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AUDEN CRITICO-POETA IN THE SEA AND THE MIRROR È noto agli studiosi come W.H. Auden abbia sempre cercato di trattare con il massimo rigore scientifico la propria poesia, nel contempo raggiungendo punte di estrema originalità creativa in sede critica. Una chiara sintesi di queste due tendenze è riscontrabile nell’utilizzo del verso come strumento di indagine critica: in particolare ci si può riferire a The Sea and the Mirror 1 . Decidendo nel 1942 di dare un seguito a The Tempest narrando le vicende dei personaggi a partire dal momento in cui, calato il sipario, il mondo fittizio dell’arte lascia di nuovo spazio al mondo della vita, Auden scelse non solo di misurarsi con la tradizione, ma di esaminarsi in toto come uomo e come artista. L’universalità dell’arte shakespeariana gli offriva lo spunto per effettuare una meditazione a tutto campo anche sulla sua funzione di critico-poeta. Come egli stesso scrive in The Dyer’s Hand (dove, per altro, l’intera quarta sezione – The Shakespearian City – è dedicata a un sapiente confronto tra il teatro classico e quello elisabettiano): It has been observed that critics who write about Shakespeare, reveal more about themselves than about Shakespeare, but perhaps that is the great value of drama of the Shakespearian kind, namely, that whatever he may see 1 In un volume di prossima pubblicazione l’argomento verrà affrontato con riferimento anche alla Letter of Lord Byron, a The Age of Anxiety e ad altre opere del canone audeniano.

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AUDEN CRITICO-POETA

IN THE SEA AND THE MIRROR È noto agli studiosi come W.H. Auden abbia sempre cercato di trattare con il massimo rigore scientifico la propria poesia, nel contempo raggiungendo punte di estrema originalità creativa in sede critica. Una chiara sintesi di queste due tendenze è riscontrabile nell’utilizzo del verso come strumento di indagine critica: in particolare ci si può riferire a The Sea and the Mirror1.

Decidendo nel 1942 di dare un seguito a The Tempest narrando le vicende dei personaggi a partire dal momento in cui, calato il sipario, il mondo fittizio dell’arte lascia di nuovo spazio al mondo della vita, Auden scelse non solo di misurarsi con la tradizione, ma di esaminarsi in toto come uomo e come artista. L’universalità dell’arte shakespeariana gli offriva lo spunto per effettuare una meditazione a tutto campo anche sulla sua funzione di critico-poeta. Come egli stesso scrive in The Dyer’s Hand (dove, per altro, l’intera quarta sezione – The Shakespearian City – è dedicata a un sapiente confronto tra il teatro classico e quello elisabettiano):

It has been observed that critics who write about Shakespeare, reveal more about themselves than about Shakespeare, but perhaps that is the great value of drama of the Shakespearian kind, namely, that whatever he may see

1 In un volume di prossima pubblicazione l’argomento verrà affrontato con riferimento anche alla Letter of Lord Byron, a The Age of Anxiety e ad altre opere del canone audeniano.

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taking place on stage, its final effect upon each spectator is a self-revelation2.

E, per Auden, criticare Shakespeare significa mettere a nudo le proprie capacità creative, rivolgendosi già nell’Introduzione ai critici presenti in sala, poi tenuti a recensire l’opera. Così, nella prima sezione, Prospero è l’artista ormai anziano che, dopo aver rinunciato a continuare a creare, si appresta ad affrontare quel mistero della vita al quale la sua arte non ha saputo dare alcuna risposta. Nella seconda gli altri personaggi di The Tempest meditano sugli avvenimenti che li hanno coinvolti (e terribile è l’operazione di ‘smontaggio’ che Auden compie sulla ‘freschezza’ dell’innamoramento della coppia Ferdinand-Miranda). Nella terza, infine, appare il lungo monologo di Calibano. In prosa. Si tratta della sezione più complessa (e anche, si dice, più noiosa) dell’opera; quella che la rende teatralmente irreppresentabile; mentre per le prime due sezioni e l’Introduzione potrebbe funzionare la definizione di “teatro da camera”, o come scrive Blair di «semidrama»3. Ma si tratta anche della sezione di cui Auden andò sempre maggiormente fiero.

Proponiamo dunque di soffermarci dapprima su alcuni passaggi del monologo di Calibano per porre in luce come Auden fosse poeta-critico o critico-poeta a tutti gli effetti, e in grado di utilizzare tanto la poesia quanto la prosa come strumenti di indagine critica. 2 W.H. Auden, The Dyer’s Hand, London, Faber & Faber, 1987, [1963],p. 182. 3 J. G. Blair, The Poetic Art of W.H. Auden, Princeton University Press, 1965, p. 106.

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Prototipo del personaggio-maschera teatralmente ‘moncellulare’ in The Tempest, in The Sea and the Mirror Calibano diviene una figura polivalente, per mezzo della quale Auden riesce a dare forma compiuta alle proprie concezioni estetiche, e persino a muovere con eleganza la propria critica a Shakespeare.

Calibano esordisce come portavoce del pubblico e si rivolge a Shakespeare accusandolo di aver inserito il suo mondo – ovvero la vita – nel mondo fittizio dell’arte, rendendolo così ancora più goffo e bizzarro di quanto già non fosse. Il mondo dell’arte è il regno dell’armonia, dove i contrasti vengono sopiti e risolti; la vita è invece un caos informe a cui l’uomo si illude di poter dare un ordine stabile. Implicita, dunque, la critica a Shakespeare per aver sostenuto che il teatro – e quindi l’arte – non è che uno specchio rivolto alla Natura. In realtà, Arte e Vita – ovvero Specchio e Mare – sono in costante opposizione. E così Calibano si rivolge direttamente a Shakespeare:

You yourself, we seem to remember, have spoken of the conjured spectacle as «a mirror held up to Nature», a phrase misleading in its aphoristic sweep but indicative at least of one aspect of the relation between the real and the imagined, their mutual reversal of value, for isn’t the essential artistic strangeness to which you citation of the sinistrerly biassed image would point just this: that on the far side of the mirror the general will to compose, to form at all costs a felicitous pattern becomes the necessary cause of any particular effort to live or act or love or triumph or

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vary, instead of being as, in so far as it emerges at all, it is on this side, their accidental effect?4

Ma l’accusa a Shakespeare può essere persino più grave. Alla fine di The Tempest Calibano e Ariele vengono infatti ‘liberati’, e non se ne conosce la sorte. Lo spettatore può supporre che Shakespeare intendesse destinare Ariele – la fantasia – al mondo della vita? Secondo Auden, per bocca di Calibano, se così fosse, il danno sarebbe ancora maggiore, poiché illuderebbe l’uomo sull’eventualità che il caos dell’esistenza possa acquisire la perfezione e l’armonia del mondo dell’arte:

Is it possible that, not content with inveigling Caliban into Ariel’s kingdomn you have also let loose Ariel in Caliban’s? We note with alarm that when the other members of the final tableau were dismissed, He was not returned to His arboreal confinement as He should have been. Where is He now? […] We want no Ariel here, breaking down our picket fences in the name of fraternity, seducing our wives in the name of romance, and robbing us of our sacred pecuniary deposits in the name of justice. Where is Ariel? What have you done with Him? For, we won’t, we daren’t leave you until you give us a satisfactory answer5.

