BrandMagazine Trabant

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PoliMi// Design della Comunicazione // Laboratorio di Metaprogetto // by Baadaye

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L'ESSENZIALITÀ DELLA T

Oggi nasce T, il magazine che fa dell' essenzialità la sua virtù. Abbiamo scelto la T per rappresentare la nostra filosofia. T è per tutti, è universale.T racconta di limiti scavalcati, barriere aggirate, persone straordinarie. Parla di presente e passato, di mancanze e di difficoltà. Perché è pro-prio nelle crisi che un'idea nasce esattamente come dovrebbe essere: essenziale, pulita, pura.Abbiamo voluto ideare la rivista attorno a questo concetto, ed è cosi che abbiamo deciso di identificarla: nell’essenzialità dell’ingegno, uni-versale per tutti. Il bagaglio che T porta è una collezione di storie di invenzioni, idee o personaggi che da momenti di difficoltà, ingegnandosi, hanno saputo trovare lo spunto per fare qualcosa che potesse cambiare la vita del-la gente comune. Magari a volte sono passati inosservati, mentre altre sono entrati prepotentemente nella quotidianità delle persone, ma l'obbiettivo per cui sono nati è sempre lo stesso: far di necessità virtù.

T

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Edizioni:

Politecnico di MilanoLaboratorio di Metaprogetto

Brand Magazine “Trabant”

DIRETTORE RESPONSABILEPaolo Ciuccarelli

VICEDIRETTORIAndrea AparoFabrizio PiccoliniGianluca Seta COPERTINA Corb Motorcycles

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INDICE A LITER OF LIGHT e luce fu_6 BAMBOO BIKE si fa in due giorni, poi si insegna a fare_26 RECESSION DESIGN l’arte di arrangiarsi_42 SAFFA dai cerini ai mobili “riponibili”_50 DESIGN ANOMINO oltre il designer_58 JR arte per tutti_66 10x10 low cost housing_82

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Centinaia di milioni di persone in tutto il mondo vivono all’interno di abitazioni che sono talmente vicine e sovraffollate che la luce solare non riesce ad illuminarle; specialmente nelle zone tropica-li dove questi insediamenti sono ancora più bui per via degli ampi tetti usati per proteggersi dalle forti piogge e dal sole cocente. La gente del posto, per poter lavorare, è quindi costretta ad usare il debole bagliore delle can-dele o la corrente elettrica, so-vraccaricando le linee elettriche mettendo così a rischio la pro-pria salute o addirittura la vita. La maggior parte delle persone re-sta quindi semplicemente al buio. Nasce così “A liter of light”, un progetto finanziato dalla asso-ciazione MyShelter Foundation, che permette ad un gran nume-ro di persone di beneficiare di luce poco costasa utilizzando una fonte di energia che non degradi l’ambiente circostante. L’idea ar-riva da un meccanico brasiliano, Alfredo Moser. L’officina di Mo-ser a Uberaba, nel sud del paese, ha una cosa in comune con tanti altri luoghi di lavoro in Brasile, ma

anche con tante case costruite con materiali poveri nelle favelas e nel-le baraccopoli di tutto il mondo: non ha finestre. Riflettendo sulle capacità refrattarie delle bottiglie di plastica, Moser ha capito che una bottiglia classica di aranciata o acqua minerale da un litro o un li-tro e mezzo, riempita d’acqua (con un po’ di candeggina , per evitare la formazione di alghe obatteri) e inserita in un buco fatto nel tetto della casa, fa la stessa quantità di luce di una lampadina da 50 watt. È chiaro che quando cala il sole bisogna usare altre forme d’illu-minazione. Ma calcolando 12 ore di luce solare, c’è comunque una riduzione notevole dei costi ener-getici. Moser, che ha istallato le

A LITER OF LIGHTe luce fu

L’invenzione di Alfredo Moser sta illuminando il mondo. Nel 2002, il mec-canico brasiliano ha avuto un’ illuminazione ed ha ideato un modo per illu-minare la sua casa durante il giorno senza elettricità, utilizzando semplicemente delle bottiglie di plastica riempite con acqua e un po' di candeggina.

