BOZZA A CIRCOLAZIONE LIMITATA - Sapienza - … · Web viewIl procuratore nazionale antimafia Piero...

175
BOZZA A CIRCOLAZIONE LIMITATA! IL PIANETA VIOLATO Uno strumento di comprensione dei meccanismi di danno ambientale Per una visione responsabile del comune futuro (A cura di Alberto Castagnola) 1

Transcript of BOZZA A CIRCOLAZIONE LIMITATA - Sapienza - … · Web viewIl procuratore nazionale antimafia Piero...

BOZZA A CIRCOLAZIONE LIMITATA!

IL PIANETA VIOLATO

Uno strumento di comprensione dei meccanismi di danno ambientalePer una visione responsabile del comune futuro

(A cura di Alberto Castagnola)

Roma, giugno 2011

1

INDICE

Presentazione

1. La grande nube2. Aumento della temperatura causata da smog e consumo petrolio e gas3. Scioglimento dei ghiacci4. Aumento livello del mare5. Perturbazioni climatiche sempre più catastrofiche6. Aria cattiva nei centri urbani7. Ampliamento del buco nell’ozono8. Prosciugamento dei fiumi e dei laghi9. Scarsità idrica e abbassamento falde acquifere10. Desertificazione (siccità, guerre per il controllo delle fonti)11.Acidificazione e inquinamento degli oceani12.Il declino delle risorse ittiche13.La distruzione delle barriere coralline14. La riduzione delle foreste15. Le piogge acide16. Il degrado dei pascoli17. L’erosione del suolo18.L’inquinamento dell’acqua19.L’inquinamento da pesticidi, fertilizzanti e altri prodotti chimici20.L’estinzione delle specie animali e vegetali21.La scomparsa di una specie interrompe le catene alimentari22.L’aumento della omogeneità genetica23.La diffusione di organismi geneticamente modificati24. La cementificazione di fiumi, coste e aree urbane25.L’aumento dei rifiuti26.L’aumento dei rifiuti tossici e industriali27.L’accumulazione delle scorie nucleari28.L’inquinamento da inceneritori e gassifica tori29.Consumo eccessivo di materie prime industriali30.Consumo eccessivo di materie prime agricole per scopi industriali31.L’aumento di metalli pesanti nel sangue32.Aumento delle malattie causate da danni ambientali33.Diffusione malattie da virus ancora non curabili34.Aumento obesità e relative malattie35.Ambiente poco da “macho”36.Aumento rottami spaziali37.Aumento polveri sottili nell’aria38.Aumento delle due “isole” di plastica nel Pacifico39.L’aumento dei rifiuti elettronici

2

40.L’inquinamento da radon41. Inquinamento acustico42. Inquinamento urbano43. Inquinamento da amianto44. Inquinamento da “coltan”45. Rischi connessi alle nanotecnologie46. I danni della produzione di agro carburanti47. La morte delle api48. Inquinamento elettromagnetico49. Inquinamento luminoso50. L’imbottigliamento delle acque da permafrost51. Le conseguenze per l’ambiente dei rifiuti alimentari

Danni emergenti

52. Sfruttamento dei giacimenti di litio53. Mercurio da lampadine54. Il controllo strategico sulle terre rare55. Il metano idrato sotto il permafrost56. Batteri mutanti resistenti agli antibiotici57. Quanto inquina Internet58. I parabeni, conservanti rischiosi

Indicazioni bibliografiche Strumenti audio visualiSitologia

3

PRESENTAZIONE

Quanto state per iniziare a leggere nasce come semplicissimo strumento per la formazione, cioè come una lista dei principali meccanismi di danno arrecati al pianeta da distribuire ai partecipanti dei corsi, utile per poter seguire il docente e come promemoria personale; quindi un indice meno che sommario per poter leggere una situazione globale sempre più grave e complessa.

Nei mesi successivi al primo corso in cui è stato utilizzato, l’elenco dei meccanismi si è più che raddoppiato ed è emersa la distinzione tra danni già da tempo in atto, e per i quali spesso nulla si è ancora fatto, e danni potenziali che le scelte economiche e tecnologiche in corso di adozione o di elaborazione lasciano già intravedere.In ogni occasione formativa, inoltre, venivano raccolti e spesso distribuiti, testi particolarmente significativi che analizzavano i meccanismi di danno nelle loro cause e conseguenze ed è nata l’idea di raccoglierli come documentazione sistematica all’interno della lista generale; il tutto naturalmente concepito come lavoro da aggiornare continuamente e da integrare man mano che le analisi elaborate da esperti e scienziati diventano più approfondite e attendibili.

I testi utilizzati, per una scelta precisa, sono quasi tutti apparsi sulla stampa quotidiana e su alcuni settimanali, quindi non sono fonti scientifiche o particolarmente qualificate, ma solo dei testi pieni di dati e di informazioni, riportati da giornalisti capaci di realizzare una divulgazione accurata e attendibile, alla portata di lettori raramente in possesso di conoscenze specializzate. Non vi è quindi alcun rapporto tra il numero e le dimensioni dei testi raccolti e l’incidenza dei relativi meccanismi di danno sulla biosfera e sulle sofferenze umane prodotte; inoltre la selezione e la datazione dei testi risente moltissimo delle priorità attribuite dai giornalisti ai temi legati alla cronaca e alle “mode” e non è quindi raro il caso di meccanismi essenziali che vengono trascurati per anni o sui quali si concentra l’attenzione solo per qualche giorno per poi ricadere nel dimenticatoio.Si tratta quindi in pratica di una rassegna stampa selettiva, che permette, con uno sforzo minimo, di acquisire una visione realistica, concreta e complessiva dei drammi che il nostro pianeta sta sopportando e delle gravi preoccupazioni che oscurano le prospettive degli umani che abitano l’unica Terra che abbiamo a disposizione.

L’obiettivo è quindi, molto semplicemente, quello di far avere ad un numero rapidamente crescente di persone “comuni” una visione completa e non superficiale dei meccanismi di danno che ogni giorno deteriorano il nostro ambiente, cercando di sottrarle ai tanti tentativi di mistificare o nascondere le conseguenze di ognuno di questi meccanismi, realizzati negli ultimi anni da molti governi e da quasi tutte le organizzazioni internazionali.

I motivi di questa scelta sono circoscritti ma hanno una rilevanza strategica non da poco. Negli ultimi anni le notizie si sono moltiplicate e apparentemente esiste un livello informativo diffuso piuttosto alto. In realtà la grande maggioranza delle popolazioni, anche nei paesi ritenuti più avanzati, non accede a questo livello e viene alimentata dai notiziari ben più scarni ed elusivi delle televisioni e delle radio. I flussi informativi, inoltre, sono ampiamente utilizzati da multinazionali e grandi imprese di servizi per proteggersi in anticipo da accuse e contestazioni e per imporre ulteriori modelli di consumo ancora non certo rispettosi per l’ambiente. Durante il 2010, infatti, è iniziata la presentazione pubblicitaria della “economia verde” che nella stragrande maggioranza dei casi, rappresenta solo il tentativo di prolungare nel tempo e sotto mentite spoglie i meccanismi di danno ambientale che hanno finora garantito i maggiori profitti e vantaggi alle strutture produttive.

4

Chi sono quindi i destinatari desiderati di questo strumento di una conoscenza ne superficiale, ne ad alto livello scientifico e di specializzazione? In primo luogo i partecipanti a ogni corso che intenda affrontare i problemi delle società contemporanee nell’ottica delle analisi economiche e sociali e che quindi non può assolutamente trascurare la componente ambientale, specie per la sua importanza cruciale per i futuri assetti delle società civili di tutti i paesi. Sarebbe poi auspicabile che proprio i limiti dello strumento stesso fossero considerati utili da organizzazioni (istituzionali e di movimento) di una certa dimensione, per dotare i loro aderenti di una conoscenza di base, non specialistica ma organica; ciò vale al momento e nel contesto italiano, per i maggiori organismi che operano nella cooperazione allo sviluppo come per le organizzazioni di massa e per quelle sindacali. Siamo convinti infatti che molte delle riconversioni, dei recuperi e delle scelte tecnologiche non dannose per l’ambiente non saranno adottate dal sistema dominante finché le esigenze fondamentali e più urgenti non saranno avanzate e sostenute da basi sociali molto diffuse e attive.

Molti sono convinti che presentare un quadro ampio, articolato e piuttosto completo dell’insieme dei danni che stiamo infliggendo al pianeta Terra possa scoraggiare anche le persone di buona volontà e che la lettura sortisca in ultima analisi un effetto negativo di spinta verso l’indifferenza e di rimozione dei rischi che corriamo ogni momento delle nostre giornate; siamo sicuri che questo risultato assolutamente negativo si otterrà in molti casi e le persone che si sottraggono alle loro responsabilità andranno perse, forse per sempre. In realtà restiamo convinti che tutte le persone minimamente curiose e potenzialmente pronte ad affrontare meccanismi di cambiamento radicale, potrebbero trovare, in una visione complessiva della attuale situazione del pianeta e della specie umana, la spinta a prendere finalmente atto dei meccanismi che ci stanno travolgendo e a darsi carico di una analisi cosciente e della necessità di cominciare a muoversi in modo responsabile verso forme di mobilitazione continuative. Solo una conoscenza articolata e innegabile della situazione e delle prospettive reali dei popoli della Terra può far uscire dall’indifferenza profonda che ci pervade.

Infine, è importante che questo lavoro sia rivisto, integrato, saccheggiato e aggiornato da chiunque voglia usarlo, sia cioè considerato non la proprietà intellettuale di qualcuno, ma solo come un oggetto collettivo utile, che può trovare usi e riusi diversi. Sarà interessante vedere se le nuove forme di volta involta assunte saranno a loro volta ridiffuse e riutilizzate con le stesse modalità, perché altri ne possano usufruire, condividendo atteggiamenti di responsabilità collettiva.

(A. C. e quanti altri si riconoscono in questo tentativo…..)

5

Quadro generale dei principali danni ambientali

( di A. Castagnola, lavoro in corso, da integrare)

1. La grande nube

Effetto buio, ultima sfida al pianeta TerraUn’impalpabile coperta di smog sovrasta i cieli. Dal deserto del Sahel alle vette dell’ HimalayaL’hanno scoperta otto anni fa,una grande nuvola marrone che sovrastava un’ampia area dell’Asia meridionale. Densa di fuliggine, composti chimici e particelle di carbonio generate dal traffico, dall’inquinamento industriale e dalla combustione di carbone e biomasse. Veerabhadran Ramanathan, scienziato indiano di stanza alla Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California, a San Diego, ha svelato col tempo che altre coltri oscurano i nostri cieli, spostandosi per migliaia di chilometri, oltre oceani e frontiere. Una coperta di smog, impedendo alla luce solare di raggiungere la superficie terrestre, ha portato negli ultimi 30 anni a una diminuzione pari al 10% della luminosità sul pianeta con punte del 37% in 50 anni a Hong Kong e a un lento raffreddamento della superficie terrestre che ha in parte “mascherato”, limitandone i danni, il surriscaldamento provocato dai gas serra. E le tenebre avanzano con una media del 2-3% all’anno.Non è tutto. La caligine riduce anche la luce solare che si riversa sugli oceani, facendo diminuire l’evaporazione oceanica e perciò le precipitazioni. E l’ultima scoperta di Ramanathan è che gli stessi corpi nuvolosi d’inquinamento che raffreddano il suolo e innescano l’effetto buio e l’effetto inaridimento, nei bassi strati dell’atmosfera dove essi vagano causano invece un forte surriscaldamento, dovuto alle particelle di carbonio che assorbono le radiazioni e diffondono calore tutto intorno. Un calore, che secondo le pionieristiche ricerche del climatologo, sarebbe tra i principali responsabili dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya.” Per il pianeta è una minaccia altrettanto letale dei gas serra”, avverte il professore. (…) Le nuvole marroni si concentrano in alcuni punti caldi (hot spot) a livello regionale o di megalopoli. Combinando le osservazioni via satellite con modelli algoritmici e una capillare raccolta di dati al suolo, l’equipe di Ramanathan è riuscita ad identificare cinque “punti caldi” regionali: 1) Asia orientale: Cina orientale, Thailandia, Vietnam e Cambogia; 2) le pianure indo gangetiche dell’Asia meridionale: dal Pakistan orientale attraverso l’India fino al Bangladesh e Myanmar; 3) Indonesia; 4) Africa meridionale dalle zone sub sahariane allo Zambia e allo Zimbabwe; 5) Il bacino amazzonico in Sudamerica. A queste aree si aggiungono 13 mega hot spot, corrispondenti ad altrettante megalopoli: Bangkok, Pechino, Il Cairo, Dhaka, Karachi, Kolkata, lagos, Mumbay, Ne Delhi, Seul, Shanghai, Shenzen e Teheran. (…)Le nubi sono formate da aerosol di varia natura, in particolare solfati e nitrati, che agiscono come dei parasole sopra la Terra, riflettendo e disperdendo la luce solare nello spazio, e fuliggine (cioè aerosol di carbonio e idrocarburi incombusti) che invece assorbe la luce solare e rilascia calore nell’aria circostante. Di fatto, un cocktail di sostanze raffreddanti e riscaldanti, che si muove in continuazione, spinto dalle correnti aeree e dai venti.“La ricerca ha rivelato l’esistenza di pennacchi di nuvole marroni in atmosfera che si spostano attraverso e sopra gli oceani. L’inquinamento della costa orientale degli Stati Uniti in quattro o

6

cinque giorni può arrivare in Europa e in una settimana dall’Europa va in Asia meridionale. Da problema locale, diventa un problema regionale e globale; ogni paese diventa il cortile dei rifiuti di qualcun altro”, spiega il climatologo. Un circolo vizioso senza fine. Che non si ferma al termometro di casa.La combinazione dell’abbassamento delle temperature sulla superficie terrestre, del riscaldamento dell’aria e dell’alterazione delle precipitazioni regionali avrebbe effetti devastanti. Per esempio, minori precipitazioni sui continenti, fenomeni di siccità in Asia e Africa e gravi danni alle coltivazioni, come hanno dimostrato i recenti dati sul raccolto di riso in India (la produzione degli ultimi venti anni è diminuita di circa il 15%) o le strane mutazioni nell’alternarsi dei monsoni indiani. “I modelli climatici attribuiscono proprio alle nuvole marroni, le atmospheric brown clouds, la causa principale della siccità nel Sahel e della desertificazione dei tropici negli ultimi 50 anni. L’ultimo stadio della ricerca di Ramanathan riguarda l’effetto riscaldamento in atmosfera. Utilizzando degli aeroplanini computerizzati e telecomandati per raccogliere i dati, la sua equipe ha studiato cosa avveniva intorno e all’interno di una nuvola marrone sospesa sull’Oceano Indiano, all’altezza delle Maldive, spessa ben tre chilometri: la concentrazione di particelle inquinanti e fuliggine, la quantità di radiazione solare e quanta luce solare veniva intrappolata in atmosfera, il vapore acqueo…Dopo una ventina di missioni aeree, ha confermato che le particelle di carbonio contribuivano almeno per il 50% al riscaldamento della bassa atmosfera, il resto essendo dovuto ai gas serra. In base ad elaborati calcoli matematici, complessivamente l’effetto warming sarebbe pari a 0,25° ogni decennio, sufficiente per spiegare ad esempio il drammatico “ritiro” dei ghiacciai himalayani. La fuliggine, a queste altitudini, tra l’altro un doppio effetto: da un lato il già citato riscaldamento atmosferico provocato dalla nube che tocca le vette, dall’altro il fatto che le particelle di carbonio si condensano e depositano sulle nevi e sul ghiaccio, aumentando la quantità di luce solare assorbita.In questo quadro a tinte fosche, si intravede però una luce. A differenza dei gas serra, che restano in atmosfera per centinaia di anni, la sopravvivenza della fuliggine è di poche settimane. “Se riusciamo a tagliare le emissioni, ne vedremo subito i benefici”, conclude Ramanathan. (…)(il testo completo in Corriere della Sera Magazine del 12 aprile 2008 con foto).

Più verdi, più al verdeBangkok Ossidi di azoto, benzene, etanolo, tricloroetano, benzina, trementina. Sono i principali componenti delle nuvole di smog fotochimico che nelle giornate con poco vento ridipingono il cielo sopra Bangkok, la capitale della Thailandia, una delle città più inquinate del mondo. (…) (il testo completo in Corriere della Sera Magazine del 12 aprile 2008, con foto)<

2. Aumento della temperatura causata da smog e consumo di petrolio e gas

Il ciclo del carbonio sconvolto dal cambiamento climaticoL’equilibrio dinamico che per molte centinaia di milioni di anni ha accompagnato il clima della Terra era legato a un ciclo del carbonio relativamente regolare. Come se un giocoliere lo facesse passare dallo stato solido a quello gassoso, dalla biosfera e dagli oceani all’atmosfera. Questo processo è stato destabilizzato dalla rivoluzione industriale, basata sulla combustione dei composti di carbonio quali il petrolio, il carbone e il gas detto naturale. Decine di miliardi di tonnellate sepolte sotto la terra e gli oceani sono state così rilasciate nell’atmosfera modificando le quantità coinvolte nel ciclo del carbonio. Ci sono voluti milioni di millenni per farlo fossilizzare, ma solo poche diecine di anni per disperderlo nell’atmosfera.Per fortuna, il giocoliere ha degli assi nella manica che compensano un poco lo squilibrio: biosfera e oceano costituiscono infatti un immenso serbatoio di carbonio. Lo assorbono dall’atmosfera e lo integrano al suolo o lo precipitano sotto forma di carbonati (gli oceani). Hanno così già assorbito quasi la metà dei rifiuti antropici. E’ il motivo per il quale li si

7

definisce “pozzi di carbonio”. Ma c’è un problema: la quantità di carbonio trattenuta nell’oceano diminuisce per….il riscaldamento climatico! Può essere infatti che l’aumento delle temperature dell’oceano riduca la capacità di sedimentazione, rallentando, se non, a certe latitudini, sopprimendo le correnti oceaniche responsabili ( a livello della Groenlandia e nel Pacifico) del deposito dei sedimenti.D’altra parte, la deforestazione delle foreste tropicali e il cambiamento d’uso delle terre (sfruttamento agricolo o urbanizzazione) riducono ulteriormente il ruolo compensatorio della biosfera. E la desertificazione, accentuata dal riscaldamento in particolare nell’Africa subsahariana, non fa che aggravare il fenomeno. La biosfera (vegetazione, suolo e oceano) consente un margine di manovra nella gestione delle nostre emissioni di CO2, ma limitato.Si calcola che possa riciclare in modo naturale 3,2 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di carbonio all’anno. Una quantità soggetta a evoluzione, a causa dell’alterazione del ciclo del carbonio e del nostro sfruttamento della biosfera. Inutile, perciò, contare sui pozzi di carbonio per riassorbire il problema climatico. La sola soluzione è ridurre le emissioni di gas a effetto serra all’origine (“mitigazione”). Per evitare di raggiungere una soglia di riscaldamento pericolosa, è necessario fissare un obiettivo di stabilizzazione della concentrazione di questi gas. E’ quindi imperativo stabilire con precisione il margine di manovra che ci concede l’atmosfera (3,5 gigatonnellate). La valutazione che ne consegue è che in cinquanta anni bisognerebbe dividere per quattro le emissioni complessive di gas a effetto serra. Si pone così la questione della ripartizione. Ridurre a un quarto in ogni paese? Fissare una quantità di carbonio annua per abitante (si parla di 0,5 tonnellate di carbonio, cioè 1,8 tonnellate di CO2)? Comunque, anche se gli abitanti dei paesi sviluppati dovessero assumersi le proprie responsabilità, questo non eviterà che anche i paesi emergenti (Asia, Sudamerica) partecipino allo sforzo generale. In conclusione, bisogna riconoscere che l’essere umano fa parte integrante del ciclo del carbonio (sia per quanto incide che per quanto subisce), ma che non sembra averne ancora preso pienamente coscienza.

Scienziati in allarme “la politica nasconde la verità sul clima”“Due gradi in più? Le cose stanno peggio

“sarebbe bello, ci metterei dieci firme, non una. Peccato sia irrealistico: i due gradi sono un traguardo che non è più alla nostra portata. Dirlo è un atto di onestà. Così come è un atto di onestà aggiungere che se non ci muoviamo subito, se non chiudiamo nel giro di pochissimi anni il rubinetto dei gas serra, non riusciremo neppure a fermarci a 3 gradi”. Rank Raes, capo dell’Unità cambiamenti climatici del Centro di ricerca della Commissione Europea, esprime ad alta voce quello che i migliori climatologi del mondo – da Stephen Schneide della Stanford University a Jasan Lowe del Met Office – stanno raccontando a Copenhagen nelle riunioni parallele al negoziato dei governi.Nella bozza di accordo finale resa pubblica ieri, l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale a due gradi in più viene sventolato come una bandiera. E’ il vessillo che dovrebbe indurre i Paesi a tagli nelle emissioni di gas serra che vanno dal 50 al 90% entro il 2050. Ma per gli scienziati non c’è rapporto tra i tempi della politica e i tempi della biosfera: con gli obiettivi oggi sul tappeto i due gradi restano un miraggio.Ecco il ragionamento dei climatologi:Primo punto: calcolando solo l’effetto dei gas serra già in atmosfera, si deve mettere in conto un aumento di temperatura di circa mezzo grado nei prossimi decenni.Secondo punto: Attivare l’economia virtuosa significa ripulire il cielo dallo smog. Il che farà benissimo ai nostri polmoni, ma eliminerà “l’effetto schermo”delle radiazioni solari, che oggi maschera il reale aumento di temperatura : è un altro grado che va aggiunto.

8

Terzo punto: calcolando che c’è già stato un aumento di più di 0,8 gradi rispetto all’era preindustriale, ( i due gradi hanno come punto di riferimento quel periodo) e che un aumento intorno a 1,5 per le ragioni precedenti è inevitabile, la barriera dei 2 gradi risulta già sfondata.Ma è ragionevole l’ipotesi di attestarsi appena sopra i due gradi? “ e’ tecnicamente fattibile, ma richiederebbe una volontà politica di cui oggi non si scorge traccia: dovremmo tagliare in maniera draconiana tutte le emissioni di gas serra e azzerare la deforestazione”, continua Raes, “Uno scenario già considerato buono invece è un tagli robusto delle emissioni dei paesi industrializzati e una crescita ridotta delle emissioni dei paesi in via di sviluppo. Ma anche così i gas serra continueranno a crescere ed è molto difficile che si fermeranno prima che si raggiunga un aumento medio di 3 gradi. Poi, dopo qualche decennio, quando il motore della nuova economia avrà ingranato, le emissioni scenderanno”.Peccato che la natura non risponda con la stessa velocità della Borsa. “Andiamo incontro a perdite di ghiaccio molto importanti, in particolare in aree come la Groenlandia “, ha ricordato Jasan Lowe del Met Office. “E’ un cambiamento profondo che rafforzerà il processo di riscaldamento e innalzerà il livello del mare. Non possiamo pensare che dopo aver superato il picco delle emissioni, quando finalmente riusciremo a riportare la concentrazione di CO2 in atmosfera a valori accettabili, tutto tornerà come prima: ci vorranno secoli e secoli”.Ma che significa in pratica un aumento medio di 3 gradi? In alcune aree e in alcuni periodi la temperatura salirà in maniera molto più consistente. Nelle aree artiche si prevede una crescita almeno doppia e soffriranno vaste zone come l’Africa e il Mediterraneo. Vuol dire che episodi come le ondate di caldo dell’estate del 2003 (70.000 morti aggiuntivi stimati dall’OMS in Europa) diventeranno frequenti. “Eppure ridurre in tempi brevi le emissioni è possibile”, osserva Stefano Caserini il docente al Politecnico di Milano che ha appena pubblicato Guida alle leggende sul clima che cambia. “ma se reagiremo con troppa lentezza non potremo più limitarci a non inquinare. Dovremo immaginare anche il ricorso a misure che oggi appaiono fantascientifiche. Potremmo far crescere le piante, bruciarle per produrre energie e poi seppellire la CO2. Cioè riportare il carbonio in profondità, dove è restato per milioni di anni sotto forma di petrolio”.