Così come in precedenza, Auden aveva criticato Kierkegaard con l’argomentazione secondo la quale «whatever sorrow and suffering a man may have to endure,

4 Cf. W.H. Auden, Complete Poems, London, Faber & Faber, 1976, p. 330. 5 Ivi, pp. 330-1.

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it is nevertheless a miracolous blessing to be alive»6, egli è per principio contro quegli artisti che cercano di fare dell’arte una religione e un sostituto della vita. Secondo Auden, nonostante le difficoltà, essa doveva sempre e comunque essere vissuta pienamente e con responsabilità.

Eppure, una vita non rischiarata dalla luce dell’arte finisce per essere squallida e priva di attrattive. Calibano e Ariele presi singolarmente non possono che confondere l’uomo fornendogli una visione distorta della realtà. L’arte da sola non può bastare a chiarire il mistero della vita e a placare le angosce umane; ma essa può mostrare all’uomo la sua ‘imperfezione’, in modo tale da spingerlo a prendere coscienza dell’esistenza di un’altra vita oltre la morte, nella quale le sue speranze saranno realizzate e le sue angosce placate. Così il sipario cala nella consapevolezza

Not that we have improved; everything, the massacres, the wippings, the lies, the twaddle, and all their carbon copies are still present, more obviously than ever; nothing has been reconstructed; our shame, our fear, our incorregible staginess, all wish and no resolve, are still, and more intensely than ever, all we have: only now it is not in spite of them but with them that we are blessed by the Wholly Other Life from which we are separated by an essential emphatic gulf (…); it is just here, among the ruines and bones, that we may rejoice in the perfected Work which is not ours7.

Questo, naturalmente, nella ormai acquisita convinzione audeniana che né l’arte né la scienza potevano sostituirsi 6 W.H. Auden, Forewords and Afterwords, London, Faber & Faber, 1973, p. 340. 7 W.H. Auden, Complete Poems, cit., p. 340.

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alla religione per far luce sul mistero della vita, e che tanto i ‘romantici’ quanto gli ‘illuministi’ avevano fallito perché non erano stati in grado di mostrare all’uomo la via della salvezza.

Infatti Calibano, come portavoce di Shakespeare, si rivolge in particolare all’artista giovane, ricordando come – in una prima fase – l’attività creativa si presenti interessante e colma di soddisfazioni. E come l’artista si senta un privilegiato perché – possedendo la facoltà della Imagination – ritenga di poter modificare il caos della vita in virtù dell’armonia propria dell’arte. Solo quando è vecchio e solo, lo stesso artista si accorge di non essere riuscito a sondare i misteri della vita ed è costretto – come Prospero – a dichiarare il proprio fallimento. Il mondo di Calibano, che egli – artista – aveva sempre cercato di evitare, lo attende inesorabile per prendersi la sua rivincita:

You are left alone with me [Caliban], the dark thing you could never abide to be with, if I do not yield your kind answer or admire you for the achievements I was never allowed to profit from, if I resent hearing you speak of your neglect of me as your ‘exile’, of the pains you never took with me as ‘all lost’? […] From now we shall have, as we both know only too well, no company but each other’s […]8.

Nella terza parte di The Sea and the Mirror Calibano recita in pratica tre ruoli diversi. Dapprima quello del pubblico, quindi quello di Shakespeare, infine il suo proprio. Si presenta sul palcoscenico appena gli altri attori, gli «hired impersonators» che hanno recitato The Tempest, si sono 8 Ivi, p. 334 e sgg. per le successive citazioni.

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ritirati, mentre il pubblico insiste perché l’autore («so good, so great, so dead») dia delle spiegazioni. «Chi altri se non io» – dice Calibano – «potrebbe rispondere alle domande che vorreste porre a Shakespeare?».

«For the present I speak your echo» è dunque la formula di Calibano nella parte del pubblico. Il quale subito lamenta l’intrusione nel palazzo della Musa proprio di Calibano. Il pubblico considera Shakespeare responsabile di questo affronto all’arte, che ha tante buone qualità, ma anche un difetto: non sopporta «the represented principle of not sympathizing, not associating, not amusing, the only child of her Awful Enemy… the unrectored chaos». Proprio per questo la Musa vieta sempre l’ingresso nella sua casa al figlio della realtà, al rappresentante della natura: la «vision of private love or public justice» di Calibano farebbe infatti svanire tutte le illusioni degli artisti «visionaries»; Calibano sconvolgerebbe «the excellent order of the dancing ring», e la conseguenza più grave sarebbe la perdita di verginità della Musa in quanto il sesso entrerebbe nell’arte.

Il pubblico non vuole che l’arte si abbassi al livello della vita; al contrario, l’arte «should preserve for ever her old high strangeness, for what delights us about her would is just that it neither is nor possibly could become one in which we could breathe or behave». L’arte tende a rappresentare la realtà più bella di quella che è, ma in questo mondo «of freedom without anxiety» il pubblico rifiuta decisamente di entrare perché sa che è un mondo fittizio, paragonabile alla natura incontaminata («river») rispetto alla civiltà industrializzata («railway»). Come tra fiume e ferrovia esiste una linea invisibile di separazione, così fra arte e vita dovrebbe esserci una frontiera.

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Calibano – sempre nella parte del pubblico – ricorda poi a Shakespeare la sua definizione di arte: «A mirror held up to nature». Una frase che egli giudica «misleading», al punto da dire a Shakespeare che sarebbe meglio se arte e vita invertissero la relazione causa-effetto che le lega:

How then, we continue to wonder, knowing all this, could you act as if you did not, as if you did not realize that the embarassing compresence of the absolutely natural, inerrigibly right-handed, and to any request for co-operation, utterly negative, with the enthusiastically self-effacing would be a simultaneous violation of both worlds?