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sue lampade-bottiglia nella casa dei vicini, e perfino in un super-mercato della zona, racconta che con i soldi risparmiati un padre ha potuto mandare la figlia a scuola. Grazie alla collaborazione tra Moser e un gruppo di studenti del MIT e, alla partecipazione di MyShelter Fundation, questa idea inizia prendere forma fino a diventare un progetto interna-zionale partendo da Manila, nella Filippine, per poi andare in In-dia, Nepal, Sudamerica e Africa. L’associazione ha infatti iniziato a installare le “solar bottle bulbs” in alcune abitazioni a Manila e non appena la gente notò i magnifi-ci risultati e benefici, che questa piccola invenzione portava nelle loro case, tutta la comunità ini-ziò a partecipare all’iniziativa. Uno degli scopi di questa iniziativa è di creare un microbusinesses eco-logico utile a quella parte di popo-lazione interessata. Usando queste “solar bottle bulbs”, costano solo 1 dollaro, la gente riesce a risparmia-re 6 dollari al mese poiché l’allac-ciatura elettrica nelle Filippine è più cara rispetto al resto dell’Asia. Non servono abilità, attrez-zi particolari o grandi quantità di denaro ma materiali sempli-

ci e l’uso delle proprie mani. Tutto ciò è la soluzione ad un gran-de problema dei paesi in difficoltà. Nel 2012 “A Liter of Light” ha vinto il CurryStone Design Prize. Questo premio viene attribuito ai progetti che hanno la forza di mi-gliorare la vita delle persone e raf-forzare le comunità.

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In Africa pochissime persone possiedono auto o motociclette e chi non ha un mezzo di traspor-to proprio, deve fare affidamen-to su autobus fatiscenti e molto costosi; per questo le popolazio-ni sopperiscono alla mancanza di mezzi motorizzati, utilizzando ed adattando alle proprie esigenze le biciclette, le quali vengono inge-gnosamente modificate per diven-tare boda boda taxi (biciclette sul quale telaio viene impiantato un motore riciclato da vecchie moto). La mancanza di accesso ai mez-zi di trasporto pubblico è molto limitante per gli abitanti, perché

impediscono loro di trovare fa-cilmente occupazioni lavorative, ostacolano il commercio locale e regionale, e complicano l’accessi-bilità alla salute pubblica. Le bici-clette attualmente in uso in Africa sono assolutamente inadeguate per il trasporto locale, perché in tutto il territorio sub-sahariano, non esistono aziende che si occu-pano della loro costruzione per intero; queste vengono prodot-te in Cina e in India, poi inviate già assemblate alle popolazioni rurali, per questo il prodotto fi-nale non è adeguato a soddisfare le esigenze, ambientali e lavo-rative, degli abitanti del posto. Gli obiettivi del Bamboo Bike Project progetto sono di due tipi : 1. Costruire un mezzo di trasporto più adatto agli abitanti provenien-ti dalle zone rurali.

BAMBOO BIKEsi fa in due giorni,poi si insegna a fare

Il Progetto Bamboo Bike è stato avviato da due scienzia-ti della Columbia University

Lamont-Doherty Earth Observatory (LDEO): David

Ho e John Mutter, con un finanziamento iniziale prove-niente da The Earth Institute

alla Columbia University. L’obiettivo del progetto è quel-lo di incentivare la produzio-ne locale di bici in bambù a basso costo, ma di alta qua-lità, e di diffonderle in tutta

l’Africa sub-sahariana .

Il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani (UN-HABITAT) stima che ci siano

5000 boda boda taxi nella città di Kisumu,

regione del Kenya occidentale.