L’allarme viene dal cieloCosa succederebbe se la temperatura del pianeta aumentasse di tre gradi? Uno studio recente dell’Università di Durham e della Royal Society for the Protection of Birds, condotto in collaborazione con BirdLife International, (la rete di associazioni che difendono gli uccelli, come la LIPU), racchiuso nell’Atlante climatico degli uccelli nidificanti in Europa, ha annunciato l’estinzione per ben 120 specie entro la fine del ventunesimo secolo. I ricercatori hanno disegnato una mappa dei futuri “areali riproduttivi” (ossia l’area geografica in cui vive una specie) di molte specie tra il 2070 e il 2090, in cui presumibilmente dovrebbe aumentare la temperatura del pianeta. LO scenario che se ne ricava è terrificante. In Europa, il 25% delle specie si estinguerà. L’aumento delle temperature costringerà molte specie a spostarsi verso nord-est, in nuove aree più limitate. A farne le spese saranno soprattutto le specie artiche, sub-artiche e iberiche, ma anche quelle a distribuzione limitata o molto limitata (endemiche), ad esempio : il canapino asiatico, il Verzellino fronte rossa, il Picchio Muratore corso e il Gallo cedrone del Caspio. In Italia, 15 specie sulle 262 esaminate rischieranno l’estinzione. I nostri pronipoti rischieranno di non vedere l’Airone Bianco, oppure il Gabbiano Corso o la Pernice Sarda. Li sostituiranno altre specie provenienti da Spagna e Grecia. E per la prima volta nel nostro paese potrebbe nidificare il Nibbio bianco, l’Usignolo d’Africa e la Gazza Azzurra.“Lo spostamento medio delle varie specie sarà di circa 500 chilometri verso nord-est, - spiega Marco Gustin, responsabile Specie e Ricerca di Lipu-BirdLife, i paesi del mediterraneo subiranno una diminuzione di specie di uccelli, mentre nei paesi del centro, ma soprattutto del nord Europa, aumenteranno. Se una specie come la Pernice Sarda, si trova bene a nidificare in un ambiente non ci sarà più qui perché le condizioni del clima saranno cambiate, quindi non

9

saranno più ideali. Molte specie non avranno più zone idonee per riprodursi. Per questo diminuiranno, perché dovranno convivere in un’area più ristretta. (…) (E. Formisani, il testo completo su Carta del 15-21 febbraio 2008)Gas serraNel 2010 sono state prodotte 30,6 miliardi di tonnellate equivalenti di Co2, pari ad un aumento del 5% delle emissioni rispetto al 2009. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, l’anno scorso le emissioni di anidride carbonica sono state “le più alte della storia”.(tratto da “Internazionale” del 2 giugno 2011)

E il clima continua a scaldarsiBrutte notizie hanno accolto i delegati dei circa 180 paesi firmatari della Convenzione dell’Onu sul clima, che ieri hanno cominciato due settimane di colloqui a Bonn, in Germania. E la prima delle brutte notizie è che le emissioni di anidride carbonica, il principale dei gas di serra che alterano il clima terrestre hanno toccato un nuovo record nel 2010. Così certifica l’ultimo rapporto diffuso dagli economisti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie). In altre parole, vent’anni di negoziati internazionali su come tagliare le emissioni provocate dall’uso di combustibili fossili (petrolio, carbone, gas) per ora hanno dato risultati molto scarsi, per non dire nulli: la quantità di gas “di serra” spediti nell’atmosfera terrestre non rallenta neppure la sua crescita. I dati sono allarmanti. L’anno scorso 30,6 gigatonnellate (Gt, ovvero miliardi di tonnellate) di anidride carbonica sono finite in aria, in gran parte prodotte dalla combustione di fossili: è un aumento di 1,6 Gt rispetto al 2009, anno in cui le emissioni erano scese (nel 2008 erano 29,3 Gt). Ovvero la crisi finanziaria e la recessione mondiale ha segnato solo una lieve flessione, poi le emissioni hanno ricominciato a crescere, e molto più in fretta di quanto chiunque si aspettasse, ha detto un allarmato Fatih Birol, capo degli economisti dell’Aie e considerato uno dei massimi esperti mondiali di energia, al quotidiano The Guardian, ( che la settimana scorsa aveva anticipato le conclusioni del rapporto). Gran parte dell’aumento delle emissioni registrato nell’anno scorso, circa tre quarti, è da attribuire a paesi “emergenti” (dove le economie crescono più che nel vecchio mondo industrializzato). E lo studio dell’Aie fa notare anche che l’8’% delle centrali termiche che saranno attive nel 2020 sono già costruite o in costruzione, e quasi tutte usano combustibili fossili. Ovvero, il corso delle emissioni di anidride carbonica è già segnato.E questa è l’altra cattiva notizia: i dati diffusi dall’Aie indicano che le emissioni sono pressoché tornate al ritmo di crescita pre-crisi, fa notare il professor Nicholas Stern della London Scool of Economics (è l’autore del noto “Stern Report” sui costi del cambiamento del clima).Ma se la crescita delle emissioni di gas di serra continua a questo ritmo “significa che abbiamo il 50% di possibilità che la temperatura media aumenti di oltre 4 gradi centigradi al 2100”, ha detto Stern (sempre al Guardian). E questo sarebbe semplicemente una catastrofe: il Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc) considera la soglia dei 2 gradi di aumento della temperatura media come il limite oltre a cui i cambiamenti climatici diverranno irreversibili. Mantenere l’aumento della temperatura entro i 2° è quindi l’obiettivo formalmente adottato dai paesi firmatari della Convenzione Onu sul clima, durante l’ultima Conferenza sul clima a Cancun. Ma con le emissioni che crescono a questo ritmo, dice un allarmatissimo Birol, quei 2° sono solo “una bella utopia”.E dire che secondo molti scienziati già solo 2° di aumento medio della temperatura avranno un impatto devastante sul pianeta – molte isole e zone costiere sommerse, una grave crisi dell’agricoltura mondiale. La signora Christiana Figueres, segretaria esecutiva della Covenzione Onu sul clima, giorni fa ha rilanciato: “Il mondo deve darsi come obiettivo stare entro gli 1,5 gradi”.Con queste premesse, difficile aspettarsi molto dalla Conferenza incominciata a Bonn, uno dei passaggi preparatori in vista del prossimo vertice mondiale sul clima, a Durbans in dicembre, che dovrebbe mettere a punto una nuova politica mondiale sul clima: decidere il destino del

10

protocollo di Kyoto dopo la sua scadenza nel 2012, delineare un nuovo sistema di obiettivi per ridurre le emissioni di gas di serra, indicare come raccogliere 100 miliardi di dollari per finanziare il “fondo per il clima”, lanciato dal vertice precedente per aiutare i paesi ad affrontare le conseguenze del cambiamento del clima.

3. Scioglimento dei ghiacci

Il ghiacciaio Tasman in Nuova ZelandaIl terremoto di magnitudo 6,3 che il 22 febbraio 2011 ha colpito Christchurch, in Nuova Zeland, ha provocato anche il distacco di un pezzo di ghiaccio di 30 milioni di tonnellate dal Ghiacciaio Tasman. Dopo essere caduto nel lago Tasman, il blocco di ghiaccio si è frantumato in tanti iceberg più piccoli. Quando il radiometro Aster, a bordo del satellite Terra della Nasa, ha scattato questa foto, gran parte degli iceberg si erano spostati verso il lato opposto del lago. (…)Situato a circa duecento chilometri a ovest di Christchurch, il ghiacciaio di Tasman è il più largo e il più lungo della Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha cominciato a ritirarsi, soprattutto perdendo ghiaccio dal suo termine, cioè al confine tra il ghiacciaio e il suolo. Il terremoto ha solo accelerato un processo che si sarebbe verificato comunque. Alla fine del 2007 l’istituto neozelandese per l’acqua e le ricerca atmosferica (NIWA) ha annunciato che il ghiacciaio Tasman è arretrato di cinque chilometri dal 1976. L’accumulo di sedimenti, le morene, rivelano l’estensione precedente del ghiacciaio e circondano il lago. I ghiacciai delle Alpi meridionali neozelandesi hanno perso l’11% del loro volume tra il 1976 e il 2007. Da allora sono rimasti stabili o sono ulteriormente arretrati. (Tratto da Internazionale n. 888 dell’11 marzo 2011, con foto)

4. Aumento livello del mare

Collasso dei poli, un primo atto è in GroenlandiaIl livello medio del mare è salito di circa 17 centimetri dall’inizio del XX secolo e il fenomeno va accelerandosi da una quindicina di anni. L’innalzamento è dovuto agli effetti congiunti dello scioglimento dei ghiacci, compreso quello delle calotte, e dell’espansione dell’acqua provocata dal riscaldamento della superficie degli oceani. Il volume del ghiaccio diminuisce attualmente su tutti i continenti, a eccezione dell’Antartico. La banchisa artica, la calotta della Groenlandia e il permafrost (suolo gelato in permanenza), si trovano nelle altre latitudini dell’emisfero boreale., dove nel secolo scorso il riscaldamento del pianeta è stato dell’ordine del doppio della media mondiale. Durante l’estate la banchisa artica si ritira ogni anno di più, al ritmo del 7,4 % ogni decennio da trent’anni. Il che fa prevedere la sua possibile scomparsa estiva alla fine del xxi secolo. Il permafrost, che è ripartito sui continenti circumpolari (attorno al bacino artico), con una profondità crescente verso il nord, ha perso il 15% della sua superficie primaverile dal 1900.Questa è resa spesso fluida o fangosa a causa del gelo che persiste al di sotto.Le alte terre della Groenlandia sono ricoperte da una calotta glaciale (inlandsis) che arriva a 4020 metri. A una altitudine simile, il riscaldamento provoca un aumento della capacità igrometrica dell’aria e quindi delle precipitazioni sotto forma di neve. Così il ghiaccio tenderebbe a ispessirsi sulla maggior parte del paese. Sulle coste, scende per gravità in ghiacciai che si prolungano fino al mare, dove si disperdono sotto forma di iceberg. Il problema del futuro della calotta della Groenlandia sta nella velocità di quest’ultimo fenomeno. Quando il mare si riscalda, come succede dal XX secolo, il distacco si accelera e aumenta la velocità di discesa del ghiaccio proveniente dall’alto.

11

L’incognita attuale dipende dalla differenza tra apporti di neve e scioglimento del ghiaccio. Il risultato influenzerà l’altezza del livello marino, la quantità di acqua dolce liberata nell’oceano Atlantico e, associato alla variazione del tasso di salinità dell’acqua, si ripercuoterà sulla corrente marina di superficie, la Corrente del Golfo, che a sua volta influenza il clima dell’Europa e la circolazione oceanica.Alla fine del XX secolo, l’acqua di scioglimento della Groenlandia ha contribuito all’innalzamento del livello marino. Secondo recenti ricerche, il disgelo di alcuni ghiacciai è più rapido di quanto gli esperti non pensassero. Una tale liquefazione accelerata della Groenlandia, che comporta una diminuzione di volume della calotta, ha stimolato l’ipotesi di scenari catastrofici. Contribuirebbe fortemente all’innalzamento del livello marino medio: fino a 7 metri in caso di scomparsa totale della calotta della Groenlandia, prevista nell’eventualità che l’innalzamento della temperatura media superasse i 2° C rispetto alla fine del XIX secolo. Segnale d’allarme.Il disastro potrebbe , inoltre, indurre una modifica della temperatura , e soprattutto della salinità dell’acqua, all’origine di un rallentamento della circolazione della Corrente del Golfo, il che comporterebbe due conseguenze: - da una parte, i climi dell’Europa occidentale, attualmente addolciti da una circolazione atmosferica proveniente da ovest, e che passa sopra la Corrente del Golfo, diventerebbero, con inverni più freddi ed estati più calde di ora, più continentali e più simili a quelli della costa est del Canada e del nord degli Stati Uniti;- d’altra parte, la circolazione oceanica, legata alla corrente di superficie indissociabile,

dovrebbe reagire in una maniera ancora non chiara.Questi scenari estremi sono per ora in attesa della convalida delle loro fondamenta scientifiche. Tuttavia, rappresentano un segnale d’allarme rispetto all’idea di un cambiamento climatico a evoluzione graduale.Al di la di certe soglie, potrebbero verificarsi mutazioni repentine. Gli scienziati attualmente cercano tracce di eventi improvvisi e rapidi nei ghiacci e nei sedimenti che segnalino evoluzioni non lineari tali da ipotizzare l’applicazione della teoria del caos all’evoluzione del clima.(Tratto da “L’Atlante per l’Ambiente” di Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con mappe e dati)

5. Perturbazioni climatiche sempre più catastrofiche

America Tra le macerie dell’Alabama: 321 i morti, migliaia i feritiObama: devastazione mai vista e ora si teme il MississippiIl Presidente nella zona dei 137 tornado. Prevista un’alluvione“Non ho mai visto una devastazione simile. Spezza il cuore” Parlando tra le macerie di Tuscaloosa, la città dell’Alabama più duramente colpita dai 137 tornado che mercoledì hanno devastato dei Stati del Sud degli Stati Uniti, uccidendo 321 persone e ferendone gravemente migliaia, il presidente americano Barak Obama e la first lady Michelle ieri hanno cercato di ridate speranza ad una America che a sei anni di distanza torna a rivivere il dramma di Katrina.(…) Sono stati i tornado più violenti nell’area dal 1974, quando 148 cicloni colpirono 13 Stati, uccidendo 315 persone. Il maltempo che ha colpito mercoledì e giovedì ha anche lasciato un milione di utenti senza elettricità, chiudendo intere fabbriche e rendendo impraticabili strade e autostrade. Gli Stati più colpiti dovranno anche fare i conti con lo spettro delle inondazioni dalla portata storica, che secondo gli esperti potrebbero subissare la famigerata alluvione del Mississippi del 1927, la più grave nella storia degli Stati Uniti, che uccise 246 persone in ben 7

12

Stati, provocando danni per oltre 13 miliardi di dollari, una enormità per quei tempi. (…) (il testo completo sul Corriere della Sera del 30 aprile 2011, con mappa e foto)

Mississippi, la piena vista dal satelliteIn Louisiana la grande alluvione è cominciata. In Mississippi è attesa a ore. A causa delle intense piogge e dello scioglimento delle nevi il Mississippi si è ingrossato inondando ampie zone in Illinois, Missouri, Kentucky, Tennessee, Arkansas, Mississippi e Louisiana. Le autorità della Louisiana hanno aperto altre chiuse per far decrescere il livello dell’acqua, causando l’allagamento di 12.000 chilometri quadrati nell’area della Morganza.(Corriere della Sera del 16 maggio 2011, con foto e immagini da satellite).

6. Aria cattiva nei centri urbani

Smog L’inquinamento atmosferico, e soprattutto le polveri sottili inferiori a 2,5 micrometri, riduce la speranza di vita degli abitanti delle grandi città. Abbassando la concentrazione di queste polveri, in Europa si potrebbero evitare 19.000 decessi all’anno, afferma lo studio Aphekom, condotto in 25 città europee. L’impatto delle polveri sottili: Mesi di speranza di vita guadagnati, per chi ha più di 30 anni, se la soglia dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità fosse rispettata: Bucarest (22,5), Budapest (19,3), Barcellona (13,7), Atene (12,8), Roma (12,1), Siviglia (10,2), ecc. (Tratto da Internazionale n.888, dell’11 marzo 2011, con tabella)

Inquinamento Per il nono mese consecutivo a Roma polveri oltre i limiti L’OMS: L’aria cattiva delle città? Vivremo tutti nove mesi di meno

Per il nono giorno consecutivo, i livelli di polveri sottili (PM10) nell’aria di Roma sono oltre i limiti. C’è inquinamento anche nei parchi. Il Campidoglio ordina per oggi un nuovo blocco parziale della circolazione per i veicoli più inquinanti. In attesa che il meteo cambi, Roberto Bertollini, direttore scientifico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Europa, avverte: “Di inquinamento muoiono 8 mila persone l’anno, e uno studio dice che a causa dell’aria cattiva ogni persona vive 8,6 mesi in meno”. (cfr articoli sul Corriere della Sera del 15 febbraio 2011)

A settanta all’ora sulle tangenziali per ridurre le polveri Manca un piano nazionale dell’aria. Quello che permetterebbe a Milano e alle altre città affogate dallo smog di mettere in atto iniziative concertate contro le polveri sottili. A Milano si vive il trentaseiesimo giorno di sforamento dei limiti del Pm10 e il governatore della Lombardia chiama in causa il governo e il ministro dell’ambiente. (…) Una mancanza che oltre a non garantire una procedura comune a livello nazionale contro lo smog, ha provocato la decisione dell’Unione Europea di non concedere più deroghe all’Italia in fatto di inquinamento. Il paese continua a respirare veleni.(cfr. articoli sul Corriere della Sera del 9 e10 febbraio 2011)

7. Ampliamento del buco nell’ozono

Una ricostituzione lenta dello strato di ozono

Lo strato di ozono, naturalmente presente nell’alta atmosfera, è vitale. Senza questa protezione i raggi ultravioletti del sole ucciderebbero qualsiasi tipo di vita sulle terre emerse. La sua scomparsa costringerebbe l’umanità a vivere rintanata nei rifugi, per poi scomparire. La Terra ritornerebbe nelle condizioni di tre miliardi e mezzo di anni fa. Lo strato di ozono consente un

13

delicato equilibrio, in quanto agli umani occorre una piccola quantità di raggi ultravioletti B, che agiscono come catalizzatori della vitamina D, mentre una dose eccessiva favorisce varie forme di cancro della pelle. Negli Stati Uniti, più di 9000 persone muoiono ogni anno a causa di questi tumori, e il loro numero è raddoppiato dal 1980 al 2000. Nel 2006, è stato battuto un record: la superficie del buco d’ozono, misurata in ottobre alla fine dell’inverno australe, si è estesa da circa 3 a 4 milioni di km. Quadrati. Al centro dell’Antartico, sono state misurate concentrazioni quasi nulle di ozono. Questa distruzione pressoché totale è dovuta principalmente alle condizioni climatiche della regione, la cui temperatura , a fine settembre 2006, è stata inferiore di circa 5° centigradi alle medie stagionali. Con un meccanismo fisico ben noto, il riscaldamento della bassa atmosfera prodotto dalla concentrazione dei gas a effetto serra, causa un raffreddamento degli strati alti dell’atmosfera. Questo raffreddamento accentua a sua volta l’impoverimento dello strato di ozono. Utilizzati come gas propulsori negli aerosol, ma anche nei frigoriferi e nei climatizzatori, nelle schiume isolanti e nei prodotti usati per combattere gli incendi, i clorofluorocarburi (Cfc) sono all’origine dell’impoverimento dello strato di ozono stratosferico. Queste molecole di sintesi, emesse da milioni di fonti nel mondo, si ritrovano nella stratosfera, tra i 15 e i 40 chilometri al di sopra del livello del mare. Sottoposto all’azione del sole, il cloro dei Cfc si libera e distrugge le molecole d’ozono. Il bromuro di metile, un pesticida utilizzato nei paesi del Sud, ha un effetto ancora più devastante.Grazie al protocollo di Montreal per le sostanze che impoveriscono lo strato di ozono, (Ods), adottato nel 1989 sotto l’egida delle Nazioni Unite, è stato proibito l’uso dei Cfc e di altre sostanze che degradano questa part dell’atmosfera. E, in effetti, ovunque nel mondo si osserva una diminuzione nell’utilizzo di queste sostanze, ma l’effetto di distruzione dell’ozono stratosferico persisterà per alcune diecine di anni , tanto più che in seguito all’entrata in vigore del protocollo di Montreal, il commercio illecito di Ods si è sviluppato tanto al Sud quanto al Nord. Non prima del 2065L’ultimo rapporto 2006 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) conferma la correlazione tra la riduzione delle emissioni di Ods e la parziale ricostituzione dello strato di ozono. Tuttavia, le emissioni dei sistemi di refrigerazione e delle schiume isolanti, permangono negli apparecchi per periodi tra i 15 e gli 80 anni. Una dinamica di emissione così lenta modifica le previsioni sui tempi di ritorno all’iniziale equilibrio dell’ozono stratosferico: non prima del 2065, secondo gli scienziati.Ma il tempo di vita delle molecole clorate, così come le loro proprietà di assorbimento dell’irradiazione solare hanno un’altra conseguenza. I gas frigorigeni riscaldano: i Cfc

contribuiscono in modo significativo all’accrescimento dell’effetto serra di origine antropica.Il blocco progressivo della produzione dei Cfc ha prodotto una netta diminuzione del contributo all’effetto serra da parte dell’insieme delle sostanze presenti nel protocollo di Montreal. Di fatto, le molecole fluorate (idrofluorocarburi, dette Hfc) hanno, in media, un potere di riscaldamento globale otto volte inferiore a quello dei Cfc, che sostituiscono. Gli idroclorofluorocarburi, (Hcfc, utilizzati nei sistemi di climatizzazione), sono fluidi di sostituzione fluorati che non presentano diminuzioni altrettanto significative dell’effetto riscaldante, anzi, per alcuni, è vero esattamente il contrario. La messa a punto di sostanze di sostituzione degli Hcfc, che rispondano sia a criteri di uso (sicurezza e prestazioni), che di neutralità ambientale, è in corso e dovrebbe portare a fluidi che non distruggono lo strato di ozono e non contribuiscono, o molto poco, a rafforzare l’effetto serra. Il testo completo, con immagini e schemi di flusso, ne “L’atlante per l’ambiente” di Le Monde Diplomatique/ Il manifesto)

Il gas da fermareStati Uniti.

14

Nel 1987 la firma del protocollo di Montreal ha fermato la produzione di clorofluorocarburi, i gas che provocano il buco dell’ozono. Grazie a questa misura, il buco sopra l’Antartide ha cominciato a ridursi. Ci sono però altri gas che distruggono l’ozonosfera, lo strato protettivo nella parte alta dell’atmosfera terrestre. Secondo una ricerca pubblicata in anteprima sul sito di Scienze, il peggiore è il protossido di azoto, che è anche un gas serra, ed è quindi responsabile dell’aumento delle temperature del pianeta. Proprio per questa sua doppia azione negativa, sarebbe importante controllare le emissioni nell’atmosfera del protossido.A parte le fonti naturali, i principali produttori sono alcuni settori industriali, che usano combustibili fossili, ma anche biomasse e biocarburanti, considerati dei combustibili ecologici. Anche l’uso di fertilizzanti in agricoltura ha un ruolo importante. Se non ci sarà un forte cambiamento nei processi produttivi, il monossido di azoto è destinato a rimanere il gas anti ozono per eccellenza. Il settimanale Science auspica almeno una riduzione delle emissioni del gas, per accelerare la riparazione del buco antartico e limitare l’effetto sui cambiamenti climatici.(Tratto da “Internazionale” del 4 settembre 2009)

Strato di ozono ridotto del 40%A causa del vento e del freddo lo strato di ozono ha registrato un assottigliamento sopra il Polo Nord del 40% tra il marzo 2010 e il marzo 2011. L’ozono è lo strato di gas che avvolge il pianeta e ci protegge dai raggi “uv” (ultravioletti) del sole (Corriere della Sera del 6 aprile 2011, con immagini da satellite a colori)

8. Prosciugamento dei fiumi e dei laghi

Il mare interno dell’Africa ha i giorni contatiDal 1960 la superficie del lago Ciad si è ridotta del 90%. Mentre i governi studiano progetti faraonici per salvare la distesa d’acqua, le popolazioni si sono adattate ai cambiamenti.

