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PROVINCIA DI LIVORNO 2 GIUGNO 2016 SETTANTA ANNI DI REPUBBLICA, SETTANTA ANNI DI VOTO ALLE DONNE

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PROVINCIA DI L IVORNO

2 GIUGNO 2016 SETTANTA ANNI DI REPUBBLICA ,

SETTANTA ANNI DI VOTO ALLE DONNE

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Le immagini delle pagg. 4 e 5: Archivio storico della Provincia di Livorno

A cura della U.O. Affari generali – responsabile dott.sa Paola Meneganti

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L’I TALIA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

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LA PROVINCIA DI L IVORNO E IL VOTO DEL 2 GIUGNO

Dopo il voto del 2 giugno 1946, in cui le italiane e gli italiani elessero l’Assemblea Costituente, che avrebbe avuto, tra le altre cose, l’altissimo compito di scrivere la nuova Costituzione, e decisero, con il referendum tra monarchia e repubblica, la nuova forma repubblicana dello Stato, la Provincia di Livorno, con deliberazione della Deputazione n. 1209 del 6 giugno 1946 (l’organo esecutivo), così salutava la nascita della Repubblica:

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“La Deputazione rende omaggio alla REPUBBLICA che è sorta per volontà del popolo italiano al quale invia un fervido saluto per la disciplina dimostrata in questa occasione, dando prova così di piena consapevolezza e di maturità politica, sicuro auspicio per un migliore avvenire della Patria” E, nella deliberazione n. 1207 del 6 giugno 1946, la Deputazione decideva l’acquisto di una bandiera italiana da esporre, che fosse adeguata alla solenne proclamazione della Repubblica:

Ci fu anche una ricaduta politica locale, in seguito alle elezioni della Costituente. Nella deliberazione della Deputazione n. 1231 del 13 giugno 1946 si legge: “ “L’Ill.mo signor Presidente [il socialista Giuseppe Funaro] comunica:

- che a seguito dell’esito delle votazioni per la Costituente, nelle quali a Livorno ha riportato la maggioranza la lista comunista, ha ritenuto opportuno di rassegnare nelle mani del Prefetto le dimissioni dalla carica di Presidente della Deputazione Provinciale, dopo averne avuto il benestare da parte del proprio partito, informandone contemporaneamente al Prefetto il Comitato di Liberazione Nazionale dal quale era stato designato”.

Anche a seguito della sollecitazione a ritirare le dimissioni pervenuta sia dal Prefetto, che dal C.L.N., il deputato [consigliere] e vicepresidente Ugo Bassano, del Partito Comunista, chiede a Funaro di rimanere in carica perlomeno fino all’esito delle elezioni amministrative. Anche il deputato liberale Emilio Giorgi lo esorta a rimanere, “pur trovando giusto il gesto fatto, che risponde ai principi democratici”. Il presidente Funaro accoglie le sollecitazioni e ritira le dimissioni. Le presenterà nuovamente ed effettivamente nel novembre dello stesso anno, dopo le elezioni amministrative che vedranno prevalere la lista del PCI.

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IL VOTO ALLE DONNE

Nel corso del 1946, le donne votano, in Italia, per la prima volta. Il primo Paese europeo ad introdurre il suffragio femminile fu il Granducato di Finlandia, tra il 1905 e il 1906. Poi fu la volta della Norvegia, della Danimarca (1913), dell’Unione Sovietica (1918), così come le donne britanniche sopra i 30 anni di età, le donne tedesche e quelle polacche ebbero il voto nel 1918, le olandesi nel 1919, le donne in Turchia nel 1916; nel 1928 fu esteso alle donne britanniche sopra i 21 anni (come per gli uomini). E in Italia? Non venne escluso, quindi di fatto ammesso, nella effimera e straordinaria Repubblica Romana del 1849. Fu legittimato nel 1920, durante la reggenza italiana del Carnaro, la città stato di breve durata fondata da Gabriele D’Annunzio a Fiume. Nel 1925, dopo tre anni dalla marcia su Roma e dal colpo di stato fascista, la legge elettorale Acerbo aveva previsto il voto amministrativo per alcune categorie di donne.

