Bruno Migliorini Un Grande Glottologo Italiano ( Studioso Dell Italiano d'Epoca Aragonese a Napoli)

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Estratto Bruno Migliorini, l’uomo e il linguista (Rovigo 1896 — Firenze 1975) Atti del convegno di studi Rovigo, Accademia dei Concordi, 11-12 aprile 2008 a cura di Matteo Santipolo Matteo Viale Accademia dei Concordi Editore

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linguistica

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Estratto

Bruno Migliorini, l’uomo e il linguista

(Rovigo 1896 — Firenze 1975)

Atti del convegno di studi Rovigo, Accademia dei Concordi,

11-12 aprile 2008

a cura di Matteo Santipolo

Matteo Viale

Accademia dei Concordi Editore

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Iniziativa finanziata ai sensi della Legge Regionale n. 3 del 2003 ISBN 978-88-902722-5-7 © 2009 Accademia dei Concordi Editore — Rovigo Piazza Vittorio Emanuele II, 14 — 45100 Rovigo Tel. 0425 27991 — Fax 0425 27993 E-mail [email protected] www.concordi.it

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INDICE

MATTEO SANTIPOLO — MATTEO VIALE Prefazione

XI

LUIGI COSTATO, Presidente dell’Accademia dei Concordi Saluto

XV

NICOLETTA MARASCHIO, Presidente dell’Accademia della Crusca Saluto

XVII

L’UOMO E LO STUDIOSO

PAOLO MIGLIORINI Un ricordo di mio padre

3

FRANCESCO SABATINI Bruno Migliorini, un padre della Patria

7

LUCA SERIANNI L’eredità scientifica di Bruno Migliorini: una testimonianza

9

PIERO FIORELLI A lezione da un giovane Migliorini

15

MASSIMO FANFANI La prima stagione di «Lingua nostra» Documenti

25

MARIA GRAZIA MIGLIORINI Migliorini e l’Accademia dei Concordi Documenti

97

ROSSANA MELIS Tra la guerra e la pace. Lettere a Bruno Migliorini degli anni Quaranta

103

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VI INDICE

DAVIDE COLUSSI Note linguistiche sul primo Migliorini

137

MIGLIORINI LINGUISTA E STORICO DELLA LINGUA ITALIANA

RICCARDO TESI La vocazione europeistica di Bruno Migliorini (con un’Appendice sulla prima nota di lingua contemporanea) Appendice

163

ROSARIO COLUCCIA Migliorini e la storia linguistica del Mezzogiorno (con una postilla sulla antica poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci)

183

IVANO PACCAGNELLA “Il Quattrocento” di Migliorini

223

MIGLIORINI LESSICOLOGO E LESSICOGRAFO

MAX PFISTER Migliorini e la lessicologia Appendice

235

MANLIO CORTELAZZO Migliorini e il lessico contemporaneo

249

CARLA MARCATO Migliorini e l'onomastica

257

LE ALTRE LINGUE E L’EDUCAZIONE LINGUISTICA

CARLO MINNAJA Migliorini esperantista

267

ELISA GREGORI Migliorini francesista

281

MATTEO VIALE Migliorini tra grammatica ed educazione linguistica

291

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INDICE VII

MATTEO SANTIPOLO Postfazione. Migliorini, Rovigo e i professori “concordi”

313

Profili dei curatori e degli autori

315

IMMAGINI E DOCUMENTI a cura di Matteo Santipolo

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ROSARIO COLUCCIA

MIGLIORINI E LA STORIA LINGUISTICA DEL MEZZOGIORNO (CON UNA POSTILLA SULLA ANTICA POESIA ITALIANA

IN CARATTERI EBRAICI E IN CARATTERI GRECI)

1. Premessa In apparenza mi sono prefisso un obiettivo irraggiungibile. Nella sterminata bi-

bliografia di Migliorini altri (rispetto a quello che intendo trattare) sono i temi ricor-renti, già enucleati nel ricordo che cinque commemoranti prestigiosi (G. Folena, I. Baldelli, A. Castellani, P. Fiorelli, Gh. Ghinassi) tracciarono di lui e della sua opera a Firenze, presso l’Accademia della Crusca, il 18 dicembre 1976, a diciotto mesi dalla scomparsa (cfr. AA.VV. 1979). In modalità articolata gli argomenti riaffiorano nelle re-lazioni del nostro Convegno: la lessicografia, l’etimologia, l’onomastica, l’educazione linguistica, l’esperantistica, ecc.

In questo panorama tematico il Mezzogiorno sembra assente, a parte le eccezioni seguenti, che cito soltanto e delle quali non mi occuperò in questa sede: 1. alla Scuola poetica siciliana, il capitolo sul Duecento della Storia della lingua italiana (Migliorini 1988: I 123-9) riserva riflessioni ancor oggi attuali1; 2. alla grecità dell’Italia meridiona-le (Migliorini 1924a; 1924b; 1927; 1932), questione assai dibattuta nella prima metà del secolo scorso, o a singoli episodi e testi della tradizione napoletana (Migliorini 1925; 1926; 1952a; 1952b), abruzzese (Migliorini 1936; 1946a; 1946b) e siciliana (Mi-gliorini 1949; 1952c; 1954) risultano dedicate non poche recensioni e prefazioni2.

Per il resto, negli scritti di Migliorini non figurano titoli che richiamino diretta-mente alla storia linguistica meridionale. Non rimane quindi che esaminarne l’opera per così dire in tralìce, per cogliere in essa elementi collegabili al tema che andiamo ricercando: successivamente, come vedremo, gli stessi sono stati ripresi da diversi stu-diosi i quali, sia in modo esplicito sia in forma non dichiarata, si assumono di fatto il còmpito di proseguire e quasi mandare a esecuzione gli spunti ereditati.

1 Come si può constatare raffrontando le pagine di Migliorini con l’Introduzione e il commento

linguistico della recente edizione integrale dei Poeti della Scuola siciliana (Antonelli — Di Girolamo — Coluccia 2008).

2 Testi meridionali vengono inoltre citati, senza indicazioni bibliografiche o studi specifici (cosa ovvia, considerato il carattere della pubblicazione) in Migliorini 1975; alcuni di questi testi saranno ricordati più avanti.

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1.1. Trecento e Quattrocento

Consideriamo la situazione dei testi antichi. Nel 1952, nella collana «Testi e ma-nuali» dell’«Istituto di Filologia Romanza di Roma», dalla collaborazione con il predi-letto Folena nasceva il volumetto dei Testi non toscani del Trecento: Migliorini — Fole-na 1952; seguiva, a distanza di un anno, nella stessa sede e con la medesima curatela, il gemello dedicato ai Testi non toscani del Quattrocento: Migliorini — Folena 1953. 71 piccoli brani provenienti da diverse regioni d’Italia (a esclusione della Toscana) nel primo lavoro e 123 nel secondo; in entrambi i casi l’insieme è corredato da Premessa, Glossario, Indice/Elenco dei luoghi e una carta fuori testo nella quale sono indicate da-ta e provenienza dei brani antologizzati. I due volumi, separati per motivi editoriali ma tra loro interconnessi, identici nell’impostazione e nelle finalità, nascono dalla felice integrazione operativa dei due autori, pur se è possibile distinguere le parti di perti-nenza di ciascuno3. Ideati con intenti didattici e finalizzati a studiare la formazione del-la norma scritta fuori dalla Toscana nei secoli XIV e XV, sobriamente etichettati come «strumento di lavoro […] utile, anche se lontano dalla perfezione», essi ebbero effetti di portata ben più vasta, come si constata a prima vista dal numero delle recensioni: 8 nel primo caso, 9 nel secondo (cfr. Fanfani 1979: 168 e 172)

Proviamo a ricomporre il censimento di quanto ci interessa. Nel Trecento per l’intera Italia meridionale (compresa la Sicilia) registriamo le se-

guenti presenze: Abruzzo: n. 42 — Il giubileo del 1350 nella «Cronaca aquilana» di Buccio di Ranallo (L’Aquila, se-

conda metà del sec. XIV, copia del 1493); n. 50 — Dalle «cose dell’Aquila» di Antonio di Buccio (L’Aquila, 1381 ca.) ; n. 71 — Costituzioni del convento di Santa Croce (L’Aquila, fine sec. XIV). Sicilia: n. 7 — Capitoli sulle gabelle per la guerra (Palermo, 16 agosto 1320); n. 15 — Formule magiche per guarire i cavalli (Palermo, I metà sec. XIV); n. 29 — Testamento del prete Guglielmino de Banbacara (Catania, ante 1° novembre 1349); n. 30 — Capitoli frumentari della città di Palermo (1349); n. 61 — Lettera del Duca di Monblanc al castellano di Leontini in favore della comunità e-

braica (Catania, 8 maggio 1393); n. 69 — Capitoli della università della terra di Alcamo (Alcamo, 1398). In totale 9 testi, dei quali 6 provengono dalla Sicilia e 3 dall’Aquila. Nel Quattrocento per l’Italia meridionale (compresa la Sicilia) registriamo le se-

guenti presenze: Campania: n. 21 — Lettera della regina Maria al clero di Altamura (cancelleria angioina, Altamura, 28

aprile 1420)4;

3 Precisate in Migliorini — Folena 1952: XI e in Migliorini — Folena 1953: XXIV. 4 La “regina Maria” è Maria d’Enghien (morta nel 1446), che svolge un ruolo importante per la

promozione del volgare salentino nella sua cancelleria e nella sua corte; il testo della lettera (in parti-colare il sistema grafico) presenta caratteristiche piuttosto evidenti di tipo salentino (Coluccia 2005: 133, n. 15).

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n. 42 — Credenziale di Alfonso I d’Aragona ad Antonio Dentice (cancelleria aragonese, Na-poli, 1 marzo 1443);

n. 53 — Dalle «Memorie» di Loise de Rosa (Napoli, 1452); n. 56 — Re Alfonso chiama a parlamento i baroni e le università del Regno (cancelleria ara-

gonese, Roma, 8 settembre 1454); n. 61 — Lettera di Ceccarella Minutolo (Napoli, 1460-70); n. 64 — Ferdinando d’Aragona scrive al figlio sul ritorno del Panormita a Napoli (21 set-

tembre 1463); n. 67 — Ferdinando d’Aragona al capitano di Altamura (cancelleria aragonese, Napoli, 23

febbraio 1464); n. 68 — Lettera di Ferdinando d’Aragona a Francesco Sforza (cancelleria aragonese, Napoli,

22 luglio 1465); n. 80 — Eleonora d’Aragona a pranzo in Roma dal cardinale di San Sisto (Napoli, 10 giugno

1473); n. 89 — Dal «Governo et exercitio de la militia» di Orso degli Orsini (Napoli 1477); n. 90 — Lettera di Francesco del Tuppo (Napoli, tra il 1477 e il 1480); n. 93 — Poscritto di Cola de Iennaro alla versione del Secretum Secretorum catalano (Napoli,

4 settembre 1479); n. 95 — Memoriale del 1479 di Diomede Carafa (Napoli, 1479); n. 96 — Dalle «Instructione del bon cortesano» di Diomede Carafa (Napoli, 1479); n. 99 — Lettera di Alfonso d’Aragona a Ferdinando I scritta da Giovanni Pontano (cancelle-

ria aragonese, Napoli, 30 maggio 1482); n. 103 — Il re di Napoli allo studio (cancelleria aragonese, Napoli, 25 aprile 1484); n. 122 — Lettera di Gabriele Altilio vescovo di Policastro a Cosmo Setario vescovo di Ravel-

lo e di Salerno (Policastro, 11 maggio 1500). Abruzzo: n. 16 — Inizio della Fiorita d’Armannino (Chieti, 13 settembre 1418); n. 25 — Dai «Cantari sulla Guerra aquilana di Braccio» (L’Aquila, 1425-30 ca.); n. 47 — Discorso di S. Giovanni da Capistrano (Abruzzo, 1447); n. 51 — Statuti dell’Arte dei sarti (L’Aquila, 22 aprile 1452); n. 98 — Supplica d’un cittadino di Rieti per comperare un pezzetto di suolo comunale (Rie-

ti, 1480-1482). Puglia: n. 4 — Dal Libro di Sidrac otrantino (Salento, - Brindisi?, in. sec. XV); n. 55 — Dai Protocolli di notar Pascarello de Tauris (Bitonto, 1 giugno 1454); n. 69 — Inventario delle munizioni del castello di Palo per la consegna ad Azzo Visconti

(Bari, 13 ottobre 1465); n. 82 — Statuto del Consiglio della città di Molfetta (Molfetta, 24 febbraio 1474). Calabria: n. 22 — Contratto di pignoramento della Motta S. Quirillo (Reggio Calabria, 27 luglio

1422); n. 87 — Da un ricettario calabrese (Stilo, 3 aprile 1477); n. 91 — Lamento di Ioanne Maurellu di Cosenza in morte di don Enrico d’Aragona (Cosen-

za, 1478). Sicilia: n. 11 — Dal canto sull’eruzione etnea del 1408 di Andria di Anfusu (Catania, 1408); n. 14 — Capitoli per la città e isola di Malta (Catania, 11 febbraio 1416); n. 15 — Capitoli dei vicereggenti per la redenzione dei prigionieri (Catania, 30 novembre

1416); n. 23 — Memoriali di re Alfonso al viceré di Sicilia (Palermo, Cancelleria aragonese, 1423-

28);

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n. 38 — Lettera di Perna di Faronti al notaio di Trapani Francesco Milo (Salemi, 22 ottobre 1439);

n. 62 — Capitolo della corte del Consolato del mare (Messina, 1461). In totale 16 testi campani (uno dei quali è in realtà salentino, cfr. n. 4), 5 abruzzesi,

4 pugliesi, 3 calabresi, 6 siciliani; la lettera di Gabriele Altilio (numero 122), vescovo di Policastro, si colloca all’intersezione delle zone campana e calabrese (pur se in età ara-gonese il polo di gravitazione della località è senza alcun dubbio rappresentato da Na-poli)5.

Un insieme di entità non trascurabile, anche considerando che il carattere in pre-valenza documentario e pratico della selezione deliberatamente sottostima i prodotti letterari, i quali ne avrebbero potuto accrescere l’entità. Molti di questi testi, insieme ad altri, sono citati e sfruttati immediatamente, nel 1960, nei capitoli sul Trecento e sul Quattrocento della Storia della lingua italiana. Vengono per tali vie fissati i presupposti perché possano concretamente avviarsi studi sistematici sulla storia linguistica meri-dionale nel Medioevo, all’epoca praticamente inesistenti.

2. Un venticinquennio di studi A quella data rifulgeva già, nessuno dimentica, la grande tradizione degli studi dia-

lettologici e sincronici, che vantava i nomi di Clemente Merlo, Gerhard Rohlfs, Hein-rich Lausberg; ma ben più esiguo era l’elenco di contributi sul periodo medievale scientificamente inappuntabili, o almeno adeguati alle esigenza della ricerca. Di fatto la storia della lingua del Mezzogiorno, con riferimento all’età medievale, comincia a esse-re studiata con sistematicità negli anni sessanta del Novecento, circa dieci anni dopo l’apparizione delle due sillogi di Migliorini e Folena sui testi non toscani: in quel pe-riodo appaiono i lavori di Mauro Braccini e di Oronzo Parlangèli e, subito dopo, con intensità crescente, di Francesco Bruni, di Francesco Sabatini, di Alfredo Stussi, di Al-berto Vàrvaro (e di loro allievi). Nonostante tanti segnali positivi, ancora agli inizi de-gli anni ottanta la «scarsità della documentazione disponibile» (Vàrvaro 1983: 579) po-teva essere additata come la causa principale delle insoddisfacenti conoscenze sulle vi-cende linguistiche dell’Italia meridionale nel Medioevo; peraltro la constatazione nega-tiva era accompagnata da concrete indicazioni operative sugli obiettivi raggiungibili e sui percorsi per arrivarci.