Sulle rive del lago Ciad, nel villaggio di Guitè, alcune piroghe scaricano le loro merci, legali e illegali. Sulla terraferma i prezzi si contrattano in franchi Cfa e in naira, la moneta nigeriana. La distesa d’acqua che unisce Ciad, Niger, Nigeria e Camerun è una zona di intensi commerci transfrontalieri. La nostra imbarcazione diretta all’isola di Kinasserom, un villaggio di pescatori, passa tra le canne e le piante di papiro. La vegetazione è ricca, si vedono molti uccelli e l’acqua si estende a perdita d’occhio: è difficile pensare che il lago e il suo ecosistema hanno i giorni contati. Alcuni scienziati avvertono che il “mare interno dell’Africa” potrebbe scomparire nei prossimi venti anni. E secondo i dati delle autorità ciadiane, basate sulle osservazioni della Nasa, la superficie del lago si è ridotta dai 25.000 chilometri quadrati del 1960 ai 2500. di oggi.Quest’anno le forti piogge sembrano scongiurare le previsioni più pessimiste. Alimentato dagli affluenti Chari e Logone, il bacino meridionale del lago ha riversato parte delle sue acque nel bacino settentrionale, il più colpito dalla siccità. Il lago non è più diviso in due parti ma è un’unica, profonda distesa di acqua. I pescatori, però, non sono contenti. Issaka Abacar, proprietario di una piccola imbarcazione, sostiene che “la pesca non è più abbondante come prima. Con le acque più alte, gli esemplari per la riproduzione si disperdono in mezzo alle piante”. Ma si lamenta anche dell’abbassamento delle acque del lago. “Vivo qui da più di venticinque anni. La quantità d’acqua diminuisce e i pesci anche”. Arrachid Ahmat Ibrahim, referente locale di un progetto di sviluppo, spiega che è anche colpa dei metodi di pesca “non regolamentari”: sbarramenti o reti a maglie troppo strette impediscono il passaggio ai pesci per la riproduzione. Secondo Ibrahim, in questa regione di undici milioni di abitanti, 300 mila persone traggono il loro sostentamento dalla pesca. La popolazione è in rapida crescita e le

15

risorse diventano scarse. “nel 1984 a Kinasserom vivevano duecento persone, ora siamo seimila”, osserva Adam Seid, il capo villaggio. Per assicurare la rinascita del lago, il governo ciadiano punta su un progetto faraonico: far confluire parte delle acque del fiume Oubangui, che scorre tra la Repubblica Centrafricana ela Repubblica Democratica del Congo, nel Chari, il principale affluente del lago. Seid è reticente sull’argomento, ma non lo è Mahamat, un giovane abitante del villaggio: “Se l’acqua aumenta, dovremo lasciare le nostre case. Il governo ci ha interpellati, ma gli affari si concludono tra stato e stato. Noi comunque non siamo d’accordo”. I pescatori difendono i loro interessi immediati, ribatte Brahim Hamdane, un funzionario del ministero per l’ambiente. “La priorità è salvare il lago”. (…) ( tratto da Internazionale n. 874, 26 novembre 2010, con foto e mappa)

Il lago di Aral

Prima del 1960 il lago di Aral era il quarto lago del mondo. Da allora ha perso l’88% della superficie e il 92% del volume di acqua.

Da tempo le dimensioni del lago di Aral, al confine tra Uzbekistan e Kazachistan, dipendono dal fiume Amu Darya, che nasce sui monti del Pamir e sfocia nel lago dopo aver attraversato il deserto. Anche il Syr Darya alimenta il bacino, ma l’Amu Darya è più grande e più incostante. Negli anni sessanta l’acqua del fiume cominciò a essere deviata per favorire lo sviluppo agricolo e il lago cominciò a restringersi. L’immagine scattata il 26 agosto 2010 dal satellite Terra della Nasa mostra lo stretto rapporto tra il lago di Aral e l’Amu Darya. E’ la foto più recente di una sequenza di dieci anni pubblicata sul sito World of Change dell’Earth Observatory. Tra il 2000 e il 2009 il lago si è ridotto a un ritmo costante. Nel 2006 una grave una grave siccità si è abbattuta sul bacino dell’Amu Darya. Nel 2007 l’acqua che ha raggiunto il lago è stata pochissima e nei due anni seguenti non ne è arrivata affatto. Senza l’acqua dell’Amu Darya il lago si è rapidamente rimpicciolito e nel 2009 il lobo orientale è scomparso. Nel 2010 però la situazione è un po’ migliorata : sul Pamir ha nevicato normalmente e l’Amu Darya ha raggiunto il lago. L’acqua fangosa si è depositata nel lobo orientale, facendolo apparire molto più grande di quanto non fosse nel 2009. (tratto da Internazionale n.874, 26 novembre 2010, con foto da satellite)

Così hanno ucciso un Lago greco

Era largo 45 km quadrati (quasi come quello di Lugano) e profondo 5 metri. Oggi si può attraversare camminando. Koronia, nel nord del paese, è stato prosciugato e la sua fauna distrutta. Nemmeno i soldi dell’Unione Europea sono serviti a salvarlo. Ma ora Atene è chiamata a rispondere del disastro.

La Commissione Europea ha avviato una procedura giudiziaria alla Corte di Strasburgo contro l’inazione del governo greco. Una serie di pali indica i vecchi confini del lago Koronia, a parecchie decine di metri dalla riva attuale. Situato presso Salonicco (nella Macedonia greca) il quarto lago del paese si estendeva su 45 chilometri quadrati. In trenta anni la sua superfice è diminuita di un terzo e la sua profondità è scesa da cinque a un metro e in certi punti anche a meno di un metro. Nell’estate del 2009, il lago, quasi prosciugato, si poteva attraversare a piedi. Nel cuore dell’Europa, Koronia sta scomparendo. Davanti a uno dei palisi trova una discarica, con vecchi televisori, mobili rotti, sacchi di plastica. Eppure, il sito fa parte di Natura 2000, la rete europea delle zone naturali protette.E’ anche sotto la protezione della Convenzione Internazionale di ramsar per la tutela delle zone umide. “organizziamo regolarmente campagne di risanamento, ma i rifiuti ritornano”, spiega

16

fatalista, Marios Asteriou, del centro che gestisce Koronia e il vicino lago Volvi, più grande, più profondo e in migliori condizioni. Atene sotto l’accusa dell’UEPersa la pazienza, la Commissione europea ha deciso, il 27 gennaio scorso, di portare la Grecia davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver protetto il lago. Accusando inoltre il governo di mancato rispetto delle direttive europee sugli uccelli e l’habitat, e anche sul trattamento delle acque urbane. Nel 2004, la Commissione aveva avallato un piano risanamento del lago, ed era pronta a finanziarlo al 75%, per l’importo di 20 milioni di euro. Sette anni dopo, solo un quarto del progetto è stato realizzato. Perché tale inerzia? “E’ difficile da capire, per chi non è greco”, riconosce Vasso Tsiaousi, del Centro zone umide della Grecia. Il progetto dipende da quattro ministeri e dalla prefettura regionale di Salonicco, il che non facilita il suo avanzamento, vista l’inefficienza dell’amministrazione. Certe gare d’appalto per la realizzazione dei lavori sono state contestate davanti alla giustizia, per il sospetto di favoritismi nell’attribuzione dei mercati. I ricorsi sono ancora in sospeso. La Commissione Europea oggi minaccia di rimettere in questione il proprio finanziamento.I motivi di un disastro Le cause del disastro ecologico sono note da molto tempo. Situato in una regione agricola, il lago ha sofferto negli anni ’80 del potenziamento dell’agricoltura intensiva, ma anche dell’industrializzazione. Le industrie, specialmente quelle tessili, molto inquinanti a causa dell’utilizzazione di bagni coloranti, smaltivano le acque residue gettandole nel lago.Una parte di queste attività è stata poi delocalizzata in Bulgaria. Anche le acque residue della vicina città di Lagada vengono scaricate nel lago. La stazione di depurazione, costruita nel 2001 con l’appoggio finanziario dell’UE, non è ancora stata raccordata alla città.Alla fine degli anni ’70, gli agricoltori passarono dall’orticultura del mais, più avida d’acqua, con la benedizione, all’epoca, di Bruxelles. E continuarono, come i loro genitori, ad attingere acqua dal suolo, ma con pozzi elettrici – spesso illegali – che arrivarono fino a 50 metri di profondità. E’ così che le acque del lago si sono abbassate e, alla fine degli anni ’90, tutti i pesci sono morti. Nel 2004 si è tentato di ripopolarlo, ma invano. Del piano di risanamento è stata rispettata soltanto una parte, quella della creazione di un bacino che consente di dirottare il corso di due fiumi nel lago.All’inizio di febbraio, il bacino era vuoto, per mancanza di precipitazione atmosferiche. Tuttavia, da un anno, il bacino ha consentito di mantenere il livello del lago a circa un metro. “Questo non serve a niente. Bisogna finire la pulizia e la depurazione del lago prima di aggiungere acqua. Altrimenti, c’è il rischio di conseguenze disastrose per il lago Volvi”, spiega il deputato europeo, ecologo, Michail Tremopoulos.Oggi, Koronia assomiglia a un lago, una vasta distesa di acqua, circondata da canneti, dove passano numerosi uccelli. Ma “non è più un lago”, spiega Maria Moustaka, biologa presso l’università della città di Salonicco. Secondo lei, si tratta piuttosto di un ambiente che favorisce la proliferazione di alghe e microbi resistenti alle materie tossiche.Negli anni 1997, 2004 e 2007, migliaia di uccelli sono morti. Il lago protegge specie minacciate come l’aquila dalla coda bianca, il cormorano pigmeo o l’airone cenerino. In questo momento, l’acqua non sembra tossica per gli uccelli, “ma tutto può cambiare con molta rapidità”, aggiunge ancora Maria Moustaka, che procede regolarmente a prelievi. Talvolta, il lago è talmente sporco che c’è un livello di batteri alto quanto quello di un bacino di depurazione”. (…) (il testo completo è nel Magazine del Corriere della Sera del 17 marzo 2011, con foto e cartine))

9. Scarsità idrica e abbassamento falde acquifere

L’acqua, dalla scarsità alla penuria

17

Quasi 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,4 miliardi sono prive di depuratori; 1,8 milioni di bambini muoiono ogni anno di infezioni trasmesse da acque infette. Milioni di donne sprecano ore ogni giorno per andare a cercare l’acqua. Milioni di abitanti delle bidonvilles (baraccopoli), la pagano da cinque a dieci volte più cara che i residenti delle zone correttamente urbanizzate. Quasi 450 milioni di giorni di scuola vengono persi annualmente per questo motivo. L’Africa spreca ogni anno il 5% del suo prodotto interno lordo (PIL) a causa di queste carenze.Nel 2000, l’Onu si era impegnata a dimezzare, entro il 2015, il numero di persone prive di questi servizi vitali. Gli obiettivi del millennio per lo sviluppo (MDG) non saranno raggiunti. L’acqua non è prioritaria nelle spese pubbliche: gli Stati le dedicano meno dell’1% del loro Pil. Il budget militare del Pakistan è quasi 50 volte quello dell’acqua e della depurazione. Ma un migliore accesso all’acqua proteggerebbe in modo efficace gli 850 milioni di abitanti di zone rurali che soffrono di malnutrizione e sono minacciati dal riscaldamento climatico. L’UNDP ha chiesto agli Stati di mettere acqua e depurazione in testa alle loro priorità, nonché di raddoppiare l’aiuto internazionale, cioè 4 miliardi di dollari in più ogni anno.

Supersfruttamento delle risorseL’agricoltura è la prima consumatrice di acqua, con l’80% dell’utilizzazione mondiale della risorsa, contro il 12% per l’industria e l’8% del consumo pubblico. Lo sfruttamento intensivo delle risorse, con l’aumento delle superfici agricole irrigate, provoca l’abbassamento delle falde freatiche e il prosciugamento dei fiumi, esaurendo le risorse indispensabili ai 6,5 miliardi di abitanti del pianeta, che diventeranno 8 miliardi nel 2030. Produrre un chilo di grano richiede 1500 litri di acqua, un chilo di carne industriale quasi 10.000 litri… I comportamenti e le pratiche devono essere radicalmente modificati,anche nei paesi ricchi, anch’essi minacciati dalla penuria. I cambiamenti climatici, le scomparsa delle zone umide, l’inquinamento crescente e una cattiva allocazione delle risorse contribuiscono all’insorgere di squilibri preoccupanti. L’urbanizzazione galoppante e la cementificazione massiccia rendono i suoli impermeabili, provocando a valle piene e inondazioni.Le acque sotterranee, il cui ritmo di rinnovamento può esigere diecine di migliaia di anni, sono letteralmente prese d’assalto, a scapito dei bisogni delle generazioni future. Ne dipende un americano su due, mentre la metà delle falde acquifere nordamericane è già in situazione di stress idrico. Inoltre, ovunque nel mondo le reti di distribuzione pubblica accusano tassi di perdita dal 30 al 50%.Diventa pertanto indispensabile aumentare la produttività dell’acqua, soprattutto nei paesi che non dispongono dei mezzi tecnici e finanziari atti a captare una risorsa mobilizzabile. Occorre sfruttare ogni goccia per trarne più derrate agricole, più carne, pesce o latte. Come migliorare la produttività agricola? Ricorrendo all’acqua piovane, promuovendo varietà di cereali adatte alle scarse quantità di acqua disponibile, o sviluppando tecniche di irrigazione economiche o piccole dighe.

Preservare gli ambienti umidiE questo vale anche per i paesi ricchi: invece di investire in tecnologie curative sempre più dispendiose, è tempo di preoccuparsi di preservare gli ambienti umidi e di evitare di ostacolare il ciclo naturale dell’acqua. I paesi nordeuropei hanno ridotto con successo l’utilizzazione di prodotti fitosanitari. La Germania è al primo posto nel riciclo di acque piovane. Le riforme devono essere drastiche.Il riscaldamento climatico modifica anche le caratteristiche idrogeologiche dei corsi d’acqua, a causa dell’aumento delle precipitazioni invernali e della loro diminuzione estiva. Ne consegue una riduzione dell’accumulo invernale di neve e un disgelo molto più precoce in primavera, il che provoca profonde modificazioni nei regimi idrogeologici dei bacini. Si potrebbe essere costretti al blocco forzato delle centrali nucleari, in mancanza di acqua con cui raffreddarle.

18

Le pratiche agricole dovranno essere riviste per adattare la produzione a condizioni idrogeologiche degradate e a una evaporazione-traspirazione più intensa in estate. Il che rischia anche di far aumentare i tassi di concentrazione dei Sali minerali nell’acqua e dunque l’inquinamento.(Tratto da “L’Atlante per l’Ambiente” di Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, 2008, con grafici e tabelle)

Più riso per l’IraqFinalmente una buona notizia dall’Iraq: sulle rive dell’Eufrate si vedono campi di riso rigoglioso e in questi giorni, nel pieno del raccolto annuale, il ministero dell’agricoltura fa previsioni ottimiste: il governo si prepara ad acquistare dai suoi agricoltori tra 150.000 e 175.000 tonnellate del buon riso aromatico di prima qualità tipico di queste terre, un bel balzo dalle 119.000 tonnellate raccolte l’anno scorso. Spiegano le autorità che la resa per ettaro è aumentata dell’11% rispetto all’anno scorso e del 18% rispetto a due anni fa, e questo grazie alla maggiore disponibilità di acqua, elettricità per far funzionare le pompe e irrigare i campi, fertilizzanti .Una buona notizia parziale, perché il consumo annuo di riso in Iraq ammonta a 1,2 milioni di tonnellate: il paese resta un importatore netto di riso e lo stesso vale per il grano. Anzi, quella che una volta era nota come la “mezzaluna fertile” è oggi uno dei dieci maggiori importatori di riso e grano al mondo. Il problema di fondo resta la penuria di acqua, che ha conseguenze a cascata. La terra coltivabile è sempre stata in Iraq quella compresa tra il Tigri e l’Eufrate – “la terra tra i due fiumi”, Mesopotamia, - mentre il resto, (il 78% del territorio iracheno) non è adatto agli usi agricoli, al massimo è pascolo. Ma Tigri ed Eufrate portano sempre meno acqua: in giugno l’Eufrate arrivava alla frontiera con la Siria con una portata di 250 metri cubi al secondo, un record negativo. Anche il Tigri ha una portata dimezzata rispetto a prima del 2003, da 1680 a 836 metri cubi al secondo. Di conseguenza sono bassi i reservoir alimentati dall’Eufrate (quello di Haditha, la diga di Mosul e il lago Habaniyah). Gli ultimi tre anni di siccità hanno peggiorato la situazione. La mancanza di acqua ha fatto aumentare la salinità dei terreni e questo ha costretto il governo l’anno scorso a dimezzare la superficie coltivata a riso, irrigata totalmente dall’acqua dell’Eufrate. E la scarsità di acqua da il colpo di grazia a una situazione già vulnerabile: l’agricoltura è stata paralizzata da decenni di insicurezza, guerra, mancanza di investimenti, pressione umana. La somma di tutto questo ha costretto nei tre anni passati a quasi dimezzare la superficie coltivata a riso. Se questo raccolto è andato bene è perché, in primo luogo, si è allentata la siccità: il ministero dell’agricoltura ha promosso opere per catturare piogge e nevi dell’inverno scorso nei reservoir, così quest’estate la disponibilità di acqua è stata maggiore. Allo stesso tempo, la fornitura di elettricità è leggermente migliorata, permettendo agli agricoltori di far funzionale le pompe per irrigare i loro campi (“il problema è sempre che quando c’è acqua non c’è corrente elettrica e viceversa”, dice all’agenzia Reuter un agricoltore della zona di Meshkhab, a sud di Bagdad). Aver diminuito la superficie negli anni passati ha permesso di concentrare gli input di acqua e fertilizzanti e aumentare il raccolto, dicono i responsabili del ministero dell’agricoltura: così la produzione si è consolidata nelle province centrali di Najaf, Diwaniya e Wassit. Ora molti pensano a espandere le coltivazioni: un buon incentivo sta nel fatto che il governo – l’ente nazionale per i cereali, acquirente istituzionale dei raccolti iracheni – paga agli agricoltori 583 dollari per tonnellata di riso, ben più dei 420-430 dollari pagati per tonnellata di riso importato dai mercati internazionali.Un buon auspicio, il raccolto di riso. Anche se resta un futuro incerto, per molte ragioni, non ultime le dighe in costruzione sul Tigri in Turchia.(M. Forti, su “Il manifesto” del 22 dicembre 2010)

Energia

19

Nucleare a seccoPer funzionare le centrali nucleari hanno bisogno d’acqua. La siccità che ha colpito la Francia potrebbe costringere 44 dei 58 reattori situati vicino ad un corso d’acqua a sospendere l’attività, sostiene l’Osservatorio sul nucleare. Le norme dovrebbero garantire la sicurezza, ma in caso di arresto degli impianti potrebbe mancare l’elettricità. E se le autorità dovessero concedere, come nel 2003 e nel 2006, una deroga sulla temperatura massima delle acque di scarico, che non devono superare i 28 gradi, sarebbe un problema per la flora e la fauna.(Tratto da Internazionale del 20 maggio 2011)

10.Desertificazioni (siccità, guerre per il controllo delle fonti)

La via della seteMongoliaDi qui passava la Via della Seta. Ma quando Marco Polo la percorse, ottocento anni fa, non s’imbatté certo in un panorama così desolato. Questa regione, a metà strada tra Cina e Mongolia, diecimila chilometri quadrati di territorio ormai desertificato dalla siccità, porta ancora il nome di lago Juyan. Anche se di quel lago immenso che irrigò la pianure più rigogliose dell’impero mongolo, non è rimasta neppure una goccia d’acqua: le ultime, residue pozzanghere si sono prosciugate alla fine degli anni Novanta. Il lago Juyan si è trasformato così in una delle lande più aride del pianeta. Un eco disastro, perché oggi questo enorme serbatoio alimenta a sua volta tempeste di sabbia sempre più devastanti, che si abbattono sulle fertili pianure della Cina del Nord. Trasformandole in deserto. E. Lucchini (testo tratto da “Io donna”, supplemento del Corriere della Sera del 12 gennaio 2008, con foto)

Grande sete, nuove guerreQuando le sollevazioni politiche del Medio oriente si saranno placate, continueranno per un bel pezzo a farsi sentire in molte sfide latenti che oggi non appaiono sulle pagine dei giornali. Tra queste primeggiano il rapido aumento della popolazione, la carenza sempre più diffusa di acqua e una crescente insicurezza alimentare. In alcuni paesi, la produzione di cereali si sta riducendo mano a mano che esauriscono le falde acquifere, zone rocciose di acqua sotterranea. Dopo l’embargo petrolifero dei paesi arabi negli anno ‘70, i sauditi si resero conto che, a causa della loro enorme dipendenza dall’importazione di cereali, erano vulnerabili ad un contro embargo cerealicolo. Utilizzando la tecnologia della perforazione petrolifera, trovarono una falda acquifera piuttosto profonda nel deserto con cui produrre grano per irrigazione. In pochi anni, l’Arabia Saudita diventò autosufficiente per quanto riguarda il suo regime alimentare di base.Tuttavia, dopo più di venti anni di autosufficienza di grano, i sauditi annunciarono nel gennaio del 2008 che questo deposito acquifero era quasi completamente esaurito e che la produzione di grano sarebbe stata gradualmente abbandonata. Fra il 2007 e il 2010 la produzione di quasi tre milioni di tonnellate si ridusse a meno di un milione. Al ritmo attuale, i sauditi potrebbero realizzare il loro ultimo raccolto di grano nel 2012 e passare a dipendere dall’importazione del cereale per alimentare una popolazione di quasi 30 milioni di persone.L’abbandono insolitamente rapido della coltivazione di grano in Arabia Saudita si deve a due fattori. In primo luogo, in questo paese arido esiste poca agricoltura che non sia di irrigazione. In secondo luogo, l’irrigazione dipende quasi esclusivamente da una falda acquifera fossile che, a differenza della maggioranza delle altre, non si ricarica in modo naturale, grazie all’apporto delle piogge. Inoltre, l’acqua marina desalinizzata, che si utilizza nel paese per rifornire le città, è troppo costosa perfino per i sauditi per usarla in irrigazioni.La recente insicurezza alimentare dell’Arabia Saudita l’ha portata a comprare e affittare terre in vari paesi, fra cui due dei più colpiti dalla fame, : l’Etiopia e il Sudan. In effetti, i sauditi stanno

20

programmando di produrre i loro alimenti con le risorse della terra e dell’acqua di altri paesi, per incrementare delle importazioni che aumentano sempre più rapidamente. Nel vicino Yemen, le falde che possono rialimentarsi vengono sfruttate al di sopra del loro tasso di riproduzione e gli acquiferi fossili più profondi si stanno esaurendo rapidamente. Gli indici idrici dello Yemen stanno calando di circa due metri all’anno. Nella capitale Sana’a, che ospita due milioni di abitanti, si distribuisce acqua corrente solo una volta ogni quattro giorni. A Taiz, una città più piccola nel sud del paese, l’erogazione avviene ogni venti giorni.Lo Yemen, con una delle popolazioni che cresce più velocemente nel mondo, sta diventando un caso disperato, idrologicamente parlando. Con la caduta degli indici idrici, la produzione di cereali si è ridotta ad un terzo negli ultimi quaranta anni, mentre la domanda ha continuato ad aumentare in maniera costante. Il risultato è che gli yemeniti importano più dell’80 % del cereale. Mentre calano le sue magre esportazioni di petrolio, senza nessuna industria che meriti questo nome e con quasi il 60% della popolazione infantile fisicamente atrofizzata e con malnutrizione cronica, questo paese, che è il più povero dei paesi arabi, si trova di fronte a un futuro tetro e potenzialmente turbolento.Il probabile risultato dell’esaurimento degli acquiferi nello Yemen, che porterà ad una maggiore contrazione dei raccolti ed estenderà la fame e la sete, è il collasso sociale. Essendo già uno stato fallito, può ridiventare un insieme di feudi tribali che si fanno la guerra per le scarse risorse idriche rimanenti. I conflitti interni dello Yemen potrebbero travalicare la sua estesa frontiera con l’Arabia Saudita, senza alcuna vigilanza.La Siria e l’Iraq, - gli altri due paesi popolosi della regione -, hanno anch’essi problemi con l’acqua. Alcuni provengono dalla portata ridotta dei fiumi Eufrate e Tigri, da cui dipendono per l’acqua destinata all’irrigazione. La Turchia, che controlla le sorgenti dei due fiumi, è impegnata in un importante programma di costruzione di bacini che provoca una riduzione dei flussi a valle. Sebbene i tre paesi hanno un programma comune per condividere l’acqua, i piani della Turchia di aumentare la generazione di energia idroelettrica e le sue zone irrigate si realizzano a spese dei suoi due vicini a valle. Visto l’incerto futuro degli approvvigionamenti idrici fluviali, gli agricoltori siriani e iracheni stanno scavando più pozzi per l’irrigazione e questo sta provocando un eccesso di estrazione nei due paesi. La produzione cerealicola della Siria è calata di un quinto, dopo aver raggiunto un culmine di circa 7 milioni di tonnellate nel 2001. In Iraq, il raccolto di cereali è diminuito di un quarto, dopo aver raggiunto un massimo di 4,5 milioni di tonnellate nel 2002. La Giordania, con sei milioni di abitanti, sta al limite in termini di agricoltura. Quaranta anni fa, più o meno, produceva più di trecentomila tonnellate di cereali all’anno. Oggi produce solo sessantamila tonnellate e deve importare quindi più del 90% del suo grano. Solo il Libano è riuscito ad evitare un calo della sua produzione cerealicola.Cosicchè, nel Medio Oriente arabo, una regione in cui la popolazione cresce rapidamente, il mondo sta assistendo alla prima collisione fra crescita demografica e rifornimento d’acqua su scala regionale. Per la prima volta nella storia, la produzione di cereali sta diminuendo in una regione in cui non si scorge nulla all’orizzonte che possa fermare questo calo. A causa del fallimento dei governi nel coniugare le misure politiche che riguardano popolazione e acqua, ogni giorno che passa ci sono 10.000 persone in più da alimentare e meno acqua da irrigazione per alimentarli.(Lester Brown, su “Il manifesto” dell’11 maggio 2011)