Al pubblico sorge poi il dubbio che il vero intento che indusse Shakespeare a introdurre Calibano nel palazzo della Musa fosse di mettere in scena uno di loro, per mostrare come essi veramente sono. Calibano pertanto «can come back to us now to be comforted and respected». Mentre cerca Ariele, che il pubblico non vede, la domanda è:

Where is He now? For it the intrusion of the real has disconcerted and incommodated the poetic, there is a mere bagatelle compared to the damage which the poetic would inflict if it ever succeeded in intruding upon the real.

Il pubblico non vuole che Ariele entri nella realtà: egli deve restare nel mondo dell’arte per continuare a produrre le illusioni di cui esso stesso – il pubblico – si nutre.

«It is at his command… That I say this to you» è invece l’espresione che maggiormente caratterizza Calibano nelle vesti di Shakespeare. L’artista ha liberato Ariele imprigionato nel cavo dell’albero, e Ariele lo ha

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ricompensato conferendogli «a power by which you will survive». L’artista apprezza ogni giorno di più il suo rapporto con Ariele: con lui al fianco più nulla sembra poter sfuggire alla sua capacità di osservazione; egli riesce infatti a scorgere l’assenza delle persone e dei fatti, vive all’avanguardia rispetto al suo tempo, e avverte una sensazione di potenza e di grandezza che lo inebria.

L’artista raggiunge così il successo e «ever greater and faster triumphs», finché sopraggiunge la crisi e inizia il declino. L’intesa con Ariele si guasta: non ha più favori da chiedergli. Vorrebbe mandarlo per qualche tempo in vacanza, ma Ariele rifiuta. L’artista allora si rende conto che non gli resta altra soluzione se non la ‘separazione’. Ariele però rifiuta di andarsene e l’artista – rispecchiandosi nei suoi occhi – non vede più il «conqueror, both promising mountains and marvels», ma «a gibbering fist-clenched creature». Scopre così di avere una seconda natura; scopre il Calibano che è in lui, e deve ammettere che non si tratta di un sogno o di un’illusione, ma di una realtà da accettare. Sotto la maschera finora offerta al pubblico si nasconde una natura che non possiede alcuna buona qualità, ma che parte di lui. Mentre Calibano lo ritiene colpevole di avere volontariamente negato ed evitato tutto ciò che era legato al corpo, al sesso, all’eros («sofa and bridal-bed») e di aver preferito l’indifferenza e la negligenza alla lotta contro le passioni.

L’artista è quindi colpevole non solo per non avere lottato contro la sua seconda natura, ma anche per avere tolto la libertà a Calibano. Infatti, non avendogli permesso di peccare, gli ha negato la possibilità di sentire rimorso e quindi di salvarsi. Solo raramente e di nascosto l’artista ha

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dato libero sfogo ai suoi istinti («a quick cold clasp now and then in some louche hotel to calm me down»), e anche allora il suo pensiero era rivolto altrove. Così, mentre lo spirito soffre componendo «melting eclogues», Calibano resta maleducato e rozzo.

L’artista riconosce ora che la sua precedente vita è stata un volontario esilio dal mondo reale; ma d’ora in avanti «we shall have, as we both know only very well, no company but each other’s». L’artista e Calibano accettano dunque di stare assieme, anche se entrambi preferirebbero un altro compagno.

Si giunge così al terzo ruolo di Calibano. Il quale, dopo avere definito il pubblico presente, e quindi l’umanità intera, come un gregge che bela e spera invano di trovare un pascolo, annuncia che ai loro quesiti non vi sarà risposta. Spiega però da dove nascano tali interrogativi, facendo risalire la causa di tutte le ansie all’infanzia, al passaggio dal mondo fantastico alla realtà della vita. I bambini, crescendo, sono costretti a prendere coscienza della differenza fra realtà e immaginazione. Dopo questa crisi, secondo Calibano, la vita dell’uomo comune continua come un viaggio monotono, interrotto solo da pochi eventi («the three or four decisive instants of transportation»), mentre tutto il resto è routine. E la vita scorre tra difficoltà e problemi finché giunge al «Nowhere».

La vita dell’artista è invece diversa: egli abbandona i suoi simili e le certezze su cui si regge il mondo; ha solo «certainties of failure or success». E Calibano lo mette in guardia affinché non scelga solo Ariele o solo Calibano come guida. La vita che il secondo offre è una vita regolata da «Business, Science, Religion, Art», in cui l’artista non può

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trovarsi a suo agio. È un mondo arido, un paesaggio lunare, desolato, statico, dove tutto si ripete automaticamente e non ci sono scelte da compiere né interrogativi a cui rispondere.

«Ma non tutti scelgono me come guida», continua Calibano, c’è «a smaller but doubtless finer group» che sceglie Ariele, al quale viene chiesto di essere guida verso «that Heaven of the Really General Case» dove Spazio e Tempo non esistono. Ariele trasporta costoro in un «nightmare… where all is need and change»: un mondo dove qualsiasi fenomeno è possibile, e «any sense of direction is completely absent». In tale mondo il corpo è sottoposto alla mente, e le passioni allo spirito. Ma anche lì – in un territorio delimitato da «four dead rivers: the Joyless, the Flaming, the Mournful, and the Swamp of Tears» – l’unica meta possibile è la «public solitude» della disperazione. «Such are the alternative routes», conclude Calibano.

Il personaggio spiega infine la situazione paradossale in cui viene a trovarsi «the delicated dramatist» che affronti il problema della comprensione da parte del pubblico. Più l’artista è bravo e più fallisce:

The delicated dramatist, in representing to you your condition of estrangement from the truth is doomed to fail the more he succeeds, for the more truthfully he paints the condition, the less clearly can he indicate the truth from which it is estranged, the brighter his revelation of the truth in its order, its justice, its joy, the fainter shows his picture of your actual condition inall its drabness and sham, and, worse still, the more sharply he defines the estrangement itself… the more he must strenghten your delusion.

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L’artista deve deludere anche per evitare il pericolo che il pubblico consideri lo spettacolo solo come un bel gioco o una malattia inguaribile. L’arte deve portare alla riflessione. Per questo l’artista, da un lato deve lavorare al meglio delle sue possibilità, e dall’altro non può che sperare che qualcosa sopraggiunga a guastare il suo operato.

Mentre sul palcoscenico del mondo va in scena «the original drama», l’opera più rappresentata, anche se gli attori lasciano un po’ a desiderare («the greatest grandest opera rendered by a very provincial tourning company indeed»), i Calibani e gli Arieli «flounder on from fiasco to fiasco». Il discorso di Calibano prosegue così al plurale («we»): egli parla ormai a nome di tutti, dell’artista, del pubblico, di Ariele e degli altri personaggi. Ora che la rappresentazione è finita e il sipario è abbassato, «we do at last see ourselves as we are» e ci rendiamo conto che «there is nothing to say», tranne «the real Word which is our only raison d’être». Non c’è nient’altro che valga quanto quell’Agape «from which we are separated by an essential emphatic gulf».

