gli aspetti, umani ed artistici. Ad-ditato come maestro, per serietà ed impegno,ha insegnato il rispetto delle professioni.

Saverio Vallone

Rivedere tanti suoi film rimasti famosi nellastoria del cinema suscita in noi tanta malinco-nia e ammirazione; e in voi?A.: Mi manca tanto. Quando rivedo i suoi film,li centellino e, anche se sono trascorsi dodici

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anni dalla sua dipartita, lo sento ancora moltodentro di me.E.: Al di là dei film trasmessi dalla televisione,lo sentiamo sempre presente tra noi.S.: Una diversa emozione,come figlio e come attore,

Come mai vi ritrovate ormaida anni a Sperlonga, lontanodai clamori mondani dellaCapitale, dove risiedete contutta la famiglia?A.: In occasione della realiz-zazione del film di GiuseppeDe Santis, Non c’è pace tragli ulivi, girato a Fondi conLucia Bosè, papà si innamoròdel luogo, allora selvaggio edaffascinante, decidendo cosìdi stabilirsi a Sperlonga, dovesvolgeva la sua attività socialeed artistica, valorizzandola, sìda meritare l’onore dell’intitolazione di unastrada.S.: I ricordi dell’infanzia e la sensazione dipace.

Come conciliate i ricordi con le vostre attivitàmanageriali?A.: Mi alimento con la mia musica e con la pit-

tura, insegnando ai miei allievi tutto ciò che dibuono ho imparato e ricercando giovani talenti.E.: Mantengo il contatto con la natura, special-mente con l’acqua. Ho ideato tremila esercizi

di gym-nuoto, indirizzati a di-verse categorie di persone, in-cluse le donne in attesa, edinsegno tale disciplina aRoma, tenendo anche corsiper istruttori in tutta Italia.S.: Cerco di organizzare la fa-miglia e gl’impegni professio-nali, come egli stesso faceva.

Per terminare in bellezza que-sta nostra conversazione, checosa fate per mantenervi cosìin ottima forma?A.: Ciò che abbiamo rispostoa proposito delle nostre rispet-tive attività.E.: E senza annoiarci mai, nel

ricordo dell’amore per la vita che ci ha tra-smesso nostro padre.S.: Conserva l’ordine e l’ordine conserverà te.___________

* Raf Vallone era nato a Tropea il 17 febbraio 1916; eravissuto con il padre avvocato, fin dall’età di sei anni, aTorino, dove aveva praticato il calcio, giocando nel To-rino in serie A; è morto a Roma il 31 ottobre 2002.

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Elena Varzi

Raf Vallone con Melina Mercouri in Phaedra di Jules Dassin (1962)

PREMIO MASANIELLO NAPOLETANI PROTAGONISTI 2014

di Umberto Franzese

Il Masaniello vuole essere una istituzionepremiante che mette in luce un mosaico di

esempi, di modelli, di valori diversi uniti in unfascio di ideali diversi, di storie, di umanità di-verse. Nella sua interezza si regge su espe-rienze vere, non inventate. Raccogliedimensioni sociali, morali, emotive. Canalizza,tassello dopo tassello, una più vasta opera dirivisitazione di fatti, di creazioni avvenutenello scorrere del tempo. Si fonda su un temavariabile: anno dopo anno la scelta cade su spe-cifiche espressioni della creatività e delle ri-sorse più significative della nostra gente; su untema ciclico: ogni anno vengono prese inesame e gratificate le più vive caratteristicheestrinsecazioni dell’anima nostra, quali la par-lata, la poesia, il teatro l’arte, la canzone napo-

letana. Il Premio Masaniello – Napoletani Pro-tagonisti, alla sua IX edizione, mette piede inArgentina all’insegna della napoletanità più au-tentica. Tema che caratterizza il 2014: “Modae Mode”. Da piazza Mercato il Masanielloentra scintillante e intonato nel teatro DellePalme. Nella indovinata formula vincente: cul-tura e spettacolo. Una lieve nota malinconicafa da sfondo all’effervescenza della piazza delCarmine, dove per otto edizioni consecutive siè tenuta la interessante manifestazione di cul-tura e spettacolo. Ma la festa dura anche in tea-tro. Il cuore e la storia della moda napoletanasuscita l’applauso più convinto della numerosae sanguigna platea quando in palcoscenico sfi-lano, assieme alle incantevoli modelle, i prota-gonisti titolati della moda napoletana: Argenio