11.Acidificazione e inquinamento degli oceani

Acque acide

21

Due terzi del pianeta sono coperti dagli oceani, essenziali nella regolazione del clima grazie alla capacità di assorbire l’anidride carbonica. Ma l’acidificazione degli ecosistemi marini, causata dalle industrie, dalla combustione, dalla nostra stessa respirazione, mette a rischio la chimica degli oceani. Per scoprire l’impatto che questo processo avrà nei prossimi cento anni, è stato da poco avviato il Progetto Epoca, un maxi studio che coinvolge cento scienziati di nove paesi europei. (L’Espresso del 13 settembre 2008)

Rischio aciditàGli oceani assorbono la Co2

Gli oceani assorbono attualmente circa un terzo delle emissioni di anidride carbonica del Pianeta. Questa capacità li sta rendendo sempre più acidi con ripercussioni su ecosistemi e biologia marina. Proprio sugli impatti legati all’acidificazione degli oceani si è concentrato un incontro che si è appena concluso in Giappone del gruppo intergovernativo di scienziati ONU, l’IPCC. Già adesso, si legge sul sito dell’Ipcc, l’acidificazione delle acque degli oceani è riconosciuta come “una componente fondamentale del cambiamento globale, potenzialmente responsabile di una vasta gamme di impatti sugli ecosistemi, con ulteriori conseguenze sui mezzi di sostentamento e sicurezza alimentare”. Al nuovo rapporto Ipcc contribuirà l’Italia con Riccardo Valentini, anche presidente del Sistema di osservazione globale, nel ruolo di coordinatore del capitolo sull’Europa che dedicherà particolare attenzione al Mediterraneo. “Il processo del Quinto rapporto è iniziato –spiega Valentini- e porterà alla fine del 2013 alla stesura del lavoro. Per ora si fa un grosso lavoro di screening della letteratura scientifica, per il solo capitolo sulla U.E. saranno esaminati circa 4.000 documenti”. Negli incontri che si sono tenuti dall’11 al 14 gennaio in Giappone, osserva Valentini, si è cominciata a respirare “una nuova atmosfera. C’è una maggiore coscienza dell’importanza ch questi rapporti hanno sia per le scelte legate alle politiche energetiche e climatiche, sia per l’opinione pubblica. Per questo c’è la volontà di rendere tutto più trasparente”.(Corriere della Sera del 24 gennaio 2011)

12.Il declino delle risorse ittiche

Indagine Wwf: degrado e inquinamento di corsi e bacini italiani producono seri danni alla fauna itticaCom’è amara l’acqua per i pesciL’85% delle specie di fiume e lago è candidata all’estinzioneFulco Pratesi

Di tutte le classi di animali del nostro Paese, quella che presenta la maggiore percentuale di specie a rischio d’estinzione è costituita dai pesci di acqua dolce, con l’85% di candidati alla scomparsa, seguiti dagli anfibi (76%), rettili (69%), uccelli (66%), mammiferi (64%). Pur se poco presenti nelle cronache e nelle denunce degli ambientalisti, come accade per i mammiferi e gli uccelli, questi componenti della fauna italica rivestono un notevole interesse, dal punto di vista scientifico ed economico. Una recente indagine condotta sul campo da 600 volontari del WWF lungo trenta fiumi dal Friuli alla Sicilia, ha fornito dati sconfortanti sullo stato di gran parte di essi.Prelievi, legali o abusivi, di acqua, distruzione della vegetazione riparia, inquinamenti, sottrazione di ghiaia e sabbia dagli alvei, discariche solide sulle rive, cementificazione delle sponde, bracconaggio, canalizzazioni e sbarramenti a scopi idroelettrici hanno quasi ovunque degradato i corsi d’acqua arrecando danni pesantissimi alla fauna ittica. Ma a queste aggressioni, più note e visibili, si accompagnano quelle determinate dall’invasione, nei corpi

22

idrici, di specie ittiche aliene, che causano gravi danni a quelle indigene. E’ da tempo che i pescatori sportivi, (che hanno collaborato alla ricerca), denunciano i problemi provocati da immissioni, volontarie o meno, di elementi estranei alla nostra fauna in competizione ecologica con le specie indigene. Tra i pesci esotici – oltre a quelli già “naturalizzati” da anni come il persico trota, il persico sole e la trota iridea provenienti dall’America del Nord – spiccano la lucioperca dell’Europa centrosettentrionale, l’abramide e soprattutto l’immenso e vorace siluro del Danubio, (due metri e mezzi di lunghezza e fino a 300 chili di peso) grande distruttore di ciprinidi ma anche di piccoli mammiferi, anfibi e giovani uccelli acquatici. (…) I più in pericolo sarebbero la trota macrostigma del Meridione e delle Isole maggiori, la trota marmorata del Nord Italia, il carpione del Garda, la lampreda padana e la lampreda di ruscello, lo storione cobice dei fiumi Po, Adige, Brenta, Piave e Tagliamento, il panzarolo della Padania, il ghiozzo di ruscello dell’Italia centrale e il carpione del Fibreno (che vive solo in un piccolissimo lago, di 0,29 km quadrati, a Fibreno in provincia di Frosinone). (…) (il testo completo sul Corriere della Sera del 15 marzo 2011, con foto delle dieci specie a rischio)

13. La distruzione delle barriere coralline

…Un vero e proprio ricchissimo forziere per la biologia marina, già ora profondamente segnato dall’inquinamento, dalla pesca intensiva e dal riscaldamento dell’acqua. Conseguenze sotto gli occhi di tutti: i coralli morti stecchiti e la barriera sbiancata e spettrale, come quella che ormai delude i turisti ritardatari alle Maldive. …entro il 2020, anno totem ormai per l’ambientalismo, è obbligatorio portare dal 13 al 17% il totale delle terre emerse protetto in maniera integrale, e al 10 % , dall’attuale misero 1%, la superficie oceanica dichiarata riserva “no take”, cioè intoccabile. Proprio per salvare il salvabile dei reef più importanti. (Alessandro Cecchi Paone, Corriere della Sera Magazine, dicembre 2010, con foto)

14. La riduzione delle foreste

Quando le foreste emettono carbonio invece di catturarlo Le foreste sono di immensa importanza per la ricchezza della loro biodiversità. In realtà, sui 50 o 100 milioni di specie che si ritiene siano presenti sul pianeta, ne sono state identificate solo

1,8 milioni, cioè meno del 5%. I tre quarti si troverebbero nelle zone tropicali. Molto ambite a causa del legno o per guadagnare nuove terre agricole, da qualche tempo le foreste sono diventate anche un argomento fondamentale nei dibattiti sul clima. Oltre ad una azione di regolatore locale, la vegetazione ricopre infatti, insieme ai suoli, un ruolo importante nel fissare una parte del carbonio atmosferico planetario. Suoli e vegetazione accumulano naturalmente 3,2 giga-tonnellate (Gt) di carbonio l’anno. Il disboscamento provoca ogni anno 1,6 gt di rigetto di carbonio. Il saldo positivo di stoccaggio da parte della vegetazione e dei suoli è dunque di 1,6 Gt all’anno, ossia un quarto dei 6,8 Gt emessi ogni anno dalle attività umane. Riassumendo, la vegetazione terrestre assorbe solo un quarto del carbonio eccedente liberato nel’atmosfera dalle attività umane – produzione d’energia, trasporti e messa a coltura delle terre. L’aumento di concentrazione di carbonio nell’atmosfera, così come le temperature più elevate osservate nell’ultimo secolo, hanno in un primo tempo, stimolato la produzione vegetale. Così, alcune foreste hanno avuto un aumento di produttività del 15% nel corso del XX° secolo. Questo fatto ha portato a considerare le foreste come “pozzi di carbonio”: i paesi industriali potrebbero quindi compensare i rifiuti con piantagioni, in particolare nell’ambito del protocollo di Kyoto. Il fatto che questa proposta sia stata vivamente osteggiata dagli ambientalisti fino al 2001, ha offerto agli Stati Uniti il pretesto per rifiutare di ratificare il protocollo. Dopo di allora,

23

il rimboschimento è stato incluso nei meccanismi di Kyoto come srumento di compensazione per le emissioni di gas a effetto serra, ma resta molto controverso a diversi livelli.

La soglia del 2050Le proiezioni indicano che la capacità della vegetazione di assorbire carbonio raggiungerà la soglia verso il 2050. Dopo questa data, lo stress subito a causa del riscaldamento, così come il proliferare di parassiti, dovrebbero far si che le foreste smettano di catturare il carbolio e anzi lo emettano.I “pozzi “ forestali non costituiscono che un rinvio di qualche decennio, prima di un peggioramento lasciato in eredità alle future generazioni. Dal momento che le foreste fitte sono considerate in equilibrio, e quindi ormai incapaci di fissare carbonio, c’è chi pensa di tagliarle per utilizzarne il legname e di sostituirle con piantagioni di specie a crescita rapida come eucalipti, acacie e albizie, il che costituisce un netto impoverimento della biodiversità. La moda recente degli agro carburanti in sostituzione del petrolio ha indotto anch’essa un rilancio del dissodamento.Parallelamente, il riscaldamento riduce l’umidità nei sottoboschi e facilita il propagarsi degli incendi. Il fenomeno è stato osservato negli ultimi anni in Europa,Australia e Stati Uniti, ma riguarda anche le regioni tropicali dell’Africa, dell’Amazzonia e dell’Asia.Lo sfruttamento industriale del legno, anche a scarso impatto, rende le foreste più fragili aprendo piste che prosciugano la vegetazione.L’esempio più impressionante è la coincidenza tra il Nino e l’avvio delle concessioni forestali in Indonesia. Dall’inizio degli anni ’80, vasti incendi hanno devastato periodicamente queste foreste, distruggendo in alcuni anni più di tre milioni di ettari, cioè la superficie del Belgio. Gli incendi del 1997-1998 avrebbero liberato nell’atmosfera 2,5 Gt di carbonio, vale a dire l’equivalente delle emissioni annue europee. Direttamente legata agli incendi e ai dissodamenti per l’agroindustria, la combustione del carbonio delle torbiere costituisce un’altra questione cruciale. Accumulata da centinaia di migliaia di anni, la torba rappresenta su scala planetaria 500 Gt di carbonio, cioè circa settanta anni di emissioni antropiche. Il problema interessa soprattutto le foreste del Borneo e di Sumatra, i cui suoli concentrano il 60% della torba mondiale. Tenuto conto di tali rifiuti, l’Indonesia diverrebbe il terzo emettitore di carbonio, dopo Stati Uniti e Cina.

(Tratto da “L’Atlante per l’ambiente”, Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con mappe e grafici)

Oggi in tutto il mondo si celebra il Giorno della Terra. L’obiettivo: un miliardo di “azioni verdi” entro il 2020 SOS Terra, le sette foreste da salvare

Negli ultimi 25 anni è andato distrutto il 10% delle aree boschive.

Le chiamano “le magnifiche sette” e sono tutte esotiche e misteriose. A preoccuparsi per loro sono in tanti, da Greenpeace al WWF. L’obiettivo è bloccarne l’impoverimento. Per mantenere il loro splendore, per tutelare la nostra salute. Se sparissero, infatti, saremmo investiti dai gas serra rilasciati dai 500 miliardi di tonnellate di carbonio che loro invece preservano nel suolo. Sono le foreste, già protagoniste nell’agenda dell’ONU, che ha dichiarato il 2011 “Anno Internazionale delle Foreste”. A loro è dedicata anche la Giornata mondiale della Terra, 41 candeline e quasi mezzo miliardo di persone che le spegneranno oggi in 192 paesi di tutto il mondo, con un desiderio da realizzare: raggiungere un miliardo di “azioni verdi” entro l’inizio del vertice ONU sullo sviluppo sostenibile, previsto a Rio de Janeiro nel 2012. “Il 10% delle foreste è scomparso negli ultimi 25 anni, a una media di 13 milioni di ettari l’anno dal 2000”,

24

lancia l’allarme Massimiliano Rocco del WWF. La perdita più alta riguarda la fascia neotropicale (centro e Sudamerica) con 5 milioni all’anno; meno 3,4 milioni in Africa; meno 2,2 milioni in Asia. “Non ci rendiamo nemmeno conto del danno che facciamo quotidianamente con scelte irresponsabili” aggiunge Rocco. E in effetti fa una certa impressione leggere i dati del CNR, secondo il quale negli uffici italiani si consumano 1,2 milioni di tonnellate di carta, pari a 80 chili per dipendente, 240 miliardi di fogli utilizzati ogni anno che si traducono in quattro miliardi di anidride carbonica. Per risparmiare 1,3 milioni di tonnellate di CO2 basterebbe usare la stampa fronte retro o eliminarla del tutto, quando non è proprio indispensabile. Greenpeace sul suo sito avverte: ogni due secondi viene distrutta un’area di foreste grande quanto un campo di calcio. “Non possiamo distogliere l’attenzione dalle ultime sette foreste della Terra: l’Amazzonia, la Patagonia, le foreste indonesiane, quelle del bacino del Congo, la foresta boreale del Canada, la “foresta di babbo Natale” in Lapponia, infine le foreste russe.” Insiste Chiara Campione di Greenpeace.Il patrimonio verde richiede millenni per formarsi. “E quando sentiamo parlare di riforestazione dobbiamo comunque stare attenti perché raramente questi progetti riescono a ripristinare la biodiversità originaria”, precisa l’attivista.L’associazione ambientalista fornisce i numeri dell’emergenza. A causa degli incendi delle foreste torbiere indonesiane ogni anno vengono rilasciati nell’atmosfera 1,8 miliardi di tonnellate di gas serra. In Congo dove gorilla, scimpanzé e bonobo (oltre a dieci milioni di persone), dipendono dalla foresta pluviale, sono stati stipulati in due anni cento contratti di taglio per 15 milioni di ettari di verde: equivalgono a cinque volte il Belgio. (…) (Il testo completo sul Corriere della Sera del 22 aprile 2011, con mappe)

L’economia della foresta, di Marina FortiSi chiamano “prodotti minori della foresta” o anche “prodotti no timber”, non legno, tutto ciò che la foresta può dare finché è viva. Secondo stime della FAO, qualcosa come l’80% della popolazione dei paesi “in via di sviluppo” trae dalle foreste buona parte di ciò che serve alla sopravvivenza quotidiana. Prendiamo Chaikur, un villaggio come migliaia di altri sulle pendici dei Ghat orientali, dorsale montagnosa che percorre da nord a sud il versante orientale dell’India. Grandi alberi di tamarindo ombreggiano il villaggio, e qui sono anche la principale fonte di reddito. In gennaio-febbraio nei cortili delle case gruppi di persone lavorano attorno a grandi mucchi di frutti di tamarindo che assomigliano a grossi baccelli di colore scuro: vanno sbucciati, tolta la venatura, messi da parte i semi (da cui si trae amido) e raccolta la polpa, che ha consistenza pastosa. La pasta di tamarindo è ingrediente essenziale nella cucina dell’India meridionale e di molti paesi asiatici. Altri “prodotti no timber” sono le fibre vegetali, certi fiori. O le foglie di tendu, quelle che si arrotolano per fare le sigarettine indiane chiamate bidi, che andavano molto di moda tra gli occidentali negli anni passati.Di recente, le raccoglitrici di questi villaggi hanno formato cooperative, per non essere alla mercé dei grossisti che fissano il prezzo. Ma l’intera economia della foresta è minacciata da una deforestazione rampante. “Quasi ogni giorno i giornali riferiscono di qualche squestro di legname tagliato illegalmente, ma è solo la punta dell’iceberg” dice Iqbal Bhai, abitante della zona e cofondatore di un’associazione per salvare le foreste come bene comune. Il fatto,dice, è che “gli enti governativi, quando ripiantano, mettono acacie e altri alberi che crescono in fretta, ma non specie indigene. Ad esempio, ci siamo opposti al progetto di fare una piantagione di pino tropicale, per produrre polpa di cellulosa con un bel finanziamento della Banca Mondiale. Perchè questo va a spese delle specie indigene come il teak, il sal, alberi a crescita lenta”. Il sal è un albero importante il suo nome botanico è Shorea Robusta, specie nativa dell’Asia meridionale, dalle pendici dell’Himalaya ai Ghat orientali, alla Birmania. Grande albero (raggiunge i 30 o 35 metri), con foglie larghe, nelle poche zone di foresta ancora vergine spesso è la specie dominante. E’ una delle più importanti fonti di legno duro in India, resinoso e duraturo -le case di questi villaggi hanno strutture di sal. Ma se ne tagliava poco, una volta,

25

perché agli abitanti qui è più utile da vivo. Le foglie intrecciate e seccate sono usate per fare piatti e scodelle usati per il cibo venduto nelle bancarelle; fresche servono per servire gli involtini di paan, con la noce di betel. Sono usa e getta, sì, ma finiranno mangiati dalle capre o dalle mucche ( è così che l’India finora si è difesa dall’invasione del polistirolo). Infine si usano la resina, i semi e i frutti, da cui si estrae un olio per le lampade. E’ un albero protetto, è preda dei tagliatori di frodo. Per gli abitanti locali è molto più utile da vivo, con foglie e resine.“come fanno a non rendersene conto , la Banca Mondiale e le altre organizzazioni che finanziano questi progetti? Li chiamano “reafforestation”, ma che riforestazione è tagliare specie indigene e mettervi al posto alberi esotici?. Mi chiedo se davvero non capiscono che quando distruggi la foresta nativa distruggi la sopravvivenza di tante persone” (tratto da Il Manifesto del 22 marzo del 2011).

Dall’Amazzonia al Borneo. La società si difende: i nostri dossier sono correttiI dati gonfiati sulle foreste spariteAttacco verde ai super consulentiGreenPeace contro McKinsey: previsioni sbagliate per speculare sugli aiuti

Una società di consulenza che incoraggia ad abbatterele foreste e allo stesso tempo fa intascare gli aiuti contro la deforestazione non può che essere molto amata dai governi. E infatti la McKinsey ha prodotto dal 2007gli studi diventati di riferimento nella complicata materia della riduzione del riscaldamento globale. Congo, Guyana o Indonesia aspirano a una fetta dei 4,6 miliardi previsti dall’accordo internazionale di Cancun (2010) per salvare le foreste pluviali? Compilano dossier ispirati ai dati della McKinsey, marchio passpartout nel mondo degli affari e della governance mondiale, e sono quasi certi di ottenere gli aiuti desiderati. Solo che, secondo il rapporto “Bad influence” di GreenPeace, le carte distribuite dalla McKinsey sono truccate, non hanno alcun valore scientifico. Risponderebbero, in realtà, all’esigenza di alcuni Stati di continuare lo sfruttamento economico del polmone verde del Pianeta, venendo pure pagati per farlo. La McKinsey, conosciuta anche come The Firm, fondata nel 1926 a Chicago dal professore universitario James O. McKinsey, è la più influente società di consulenza del mondo, con circa 16.000 dipendenti e una rete di “ex” impiantata ai più alti livelli della politica e dell’economia mondiale. Un bersaglio perfetto per GrenPeace, tradizionalmente poco tenera con i grandi nomi del capitalismo globalizzato. (…) oggi è la più grande associazione ambientalista con uffici in oltre 40 paesi e 2,8 milioni di donatori in tutto il mondo: nel rapporto “Bad Influence” appena pubblicato l’organizzazione della “pace verde”si lancia contro l’influenza nefasta di McKinsey nella lotta alla deforestazione, citando alcuni casi significativi.Nella Repubblica Democratica del Congo McKinsey consiglia al governo di chiedere risarcimenti perché l’industria del legname raddoppierà l’abbattimento degli alberi entro il 2030. Uno sforzo da premiare, secondo la società di consulenza, altrimenti le piante tagliate potrebbero triplicare. In Guyana, in base ai dati di McKinsey, il tasso di deforestazione è del 4,3 all’anno; per evitare per evitare la totale sparizione della foresta pluviale entro il 2035, Paesi donatori come Norvegia o Gran Bretagna dovranno versare oltre 400 milioni di euro all’anno alla piccola repubblica sudamericana. Secondo GreenPeace, invece, il tasso di deforestazione attuale è molto più basso, attorno allo 0,1%; questo permetterà agli industriali del legno di aumentare gli abbattimenti, ed essere comunque risarciti.In Indonesia, per ridurre i danni alla foresta pluviale gli studi di McKinsey consigliano di arrestare la coltivazione della terra ad opera dei piccoli agricoltori, incoraggiando invece l’allargamento delle piantagioni di alberi, destinati però ad essere abbattuti. In questo modo, secondo McKinsey, si ottiene la stessa riduzione di biossido di carbonio, a costi 30 volte inferiori.

26

A guadagnarci sono il governo e ancora una volta l’industria del legname, non certo i contadini indonesiani e neanche gli oranghi del Borneo, in via di estinzione.McKinsey ribatte alle accuse: “Siamo in totale disaccordo con i risultati del rapporto di Greenpeace e ribadiamo la validità del nostro lavoro e approccio- ha dichiarato la società in una nota-, assistendo i clienti del settore pubblico, suggeriamo misure che possono essere usate in un complesso dibattito nazionale sulle strategie per una crescita economica equa e a bassa produzione di carbonio”. Una volta fugati i dubbi sull’esistenza stessa del riscaldamento globale, ecco l’incertezza sui dati usati per combatterlo o fingere di farlo. Greenpeace chiede a McKinsey di rivelare la fonte dei suoi studi. McKinsey risponde che non può farlo: comprometterebbe il “rapporto di riservatezza” con i clienti. (S. Montefiori, sul Corriere della Sera del 10 aprile 2011, con grafici e mappe).

Foreste più estese ma con meno specie, cosa perdiamo senza biodiversità

La giornata di ieri, 22 maggio 2011, ha concentrato su di se diverse ricorrenze. In primo luogo, la Giornata Mondiale della Biodiversità, un utile richiamo al 2010, dedicato dall’ONU proprio a questo argomento. E il fatto che l’anno scorso sia stato, sempre dall’ONU, consacrato alle foreste mondiali, rinforza il valore dell’appello. Infine, proprio ieri, la maggiore associazione ambientalista, che quest’anno ha festeggiato il suo 50° anniversario, ha aperto le sue oltre cento aree protette in tutta Italia, per l’annuale Festa delle Oasi, incentrata quest’anno sulla difesa dei boschi e delle selve. Il questa occasione il WWF ha lanciato una grande raccolta fondi destinata all’acquisizione e alla gestione di tre aree forestali italiane (informazioni su www.wwf.it).Pur se la Rete Natura 2000 dell’Unione Europea protegge nei suoi 27 paesi 25.000 siti naturalistici per una superficie superiore a quella del Bacino delle Amazzoni, il degrado e l’erosione dei boschi prosegue – più che a danno della loro estensione, recentemente in aumento, a scapito della loro biodiversità, specialmente per quanto riguarda la fauna minore, ancora non tutelata da normative comunitarie. Tra le specie più a rischio, gli anfibi, colpiti anche da una recente terribile malattia fungina, le farfalle e gli altri invertebrati, minacciati, oltre che dagli incendi boschivi (molte decine di migliaia di ettari l’anno), dalla frammentazione degli ecosistemi, dall’urbanizzazione, dall’uso dei pesticidi e dal collezionismo.A livello planetario, anche se in qualche grande nazione come la Cina e l’India le statistiche ufficiali dichiarano un aumento delle aree boschive, le grandi piantagioni industriali di pioppi, eucalipti, acacie e pini per la polpa da carta, non possono in alcun modo compensare le irrimediabili perdite di foreste naturali, sia per quanto riguarda la captazione dell’anidride carbonica, sia, ancor più, per la biodiversità forestale, distrutta per fare spazio alle piantagioni di palma da olio, in grande crescita, soprattutto per la produzione di biocarburanti.(F. Pratesi. Sul Corriere della Sera del 23 maggio 2011)

15. Le piogge acide

Il fenomeno della deposizione acida, maggiormente noto al grande pubblico con il termine di piogge acide, consiste nella deposizione acida umida ovvero la ricaduta dall'atmosfera sul suolo di particelle acide, le molecole acide diffuse nell'atmosfera vengono catturate e deposte al suolo da precipitazioni quali: piogge, neve, nebbie, rugiade, ecc.; Tale processo si distingue dal fenomeno della deposizione acida secca nella quale la ricaduta dall’atmosfera di particelle acide non è veicolata dalle precipitazioni ed avviene per effetto della forza di gravità. In questo caso si parla quindi di depositi secchi.