In definitiva – nel brillante saggio Balaam and his Ass (poi

incluso in The Dyer’s Hand) – Auden stesso così stigmatizza le ragioni per cui non si può approvare lo Shakespeare di The Tempest: «The Tempest seems to me a manichean work, not because it shows the relation of Nature to Spirit as one of conflict and hostility, which in fallen man it is, but because it puts the blame for this upon Nature and makes Spirit innocent». In The Sea and the Mirror Auden mette dunque in atto un supremo tentativo di ‘correzione’ del bardo, ponendo sullo stesso piano da un lato «Flesh» e «Spirit»; dall’altro «Nature» (o «Sea») e «Art» («Mirror»).

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The Sea and the Mirror non può pertanto essere considerata un’opera ‘didascalica’ né un’opera ‘religiosa’: fra una poesia di ‘pura forma’ e una poesia di ‘puro contenuto’, Auden sceglie di non scegliere9. Egli sente ormai profondamente il disagio dell’artista ‘cristiano’ costretto dalla sua ‘fede’ a rinunciare all’arte in nome di una ‘serietà’ ultima. Per incidens, va ricordato che Auden non rinnegò mai la tesi di Huizinga secondo la quale lo spirito ludico, che aveva dato origine a tutte le attività sportive, aveva fatto nascere anche il teatro, la poesia, la musica e la filosofia, creando attorno ad atleti, poeti, attori, musicisti, filosofi come un cerchio magico di privilegio straniante rispetto agli altri uomini. Tutte queste attività avevano originariamente un carattere sacro. Arte e religione erano unite nella « religione estetica », la cui matrice era quindi lo spirito ludico. Ma, con l’avvento della cristianità, i valori «religione » e «arte » si erano divisi, e l’uomo aveva dovuto scegliere fra essere cristiano e essere artista. La cristianità – e Auden ne è convinto – non ammette il politeismo, mentre la religione estetica – la religione ideale dell’artista – è intrinsecamente politeistica10.

Auden vive questo dilemma e nel brillante saggio intitolato Postscript: Cristianity & Art (incluso anche nei 9 A riguardo si veda F. Binni, Saggio su Auden, Milano, Mursia, 1967, pp. 32-3. 10 Come schematicamente deduce D. Eddins nel saggio Quitting the game: Auden’s The Sea and the Mirror («Modern Language Quarterly», vol. 41, March 1980, 1, pp. 37-87), l’artista cristiano non è quindi più: a) libero, essendo uno strumento di Dio; b) disinteressato, in quanto la sua attività è legata alla ricerca della salvezza; c) capace di dare valore al tempo, allo spazio, al mondo in cui vive, perché questi valori svaniscono di fronte all’eternità, all’infinito; d) parte di una élite, bensì di una comunità di soli uomini.

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Selected Essays del 1962) afferma: «No artist or scientist… can feel confortable as a Christian; every artist who happens also to be Christian wishes he could be a polytheist». A un drammaturgo, poi, il fatto di essere cristiano pone anche altri problemi. Cristo gli appare come una contraddizione fra l’asserzione sacra («Sono la Via, la Verità, la Vita») e l’apparenza umana (un uomo come gli altri uomini). Auden avverte che non si può rappresentare drammaticamente Cristo sul palcoscenico, pena la riduzione di Cristo in modo non drammatico, fallisce come artista in quanto tale11. «The only drama that does not betray such Christianity – come suggerisce Eddins – is a metadrama which is not only self-conscious but self-deprecatory. By constructs didactic foils for a higher order of being. These construct highlight their opposite, the reality of which they do not share»12.

La versione kierkegaardiana della cristianità che Auden ha ormai abbracciato prevede l’estirpazione dello spirito ludico. Auden stesso dichiara: «Games are actes gratuits in which players obey rules chosen by themselves»13. Così – con The Sea and the Mirror – Auden celebra un rito in onore sia della religione estetica (realizzando un’opera artistica che nasce dallo spirito ludico) sia della religione cristiana (che nega tale spirito), connotandosi da un lato come ‘sacerdote’

11 Ma qui la questione sfuma anche nell’antropologia culturale. Se il greco Nikos Kazantzakis può permettersi di mettere in scena il dramma della passione (Cristo di nuovo in croce), l’anglosassone Auden può solo alludervi. 12 Cf. D. Eddins, op.cit., p. 75. 13 Cf. W.H. Auden, Postscript: the Frivolous & the Earnest, in The Dyer’s Hand, cit., p. 430.

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delle antiche divinità ‘pagane’, dall’altro come ‘ministro’ laico di Dio.

«Render unto Caesar the things thar are Caesar’s and unto God the things that are God’s», riecheggia Auden nel Postscript: the Frivolous & the Earnest, così continuando: «Christianity draws a distinction between what is frivolous and what is serious, but allows the former its place. What it condemns is not frivolity but idolatry, that is to say, taking the frivolous seriously»14. Nonostante i dogmi cristiani contrari allo spirito ludico (o del gioco, o della commedia), Auden non rinuncia dunque alla poesia e alla satira; non rinuncia al suo «diritto al gioco», ma riesce a mantenere una posizione di equilibrio trasformando la poesia in un «game of knowledge». Così, se negli anni Trenta egli aveva creduto in una funzione morale e terapeutica dell’arte, negli anni Quaranta afferma nella New Year Letter: «art is not life and cannot / be midwife to society»15. E sostiene che la poesia deve essere «a game of knowledge, a bringing to conscious, by naming them, of emotions and their hidden relationships»16. Questo è quindi The Sea and the Mirror: un gioco ma con fini seri.

Se ne ha conferma nel Postscript, quando finalmente parla Ariele, l’unico personaggio che ancora non ha preso la parola. E il suo è un canto per Calibano, per quel corpo di cui egli è anima e ombra («shadow cast / By your lameness») e della cui «drab mortality» è innamorato. L’immortale e perfetto Ariele («elegance, art, fascination») 14 Ivi, p. 430. 15 Cfr. vv. 78-9. 16 Cfr. W.H. Auden, Square and Oblongs, in Poets at Work, Ch. D. Aboot ed., New York, 1962, p. 173.

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ama un essere mortale e imperfetto, quasi a confermare due tratti essenziali della poetica e dell’estetica audeniane. La necessità di conciliazione tra classico e romantico, e l’ineluttabile attrazione non tra i due sessi ma tra tipologie opposte dello stesso sesso. Circa la prima, Auden non fa che ribadire in altri termini quanto B.W. Procter aveva tanto ben espresso un secolo prima nella lirica Hermione. Alla regina dotata di bellezza lucente e serena, modi nobili e fulgido intelletto, la cui voce stessa è un canto, che cosa manca?: «What then can we still desire?». E la risposta giunge con l’ultima strofa: «Something thou dost want, O queen! / As the gold doth ask alloy / Tears – amidst thy laughter seen / Pity – mingling with thy joy»17.