Con questo non si intende affermare che l’incremento degli studi nel settore pro-mani per intero dai due volumetti di Migliorini e Folena; ma certo non può ritenersi scollegato rispetto agli impulsi dagli stessi suscitati. Il semplice elenco dei testi lì anto-logizzati, divenuti oggetto di pubblicazione specifica da parte di studiosi successivi, contribuisce a misurare quanto lo stato attuale delle conoscenze possa ricollegarsi a quella matrice. Non si tratta di dare corso a un mero calcolo contabile, pure indicativo,

5 Antonello Petrucci, segretario di Ferrante, acquista nel 1475 la contea di Policastro (cfr. Barba-

to 2001: 15 e n. 34); suo figlio Giovanni Antonio è autore di sonetti composti mentre era imprigiona-to in attesa dell’esecuzione in séguito alla congiura dei baroni (cfr. Perito 1926). Rientra tra i testi an-tologizzati in Bianchi — De Blasi — Librandi 1993: 230-233, il Libro de le fuste di Policastro del 1486. Per la provenienza dallo stesso centro del Brancati, cfr. la successiva n. 13.

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ma piuttosto di verificare la concretizzazione di quelle lontane prospettive nel contesto della cultura e delle conoscenze attuali.

Il n. 4 di Migliorini — Folena 1953 è un brano del volgarizzamento salentino del Libro di Si-

drac, poi integralmente pubblicato da Sgrilli 19836 con il corredo di spoglio linguistico e di glos-sario costruiti con il supporto di concordanze elettroniche: l’uso della strumentazione informa-tica, oggi diventato rutinario, trova qui una delle sue prime applicazioni nello studio di un testo antico. L’analisi non si limita a una semplice, per quanto sottile, discussione dei singoli fenome-ni: ne risulta una ricomposizione dettagliata di movimenti e tendenze specifici del contesto sto-rico-culturale all’interno del quale il volgarizzamento salentino è stato generato. Si tratta, ancor oggi, della analisi linguistica di maggiore estensione e profondità su un testo pugliese antico.

Il n. 95 di Migliorini — Folena 1953 riproduce un frammento di Memoriale di Diomede Ca-rafa, ripubblicato insieme all’edizione dell’intero blocco dei Memoriali in Petrucci Nardelli 19887. Oltre alla ricompattazione di materiali dispersi in un numero assai vasto di testimoni ma-noscritti (oggetto di edizioni precedenti frammentarie e a volte occasionali), la nuova edizione, condotta con criteri paleograficamente inappuntabili, offre apprezzabili Note linguistiche, un glossario selettivo ma funzionale all’interpretazione del testo, un Saggio introduttivo che eviden-zia bene i temi preferiti dal Carafa (l’«umanesimo civile», la teorizzazione cortigiana, la sistema-zione delle buone maniere, il pensiero militare) nel contesto della vita di corte aragonese.

Il n. 25 di Migliorini — Folena 1953 offre quattro ottave di un anonimo cantare aquilano della prima metà del sec. XV; il precedente non è citato nell’edizione integrale curata da De Matteis (1996)8. Il poema, articolato in una sequenza di undici cantari collegati, racconta l’assedio imposto dal condottiero perugino Braccio da Montone al capoluogo aquilano e lo scontro successivo tra le sue truppe e quelle di Alfonso d’Aragona. L’introduzione mette in luce i collegamenti dell’opera con una duplice tradizione tematica e contenutistica, quella della lette-ratura cavalleresca popolare (variamente radicata nella cultura nazionale) e quella della crona-chistica locale; seguono nota al testo, apparato e glossario.

Il brano n. 53, tratto dai Ricordi di Loise de Rosa, confluisce nell’edizione integrale di For-mentin 19989: i due volumi offrono un’introduzione (nella quale particolari anche minimi ven-gono inquadrati nel contesto della vita napoletana dell’epoca), l’edizione dell’autografo, un ca-pillare commento linguistico, il glossario, la bibliografia molto analitica. Nell’insieme, la pubbli-cazione di un testo singolare e atipico, interpretabile addirittura come espressione di una cultu-ra fondata sull’oralità, costituisce l’occasione per una puntuale ricostruzione della lingua del documento e dell’intera situazione linguistica napoletana quattrocentesca.

Attende ancora di essere ricomposto nella sua integralità l’epistolario di Ceccarella Minuto-lo, una lettera della quale è il n. 61 di Migliorini — Folena 1953, non compresa nell’edizione di Morabito (1999: 26 per la citazione successiva). Questo lavoro riproduce le epistole di un sol codice, pur in presenza di altre testimonianze manoscritte: lo studio non pretende infatti di ri-comporre l’intero l’epistolario, ma semplicemente di offrire un esemplare «di quei libri di lette-re abitualmente ritenuti diffusi nel secolo XV, particolarmente in ambiente aragonese»; per so-vrammercato, la collocazione del lavoro in una sede editoriale obiettivamente defilata non ne ha favorito la circolazione. Ceccarella Minutolo resta a tutt’oggi una figura semisconosciuta e at-tendiamo ancora di poterne ben valutare gli scritti.

6 Si tratta dei capitoli 31 e 32, corrispondenti a Sgrilli 1983: 220. 7 Si tratta di un frammento del n. XI, Memoriale per il capitano prudente, cfr. Petrucci Nardelli

1988: 368. 8 In De Matteis 1996: 158-159, IX 20-23. 9 In Formentin 1998: II 517 7 — 518 18.

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Il n. 15 di Migliorini — Folena 1952, indicato come Formule magiche per guarire i cavalli, è ricompreso nell’edizione integrale del «Thesaurus pauperum» in volgare siciliano, numero 23 della «Collezione di testi siciliani dei secoli XIV e XV» (Rapisarda 2001)10. Organizzato secondo lo standard della serie, il volume consta di ampia introduzione storico-culturale (antecedente latino, volgarizzamenti italiani, individuo palermitano oggetto dello studio, modi della tradu-zione, analisi della scripta), dell’edizione del testo con relativa Nota editoriale, del glossario. Conservato da un manoscritto del sec. XV, il Thesaurus siciliano rappresenta il volgarizzamento di un antecedente latino a sua volta riconducibile all’ambiente federicano: uno dei pochi testi a noi pervenuti della letteratura medico-scientifica insulare, di cui riusciamo ora ad apprezzare contenuti e caratteristiche linguistiche, in primo luogo il lessico.

Per la recente edizione della Cronica aquilana di Buccio di Ranallo (De Matteis 2008) risul-tano decisivi la mediazione e gli spunti offerti da vari studiosi precedenti, in primo luogo G. Contini, non quelli provenienti dall’antologia di Migliorini — Folena 1952: n. 4211, neppure menzionata. La figura del cronista aquilano appartiene a una cultura portatrice di valori, inte-ressi e temi d’ambito locale e nello stesso tempo è aperta a suggestioni operanti nella contigua area mediana e a influssi provenienti da Toscana, Roma e Napoli; il testo, costituito prendendo a base il testimone «meno malconcio tra i tre» che tramandano l’opera, è corredato di apparato e di commento a piè di pagina.

Tiriamo i conti: dalla lista di frammenti raccolti nelle due antologie di Migliorini e

Folena e offerti all’iniziativa degli studiosi deriva l’odierna disponibilità (pur nella va-rietà qualitativa dei risultati) di tre testi napoletani (Petrucci Nardelli 1988; Formentin 1998; Morabito 1999), di due aquilani (De Matteis 1996; De Matteis 2008), di uno sa-lentino (Sgrilli 1983) e di uno siciliano (Rapisarda 2001)12.

Come accennato, non è possibile precisare quanto del fermento editoriale dell’ulti-mo venticinquennio, periodo successivo all’anno (1983) della desolata constatazione di Vàrvaro sulla insufficienza della documentazione meridionale e della contemporanea edizione del Libro di Sidrac salentino che di fatto inaugura la serie delle riprese dai Te-sti non toscani, possa venir ricondotto alla diretta ispirazione di questi ultimi e quanto vada attribuito al mutato clima culturale generale, più attento alla realtà policentrica della nostra storia linguistica; abbiamo già notato che nei lavori sui due testi aquilani, peraltro risalenti al medesimo studioso, il debito bibliografico, posto che tale effetti-vamente sia, non viene dichiarato. Di fatto, nell’ultimo quarto di secolo il panorama editoriale è migliorato non di poco e testi napoletani e campani, abruzzesi e molisani, pugliesi, lucani, calabresi, siciliani, costituiscono ormai un apprezzabile reticolo di rife-rimento per gli studiosi (pur a maglie ineguali, come vedremo) e offrono la base do-cumentaria che consente di ricostruire, con discreta ampiezza di dettagli e qualche presunzione di verosimiglianza, anche aspetti e situazioni meno evidenti del cammino verso l'italianizzazione delle varietà meridionali.

10 In Rapisarda 2001: 110, § 251-53 (in parte). 11 In De Matteis 2008: 256-261, quartine 820-835. 12 Il n. 16 di Migliorini — Folena 1953 produce un brano della Fiorita d’Armannino (Chieti, 13

settembre 1418), la cui edizione è stata annunciata al XXV Convegno CILPR (cfr. Gambacorta, in stampa).

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2.1. Le scriptae meridionali

L’apertura di tanti cantieri di ricerca, oltre al fattuale superamento della prospetti-va toscanocentrica e al progressivo delinearsi della specificità meridionale, comporta che il contributo fornito dalle diverse tipologie di testi al processo di italianizzazione e le dinamiche interne all’area possano essere esaminati con strumenti di analisi attenti ai fenomeni di variazione diafasica e diastratica e con attenzione spesso mirata alla pro-duzione non letteraria, la cui varietà compensa la non eccelsa qualità dei prodotti lette-rari. La linea di svolgimento di questo percorso nel Sud appare, oltre che lenta, non rettilinea e non uniforme: in altre parole l’italianizzazione avanza nelle diverse zone a velocità diversa e con modalità differenti. In questo quadro, acquistano una rilevanza particolare le occasioni in cui, scartato il ricorso diretto ai volgari locali e non ancora generalizzata l’adozione del modello a base toscana, si manifestano forme d'impianto e circolazione sovramunicipali, meno legate alla specificità geografica di partenza e per ciò stesso in un certo senso più "ambiziose". È naturale che il processo di conguaglio linguistico risulti avvantaggiato da spinte di questo genere.

Ai tentativi di estendere l'uso linguistico al di là dell'orizzonte di un singolo centro si applica spesso l’etichetta di koinè, concetto elaborato e redditiziamente utilizzato soprattutto con riferimento a situazioni dell'Italia padana (koinè lombarda, veneta, mi-lanese, mantovana, ferrarese, ecc.); tuttavia, nonostante qualche accenno a possibili applicazioni anche nel Sud, qui il fenomeno si presenta meno marcato. Nel nostro caso converrà rinunziare a tale schema interpretativo (poco pertinente alla realtà meridiona-le) e ricorrere alla nozione, forse più funzionale, di scripta. Non è una mera questione terminologica: parlando di koinè si pone l'accento sull'esistenza di sistemi linguistici unificanti (sovramunicipali, sovraregionali, ecc.) intenzionalmente creati e relativamen-te stabili, per i quali sia possibile individuare una serie di tratti specifici ai vari livelli della lingua e circoscrivere i limiti diatopici di diffusione. La scripta ha invece un carat-tere più euristico e allude a "normali" oscillazioni interne a un sistema, in cui esiti di diversa provenienza convivono più o meno pacificamente. Nel Mezzogiorno la spinta uniformante si esercita più per via negativa, cioè per sottrazione di tratti locali, che in positivo, mediante l’instaurazione di modelli comunicativi appositi (cfr. Coluccia 1994a: 373-374; e cfr. le voci koinè e scripta redatte da chi scrive per l’Enciclopedia dell’Italiano, in corso di stampa). Si sottrae in parte a questo schema la tradizione can-celleresca e amministrativa, per la quale l’influenza del modello uniformante si esercita anche nelle periferie e favorisce la confezione di prodotti (statuti, capitoli, bandi, regi-stri erariali, ecc.) ripetitivi nella struttura testuale e relativamente omogenei nella lin-gua, anche a dispetto delle variazioni legate al luogo, al momento e alla contingenza redazionale.

2.2. I testi

L’affinamento delle conoscenze progredisce in parallelo all’aumento dei testi di-sponibili. Sotto questo profilo a volte quasi si desidererebbe un più oculato bilancia-mento delle attività editoriali, considerato che — mentre dati attendibili ancora scarseg-giano per situazioni poco esplorate — nuovi testi continuano ad apparire per zone già ben studiate. Senza elencare una per una tutte le iniziative, per la Sicilia basti conside-rare che la Collezione di «Testi siciliani dei secoli XIV e XV» assomma ormai a 26 vo-lumi: fresca è l’edizione delle Meditacioni di la vita di Christu curata da Gasca Quei-

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razza (2008). Per Napoli, dopo la notevole fioritura editoriale degli anni ottanta e no-vanta del secolo scorso, sono apparse le edizioni di un volgarizzamento da Vegezio o-perato da Giovanni Brancati di Policastro, all’incirca nel 1476, cfr. Aprile 2001, e di un volgarizzamento da Plinio dello stesso, all’incirca nel 1480, cfr. Barbato 2001: grazie a essi la figura di Brancati, finora noto fondamentalmente per la polemica antitoscana con Landino, si rivela decisiva per la promozione a fini letterari del volgare meridiona-le nel contesto movimentato del secondo quattrocento napoletano13. Negli ultimi tem-pi prendono consistenza e si rivelano ricche di interesse personalità semisconosciute, come Cola de Jennaro, maniscalco napoletano autore di un volgarizzamento dal cata-lano al napoletano del Secretum Secretorum e di un volgarizzamento di mascalcia da Giordano Ruffo, entrambi redatti intorno al 1479, nel corso della sua prigionia a Tuni-si14. Tanto positivo fervore di studi consente l’allestimento di importanti opere di sin-tesi, come la grammatica storica del dialetto napoletano (Ledgeway 2009), che per ca-renza della documentazione sarebbe stata irrealizzabile fino a non molti anni addietro.