27

Una pioggia viene definita acida quando il suo pH è minore di 5, normalmente il pH della pioggia assume valori compresi fra 5 e 6.5 ed è costituita prevalentemente da acqua distillata e pulviscolo atmosferico, mentre la composizione delle deposizioni acide umide è data per circa il 70% da anidride solforica, che reagisce in acqua dando acido solforico. Il rimanente 30% risulta principalmente costituito dagli ossidi di azoto.

Emissioni

L'immissione di taluni gas in atmosfera può innescare il processo di acidificazione, il gas più importante che porta all'acidificazione è il biossido di zolfo SO2. Le emissioni di ossidi di azoto che vengono ossidati per formare acido nitrico sono di crescente importanza a causa di controlli più rigorosi sulle emissioni di composti contenenti zolfo. L'emissione stimata si aggira intorno ad i 70 Tg(S) all'anno, sotto forma di SO2 proveniente dalla combustione di combustibili fossili e dall'industria, 2,8 Tg(S) da incendi e fra i 7 e gli 8 Tg(S) per anno emessi dai vulcani.

I principali fenomeni naturali che contribuiscono all'immissione di gas nell'atmosfera sono le emissioni dei vulcani; Nei casi di massiva attività vulcanica si sono osservate precipitazioni con acidità anche a pH 2. La principale fonte biologica dei composti contenenti zolfo viene identificata nel solfuro di dimetile; l'acido nitrico in acqua piovana invece è una fonte importante di azoto fissato per la vita vegetale, a volte prodotto anche dall'attività elettrica nell'atmosfera, come per esempio le scariche dei fulmini, depositi acidi sono stati infine individuati nei ghiacci perenni.

I suoli delle foreste di conifere risultano molto acidi, ciò si deve al fenomeno naturale dello spargimento degli aghi, questo fenomeno non deve essere confuso con l'attività umana.

Composti di zolfo e di azoto possono anche essere immessi nell'ambiente da attività umane, quali per esempio: la produzione di elettricità, le fabbriche e veicoli a motore, le centrali elettriche a carbone risultano fra le più inquinanti. Inoltre, l'industria animale svolge un ruolo importante, in quanto risulta responsabile di quasi i due terzi di tutte le emissioni di ammoniaca prodotta da attività antropiche, la quale contribuisce significativamente al fenomeno dell'acidificazione.

L’azione degli acidi che si formano direttamente in sospensione oppure al suolo provoca l’acidificazione di laghi e corsi d’acqua, danneggia la vegetazione (soprattutto ad alte quote) e molti suoli forestali.

Oltre a questo, le piogge acide accelerano il decadimento dei materiali da costruzione e delle vernici; compromettono poi la bellezza ed il decoro degli edifici, delle statue e delle sculture patrimonio culturale di ogni nazione. Da notare che, prima di raggiungere il suolo, i gas SOx e NOx e i loro derivati, solfati e nitrati, contribuiscono ad un peggioramento della visibilità ed attentano alla salute pubblica.

La consapevolezza del pubblico, e l'attenzione mediatica sul fenomeno delle piogge acide, origina negli USA a partire dal 1970, dopo che il New York Times diffuse le relazioni del Hubbard Brook Sperimentale Forest in New Hampshire dando amplio risalto agli effetti deleteri e dannosi di tali precipitazioni.

Letture dei valori del pH in acque piovane e in nebbie inferiori a 2,4 sono state segnalate in aree industrializzate. Viene anche rilevato che piogge acide di origine industriale stanno avendo un notevole impatto ambientale in Cina e in Russia; inoltre le aree geograficamente esposte sottovento alla Cina stanno subendo danni da deposizioni acide pur non avendo ancora raggiunto un grado di industrializzazione massivo. Viene riscontrato che l'impatto ambientale delle piogge acide, non solo

28

è aumentato a seguito dell'espansione demografica e della crescita industriale, ma è sempre più diffuso anche in aree sottosviluppate. L'uso di alte ciminiere per ridurre l'inquinamento locale ha infatti paradossalmente contribuito alla diffusione delle deposizioni acide con il rilascio di gas in circolazione atmosferica. Generalmente la deposizione avviene ad una notevole distanza sottovento rispetto ad i luoghi di emissione, le zone montane tendono a catturare la frazione maggiore della deposizione, coerentemente con le maggiori precipitazioni a cui sono soggette queste regioni; Un esempio di questo fenomeno di dispersione atmosferica è il basso pH della pioggia che cade in Scandinavia, rispetto ad i valori delle emissioni locali.

Effetti

Gli effetti delle deposizioni acide coinvolgono diversi livelli, sono stati riscontrati effetti negativi sulle foreste, acque dolci e terreni, su insetti acquatici e più in generale sulle forme di vita acquatiche e vegetali, sulla salute umana ed anche a livello urbanistico danneggiando edifici sia moderni che storici.

A livello delle acque superficiali, gli animali acquatici, vengono a ritrovarsi in un ambiente il cui pH risulta più basso in concomitanza ad una maggior concentrazione di alluminio nelle acque superficiali, ciò causa danni ai pesci ed altri animali acquatici, il pesce in oltre entra nella catena alimentare, danneggiando così anche gli animali che se ne nutrono, uomo compreso; A pH inferiore a 5 le uova della maggior parte dei pesci non si schiudono e pH inferiori a 5 possono arrivare ad uccidere anche pesci adulti; All'aumentare dell'acidità di laghi e fiumi la biodiversità si riduce; Laghi e fiumi risultano particolarmente interessati dai fenomeni di piogge acide, in quanto luoghi dove naturalmente defluiscono le precipitazioni (trascinando con se anche la frazione acida), che li vi si accumulano, sono state identificate diverse morie di animali acquatici imputate all'acidificazione di fiumi e laghi. La misura in cui le piogge acide contribuiscono, direttamente od indirettamente, all'acidificazione di laghi e fiumi dipende dalle caratteristiche del bacino stesso, i bacini riforniti da sorgenti o fiumi sotterranei, a seguito dell'azione filtrante del terreno, risentono meno dei bacini aperti che invece ricevono acqua dal dilavamento delle colline circostanti, secondo le analisi dell'EPA, dei laghi e corsi d'acqua presi in esame, le piogge acide hanno causato l'acidificazione nel 75 % dei laghi acidi e circa nel 50 % dei flussi acidi, tuttavia l'acidificazione del 25% di laghi e di poco meno del 50% dei fiumi non sembra correlata alle precipitazioni.

A livello del terreno la biologia e la chimica dei suoli possono essere seriamente danneggiate dal fenomeno di acidificazione; alcuni microbi non sono in grado di tollerare abbassamenti di pH e vengono uccisi, tale sterilizzazione del terreno colpisce anche i microorganismi saprofiti o simbionti con le piante arrivando anche a poter danneggiare o ridurre l'efficienza dei raccolti. Sempre a livello del suolo il processo di acidificazione mobilita gli ioni idronio ciò comporta la conseguente mobilitazione di sostanze tossiche come l'alluminio, inoltre la mobilitazione sottrae nutrienti essenziali e minerali come il magnesio al terreno. Ciò comporta che la chimica del suolo possa essere drasticamente alterata, in particolare quando cationi basici, come calcio e magnesio, vengono dilavati dalle piogge acide, danneggiando od uccidendo le specie sensibili, come l'acero da zucchero (Acer saccharum).

A livello della vegetazione le piante ad alto fusto possono essere danneggiate dalle piogge acide, ma l'effetto sulle colture alimentari è ridotto al minimo grazie all'applicazione di fertilizzanti per ripristinare i nutrienti persi; Le aree coltivate, possono essere cosparse anche con soluzioni tampone per mantenere il pH stabile, ma questa tecnica è in gran parte

29

inutilizzabile in caso di terre selvagge. In molte piante, come anche nel caso dell'abete rosso, le piogge acide alterano l'integrità strutturale, rendendo le piante meno tolleranti al freddo, le piante compromesse generalmente non riescono a superare i rigori dell'inverno.

A livello della salute umana è stata avanzata una diretta correlazione fra persone che vivono in aree soggette a deposizioni acide e danni alla loro salute.

A livello urbano la pioggia acida può anche danneggiare edifici e monumenti storici, soprattutto quelli edificati in rocce come il calcare e marmo, o comunque tutti quegli edifici contenenti grandi quantità di carbonato di calcio; Il danno diretto a queste strutture deriva dalla reazione che si innesca fra gli acidi portati dalle precipitazioni con i composti contenenti calcio nelle strutture. L'effetto di tale reazione può essere osservato su antiche lapidi, costruzioni o statue esposte alle intemperie; la pioggia acida aumenta anche il tasso di ossidazione dei metalli, in particolare il rame e bronzo.

Zone colpite

Le aree geografiche nelle quali è stato accertato un impatto ecologico significativo dovuto al fenomeno dell'acidificazione includono:

La maggior parte dell'Europa nord-orientale in particolare le aree corrispondenti all'attuale Polonia fino alla Scandinavia.

I territori orientali degli Stati Uniti e del sud-est del Canada.

(Brani selezionati da Wikipedia, voce “Piogge acide”, la cui scheda comprende gli aspetti più scientifici e le note)

16. Il degrado dei pascoli

Fao: l’insostenibilità degli allevamentiLa fonte è insospettabile, accusata com’è spesso di “sostenere l’insostenibile”, incoraggiando la diffusione degli allevamenti. La Fao, Organizzazione delle Nazioni Unite, per alimentazione e l’agricoltura, scavalca “a sinistra” gli ambientalisti e gli animalisti con il rapporto Livestock’s Long Shadow- Environmental Issues and Options (La lunga ombra del bestiame. Questioni ambientali e possibili opzioni). Il rapporto, redatto con il sostegno dell’iniziativa multi-istituzionale Lead (Livestock, Environment and Development), mostra come gli animali allevati siano un importante contributo ai maggiori problemi ambientali di oggi, e chiede azioni urgenti e importanti. Il guaio è che a livello mondiale la zootecnia aumenta più velocemente dell’agricoltura vegetale perché le persone consumano ogni anno più carne, latte e derivati del latte. La produzione mondiale di carne era pari a 229 milioni di tonnellate nel 1999/2001 e le proiezioni la danno per raddoppiata (a 465 milioni di tonnellate) nel 2050; il settore lattiero-caseario potrebbe passare nello stesso lasso temporale, da 580 a 1043 milioni di tonnellate. D’altro canto, l’allevamento da reddito, principale o integrativo, a 1,3 miliardi di persone e contribuisce per il 40% al reddito agricolo totale. Per molti agricoltori poveri nel Sud del mondo è anche una fonte di energia rinnovabile (per il lavoro nei campi) e il letame fertilizza le colture.Intanto, il bestiame produce globalmente più gas serra del settore dei trasporti: il 18% del totale, in termini di CO2 equivalente. Se si includono le emissioni legate all’uso dei suoli e al cambiamento nell’uso dei suoli, il settore zootecnico è responsabile del 9% della CO2 imputabile alle attività umane, e di una percentuale molto maggiore di altri gas serra:il letame esala infatti il 65% degli ossidi di azoto, il cui potenziale climalterante è 265 volte maggiore di quello della CO2. Inoltre, è

30

responsabile del 37% del metano da attività umane, in gran parte prodotto dal sistema digestivo dei ruminanti, e del 64% dell’ammoniaca, che contribuisce significativamente alle piogge acide. Il bestiame utilizza il 30% dell’intera superficie terrestre; si tratta di pascolo permanente ma anche del 33% dei suoli coltivabili, destinati a produrre mangimi per gli animali allevati, che come è noto, hanno un basso rendimento energetico-proteinico (in altre parole molto si perde nel passaggio tra proteine e calorie vegetali a proteine e calorie animali). Gli allevamenti sono tra i principali responsabili della deforestazione, ad esempio in America Latina dove il 70% delle ex foreste in Amazzonia sono stte rease al suolo e sostituite da pascoli.Dolenti anche i capitoli suolo e acqua. Il 20% dei pascoli sono stati impoveriti, compattati ed erosi dal sovrappascolo. La percentuale aumenta di parecchio nelle aree aride, dove una gestione inappropriata degli stock di animali allevati contribuisce all’avanzata della desertificazione.La filiera zootecnica è poi uno dei settori che più pesano sulla crescente scarsità di risorse idriche, contribuendo sia al loro prelievo che al loro inquinamento, soprattutto per le deiezioni animali, i residui di antibiotici e di ormoni, le sostanze chimiche provenienti dalle concerie, e a monte i fertilizzanti e i pesticidi utilizzati per irrorare le colture da mangime.Anche il sovrappascolo disturba i cicli biologici riducendo la capacità di ricarica degli acquiferi di superficie e di falda. Si ritiene che il bestiame sia la maggiore causa della contaminazione da fosforo e azoto nel mar della Cina meridionale, una tragedia per la biodiversità degli ecosistemi marini.Oggi gli animali da carne e da latte rappresentano il 20% della biomassa terrestre. E contribuiscono, con le loro esigenze, anche al declino della biodiversità: su 24 sistemi in crisi sottoposti ad analisi, per 15 il colpevole è lui, uno zoccolo o meglio tanti zoccoli o meglio chi li alleva e chi li nutre. Per non parlare delle malattie che passano agli umani. I rimedi suggeriti (e in discussione in questi giorni a Bangkok dove si svolge una riunione intergovernativa), sono molti: proibire il pascolo su aree fragili, risarcendo il mancato guadagno come servizio ambientale; migliorare la dieta animale per ridurre la fermentazione enterica e le emissioni di metano; creare impianti di biogas per riciclare il metano; migliorare l’efficienza dei sistemi di irrigazione e scoraggiare le concentrazioni di allevamenti vicino ai grandi centri. Sostiene la Fao che il costo ambientale per unità produzione zootecnica dovrebbe essere almeno dimezzato. Basterà? E basteranno quelle misure tecniche, se continua ad aumentare il consumo? (M.Correggia su “Il manifesto” del 6 dicembre 2006)

17. L’erosione del suolo

La metà dei suoli coltivabili è deteriorataUn suolo è deteriorato quando perde una parte delle sue funzioni, come quella di alimentare le piante, filtrare le acque o anche proteggere un’importante biodiversità. Dalle forme di degrado più lievi a quelle più gravi, il fenomeno colpisce circa 1964 miliardi di ettari, cioè più della metà delle superfici coltivabili del mondo. Sono state identificate quattro principali forme di degrado, tutte aggravate, se non provocate, dall’azione dell’uomo.La prima è l’erosione idrica, processo in cui l’acqua stacca particelle di suolo e le porta via.. Legata in gran parte al ruscellamento, quello delle acque piovane o delle acque di superficie, si aggrava con lo sfruttamento agricolo. La messa a coltura delle terre comporta infatti il loro prosciugamento, la diminuzione della vita biologica (organismi terricoli), o ancora la scomparsa della sostanza organica morta che le copriva. Tutti questi fattori impediscono una penetrazione ottimale dell’acqua nel suolo, il che fa aumentare il ruscellamento.Nel caso della erosione eolica, è per effetto del vento che il suolo si sfalda. Il processo riguarda soprattutto le zone peridesertiche, come le grandi pianure degli Stati Uniti, la frangia del Sahel e gli altopiani del nord della Cina. Anche in questo caso, lo sfruttamento della terra è un fattore aggravante: un suolo arato sarà più soggetto all’erosione, per poi essere portato via dal vento.

31

Un fenomeno a spiraleTerzo tipo di degrado, l’alterazione della composizione chimica del suolo, che può avere più forme. Ad esempio, l’assorbimento degli elementi minerali presenti nella terra coltivata, (azoto, fosfato, potassio…) provoca una diminuzione della sua fertilità, se non si compensa con l’apporto di concimi. Ugualmente, l’acidificazione di un suolo (acidità naturale prodotta dalla crescita dei vegetali) ne diminuirà il rendimento se non viene riequilibrata.La salinizzazione (accumulazione di sale) è un altro esempio di alterazione chimica, provocata questa volta dall’utilizzazione di acqua leggermente salata per l’irrigazione. Infine, lo scarico di rifiuti industriali o il ruscellamento di acque cariche di elementi inquinanti possono alterare seriamente la composizione chimica di un suolo.Il quarto tipo di degrado è di natura fisica. Si spiega in particolare con il compattamento dei suoli, un fenomeno provocato dal passaggio di mezzi pesanti o, in minor misura dal calpestio degli animali. Ora , in un suolo compatto, le radici si svilupperanno con maggiore difficoltà. Il fatto più grave è che tutti questi fattori possono cumularsi. Una terra coltivata tende ad acidificarsi, a perdere sali minerali, compattarsi e a favorire il ruscellamento. A questo si aggiunge la deforestazione (nei tre quarti dei casi connessa all’espansione agricola), che aumenta anch’essa il deterioramento dei suoli accelerandone l’erosione. (…) Così, ogni anno, milioni di ettari spariscono, diventando inutilizzabili per l’agricoltura o perdendo le loro funzioni positive di depurazione delle acque, regolazione dei corsi d’acqua o accumulo di carbonio.Il livello del degrado dipende anche dalla natura del suolo (sabbioso, argilloso,….) e dalla sua posizione, a seconda che sia sottoposto a vento, umidità, ecc. Influisce anche il tasso di concentrazione della popolazione, così come il livello di reddito. Infatti, i paesi in via di sviluppo sono più colpiti rispetto agli altri, come in tutti i luoghi in cui i contadini non hanno i mezzi finanziari e tecnici per limitare gli effetti dell’erosione o della perdita di minerali. Tuttavia è possibile migliorare la qualità del suolo utilizzando tecniche che mirino ad un loro utilizzo sostenibile, invece che al massimo rendimento. Così la calcinazione (apporto di un ammendamento minerale basico che neutralizza l’acidità del suolo), il drenaggio, il terrazzamento o la coltivazione sotto copertura vegetale (il mais seminato in un campo di fagioli in Brasile).Per finire, un barlume di speranza viene dalla direttiva quadro per i suoli, emanata nel settembre 2006 dalla Commissione Europea. Se venisse adottata dalle altre istituzioni europee, sarebbe il primo strumento legislativo a livello europeo che miri a proteggere l’ambiente naturale.

(Il testo completo ne “L’Atlante per l’Ambiente”, Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con mappe e grafici)

18. L’inquinamento dell’acqua

Arsenico e vecchi rubinettiIn Italia sono 128 i comuni di sei regioni (Campania, Lazio, Lombardia, Toscana, Trentino Alto Adige,Umbria), nei quali la concentrazione di arsenico nelle acque supera la soglia di sicurezza,

fissata dall’OMS in 10 microgrammi per litro. E l’arsenico è cancerogeno e causa diabete, ipertensione e malformazioni. In attesa che l’acqua sia bonificata, ciascuno può tentare di proteggersi attraverso la dieta, come dimostra l’American Journal of Epidemiology: più tuberi e vegetali come le zucche e la papaya, che contengono selenio, vitamina A e acido folico, sostanze protettive. (A. Codignola, in L’Espresso)

Lazio. Deroga UE per l’arsenico dai rubinetti

32

La commissione Europea ha concesso la deroga chiesta dalla Regione Lazio per il tasso di arsenico contenuto nell’acqua potabile. Da oggi e fino al 31 dicembre 2012, il limite massimo ammesso passa da 10 milligrammi per litro a 20 milligrammi/litro. “I cittadini subiscono gli effetti dell’arsenico che, è bene ricordarlo, si accumula nell’organismo, da molto tempo prima dell’entrata in vigore della direttiva europea nel 2003. Siamo convinti, quindi, che nonostante la deroga arrivata da Bruxelles l’emergenza non sia finita e sia necessario intervenire subito. Ma non ci sembra sia questa l’intenzione del centro destra”, ha commentato il Presidente dei Verdi del Lazio Nando Bonessio. (Sul Corriere della Sera del 26 marzo 2011)

19. L’inquinamento da pesticidi, fertilizzanti e altri prodotti chimici

Rose magnifiche, per tutti. Ma chi le coltiva, sugli altopiani dell’Ecuador, ne ha un’idea diversa. Veleni, sfruttamento, malattie professionali nascosti dietro gli splendidi petali.