Per questo Ariele è «helplessy in love», e chiede a Calibano «spare me a humiliation / to your faults be true»: se riconosci almeno un po’ dei tuoi errori, allora forse potrai rispondere al mio canto. Ma non c’è bisogno che Calibano risponda. Ariele, la cui «entire devotion lies / at the mercy of your will» conosce bene i suoi desideri. Eppure aggiunge: «Tempt not your sworn comrade», nessuno può darti di più di quanto io ti do: «only / as I am can I / love you as you are». E l’eco del suggeritore («I») che risuona alla fine di ogni strofa del Postscript è come l’implicita ammissione di fusione tra corpo e spirito dell’uomo, di fragile ricomposizione di un indispensabile equilibrio18. 17 Cfr. B.W. Procter, Hermione, in Poeti romantici inglesi, vol. II, Milano, Bompiani, 1990, p. 542. E, per il commento critico, F. Buffoni, Perché era nato lord. Studi sul romanticismo inglese, Roma, Pieraldo, 1992, pp. 23-4. 18 È nel saggio Balaam and his ass (Selected Essays, London, Faber & Faber, 1964, pp. 110-15) che Auden esamina il dualismo master-servant, il primo

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* * * All the rest is silence On the other side of the wall, And the silence ripeness, And the ripeness all.

Crediamo che questi versi dall’intonazione profondamente shakespeariana, tratti dal Prologo di The Sea and the Mirror, siano particolarmente adatti a chiosare la scena finale dell’opera, con Ariele che implora Calibano di cercare d’essere anche solo un poco meno volgare, che a tutto poi penserà lui. Ma Ariele è innamorato e Calibano no, Calibano è realista e sa che non esiste alcuna «Temperate City», nessuna isola dell’oceano dove egli possa/voglia vivere con Ariele. Calibano – novello Saulo – crede solo nella forza della parola di salvezza, l’unica davvero in grado di permettere che the wholly other life si realizzi. Ma solo dopo la morte terrena, quando tutte le contraddizioni saranno finalmente e definitivamente risolte nella suprema sintesi.

volto ad esprimere l’Ego, il secondo il Self. Evidente, ci pare nel passaggio dalla Tempesta shakespeariana e The Sea and the Mirror, l’intendimento audeniano a capovolgere ludicamente i ruoli tra Ariele (ex master) e Calibano (ex servant). Auden, comunque, crede di poter identificare cinque componenti della personalità umana, e così le identifica: un «cognitive ego» che «employs the indicative mood»; un Self ed un Super-Ego: essi sono «masters», non prendono ordini e ad essi si può obbedire o disobbedire; un «body» che non può essere «servant» ma solo «slave»; un «volitional Ego» che può essere «servant» di self e Super-Ego e «master» del «Body»; il «Volitionali Ego» ha solo due desideri: essere libero ed essere importante.

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Non deve stupire che Auden affidi al terragno e ferrigno Calibano quello che egli ormai ritiene essere l’unico possibile messaggio di salvezza. I tosti angeli con alabarda del Perugino somigliano a Calibano; mentre Ariele è un esserino disposto a tutto per amore. Nell’immaginazione audeniana Calibano probabilmente trasfigura: diventa il garzone di guardia dalla conchiglia rigonfia nella Tempesta di Giorgione. Pronto a mutarsi in un solido e credibile Saulo predicatore. E perché no, magari anche nel fondatore di una «City»: non certo edonisticamente «Temperate», bensì medievalmente «Sane».

Ed è su questa ineluttabile aspirazione audeniana alle certezze pre-galileiane che intendiamo articolare ora la nostra analisi. Anzitutto definendo come inevitabile il fatto che il ‘laico’ Shakespeare dovesse uscire ideologicamente massacrato da Auden dopo la conversione. Quella su Calibano, o se si preferisce sul dilemma arte/vita, infine, è una polemica fasulla. Il vero punto è che ormai Auden è convinto che per essere grandi artisti occorre anche poggiare intellettualmente e spiritualmente su un grande sistema filosofico e/o teologico. Che a Shakespeare mancava. Mentre lo possedeva Dante. E – per restare in ambito britannico – lo possedeva Chaucer: se non altro per le formidabili Retractions (Retracciouns in Middle English) che sapeva porre al termine delle sue opere.

E che cosa è la terza parte di The Sea and the Mirror se non una ritrattazione in piena regola?

In precedenza Prospero ha versificato in «elegiacs» e cantato tre canzoni; Ferdinand ha recitato un sonetto, Stephano una ballata, il Master e il Boatswain una canzone, Sebastian una sestina, Miranda una villanelle. Tutti i

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personaggi della Tempesta appaiono in una scena come «personified types» e si esprimono conseguentemente. Auden, per diversificarli, giunge persino a proporre una versificazione sillabica alla Marianne Moore (col novenario, nella lettera di Alonso a Ferdinand)19. Come ha scritto E. Callan nel brillante studio A Carnival of Intellect:

All the characters in The Tempest except Prospero, Ariel and Caliban appear here as personified types; and each speaks in an appropriate verse form. This group of characters from Ferdinand to Miranda who are «linked as children in a circle dancing» represents the ideal order possible to Art. Also, by analogy, it represents a harmonious social and spiritual order, from which the rebel Antonio stands withdrawn. The arrangement of the group is symbolic. There is first the suggestion of a circle – the symbol of the macrocosm, and of perfection. Within it «courtly» and «low» characters alternate. […] The arrangement of the characters also suggests a social order, as Alonso also holds the central position, and the courtly and

19 In tal modo offrendo un ulteriore saggio sulla sua versatilità metrico-ritmica. Il ritmo – infatti – qui non si basa sullo stress ma sul numero di sillabe del verso (in questo caso, per l’appunto, nove). Questo però non significa che il verso possa essere letto senza accenti, bensì che questi siano più mobili di quanto non avvenga solitamente. Auden, per esempio, fa rimare sillabe accentate con sillabe non accentate (cry/majestically; erect/object) riuscendo a dare una forte impressione di “discorso parlato” nel contesto di una lettera in versi (inglesi). Impresa certamente non facile, testimoniata dal manoscritto originale di The Sea and the Mirror, che presenta ben otto diverse redazioni del passo in metri e stili diversi. A riguardo si veda la conferenza su ‘Marianne Moore’ tenuta nel 1959 a Oxford e poi inclusa in The Enchafèd Flood.