3. La Puglia Se la storia linguistica napoletano-campana e quella siciliana risultano tra le meglio

esplorate dell’Italoromània non toscana, non si può dire lo stesso per altre aree del Sud, su cui le nostre conoscenze, pur progredite negli ultimi anni, non sono ancora al livello desiderabile. In queste condizioni è attualmente la Puglia, regione che pure pre-senta la peculiarità di una produzione testuale di entità e varietà non disprezzabili (come avremo modo di vedere) e la caratteristica, che si accentua in zone vicine quali Lucania e Calabria, di risultare ancora carente di adeguate affidabili edizioni di testi di

13 Giovanni Brancati, bibliotecario del sovrano aragonese, proviene da Policastro (per cui cfr. n.

5): fu autore di una celebre polemica dal sapore antitoscano, già iniziata nel 1473 a proposito di una traduzione pliniana eseguita dal Landino e ribadita quando, nel 1480 ca., è spinto a realizzare a sua volta una traduzione della medesima opera pliniana: «Non ho anche curato far la medesma traduc-tione in altro linguagio che in lo nostro medesmo non pur napolitano ma misto, parte perché ò iudi-cato questo ad nesun altro esser inferiore, parte perché ho voluto la medesma traductione sia utile ad tucti certo, ma principalmente a li mei conregnicoli et sopra ad tucti ad te, invictissimo re Ferrando». Si tratta della categorica rivendicazione del valore assunto, agli occhi del solerte funzionario regio, dal diffuso modello linguistico meridionale continentale, al quale espressamente rinvia la formula «linguagio […] non pur napolitano ma misto», da intendere appieno alla luce della successiva allu-sione ai conregnicoli (e non, si noti, ai soli napoletani) quali destinatari ideali della nuova e più ade-guata traduzione. Curiosamente a lungo non si è rilevato che l’etichetta «napolitano misto» indicata nel titolo del lavoro di Gentile è dell’editore moderno ma non del volgarizzatore quattrocentesco, perché il Brancati rinvia esplicitamente invece a un «linguagio… non pur napolitano ma misto», che pare essere cosa alquanto differente; ora invece le posizioni di Brancati paiono più correttamente percepite (dopo Coluccia 1994a: 396-397, cfr. Barbato 2001: 25).

14 I testi sono oggetto delle tesi rispettivamente di F. Danese e di A. Montinaro svolte all’interno del dottorato di ricerca in “Linguistica storica e Storia linguistica italiana” (dottorato in consorzio tra le Università di Roma “La Sapienza”, di Roma LUMSA, del Salento e della Tuscia). Il primo dei due corrisponde al n. 93 di Migliorini — Folena 1953. Al mio allievo A. Montinaro devo una puntuale re-visione editoriale del presente contributo.

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un certo peso (a parte il Libro di Sidrac già menzionato, cfr. p. 199, Corti n. 14; si ag-giunga, più di recente, l’Interrogatorium di Nicola de Aymo, cfr. p. 198, Corti n. 7)15.

Nel valutare le testimonianze pugliesi non vanno dimenticati due fattori di natura geolin-guistica, riferibili rispettivamente alla situazione medievale e a quella odierna. Per un verso, la denominazione tardomedievale di “Apulia” (quella anche dantesca, per intenderci) indica un territorio che non coincide con l’odierna “Puglia” e abbraccia l’intera Italia meridionale conti-nentale, cfr. Coluccia [1993b] 2002a: 7016. Per un altro verso, la regione attuale nasce solo con la formazione dello stato unitario, riunendo la Terra d’Otranto (le attuali province di Lecce e Brindisi, territori in età medievale intensamente collegati con Taranto) e la Terra di Bari, carat-terizzate da sviluppi diversi, e accorpando la Capitanata, sottratta in tal modo agli storici colle-gamenti con il Molise; dai confini della nuova struttura amministrativa viene invece esclusa una parte di quella che oggi è la provincia di Matera, che per tradizione sarebbe difficilmente sepa-rabile rispetto al territorio pugliese. In una sola realtà amministrativa confluiscono così terre e popolazioni con storia, cultura e lingue differenti.

Nonostante ciò, la trattazione che segue non separa le due zone fondamentali della regione, la Puglia centro-settentrionale e quella meridionale. Pur se si mettono insieme aree linguistica-mente differenti, non è improprio né metodologicamente arrischiato presentare su base regiona-le le vicende di questi territori, anche per i secoli precedenti l’unità d’Italia. Una presentazione separata non rispecchierebbe l’effettivo svolgimento della storia linguistica regionale, considera-to che fin dall’età medievale i rapporti tra queste zone sono intensi e costanti e che inoltre non si può dare per scontata la coincidenza dei confini linguistici odierni con quelli di molti secoli addietro.

Riprendiamo il filo principale del discorso. Oggi il censimento dei testi pugliesi del Trecento e del Quattrocento può vantare un bilancio nettamente più ricco, in termini numerici, rispetto al punto di partenza di oltre cinquant’anni fa. La specificità della situazione pugliese, caratterizzata dalla presenza di etnie come quella ebraica e quella greca, minoritarie ma assai vivaci, consente di ampliare con un manipolo di testi ro-manzi in caratteri ebraici e in caratteri greci il censimento dei testi in grafia latina. Un notevole contributo forniscono inoltre gli studi storici, nei quali vengono utilizzati e presentati documenti d’archivio, delle cancellerie, del mondo notarile.

Per uniformità rispetto ai criteri adottati da Migliorini — Folena 1952 e 1953, con-sapevolmente si trascura in questa sede la copiosa documentazione in latino medievale che, edita in forma soddisfacente e convenientemente utilizzata, è in grado di fornire informazioni ingenti anche sul volgare, in particolare sul lessico17. Vengono scartati:

� le testimonianze “improprie”18;

15 Se la situazione della Lucania pare immota, qualche segnale proviene dalla Calabria. Oltre ai recenti lavori di Librandi 2006 e di Sica 2007, C. Scarpino prepara l’edizione dell’inedito ricettario di Luca Geracitano di Stilo, del 1477, corrispondente al n. 87 di Migliorini — Folena 1953.

16 A metà del Cinquecento l’esistenza di una specifica varietà linguistica pugliese comincia a prender corpo agli occhi di osservatori nati e operanti lontano dal meridione come Cornelio, protagonista della Ro-diana del veneziano Andrea Calmo, apparsa a stampa nel 1553, cfr. Coluccia [1993b] 2002a: 72. Aggiungo un riferimento sincrono che mi era a suo tempo sfuggito e che è fornito proprio da Migliorini (1988: I 324): una distinzione tra «una parola orvietana, l’altra pugliese, l’altra calabrese» è nei Marmi (a. 1553) del Doni.

17 Si veda per tutti il recente Aprile 2008: 100-117, con indicazione della bibliografia precedente. 18 Non possono essere attribuiti alla regione alcuni testi etichettati come pugl. nel corpus TLIO. Si

tratta di «E questo fu lo malo cristïano», «Bella, ch’ài lo viso chiaro», «Nuora, tu pur vo’ ch’i’ sia»,

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� i casi controversi o discutibili19; «Madre, che pensi tu fare», «E lla Zerbitana retica!». Fonte del fraintendimento è Elsheikh 1994: 5-6, dove per la verità, a proposito dell’ultimo di questi testi, più sobriamente si afferma: «l’elemento “abruzzese-pugliese” o genericamente “meridionale-continentale”, ampiamente documentato dal Contini, e già in parte anticipato dal De Bartholomaeis (“ci si sente dentro un po’ dell’odierno pu-gliese”), rappresenta ormai la base sicura ed obbligata per qualsiasi ulteriore indagine su questo “cu-rioso contrasto in forma di ballata”» (Elsheikh 1994: 5-6). In realtà le cose stanno diversamente, co-me chiarito già in Coluccia 1975: 65-67 e 117-123. «Questo fu lo malo cristiano» è la famosa Canzone del basilico, quella di Lisabetta da Messina, ricordata in Decameron IV 5 24 (cfr. anche l’edizione e il commento a c. di V. Branca, Torino, Einaudi 1980), che non si riesce a localizzare più precisamente rispetto a un generico (pur se inequivocabile) rinvio al contesto meridionale: l’elemento lessicale più significativo è grasta “vaso da fiori”, non specificamente siciliano, ma piuttosto panmeridionale. An-che i meridionalismi lessicali presenti in «Bella, ch’ai lo viso chiaro» non sono circoscrivibili geolin-guisticamente (e semmai rinviano alla zona dello Stretto, non alla Puglia). Non basta infine la presen-za di marìtamo 35 in «Nuora, tu pur vo’ ch’i’ sia», pubblicata da Elsheikh 1994: 14-15, per collocare in una area precisa il testo: la forma con l’enclisi del possessivo, presente in Cielo (pàremo 17, con molti riscontri nello stesso Contrasto e rinvii alla ciciliana «Lèvati dalla mia porta», cfr. Antonelli — Di Girolamo — Coluccia 2008: II 532), «oggi conservata dal napoletano, era tratto comune anche alla Sicilia medievale» (Spampinato, editrice del Contrasto). Più caratterizzata è la ballata «E lla Zerbitana retica!», che ai meridionalismi del tipo già rilevato (càsama 8, fìlama 9) affianca un tratto fonetico meglio marcato: «il dittongo oi da ì (nella rima — oie) [ginoie ‘genie’ 6, cortesoie ‘cortesie’ 10, prigio-noie ‘prigionie’ 14], che risponde soprattutto, nelle varie fasi dai ei a ui, al più noto fenomeno abruz-zese-pugliese, fra il sud della Marche e la regione a nord di Taranto (esattamente oi a Popoli in A-bruzzo, Agnone nel Molise, Andria e Bitonto in Puglia, öi a Trani), ma non è escluso dalla costa tir-renica (öi a Pozzuoli)» (Contini 1960: I 919); per dichiarazione esplicita dello stesso Contini (1960: I 920) il testo, conservato da un manoscritto che raccoglie scritture trecentesche, è inserito nella silloge dedicata al Duecento solo per «deferenza alla tradizione, e per compiere in qualche modo la serie rappresentata da Cielo e dal Castra». Da quanto risulta da un più recente esame linguistico condotto sul Contrasto della Zerbitana, agli elementi meridionali si affiancano «venature di italiano settentrio-nale» e non manca qualche arabismo (uno sicuro, altri solo probabili); ce ne è abbastanza per con-cludere che «la parodia linguistica del Contrasto della Zerbitana ha […] per oggetto una varietà di italiano pidginizzato parlato da un’arabofona, la cui base italiano-meridionale può attribuirsi tanto al poeta quanto alla varietà linguistica con cui gli abitanti delle coste libico-tunisine sono venuti in con-tatto» (Minervini 1994: 250-252; e vedi anche Casapullo 1999: 38). In conclusione, la matrice puglie-se del contrasto non è affatto sicura e il testo non può rientrare nel nostro elenco.

19 La delicatezza dell’operazione di etichettatura areale dei testi antichi non si limita agli anoni-mi, come quelli discussi nella nota precedente: neanche il luogo di nascita dell’autore di per sé può essere decisivo, come si vede dai due esempi che seguono. [I] A Guglielmotto d’Otranto si deve un sonetto teologico dei primi anni del Trecento che per la tradizione manoscritta e per la lingua non può essere ascritto alla regione pugliese (nonostante i tentativi in tal senso operati da studiosi anche non locali); il riesame dell’intera questione, il censimento delle testimonianze (alcune inedite), l’edizione del testo in Coluccia — Corchia 2007. [II] Controverso è il caso del cosiddetto "serventese" (o Dottrina, o Proverbi) "dello Schiavo di Bari" (anche etichettato come Ammaestramenti dati per Salomone), compilazione gnomica composta sul finire del secolo XIII che conobbe straordinaria dif-fusione in redazioni tre-quattrocentesche e fino a tutto il Cinquecento; la testimonianza manoscritta più antica è costituita dalla trascrizione delle prime due strofe in un memoriale bolognese del 1306 (dopo l’indicazione di Folena 1955: 105. ripresa da Pasquini 1970: 11, possediamo ora l’edizione del testo tramandato dal memoriale grazie a Orlando 2005: 194 n. XXV). «Non è lecito dubitare della rea-le esistenza di questo personaggio [cioè Schiavo], nativo di Bari, giudice o giullare che fosse» (Pa-squini 1970: 11), la cui presenza nella città pugliese nel secolo XIII sarebbe comprovata da un’epigrafe apposta sulla facciata nord della cattedrale cittadina (Tateo — Girardi — Sisto 1990: 528, n. 10) e che è ricordato da una serie di testimonianze antiche (Folena 1955: 104; Pasquini 1970: 11):

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� i falsi20. oltre a quelle del Novellino, di Giacomino da Verona, di Francesco da Barberino e di altri, la men-zione forse più significativa è di Buoncompagno da Signa, Rhetorica novissima (a. 1235), che lo defi-nisce ingeniosus in idiomate materno transumptor cioè, forse, ‘abile compendiatore in lingua mater-na’. «Ma non è tuttavia prudente accedere alle fantasie di qualche erudito locale che vorrebbe senz’altro attribuirgli questo anonimo prodotto» (Pasquini 1970: 11); ancora più drastico il giudizio di Folena (1955: 104) secondo cui si tratterebbe di «un poeta del quale non ci rimane neppure un verso e sulla cui esistenza ci restano pochi e pallidi indizi autentici». Bisogna peraltro aggiungere che per la paternità del serventese non manca la ricandidatura pugliese, ancora avanzata da studiosi (San-sone 1967: 366; Dell’Aquila 1986: 20, 73-75; Tateo — Girardi — Sisto 1990: 526-30) che non è possibi-le qualificare come «eruditi locali»: in particolare l’ultimo contributo collega — sia pure non perento-riamente — alcuni brani del testo della Dottrina allo sviluppo delle attività artigiane-mercantili e alla laicizzazione della morale favoriti dall’ «ambiente barese dei primi decenni del secolo XIV» (Tateo — Girardi — Sisto 1990: 528). Attribuisce senza alcun dubbio il serventese a Schiavo la “voce”, redatta da e.[lena] n.[atali], di LIE Autori II 1608; ma il contributo di Bologna 1987: 184, cui la voce rinvia, si limita neutramente a citare: «Li amaestramente de Sallamon […], cioè la Dottrina dello Schiavo di Bari». Allo stato delle cose, è prudente distinguere tra lo Schiavo (figura di poeta e di giullare, all’attività del quale — non pervenuta — alludono dei testimoni sulla cui plausibilità non è giusto nutri-re riserve pregiudiziali) e il testo a lui attribuito; se guardiamo ai dati della tradizione manoscritta (pur in assenza di edizione critica) e alle risultanze linguistiche, non vi è dubbio che il serventese va-da collocato nell’ambito della cultura veneta trecentesca (Stussi 1967: XXIV-XXV, 101-108 e Stussi 1983: 346 n. 20). Finora trascurato (per quanto succintamente identificato già da Contini 1960: II 812) è il rapporto di un passaggio della Dottrina con due versi di Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro, segno di un collegamento con la tradizione lirica siciliana che estende i riferimenti cul-turali dell’autore del serventese fuori dall’ambito della produzione didattica settentrionale o, se vo-gliamo considerare le cose da una diversa e più interessante prospettiva, segno della conoscenza in ambiente veneto trecentesco del testo di Stefano, conservato in attestazione unica dalle cinquecente-sche carte Barbieri. Ecco i testi a confronto. Stefano Protonotaro, Pir meu cori allegrari, vv. 59-60: «ke ò visto adessa bon suffirituri / vinciri prova et aquistare hunuri» (Antonelli — Di Girolamo — Co-luccia 2008: II 355); Dottrina, vv. 209-210: «E hio ho veçiuto bon sofretitore / cum umillitade esser vençedore» (Stussi 1967: 107). La dipendenza intertestuale comporterebbe, ove accertata, una valu-tazione attenta del valore storico e culturale di essa (mi propongo di tornare sull’argomento). Di un certo interesse la citazione di Schiavo de Bare in uno gliommero di Pietro Jacopo de Jennaro (o forse meglio di Sannazaro, cfr. De Blasi 2007). Riproduco il testo dello gliommero per la parte che interes-sa, vv. 46-48: «Ma lo Schiavo de Bare me inparao / che sette anni portao ·na boffetta / per fare ·nde vendetta a posta soia»; interpretazione: portao ‘sopportò’; ·na boffetta ‘un buffetto, un ceffone’; a po-sta soia ‘a suo modo e comodo, prendendosi piena vendetta dopo una ponderazione settennale’ (Pa-renti 1978: 351-352, anche per il commento). Gliommero (potremmo dire ‘gomitolo’) è un compo-nimento d’origine napoletana che nel corso del Quattrocento e successivamente si caratterizza per il contenuto, alquanto caotico e divagatorio, e per lo schema metrico rappresentato da una sequenza di endecasillabi con rimalmezzo (Parenti 1978: 321-323): per genesi culta e scelte linguistiche consape-voli è ascrivibile alla categoria della letteratura dialettale riflessa (De Blasi 1998: 14-15). La constata-zione che «il fatto [cui allude lo gliommero] in forma di precetto o, tanto meno, di aneddoto auto-biografico, non risulta» dall’opera attribuita a Schiavo (Parenti 1978: 351) conferma, se mai ve ne fosse bisogno, l’opportunità di distinguere tra l’aneddotica riguardante il personaggio e il testo della Dottrina a noi effettivamente pervenuto. Nel caso specifico si tratterà di un episodio di largo consu-mo dal significato esemplare, funzionalmente assimilabile al wellerismo riguardante Cola de Trane di cui si discute nella nota 38.