Rosa fresca. Aulentissima?“Mi spiace, ma nella floricoltura circolano troppi soldi e interessi perché io possa espormi così, mondialmente, in una intervista; ci tengo troppo alla famiglia e al mio lavoro”. Il professor Emilio Granda, grigio burocrate latino americano, è sbrigativo e ci congeda rapidamente dal suo ammuffito ufficio nell’Istituto agrario di Cayambe, di cui è preside. La scuola è circondata da coltivazioni intensive di fiori; e i suoi studenti, che vi svolgono talvolta periodi di tirocinio, denunciano frequenti malesseri di varia natura.Intorno alla cittadina di Cayambe, sull’altopiano andino, ai piedi del ghiacciaio del vulcano omonimo, si concentra un terzo delle piantagioni di fiori dell’Ecuador. Sulla linea equatoriale, a 2800 metri d’altitudine si producono le condizioni di luminosità e temperatura ideali per la crescita delle più belle ( e più costose) rose del pianeta. Le serre floricole si perdono a vista d’occhio. “Una volta erano tutti campi coltivati e vi pascolava il bestiame, ci indica sconsolato Manuel Tutillo, giovane leader della comunità “Josefina” di Cayambe. “Certo, hanno portato tanta occupazione ma anche un sacco di problemi”. Non sono proprio tutte rose e fiori.In pochi anni, partendo da zero, l’Ecuador è diventato il secondo esportatore di fiori (per i due terzi rose) dell’America latina; un business da 350 milioni di dollari, superato solo da petrolio e banane e che ha scavalcato il cacao. Ma una tale performance, per un prodotto così delicato, è stato possibile solo con un impiego massiccio di organo-fosfati e pesticidi vietati; gli stessi che, ci fa notare il tossicologo Patricio Ortiz, di Quito, “esordirono come armi chimiche nelle guerre di Corea e del Vietnam e oggi entrano nella nostra agricoltura per le vie del mercato nero”. Se si pensa che solo 42 delle quasi 400 aziende agricole ecuadoriane sono certificate ambientalmente dal Flower Label Program (Flp), si fa in fretta a capire come il 65% dei lavoratori della floricoltura evidenzi disturbi di varia gravità per le fumigazioni applicate sistematicamente all’interno delle serre.Guardie armate Le piantagioni sono recintate e sorvegliate da guardie armate; l’accesso in quelle non certificateci è stato ripetutamente negato; impossibile entrare. Per parlare di salute abbiamo allora riunito una dozzina di lavoratori di differenti imprese nella sede del Iedeca, una Ong locale che si occupa di sviluppo locale sostenibile nelle aree indigene. Tutti riferiscono di mal di testa, nausea, dolori muscolari e alle articolazioni, di irritazioni agli occhi formicolii e senso di spossatezza. Margarita Fonte, indigena, raccoglitrice veterana, ci racconta: “Il più delle volte siamo senza mascherine e dobbiamo tapparci naso e bocca con i vestiti”; mentre il giovane Segundo Sopalo dopo quattro anni si è licenziato: “Mi toccava fumigare senza scafandro, col puzzo e gli indumenti impregnati di prodotti chimici”.“I sintomi riportati sono effetto dell’esposizione agli organo-fosfati, che colpiscono tutti i sistemi dell’organismo umano; e non ci sono medicine possibili; l’unica cura, quando

33

l’intossicazione si cronicizza, è andarsene”, certifica il dottor Ortiz. Ma come, se un altro lavoro non lo trovi? “Tocca resistere”, conclude rassegnata Juana Salcedo, altra anziana operaia.Il dottor Ortiz ci parla poi di disfunzioni sessuali, di elevati indici di aborti e di malformazioni genetiche. Come per le sorelle Irma e Maribel Quimbiamba, ragazze madri poco più che ventenni, che incontriamo con la loro mamma in un umile casetta della periferia di Cayambe, piena di poveri mobili accatastati in attesa, chissà, di nuovi mariti. Le piccole che hanno in braccio sono nate una con un ulcera all’occhio (risolta col trapianto della cornea) e l’altra con vesciche e bruciature su tutto il corpo. Le sorelle Quimbiamba hanno avuto la fortuna di poter cambiare impresa e di essere state assunte da una di quelle con il marchio verde Flp, dove si applicano solo fitofarmaci consentiti, secondo severe norme di protezione (e periodici esami del sangue).Viene da chiedersi allora se siano almeno pagati dignitosamente i 60.000 occupati della floricoltura dell’Ecuador.Ma anche qui il quadro è inquietante. La paga base in tutto il settore è di un dollaro all’ora. Ciò che fa la differenza nelle aziende con il marchio verde Flp, fino a quasi raddoppiare il salario, è il puntuale pagamento di straordinari, indennità varie, premi, oltre ai servizi di mensa e trasporto. Nel caso migliore, si arriva a non più di 250 dollari al mese, ben al di sotto del paniere dei generi di base fissato (nell’Ecuador dollarizzato) in 420 dollari per famiglia.Ma al peggio non c’è mai fine. Alla comunità “Josefina”, settanta famiglie che vivono nelle floricolture, incontriamo fuori orario un gruppetto di operai e operaie per parlare di condizioni di lavoro nelle aziende non certificate. Esordisce Manuel Farinango: “ Devi tagliare o selezionare un certo numero di rose all’ora; se non ce la fai ti affibbiano multe da 3 a 10 dollari, altrimenti ti fermi oltre l’orario fino a che non raggiunto l’obiettivo”. Felisa Quinbulco iporta invece che dove lavora lei “se non fai quel che dice il padrone ti insulta e ti prende a calci in culo”. Lourdes Cuellar dal canto suo già vede arrivare l’epoca di San Valentino: “Ci toccherà lavorare fino alle due-tre di notte per poi riprendere alle sette del mattino; una rosa che da voi è motivo di gioia , per noi vuol dire non vedere figli e marito per giorni”. Timida e in disparte, la giovane Carmen Quishpe ci racconta di come sia stata licenziata dopo essere rimasta incinta.Arbitrio totale, insomma. E come se non bastasse, in tempi di globalizzazione sono arrivate anche le agenzie interinali che forniscono personale alle piantagioni con contratti fino a tre mesi rinnovabili; come per il nostro Manuel Farinango. In tal modo le aziende di rose non devono più rispondere di nulla. (…)

Il fiore globale (…) Dall’Ecuador proviene l’8% delle rose importate in Italia ( a sua volta seconda produttrice europea dopo l’Olanda). Una rosa ecuadoriana dal momento del taglio (se viene rispettata la catena del freddo) dura fino a tre settimane. Le aziende produttrici la vendono a circa 35 centesimi di dollaro, dichiarando un guadagno intorno al 20 %. In tre-cinque giorni (passando dall’importatore al grossista) le rose arrivano ai nostri fioristi che le vendono fra i 3 e i 6 euro ciascuna. Al momento non ci sono norme che impongano informazioni sulle aziende floricole di provenienza (…) (G. Beretta, il testo integrale sul Corriere della Sera del 14 febbraio 2006)

Ogm, l’erbicidio perfettoPensate a 69 milioni di ettari di coltivazioni generosamente irrorate con un potente diserbante. Adesso provate a immaginare che il suddetto diserbante sia tossico, sia per gli animali sia per l’uomo. Beh, non dovete fare un grosso sforzo, perché, si sa, la realtà può superare di gran lunga l’immaginazione.I 69 milioni di ettari in questione sono quelli coltivati con soia transgenica Roundup Ready, soprattutto negli Stati Uniti e in vari paesi dell’America latina, mentre l’erbicida di cui sopra è il Roundup della Monsanto, copiosamente riversato su quelle coltivazioni per eliminare le erbe

34

infestanti. La Monsanto vende il pacchetto completo: da una parte il diserbante Roundup e, dall’altra, la soia geneticamente modificata per essere “pronta” (da qui il nome di Roundup Ready) a resistere all’erbicida, in modo che questo, sopprimendo le erbacce, non disturbi le piante coltivate. Ora però, dopo aver pensato al mondo vegetale, bisognerebbe forse preoccuparsi anche di quello umano e animale, visto che alcuni dei suoi esponenti (bambini nati da madri esposte all’irrorazione dei campi con glifosato, il principio attivo del diserbante Roundup, nonché progenie di rane e galline, non si sono rivelati altrettanto “pronti”. Secondo uno studio appena pubblicato da Andres Carrasco, direttore del Laboratorio di Embriologia Molecolare presso la Facoltà di medicina di Buenos Aires e membro del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il glifosato è causa di malformazioni cranio-facciali negli embrioni di rane e polli, anche dopo esposizioni a dosi inferiori a quelle utilizzate nei campi e comparabili con il livello di residuo massimo autorizzato in Europa.Non è la prima volta che il glifosato viene associato a varie forme di tossicità e a difetti congeniti. Malformazioni simili a quelle riscontrate da Carrasco e dai suoi collaboratori, sarebbero infatti già state riscontrate in neonati di donne esposte alle irrorazioni con Roundup in alcune aree rurali dell’Argentina, come pure alterazioni del sistema endocrino in cellule umane a concentrazioni 800 volte inferiori ai limiti dei residui presenti in alcune coltivazioni transgeniche usate per l’alimentazione animale negli Usa. Insomme, un lungo elenco di segnalazioni di effetti tossici, alterazioni, malformazioni che ha accompagnato negli anni la storia del glifosato e che adesso è stato raccolto in un report,”GM Soy: Sustainable? Responsible?”, realizzato da un pool di Università tra cui il King’s College London School of Medicine di Londra e le Università di Buenos Aires e San Paolo del Brasile, che hanno passato in rassegna numerosi lavori scientifici e testimonianze documentate sulla tossicità del glifosato, tra cui, appunto, lo studio di Carrasco. Le aziende produttrici, però, hanno sempre garantito l’innocuità del prodotto per la salute umana e l’ambiente. “Una delle principali ragioni per cui il glifosato è stato ritenuto quasi innocuo – spiega Fabrizio Fabbri, direttore scientifico della Fondazione Diritti Genetici – risiede nella sua azione biocida, che si espleta attraverso l’interferenza con un enzima assente negli animali, uomo incluso. Una visione riduzionista che non tiene però evidentemente conto di altri meccanismi metabolici potenzialmente pericolosi per la salute umana e animale, che potrebbero essere alla base dei danni documentati in diverse ricerche scientifiche. Per questo serve prudenza”Visto che il 95% della soia transgenica e oltre il 75% degli altri Ogm sono quotidianamente irrorati dal diserbante, potrebbe non essere una cattiva idea.(S. Galasso, su “Il manifesto” del 29 settembre 2010)

La lista dei veleniUn altro nome si aggiunge alla lista dei veleni riconosciuti. E’ l’endosulfan, insetticida e acaricida a base di organoclorine, uno dei più tossici tra i pesticidi agricoli attualmente in circolazione: a partire dal 2012 la vendita e l’uso saranno vietati in tutto il mondo. Così hanno deciso la settimana scorsa i rappresentanti dei 127 paesi aderenti alla “Convenzione di Stoccolmasugli inquinanti persistenti organici”, riuniti a Ginevra. L’endosulfan diventa così il ventiduesimo nome nella lista dei più pericolosi persistent organic pollutants banditi in tutto il mondo.La proposta di bandire l’endosulfan era stata avanzata per la prima volta nel 2007: allora 50 paesi l’avevano già vietato, oggi sono diventati 80 (tra cui tutta l’Unione Europea e gran parte dei paesi industrializzati). “La decisione di metterlo al bando è un omaggio a tutti quegli agricoltori, alle comunità contadine, e agli attivisti di tutto il mondo che hanno sofferto per l’endosulfan e si sono battuti per questo risultato”, ha commentato Meriel Watts, consigliere scientifico della rete Pesticide Action Network Asia e pacifico. Come per molte altre sostanze

35

chimiche ci sono voluti anni di osservazioni, numerosi casi di contaminazione collettiva e grandi battaglie perché la sua tossicità fosse studiata e infine provata in modo scientifico.L’endosulfan è (o è stato) molto usato in tutto il mondo in un’ampia gamma di colture, e in particolare nelle coltivazioni di cotone, caffè, the. E’ una sostanza neurotossica assai pericolosa sia per chi la usa, sia per chi vive nelle vicinanze delle zone trattate, in bambini e adulti : provoca nausea, vomito, convulsioni, in alte dosi può provocare danni permanenti al cervello e dare perdita di coscienza o perfino la morte. Poi ci sono i danni a lungo termine: perché è anche persistente (ovvero rimane a lungo nell’ambiente), si bioaccumula (si accumula nei tessuti degli organismi viventi) ed è ormai accertato che interferisce con il sistema endocrino: quindi provoca danni al sistema riproduttivo e allo sviluppo, sugli animali e sugli umani, con difetti congeniti.Solo nel giugno 2010 l’Ente per la protezione ambientale degli Stati Uniti ha vietatol’uso dell’endosulfan in tutta la nazione, dopo aver concluso che “pone un rischio inaccettabile ai lavoratori agricoli e alla vita naturale, e può persistere nell’ambiente”. A oggi però resta molto usato in altri paesi, tra cui la Cina e soprattutto l’India: ed è qui che la decisione della Convenzione di Stoccolma potrebbe segnare una svolta. L’India è forse uno dei paesi che ha sperimentato la più grande tragedia da endosulfan. In Kerala, dove era usato a piene mani nelle piantagioni di noccioline, nel 2001 è emerso un caso impressionante di esposizione di massa, con migliaia di lavoratori contaminati e migliaia di bambini nati con malformazioni e danni al cervello: la situazione è stata definita “seconda per dimensioni solo alla tragedia del gas di Bhopal”. Oggi, il Kerala è uno dei due stati indiani in cui l’endosulfan è vietato. E però l’India nel suo insieme resta tra i più grandi utilizzatori e anche uno dei maggiori produttori mondiali (l’endosulfan è fuori da brevetto; è prodotto da bayer CropScience, dall’israeliana Makhteshim e da tre imprese indiane: Excel Crop Care, Hindustan Insecticide Ltd e Coromandal Fertilizers, che ne sfornano 4500 tonnellate annue per uso interno e altre 4000 tonnellate per l’export. Finora le associazioni industriali indiane si sono opposte con successo ai tentativi di vietare l’uso dell’endosulfan. Per questo la decisione presa a Ginevra è vista qui come una vittoria da tante associazioni ambientaliste e per la salute popolare.(P. Desai su “Il manifesto” del 10 maggio 2011)

Cocomeri Più di 45 ettari di campi di cocomeri esplosi vicino Nanchino, nella Cina orientale, hanno richiamato l’attenzione sull’abuso di additivi chimici nell’agricoltura cinese. La rottura dei frutti sarebbe dovuta all’abuso di forchlorfenuron, un acceleratore della crescita(Tratto da “Internazionale” del 20 maggio 2011)

20. L’estinzione delle specie animali e vegetali

Ricerca USA: il tasso di sparizione delle specie vegetali e animali è oggi mille volte superiore al passato e colpisce ogni angolo del pianetaMondo verde pallido, le piante sono sempre menoLa loro estinzione altera l’equilibrio degli ecosistemi da cui dipende la vita dell’uomo

Il tasso di estinzione delle specie animali e vegetali oggi è mille volte più veloce rispetto a quello storico. La biodiversità nel mondo è progressivamente minacciata. Riscaldamento globale, sottrazione degli habitat, impatto di altre attività umane, sono tra le cause che determinano questo impoverimento Ma cosa significa perdere specie vegetali per il funzionamento degli ecosistemi da cui dipendono gli esseri umani per beni e servizi? Gli ecosistemi del nostro pianeta possono sopravvivere e mantenere le loro funzioni primarie con un numero di specie più limitato?

36

Se lo domandano sulle pagine dell’American Journal of Botany molti degli esperti mondiali in materia di biodiversità. Utilizzando i dati di circa 400 esperimenti, gli autori hanno trovato prove schiaccianti che indicano come l’effetto netto della perdita di specie (piante in ambienti terrestri e alghe in ambienti acquatici) riduca la quantità complessiva di biomassa (cioè la produzione della materia che costituisce le piante. Non è solo il fatto che vengono a mancare molte specie, è che la loro mancanza influenza tutto il sistema. “Questa sintesi fornisce la prova inequivocabile che il declino della biodiversità vegetale riduce la biomassa delle piante negli ecosistemi naturali, e degrada la loro capacità di utilizzare le sostanze nutritive biologicamente essenziali dal suolo e dall’acqua, di produrre ossigeno e di rimuovere C02 dall’atmosfera”, afferma Bradley Cardinale, ecologo dell’Università del Michigan. E’ pur vero che ci sono molte piante più produttive ed efficienti della media delle specie, ma gli autori hanno visto che una comunità maggiormente diversificata è decisamente più produttiva di una comunità fatta solo da specie “migliori” ad alto rendimento. “Le comunità vegetali, -dicono- sono come una squadra di calcio che per vincere ha bisogno delle “stelle”, di attaccanti che possono segnare, ma è necessario anche un gruppo di giocatori di supporto che possono passare, difendere e tendere insieme all’obiettivo”. Su 375 osservazioni, il 37% ha suggerito che policolture diversificate hanno consentito di raggiungere una biomassa maggiore rispetto a quella sviluppata in una monocoltura da una specie singola sia pur a più alto rendimento (per esempio una specie che avrebbe prodotto un maggior raccolto o più legno). E un altro studio, frutto dei risultativi 44 esperimenti in tutto il mondo, che simulavano l’estinzione di specie vegetali, ha dimostrato che gli ecosistemi con meno specie producono fino al 50% in meno di biomassa vegetale rispetto a quelli con un livello più naturale di diversità. Gli autori spiegano che ci sono due motivi per cui le comunità altamente differenziate sono più produttive. Parte della spiegazione è che quando sono presenti tante specie di piante, la probabilità che tra di esse vi siano”super-specie” (cioè altamente produttive ed efficienti a regolare i processi ecologici) è maggiore. L’altra ragione che molte specie svolgono ruoli unici e complementari nel loro ambiente. Questa “divisione del lavoro” permette alle comunità diversificate di essere più produttive. Gli scienziati aggiungono: “Noi non facciamo una questione etica o estetica. Dobbiamo iniziare a dare risposte concrete e veloci sul numero e sul tipo di specie che sono necessarie per sostenere i processi di base per la vita umana. Per esempio: in che modo la biodiversità incide sulla resa delle colture alimentari, il controllo dei parassiti e delle malattie, la depurazione delle acque o la produzione di legname, fibre e biocarburanti? Una cosa è certa:l’estinzione di specie vegetali compromette la produttività che supporta gli ecosistemi della Terra”. Ma uno studio francese aggiunge un dato singolare: la presenza di cervi, caprioli e cinghiali, animali di taglia cospicua in forte espansione (anche in Italia), contribuisce anche ad aumentare la biodiversità vegetale, in quanto forti dispersori di semi. Per esempio il fiore Cinoglosso (Cynoglossum officinale) non era presente nel 1976 ma poi è apparso nel 1981 e da allora si è diffuso ampiamente dove i grandi mammiferi forestali sono più rappresentati. (Massimo Spampani sul Corriere della Sera del 19 aprile 2011, con foto di piante)

21. La perdita di una specie causa l’interruzione delle catene alimentari

Una catena alimentare o catena trofica è l'insieme dei rapporti tra gli organismi di un ecosistema. Ogni ecosistema ha una sua catena alimentare e, siccome un individuo può appartenere a più di una catena alimentare, si crea una vera e propria rete alimentare.

Se degli organismi hanno lo stesso ruolo nella catena alimentare, appartengono allo stesso livello di alimentazione. Ad esempio al primo livello ci saranno i produttori primari, al secondo gli erbivori (o consumatori primari)...

37

Il trofico dei nutrienti, ovvero l'assunzione della biomassa di organismi da parte di altri organismi, comporta una dispersione di energia: per ogni passaggio della catena, circa 80-90% dell'energia potenziale viene dissipata sotto forma di calore; di conseguenza, catene alimentari lunghe (costituite da numerosi livelli trofici) dovranno avere alla base una copiosa produzione primaria. Lo stesso fattore comporta una sempre minore popolazione di una data specie, tanto più elevato è il livello trofico a cui essa appartiene. Il passaggio di energia può avvenire anche tra organismi appartenenti allo stesso livello trofico.

Le catene alimentari si dividono in:

1. catene alimentari di pascolo: vegetali ---> erbivori (o consumatori primari) ---> carnivori (o consumatori secondari)

2. catene alimentari di detrito: materia organica morta ---> microrganismi ed altri consumatori di detriti (detritivori) ---> loro predatori

La qualità delle risorse è importante almeno quanto la quantità di energia indirizzata nelle differenti catene alimentari (es. la qualità di un estratto fotosintetico ottenuto da un fungo micorrizico è molto più elevata di quella delle foglie morte in termini di facilità di assimilazione). Tutte le catene alimentari possiedono un feed-back in cui i consumatori trasportano spesso nutrienti o prodotti ormonali che possono incidere sulle risorse della pianta. È una sequenza che parte sempre dai produttori.

I produttori

Alla base di ogni catena alimentare, ci sono i produttori, ossia degli organismi autotrofi, ovvero capaci di organizzare i composti chimici nel terreno (o nell'acqua), così da produrre autonomamente riserve alimentari (zuccheri, amidi). Questo processo è attuabile tramite l'energia fornita dalla fotosintesi clorofilliana. I produttori sono infatti gli unici esseri viventi che riescono a trasformare l'energia solare (energia luminosa + energia termica) in energia chimica (energia di legame).

I consumatori

Dopo i produttori, ci sono i consumatori, ossia organismi eterotrofi non indipendenti nella produzione di cibo. Infatti questi organismi necessitano di mangiare altri organismi per assimilare sostanze nutritive. Nell'ambito dei consumatori si distinguono più livelli trofici, generalmente 3:

consumatori primari: erbivori che si cibano direttamente dei produttori; consumatori secondari: carnivori che si cibano di erbivori; consumatori terziari: carnivori che si cibano di carnivori.

Ognuno di questi ordini rappresenta un livello trofico.

Gli ordini di consumatori, comunque, sono virtualmente illimitati. La dispersione di energia ad ogni passaggio, però, comporta che la popolazione delle specie appartenenti a livelli trofici elevati sia sempre e comunque limitata (le aquile, poste al sesto livello trofico di una catena trofica alpina, hanno un territorio di caccia molto ampio proprio per questo motivo).

38

Una data specie può occupare più livelli trofici, a seconda della fonte di energia alimentare di cui si nutre. Gli onnivori, come gli orsi, non occupano un livello fisso, ma lo variano a seconda di cosa si cibano. Gli esseri umani, essendo gli unici in grado di decidere di cosa cibarsi - esistono infatti vegetariani, mangiatori di carne - non rientrano in questo tipo di classificazione; la parola onnivoro ha senso infatti solo se indica un animale che si nutre sia di produttori, sia di consumatori primari seguendo l'istinto (idem dicasi per i carnivori o gli erbivori).

I decompositori

I bioriduttori sono generalmente dei batteri che decompongono i resti animali e vegetali in sostanze riutilizzabili dai produttori. Hanno un ruolo molto importante perché determinando la decomposizione della materia organica, rimineralizzano le sostanze nutritive (specialmente azoto e fosforo) che sono riutilizzate dagli organismi autotrofi.

22. L’aumento della omogeneità genetica

Bestiame, a rischio estinzione il 20% delle razze.A suonare l’allarme è un recente rapporto della FAO, secondo il quale, delle oltre 7600 razze di animali da allevamento censite nella sua banca dati, 190 si sono estinte dai primi anni ’90 ad oggi e altre 1500 sono considerate in pericolo. Negli ultimi cinque anni sono andate perdute circa 60 razze bovine, ovine, suine, equine e avicole e, al ritmo attuale, ogni mese sta scomparendo una razza animale destinata all’alimentazione umana. Sotto accusa la globalizzazione del mercato zootecnico che, secondo la Fao, influisce negativamente sulla biodiversità. Il settore zootecnico contribuisce alla sussistenza di oltre un miliardo di persone ; da esso dipende la sopravvivenza di oltre il 70% delle popolazioni rurali povere. Inoltre, in termini economici, il settore zootecnico rappresenta attualmente circa il 30% del prodotto interno lordo agricolo dei paesi in via di sviluppo, una percentuale destinata a raggiungere circa il 40% nel 2030, a scapito dell’agricoltura vegetale, se è vero che , per ogni chilogrammo di carne bovina vengono consumati dai 9 agli 11 chili di mangimi, in buona parte composti da mais, soia e orzo, prodotti altrettanto adatti all’alimentazione umana. Ma questo è un altro discorso.I sistemi di allevamento tradizionali hanno bisogno della diversità biologica delle razze animali, per finalità ed impieghi multipli in grado di fornire servizi diversi, perché il pool genico animale esistente contiene risorse preziose per la sicurezza alimentare e lo sviluppo agricolo futuro, specialmente in condizioni ambientali difficili.I moderni sistemi di allevamento, invece, si basano sull’ottimizzazione delle caratteristiche di razze che rispondono alla richiesta dei mercati, raggiungendo si straordinari incrementi della produttività, ma riducendo la diversità genetica degli animali. Proprio come accade per le varietà dei semi in agricoltura. Solo 14 delle oltre 30 specie di mammiferi addomesticati (tra bovini, pecore, capre, maiali) e di pollame forniscono il 90% dell’alimentazione umana a base di carne, come scrive Irene Hoffmann, responsabile del servizio di produzione animale della Fao. Il documento dell’Organizzazione, curato da 150 esperti di 90 paesi, costituisce una prima bozza del rapporto sullo stato delle risorse zoo genetiche mondiali. The State of the World’s Animal genetic Resources, il primo studio globale sulla situazione delle risorse zoogenetiche, sulla capacità dei paesi di gestire questo patrimonio in modo sostenibile e sugli interventi indispensabili per arrestare le perdite. “Il mantenimento della diversità genetica animale – afferma Josè Esquinas Alcazar, segretario della Commissione Fao sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, consentirà alle generazioni future di selezionare lo stock genetico o di sviluppare nuove razze capaci di rispondere all’emergere di nuove sfide, come il cambiamento climatico, il sorgere di malattie e il cambiamento dei fattori socio-economici”.