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2. Stimolare la nascita di un set-tore specializzato che curi la produzione di biciclette, adat-te a soddisfare le esigenze spe-cifiche locali, a basso costo. In questo progetto, è stata esa-minata la possibilità di impiegare bambù nativo per i telai delle bi-ciclette, sostituendolo alla fibra di carbonio (costosa e tecnicamente impegnativa) o al meno costoso, (ma anch’ esso tecnicamente impe-gnativo) alluminio o cromo-molib-deno che viene comunemente uti-lizzato per la costruzione dei telai. Il bambù è un materiale sor-prendentemente forte (si dice resista tanto quanto la quercia) ed ha grandi potenzilità nello smorzamento delle vibrazioni. Essendo facilmente reperibile in Africa, abbatterebbe i costi relati-vi alle materie prime e permette-rebbe a molti un posto di lavoro. Diversi sono i vantaggi che porte-rebbe la produzione di biciclette in bambù:- Facendosi inviare solo piccole componenti, e non l’intera bici-cletta dall’India e dalla Cina, di-minuirebbero i costi di trasporto. - Il bambù è coltivato diretta-mente in Africa e la produzione di telai in bambù non richiede un’ infrastruttura, dispendio-

sa sia al momento della costru-zione che nel mantenimento. - Non è necessario l’utilizzo di costosi macchinari, gli utensili elettrici moderni sono sufficienti. -Il disegno della bicicletta può essere facilmente adat-tato alle caratteristiche terri-toriali e alle diverse finalità. - Ognuno potrà produrre e manu-tenere la propria Bamboo Bike, le popolazioni così acquisiranno competenze e saranno in grado di inventare nuovi tipi di veicoli. la costruzione di altri tipi di veicoli.

Il Forum Internazionale dei Trasporti e dello Sviluppo

Rurale (IFRTD) ha studiato i problemi di trasporto relativi alle aree rurali povere tra cui

il Kenya occidentale ed ha ipotizzato una vasta gamma di soluzioni, alla cui base vi è

l’utilizzo della bicicletta.

La bicicletta in bamboo: si fa in un paio di pomeriggi e poi si insegna a fare.

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Strumenti di lavoro Lampada per saldare Seghetto Raspa Dremel Guanti Mascherina Calibro Goniometro Pennarello indelebile

Materiali Canne di bambù 2 - 5 cm diametro 1.50m lunghezza Canapa Resina epossidica Tubo per manubrio per pedali Supporti in acciaio per catena Forcella Schiuma espansa

come costruire una BAMBOO BIKE

Per testare la resistenza del bambù potrete sottoporlo al peso di una pila di mattoni sulla quale andrete a sedervi. La canna non si spezza? Perfetto, potete iniziare i lavori. Non sottovalutate l’im-portanza della resistenza del materiale, è direttamente propor-zionale al grado di sicurezza del mezzo.Vi serviranno 7 canne particolarmente resistenti per assemblare il telaio. Le canne verranno unite le une alle altre usando delle apposite congiunzioni in metallo a incastro.Per le componenti metalliche potrete rivolgervi ad una ciclo-of-ficina o ad un rivenditore di ricambi per biciclette. Vi serviranno: corona, pedali, manubrio, catena, forcella, reggisella, tubo di ag-gancio del manubrio e della forcella, tubo di supporto del pedale e supporti della catena.

1) testate la resistenza del bambù

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Come prima cosa dovrete rivestire con la canna di bambù il tubo in acciaio di supporto del pedale. Tagliate con il seghetto un pez-zo di bambù della lunghezza del supporto metallico. Utilizzando la raspa, aumentate il diametro interno della canna fino a che il bambù non si incastrerà al supporto del pedale.Per farli aderire perfettamente riscaldate il bambù con la torcia al propano. Il calore scioglierà lo zucchero contenuto nella can-na con un effetto caramello che avvicinerà le fibre rinforzando la guaina naturalmente. 3) passate al seghettoLa parte più intensa e laboriosa consiste nel modellare le estremi-tà dei tubi in modo da farli combaciare perfettamente gli uni agli altri. Per farlo vi serviranno dei fogli di carta da lavagna, il penna-rello nero, dello scotch, il seghetto e la raspa.Sagomate i fogli e avvolgete le canne.Facendo aderire la sagoma di carta al bambù, saprete con preci-sione dove tagliare. Per prima cosa modellate la canna superiore e quella inferiore tenendo come riferimento l’incastro con il tubo del manubrio e quello del sellino. Poi modellate l’estremità della canna inferiore che dovrà aderire al supporto del pedale precedentemente rive-stito. Infine sagomate la canna che collega il sellino alla sede del pedale. Modellare il bambù non è semplice ma la raspa potrà es-servi molto utile. Tagliando in senso longitudinale delle piccole fessure che limerete con la raspa, potrete avvicinarvi al risultato.Una volta raggiunto un primo risultato, avvicinate l’estremità del tubo al supporto per il pedale e verificatene l’aderenza. Continua-te a limare fino a che non avrete ottenuto un buon compromesso.I due pezzi verranno incollati con la resina epossidica.Verificate sempre con l’aiuto del goniometro che gli angoli fra i tubi rispettino la pendenza di una bicicletta già assemblata.