20 Per il Duecento in campo prosastico vi sono solo dei falsi, che converrà citare rapidamente, non foss’altro per evitare che si perpetuino degli equivoci. Nonostante l’abnegazione con cui talvolta si continua a riproporre l’autenticità dei Diurnali di Matteo Spinelli da Giovinazzo (sec. XIII !), si tratta sicuramente di una contraffazione grossolana perpetrata non prima del sec. XVI. A prescindere

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Riguardo alla situazione editoriale vanno fatte due ulteriori avvertenze. Non tutti i documenti che oggi conosciamo sono affiorati grazie a indagini recenti.

Una parte di essi era teoricamente disponibile già da decenni, confinata in lavori che rimontano addirittura alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento (periodo flori-dissimo per le ricerche “positive” ed erudite, in cui non furono disprezzabili tanti cul-tori di storia patria), e praticamente vi giaceva in attesa di essere dissepolta. Anche questo, a ben vedere, è un insegnamento che promana da Migliorini — Folena 1953, dove il n. 55 (i Protocolli di notar Pascarello de Tauris), il n. 69 (l’Inventario delle mu-nizioni del castello di Palo per la consegna ad Azzo Visconti) e il n. 82 (lo Statuto del Consiglio della città di Molfetta) — cioè tre dei quattro documenti pugliesi reperiti per il Quattrocento — derivano rispettivamente dai lavori, di taglio storico, di Carabellese (1901-1907), di Ferorelli (1914) e di Volpicella (1875).

I lavori di taglio storico sono a volte indifferenti, o poco attenti, a questioni di inte-resse primario per i linguisti e i filologi. Lo storico che si cimenta con i testi non sem-pre fornisce edizioni immediatamente utilizzabili per l’analisi linguistica: a volte tra-scura informazioni per noi decisive riguardanti lo stato e l’età del manoscritto, gli atto-ri e le modalità della trascrizione, eventuali interventi editoriali, ecc; perfino la diffe-renza tra originale, copia recente o copia tarda non sempre viene messa in adeguato rilievo21.

3.1. Fino al sec. XIV

Ecco i risultati della ricognizione che riunisce tutti i testi pugliesi fino alla fine del Trecento22 oggi conosciuti. Si includono anche due documenti il cui originale è scom-parso (numeri 5 e 13) e la copia, di mano veneziana e un po’ più tarda, di un preceden-te originale salentino (numero 15): i tre pezzi vengono inseriti nella lista quasi a risar-cimento parziale della scarsa documentazione ottenibile, pur se l’analisi sulla lingua degli stessi presenta, come è ovvio, forti elementi di presuntività. Le parentesi quadre

da ogni considerazione di tipo storiografico (su questi temi si è incentrato finora il dibattito tra nega-tori e sostenitori dell’autenticità del testo [nessuno dei quali, ovviamente, è riuscito a rintracciare il manoscritto originale o copie di epoca relativamente antica]), basterebbe la seguente constatazione: nel lessico di questo testo compare una forma come labardiere m. pl. ‘soldati armati di alabarda’, at-testata nell’italiano solo a partire dal 1514-20 (Machiavelli, nella variante più diffusa alabardiere). Il lemma sarebbe impossibile in un testo del XIII secolo, in quanto la voce (e la famiglia) «è penetrata in Italia con i lanzichenecchi e con le milizie svizzere» (DELIn: s.v.). Superati i confini del secolo XIII, in area salentina un caso abbastanza simile è rappresentato dal Chronicon neritinum, attribuito per la sezione iniziale al monaco benedettino Stefano di Nardò, operante nel sec. XIV, e per la sezione finale (fino al 1412) ad anonimi continuatori, mentre pare dovuto alla penna dell’erudito Giovan Bernardi-no Tafuri (1695-1760), dal cui laboratorio fuoriescono anche altri prodotti come il Ragionamento assegnato ad Angelo Tafuri e i Diari assegnati a Lucio Cardami; non possono convincere, in quanto sono poco argomentate e prescindono dalle modalità di trasmissione del testo, le sollecitazioni ad “accogliere con ampio beneficio di inventario l’autenticità (per non dire la genuinità) di questi testi” (Braccini 1964: 205-206, n.).

21 Informazioni provenienti da copie anche molto tarde di originali scomparsi possono essere uti-lizzate dagli storici, purché vengano sottoposte a un vaglio critico analogo a quello riservato ai docu-menti originali; ma per la lingua si impongono esigenze diverse.

22 Questa tabella consente di rimpolpare il quadro «desolatamente desertico […] salvo impro-babili nuove scoperte» ricomposto da Aprile 2008: 140-141, il quale mette insieme 10 pezzi.

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che racchiudono i primi tre elementi dell’elenco stanno a indicare che gli stessi sono antecedenti al sec. XIV, cioè ancor più precoci23. Si segnala l’uso dell’alfabeto ebraico e dell’alfabeto greco: in assenza di indicazione specifica, si intenda che il documento è vergato in alfabeto latino.

1. [glosse di Šabbetai Donnolo — caratteri ebraici, sec. X, Oria, cfr. Treves 1961, Lacerenza

200424; 2. glosse a un testo della Mišnah, in tutto 154 lemmi e brevissimi sintagmi — caratteri ebrai-

ci, ultimo quarto del sec. XI, probabilmente Otranto25, cfr. Cuomo 1977, Cuomo 2005: 321-326; 3. quattro testi, quattordici glosse e altre tre annotazioni trascritte da sei mani diverse, due

principali e quattro secondarie, nel Laur. Plut. 57.36 — caratteri greci, seconda metà del sec. XIII (poco oltre il 1269), zona di Gallipoli, cfr. Arnesano — Baldi 2004: 130-13826. Oltre alle annota-zioni e alle glosse, notevolissimi sono i testi (rispettivamente dieci, quattro, nove e tredici righe di scrittura) che parrebbero, in tutto o in parte, dotati di struttura metrica (o di riprese rimiche) e sembrerebbero trattare temi amorosi tipici della poesia romanza medievale quali la malmarita-ta e l’alba];

4. testo di natura religiosa che comincia ���� ���� ��� — caratteri greci, tra la fine del Due-cento e i primi decenni del secolo seguente, area salentina, inedito, cfr. Distilo 1985: 135;

23 Vengono escluse dalla lista le traduzioni di elegie in caratteri ebraici, forse del sec. XIII (ma po-

trebbero essere assai più tarde), già ritenute di area pugliese cfr. Cuomo 1983: 432 n. 19 ma invece quasi sicuramente siciliane. Come mi precisa la stessa Cuomo, dal codice Gaster Oriental 11669 della British Library, messo insieme tra la fine del sec. XIV e il sec. XV, deriva il testo pubblicato da Sermo-neta 1994: XXX-XXXI (per la datazione) 1-39 (per il testo); si noti che esistono anche numerose edi-zioni a stampa (quindi più tarde) del racconto della cerimonia pasquale, tra cui una «traduzione “pu-gliese” non ancora studiata» (XXXVI-XXXVII, n. 57).

24 Sul personaggio vedi anche Lelli 2004: 295-302. 25 Testo «copiato nell’area culturale di una delle accademie talmudiche del Salento, probabil-

mente ad Otranto» (Cuomo 2005: 321). 26 Non produce nuovi testi ma ha qualche riflesso sulla storia esterna della Scuola poetica sicilia-

na la seguente annotazione in greco (di cui si fornisce la sola traduzione) che «una rozza mano salen-tina attribuibile agli inizi del sec. XIV» verga in posizione capovolta nel margine inferiore di un foglio del codice: «Lunedi 29 ottobre [1268] rinchiusero i signori all’interno di Gallipoli, fino a giovedi 4 aprile [1269]. In questo giorno infatti gli abitanti di Gallipoli li consegnarono al Giustiziere e il Giu-stiziere li deportò e li impiccò a Brindisi lunedi 22 aprile, ed erano 17 gli impiccati a Brindisi, e da-vanti a Gallipoli erano 8, nel 1269, indizione XII. Cioè i signori Glicisio e Tommaso Gentile e i suoi tre figli — Io papas Angelo figlio di Giovanni del prete Rinaldo» (Arnesano — Baldi 2004: 126. Preciso che, qui e in séguito, mi riferisco al segmento dell’articolo dovuto a D. Arnesano). La annotazione allude all’assedio posto dalle truppe angioine a Gallipoli, città in cui si erano rifugiati i partigiani di Corradino dopo la sconfitta di Tagliacozzo (agosto 1268) e ne precisa i limiti cronologici, finora in-certi. Una circostanziata rassegna delle fonti che trattano dell’assedio di Gallipoli produce Acconcia Longo 1988; cfr. in particolare la annotazione che «tutti i documenti della Cancelleria Angioina rela-tivi all’assedio sono contrassegnati dalla XII indizione, che comprendeva nel caso specifico il periodo dal 1° settembre 1268 al 31 agosto 1269» (Acconcia Longo 1988: 16). A Gallipoli si era ricoverato anche «Philippus de Messana» (quasi sicuramente identificabile con il rimatore Filippo da Messina, appartenente alla Scuola), che Torraca individua tra «i proditores perseguitati da Carlo d’Angiò dopo la sconfitta e la morte di Corradino, [… il quale] viene catturato con altri ribelli in Gallipoli dal giu-stiziere Gualtiero di Sumerosa» (cfr. la nota biografica premessa da A. Fratta all’edizione dell’unico sonetto giunto a noi di Filippo da Messina in Antonelli — Di Girolamo — Coluccia 2008: II 780; II 781-784 per il testo).

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5. lettera di Pietro Pisano — 1304, Polignano (documento antico scomparso; ne restano due trascrizioni moderne, di fine ottocento e inizi novecento), cfr. Corchia 1984;

6. traduzione-adattamento delle Sentenze morali di Gregorio Nazianzeno in 59 tetrastici, accompagnata da un commento interpretativo in prosa — caratteri greci, primi decenni del sec. XIV, area salentina, cfr. Distilo 1995: 221;

7. sollecitazione rivolta da un grammatico a «��� � ��������» perché apprendano l’arte della scrittura, in tre quartine di alessandrini, ognuna delle quali è monorima, col primo emisti-chio sdrucciolo e il secondo piano — caratteri greci, secondo quarto del sec. XIV, area salentina (cfr. Distilo [1986] 1989: 518-523; Distilo 1995: 221, per la datazione);

8. predica — caratteri greci, metà sec. XIV, area salentina, cfr. Parlangeli [1958] 1960: 143-173. 9. formula confessionale — caratteri greci, sec. XIV, area salentina, Parlangeli 1965; 10. lauda alla Vergine, in due quartine di alessandrini, ognuna delle quali è monorima, col

primo emistichio sdrucciolo e il secondo piano — caratteri greci, sec. XIV, area salentina, cfr. Di-stilo [1986] 1989: 523-527;

11. lettera del notaio Niccolò di Bisceglie a Angelo Acciaioli, conte palatino, conte di Malta e di Melfi, Gran siniscalco del Regno di Sicilia, il cui il notaio assicura la fedeltà propria e del proprio signore Gabriele e si conferma servitore devoto — Bisceglie, 26 maggio 1371, cfr. De Blasi 1982: 13, giustamente qualificata come «di provenienza pugliese» (Rao 1996: 97). Inedita, studio in preparazione a cura di Chiara Coluccia;

12. didascalie della cappella di Santo Stefano — caratteri greci, ultimo trentennio del sec. XIV, Soleto, cfr. Romanello 1978: 35-36, Berger 1980: 113-114, 123, Safran 2005: 880-882;

13. statuti della cattedrale — seconda metà del sec. XIV, Giovinazzo (documento antico scomparso; ne restano due trascrizioni moderne, di fine ottocento e inizi novecento) (Carabelle-se 1897 e Garufi 1912);

14. due lettere di Sabatino Russo e una di Mosè de Meli, mercanti salentini, al veneziano Biagio Dolfin — 1392, 1399, secc. XIV ex. — XV in., Copertino-Lecce (Stussi [1965] 1982: 159-160, 164)27;

15. lettera di Raimondo del Balzo Orsini a Donato Arimondo, console veneziano in Puglia, che garantisce ai veneziani l’esenzione dai dazi nella città di Monopoli, fino al raggiungimento di un accordo specifico — 24 agosto 1398, Barletta (originale scomparso, copia di mano venezia-na della prima metà del sec. XV) (Kiesewetter 2001: 30)28.

3.2. Il sec. XV

Dopo questi timidi ma non irrilevanti inizi, nel corso del sec. XV il volgare si im-pianta progressivamente nelle corti e nelle loro cancellerie, nella cultura cittadina (testi

27 Sabatino Russo viene etichettato come «judeo de Cobertyno chy sta mo’ in Leze» proprio da

Mosè de Meli, cfr. Stussi [1965] 1982: 164. L’esistenza nei due centri di nuclei di ebrei variamente attivi risulta confermata tra l’altro da una annotazione del resoconto fiscale di Nardò del 1491: «uno certo rumore facto tra iudei de Lecche et de Cupertino», cfr. Sidoti Olivo 1992: 745-746 (nelle cita-zioni dal testo le cifre rinviano, qui e successivamente, ai righi della trascrizione dell’editrice). Sul te-sto vedi dopo Città n. 31.

28 Un segno minimo della difficoltà con cui gli scriventi pugliesi si risolvono ad abbandonare il latino per il volgare si potrebbe scorgere nel seguente episodio (segnalatomi da P. Sisto, che ringra-zio): nella sottoscrizione che giudice e testimoni appongono a un atto di vendita redatto a Bari il 15 giugno 1378, il latino viene usato da quattro di essi mentre uno solo ricorre al volgare. Potrebb’essere significativo che l’unico scrivente in volgare non sia locale ma fiorentino: «Antonio de Lapaccio de Firenze sono teste» (cfr. Cannataro Cordasco 1985: 269). Peraltro lo stesso individuo in un atto di poco successivo, del 18 marzo 1381, si riaffida al latino: «Ego Antonio de Lapaccio de Firenze te-stor» (cfr. Cannataro Cordasco 1985: 286).

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di notai, di mercanti, di laici di varia estrazione), nei monasteri, nei conventi e in gene-re nell’universo religioso, in una notevole varietà di usi documentari, amministrativi e pratici, di trattati scientifici, di scritture esposte, di volgarizzamenti, e anche di prodot-ti letterari, ecc., da mettere in rapporto con la crescente articolazione della società del tempo.