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La legge Acerbo (ironicamente chiamata del "voto alle signore") concedeva infatti il voto alle decorate, alle madri di caduti, a coloro che esercitassero la patria potestà, che avessero conseguito il diploma elementare, che sapessero leggere e scrivere e pagassero tasse comunali pari ad almeno 40 lire annue. Sta di fatto, però, che, l'anno successivo, le elezioni amministrative furono abolite e venne istituito il regime podestarile. Nessuno, che fosse donna o uomo, votò più, durante il fascismo, per qualsivoglia elezione. Il movimento suffragista fu molto attivo, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Nel 1904, erano usciti alcuni numeri di un giornale suffragista, “Piccola fronda”1. Parliamo di una realtà in cui si leggeva, nel decalogo socialista per le donne del 1901, all’ottavo comandamento: “Sprezza chi ride vedendoti un giornale tra le mani”. Il ridicolo era

“il deterrente più efficace agli sforzi di apprendere come va il mondo fuori dalle mura domestiche, fuori dal cortile dove da secoli si è consolidata per sottoproletarie, proletarie ed anche piccolo-borghesi, l’unica struttura di informazione e di commento-analisi sui microavvenimenti quotidiani: la chiacchiera e il pettegolezzo”.

È poco noto, ma molto interessante, l’episodio che vide protagoniste dieci maestre delle Marche, che il 25 luglio 1906 ottennero di entrare nelle liste elettorali, contribuendo alla conquista del diritto di voto raggiunta solo quarant'anni dopo. Protagoniste, le cittadine di Senigallia, sostenute dall'illuminato presidente della Corte di appello di Ancona, Lodovico Mortara, il quale a sorpresa ne accolse la richiesta. Erano gli anni delle battaglie per il suffragio e per i diritti di cittadinanza femminile condotte da donne di grande spessore intellettuale, come Anna Maria Mozzoni o Maria Montessori. Le sorti elettorali delle dieci maestre si infrangeranno nel ribaltamento della sentenza stabilito dalla Corte di cassazione: dopo il ricorso del procuratore del re, fondato sulla «presunta inconciliabilità tra le doti tipicamente femminili e i forti doveri dell'impegno politico», il 4 dicembre la Corte annulla il pronunciamento di Mortara rinviando alla Corte di appello di Roma, che ordina nel 1907 la cancellazione dalle liste politiche delle maestre. Tuttavia il fatto costituisce un precedente e ha un valore simbolico importante. Nel primo Novecento, le lotte delle donne si propagano e rompono pian piano il muro di inferiorità cui erano condannate, non solo in Italia. Fioriscono le associazioni a Roma, a Milano, spesso legate anche a movimenti e comitati esteri; nel 1908 si apre nella capitale il primo Congresso nazionale delle donne italiane, che dà visibilità alle istanze femminili nell'opinione pubblica.

1 Cfr. “Sprezza chi ride”. Politica e cultura nei periodici del movimento di emancipazione in Italia, di Annarita Buttafuoco, in DWF n. 21, 1982 “La piccolo fronda. Politica e cultura nella stampa emancipazionista (1861-1924), pp. 7-34.

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Si ricordano figure di spicco come la napoletana Teresa Labriola, figlia del filosofo Antonio, attiva militante del movimento suffragista e studiosa della questione femminista, prima donna a laurearsi in giurisprudenza, nel 1894, all'Università di Roma. O la milanese Anna Maria Mozzoni, che nel 1877 aveva presentato al Parlamento la prima petizione a favore del voto femminile. Mozzoni fu mazziniana, poi socialista: scrittrice, donna ribelle e indipendente anche nelle scelte sentimentali (si sposò contro la volontà della famiglia con il conte Malatesta Simoni, più giovane, da cui si separò dopo sette anni). Le dieci maestre si chiamavano Carola Bacchi, Palmira Bagaioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Grazioli, Iginia Matteucci, Emilia Simioncioni, Enrica Tesei, Dina Tosoni e Luigia Mandolini; avevano un'età media di 28 anni, origini umili e intrapresero la loro battaglia nell'isolamento, derise dalla stampa conservatrice, ignorate dall'opinione pubblica. La lotta antifascista e la Resistenza videro tante donne in prima linea: o con azioni di “guerra senza armi”, in una “resistenza taciuta”, come scrivono Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, o combattendo armi in pugno. Furono 35.000 le donne impegnate nella Resistenza. Eppure, come scrive Anna Maria Bruzzone:

“La specifica oppressione che le donne patiscono si manifestò infatti al loro rientro in patria, e in seguito, in forma particolarmente crudele: spesso esse si videro opporre un muro di disinteresse, di incomprensione, di diffidenza e talora persino di ostilità. A loro specialmente veniva applicata la morale di Renzo, del non mettersi nei tumulti, del non predicare in piazza, in breve del non far politica. Se fossero state a casa, -pensavano e dicevano o lasciavano intendere molti, -non sarebbero state deportate! I guai sono andate a cercarseli! » O, al contrario, sminuendo o cancellando la loro partecipazione alla Resistenza: «Non erano partigiane! Partigiani erano gli uomini che avevano accanto!» E anche, ambiguamente: «Chi sa che cosa avranno passato lassù!» Né si risparmiavano loro umiliazioni che le riportavano nel Lager: si leggano, a questo proposito, i passi in cui vengono descritte le avvilenti visite che molte di esse subirono negli Ospedali militari italiani”2.

In piena guerra, nel novembre 1943, nascono a Milano i Gruppi di difesa della donna (GDD), grazie all’impegno di Lina Fibbi (Partito comunista), Pina Palumbo (Partito socialista), Ada Gobetti (Partito d’Azione), che si diffondono ben presto in tutta l’Italia del Nord occupata dai tedeschi. È la prima grande organizzazione femminile la cui caratteristica fondante è l’unitarietà, perché aperta ad ogni donna senza discriminazioni sociali o politiche. I compiti dei GDD sono operativi: organizzano infatti scioperi contro i nazifascisti; creano una rete di assistenza solidale alle famiglie dei deportati, incarcerati e dei caduti; propagandano la resistenza sia pubblicando giornali sia contribuendovi

2 ANNA BRAVO, ANNA MARIA BRUZZONE, In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945), Editori Laterza

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attivamente nella vita quotidiana come nelle fabbriche, per il sabotaggio della produzione di guerra, nelle scuole, nelle campagne per boicottare la consegna di viveri all’ammasso. Questi gruppi vengono ufficialmente riconosciuti dal Comitato di liberazione dell'Alta Italia nel 1944:

“ Il Comitato di liberazione per l’Alta Italia, riconoscendo nei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà un’organizzazione unitaria di massa che agisce nel quadro delle proprie direttive, ne approva l’orientamento politico e i criteri di organizzazione, apprezza i risultati sin ora ottenuti nel campo della mobilitazione delle donne per la lotta di liberazione nazionale e la riconosce come organizzazione aderente al Comitato di liberazione nazionale.”

Nel novembre del 1944, ‘UDI (Unione Donne Italiane, vicina al PCI), CIF (Centro Italiano Femminile, vicino alla DC) e altre organizzazioni incaricarono Laura Lombardo Radice di scrivere un opuscolo intitolato Le donne italiane hanno diritto al voto. Successivamente, le rappresentanti del Comitato Pro Voto consegnarono una petizione al Governo di Liberazione Nazionale, nella quale chiedevano che il diritto di votare e di essere elette venisse esteso alle donne per le successive elezioni amministrative. Occorre ricordare, come ha osservato Anna Rossi Doria, che “nelle prime prese di posizione dell’UDI a favore del voto alle donne, questo viene presentato più come uno strumento di difesa della famiglia che come un diritto individuale. […] In modo molto simile le organizzazioni cattoliche che si erano impegnate per il diritto di voto tendono inizialmente a presentarlo come una mera estensione alla sfera pubblica del ruolo familiare delle donne”. Permaneva nella società italiana una tradizione conservatrice e maschilista in base alla quale le donne avevano servizi da rendere, ma non diritti da rivendicare. Si aggiunga che sia nel PCI che nella DC persistevano molte perplessità, in quanto si pensava che l’elettorato femminile fosse sprovveduto e facilmente manovrabile, ma si deve riconoscere che sia Togliatti che De Gasperi si schierarono con nettezza per il voto alle donne. Dopo le prime elezioni amministrative (dal novembre 1945 a tutto il 1946), le donne votarono nelle prime elezioni politiche: si trattava del referendum istituzionale monarchia-repubblica, che si tenne il 2 giugno 1946. Fu la più giovane deputata alla Costituente, la comunista Teresa Mattei, insieme a Teresa Noce e a Rita Montagnana, a volere la mimosa come fiore simbolo per i festeggiamenti della Giornata internazionale della donna, l’8 marzo. Giungeva al punto di arrivo di un percorso iniziato cento anni prima con la prima legge elettorale piemontese (1848), che fu poi trasferita con lievi modifiche al Regno d'Italia e che era basata su criteri censitari molto rigidi. Dopo un parziale allargamento del corpo elettorale realizzato con la legge del 1882 (da 628.000 a oltre due milioni di elettori), si era giunti alla riforma del 1912 (legge del 30 giugno 1912,