2) bambù a caldo

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4) imbastiteConclusa la fase di taglio passate all’assemblaggio mediante resina epossidica e stringhe.È importante che i punti di giunzione vengano fermati corret-tamente e per questo dovrete prima allacciarli fra loro mediante legacci e, in un secondo momento, passare la resina.Per rafforzare ulteriormente il telaio, riempite le canne di schiu-ma espansa e tappatele con del nastro adesivo alle estremità in modo da costringere la schiuma ad espandersi internamente ri-empiendo tutta la canna.Dopo aver assemblato le 3 canne portanti il telaio, unite i 4 tubi minori usando i sostegni per la catena che andranno a rafforzare la loro pressione. 5) rinforzate la struttura Ritagliate alcune strisce dai sacchetti di plastica e tenetele a por-tata di mano.Ora tagliate grossi pezzi di fibra di vetro, carbonio o canapa.Prendete la resina epossidica e stendetela accuratamente sulle giunture del telaio.Avvolgete le giunture con i pezzi del sacchetto e stringete con i legacci in modo da far fuoriuscire la resina in eccesso. Attendete qualche minuto e quando la resina si sarà asciugata (ma non del tutto) togliete il sacchetto e passate a mettere un secondo strato. Questo procedimento uniformerà la superficie.Ripetete questa operazione 6 o 7 volte.Con le stringhe allacciate le parti di congiunzione e rivestite con ulteriore resina. 6) assemblaggioUna volta terminato il telaio di bambù potete inserire le compo-nenti metalliche che fermerete con la colla.Forcella e ruota anteriore, ruota posteriore, corona, catena, peda-li, sellino e manubrio.

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RECESSION DESIGNl’arte di arrangiarsi Ogni giorno l’uomo si trova so-speso nel limbo delle scelte: ciò che si vuole, ciò che vorrebbe e ciò che nemmeno può desiderare. Tra consumismo esponenziale e risparmio esasperato, è immerso nella retorica di chi ci racconta una crisi economica angosciante, ma che, forse, prova solo a dare un più comodo travestimento a una sempre più grave crisi di idee. Probabilmente il fulcro della que-stione è saper dire “basta”. Pro-babilmente ci vorrebbe solo un ritorno alle radici, al necessario: l’etica come risposta al consumi-smo, alla crisi, alla salvaguardia del nostro pianeta nella produzione e nell’utilizzo dei beni di consumo. Questa è la risposta che ha pro-vato a dare Recession Design, un gruppo di persone e un metodo progettuale nato a fine 2008, e che con il tempo si è ampliato fino a raccogliere, sotto la dire-zione artistica di Pop Solid con base a Milano, una trentina di professionisti e designer prove-nienti da diversi Paesi, uniti da una visione comune del design.

La riflessione sul far-da-sé, ha portato alla realizzazione, di una collezione di pezzi unici, ma ripetibili all’infinito- grazie alla diffusione gratuita di pre-cise istruzioni di montaggio. Il design fai da te diventa così una risposta plausibile alla cri-si e al ruolo sempre più ridut-tivo in cui il disegno industria-le rischiava di essere relegato. Il termine “Recession” significa, in questo caso, operare in condizio-ni di risorse limitate, non potere contare su tecnologie sofisticate e costose, lavorazioni complesse, materiali difficilmente reperibili e trasformabili.

Recession Design nasce da un’idea

semplice: fare design usando materiali e at-

trezzi facilmente reperibili sul

mercato.