39

E analizzando l’interdipendenza dei paesi in materia di risorse zoogenetiche, per Esquinas è fondamentale facilitare lo scambio continuo di queste risorse e il loro sviluppo, per far sì che vi sia una condivisione equa dei benefici da parte degli allevatori, dei selezionatori, degli operatori del settore, ma anche dell’intera umanità.Il testo definitivo dello studio-che fotografa la situazione con dati provenienti da 169 paesi e mette in evidenza l’importanza del settore zootecnico per l’agricoltura, sarà presentato a Interlaken (Svizzera), il prossimo settembre in occasione della Prima conferenza tecnica sulle risorse zoo genetiche, che dovrebbe concludersi con l’adozione di una strategia globale e di un piano di azione A livello mondiale per fermare la perdita di diversità genetica animale e migliorarne la gestione, lo sviluppo e la conservazione sostenibile.(Marizen, su “Il manifesto” del 14 marzo 2007)

22.La diffusione di organismi geneticamente modificati

Guarda un po’ chi osa sfidare il gigante OGM

(…) Le coltivazioni ogm nel mondo sono presenti in 16 paesi, su una superficie totale pari a due volte la Gran Bretagna. Sono soprattutto soia (62%), grano (21%), cotone (12%), colza (5%)66% è la quota di coltivazioni ogm degli Usa sul totale mondiale. Alle loro spalle l’Argentina c’è l’Argentina (23%), quindi il Canada (6%), la Cina (4%), il Sudafrica (0,3%), e l’Australia (0,1%)27% è l’incremento delle coltivazioni geneticamente modificate realizzato nell’ultimo anno nei paesi in via di sviluppo. Nuovi mercati sono l’India (per il cotone), la Columbia e l’Honduras40% è la crescita percentuale più prepotente del 2002: quella della Cina nel cotone transgenico. Pari al 51% delle coltivazioni nazionalidi cotone, ha coinvolto 5 milioni di piccoli agricoltori(Tratto da articolo di V. Zincone su “Sette”, 2002)

Il Consiglio di Stato da incredibilmente il via libera alla coltivazione di un mais Monsanto. Esultano le lobby, insorgono gli ecologistiIl ministro Zaia a colpi di vanga contro una sentenza transgenica

Salvate il ministro Zaia. O almeno non lasciatelo solo, tutto compresso com’è tra un governo filo ogm (il suo) e una regione pro bio tech come il Veneto (la sua) che a fine marzo potrebbe sceglierlo come governatore. L’uomo, dicono gli ambientalisti, sembra essere in buona fede e anche in queste ore si sta battendo a colpi di vanga contro le lobby pro ogm che ormai dilagano.Come se non bastassero le tonnellate di redazionali mascherati da articoli che da mesi seminano propaganda sul Corriere della Sera e su Il Sole 24 Ore. Il colpo più basso è stato inferto l’altro giorno da una incredibile sentenza del Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso presentato da un “contadino”, tal Silvano Dalla Libera, che tra le altre cose è anche vicepresidente di Futuragra e adesso si spaccia per “il primo agricoltore italiano che potrà seminare Ogm” 8oggi insieme ad altri mandanti del grave attentato al sistema agricolo italiano, festeggerà a Milano con una conferenza stampa). Cosa dice la sentenza? Che il ministro Zaia deve autorizzare la coltivazione di semi modificati già approvati a livello comunitario, e senza attendere la decisione delle linee guida che ogni paese è tenuto ad elaborare per stabilire le regole della coesistenza tra agricoltura Ogm e agricoltura tradizionale o biologica (principio cardine: chi inquina paga, perché gli Ogm infestano i campi limitrofi e questo è un fatto. Queste linee guida, ipotizzano gli ambientalisti, già esistono,

40

solo che a due mesi dalle elezioni regionali nessun governatore potrebbe permettersi di sostenere la linea pro biotech che sottotraccia ispira la filosofia di questo governo. Va precisato che l’unico Ogm autorizzato per la coltivazione in Europa è il mais Mon 810 di Monsanto. Prodotto con una fama pessima. Oltre ai test che ne dimostrano la pericolosità (tanto che Francia, Austria, Ungheria, Germania, Grecia e Lussemburgo lo hanno bandito invocando la clausola di “salvaguardia”), la sua autorizzazione è scaduta nel 2008.Il ministro Zaia la sua parte la sta facendo, e per questo riscuote gli applausi del variegato sottobosco ecologista. “Rispettiamo la sentenza del Consiglio di Stato, ma ricorreremo in tutte le sedi. Faremo opposizione perché siamo convinti di rappresentare i tre italiani su quattro che non vogliono Ogm”. Posizione che sfonda “a sinistra” si fa per dire. Francesco Ferrante (ala ecologista isolata del PD) invita il ministro ad appoggiare un emendamento al decreto Milleproroghe che propone di sospendere la “sperimentazione in campo aperto” e “l’avvio delle coltivazioni Ogm prima dell’adozione dei piani di coesistenza”. Nello di Nardo (IDV), parla di “sentenza devastante che attenta alla biodiversità e al nostro ricco patrimonio agroalimentare”. E Mario Capanna, presidente della Fondazione Diritti Genetici, approfittando della generosa ospitalità che il Giornale gli concede ogni lunedì, si permette il lusso di importunare il padrone di casa, cioè Berlusconi: “Illustre Presidente, sugli Ogm il governo la pensa come Zaia?”.Ma attenzione, la pressione nostrana non basta. Perché non c’è argomento transnazionale come questo. Domani, e dopo, per esempio, a Bruxelles si riuniscono i paesi produttori di mangimistica non-ogma (l’Europa importa 30 milioni di tonnellate di soia all’anno). Tema fondamentale, poiché le lobby pro biotech si ostinano a dire che già pggi i nostri animali si cibano di Ogm (ed è vero) per cui non avrebbe alcun senso vietarli. Ma il “cavallo di Troia” non sta in piedi. Primo: un conto è importare i semi, un conto è coltivare un campo. Secondo: per sfamare le mucche che danno il latte al consorzio del Parmoggiano Reggiano , peer esempio, basterebbe cambiare fornitore, servendosi dai paesi che garantiscono prodotti liberi da Ogm.(L. Fazio, 2 febbraio 2010)

Piante di grano transgenico, con un gene che produce proteina insetticida, contaminano la falda acquifera. Una ricerca pubblicata nel Proceedings of the National Academy of Science, grano ogm che produce pesticidi nelle proprie fibre sta contaminando le riserve idriche nel Midwest Usa, secondo uno studio condotto dai ricercatori del Cary Institute of Ecosystem Studies e pubblicato nel Proceedings of the National Academy of Science. La notizia compare nella pubblicazione svizzera Ec Planet.Lo studio è stato condotto sul grano transgenico che porta un gene dai batteri del Bacillus thuriengensis (Bt) che produce una proteina insetticida, la Cry1Ab. I ricercatori dopo aver testato 217 fiumi dell'Indiana per cercare tracce di Cry1Ab l'avrebbero trovata nel 13 % dei corsi d'acqua. La notizia grave è che i fiumi contaminati si trovano distanti 500 metri dalle coltivazioni. E negli stati del Midwest come Indiana, Illinois e Iowa, dove è massiccia la produzione del mais, il 90 % dei fiumi e corsi d'acqua si trova a 500 metri dalle coltivazioni. Di conseguenza vi sarebbero 159.000 miglia di corsi d'acqua a rischio di contaminazione da BT.

"La nostra ricerca aggiunge, al crescente corpo di evidenze, che i derivati del raccolto di mais possono essere dispersi attraverso una rete di fiumi e che i composti associati ai raccolti ogm, come le proteine insetticide, possono entrare nei corsi d'acqua adiacenti" ha spiegato la ricercatrice Emma Rosi-Marshall. ( da Ecologia politica, 5 marzo 2011)

Antimafia: pericolo dall’erba ogmIl procuratore nazionale antimafia Piero Grasso lancia l’allarme-giovani sui rischi della marijuana caucasica, “geneticamente modificata dai narcotrafficanti per ampliare il principio attivo che ha effetti nuovi e pericolosi: bisognerebbe controllare questa sostanza intervenendo ai rave party dove

41

più elevato è il rischio della sua messa in circolazione”. Secondo Grasso lo stesso allarme riguarda le foglie di coca ogm. Ha spiegato: “Esperti delle tossicodipendenze hanno visitato in Russia persone che avevano fato uso di marijuana caucasica constatandone gli effetti deleteri”. Grazie alla genetica biologica i narcotrafficanti riescono a ottenere dai sei agli otto raccolti di coca l’anno, mentre prima ne facevano solo due.(Tratto dal Corriere della Sera del 1 dicembre 2009)

Patatrack-ogm

Commissione nuova, vita nuova, a partire dagli Ogm.Dopo 12 anni di moratoria, ieri l’esecutivo Barroso Bis ha riaperto le porte della UE agli organismi geneticamente modificati, rompendo una lunga stasi nelle autorizzazioni e facendo infuriare una buona parte del panorama politico europeo. Come ariete la super patata Amflora della BASF, benedetta dall’Efsa, l’Agenzia per la sicurezza alimentare europea di Parma, ma vista con un certo sospetto tanto dall’OMS, l’organizzazione mondiale della salute, quanto dall’Emea, l’Agenzia UE del farmaco. Oltre alla superpatata della multinazionale tedesca, per cui viene permessa la coltivazione per uso industriale e l’utilizzazione come mangime animale, via libera anche all’importazione e alla commercializzazione di tre specie di mais ogm della Monsanto – Mon 863, Nek603 e Mon 810 – utilizzabili tanto per l’alimentazione umana che per quella animale. Che si tratti di un vero e proprio strappo con il recente passato, di una nuova strategia aggressiva in un settore quanto mai sensibile per l’opinione pubblica, lo dimostrano non solo i fatti , ma anche le parole del maltese Joseph Dalli, nuovo commissario UE alla salute. L’obiettivo è una “revisione della normativa UE” sugli Ogm, in modo da lasciare ai 27 più spazio di manovra nella scelta se coltivare o meno prodotti biotech nel loro territorio. “Intendo procedere nella direzione indicata dalla Commissione precedente e dal Presidente Barroso, -ha affermato ieri Dalli- e da quando ho assunto questo incarico mi sono occupato prevalentemente di questo dossier”.Appare così chiaro che il cambio di stratega di ieri andava covando da mesi, solo che Barroso, in attesa di essere rieletto dal parlamento (in gran parte contrario agli Ogm) non poteva spingere prima per una decisione simile. Per una revisione della legislazione comunitaria ci vorranno più o meno un paio d’anni, ma già dall’estate, ha lasciato intendere Dalli, gli Stati potrebbero avere una maggiore autonomia decisionale. Dietro alla rapida decisione di ieri c’erano d’altronde anche le insistenze di Germani, Repubblica Ceca, Svezia e Olanda, che hanno spinto per settimane a favore della superpatata, in modo da poterla piantare già nella campagna 2010.La posta in palio supera però il mero valore di un raccolto ed acquista il peso di una vittoria importante per la lobby del biotech. La Commissione e i governi, - a favore sono anche la Spagna, prima per ettari coltivati a Ogm, Romania, Slovacchia, Polonia e Regno Unito – sentono il fiato dei campioni del settore, le tedesche Basf e Bayern, la svizzera Syngenta e le statunitensi Monsanto e Pioneer. E tra loro e la politica, si muove con successo l’universo di organizzazioni e lobby che patrocinano gli Ogm nei corridoi delle istituzioni UE. Su tutte EuropaBio, l’associazione delle industrie biotech , impegnate direttamente sul campo. Quindi c’è chi fa lobby per interesse indiretto come Coceral, i rappresentanti degli importatori e commercianti agricoli, la Fefac per i concimi, Fediol, attiva nel settore della trasformazione delle sementi per i biocombustibili, e la Aaf, fan la superpatata perché raccoglie i produttori di amido.L’amflora è infatti appetita perché ben più ricca di amido di quanto non lo siano le patate tradizionali, e, quindi, molto più conveniente per l’industria della carta, ma, e da qui nasce il coro dei no, presenta anche un gene “marker” che conferisce resistenza ad un antibiotico importante per la salute umana. Un dettaglio, che secondo la direttiva UE 2001/18 dovrebbe impedirne l’approvazione.“La Commissione cede una nuova volta alle esigenze delle multinazionali – attaccano i verdi del Parlamento UE – nel mercato esistono già delle patate sviluppate in maniera convenzionale con un alto tenore di amido: le modificazioni genetiche non sono quindi necessarie”. Sotto accusa anche il

42

sistema di decisione che alla fine, dopo anni di blocco tra i governi, lascia la Commissione libera di decidere, , come ha fatto ieri, prendendo una via che è considerata imprudente da una buona fetta dell’opinione pubblica europea.Dalli ribatte assicurando che la procedura è stata rispettata, che tutte le questioni scientifiche sono state scrupolosamente analizzate e che qualsiasi rinvio della decisione sarebbe stato ingiustificato. “Parliamo – ha affermato ancora il Commissario – di una semente, una patata, che ha pochi rischi di dispersione”, si tratta, ha concluso, di “innovazione responsabile”.Per chi non crede alle sue parole, c’è una via, quella della clausola di salvaguardia. Ogni governo può imboccarla per rifiutare la coltivazione di un Ogm sul suo territorio., l’hanno già fatto Austria, Germania, Francia, Lussemburgo, Grecia e Ungheria per il mais Monsanto Mon 810, l’unico predecessore della superpatata. Potrebbe invocarla ora l’Italia ( il cui ministro Zaia si è dichiarato contrario agli Ogm), sempre che a Bruxelles non si cambino anche le regole sulla salvaguardia.(A. d’Argenzio, su……del 3 marzo 2010)

23. La cementificazione di fiumi, coste e aree urbane

Minacce sulle isole, le coste e le fociSpeculazione immobiliare,erosione aggravata dalle conseguenze del cambiamento climatico, a sua volta dovuto ad eccessi di origine umana:il cemento avanza, il mare divora. Come dire che le zone costiere sono ad alto rischio

In Francia, secondo l’Institut Francais de l’Environnement (Ifen, Istituto francese per l’ambiente), l’erosione colpisce un quarto del litorale, cioè 1720 chilometri, in cui vivono sette milioni di abitanti. Questa cifra è in costante aumento. La delegazione interministeriale per l’assetto e la competitività (Dicact, che ha assorbito l’ex Datar) prevede che il litorale francese, entro il 2030, accoglierà 3,4 milioni di abitanti in più – rappresenta solo il 4% del territorio, ma attira il 10% della popolazione. In Europa, un quinto delle spiagge e delle falesie – cioè 20.000 chilometri – è colpito dall’erosione; i paesi più interessati sono Polonia, Lettonia, Cipro e Grecia. Nel mondo, isole coralline, foci, mangrovie sono tra i territori più esposti. Anche se la mobilità delle coste è un fenomeno naturale a causa delle onde, delle correnti e della natura stessa delle coste, le attività umane lo amplificano. L’aumento dei porti, moli e opere di protezione, sconvolge oggi fortemente le correnti marine e il trasporto di sedimenti. Esattamente come le dighe e gli argini realizzati sul bacino versante dei fiumi. L’esempio più evidente, più mediatizzato, più semplice e perciò più difficile da ignorare, riguarda isole e scogli corallini, zone particolarmente vulnerabili all’innalzamento del livello del mare e alle tempeste sempre più frequenti. E’ il caso delle isole Tuvalu, nel sud del Pacifico, la cui altitudine massima è di cinque metri e dove sono scomparsi, nel corso dell’ultimo decennio, tre metri di battigia. A più riprese, durante le maree di plenilunio o novilunio, gli abitanti hanno dovuto evacuare temporaneamente le isole. In gran numero hanno ormai lasciato l’arcipelago.La minaccia che pesa sulle foci, invece, è meno conosciuta e più complessa. Nasce dalla catastrofica combinazione tra lavori di sistemazione, assenza di loro manutenzione, spinta urbana e peggioramento di eventi meteorologici estremi legati al riscaldamento. Nel 2005, le conseguenze del ciclone Katrina, uno dei più violenti che gli Stati Uniti abbiano conosciuto – 1500 morti, danni calcolati in diecine di miliardi di dollari – erano abbastanza prevedibili nel delta del Mississippi, che da decenni si sapeva infossato e mal protetto. Katrina ha segnato per sempre New Orleans, la Louisiana e gli stati limitrofi. Resta un simbolo.Da Venezia allo Yangzi jiang

43

Il caso del Bangladesh, paese-delta sovrappopolato e spazzato da cicloni sempre più frequenti, non è molto diverso. La sua parte occidentale è infatti a serio rischio di inondazioni. Inoltre, le sue risorse di gas naturale l’espongono a un futuro problematico, perché lo sfruttamento del petrolio e del gas amplifica l’affossamento naturale del suolo, proprio come nel caso della Louisiana.Altra circostanza aggravante, i pompaggi d’acqua nelle grandi metropoli che contribuiscono al loro affossamento. Questo è quanto accade in una città come Bangkok, costruita sul delta del Chao Phraya e costantemente colpita da inondazioni. O di Venezia, una delle città più belle del mondo e una delle più minacciate, soprattutto a seguito dello sfruttamento del metano alla foce del Po. Non si contano più le coste erose nei delta. Quello del Nilo, in Egitto, che paga le conseguenze della costruzione della diga di Assuan. Quello del Volta, in Africa occidentale, dove intere aree di Keta, una città del Ghana, scompaiono vittime della diga di Akosombo. La lista potrebbe continuare a lungo: include i delta dell’Ebro in Spagna, del Danubio, del Senegal, del Sao Francisco in Brasile, del Rodano in Camargue, ecc.In Cina, la costruzione della diga delle Tre Gole rischia di provocare conseguenze analoghe sul delta dello Yangzi Jiang (Fiume Azzurro).Il fenomeno dell’erosione delle coste non è nuovo, ma sta accelerando. Fin dal 1992, il grande geografo specialista di zone costiere, Roland Paskoff, lanciava l’allarme in un libro choc, intitolato Cotes in danger. Indicava con chiarezza le pesanti responsabilità del riscaldamento globale, ma consigliava più flessibilità nella risposta all’erosione. Meno scogliere artificiali, meno pontili, meno frangionde, più arretramento ragionato. E accusava, oltre alla spinta urbana, l’inadeguatezza dell’arsenale giuridico francese che, allo stato attuale delle cose, finisce con il distruggere invece di preservare le zone umide, in particolare gli stagni marittimi, fondamentali come fonte di vita e di diversità bilogica, eppure drasticamente bonificati da secoli.Così scompaiono gli spazi naturali, irresistibilmente erosi. Succede in Francia, malgrado la legge sui litorali, che proibisce di costruire in una fascia di 100 metri lungo la riva e che viene però sistematicamente aggirata in molti comuni. E malgrado gli sforzi del Conservatoire du Littoral, organismo pubblico creato nel 1975 con il compito di acquisire terreni per sottrarli all’urbanizzazione, il cui bilancio è tuttavia troppo modesto rispetto alla portata degli interessi economici in gioco.(Tratto da L’Atlante per l’Ambiente, Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, 2008, con foto e cartine)

La perdita delle coste

L'Italia ha ottomila chilometri di coste: la metà circa di queste coste è costituita da spiagge sottili, coperte di sabbia o piccoli ciottoli, l'altra metà è costituita da coste rocciose. Le spiagge hanno un grande valore estetico ed economico, sono belle e attraggono le persone che vogliono fare il bagno o prendere il Sole. Davanti alle spiagge il livello del mare degrada lentamente per cui possono fare il bagno anche quelli che non sono esperti nuotatori; per questo le spiagge sono così frequentate da persone di tutte le età. Purtroppo quasi tutte le spiagge, di anno in anno, si accorciano, come se ci fosse uno spirito maligno. Non colpa della forza delle onde, che più o meno è sempre uguale ogni anno, e non sono neanche le forze del mare che, anche quando è tranquillo, fa scorrere grandi masse di acqua parallelamente alle coste, spostando la sabbia del fondo da un posto all'altro.

Nel corso del Novecento l'Italia, rispetto ad una superficie totale di circa 300.000 chilometri quadrati, ha perduto da 200 a 400 chilometri quadrati di coste sabbiose, si è "ristretta", di un millesimo della sua superficie. Questo restringimento della superficie italiana, più rapido da un ventennio a questa parte, sta preoccupando amministratori pubblici e operatori turistici. La Puglia, questa penisola con circa settecento chilometri di coste, esposte al mare da tutte e due le parti, e la Basilicata, vedono sparire spiagge e crollare edifici costieri e pezzi di strade. Sarà anche un po'

44

colpa dei cambiamenti climatici ma ci deve pur essere qualche altra ragione per questa perdita di ricchezza ecologica e economica.

Le ragioni dell'erosione sono abbastanza note: la spiaggia sabbiosa nasce da un insieme di azioni fisiche e geologiche ed assume un volto mutevole nel tempo, ospita vegetazione e molte forme di vita, e rappresenta un ecosistema di grande interesse naturalistico. La spiaggia, in quanto interfaccia fra mare e terra, è molto bella e attrae il turismo e quindi ha un grande valore anche "economico". Nell'uso delle spiagge a fini ricreativi l'intervento umano apporta inevitabili modificazioni che possono compromettere la stabilità di tale ecosistema.

Dapprima si insediano delle cabine con gli ombrelloni, poi le cabine diventano di cemento e si trasformano in palazzine, poi nascono ristoranti e alberghi e per raggiungere la spiaggia e i ristoranti e i nuovi edifici bisogna realizzare strade per le automobili e piazzole di sosta e porticcioli turistici, spianando le dune, quelle ondulazioni sabbiose formate ad opera del vento e del moto ondoso che garantiscono la sopravvivenza della spiaggia. In questa operazione viene distrutta la vegetazione spontanea, che la natura ha predisposto proprio a difesa della costa. Se su una costa si interviene creando ostacoli stabili, come la diga di un porto, il movimento delle acque viene frenato e le sabbie si accumulano da una parte della diga e vengono asportate dalla parte opposta. Molti porti o porticcioli turistici, insediati nel posto sbagliato, ben presto si riempiono della sabbia asportata dalle coste vicine, e così si spendono soldi per svuotare i porti dai depositi e si spendono soldi per ricostruire le spiagge erose.

La conseguenza delle presenze umane invadenti ed esigenti, per ragioni "economiche" a breve termine, è la graduale scomparsa delle spiagge e delle coste, cioè della base naturale di tale maniera di intendere l'economia. Particolarmente delicate sono le coste sabbiose che offrono, a chi le vuole guardare, innumerevoli sorprese. La sabbia che troviamo in riva al mare è un insieme di granuli, aventi diametro variabile fra sei centesimi di millimetri fino a due millimetri, che nel corso di millenni le acque hanno trasportato dall'interno delle terre emerse fino al mare. La forza di urto dell'acqua delle piogge disgrega le rocce delle montagne e colline; i frammenti, rotolando verso valle, si frantumano in pezzetti sempre più piccoli che vanno a creare l'alveo dei fiumi, le pianure alluvionali, e le parti più "leggere" di tali frammenti arrivano fino al mare depositandosi sulle coste.

Chi guarda sulla spiaggia, l'insieme dei granuli di sabbia vede facilmente come essi siano diversi e tale osservazione potrebbe permettere la ricostruzione della storia naturale di ciascun granulo. I principali costituenti delle sabbie sono materiali calcarei o silicei, spesso miscelati a seconda del percorso dei fiumi o delle direzioni del vento che li ha trasportati; talvolta si incontrano sabbie di cui è facile riconoscere l'origine sapendo quali rocce sono state attraversate dai fiumi che hanno trasportato la sabbia al mare. Si può quasi dire che i granuli di sabbia "parlano", raccontano la propria storia: i granuli scintillanti di quarzo vengono da rocce granitiche; su alcune coste, quelle laziali e quella di Manfredonia, si trovano sabbie contenenti magnetite i cui cristalli vengono attratti da una calamita. Durante l'autarchia fascista qualche bella mente aveva proposto di recuperare ferro da tali sabbie.

Oltre agli interventi "economici" direttamente sulle spiagge, che alterano il ricambio delle sabbie portate dal mare, l'altra importante causa dell'arretramento delle spiagge è rappresentata dagli interventi sui fiumi, come la creazione di sbarramenti artificiali che trattengono le sabbie e ne impediscono l'arrivo sulla costa, o l'escavazione dal greto dei fiumi della sabbia occorrente per le costruzioni di edifici e strade o per la produzione di materiali industriali. Grandi sforzi di cervelli e di soldi vengono investiti per cercare di frenare l'erosione delle spiagge o, meglio, di ricostruire le spiagge mediante "ripascimento". I principali tentativi consistono nella creazione di barriere artificiali nel mare per frenare la parte dell'erosione che è dovuta al moto ondoso.

45

Talvolta le barriere vengono create depositando mucchi di grosse pietre paralleli alla costa; chi percorre in treno la costa adriatica da Foggia a Rimini vede numerosi esempi di tali barriere che non creano nuove spiagge, ma spostano un po' di sabbia da una parte all'altra della costa. Altri hanno proposto delle barriere sommerse, parallele alla costa a qualche diecina di metri dalla riva; per tali barriere alcuni hanno proposto di riempire dei sacchi di plastica con ciottoli e pietrisco, con l'effetto che il mare ha stracciato i sacchi di plastica e la spiaggia ha continuati ad arretrare, con i ciottoli sparsi sul fondo del mare. Altri hanno proposto delle barriere di massi di pietra perpendicolari alla costa, con l'effetto che la spiaggia è cresciuta da un lato delle barriere a spese della spiaggia dalla parte opposta. Non penso che l'ingegneria idraulica aiuti gran che.