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Salvatore e Annamaria stilisti identitari, Can-zanella, Marinella, Valentino, Greco, BrunoCaruso, che ha vestito le più importanti iconedegli anni Novanta Serpone, Giusy Giustino,costumista e direttrice della sartoria del teatroS. Carlo, l’Antica Sartoria Positano, Gino Cim-mino, che ha vestito e veste Napoli da vicino enel mondo, Carpisa. C’è il cuore, la passionedella conduttrice Lorenza Licenziati che, coa-diuvata dalle brillanti Anna Donato e FedericaFlocco, miscela il gioco delle parti nell’alter-narsi dei “protagonisti” della Moda e degli ar-tisti del mondo dello spettacolo. Al tradizionaleappuntamento di fine settembre ma non troppo,i “virtuosi” del tema ciclico: Ermanno Corsi,strenuo difensore delle lingue che “suonano”lungo lo Stivale; Adriana Dragoni, storicadell’arte, autrice de Lo spazio a 4 dimensioninell’arte napoletana; Gennaro Sangiuliano, vi-

cedirettore del TG1 Rai; Antonio Sticco, ar-chitetto del trasporto; don Aniello Manga-niello, custode e bandiera che guida gli smarritiverso le luminose strade del mondo; GiovannaScala dall’anima bella e fatta di tutti i giorni,dirigente scolastica dell’Isabella d’Este-Carac-ciolo. Lo spettacolo, inserito nel ricco palinse-sto, non è da meno: è musica, è poesia. Poesia,musica, levità, grazia nel balletto Manichini. IlMasaniello, superbo tra le opere di DomenicoSepe, a Francesca Maresca, prodigiosa vocesbocciata tra i pampini di Piano di Sorrento;per la musica d’autore a Enzo Gragnaniello, aGino Rivieccio per il teatro che mette brividi einventa altri spazi; a Diego Moreno,argentinodal cuore napoletano, ambasciatore della can-zone napoletana nel mondo, a Letti Sfatti,gruppo giovane che seleziona varianti per lamusica à la folie.

Pieter de Jode, Masaniello

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1965-2015 “EDIZIONI 2000”Cinquant’anni di cultura

di Pierino Accurso

Il prossimo giugno 2015 ricorre il cinquante-nario della fondazione del giornale periodico

a carattere internazionale con testata Edizioni2000. Il periodico ebbe inizialmente natura tec-nica, agricola e commerciale, trattando articoliprevalentemente di agricoltura con firme diagronomi di livello internazionale. Dopo pochianni la natura del giornalefu cambiata in quella dicultura, attualità specificae sport. La testata, con decisioneunanime del comitato edi-toriale, patrocinò, dal1967 in poi, l’organizza-zione di premi letterari edi poesia in lingua italianae napoletana, indetti a Na-poli nel ricordo dei poetiGiuseppe Marotta, Edo-ardo Nicolardi, E.A.Mario ed Ernesto Murolo.Le successive edizioni ditali concorsi furono deno-minate esclusivamente“Premi letterari Edizioni2000”. Essi si svolsero informa inedita e per laprima volta a Napoli, fra l’altro, al Circolodella stampa, al Circolo Canottieri Napoli, alTeatrino di Corte – aperto per la prima volta –e al Castel dell’Ovo. Nel corso dello svolgi-mento dei vari concorsi letterari, le Edizioni2000 portarono alla notorietà ed al successo ipoeti contemporanei che hanno nella loro con-tinuità decantato Napoli e l’Italia. Essi sono

oggi, per la maggior parte, tra le stelle, dovecostituiscono ormai un cenacolo di cultura dicrescente spiritualità. Tra i tanti è bello ricor-dare Giuseppe Cangiano, Ugo Izzolino, Anto-nio Del Deo, Lello Lupoli, Salvatore Tolino,Alfredo De Lucia, Enzo Fasciglione ed altri an-cora.