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La parola “Design” si discosta dal mondo del design autocelebrati-vo, che spesso si riduce a sola este-tica del prodotto, o peggio ancora al semplice styling.

La differenza la fa inserire il “clien-te-creatore” nella catena della produzione e della distribuzione: questo, con la sola mediazione del luogo dove acquistare legno o strumenti, permette di arrivare alla creazione di oggetti di design che, seguendo la classica catena della produzione e distribuzione, non sarebbero pensabili per moti-vi economici, logistici e gestionali.

Forse la risposta a molti dei pro-blemi che affliggono il quotidia-no si nasconde in quegli oggetti

che consideravamo ormai inutili, desueti. Certo, tutto questo può essere considerato, per quanto preciso e organizzato, un semplice fai da te. Oppure come una bella finestra spalancata sul futuro. A voi la scelta.

Con la crisi economica che impera e non lascia la sua morsa, un progetto come questo dovrebbe spingere anche le grandi aziende

ad avvicinarsi a progetti di questo tipo e magari

sostenerli. Un’azienda che ha realizzato un sostegno

per Recession Design è Brico, la popolare catena

di Fai da Te.

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Si sa che in situazioni di cri-si si deve fare di necessità virtù e spesso questo porta ad ave-re idee, intuizioni, geniali ed è un’intuizione geniale quella che è stata attribuita a Sansone Valobra, originario di Fossano in Piemonte, patriota e carbonaro. Sembra, infatti, che, duran-te la sua permanenza a Napoli per motivi politici, ideò i ceri-ni, i bastoncini di cera e carta con capocchia a base fosforica. Nonostante l’invenzione di San-sone Valobra fosse del 1828 circa, la vera consacrazione dei cerini avviene a cavallo delle due guerre mondiali, durante il ventennio fa-scista, che con la politica dell’au-tarchia, ossia l’autosufficienza economica di un paese che non prevede rapporti economici con l’estero, e quindi la scarsità del legno ha avvantaggiato la produ-zione dei cerini costituiti come, già detto,di carta mista a cera. Fu, quindi, proprio l’impossibilità di reperire materie prime prove-nienti dall’estero che orientò a tro-

SAFFA dai cerini ai mobili “riponibili”

vare nuove soluzioni che ha porta-to alla consacrazione del cerino. La produzione del cerino ha fatto la fortuna di molte aziende, ma una merita più delle altre di essere cita-ta e questa è la SAFFA di Magenta. Infatti con i materiali di scarto provenienti dalla produzione di cerini e fiammiferi ha prima cre-ato una linea di arredo, poi il Po-pulit, un materiale edile ottenuto anch’esso dal materiale di scarto dalla produzione di fiammiferi.

La SAFFA (Società Anonima Fabbriche Fiammiferi e Affini)

grazie alla produzione di cerini è diventata una delle principali industrie del settore, ma ciò che ha sempre contraddistinto la politica dell’azienda è la volontà e la capacità di

sfruttare appieno i propri materiali di lavorazione, la capacità di interpre-

tare ricerca e necessità di nuovi materiali.

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La linea di arredo merita partico-lare attenzione. La SAFFA negli anni ‘40 con la collaborazione dell’architetto e designer Giò Ponti proget-tò una serie di mobili per la casa e per l’ufficio, particolarmente adatto per il periodo post-bel-lico perché concepito nell’otti-ca del minimo ingombro e della fungibilità: nacque così una serie di completa di mobili “riponibi-li”, cioè smontabili e rimontabili una volta giunti a destinazione. Dai cerini ai mobili “riponi-bili” passando dal Populit, la SAFFA è l’emblema dell’inge-gnosità, della genialità che na-sce da situazioni di carenza, di crisi, dove l’atteggiamento mi-gliore è di far necessità virtù. I fiammiferi oggi sono sempre meno utilizzati. E le scatolette in commercio hanno un design ano-

Erano prodotti in compen-sato, disegnati con tagli netti e rigorosi e spigoli vivi, che consentivano

alla SAFFA di riutilizza-re gli scarti della pro-

duzione principale, cioè quella dei fiammiferi.

nimo. Ma non sempre è stato così. Un tempo erano impreziosite da illustrazioni che le rendevano così originali, da aver creato una moda: quella della fillumenia, la colle-zione, appunto, delle scatole di fiammiferi. Scene di vita nobilia-re, sostegno all’esercito in guerra, pubblicità di vari prodotti. Queste e altri temi, dalla fine dell’Otto-cento fino agli anni Ottanta, han-no ornato le scatole di fiammiferi. E accanto ai cerini e ai minerva esistevano: i candelotti, i contro-vento, i fiammiferi a strappo.