La lista dei testi, distribuiti in tre differenti ambiti socio-culturali (corti, città, uni-verso religioso), si rivela ricca e variata29; a volte è difficile stabilire una collocazione rigida e la nostra sistemazione ha valore indicativo e di mera comodità classificatoria. Nella presentazione che segue sovente vengono riunificati sotto un unico esponente molti pezzi, anche di tipologia relativamente diversa, redatti in vari anni e quantitati-vamente cospicui: è il caso dei protocolli notarili, delle raccolte di statuti, dei libri di conti, ecc. In pochissimi casi, quando si ha che fare con testi databili al principio del sec. XVI la cui confezione riutilizza o riproduce materiali precedenti, il limite cronolo-gico di fine quattrocento viene lievemente oltrepassato.

Non si dà conto di annotazioni minime, note marginali o interlineari, attività grafi-che sporadiche, che pure potrebbero testimoniare la presenza di pratiche scrittorie an-che in strati marginali della società e l’incremento della produzione volgare in contesti particolari ma significativi (tracce di alfabetizzazione femminile, resoconti indiretti di prediche e di laudationes funebri, ecc.).

La relativa abbondanza della documentazione “genuina” disponibile consente di trascurare in questo conteggio (al contrario di quanto è stato fatto per il Trecento) le testimonianze di trascrizione tarda o linguisticamente controverse.

Di conseguenza si escludono i cosiddetti libri rossi (etichettati anche come libri grossi, grandi, di privilegi, ecc.): questi libri rappresentano la selezione e la trascrizione di documenti più antichi operate da notai, cancellieri o scriventi più o meno professio-nali per iniziativa di comunità cittadine (e anche di privati) a partire dal pieno sec. XVI, ben al di là del limite cronologico di fine Quattrocento, accorpando materiali di pro-venienza varia, senza garanzie sulla natura e sulla qualità della trasmissione (perdiamo, in tutto o in parte, informazioni su luogo, data, mano, stato del documento originale).

Né si considerano ordini e disposizioni emanati da feudatari e signori locali, ma redatti da funzionari al servizio dei sovrani napoletani, inassumibili come reperti del volgare indigeno; valgono tuttavia a testimoniare che, almeno a partire dalla metà del sec. XV, il volgare irrompe massicciamente nella stesura dei documenti giuridici e am-ministrativi elaborati in zona. Per ragioni in parte analoghe, legate alla trafila testuale, si escludono capitoli, bandi, suppliche ecc. originariamente redatti da scriventi puglie-si, ma conservati grazie alla trascrizione o al sunto operati da funzionari della corte na-poletana30 e per ciò esposti alla commutazione31 della veste linguistica che sempre in-

29 In buona parte le indicazioni si ricavano dai contributi riguardanti La Puglia inseriti nei tre vo-

lumi collettivi curati da Bruni 1992: 685-719; Bruni 1994: 687-727; Cortelazzo — Marcato — De Blasi — Clivio 2002: 679-756. Cfr. inoltre Coluccia 2004a, Coluccia 2005. Di norma si dà conto delle edi-zioni e degli studi più recenti e affidabili; da questi si può risalire, all’indietro, alla bibliografia prece-dente.

30 Rientrano in questa casistica i patti e convenzioni tra Maria d’Enghien (anche per conto del fi-glio Giovanni Antonio del Balzo Orsini) e il capitano Francesco Orsini, 1 marzo 1407, Taranto, giun-ti attraverso un transunto del notaio napoletano Iacobo Imictulo, cfr. Coluccia 2005: 134, n. 16.

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terviene durante l’azione di riscrittura: il peso della commutazione aumenta non solo in relazione al numero degli interpositi che si frappongono fra l’antigrafo all’inizio del processo e il codice a noi pervenuto (con riferimento implicito alla distanza cronologi-ca che separa le successive trascrizioni), ma anche in ragione della provenienza geogra-fica dei trascrittori, quando si tratti di scriventi di origine differente da quella degli au-tori dei testi da loro ricopiati. Si tratta di una fenomenologia ben conosciuta nei testi letterari, a partire dal caso più clamoroso, quello delle poesie siciliane ricopiate dai tra-scrittori toscani di fine Duecento. Ma anche sui documenti non letterari, quando tra-smigrano da una zona linguistica a un’altra, l’intervento dei trascrittori produce un’o-pera graduale e in parte inconscia, ma sicuramente massiccia, di ibridazione della lin-gua originaria con la propria, e la veste linguistica del documento subisce metamorfosi più o meno radicali. Ne risulta una forte torsione rispetto alla forma di partenza; resta problematico stabilire esattamente, caso per caso, quanto intensa e (in)volontaria sia la trasformazione idiomatica attuata dai copisti.

Ecco l’elenco dei testi. Corti 1. Raimondo del Balzo Orsini, ordinanza — 27 luglio 1401, Lecce (copia autentica coeva in-

serita in un privilegio dell’11 agosto 1401), cfr. Kiesewetter 2006: 81-82. 2. Raimondo del Balzo Orsini, ordinanza — 15 febbraio 1403, Lecce (conservata all’interno

di un più ampio documento tramandato da una coeva pergamena di ambiente notarile nereti-no), cfr. Frascadore 1981: 75¸ Coluccia 2005: 130-1, nn. 5 e 6. Per quanto riguarda la data, in base a un possibile differente calcolo dell’indizione, permane incertezza se si tratti del 1403 o del 1402, cfr. Frascadore 1981: 72-73.

3. Maria d’Enghien, giuramento di sottomissione a Luigi II d’Angiò — 21 luglio 1406, Ta-ranto (ripetuto qualche settimana più tardi, con adattamenti minimi, dai rappresentanti dell’U-niversità di Taranto), cfr. Coluccia 2005: 134, n. 16;

4. Maria d’Enghien, epistolario — tre lettere in originale (tre diversi scrivani della corte di Maria) 16 agosto 1422; 22 dicembre 1422; 26 agosto 1433, sempre Lecce (Greco 2001); altre lettere in copia (Coluccia 2005: 133-34);

5. Antonio de Barulo seu Barletta, volgarizzamento della Mascalcia di Lorenzo Rusio desti-nato a Nicolò III d’Este, testimoniato da 4 diversi manoscritti, di qualche decennio più tardi ri-spetto al momento della traduzione — 1422, Ferrara?, cfr. Coluccia 2004a: 93-94;

6. epistolario di Giovanni Antonio del Balzo Orsini, principe di Taranto dal 1420, conte di Lecce dal 1446, gran conestabile del Regno dal 1435 — a partire dal 1443, Lecce, trafila testuale da ricostruire, cfr. Coluccia 2005: 139-140;

7. Nicola de Aymo, Interrogatorium constructionum gramaticalium, grammatica latina con esempi in volgare leccese confezionata da un frate domenicano cappellano di Maria d’Enghien — 1444, Lecce, cfr. Coluccia — Greco — Scarpino 2006; Greco 2008;

8. Codice di Maria d’Enghien, etichetta di comodo per indicare un coacervo di materiali vari (statuti, dazi, bandi, capitoli, ecc.) in latino e in volgare riferibili all’attività della regina, morta nel 1446 — codice confezionato nel 1473, Lecce, cfr. Pastore 1979, Coluccia 1993a: 509-513, Coluccia 2005: 134;

31 Adotto la proposta terminologica di Vàrvaro 1996: 532-533. Per la commutazione nelle poesie

della Scuola siciliana (e in altri testi letterari meridionali), cfr. Antonelli — Di Girolamo — Coluccia 2008: III, Introduzione, LXIII-LXIV.

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9. Nicolò de Ingegne di Galatina, Librecto de pestilencia, trattato medicale dedicato a Gio-vanni Antonio del Balzo Orsini — marzo 1448, Taranto?, cfr. Sisto 1986, Coluccia 2005: 141-144;

10. Jachecto Maglabeto di Gallipoli, sonetto caudato — ante 1458, Taranto?, cfr. Coluccia 2005: 145-14832;

11. Falcecto, rigazo (cioè “servitore”) del precedente, canzone indirizzata a Giovanni Anto-nio del Balzo Orsini, principe […] quale in Lecce sedy — ante 1458, Taranto?, cfr. Coluccia 2005: 148-149;

12. disposizioni, ordini, inventari, dichiarazioni provenienti dalla corte di Giovanni Anto-nio del Balzo Orsini — post 1458, Lecce, trafila testuale da ricostruire, cfr. Coluccia 2005: 140-141;

13. Giovanni Russo di Copertino, trascrizione della versione italiana del Tresor, codice ap-partenuto a Giovanni Antonio del Balzo Orsini — 1 marzo 1459, Lecce?, cfr. Coluccia 2005: 149;

14. Libro di Sidrac, redazione salentina — intorno alla metà del sec. XV, area brindisina (Sgrilli 1983: 11-12). Insicura l’appartenenza del codice alla biblioteca di Angilberto del Balzo (cfr. i numeri successivi e Coluccia 2005: 163);

15. Nicola di Nardò, trascrizione di due volumi della Bibbia, codici appartenuti ad Angil-berto del Balzo, conte di Ugento dal 1463, duca di Nardò dal 1483. In calce al secondo volume, una lista di vocaboli ebrej richati in latino, sorta di glossario bilingue ebraico-volgare — 1466 e 1472, Ugento-Nardò, cfr. Coluccia 2005: 158-160;

16. Guido di Bosco di Nardò, trascrizione del Confessionale di S. Antonino da Firenze, codi-ce appartenuto ad Angilberto del Balzo — ante 1487, Ugento-Nardò, cfr. Coluccia 2005: 160-161;

17. trascrizione del volgarizzamento del De civitate Dei di S. Agostino, codice appartenuto ad Angilberto del Balzo — ante 1487, Ugento-Nardò, cfr. Coluccia 2005: 161;

18. trascrizione del commento anonimo al Teseida, codice appartenuto ad Angilberto del Balzo33 — ante 1487, Ugento-Nardò, cfr. Coluccia 2005: 161;

19. trascrizione di un sonetto aggiunto in coda a un esemplare dei Trionfi del Petrarca, co-dice appartenuto ad Angilberto del Balzo — ante 1487, Ugento-Nardò, cfr. Coluccia 2005: 161;

20. inventario dei beni appartenenti ad Angilberto del Balzo — ante 1487, Ugento-Nardò, cfr. Coluccia 2005: 155-57;

21. anonimo, ternario di natura encomiastica inserito in Rogeri de Pacienza di Nardò, Bal-zino — 1498 ca., Salento-Napoli, cfr. Marti 1977: 129-130, Coluccia 2005: 171;

22. Rogeri de Pacienza di Nardò, Balzino, Triunfo, lettere e sonetti — 1498 ca., Salento-Napoli, cfr. Marti 1977, Coluccia 2005: 169-172.

Città 1. Sabatino Russo, tre lettere — 1402-1403, Copertino-Lecce (Stussi [1965] 1982: 161-164); 2. Giovanni Bolani, vice (con)sul Venet(orum) in Litio a Tomaso Mocenigo, duca di Candia

(l’odierna Creta), lettera nella quale viene riportata la dichiarazione resa da Habramo iudio de Otranto, con ibridismo, sicuramente originario, caratterizzato dalla compresenza di elementi del salentino-leccese e del veneziano — 5 novembre 1404, Lecce (Stussi 1982-83);

3. Angelo da Bari, Cola d’Ascoli Satriano e altri braccianti pugliesi, lettere conservate nel carteggio Acciaioli — 1415-1420, Pisa e altre località toscane (De Blasi 1982; Rao 1996);

4. Giovanni di Stefano da Prato, trascrizione di un esemplare della Commedia — 2 maggio 1419, Lecce (Coluccia 2005, 165);

32 Alle schegge biografiche finora raccolte sul personaggio si aggiunga l’informazione minima

proveniente da un documento del 1463 pubblicato da Alaggio 2004: 106 e 108, n. 9. 33 Oggetto della tesi di dottorato di M. Maggiore.

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5. Tuccio Barella, lettera forse autografa al notaio Nicola Reppatito, capitano di Copertino — 9 marzo 1422, S. Pietro in Galatina (Vallone 1981);

6. Tuccio de Incalcio di Ostuni, capitano del conte di Conversano, sentenza che assegna la proprietà della Terra dell’Abate al monastero di San Benedetto — 27 agosto 1444, Conversano, originale, inedito;

7. Thomasi de Amara, Quaternus salis civitatis Luceriae, registrazione del movimento com-merciale del sale tra questa località foggiana e Manfredonia, ancor oggi centro di primaria im-portanza per la produzione salina — 1449-1450, Lucera (Mazzoleni 1967; Coluccia [1990] 2002a: 58);

8. Pascarello de Tauris, Protocolli notarili. 39 manoscritti, conservati in un fondo dell’Ar-chivio di Stato di Bari (cui appartengono anche gli altri Atti notarili registrati ai numeri 12, 21, 27, 30), contenenti la registrazione autografa dei documenti rogati da questo notaio nel corso della sua pluridecennale attività professionale. La lingua normalmente usata nei protocolli è il latino, ma vi sono anche varie inserzioni volgari (descrizione di beni mobili e immobili, citazioni dirette di testimonianze, proteste, richieste e obbligazioni, patti statuiti tra le istituzioni cittadi-ne e alcuni privati, ecc.). Di mano di Pascarello almeno 135 pezzi in volgare — 1445 (il primo pezzo volgare è del 1449)-1502, Bitonto (Carabellese 1901-1907 [i protocolli che ci interessano sono nel vol. I] (una porzione di testo in Migliorini — Folena 1953: 71-72 [= n. 65]; Coluccia [1990] 2002a: 60)34;

9. iscrizioni graffite sui muri di locali della Torre del Parco adibiti a prigione; si devono a scriventi di varia provenienza geografica, alcuni forse pugliesi — 1450-60 ca., Lecce (Cazzato 2006: 332-335);

10. Bernardo Macthes, conti — 1454-55, Lucera, inedito (Compagna 1981; Coluccia 1998: 99, 103, 106, 108, ecc.);

11. traduzione dei cosiddetti Annali baresi operata da personaggio non identificato (trafila testuale da ricostruire) — seconda metà del sec. XV, “ambiente andriese” (Cioffari — Lupoli Ta-teo 1991: 23);

12. Angelo Benedetto de Bitricto, Protocolli notarili, in 6 manoscritti (cfr. Città, n. 8): sono di mano di questo notaio almeno 34 pezzi in volgare — 1462-1489, Bitonto (Coluccia [1990] 2002a: 60);

13. Elisabetha de Quintaballis, testimonianza resa al notaio Antonio de Natali — 17 maggio 1463, Nardò (Frascadore 1981: 154);

14. Giacomo Bellanti, miniatore galatinese al servizio dei Gonzaga marchesi di Mantova, sette lettere verosimilmente autografe — novembre 1463 — marzo 1474, due lettere spedite da S. Pietro in Galatina, quattro da Marmirolo in provincia di Mantova, una da Napoli (Cazzato 1991; Coluccia 1992: 261-263)35;

15. supplica inviata dall’Università di Galatina a Ferrante I d’Aragona, re di Napoli (trafila testuale da ricostruire) — 1463, S. Pietro in Galatina (D’Elia [1959] 1995: 94-95);

16. capitoli della Bagliva (prima redazione [cfr. Città, n. 35]) — 1464, S. Pietro in Galatina (Massaro 2004, 129-145);

17. inventario riportante le dichiarazioni di 258 individui riguardanti terre, beni e diritti en-trati a far parte della disponibilità di Ferrante d’Aragona in séguito alla morte di Giovanni An-tonio del Balzo Orsini — 1464, S. Pietro in Galatina (Massaro 2008);

34 La pubblicazione dell’intero corpus volgare di Pascarello è affidata a C. Marzano. 35 Il personaggio non è sconosciuto agli storici dell’arte: «Nell’attesa [che Mantegna accetti di

trasferirsi a Mantova, dove è almeno dal giugno 1460] il marchese Ludovico, tramite il miniatore pu-gliese, ma operoso a Mantova, Jacopo Bellanti, ha preso contatti sullo scorcio del 1458 con il forsen-nato Michele Pannonio, l’artista di origine ungherese attivo alla corte estense» (Agosti 2008: 38).