Illustri critici, giornalisti epoeti hanno guidato leEdizioni 2000 con i loroscritti e la loro parola, tra iquali ricordiamo AngeloMaggi, Ottavio Nicolardi,Ettore De Mura, SerafinaBissanti, Franco Picci-nelli, Salvatore Cerino – il“Poeta di Mergellina” –,Ada Sibilio Murolo, LinaPetrella – la signora deisalotti culturali di Napoli –e Vittorio Amedeo Cara-vaglios.Le innumerevoli manife-stazioni indette dalle Edi-zioni 2000 hanno avuto lapresenza di attori, cantantidi musica leggera, musici-sti e artisti di vario genere,

che hanno espresso, volta per volta, la loro pro-fessionalità nel proprio settore. È utile ricor-dare la prima grande manifestazioneartistica-culturale patrocinata e indetta dalleEdizioni 2000, con la piena adesione del Co-mune di Napoli e con la collaborazione deiquotidiani Roma, Napoli notte e Il Mattino,negli anni 60, tenutasi al teatro Mediterraneo

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della Mostra d’Oltremare, con il conferimentodelle “Maschere d’argento”. Negli anni 80 ilperiodico divenne l’organo ufficiale del-l’ENAC – Ente Nazionale Artistico Culturale,istituzione facente capo all’ex-Ministero delTurismo. Dalla fine degli anni 70 le Edizioni2000 hanno fattivamente dato piena collabora-zione, con tutto il corpo redazionale e per bendiciotto edizioni consecutive, agli Incontri in-ternazionali medici organizzati nell’isolad’Ischia dal Centro internazionale di culturaRoma-Ischia, presieduto sin dalla fondazionedalla impareggiabile Maria Vassallo Gamboni,scomparsa anni fa. Il periodico è stato diretto nel corso degli annida vari giornalisti, che hanno, insieme conl’editore, migliorato le varie specifiche rubri-che e portato la tiratura di stampa a 9.500copie. L’attuale direttore responsabile è il gior-nalista Franco Greco, residente a Roma e giàCapo ufficio stampa della Presidenza del Con-siglio e del Ministero dell’Agricoltura, noto e

illustre critico letterario e artistico, e il giornaleè dal 2002 l’organo ufficiale dell’Accademiadi alta cultura “Europa 2000”. Tanti sono statii personaggi del passato e sono tuttora gli arti-colisti che hanno curato e curano le varie ru-briche, tra i quali ricordiamo i giornalistiErnesto Filoso, Angelo Maggi, Renato Ribaud,Antonio De Marco e Ottavio Nicolardi, e gliartisti Beniamino e Pupella Maggio, GennaroDi Napoli, Franco Gargia, Roberto Murolo,Tecla Scarano, Amedeo Pariante, Nino Ta-ranto, Luisa Conte, Nino Manfredi, ArnoldoFoà, Enzo Cannavale, Sergio Bruni, FrancoRicci, gli attori del San Carlino e Totò – il“Principe del sorriso” –.Il giornale Edizioni 2000 dall’anno della suafondazione iniziò anche la stampa di volumettidi liriche, fino a costituirsi in editrice culturalecon registrazione ufficiale nell’anno 1973, edattualmente, con scelta rara, pubblica libri dipoesie, prosa, saggi e cataloghi artistici e vari,inerenti ogni forma di attività culturale.