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DESIGN ANONIMO oltre il designerIl Design progetta le cose. L’au-tore imprime il proprio essere nella forma finita, plasma la ma-teria secondo la propria volontà, projecta la realtà, la “anticipa” andando a rispondere a delle ne-cessità contingenti e non, a del-le committenze o al mercato. Nella storia del Design si an-novera un’infinità di oggetti, di “cose”, ma non tutti possie-dono qualità rilevanti, aspetti che li riconducano agilmente al pensiero di un progettista. Altro è il caso di tutti quei ma-nufatti che brillano tra gli altri, che spiccano per caratteristiche che sanno rispondere alle pro-blematiche poste da concezioni di funzionalità, tecnica, forma, tipologia. Si parla qui di prodot-ti senza produttori: l’operato è evidente, ma manca l’autore. Sono oggetti di “buon pro-getto”, cui si attribuisce l’appellativo di anonimo. Design Anonimo quindi, un desi-gn che ci circonda, con cui siamo a contatto tutti i giorni e che non si lascia individuare per la perfezio-

ne con cui si integra con le azioni di ogni giorno, e la capacità di en-trare un po’ nel cuore di chi ne è avvezzo all’uso. Si parla di Moka, laptop, telefoni ultraergonomi-ci, cannucce e post-it. Prodotti straordinari con virtù normali. Fanno ciò che devono fare, bene. Sono oggetti che spaziano dal cult object al più banale strumento tecnico. Sono oggetti che devono essere analizzati non con gli oc-chi di li usa quotidianamente, ma con quelli dell’inventore, per po-tersi immedesimare nel contesto di necessità, di epoca, di signifi-cato proprio dell’oggetto stesso. Puntare l’attenzione su queste ca-ratteristiche e questa tipologia di prodotto anonimo non significa tuttavia minare la stima e l’im-portanza che è data al ruolo del progettista. Al contrario, si va a valutare più approfonditamen-te e a valorizzare il suo ruolo per quanto riguarda il processo glo-bale di definizione del prodotto. Nella modernità del consumo la maggior parte degli ogget-ti di appartiene a questa cate-goria, e il tema in questione assume particolare rilevanza. Il dibattito riguarda l’opportu-nità di operare il “disvelamento” dell’oggetto anonimo. Quest’ul-

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timo per sua natura perde parte del valore culturale e il fascino dati dalla ricostruzione storica, ma mantiene vivo l’interesse e at-trae per la componente auratica di anonimato che lo caratterizza, perché privo di origini e caratteri. Ha senso dunque strappare questo tipo di oggetti dalla loro felice mo-destia, per nobilitarli in qualche modo e quindi porre attenzione sulla sua forma, rendendola pale-se e evidente all’occhio del fedele utilizzatore?

Si eleva questo design prag-matico a progetto d’autore, eliminando ogni dubbio di in-conscia consapevolezza, elimi-nando il carattere di mistero e banale genialità che lo pervade. L’uomo è sconfitto, piegato al proprio bisogno di nominare e dominare le cose, di conoscere e classificare. Si torna a parlare di designer e non di prodotto, se ne celebra il lusso e il prestigio, si perde il senso delle cose comuni. Si saprà ancora progettare coeren-temente, in linea con le domande del contesto, e ricreare la quoti-diana rivoluzione che ci coccola nel vivere di ogni giorno, fatta di oggetti taciturni e perfetti? Parola ai progettisti(anonimi).

Si saprà ancora proget-tare coerentemente, in

linea con le domande del contesto, e ricreare la

quotidiana rivoluzione che ci coccola nel vivere di ogni giorno, fatta di oggetti taciturni e per-fetti? Parola ai proget-

tisti(anonimi).