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rustic characters are proportioned on either side of him between the lovers in the tableau of the reconciled20.

Ciò che Callan però non suggerisce è l’analogia di impostazione scenica, alias di ‘cornice’, non con l’opera di Shakespeare, ma con quella di Chaucer. All’interno dei Canterbury Tales, infatti, ogni pellegrino-narratore si esprime nella forma metrico-poetica che gli è maggiormente congeniale e racconta quella storia che meglio si adatta al suo ceto e al suo carattere. Il Cavaliere narra un racconto di cavalleria, la Priora la storia di Hugh of Lincoln, il Parson un edificante sermone, e così via. Narratori e racconti – sia nella sostanza della storia narrata sia nella forma – compongono tanti piccoli cerchi perfetti, conchiusi, il cui insieme costituisce il God’s plenty nella celebre definizione drydeniana. (O un gran gioco, ma con fini seri, per riecheggiare la già citata definizione audeniana).

Curiosamente Chaucer, presente al pellegrinaggio – pellegrino tra i pellegrini e presentato come «poeta» – può solo iniziare la propria narrazione in versi (la ballata di Sir Thopas), ma viene interrotto perché si tratta di una storia vacua, senza mordente; comincia allora a narrare – in prosa – la storia di Melibeo, che altro non è se non la versione in Middle English del Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia.

Sir Thopas, udendo il canto del tordo, sente intensamente il desiderio d’amore. E, due stanze dopo, la sensazione si configura nel sogno della regina delle fate. Per giungere ad

20 Cfr. E. Callan, A Carnival of Intellect, Oxford University Press, 1983, p. 196.

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essa, però, occorre sconfiggere l’odioso gigante dalle tre teste. L’oste interrompe bruscamente la narrazione prima ancora che il cavaliere abbia ingaggiato battaglia. Si può dedurre che Chaucer – attraverso l’intervento dell’oste – volesse fare intendere come tale modo ‘cavalleresco’ di raccontare in poesia fosse ormai superato; oppure, configurando nella regina delle fate proprio la poesia (che nessuno conosce e che deve essere ‘conquistata’), intese dimostrare l’incapacità di chi lo stava ad ascoltare ad accogliere il messaggio poetico. Oppure potrebbe anche aver mirato a dimostrare come egli, in quel frangente, non fosse che la maschera del poeta medio del tempo, un mero rappresentante di categoria, come il mugnaio, il chierico o la monaca. Comunque sia, l’interrogativo rimane il medesimo: perché egli – vero poeta – dopo l’interruzione dell’oste, non narra uno splendido racconto in versi dimostrando in tal modo – e per diretto contrasto – quegli alti valori anche estrinseci, formali, di poesia nei quali crede?

Passando alla esposizione di un trattato di tipo morale-religioso, e per di più condotto secondo i canoni propri della teologia e non della letteratura, che cosa intese riconoscere – invece – Chaucer, se non il primato della teologia, che assorbe in sé tutte le forme del sapere? A sostegno di questa tesi potrebbe venire addotta l’intera struttura dell’opera, che si apre con un racconto cavalleresco (The Knight’s Tale) e termina – in prosa – con il trattatello di teologia morale del Parroco. Su ventitré racconti, gli unici in prosa sono quello di Melibeo, che Chaucer attribuisce a se stesso, e – appunto – il sermone conclusivo del Parroco.

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La risposta che crediamo di poter dare riguarda l’ambito delle priorità, che può configurarsi in una ipotetica scala gerarchica tardo-medievale delle espressioni letterarie. Chaucer, poeta letterato, vuole dimostrare che, più di ogni altra espressione artistica, conta il trattato morale; che la poesia può essere un buon divertissement (Auden, a riguardo, parlerà di spirito ludico), anche d’alto rango, ma che, quando egli è chiamato ad esprimere il meglio di sé, non può che ricorrere al trattato morale e alla patristica, la forma ‘nobile’, la forma di ‘verità’, facendo sfoggio dell’arte della retorica.

Non fu dunque per una improbabile modestia di artista che Chaucer non attribuì alla propria maschera di pellegrino un buon racconto in versi. Scegliendo per sé il racconto in prosa, al contrario, mirò a dimostrare come – sotto la maschera del poeta – fossero in lui il retore, il filosofo, il moralista.

Ma v’è di più. Nel link tra il racconto di Sir Thopas e quello di Melibeo, allorché Chaucer-the-writer – interrotta la ‘recitazione’ di Chaucer-the-pilgrim – accetta di cambiare narrazione e manifesta l’intenzione di raccontare «a moral tale vertuos», afferma anche che in quel racconto – più che in tutti gli altri – è racchiusa la sua sentence:

… for as in my sentence, Shal ye nowher fynden difference Fro the sentence of this tretys lyte After the which this murye tale I write21.

21 L’argomento è stato da me ampiamente sviluppato in particolare nel sesto capitolo de I Racconti di Canterbury. Un’opera unitaria, Milano, Guerini e Associati, 1992.

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Il maggior poeta medievale d’Inghilterra affida dunque ad

un racconto in prosa il proprio messaggio. Tutto il resto della sua opera può esserci o non esserci: l’importante è che ci sia quel racconto a testimoniare di lui presso i posteri. Il racconto raffinatissimo di Sofia, la saggia sapienza, e di Prudenza (la dialettica del perdono), alleate – la prima – nel subire le conseguenze degli errori, la seconda nell’istruire e ben indirizzare Melibeo, il giovane impulsivo e rozzo, deciso a vendicarsi con la violenza dei torti subiti.

Se Chaucer dichiara esplicitamente di riconoscere la supremazia – all’interno dell’intera sua opera poetica – del trattato più sofisticato di retorica cristiana (in prosa), W.H. Auden sei secoli dopo, con riferimento alla terza parte – in prosa – di The Sea and the Mirror afferma esattamente la stessa cosa:

If I were to be faced with the problem of cutting, I would

cut out everything except this section22.

Un’altra analogia piuttosto sorprendente è data dalle reazioni della critica. Scarsissima – in rapporto a quella sugli altri racconti – la bibliografia sul racconto di Melibeo. Scarsa, vaga e ripetitiva. Il tale che l’autore attribuisce alla propria maschera di pellegrino viene infatti concordemente definito amorfo, senza mordente o, semplicemente, noioso. Invece è la chiave per comprendere non solo l’unitarietà

22 Cf. H. Carpenter, W.H. Auden: a Biography, London, Allen & Unwin, 1983 [1981], p. 328, che riporta i termini di una intervista a Auden rilasciata dieci anni dopo la pubblicazione di The Sea and the Mirror.