L’insediamento del nuovo presi-dente, nella persona del prof. Sal-vatore Alfieri, già primario diortopedia dell’Ospedale di Lagone-gro, ha aperto i lavori della sessionedell’Accademia di alta cultura “EU-ROPA 2000”, svoltisi a Belvedere Ma-rittimo il 27 settembre scorso, nella

sala convegni del Bougainville Palace Hotel. La manifestazione si èarticolata attraverso la premiazione dei partecipanti alla prima edizionedel Concorso internazionale di arti figurative, coordinata dal senatoreaccademico Mimmo Piscopo, la consegna di targhe d’onore accade-miche, ed è culminata nell’assegnazione dello “Scugnizzo d’oro” allamemoria del giornalista Franco Piccinelli, deceduto nello scorso mesedi febbraio.

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NAPOLI OGGI ATTRAVERSO LA VOCE

DEI “BASTARDI DI PIZZOFALCONE”di Mario Rovinello

Quasi trecento persone, fortemente moti-vate, sono intervenute sabato 29 novem-

bre al secondo appuntamento della rassegna“Dialogando con la città”, organizzata in occa-sione del settantacinquesimo anniversario delCinema Vittoria al Vo-mero. In un momentostorico in cui nel quar-tiere vengono chiusi imaggiori attrattori cul-turali, il Cinema Vitto-ria ha scelto dicelebrare la sua “festa”promuovendo dibattitie occasioni di con-fronto sulla Città e sulPaese. Prendendo spunto dallapubblicazione dell’ul-timo romanzo di Mau-rizio De Giovanni,Gelo per i Bastardi diPizzofalcone (edito daEinaudi), lo stesso Au-tore, il giornalista diRepubbl ica-Napol iEduardo Scotti, la sto-rica Isabella Insolvibile e chi scrive, precedutida brevi saluti rivolti dall’assessore alla scuoladel Comune di Napoli Annamaria Palmieri edal professore e architetto Alessandro Casta-gnaro (tra gli ideatori dell’iniziativa e arteficedei lavori di ristrutturazione che hanno interes-sato l’anno scorso il Vittoria), hanno discussodel tema Napoli oggi attraverso la voce dei“Bastardi di Pizzofalcone”. È stata dunquel’occasione per riflettere sul rapporto tra Na-poli e la letteratura, sul ruolo della cultura nella

società del nostro tempo e soprattutto deglistraordinari personaggi usciti dalla penna diMaurizio de Giovanni.L’Autore del ciclo dell’ispettore Giuseppe Lo-jacono può a giusta ragione essere considerato

un vero e proprio spon-sor della città nelmondo, dal momentoche è ormai tradotto intanti paesi e la sua fi-gura è strettamente le-gata alla sua originepartenopea. De Gio-vanni rivendica congrande orgoglio la suaappartenenza, soste-nendo un legame indis-solubile con Napoli,che gli ha offerto e con-tinua ad offrire storie emateriale da raccon-tare. Anche Raffaele LaCapria, nel corso di unaimportante lezione, te-nuta alla Sorbonne aParigi il 28 novembre2003, dal titolo Il mio

poetico litigio con Napoli, pur avanzando ri-chiesta di sdoganamento per il suo lavoro diautore e affermando che «per uno scrittore na-scere a Napoli comporta sempre un pedaggioda pagare», sostenne che tuttavia «senzal’identità napoletana e il mio profetico litigiocon la città, forse quei libri non li avrei maiscritti».Leggendo i romanzi di Maurizio de Giovanniritorna sempre in mente il titolo di coda delfilm di Francesco Rosi Le mani sulla città,