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SUPERSMART

POCKETPOWER

NOKIA ASHA 501

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Nel 2007 è andato in Medio Oriente per fotografare Israe-liani e Palestinesi nel progetto “Face 2 Face”. Ha ritratto per-sone di entrambi i popoli che facevano lo stesso lavoro e le ha esposte l’una a fianco all’altra sul muro che li divide, facendo nota-re che non erano poi così diversi. Il passo successivo è stato un tri-buto alle donne: “Women Are Heroes”, un progetto realizzato in paesi in via di sviluppo e in zone afflitte da conflitti. JR ha fotogra-fato i volti e gli occhi delle donne

Lui si definisce un “attivista urba-no”, o un “photograffeur”, un mix di fotografo e graffitaro. Stiamo parlando di JR, artista parigino. È famoso per i ritratti giganti in bianco e nero di persone comuni con cui tappezza i muri delle città, i tetti delle favelas, i ponti e i treni. In questo modo “umanizza” l’am-biente urbano portando in primo piano le facce di chi vive in quegli spazi. Sono azioni globali in cui gli stessi protagonisti diventano collaboratori. Come nel caso di “Inside Out”, la campagna globa-le organizzata in seguito all’asse-gnazione del TED Prize nel 2011. Ha iniziato la sua carriera artisti-ca a 15 anni nella scena dei graffi-tari di Parigi: dopo aver trovato una macchina fotografica 28 mm in una metrò di Parigi, decise di documentare le avventure dei suoi compagni nella metropoli-tana e sui tetti, stampare le fo-tografie e incollarle per strada. Dal 2005 inizia a farsi notare dalla stampa e dai mass media grazie al progetto dal titolo “28 Millime-

JR arte per tutti

ters, Portrait of a Generation”, in cui fotografa con la sua 28 mm, gli abitanti dei sobborghi parigini di Clichy-sous Bois e stampa i loro ri-tratti, su poster che incolla illegal-mente sui muri del centro di Parigi.

Attraverso i volti di una generazione relegata nel ghetto, JR vuole attirare l’attenzione dei passanti sulla difficile situazio-ne degli abitanti della

banlieue di Clichy-sous-Bois, luogo che diventerà,

poco dopo, scenario di rivolta.

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e li ha incollati sui tetti, sulle sca-linate, sulle facciate delle case. Lo ha fatto a Rio de Janerio, in Sudan, Sierra Leone, Liberia, Kenya, portando l’arte tra le per-sone e favorendo la comunicazio-ne al di là dei media tradizionali. Uno dei suoi obiettivi quello di cat-turare l’attenzione di persone che tipicamente non vanno nei musei. E’ interessante vedere come l’ar-te invade le strade e come mol-te barriere sono state abolite. Gli artisti escono dalle gallerie e dai musei per usare gli spazi urbani perché l’arte può appa-rire ovunque, in posti dove tut-ti possono vederla e goderne. Uno degli ultimi lavori di JR è stato a Times Square, New York, in quello che sembrava il furgon-

cino di un venditore ambulante. Ma anzichè vendere panini e bi-bite l’artista francese distribuiva forografie in grande formato. I suoi soggetti potevano sceglie-re se portarsi a casa il proprio ri-tratto o incollarlo per strada con gli strumenti prediletti di JR: un pennello e un secchio di colla. In un’ intervista, in cui gli viene chiesto come sceglie le destina-zioni nel mondo, egli risponde che prende la sua decisione perchè vede posti in tv che vuole vedere con i suoi occhi. Va sempre in luo-ghi in cui è successo qualcosa nello stesso anno.

L’approccio generale di JR è far coinvolgere la comunità in cui vuole

sviluppare il suo progetto, far sentire le persone pro-tagonisti e partecipi.Il suo

lavoro unisce l’arte con l’azione trattando temi

come l’impegno, la libertà, l’identità.