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argomentativa de I racconti di Canterbury, ma anche la psicologia profonda dell’autore.

Nella critica a Auden si ritrova pari pari l’aggettivo ‘noioso’: «More than half of The Sea and the Mirror (Caliban to the Audience) – afferma J.W. Beach – is a long-winded disquisition in prose on (as I understand it) literary art-in-an-age-of-naturalistic-unbelief. It is in effect a clever but tiresome parody of the style of Henry James in his famous Prefaces»23.

Assolutamente fuori rotta anche R. Hoggart: «The Sea and the Mirror is complex and in a sense unified, but gains its unity chiefly from the assumed background of The Tempest»24. Laddove è vero il contrario: il senso unitario all’opera e all’intero canone audeniano è dato proprio dalla terza parte con l’abbandono del canovaccio di pretesto. E così via. Gerald Nelson si chiede «why Auden chose to change Caliban from the earthly opposite of Ariel to the proponent of the final phylosophical position of The Sea and the Mirror». E dopo aver sottolineato che Calibano si trova nella situazione per cui «there is no one with whom he can reconcile himself, no one to forgive him», aggiunge:

Caliban is the character whom Auden chooses to break down the invisible ‘fourth wall’ because he is the character least fitted to the action of the play, and thus the character

23 Cf. J.W. Beach, The Making of the Auden Canon, University of Minnesota Press, 1957, p. 207. 24 Cf. R. Hoggart, W.H. Auden, London, Longsman, Green & Co., 1957, p. 109.

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most likely to puzzle the audience and, probably, the one about whom they would like to know more25.

A parte l’osservazione circa la quarta parete – per altro molto in voga nel periodo a cui risale la nota – anche con Nelson ci troviamo proiettati in direzioni interpretative (sia dell’opera, sia – nello specifico – del personaggio Calibano) totalmente fuorvianti.

Secondo Blair, infine, «in section three Auden is attempting to demonstrate the dangers of miesconceiving the artistic performance»; e raggiungerebbe tale nobile obiettivo optando per una prosa che «demands total concentration on the part of the reader»26.

Con riferimento alle reazioni della critica circa la presenza del trattato morale in prosa nell’opera di un poeta, abbiamo riscontrato un’altra sorprendente analogia nel tentativo di insabbiare ogni seria speculazione, deviando l’attenzione del lettore sulla possibilità che – tutto sommato – si tratti di uno scherzo. (Con sottintesa la stolida strizzatina d’occhio: da uno come Chaucer – o come Auden – c’è da aspettarselo). Il tutto, pur di non studiare davvero quel trattato; pur di non ammettere che il ‘poeta’ davvero intendesse essere considerato come un retore maestro e moralista e filosofo.

«The monumental dullness of Melibeus is no doubt a further stroke of satire», afferma per esempio G.G. Coulton

25 Cfr. G. Nelson, Changes of Heart: A Study of the Poetry of W.H. Auden, University of California Press, 1969, pp. 43-5. 26 Cfr. J.G. Blair, The Poetic Art of W.H. Auden, Princeton University Press, 1965, p. 114.

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nel 192727; imitato cinquant’anni dopo da Ian Robinson, che definisce il racconto di Melibeo «feebly frivolous and unserious»28; da A.S. Miskimin: «Every nuance of medieval romance is parodied in Melibee»29; da D.R. Howard: «the Melibee doesn’t suit Chaucer the pilgrim at all; unless we presume it is a joke or parody»30.

Parimenti, M.K. Spears, nel saggio Late Auden: The Satirist as Lunatic Clergyman, dopo aver definito The Sea and the Mirror «closet drama», aggiunge che – poiché Auden è «dominantly a satirist» – si potrebbe anche leggere l’opera, e in particolare la terza parte, come una satira31. Lo stesso critico, per altro uno dei più attenti al divenire poetico audeniano32, nel successivo studio The Disenchanted Island, sottolinea che il discorso di Calibano non è solo un «genuine tribute to James», ma anche il pezzo più ironico di Auden33.

27 Cfr. G.G. Coulton, Chaucer and His England, London University Press, 1927, p. 157. 28 Cfr. I. Robinson, Chaucer and the English Tradition, Cambridge University Press, 1972, p. 90. 29 Cfr. A.S. Miskimin, The Renaissance Chaucer, New Haven-London University Press, 1975, pp. 118-9. 30 D.R. Howard, The Idea of “The Canterbury Tales”, Barkeley-Los Angeles-London, 1976, p. 175. Per ulteriori note a riguardo ed approfondimenti si veda F. Buffoni, I Racconti di Canterbury. Un’opera unitaria, cit., pp. 22-3, 31-3, 58-61. 31 M.K. Spears, Late Auden: The Satirist as Lunatic Clergyman, «The Sewanee Review», vol. LIX, 1951, pp. 52. 32 Di M.K. Spears ricordiamo anche il successivo saggio The Divine Comedy of W.H. Auden, «The Sewanee Review», vol. XC, 1982, pp. 53-72. 33 Cfr. M.K. Spears, The Disinchanted Island, New York, 1963, p. 129. Spears aggiunge poi che – proprio perché si tratta di Auden – il pezzo più ironico è inevitabilmente anche il migliore e per questo anche il più

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Questo fatto di uno stile in prosa alla Henry James da attribuire a Auden in senso ironico per la terza parte di The Sea and the Mirror deve avere proprio fatto breccia nell’immaginazione dei critici audeniani, se anche Dwight Eddins – dopo J.W. Beach e M.K. Spears – ne parla come di una brillante scoperta. (Per incidens: tra loro non si citano). Comunque, così Eddins definisce Calibano in The Sea and the Mirror:

The ultimate iconoclast of the metadrama, exposing in elaborate and playful Jamesian periods the essential playfulness of all that has gone on before34.

Con Barbara Everett si compie certamente un passo avanti; anzitutto per la decisa confutazione della critica negativa di J.W. Beach: «The Sea and the Mirror is one of the most delightful, interesting, and valuable things Auden has produced … ‘the long-winded disquisition’ (e la citazione è

serio, così riecheggiando quanto già scritto nel saggio Late Auden: The Satirist as Lunatic Clergyman (cit., p. 70-1): «This piece seems to me Auden’s most successful exercise in ironic argument.Within the light framework, the argument is, of course, intensely serious; but Auden needs the complicated system of masks, the double irony, to enable him to speak seriously. His innovation consists in preparing the reader for ironic argument by creating a ridicolous style and fantastic masks, and then making the argoment not ironic; the technique might be summarized in Emposian terms as ‘the Fool speaks truth’. Only through adopting masks so that he does not speak in his own person, and through creating an expectation of irony and parody, can he attain at once lightness and seriousness». 34 Cf. D. Eddins, Quitting the Game: Auden’s The Sea and the Mirror, cit., p. 84.