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dove si legge che «i personaggi e i fatti qui nar-rati sono immaginari, è autentica invece la re-altà sociale e ambientale che la produce». Eccol’aggettivo autentico sembra sia perfettamenteadatto a descrivere il tipo di narrativa delloscrittore partenopeo, perché essa è autentica,perché racconta vite autentiche, storie vissute.Sono quelle storie vissute che l’autore ha vistoe su cui si è poi documentato per tanti anniprima di arrivare a pubblicare il suo primo ro-manzo.I libri di de Giovanni ci aiutano a riflettere sulruolo che la letteraturapuò avere nel processodi comprensione delledifficili dinamiche dellarealtà e su quanto siastretto il rapporto traletteratura e storia.Questa letteratura, in-fatti, coglie con straor-dinaria immediatezza lecontraddizioni deltempo e le rappresentaservendosi dell’immaginario, facendo sì cheesse siano evidenti a tanti che altrimenti noncoglierebbero la complessità del reale. Gelo è naturalmente ambientato a Napoli, inuna città sconvolta da un terribile freddo, chenaturalmente rimanda a un freddo interiore, auna solitudine esistenziale che accompagnatutti i protagonisti del romanzo. In esso vi èrappresentata la città in cui per le forze dell’or-dine non è assolutamente facile operare. È lavoce di Lojacono che si fa portavoce del ram-marico di chi si sente quasi in colpa per il fattodi non potere evitare che avvengano ad esem-pio i furti in casa (p. 17); è la Napoli dei grandicontrasti (palazzi bellissimi, bassi maleodo-ranti e fatiscenti, o ancora palazzi bellissimi te-nuti in pessimo stato); è la Napoli vista da chiviene da fuori (Marinella, la figlia di Loja-cono), ai cui occhi la città con la sua apparenteallegria sembra bellissima (a Marinella piacegirare la città a piedi o con i mezzi pubblici, equesto al padre sembra impossibile!); è la Na-poli della crisi e della mancanza di aziende ca-paci nella maggior parte dei casi di competere

con quelle del Nord; e ancora, è la Napoli delCentro Direzionale, dove la vita finisce alle tre-dici, il cui scenario, come scrive De Giovanni,sembra quello di un “olocausto postnucleare”.Sembra così, in alcuni passaggi sulla città, ri-tornare alla mente qualche pagina scritta nel1976 da Nicola Pugliese che nella sua Malac-qua tratteggia mirabilmente una Napoli dolentesospesa tra immagini oniriche e realtà. Napoliinsomma, una città rovello, come ha scritto unodei più attenti studiosi della città, rovello perchi vi vive e vi lavora, un’angustia, un tarlo che

si insedia nel cuore, nelcervello, e non ne escepiù, perché non riesci aspiegarla, non ne com-prendi la storia, fatta diun continuo alternarsidi rivoluzioni e succes-sive e cruente controri-voluzioni.Ma Napoli, in questiracconti di Maurizio deGiovanni, è lo specchio

della condizione esistenziale del paese, del-l’Europa. Non si spiegherebbe il grande suc-cesso ottenuto anche all’estero dai suoi librisoltanto con il fatto che sono scritti benissimoe sono coinvolgenti dalla prima all’ultima pa-gina. Essi affrontano tematiche (qualcuno, conuna battuta, le ha addirittura definite “degio-vannee”) universali, senza confini geografici etemporali. La storia potrebbe essere ambientata a Napoli,così come in qualsiasi altra città e non è uncaso che la città non viene mai chiamata con ilsuo nome né in Buio né in Gelo. Il dolore, lasofferenza, la violenza anche tra le mura do-mestiche, la passione, l’amore accomunanol’uomo di ogni tempo e di ogni spazio geogra-fico («anime alla deriva in questa solitudinemaledetta»).Il prossimo appuntamento della rassegna “Dia-logando con la città” si terrà sabato 13 dicem-bre alle ore 11.00 presso il cinema Vittoria conla presentazione del libro Nu zio ciuccio e nunepote scemo (commedia inedita di EduardoScarpetta), curato da Giovanni Maddaloni.