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18. inventarium bonorum repertorum in arce civitatis Bari. L’inventario, insieme ai due se-guenti, contiene la descrizione in lingua materna di beni esistenti nei castelli di Palo e di Bari (il ducato di Bari era stato assegnato da Ferrante I d’Aragona agli Sforza come ricompensa per l’aiuto concesso da Milano a Napoli negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo); gli inventari vennero compilati per essere inviati a Milano — 12 ottobre 1465, Bari (Coluccia — Aprile 1997; Coluccia 1998);

19. Roberto de Perillo, notaio, Descriptio sive inventarium munitionum, armorum et rerum inventarum in arce terre Pali [= Migliorini — Folena 1953: 88-89 (= n. 69), con un refuso nell’in-dicazione della segnatura: Z 266 sup.] — 13 ottobre 1465, Palo (Coluccia — Aprile 1997; Coluc-cia 1998);

20. Roberto de Perillo, notaio, Descriptio sive inventarium munitionum, armorum et rerum inventarum in arce civitatis Bari — 29 ottobre 1465, Bari (Coluccia — Aprile 1997; Coluccia 1998);

21. Antonio de Juliano, Protocolli notarili, in 10 manoscritti (cfr. Città, n. 8): sono di mano di questo notaio almeno 21 pezzi in volgare — 1466-1521 [testi volgari del 1474, 1488, 1489, 1490, 1491, 1492, 1497 e un sol pezzo cinquecentesco, del 1521], Bitetto (Coluccia [1990] 2002a: 60);

22. Tarentinus Notarii Stephani, notaio, atto latino contenente la trascrizione di una lettera volgare inviata ai rappresentanti della chiesa di Castellaneta da Federico d’Aragona e contro-firmata dal segretario regio Antonio Guidano, salentino (tra Lecce e Galatina)36 — 21 aprile 1468, Castellaneta (Zilli [1999] 2007);

23. capitoli della Bagliva — 1471 ca., Melendugno, trafila testuale da ricostruire (Massaro 2004: 124-125 e 147-148);

24. registro del Maestro Portulano di Terra d’Otranto e Basilicata — 1472, Otranto (Massa-ro 2007: 178-9) [inedito; prevalentemente in volgare]

25. Stefano Mongiò, registro delle entrate e delle uscite dell’erario — 1473, S. Pietro in Gala-tina (Aprile 1994);

26. Statuti cittadini [= Migliorini — Folena 1953: 104-105, n. 82] — 1474 (in copia del sec. successivo, non anteriore al 1519), Molfetta (Coluccia 1995: 216);

27. Pellegrino Coccia, Protocolli notarili, in 2 manoscritti (cfr. Città, n. 8): sono di mano di questo notaio almeno 4 pezzi in volgare — 1481-1484 [testi volgari tutti del 1481], Bitonto (Co-luccia [1990] 2002a: 60);

28. Jeronimo Micheli, castellano e credenziere della fabbrica del castello, Conto della fab-brica e fosso — 1487-1491, Manfredonia (Salvati 1968);

29. Agostino Columbre da San Severo, Mascalcia — 1490, regno di Napoli (Trolli 1990: 105-169);

30. Antonio Abinantino, Protocolli notarili, in 5 manoscritti (cfr. Città, n. 8): sono di mano di questo notaio almeno 5 pezzi in volgare — 1490-1495 [testi volgari del 1491, 1493, 1494, 1495], Bitonto (Coluccia [1990] 2002a: 60);

31. Giampaolo de Nestore, resoconto fiscale riguardante gli introiti della Corte del Capita-no e le rendite della Bagliva — 1491, Nardò (Sidoti — Olivo 1992);

32. testimonianza rinvenuta all’interno di una pergamena rogata dal notaio Paolo de Capo-nigro — 11 febbraio 1491, Lucera (cfr. Schirru 1996; Coluccia 2002b: 714);

33. suppliche e domande — Brindisi, 22 giugno 1493 (Frascadore 1975-76); 34. Urbano Perrono, notaio, strumento di concordia tra i baroni e l’Universitas di Lecce

redatto in parte in volgare, conservato in pergamena originale (abbondantemente mutila) e in copia tarda nel Libro rosso cittadino — Lecce, 21 marzo 1495 (Coluccia 1993a: 514-515), inedito;

36 Si integrino con Vallone 1991: 167 le indicazioni bibliografiche di Zilli [1999] 2007: 142, n.

61.

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202 ROSARIO COLUCCIA

35. Urbano Perrono, notaio, capitoli della Bagliva (seconda redazione [cfr. Città, n. 16]) — S. Pietro in Galatina, 1496-99 (D’Elia 1968; registrato in Migliorini 1975: 25);

36. iscrizione incisa sull’arco di casa Lucchetti — Corigliano, 1497 (Romanello 1978: 57-58); 37. brevissime annotazioni sottoscritte in calce alla copia di testamenti e altri documenti

giuridici provenienti dalla comunità greca di Altamura, significative perché testimoniano la pre-senza della cultura bizantina anche nel Nord della regione — caratteri greci, seconda metà del sec XV (Corsi 1977-1978: 150, 153, 155-7; del 1563 un’ultima sottoscrizione: 293);

38. anonimo tarantino (di probabile origine lucana), Trattato d’igiene — inizi del sec. XVI, Taranto (Gentile 1979; Coluccia 1993a: 538-539)37;

39. trascrizione del distico iniziale del sonetto CII del Canzoniere petrarchesco [��� ��� ��� �� �� ������� �� ������� / �� ���� �� ��� �� �� ������� �� ��] — caratteri greci, inizi sec. XVI, ambiente otrantino (Coluccia 1992: 259-260);

40. ordinamenti marittimi — Trani, forse del 1363, stampati a Venezia nel 1507 (Valente 1981, 121; Coluccia 1995: 216);

41. Antonio de Ferrariis Galateo (1446-1517), Esposizione del “Pater noster” — Salento, 1507-1509 (Coluccia 1993a: 560-569)38.

Religione 1. Antonio da Bitonto, francescano, Credo in terzine di endecasillabi, Lauda in onore della

Madonna, prediche con citazioni di versi iacoponici e danteschi (conservate in tradizione indi-retta, attraverso l’opera di rapportatores in ascolto) — 25 novembre 1433 (Lauda); ante 1465 (Credo e prediche) (Coluccia 1994b: 701-702; Coluccia 2004a: 78-80; Pice 1996 [volenteroso, ma testo e commento vanno assunti con grande cautela]);

2. statuti degli Osservanti — 1448, provincia di S. Angelo, Puglia settentrionale (Oliger 1915; Coluccia 2002b: 713);

3. quaderno dello “spoglio” di Nicola Pagano, Arcivescovo di Otranto, compilato dal no-taio leccese Adam de Argenteriis sulla base di un inventario originale redatto dallo scrivano Ga-sparro Frabica, catalano — Lecce, 1451 (Massaro 1996; Massaro 2007: 213-4);

4. visite pastorali, in latino con inserti in volgare — 1452-1501, Nardò (Centonze — De Lorenzis — Caputo 1988: 101, 177, 235);

5. atto di confessione, promessa e abiura di ebrei convertiti al cristianesimo — 1454, Lucera (Lonardo 1907)39;

37 Il testo è oggetto della tesi di dottorato di M. Mazzeo. 38 Le condizioni assai sospette della tradizione manoscritta (non esistono testimonianze antece-

denti quella dell’erudito sette-ottocentesco Gian Vincenzo Meola, noto pregiudicato per altri falsi) non consentono di assumere le poesie di un Bernardino da Oria, che avrebbe agito nell’ultimo scor-cio del sec. XV (Altamura 1978). Al secondo quattrocento rimonterebbe anche un poeta “Cola de Trane” evocato da Tateo 1972: 543: «Di alcuni [poeti] ci è stato serbato anche il nome, come il pu-gliese Cola da Trani». Alla base del fraintendimento c’è verosimilmente il verso di una barzelletta del Coletta contenuta nel ms. It. 1035 della Nazionale di Parigi, il famoso Cansonero del Conte di Popoli: «Né mo né mai, dice Cola de Trane». Non siamo in presenza di un personaggio reale (pur se si chia-ma “Cola de Trano” un individuo registrato in un atto di abiura di ebrei a Lucera nel 1454, cfr. Cola-femmina 1991: 146) ma di una frase sentenziosa attribuita a un personaggio il cui nome riaffiora in altri testi della tradizione napoletana (come aveva già visto correttamente Corti 1956: XXII-XXIII). Sot-to certi aspetti analogo il valore esemplare da attribuire all’episodio riguardante lo Schiavo di Bari inserito nello gliommero del de Jennaro / Sannazaro (discusso nella precedente n. 19).

39 Il giuramento pronunziato «in vulgari eloquio» dal piccolo gruppo (19 unità) di ebrei abitanti di Lucera che si convertono al cristianesimo viene «de verbo ad verbum in modum qui sequitur» tra-scritto in una pergamena latina conservata nell’Archivio Capitolare di Lucera: ne è redattore il notaio Iacobus Caracausa di Troia (Lonardo 1907: 587-588).

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MIGLIORINI E LA STORIA LINGUISTICA DEL MEZZOGIORNO 203

6. iscrizione nella cattedrale — ante 1456, Nardò (Romanello 1978: 56-57)40; 7. Pietro da Trani, Trattatello di confessione, composto a istanza di Borso d’Este, conserva-

to da quattro diversi manoscritti (tre dei quali di provenienza capestranese) — 1466 ca., Ferrara? (Coluccia 2005: 167-168);

8. iscrizione che sovrasta l’architrave della chiesa di S. Pietro — 1473, Minervino (Romanello 1978: 55-56);

9. Roberto Caracciolo da Lecce, francescano, Quaresimale (straordinario best-seller che raggiunge 23 edizioni entro il 1500), Specchio della fede (trattato teologico composto nel 1490 e stampato cinque anni dopo da «un certo originale scritto de propria mano del ditto fra Rober-to»), e inoltre citazioni, frammenti e traduzioni volgari inseriti in varie opere latine — 1475 (Qua-resimale), 1490 (Specchio della fede), ante 1495 (opere varie) (Coluccia 1994b: 702-704; Coluc-cia 2004a: 80-85);

10. capitoli della cattedrale di S. Nicola — 1485-90, Bari (Melchiorre 1989; Coluccia 2004a: 75-76, n. 16);

11. Capituli di S. Maria de la Nova, contenenti le regole di comportamento per gli affiliati alla confraternita di S. Maria la Nova (o de la Nova) nella chiesa di S. Francesco a Giovinazzo (archivio capitolare) — 1492, Giovinazzo (Palese 1978; Coluccia [1990] 2002a: 58);

12. Confessione ritmica, scritture religiose e glosse — caratteri greci, seconda metà del sec. XV, area salentina (Pagliaro [1950] 1961; Distilo 1982-87) 41;

13. una lettera, un contratto e alcune annotazioni di carattere pratico-amministrativo di Ni-cola Schinzari, ultimo protopapa greco della città — caratteri greci, ultimi decenni del Quattro-cento e primi del secolo seguente, S. Pietro in Galatina (Distilo 1992: 65-76);

14. glosse — caratteri greci, secc. XV-XVI, area salentina (Colonna 1956, ediz parziale).

4. Specificità La lista contiene qualche inedito rintracciato durante i sopralluoghi in archivi o

biblioteche. Se includessimo anche segnalazioni indirette in cataloghi, in nudi spogli, ecc. (che pertanto necessitano di approfondimenti e controlli specifici), il contingente dei testi potenzialmente disponibili aumenterebbe non poco42. In attesa delle indispen-sabili edizioni, nella storia linguistica della regione fino alla fine del secolo XV (e oltre), paiono profilarsi alcune costanti.

40 Anche in forza della congruenza cronologica e della coincidenza di luogo, il Luysi d’Epephani

nominato nell’iscrizione è verosimilmente lo stesso personaggio (Loysius de Epifanio) che risulta te-stimone in un atto notarile di vendita di beni immobili del 31 dicembre 1453 (Frascadore 1981: 140 e 146) e che viene registrato in un inventario del 1456 (Centonze — De Lorenzis — Caputo 1988: 168).

41 La Confessione ritmica, già ritenuta di area calabrese settentrionale e datata al sec. XIV (Paglia-ro [1950] 1961), va invece considerata più probabilmente salentina e ricondotta a una datazione più tarda (Distilo 1982-87): alcune carte del codice contengono un testo del monaco Nettario, del mona-stero di S. Nicola di Càsole (presso Otranto), attivo nel 1468 e morto nel 1493.

42 I soli documenti pubblici di età aragonese conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli, in particolare i registri di entrata e uscita concentrati nel fondo “Dipendenze della R. Camera della Sommaria”, specificamente nei “Conti erariali dei feudi”, rappresentano testimonianza corposa e po-co sfruttata del volgare locale d’àmbito amministrativo. Sulla base del sistematico lavoro di reperi-mento condotto da Jole Mazzoleni e da altri archivisti napoletani produce una ricca lista, peraltro ampliabile, Aprile 2008: 126-127.

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4.1. Perifericità

La perifericità rispetto alle dinamiche prevalenti sugli scenari nazionali caratterizza la storia linguistica di questa terra-ponte fisicamente allungata, tra lo Ionio e l’Adriatico, verso le terre d’Oriente. In effetti, se guardiamo ai fenomeni che insorgono nei poli più attivi della penisola italiana e alle tendenze di volta in volta prevalenti, non vi è dubbio che la Puglia giuochi un ruolo marginale e che certe manifestazioni della cultura nazionale si sviluppino con ritardo, talora con modalità singolari, o a volte non compaiano affatto. Tuttavia conviene ampliare la prospettiva canonica del rapporto periferia-centro e non identificare il centro esclusivamente con la Toscana o addirittu-ra con la sola Firenze; collegamenti emergono soprattutto con la capitale storica del Meridione, vale a dire con Napoli. L’influenza del modello napoletano agisce in parti-colare su documenti giuridici come statuti, capitoli, bandi e amministrativi come regi-stri di conti e apodisse (ricevute con sottoscrizione autografa), che in tutto il Regno si presentano con una struttura testuale relativamente rigida per conformità alla tradi-zione e perché ne risultino agevolate la riconoscibilità collettiva e l’approvazione da parte dell’autorità centrale. Il dispiegamento di un modello unitario produce i propri effetti sulla testualità e sulla tecnica di redazione, oltre che sulla lingua.