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n. 666), che introdusse per i soli uomini un suffragio quasi universale. L'elettorato attivo fu esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30 anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza. Il corpo elettorale passò da 3.300.000 a 8.443.205, di cui 2.500.000 analfabeti, pari al 23,2% della popolazione. La Camera respinse con votazione per appello nominale la concessione del voto alle donne (209 contrari, 48 a favore e 6 astenuti). Al termine del primo conflitto mondiale la legge 16 dicembre 1918, n. 1985, ampliò il suffragio estendendolo a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto il 21° anno di età e, prescindendo dai limiti di età, a tutti coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato. Il suffragio universale (maschile e femminile) fu sancito in Italia dalla Costituzione del 1948, la quale pone l'unico vincolo dell'avvenuto raggiungimento della maggiore età. Essa dispone che il voto sia personale (cioè non esprimibile per procura, a meno che non si tratti di elettori fisicamente impediti), uguale (nel senso che ciascun voto ha lo stesso valore di tutti gli altri e non è ammesso il voto plurimo), libero (nel senso che lo stato deve impedire qualunque forma di coazione della volontà dell'elettore) e segreto (vale a dire che, proprio per garantire la sua libera scelta, l'elettore deve isolarsi per esprimere il voto e avere la garanzia che la sua scheda non venga identificata). Pochi mesi prima della conclusione del secondo conflitto mondiale, il secondo governo Bonomi - su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi - introduceva in Italia il suffragio universale, con Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, "Estensione alle donne del diritto di voto". La struttura del decreto era la seguente:

- l'art. 1 ne sanciva l'esercizio alle condizioni previste dalla legge elettorale politica;

- l'art. 2 ordinava la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili;

- l'art. 3 stabiliva che, alle categorie escluse dal diritto di voto, dovevano aggiungersi le donne indicate nell'art. 354 del Regolamento per l'esecuzione del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, ovvero le prostitute schedate che esercitavano "il meretricio fuori dei locali autorizzati".

In questo decreto però non era previsto l'elettorato passivo, che venne introdotto nel marzo 1946: il decreto n. 74 del 10 marzo 1946, "Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea Costituente", sanciva - un anno più tardi - l'eleggibilità delle donne. Fin dalla prima tornata elettorale, le donne votano in massa. Il voto viene vissuto subito non solo come un dovere, ma anche e soprattutto come l’esercizio di un diritto, una affermazione di sé, una speranza o una scommessa sull’avvenire. Scrive Maria Bellonci:

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«Quando in una cabina di legno povero e con in mano il lapis e due schede, mi trovai di fronte a me cittadino, confesso che mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire: il gesto che stavo per fare e che avrebbe avuto una conseguenza diretta, mi sgomentava...».

Sui banchi dell'Assemblea costituente sedettero le prime 21 parlamentari: nove della DC, nove del PCI, due del PSIUP ed una dell'Uomo qualunque. Nadia Spano, nata nel 1916, una in una intervista rilasciata al giornale "Noi Donne", così riflette su quei giorni che diedero inizio a nuovi diritti per le donne:

"Il voto alle donne in Italia: ricordo che da parte dei partiti fu un riconoscimento unanime in forza dei meriti acquisiti durante la guerra, cioè l'aver retto l'intelaiatura della società in anni in cui gli uomini erano assenti. Noi donne abbiamo accettato questa impostazione, anche se avremmo dovuto affermare invece il principio del diritto naturale. Tutta la propaganda elettorale per l'assemblea costituente e per il referendum si rivolgeva alle donne che dovevano votare per il prigioniero o per il bambino, per la saggezza amministrativa, cioè sempre per gli altri. Nessun richiamo, mai era al diritto per sé. Per le donne andare a votare fu comunque importante anche se a sinistra si diceva «mia moglie vota come dico io» e nelle parrocchie il prete ammoniva «Dio ti vede, tuo marito no», ma nella cabina elettorale le donne per la prima volta hanno scelto, di dare la fiducia o magari anche da chi farsi influenzare, ma hanno scelto. Sono state libere”.

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UN QUOTIDIANO DELL ’EPOCA

LO STEMMA DELLA REPUBBLICA ITALIANA

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NOTE

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