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New Delhi, India 2008 Women are Heroes

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Kibera Slum, Kenya, 2009 Women are Heroes

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Kibera Slum, Kenya, 2009 Women are Heroes

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Shangai, China 2012, The wrinkles of the city

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Shangai, China 2012, The wrinkles of the city

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Shangai, China 2012, The wrinkles of the city

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The Wrinkles of the City, Berlin 2013

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Times Square, New York 2013 Inside Out Project

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Times Square, New York 2013 Inside Out Project

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I’M DIYIIING!

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ta quella di un telaio strutturale in legno con travi metalliche riempite con sacchi di sabbia fissati tra loro. Questo progetto propone una soluzione economica permet-tendo alla comunità di par-tecipare attivamente alla co-struzione delle proprie case. I partecipanti venivano infatti consultati ed educati riguardo a questo nuovo utilizzo di materiali. La scelta più appropriata è sem-

Nel 2008 Design Indaba decise di lanciare una sfida ai diversi proget-tisti: intervenire con un progetto all’interno di abitazioni precarie.Nasce così “Design Indaba 10x10 Low-Cost Housing Project” il cui scopo era di proporre ed utilizzare un nuovo metodo co-struttivo che consentisse, con risorse economiche limitate, la realizzazione di confortevo-li unità abitative monofamiliari, in tempi rapidi e con il contri-buto della popolazione stessa. La proposta fu subito accolta dallo studio sudafricano MMA Archi-tects che decisero di intervenire a Città del Capo, nello specifico in Freedom Park, uno dei 200 slum della zona metropolitana che, in circa centomila abitazioni ospita mezzo milione di persone, il 60% della popolazione della capitale attualmente residente in barac-che. Dovendosi confrontare con il tema dell’edilizia abitativa a basso costo il primo problema di cui oc-cuparsi per lo studio MMA Archi-tects è stato quello di identificare un metodo costruttivo alternativo a quello che tradizionalmente vie-

10x10low cost housing

ne utilizzato negli abitati informa-li, africani e non solo, che si basa sull’utilizzo di mattoni o blocchi in calcestruzzo. Questa tecnolo-gia, seppur di realizzazione piut-tosto semplice, ha dei costi a vol-te eccessivi per la popolazione. La scelta più appropriata è sembra-

La vera innovazione sta proprio nell’utilizzo della sabbia e delle sue

proprietà; infatti i sacchi di sabbia permettono alla

casa di rimanere calda d’inverno e fresca d’estate,

d’inverno isolano e non permettono all’umidità di passare poichè viene

assorbita, e d’estate rima-ne fresca perchè la sabbia

non conduce il calore.

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pensato e, grazie all’utilizzo di fogli di policarbonato traslucido, viene garantita l’illuminazione interna. Ciò che il team di architet-ti è riuscito a fare è ottenere qualcosa di necessario e uti-le con una soluzione sempli-ce, nuova e alla portata di tutti. Uno dei principali scopi di 10x10 Housing Project è quello di creare un futuro migliore e aprire un di-battito ancora più grande riguardo alla costruzione di case a basso co-sto. Tutto ciò è la prova che anche i problemi più difficili possono essere risolti dalla volontà delle persone.

brata quella di un telaio struttu-rale in legno con travi metalliche per garantire una buona resistenza a trazione e tamponato con sac-chi di sabbia fissati tra loro con filo spinato. Dal punto di vista del comfort termico e acustico, questa tecnologia ha un’ottima funzionalità dovuta all’inerzia della massa di terra e garantisce stabilità grazie al peso dei sacchi riempiti, a fronte di una realizza-zione quasi totalmente portata a termine dalla popolazione stessa e con un fabbisogno di energia elettrica praticamente azzerato ri-chiedendo la struttura quasi esclu-sivamente lavorazioni manuali. Per realizzarla, questi vengono preventivamente bagnati in modo da permettere all’intonaco una migliore presa che costituisce una struttura collaborante e quindi più resistente. Per ridurre ulte-riormente i costi, le pareti interne sono realizzate in pannelli di com-

Essendo inoltre quasi totalmente assemblata a secco, i tempi di realizza-zione sono evidentemente più rapidi; l’unica parte

che necessita di una fase di asciugatura è l’intonaca-tura esterna a protezione

dei sacchi.

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