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– appunto – da Beach) is a small masterpiece»35. Quindi per la serietà dell’analisi a tutto campo dell’opera, già a partire dal sottotitolo, per il quale Everett si domanda se l’obiettivo di Auden fosse veramente quello di fare luce su The Tempest36. Secondo Everett, il lettore, per capire ed apprezzare il discorso di Calibano, deve tenere presenti tre aspetti. Anzitutto che Calibano è l’immagine perfetta di una struttura sintattica grottesca: quella di James. (E ci risiamo sia con James sia con il grottesco). Da tale struttura, però, aggiunge Everett, emerge una visione d’amore molto semplice. (Su questo concordiamo perfettamente, e riconosciamo a Everett di averlo detto per prima).

Il secondo aspetto che il lettore deve tenere presente – secondo Everett – è che Ariele e Calibano insieme danno una immagine della interdipendenza tra arte e realtà. (Altro punto ovvio, ma niente affatto banale). Infine, che il gioco di Ariele e Calibano è immagine del mondo divino dietro le scene, dove non c’è differenza fra immaginazione e realtà, fra Creatore e creato. Se il lettore non riesce a cogliere questi aspetti – conclude Everett – non potrà apprezzare quel « sophysticated joke » che è il discorso di Calibano, inserito nel «poetic game» di The Sea and the Mirror37.

Un chiaro passo avanti, dunque, ma ancora rallentato dal grottesco e da Henry James, dal «joke» e dal «game». Secondo noi l’unico autorizzato a parlare di «game» è l’autore, come abbiamo già ricordando riportando la definizione «un gioco ma con fini seri» per The Sea and the

35 Cf. B. Everett, Auden, Edinburgh, Oliver & Boyd Ltd., 1964, pp. 77-8. 36 Ivi, p. 77. 37 Ivi, pp. 78-9.

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Mirror. Ma nello stesso spirito e con lo stesso rispetto con cui tale definizione può essere applicata alla grande architettura dei Racconti di Canterbury. Dove – a proposito di rispetto – ricordiamo che un modo infallibile per comprendere il giudizio morale dell’autore su un personaggio è di verificarne la descrizione fisica. Se c’è – per il solo fatto che ci sia – è desumibile una scarsa considerazione morale. Auden segue esattamente lo stesso criterio. E, come Chaucher, non è mai categorico. Preferisce usare la forma interrogativa. Ricordiamo a questo proposito le domande dello «Stage Manager» (questa specie di superego dubbioso che guarda dall’alto, contrapposto al Suggeritore, l’es che sta ai piedi dell’attore), i dubbi di Prospero, gli interrogativi di Calibano. Questa tendenza si nota in particolare quando Auden parla del rapporto fra arte e vita e della funzione dell’arte:

on the far side of the mirror the general will to compose, to form at all costs a felicitous pattern, becomes the necessary cause of any particular effort to live or act or love or triumph or vary, instead of being as, in so far as it emerges at all, it is on this side, their accidental effect? Does Ariel – … call for manifestation? … Does He demand concealment?

Qui la forma interrogativa sta quasi a significare che quanto Auden indirettamente afferma è solo un’ipotesi confutabile. Quando invece Auden affronta il tema etico-religioso, esattamente come Chaucer sei secoli prima, non appalesa dubbi, usa la forma affermativa e il plurale, quasi a indicare l’innegabile validità di tali principi per tutti gli uomini:

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At this moment when we do at last see ourselves as we are, […] , there is nothing to say […] There is no way out. There never was, […] , but the real Word which is our only raison d’être.

La religione estetica è quindi solo fonte di dubbi; il cristianesimo è fonte di certezze. Su questa linea The Sea and the Mirror è una tappa fondamentale, ma non il punto di arrivo, a nostro avviso rappresentato mirabilmente da The Age of Anxiety. The Sea and the Mirror attesta invece con chiarezza il rifiuto assoluto dell’arte intesa come magia (nell’accezione audeniana di arte di propaganda e di «escape art») e di arte per l’arte. E alla fine, mentre Shakespeare chiede perdono al pubblico perché lascia il teatro («let your indulgence set me free»), Auden non invoca il perdono degli uomini ma – proprio come Caucher – la misericordia di Dio. Shakespeare lascia spontaneamente il mondo dell’arte; Auden è costretto dalla propria fede religiosa a compiere questa scelta, ma poi, umilmente – e paradossalmente solo per chi non ha letto la «Retraction» chauceriana al termine dei Canterbury Tales – chiede perdono a Dio per tale scelta.

Infine vorremmo ricordare che se quattro sono i tipi di scrittura chauceriana sceverabili nei Canterbury Tales (due in prosa e due in poesia), egualmente quattro (due in prosa e due in poesia) sono i tipi di scrittura riscontrabili in The Sea and the Mirror. Al vertice della piramide chauceriana troviamo la prosa ecclesiale del Parroco, poi quella ancora narrativa di Caucher retore nel racconto di Melibeo; quindi la rhyme royal dei racconti devozionali o comunque ancora imperniati sulla dogmatica cristiana. (Certamente non a

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caso sono in rhyme royal anche il Parliament of Foules e soprattutto Troilus and Cryseyde). Infine, in couplet, i fabliaux e – ciò che non è affatto trascurabile – quei racconti come il tale del Medico o quello del Cavaliere, che esprimono amoralità o totale frantumazione o assenza di una oncezione cristiana dell’esistenza38.

Egualmente con Auden, potremmo parlare di prosa assertiva (o affermativa) per gli argomenti di carattere religioso, e di prosa dubitativa (o interrogativa) per quelli concernenti la filosofia estetica; mentre della duttilità dell’autore in poesia si è già detto. Più che di due tipi in senso stretto, pertanto, con riferimento alle prime due parti di The Sea and the Mirror parleremmo di una versificazione tradizionale inglese di tipo ovviamente accentuativo, con tutte le varianti dal sonetto alla song, e di un interessantissimo esperimento metrico di tipo sillabico novenario allorché la riflessione di Alonso nei confronti di Ferdinand, pur se ancora ‘poetica’, si fa squisitamente etica. A ricordarci forse i passi iniziali del racconto di Melibeo, dove la prosa apparente rivela in filigrana ancora possibili scansioni in rhyme royal39.

FRANCO BUFFONI

38 A riguardo rimandiamo nuovamente a I Racconti di Canterbury. Un’opera unitaria, cit., p. 151. 39 Rhyme royal a cui per altro Auden fa ricorso nella Letter to Lord Byron.