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GIOVANDOMENICO LEPORE - NICO PIROZZI, Chiamatela pure giu-stizia (se vi pare) (s.l. ma Villaricca, CentoAutori, 2014), pp. 176, €. 15,00.Un libro che dà finalmente risposte alle domande che molti cittadini si pon-gono di fronte ai vari casi della giustizia è quello scritto “a quattro mani” daLepore e Pirozzi. Il titolo è sintomatico: che tipo di giustizia è quella italiana;la risposta è sottintesa dal procuratore Lepore, che in cinquant’anni di magi-stratura, dei quali sette alla Procura della Repubblica di Napoli, ha conosciutoeffettivamente il cancro che attanaglia la nostra città e non solo. Un cancroche non è la camorra in senso tradizionale, bensì quella più subdola, silenziosa,

che colpisce molto più profondamente al livello economico, politico, etico. Una riflessione vienespontanea: ma se i politici si consultassero con gli addetti ai lavori, non potrebbero formulareleggi più giuste? in fondo, il Parlamento emana le leggi e la magistratura le applica, anche sesono ingiuste. Ogni cittadino dovrebbe sentirsi sollecitato dalla lettura del libro a formarsi unapropria idea e ad averla presente quando è chiamato a votare; altrimenti, “chiamatela pure giu-stizia (se vi pare)”. (Maria Romeo)

DOMENICO AMBROSINO, Gente di Procida. Pescatori, marinai, contadini,preti (Napoli, Massa, 2014), pp. 198, €. 15,00.ANNA ROSARIA MEGLIO, Un invisibile punto. Luoghi e volti della miaisola (Procida, Espressioni procidane, 2014), pp. 160, €. 15,00.Ormai anche Procida ha i suoi Dubliners; e a descriverli hanno provveduto, conun’azione “autonomamente congiunta”, due penne procidane,vale a dire, quelle del giornalista Domenico Ambrosino e dellapoetessa Anna Rosaria Meglio. Differente è l’approccio dei due

autori al tema comune: orientato maggiormente verso la ricostruzione della so-cietà isolana del secolo scorso, quello di Ambrosino («il remo, la zappa e la to-naca», soleva ripetere il compianto sindaco scrittore Vittorio Parascandola);d’impronta più decisamente naïve, quello della Meglio, la cui attenzione, pe-raltro, è rivolta in maniera particolare ai procidani che si sono trasferiti fuori dall’isola e a quelli“d’importazione”. Comune a entrambi i volumi, viceversa, è la considerazione dedicata, accantoalle figure “di estrazione colta”, a personaggi di estrazione assolutamente popolare, che hannolasciato, in ogni caso, un’impronta marcata nella memoria del luogo. (S.Z.)

GIULIO MENDOZZA, Suonno marinaresco (Napoli, Volpicelli, 2014), pp.224, s.i.p.Poeta a tutto tondo, oltre che napoletanista con la “N” maiuscola, Giulio Men-dozza raccoglie, in questo tredicesimo volume della sua produzione letteraria,componimenti poetici che spaziano dalla “corda” (giusto per adoperare un vo-cabolo pirandelliano) seria a quella umoristica, non di rado caratterizzati dalladedica a figure del panorama culturale napoletano contemporaneo; elemento,

questo, non comune in un ambiente connotato, per lo più, dall’invidia. Una menzione particolaremeritano i versi dedicati a san Filippo Smaldone, sacerdote napoletano per lo più dimenticatodalla sua città. (S.Z.)

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CLEMENTINA GILY, La didattica della bellezza (Soveria Mannelli, Rub-bettino, 2014), pp. 108, Euro 14,00.Che la bellezza abbia bisogno di una didattica per dare l’opportunità di scoprireda dove essa nasce, come si crea bellezza, come si fruisce, appare cosa necessariaalla formazione dell’uomo. Il saggio di Clementina Gily si muove da questa ur-genza nella considerazione che «i bambini, gli adolescenti e gli adulti hannotutti la necessità di ragionare di bellezza, di salute della mente, di entusiasmo».Non è difficile constatare come questo libro sia un utile strumento conoscitivo

e, soprattutto per i docenti, di fruttuoso riferimento per il lavoro formativo sull’educazione al-l’immagine. (F.L.)