Tra i testi di questo tipo, il caso meglio analizzato è quello dei Capitoli della Bagli-va di Galatina (1496-99 [Città, n. 35]), così qualificati da Migliorini (1975: 25)43: «re-dazione, in lingua amministrativa meridionale, dei Capitoli della bagliva (giurisdizione) di Galatina, allora mistilingue (il greco poi si estinse)». In essi i «modelli letterari to-scani e la tradizione latineggiante, notarile ed umanistica, si innestano […] sul tronco della koinè quattrocentesca meridionale […] e di una koinè amministrativa regionale, quale armonica componente del processo di evasione e di superamento dell'uso stret-tamente dialettale» (D’Elia 1968: 91-92). La recente individuazione di una precedente versione dei Capitoli, rimontante al 1464 (Città, n. 16), suggerisce l’opportunità di un confronto sistematico tra le due diverse redazioni. L’operazione, poche volte consenti-ta dalla documentazione pervenuta e ancor meno tentata nella pratica, potrebbe rive-larsi interessante proprio al fine di misurare la variazione linguistica e testuale in dia-cronia: in altre circostanze, esaminando copie del medesimo documento redatte in tempi diversi, si è potuto rilevare che fenomeni di variazione e di sostituzione risultano concentrati nei settori della grafia, della fonetica e della morfologia, attenuati nella sin-tassi e quasi impercettibili nel lessico44. In sostanza, chi copia sembrerebbe attento a riprodurre la sostanza lessicale e semantica di un testo, più facilmente verificabile, mentre rispetterebbe meno gli altri livelli della lingua. In Puglia non sono molti gli e-semplari utilizzabili per questo tipo di raffronti. Uno strumento di concordia del 21 marzo 1495 tra i baroni e l’universitas di Lecce (Città, n. 34) è conservato in duplice versione attraverso la pergamena originale e una più tarda trascrizione confluita nel

43 Si veda inoltre la citazione che ne viene fatta in Migliorini 1988: I 256, dove si evidenzia il «for-

te ibridismo» che caratterizza questo testo, come anche gli Statuti (o Codice) di Maria d’Enghien (cfr. Corti, n. 8) e gli Statuti di Molfetta (cfr. Città, n. 26): significativamente si parla di ibridismo, non di koiné.

44 Secondo quanto sappiamo da documenti quattrocenteschi di area lucana (Compagna 1991; sulla fenomenologia della copia e sulla sua utilizzabilità in linguistica, vedi anche Vàrvaro 1998 e Co-luccia 2000).

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MIGLIORINI E LA STORIA LINGUISTICA DEL MEZZOGIORNO 205

cosiddetto Libro rosso della città, ma purtroppo l’originale è vistosamente mutilo per uno strappo e dunque un confronto significativo è di fatto impossibile. Differente il caso dei cosiddetti Capitoli di Bagnolo (località del Salento non lontana da Otranto), redatti nel 1440 ma conservati solo attraverso due copie del sedicesimo secolo in du-plice veste grafica, rispettivamente in caratteri latini e in caratteri greci (Perrone 1980: 177-186).

4.2. Incroci

Quella pugliese è una storia di incroci, più che di isolamento o di separatismo. Fin nelle fasi più antiche si individuano elementi di collegamento tra le diverse articolazio-ni territoriali e si colgono segni del processo di superamento dei particolarismi verso forme sovralocali di integrazione; già presso i più avvertiti testimoni tre-quattrocenteschi si registra la percezione dell’esistenza di fenomeni linguistici e cultu-rali che superano la frammentazione municipalistica o microareale e in qualche caso sembra addirittura di poter cogliere l’embrionale configurazione di una specificità re-gionale individuata su base linguistica (Coluccia [1993b] 2002a: 68-75). Se poi consi-deriamo le direttrici esterne alla regione, oltre alle “prevedibili” Firenze e Napoli, non mancano rapporti “orizzontali” con le altre zone del Sud estremo, continentale e insu-lare (la Sicilia e l’area calabro-lucana), e anche con località dell’Italia settentrionale lungo la direttrice adriatica (in particolare con Venezia, i cui interessi per gli scali della Puglia sono ben noti) e infine con i paesi (trans)frontalieri al di là del mare. Si configu-ra una dialettica particolare, sia per la relativa autonomia delle tradizioni locali sia per la presenza di componenti specifiche che movimentano e in un certo senso complicano la storia linguistica e culturale della regione. In definitiva un contesto linguistico-culturale caratterizzato da marginalità e perifericità, ma anche aperto a rapporti e scambi molteplici variamente orientati.

4.3. Plurilinguismo

Quella pugliese è una storia di plurilinguismo. I dialetti pugliesi sono articolati al loro interno e nettamente separati da una linea, che corre da sud di Taranto a nord di Brindisi, attraverso la quale passa una delle grandi partizioni dialettali del territorio nazionale; nella regione convivono con l’italoromanzo presenze alloglotte tuttora di-scretamente (e variamente) vitali come i franco-provenzali, gli albanesi, i grichi. Le ar-ticolazioni territoriali si manifestano del resto sin dall’epoca preromana (lingue di so-strato di Dauni, Iapigi, Messapi, Peuceti, ecc.) e si continuano in epoca altomedievale (lingue di superstrato dei Bizantini e dei Longobardi). Nel tempo la varietà si accresce in virtù di ulteriori situazioni di contatto, dalle quali derivano riflessi nell’antroponimia, nella toponomastica e nel lessico: arabi, armeni, normanni, ebrei, turchi, slavi, angioini, aragonesi (catalani e castigliani) condividono con gli indigeni territori, vicende storiche e lingue, in un incrocio in cui tanti particolari sono ancora da studiare. Molte situazioni potrebbero essere approfondite proprio grazie all’analisi dei testi antichi. Ad esempio, manca uno studio complessivo che indichi data, esten-sione, vitalità degli spagnolismi nei testi e nei dialetti pugliesi; al momento possiamo almeno constatare che — probabilmente favorito da intellettuali e autori pendolari tra Napoli e la periferia (come i salentini Rogeri de Pacienza e Galateo), ma anche da ma-

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estranze impiantatesi nella regione a scopo di lavoro come a Lucera il massaro Bernar-do Machtes (i cui interessantissimi registri di conti attendono uno studio integrale, cfr. Città n. 10) — un piccolo contingente di iberismi si ritrova già in testi pugliesi quattro-centeschi e lascia ipotizzare vie precoci e abbastanza inedite di collegamento interne al Regno aragonese: ampollecta (per le hore) ‘clessidra’ (< cat. ampollèta de hores), aqua-pede ‘vinello, vino che si ricava dalle vinacce’ (< cast. aguapié), donairo ‘facezia, detto arguto’ (< cast. donaire), galante ‘gentile, grazioso’ (cfr. cast. gala), moncile ‘mantellina’ (< cast. monjil), perra ‘malvagia, ostile’ (< cast. perro) (Coluccia — Cucurachi — Urso 1995: 213-218).

4.4. Varietà

Pur se la qualità della situazione editoriale non è ancora all’altezza dei materiali reperiti, l’esistenza di testi pugliesi, relativamente numerosi e tipologicamente variati, è ormai indiscutibile e va ridimensionato il luogo comune che pigramente ripete lamen-tele sulla ridotta produttività di questa regione: insomma, ben altro che frammenti. I trattati di medicina, di mascalcia e di veterinaria, i testi di contenuto enciclopedico, grammaticale, religioso, gli statuti, gli inventari e i documenti analoghi che si generano negli ambienti della cultura giuridico-notarile e nei conventi, testimoniano una produ-zione relativamente abbondante e varia nei contenuti, considerevole sotto il profilo les-sicale e preziosa per la conoscenza della vita quotidiana e della cultura materiale: ci viene offerto in tal modo un ricco patrimonio, spesso connotativo dell’area, di lemmi riguardanti oggetti d’uso comune e attrezzi di lavoro, utensili, arredi della casa, vesti, tessuti, ornamenti, recipienti, mestieri, materiali e tecniche di esecuzione, animali45 e pesci di mare e di fiume, indicazioni di misura e di peso, monete, anche campi astratti come colori, dignità e cariche, diritto, relazioni di parentela; sono cospicue le informa-zioni su onomastica e toponomastica (Coluccia — Aprile 1997; Coluccia 1998; Coluccia 2004b; Aprile 2008).

La giusta insistenza sugli aspetti lessicali non deve indurre a trascurare ulteriori, anche notevoli, motivi d’interesse. Il resoconto fiscale scritto a Nardò nel 1491, riguar-dante gli introiti della Corte del Capitano e le rendite della Bagliva nell’anno preceden-te, rivela un contenuto particolarmente vivace in quanto registra tra l’altro le pene comminate a séguito di fatti di microdevianza insorti nel centro salentino e riporta spesso alla lettera il “corpo del reato”, e cioè l’evento che ha generato l’erogazione del-le pene (Sidoti Olivo 1992): risse, liti familiari, piccoli furti, violazione di norme e di-vieti, inviti piuttosto ruvidi, bestemmie, minacce e insulti. Il documento costituisce una vera miniera per il lessico e la fraseologia (Aprile 2008: 238-239), ma anche su altri piani si rivela almeno altrettanto accattivante. Sono frequenti le grafie tipiche dell’area come <ch/cch> per [�/��] (cachare ‘cacciare’ cioè ‘cavare’ 722, 852, fache ‘faccia’ 639, feche 98, 153, 229, fechi 522, forfichi ‘forbici’ 452, Lecche 448) e <gh>, <nh>, <ngh> per [ñ] (pugho 491, pughi 510, pigho ‘pegno’ 218), (punhi 156), (arunghi ‘aliossi’ 337,

45 La testimonianza (20 righi di volgare in tutto) rinvenuta all’interno di una pergamena rogata a Lucera l’11 febbraio 1491 dal notaio Paolo de Caponigro (cfr. Città, n. 32) fornisce una rara attesta-zione di anechya ‘giovenca di un anno’ (LEI: 2 1405-1406, s.v. anniculus; cfr. Coluccia 2002b: 714), lettura preferibile rispetto a un oscuro avethia (prima lettura), forma che — con concrezione dell’arti-colo — andrebbe ricondotta al tipo beccia ‘capra’ (ipotesi di Schirru 1996: 282).

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runghi ‘id.’ 342 e 343, pungho 344, 361, Vanghulo ‘Bagnolo’, proprio la località salen-tina ricordata in 4.1). È sporadico ma connotativo il dittongo [ue] da � latina (fueco 401, 479, 624). L’uscita della quinta declinazione latina si conserva in fache ‘faccia’ 639, facie ‘id.’ 345; ricorre più volte il possessivo enclitico in marituma 429, matrema 442, molliereta 639, soroma 271, sorota 323, e anche suisa 609 è probabilmente errore per sirisa/sirsa ‘suo padre’ (< sire ‘signore’). Tra i costrutti paiono degni di nota il ca polivalente con valore finale («portame li forfichi, ca te mecto le mano alli capilli» 452) e l’azione del futuro espressa ripetutamente con il costrutto volo + infinito («yo te vol-lio accusare allo conscillio» 295-296, «yo te vollio castigare» 311, «io vollio talliare la fache ad te et ad molliereta» 639, «yo te vollio cachare le ’ntrame ‘cavare le budella’» 722, «yo te vollio cachare l’occhi» 852), coesistente con differenti realizzazioni di que-sto tempo verbale («derò» 509, «farò» 521, «ferò» 635 ); anche «tu divi essere squarta-to» 504-505 può essere interpretato come una forma analitica di futuro. In conclusio-ne, solo un’analisi a tutto tondo, non ristretta in un unico livello, può rendere piena ragione delle dinamiche linguistiche che si riflettono nei testi.

Sotto il profilo pragmatico-funzionale il resoconto di Nardò fornisce un repertorio abbastanza ampio di insulti, di cui vanno sottolineate varietà e sagace strutturazione interna: ben analizzato in altri contesti, nell’italiano antico l’insulto è un atto linguisti-co relativamente poco studiato, forse anche per una supposta carenza di dati significa-tivi. Ma negli ultimi tempi si registrano segni di un’evidente inversione di tendenza. Ai 323 passi estrapolati da atti di processi per oltraggio svoltisi a Lucca tra il 1330 e il 1384 ripubblicati da Marcheschi (1983, editando in modo più rigoroso Bongi 1890) è dedicata l’analisi sintattico-testuale di Dardano, Giovanardi e Palermo (1992); un si-gnificativo campione degli improperi e scambi verbali recanatesi pubblicati oltre un secolo fa da Neumann e Spallart (1907: 85-88) è efficamente commentato da Breschi (1994: 484-486); ingiurie ricorrono nella ben analizzata raccolta di nuovi testi pratesi dalle origini al 1320 organizzata da Fantappiè (2000); ingiurie pistoiesi databili tra gli ultimi mesi del 1295 e i primi del 1296 sono prodotte e commentate da Larson (2004). Anche la dimensione letteraria viene raggiunta da questo tipo particolare di comunica-zione, come fa vedere Spampinato (2005-2006; e cfr. anche Alfonzetti — Spampinato, in stampa)46.

Oltre che per le evidenti implicazioni di carattere sociologico, testimonianze del genere sono preziose, addirittura eccezionali, perché in linea di principio rappresenta-no lacerti di oralità spontanea e registrazioni di discorsi diretti, vale a dire rarissimi strumenti di accesso alla lingua parlata del passato. Non va dimenticato tuttavia che si tratta di parlato riferito nella forma di citazione del messaggio altrui (secondo l’impostazione di Nencioni [1976] 1983: 158-159, che distingue e differenzia all’inter-no il parlato-scritto rispetto al parlato-parlato e al parlato-recitato), su cui incide l’ope-razione di scrittura attuata dal verbalizzatore, che potrebbe anche essere di cittadinan-

46 Utili integrazioni è possibile ricavare anche da testi e studi che non si occupano specificamente

di “insulti”, “contumelie”, “gesti ingiuriosi” collegati al turpiloquio verbale. In Sestito 2004: 47, s.v. ‘filécchio’ si riporta senza commento l’espressione «arà facto fiche» (allusione al noto gesto rituale dal contenuto simbolico) la cui ricorrenza in autori quali Dante, Meo de’ Tolomei, Onesto da Bolo-gna, Marino Ceccoli è commentata da Spampinato 2005-2006. L’annotazione «li mostrò le fiche» ricorre peraltro nel resoconto fiscale neretino, cfr. Sidoti Olivo 1992: 636.

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za diversa rispetto al parlante, con le implicazioni del caso legate alla variazione dei si-stemi linguistici e alla possibile conseguente ridotta capacità interpretativa da parte dello scrivente. Nel nostro caso l’estensore Giampaolo de Nestore è di Nardò, dunque della medesima patria dei parlanti.

4.5. Sistemi grafici

A causa (o in virtù) della struttura marcatamente “autoctona”, ricca di tratti carat-terizzanti, lo studio dei sistemi grafici è di grande importanza per la ricostruzione della storia linguistica pugliese (e meridionale in genere); nel processo di superamento delle tradizioni locali a vantaggio di modelli più estesi, i produttori di cultura scritta, di for-mazione e professione varie, sembrano aver giocato un ruolo di primo piano. Nella grafia di protocolli e inventari redatti in terra di Bari dalla metà del sec. XV in avanti, caratterizzata da consuetudini specifiche della zona apulo-barese con qualche propag-ginazione lucana, si individua la presenza di usi diffusi nel Salento e nel sud estremo; inversamente, in testi salentini quattrocenteschi abbiamo tratti che sottolineano la di-scesa di correnti grafiche dal nord della regione. Nello stesso tempo la documentazio-ne indica l’esistenza di abitudini scrittorie comuni ai testi delle altre regioni meridiona-li estreme, e quindi allude a forme di collegamento per così dire “orizzontali”, cioè di-versamente orientate rispetto ai rapporti “verticali” (tradizione locale vs. tradizione e-gemone) che siamo soliti disegnare trattando di storia linguistica meridionale (Coluc-cia [1993b] 2002a: 75-81). Questo complesso di elementi dinamici, all’interno di si-stemi scrittori che per altri versi non mostrano differenze rispetto a quelli in vigore nel-le altre regioni italiane, testimonia il lento riorganizzarsi dei rapporti reciproci tra le diverse zone del territorio verso forme progressive di integrazione e quasi configura una specificità locale dotata di una certa autonomia di fronte alla pressione della scrip-ta napoletana e, sullo sfondo, del toscano; solo in una fase successiva, esauriti i fermen-ti di autonomia del pugliese e del salentino medievali, le forze conguaglianti extra-locali potranno dispiegarsi senza incontrare più resistenze particolari.