Paolo Sorrentino, l’Oscar della Bellezza, a cura di PIETRO GARGANO (Na-poli, Guida editori, 2014), pp. 80, € 4,90.Un ritratto di Paolo Sorrentino realizzato in più fasi, con un racconto di Garganoche riassume il suo percorso artistico e personale e una serie di dichiarazioni, dicolleghi e dello stesso Sorrentino, che ne tracciano un profilo preciso. Attraversole opinioni dello stesso Sorrentino si possono scoprire i metodi di lavoro, l’originedelle idee e, a volte, anche una semplicità maggiore di quanto possa apparire nella

realizzazione e nelle intenzioni di determinate scelte artistiche. Sfogliandolo si trova la confermadella vena ironica e della ricerca, in ogni film, di un aspetto di divertimento che, a un primosguardo, sfugge a molti spettatori. (C.Z.)

ARTURO PéREZ-REVERTE, Il cecchino paziente (Milano, Rizzoli, 2014),pp. 253, € 18,00.Uno dei maggiori romanzieri degli ultimi vent’anni alle prese con un testo chediventa, strada facendo, una vera critica all’arte contemporanea e un’ampia spie-gazione dell’arte da strada. Raccontando la storia e l’indagine di una scopritricedi talenti Pérez-Reverte rivaluta e spiega il mondo dei “graffitari”, tracciandole differenze tra Spagna, Portogallo, Stati Uniti e Italia, trascinando i protagonistinel cuore di Napoli. La città diventa lo sfondo per raccontare un’idea di arte

contemporanea, a larghi tratti condivisibile, senza perdere la scorrevolezza della scrittura e dellatrama, che tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina. (C.Z.)

AA.VV., 2004-2014 Napoli 10 e lode (Napoli, Giammarino Editore, 2014),pp. 188, € 20,00.Dieci e lode è la valutazione che merita la storia del Napoli di Aurelio DeLaurentis, iniziata nell’agosto del 2004, esattamente dieci anni fa. Lo ha rac-contato con un libro, presentato lo scorso settembre, una formazione di tuttorispetto composta di undici giornalisti provenienti dalla Giammarino Editoree da Radio Marte. Almeno graficamente in veste di calciatori sono, infatti,scesi in campo per ripercorrere le tappe salienti di un decennio che, nono-stante alcuni momenti difficili, indispensabili in un processo di crescita, ha

registrato numerose, grandissime soddisfazioni degne di una scalata verso il successo. Il volume,con la prefazione di Vittorio Raio, fischia l’inizio della temeraria partita di De Laurentis, ricor-dando il gol del difensore centrale Giovanni Ignoffo e le emozioni del primo match giocato inserie C1, per arrivare poi a celebrare i formidabili e indiscussi protagonisti di oggi, ormai da unpo’, tra i primi posti della serie A. La passione che trasuda dalle pagine del libro è la stessa cheinonda il San Paolo ad ogni incontro, che bagna le maglie sul campo ed è quella di questi diecimeravigliosi anni colorati, come più non si potrebbe, d’azzurro e ballati al ritmo inconfondibiledel Sud su note sudamericane, spagnole e, ovviamente, partenopee. (G.D.)

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In copertina: Il Presepe Ricciardi, di proprietà del collezionista EdoardoRicciardi, era conservato nel Museo Nazionale e fu trasferito in quello diSan Martino nel 1920; nel 1984 fu sottratta da esso una quarantina di fi-gure, sostituite nell’allestimento attuale da altre, prelevate da alcune dellecollezioni presenti nel museo medesimo.

Sergio Zazzera (disegno di Renato Cammarota)

Direttore responsabile: Sergio ZazzeraRedattore capo: Carlo Zazzera Redazione: Gabriella Diliberto,Antonio La Gala, Franco Lista,Elio Notarbartolo, Mimmo Piscopo Past-director: Antonio Ferrajoli

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