5. Postilla La prima produzione scritta volgare in grafia latina appare in epoca piuttosto tar-

da: solo nel pieno sec. XV i testi si intensificano e si articolano tipologicamente. Per spiegare questa situazione, non è possibile riproporre una sorta di questione di tarde origini su scala regionale, né ci si può semplicisticamente appellare a fattori di arretra-tezza della cultura locale; le prospettive cambiano se prendiamo in considerazione an-che i testi redatti in alfabeto ebraico e in alfabeto greco. L’utilizzazione degli alfabeti non latini per la registrazione del volgare è spiegabile geneticamente con la presenza nei territori meridionali di etnie non romanze dotate di forte tradizione culturale: in alcune aree del Mezzogiorno, la lingua di cultura (e di prima alfabetizzazione) per al-cuni gruppi etnici non è il latino, bensì l’ebraico e il greco, come testimonia in maniera eloquente l’entità stessa della produzione manoscritta in queste ultime due lingue47. La

47 Un elenco di quattrocentonovantuno codici in lingua ebraica redatti in Italia (tra cui molti do-vuti a scriventi pugliesi) produce già Freimann 1950; per la regione di cui ci occupiamo, consistenti arricchimenti forniscono i lavori (che per la quantità non si possono elencare singolarmente) di Cesa-

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produzione in lingua romanza e in alfabeto ebraico o greco di per sé sottolinea l’importanza del contesto bilingue per i primi tentativi di affermazione della “nuova” realtà linguistica romanza e dimostra come tradizioni scritte diverse, utilizzate per ser-vire a bisogni interni delle comunità alloglotte, abbiano talvolta funzionato anche da stimolo e catalizzatore della coscienza linguistica volgare; d’altro canto la stessa lunga persistenza dei sistemi scrittori non latini testimonia la lentezza e le difficoltà che carat-terizzano il processo di affermazione della tradizione grafica italiana in aree come il Sa-lento, ove è forte la compresenza delle culture non romanze.

Il crogiuolo genera episodi interessantissimi, che esemplifichiamo con un riferi-mento al mondo ebraico e uno al mondo greco.

5.1. Testi in grafia ebraica

Alla comunità ebraico-pugliese rifugiatasi a Corfù dopo l’espulsione dal Regno di Napoli verificatasi, in diverse riprese, tra il 1492 e il 1541, si deve un’abbondante pro-duzione di vario argomento in prosa e in poesia. Un manoscritto redatto agli inizi del Settecento nella località greca (rimasta fino alla fine del secolo sotto la dominazione di Venezia) contiene una canzone di argomento nuziale accompagnata dalla musica. Non si tratta di un prodotto originale creato per l’occasione, ma di una antica canzone po-polare, giudicata dall’editore di origine pugliese, trasferita nel contesto della cerimonia nuziale ebraica e adattata al motivo di un inno festivo preesistente (Sermoneta 1990: 147-149).

Nel breve canto nuziale (3 piccole strofe per complessivi 12 versi) ricorre (ai vv. 5-8) una quartina di ottonari (con ovvie ipermetrie non strutturali) che, in forma isolata e decontestualizzata, si conserva anche in un altro codice corfiota contemporaneo. Ec-cone le trascrizioni:

Canzone nuziale

Candu sugnu in chista brigada par chi sugnu in paradisu; candu vidu chistu bel visu so cuntentu e cunzulatu (cod. Mic. 4596 del Jewish Theological Seminary di New York, c. 14v)

Candu šuntu in ištu brigada par chi šugnu in paravisu candu vidu lu to bel visu šun contentu e cunzulatu (cod. Montefiore 236, c. 52v)

Secondo il parere dell’editore si tratterebbe di una «canzone popolare pugliese»; la lingua in verità rinvia a un tipo meridionale estremo, specificamente calabro-siculo, fenomeno che si può spiegare con il fatto che «un nucleo di ebrei provenienti dall’Ita-

re Colafemmina, Luisa Cuomo, Fabrizio Lelli. Ancor più copioso l’elenco dei manoscritti in greco: «ai 237 codici [salentini] descritti da [Oronzo Mazzotta] se ne aggiungono infatti oltre 170» attraver-so il puntuale censimento procurato da Arnesano 2005: 25 (per la citazione testuale); e cfr. anche Ar-nesano 2008.

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lia, soprattutto pugliesi e siciliani [corsivo mio], era già stanziato a Corfù a partire dal XIV secolo». Quindi la formula «comunità pugliese» per i nuclei provenienti dall’Italia è generica e può essere utilizzata solo in «conseguenza dell’accresciuto numero di pro-fughi [provenienti dalla Puglia] che sbarcarono nell’isola durante il Cinquecento» (Sermoneta 1990: 140, n. 7)48.

Ma non è solo in gioco la lingua del testo. È straordinario che la quartina in que-stione, con minime varianti ma con le stesse rime, costituisca l’avvio della “canzona ci-ciliana” di contenuto amoroso ma sicuramente “prematrimoniale” (se è possibile adat-tare l’aggettivo al contesto) Quando sono in questa cittade, conservata in due codici gemelli trascritti (in grafia latina, è ovvio) in ambiente fiorentino intorno al settimo-ottavo decennio del secolo XV (Coluccia 1975: 130-132, in particolare 131, vv. 1-4).

Canzona ciciliana

Quando sono in questa cittade per tte sono im paradiso; quando veggio tuo bel viso son contento e consolato (C 35 sup. della Biblioteca Ambrosiana, c. 57r e Ginori Venturi Lisci 3 [oggi Acq. e Doni

759 della Biblioteca Laurenziana], c. 327v) Si tratta di un fenomeno tutt’altro che infrequente nella antica produzione poetica

meridionale: un canto (o uno spezzone di canto) appartenente al registro popolareg-giante viene riutilizzato in contesti culturali differenti rispetto a quelli di prima elabo-razione. In aggiunta, sappiamo per certo che fenomeni di contatto tra culture diverse e anche casi concreti di plurilinguismo non sono eccezionali nel contesto mediterraneo, tradizionale crocevia di popoli: ad esempio, canzoni di origine spagnola sono cono-sciute dagli ebrei mediterranei e nella produzione liturgica corfiota si registrano inni composti da sequenze di strofe in spagnolo, in italiano meridionale estremo e in ebrai-co49. Inconsueta è invece la trasmigrazione (con conseguente ristrutturazione) del me-desimo prodotto dall’ambito della poesia italiana meridionale a quello della poesia giudeo-romanza mediterranea. Accanto alla parziale rimodulazione tematica (canto nuziale nel primo caso, generico argomento amoroso nel secondo) e alle modeste va-riazioni lessicali, i due testi si caratterizzano per una differenza fondamentale: la can-zone nuziale in grafia ebraica di Corfù conserva la forma meridionale estrema, il suo collaterale in grafia latina è trasmesso invece da una trascrizione toscana che ne ha modificato la veste originaria, al punto da renderla linguisticamente stridente con l’intestazione “canzona ciciliana” attribuita alla poesia. Come in altri casi di testi meri-dionali trascritti in Toscana (e anche nel Settentrione), la commutazione linguistica si

48 Il vocalismo tonico è di tipo “siciliano”, cioè caratterizzato dalla chiusura in i di E lunga, I breve ed I lunga e in u di O lunga, U breve ed U lunga; sono diffusissime i ed u finali; ricorrono le forme indeclinabili dell’agg. possessivo mia, tua e sua, invariabili per genere e numero; ecc. Forma marcata è sugnu I pers. ‘io sono’, etichettata come “calabro-sicula” (Rohlfs 1966-1969: § 540)

49 Per una convincente disamina della produzione liturgica attribuibile alle comunità giudaiche di provenienza italiana attive a Corfù e Salonicco, cfr. Lelli 2006 (sul caso che stiamo trattando, vedi in particolare: 207 e n. 37). Allo stesso Lelli e a L. Minervini, dell’Università di Napoli, devo molte informazioni su forme e presenze della cultura ebraica in Italia meridionale: ringrazio sentitamente entrambi.

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spiega con la storia della tradizione manoscritta e con l’intervento del copista. La “cici-liana” o “siciliana” (insieme alla “napoletana” e alla “calavrese”) costituisce un genere della lirica italiana tardo-medievale nato nel Sud, di matrice tutt’altro che ingenua a dispetto dell’anonimato, a volte intessuto di riprese stilistiche e metriche addirittura dai lirici siciliani, fornito di accompagnamento musicale, cui arride notevole successo anche nel Centro e nel Nord dell’Italia (Coluccia — Gualdo 2000: 34-48; Antonelli — Di Girolamo — Coluccia 2008: III XXIII-XXIV): quest’ultima circostanza documenta nel Tre e Quattrocento l’esistenza di movimenti culturali che si orientano in direzione op-posta rispetto a quella prevalente, che procede dalla Toscana e dal Settentrione verso il Mezzogiorno. I rapporti con la cultura ebraica testimoniati dal canto nuziale di Corfù configurano un nuovo capitolo della storia non banale di questa forma poetica.

5.2. Testi in grafia greca

La tradizione scritta di lingua romanza e di grafia greca rappresenta in tutto il Sud un concorrente formidabile per quella in grafia latina. Testi romanzi redatti in alfabeto greco sono ben documentati, prevedibilmente, nelle aree caratterizzate da forti inse-diamenti bizantini quali Sicilia, Calabria e Puglia. In Lucania, nella antologia di testi quattro e cinquecenteschi messa insieme da Compagna 1983, il primo testo, del 1402, è in caratteri greci e precede i prodotti in grafia latina (gli altri compresi nelle stessa raccolta e quelli studiati da Braccini 1964), che si susseguono a partire dagli anni Qua-ranta del sec. XV. L’elenco dei documenti lucani in grafia greca provenienti dal mona-stero di S. Elia di Carbone ammonta a 25 pezzi, distribuiti in un arco temporale che va dal 1402 fino al sec. XVI ex. - XVII in. (Distilo 1996: 160-165): vi si riflettono fatti di rilevanza amministrativa, economica e politica, annotazioni di eventi atmosferici “ec-cezionali” (terremoti, l’apparizione di una cometa, tempeste e grandinate), schegge di vita minuta. Tornando alla Puglia, i documenti in grafia greca, distribuiti in un arco cronologico che va dalla fine del sec. XIII fino al pieno sec. XVI50, sono numerosi, diffu-si e variati nel Salento, quasi impercettibili nel nord della regione: la diversa distribu-zione territoriale ovviamente riflette il difforme radicamento locale della cultura bizan-tina. È ragguardevole la relativa varietà dei reperti editi: scritti di natura religiosa (pre-dica, formula confessionale, invocazione alla Vergine), di carattere didattico e gram-maticale, traduzioni, scritture esposte. Ancor più ricca e promettente diventa la raccol-ta se aggiungiamo gli inediti censiti, in tanti diversi codici, da Arnesano — Baldi (2004: 130-131, n. 78)51: una ricetta gastronomica, glosse (tra cui una accattivante sequenza italo—inglese: ����� ���(��) ����; ����: ���; �� �: � �; ecc.), vari altri testi.

Tra i materiali già trascritti e quindi sin d’ora offerti all’attenzione degli storici del-la lingua colpisce, in quel contesto e a quell’altezza cronologica, la presenza della poe-sia (che nei testi in grafia latina è assai più tarda) e soprattutto delle liriche amorose

50 I testi indicati in precedenza, Religione, numeri 13 e 14, sono in parte confezionati nel sec. XVI; al-

lo stesso secolo rimonta l’inedita coniugazione di ����� / ��� ������, di mano salentina (Distilo 1985: 136).

51 La parte cui facciamo riferimento è di Daniele Arnesano. Non resta che sollecitare gli stessi bravissimi studiosi a trascrivere integralmente questi documenti, indicandone date e luoghi di confe-zione: ne deriverebbero ottimi materiali di studio, con conseguente ridefinizione della situazione lin-guistica del salentino antico.

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duecentesche (cfr. il numero 3 del § 3.1.). Si tratta di un episodio originale per l’intera storia linguistica meridionale nella quale, dopo l’esaurirsi dell’esperienza dei poeti fe-dericiani, bisognerà attendere la poesia culta di età angioina, quasi alla metà del Tre-cento, e quella del filone anonimo quasi coevo (“siciliana” ecc.) di cui abbiamo trattato in 5.1., per ritrovare i segni di una nuova stagione lirica. In uno studio non ancora pubblicato Alessandro De Angelis (che vivamente ringrazio per le anticipazioni forni-temi) mette in luce l’esistenza di rapporti formali e contenutistici tra le poesie salentine in caratteri greci e alcuni testi appartenenti proprio alla medesima corrente di lirica anonima in grafia latina sviluppata nel secolo successivo (De Angelis, in stampa): sug-gestione straordinaria che con interesse attendiamo di conoscere nei dettagli.

6. Desiderata I temi e gli esempi che abbiamo presentato vanno considerati un semplice cam-

pione delle potenzialità offerte da questi testi e della loro utilizzabilità per la ricerca storico-linguistica, a tutti i livelli. Mentre si vanno allestendo le prime banche dati52 co-stituite, in maniera esclusiva o prevalente, da materiali meridionali e pugliesi, continua ad avvertirsi dolorosamente la mancanza di edizioni critiche, sia di singoli testi suffi-cientemente estesi sia di raccolte omogenee di testi. Da questa fase degli studi ormai necessaria, poggiata su dati documentari abbondanti e inappuntabili, questioni genera-li e singoli aspetti trattati in questa presentazione potrebbero risultare modificati, an-che in misura non marginale: sarebbe, credo, il modo giusto per onorare le suggestioni e le sollecitazioni che Bruno Migliorini ci ha consegnato.

52 Come quella allestita per il PRIN 2007 «Storia, Archivio e Lessico dei Volgarizzamenti Italiani

(SALVIt)» che vede coinvolte le Università del Salento (Rosario Coluccia, coordinatore nazionale), di Catania (responsabile Margherita Spampinato), di Napoli “L’Orientale” (responsabile Rita Libran-di), di Pisa "Scuola Normale Superiore" (responsabile Claudio Ciociola) e di Salerno (responsabile Sergio Lubello), all’interno del quale si colloca il presente lavoro. Altri archivi informatizzati furono redatti per il PRIN 2002 «Corpora linguistico-testuali italiani on-line (CLIO2)», al quale parteciparono le Università del Salento (responsabile R. Coluccia), della Basilicata (responsabile R. Librandi), di Catania (responsabile M. Spampinato): per un elenco dei materiali disponibili cfr. Coluccia 2004b: in particolare 13-15.

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Zilli Carmelo, 1999, Una lettera volgare in una pergamena quattrocentesca dell’Archivio dio-cesano di Castellaneta, in «La parola del testo», III, pp. 241-278 [poi ripubblicato in Zilli 2007: 97-144, da cui si cita].

Zilli Carmelo, 2007, Varia romanistica, Bari, Edizioni Giuseppe Laterza.