Forse la vera soluzione sarebbe una svolta nella politica degli insediamenti. Nel 1985 fu emanata una legge, che porta il nome dello storico Giuseppe Galasso (sottosegretario ai beni culturali nel I e II governo Craxi) che ha fissato un divieto di costruzioni entro una fascia di trecento metri dalla riva del mare e dei fiumi. Guardatevi in giro e osservate come questa legge è stata sistematicamente violata; non possiamo allora lamentarci se l'Italia si restringe, con l'assalto edilizio delle coste che c'è stato sempre più arrogante e sempre più condonato.(G. Nebbia, La Gazzetta del Mezzogiorno, sabato 11 dicembre 2010

25. L’aumento dei rifiuti

Il gran rifiutoLe pattumiere degli europei

L’Europa produce 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno (527 chili per persone). Il nord ricicla e si ingegna, il sud li sotterra.

Il miglior rifiuto è quello che non esiste. Tutti (industrie, grande distribuzione, consumatori, politici) dovrebbero partire da questo assunto per cercare di spezzare un circolo vizioso: per ridurre i rifiuti bisogna produrre e consumare meno e meglio. I dati che provengono dalla “spazzatura” Europa sono impressionanti, eppure, soprattutto nei paesi del nord, si sta tentando di riorganizzare la catena la catena di produzione e consumo in modo da ridurre il volume dei rifiuti da smaltire. Escludendo i rifiuti dell’agricoltura, il vecchio continente ogni anno produce 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti. Questa produzione, però, non va confusa con quello che finisce nelle pattumiere di casa: il 29% dei rifiuti è dovuto all’attività estrattiva (materie prime), il 26% all’attività manifatturiera (fabbriche), il 22% alle attività di costruzione e demolizione, il 4% alla produzione di energia. Solo il 14% ai rifiuti urbani (in Europa sono 198 milioni di tonnellate all’anno). Significa che ogni cittadino europeo produce 527 chili di rifiuti e significa anche che il problema andrebbe affrontato alla fonte: è la produzione e non il consumo che sta seppellendo il pianeta con i suoi materiali di scarto.Ma cosa contiene la pattumiera di un cittadino europeo? Ben il 27% è rappresentato dagli imballaggi (in Italia da soli costituiscono il 40% del peso totale dei rifiuti urbani e più del 60% del volume); il nostro paese produce 11 milioni 262 mila tonnellate di imballaggi (18% in più solo nel quadriennio 1997-2001), l’Inghilterra 9 milioni 314 tonnellate (7% in meno).E questo è uno dei parametri su cui si può sicuramente intervenire, a patto di cambiare radicalmente le strategie di marketing, che puntano quasi esclusivamente sulla confezione per vendere il prodotto. Un altro 10% della spazzatura è carta, il 9 % è composto da materiali da costruzione, un altro 9% da prodotti diversi (tessuti, elettronica…). Infine, ben il 27% di quello che buttiamo via è cibo, cui bisogna aggiungere il 18% di rifiuti da giardino: vuol dire che il 45% della nostra spazzatura di casa è materia organica umida e quindi facile da smaltire perché

46

“compostabile”. Eppure in Italia solo pochissimo comuni fanno la raccolta differenziata dell’umido.Che fine fanno tutti i rifiuti urbani d’Europa? La stragrande maggioranza riposa in discarica, con evidenti differenze tra paese e paese. Tra i primi della classe, come sempre, i nord europei. In Olanda viene interrato meno del meno del 5% dei rifiuti (in Italia il 63%, solo Grecia e Inghilterra fanno peggio, con rispettivamente il 91 e il 78%); in Austria circa il 40% della spazzatura viene smaltito con il compostaggio (da noi meno del 10%); i paesi più “ricicloni”sono nell’ordine Svezia, Germania, Belgio, Danimarca, e Finlandia (attorno al 30%, il Italia circa il 15%); il paese che più ricorre agli inceneritori è la Danimarca (circa il 50%), seguita da Svezia, Olanda, Belgio (40%), e Francia (più del 30%): in Italia, dove gli inceneritori creano scompiglio, si brucia solo il 7% dei rifiuti urbani.Considerando che la rivoluzione non è dietro l’angolo (la decrescita è l’opposto di ciò che sta accadendo), non resta altro che ingegnarsi per gestire meglio una montagna di rifiuti che non smette di crescere. Ecco solo qualche esempio singolare: In Svizzera, nelle Fiandre e in qualche comune francese, chi ricicla di più paga meno tasse sui rifiuti. La Germania è l’unico Stato europeo che effettua la raccolta differenziata sui treni. Le demolizioni di strade e palazzi producono milioni di tonnellate di terra difficile da stoccare e per evitare che si volatilizzi nell’aria, a Ginevra hanno pensato di riciclarla per fare il cemento. A Lille, (Francia) è attivo un impianto di metanizzazione che trasforma i rifiuti in concime per i terreni e in biogas che serve come carburante per gli autobus cittadini. Sempre in Francia, (ma anche in Svizzera), sono state studiate soluzioni “individuali”- nei singoli comuni ma anche appartamento per appartamento -, per stoccare i rifiuti urbani. Emblematico il caso di Saint Philbert de Bouaine (Francia), 3000 abitanti, che si sono opposti ad un inceneritore e oggi autogestiscono un centro di compostaggio collettivo di 2500 metri quadri, dove confluisce l’80% dei loro rifiuti umidi.

Nuova ZelandaCome fare la guerra ai rifiutiLa Nuova Zelanda dal 2002 ha adottato un piano nazionale denominato “Rifiuti zero”, con lo scopo di ridurre la produzione di rifiuti, l’impiego di energia e di materie prime, lo spreco e l’inefficienza. Nel giro di pochi anni la raccolta differenziata è decollata, la quantità di rifiuti è diminuita, sono stati creati posti di lavoro, ed è stata istituita un’accademia per studiare casi di produzione sostenibile e formare manager, tecnici e specialisti del marketing.Analoga l’esperienza dell’Oregon, (USA), dove è stata creata “L’alleanza Rifiuti zero”, associazione pubblico-privata gestita dal governatore insieme ad ecologisti, imprese produttrici e ricercatori.

(L. Fazio, sul Corriere della Sera del 4 gennaio 2008)

Il sacchetto va in pensione a 56 anniAmbiente Dal 1° gennaio 2010 anche in Italia non si useranno le borse della spesa in plastica, inquinanti, per lasciare spazio a materiali vegetali. La ricerca nel nostro paese è in vantaggio, ma è già scoppiata una guerra internazionale.

La guerra alla plastica è già avviata. Una raccomandazione contenuta nella finanziaria 2007 dissuade commercianti e consumatori dall’uso dei sacchetti della spesa, a partire dal primo gennaio 2010. Il polietilene, materiale oggi impiegato, dovrebbe cedere il posto a polimeri di origine vegetale che hanno forti vantaggi dal punto di vista ambientale: sono biodegradabili e vengono ricavati da materie prime agricole, con una dispersione di anidride carbonica durante la produzione inferiore a metà di quella che comporta fabbricarne un’uguale quantità in polietilene. Sono molti a dubitare che questa piccola grande rivoluzione venga messa in atto nei limiti stabiliti, soprattutto perché non sono previste sanzioni per gli inadempienti.

47

Il senatore Francesco Ferrante del Partito Democratico, autore dell’emendamento in Finanziaria, interpellato da Panorama, dice però:” Non occorre che sia specificata la sanzione dal momento che un magistrato può far rientrare il commercio di sacchetti di plastica in un quadro più generico, ossia la vendita di beni vietati dalla legge. A quel punto applicherà la sanzione prevista in quel caso. A meno di proroghe, la norma entrerà in vigore nei tempi stabiliti”.Australia, Taiwan, Bangladesh, e il comune di San Francisco hanno già vietato i sacchetti con il vecchio materiale; in Cina dal primo giugno 2008 sono bandite le buste di spessore più sottile, cioè quelle più difficilmente riciclabili, e resteranno solo le più robuste.; in Giappone è stata imposta una tassa; la Francia ha già messo in atto il divieto, ma sarà costretta ad apportare modifiche sostanziali perché non è coerente con le norme europee; Belgio e Irlanda hanno applicato ingenti imposte, come sicuramente farà la Francia; in Gran Bretagna se ne discute mentre la catena di supermercati Sainsbury’s usa già la cosiddetta bioplastica.Queste decisioni politiche hanno dato il via in tutto il mondo a una corsa per conquistare la quota più ampia possibile del mercato delle nuove tecnologie per produrre sacchetti di nuovo tipo. L’Italia può avere un ruolo rilevante,se sarà all’altezza della tradizione nelle materie plastiche innovative. Fu un chimico italiano, Giulio Natta, nel 1954, a inventare il polipropilene, una plastica molto efficiente che gli valse il premio Nobel nel 1963. proprio dalla sua scuola, diventata poi quella della Montedison, è nata nel 1990 la Novamont, azienda prima nel mondo a capire come trasformare materie prime vegetali in bioplastiche efficienti e a basso impatto ambientale. Fino a diventare un’azienda di 135 dipendenti, per il 30% circa ricercatori, che detiene circa 800 brevetti internazionali.La sfida maggiore inizia adesso. Le aziende concorrenti, pur non possedendo lo stesso patrimonio di conoscenze, hanno già fatto grandi passi. In Francia, la Rochette ha appena investito 92 milioni in ricerca sulla bioplastica, dei quali 48 provengono da fondi europei. In Cina esiste una dozzina di aziende che producono sostituti della plastica. La più importante,la EatwareGlobal, produttrice da anni di contenitori usa e getta per cibo e bevande, fabbricherà i contenitori di panini e bibite per Mcdonald’s e Starbucks. Ha investito 13 milioni di dollari in ricerca e marketing, che le hanno permesso di ricavare piatti, bicchieri e contenitori biodegradabili dalla canna da zucchero e dal bambù.Non sembra però che la qualità sia paragonabile con quella italiana, afferma Mario Malinconico, ricercatore del CNR, Istituto di chimica e tecnologia dei polimeri di Pozzuoli (Napoli), dal momento che queste aziende non hanno una lunga ricerca alle spalle. Secondo Cata Bastioli, ricercatrice e amministratore delegato della Novamont, “l’Italia ha un vantaggio in termini di conoscenze e tecnologie e ciò le permette di compiere progressi molto più in fretta dei concorrenti”.La qualità dei prodotti biodegradabili cinesi è bassa perché “non basta aggiungere un po’ di amido al polietilene per affermare che il risultato è la biodegradabilità al 100%”. Il timore è un altro:”Nel nostro paese abbiamo bisogno di rapidità, oltre alla trasparenza e alla cultura diffusa. Il 2010 sembra una data lontane, ammesso che non vi siano ulteriori rinvii. In questo periodo il fattore critico sarà la capacità produttiva italiana di assorbire e mettere a sistema le innovazioni tecniche e ambientali più d’avanguardia” aggiunge Bastioli. Il principale prodotto sviluppato dalla Novamont è il Mater-Bi, ottenuto con variazioni della struttura molecolare dell’amido di mais o delle patate, che ne rafforzano la resistenza all’acqua e conferiscono proprietà strutturali adatte ai sacchetti per la spesa. Le stessa ricerche hanno portato alla creazione di nano particelle di amido capaci di rinforzare le gomme dei copertoni, una volta sostituite a normali riempitivi come nerofumo e silice. Le gomme devono infatti essere abbastanza rigide da non piegarsi troppo sotto il peso del veicolo, costringendo il motore a maggiore sforzo, maggiori consumi e maggiore dispersione di anidride carbonica. Un danno evitato per l’ambiente e per le tasche. Alla Novamont inoltre sono da poco entrate in produzione bioplastiche ottenute con oli vegetali derivati da girasoli e brassicacee (cavoli, rape). Il grande vantaggio è che si tratta di piante capaci di vivere in terreni marginali, consumare azoto e acqua in quantità irrisorie ed essere

48

coltivate in varie combinazioni che possono favorirne la crescita e e diminuire le sostanze necessarie alla loro vita.Oltre a quello economico, c’è un secondo fronte della guerra alla plastica, e si combatte nella ricerca, a partire da alcune idee di base. “Possiamo dividere le plastiche dei sacchetti in due categorie, quelle a bassa densità e quelle ad alta” spiega Malinconico, “Con le prime si fanno i sacchetti della spesa e dell’immondizia, con i secondi i sacchetti più pregiati come quelli forniti dai negozi di abbigliamento”.Un’altra molecola, il polipropilene, forma strutture più rigide e trasparenti, come per esempio negli involucri dei pacchetti di sigarette. “Sono sempre di atomi di carbonio e idrogeno combinati in lunghissime catene e ramificazioni. Il numero e le variazioni di queste ultime determinano le caratteristiche principali della plastica”, dice Malinconico.Ricavare un materiale simile al polietilene è in linea di principio possibile lavorando la cellulosa di qualunque pianta, ovvero usando come base i poli saccaridi. Le piante che si prestano di più sono patata, mais, cocco, bambù, girasole, pomodoro. “I sistemi usati nel mondo sono diversi. C’è chi trasforma per mezzo di enzimi i polisaccaridi formando acido polilatrico, alla base di alcune plastiche più rigide. Si possono anche usare batteri che consumano zucchero producendo al loro interno un poliestere.”, aggiunge Malinconico. La plastica è diventata un nemico per un motivo semplice: “stiamo acquistando consapevolezza che occorre salvaguardare l’ambiente e non possiamo più ignorare i molti svantaggi di questo materiale. Ha una vita media di migliaia di anni e su ben 220.000 tonnellate di sacchetti prodotti in un anno solo 100mila vengono riciclati e termo valorizzati. Non c’è da meravigliarsi allora se due anni fa sulla rivista Science si leggeva che un ricercatore dell’Università di Plymouth aveva analizzato i sedimenti di venti spiagge inglesi , valutando che circa un terzo fosse costituito da polimeri sintetici. E secondo la Marine Conservation Society “ i sacchetti di plastica uccidono fino a un milione di uccelli marini ogni anno e 100.000 mammiferi acquatici, che li ingeriscono scambiandoli per delle prede. La plastica non è biodegradabile perché da quando è stata creata non c’è stato tempo per l’evoluzione dei microorganismi in grado di degradarla. Non resta quindi che sostituirla. E, dal momento che la ricerca italiana è sempre stata all’avanguardia , sarebbe bello che fosse protagonista della nuova rivoluzione dei sacchetti.

Nasce dal petrolio e finisce in discarica La vita di un sacchetto ha origine dal petrolio: dagli idrocarburi (sostanze che contengono solo carbonio e idrogeno) vengono preparati i monomeri, una o più sostanze dalla cui reazione originano tutti gli anelli che formano i polimeri.

Con una reazione i monomeri vengono uniti a formare lunghe catene molecolari

Vengono aggiunti una serie di additivi, come i coloranti e gli antiossidanti, per evitare che il sacchetto si degradi troppo velocemente alla luce del sole

Il polimero e gli additivi vengono quindi mandati ad un estrusore, una specie di macchina per la pasta, che lavora a caldo, fondendo la miscela e soffiandola come un chewing gum, fino a che diventa un cilindro sottilissimo, che viene avvolto in continuo e raccolto in bobine, da cui infine si ottengono i sacchetti

I sacchetti arrivano agli esercenti e ai supermercati e infine nelle case Delle 220.000 tonnellate di sacchetti prodotti ogni in Italia, circa 100.000

vengono riciclate o termo valorizzate. Le altre finiscono nelle discariche.o disperse nell’ambiente.

Per il riciclaggio il sacchetto vien frantumato, lavato e utilizzato,per la produzione di una nuova busta. Solitamente, poiché con l’utilizzo la struttura del polimero invecchia, al materiale riciclato si aggiunge una

49

quantità variabile di materiale vergine per compensare la riduzione delle proprietà

Tonnellate di problemi

200.000 tonnellate di sacchetti sono prodotte ogni anno in Italia100.000 le tonnellate che vengono riciclate20 miliardi i sacchetti di plastica (polietilene) consumati in un anno in Italia200.000 le tonnellate di polietilene necessarie a produrre i sacchetti consumati in un annoPer produrre un chilogrammo di polietilene si rilasciano due chilogrammi di anidride carbonicaPer produrre un chilogrammo di polimero vegetale si rilascia meno di 1 chilogrammo di anidride carbonica(L. Sciortino in “Panorama” del 7 febbraio 2008)

Più riuso vuol dire meno plastica“La migliore bottiglia di plastica è quella che non viene prodotta” ha affermato Wolfgang Sachs. Le materie plastiche sono sostanze artificiali generate dall’industria utilizzando soprattutto petrolio. Ma la “lobby della plastica”, strettamente connessa con quella del greggio, è molto potente tanto da condizionare tutto il sistema di gestione dei rifiuti, spingendolo verso l’incenerimento (che richiede molta plastica) con tutte le preoccupazioni del caso, ambientali ma anche sanitarie.Nei rifiuti urbani figurano ogni anno, circa 5 milioni di tonnellate di materie plastiche, il 40% delle quali è costituita da imballaggi (fonte Corepla) Ridurre La prima mossa per una corretta gestione dei rifiuti di materie plastiche è produrne di meno. Bisogna ridurre l’utilizzo di prodotti con imballaggi in plastica. La sua principale caratteristica è la difficile degradazione, per cui è un controsenso utilizzare la plastica per prodotti uso e getta. Ad esempio, in molti paesi al mondo, dalla Svezia al Costarica, si riutilizzano numerose volte le bottiglie di plastica per bevande con il sistema del “vuoto a rendere” che in Italia è misteriosamente quasi estinto: il risparmio energetico che si ottiene è di gran lunga maggiore rispetto all’energia che si ricava dal loro incenerimento e superiore al semplice riciclaggio.Differenziare E’ necessario differenziare la plastica dagli altri rifiuti. Nelle nostre case, quando separiamo i rifiuti, è importante assicurarsi che gli imballaggi non contengano residui. Inoltre, per ridurne il volume, è consigliabile schiacciare bottiglie e contenitori di plastica in senso orizzontale, mentre per migliorare la qualità della raccolta, è bene lavarli e separarli dai tappi. Recuperare Il sistema del Consorzio Nazionale Imballaggi riunisce diversi consorzi obbligatori, tra cui il COREPLA, Consorzio per il Recupero della Plastica (2249 imprese consorziate). Tra i consorziati figurano i produttori, i distributori e gli utilizzatori degli imballaggi in plastica. Dal riciclo di PET,PVC e PE è possibile ottenere nuova materia da riutilizzare. Con il PET riciclato, ad esempio, oltre a nuovi contenitori, si ottengono fibre per imbottiture, maglioni, “pile”, moquette, interni per auto. Con il PVC riciclato, invece, si producono tubi, scarichi per l’acqua piovana, raccordi, passacavi e prodotti per il settore edilizio. A sua volta, dal PE riciclato, oltre ad ottenere nuovi contenitori per i detergenti per la casa o per la persona, derivano tappi, film per isacchi della spazzatura, pellicole per imballaggi, casalinghi e così via.Riciclare Attraverso il riciclaggio, il destino della plastica si trasforma: da scarto difficile da smaltire può diventare materia per realizzare nuovi manufatti: sedie, panchine, parchi giochi, recinzioni, cartelloni stradali, arredi urbani, e contenitori, . A tutto questo si deve aggiungere il risparmio energetico indiretto che si guadagna evitando nuove estrazioni di materie prime (petrolio). A oggi, in Italia, attraverso la raccolta differenziata, si recupera il 20,5% degli imballaggi in plastica ma solo una parte viene riciclata.Riuso Per costruire una barca a vela (bastano 116bottigliette di PET), per produrre una felpa in pile (27 bottiglie di PET). Persino una sedia (due flaconi di PE) una panchina (45 vaschette in plastica e qualche metro di pellicola in LDPE) possono essere fatte di plastica riciclata. Per non parlare di capi

50

che magari indossiamo utilizziamo tutti i giorni come un maglione (70% lana e 30% PET) o una coperta (venti bottiglie in PET).Provincia di Roma Nel 2006 la maggior parte della plastica veniva destinata agli impianti della Romana maceri SpA. Dal giugno 2007 la plastica ha come principale destinazione l’impianto Remaplast di Pomezia in grado di trattare 40.000 tonnellate /anno. (15 volte quanto raccolto nel 2006 nella provincia di Roma). L’impianto, centro di selezione che opera per conto di Corepla, è in grado di trattare le quantità di raccolta differenziata degli imballaggi in plastica provenienti dall’intera regione Lazio.(Tratto da scheda informativa della Provincia di Roma, vicepresidenza Assessorato alla Tutela Ambientale, apparsa su Carta)

26.L’aumento dei rifiuti tossici e industriali

Gli intrecci tra economia legale e criminalitàCamorra in discaricaRe Mida, Humus, Greenland, Murgia violata, Cassiopea. Sono questi i nomi di alcune inchieste giudiziarie che hanno fatto luce nell’ultimo decennio sull’immeso giro di affari del ciclo illegale dei rifiuti. Informazioni preziose per comprendere come sia possibile in un paese “moderno”, che una delle nostre principali aree metropolitane affondi nella spazzatura. La Campania, che oggi rifiuta violentemente la riapertura di alcune discariche, è stata per lungo tempo il terminale tirrenico di un flusso incontrollato di rifiuti industriali proveniente dal Centro-Nord. Quello stesso che oggi chiude le sue discariche all’emergenza campana. Il territorio saturo di rifiuti viene da lontano e racconta una storia non edificante che riguarda l’intera comunità nazionale. Il ciclo illegale dei rifiuti è un business che la criminalità organizzata ha affinato negli ultimi dieci/quindici anni. “Buttiamoci sui rifiuti: trasi munnezzi e niesci oro” affermava un capocosca in un’ intercettazione. Ma la malavita è l’anello finale di una catena legata indissolubilmente all’economia legale, ogni attività genera rifiuti e deve disfarsene possibilmente a costi bassi. Secondo il Comando Tutela Ambientale dei carabinieri e Legambiente, almeno 12-14 milioni di tonnellate spariscono ogni anno nel nulla, cioè al di fuori del circuito legale di smaltimento, una montagna alta 1500 metri e con una base di tre ettari. Il giro d’affari stimato (1993-2002) è nell’ordine dei 27 miliardi di euro. Lo smaltimento abusivo costa anche l’80% in meno di una gestione corretta. La malavita, grazie alle grandi quantità trattate, può accontentarsi di un margine molto piccolo. Il resto è sconto per i produttori, con effetti paragonabili al taglio del 10% dell’Irap.La lunga strada del rifiuto illegale parte dal produttore, sia esso un’attività industriale e produttiva o una attività civile. Nel suo percorso il rifiuto cambia natura: nei centri di stoccaggio avviene la prima trasformazione “virtuale”, attraverso una sostituzione delle bolle di accompagnamento o l’applicazione del “codice prevalente”, con cui l’intero carico di rifiuti viene classificato in base ai materiali maggiormente presenti. Il momento “clou” è quello in cui il rifiuto viene classificato per essere destinato a certi impianti o al recupero. Miscelazione di materiali, bolle false, analisi chimiche travisate. L’amico giusto nel posto giusto: la manina del funzionario dove serve, il tecnico che chiude un occhio. Una sapiente distribuzione territoriale, che fa sì che tutto si svolga in un luogo in cui l’attenzione è bassa (pare che la centrale della logistica e dell’intermediazione si collochi nella ridente Toscana). Riclassificato, miscelato, il rifiuto prosegue il suo viaggio, con una nuova identità e la possibilità di essere smaltito con standard di sicurezza più bassi. In tutte queste fasi, tre sono le figure cruciali: l’intermediario che stabilisce i contatti tra il produttore di rifiuti e le prime fasi del ciclo illegale, i consulenti tecnici che certificano le apparenti metamorfosi dei rifiuti, e i trasportatori che movimentano i materiali fino alle destinazioni finali. Mentre una figura brilla spesso per assenza, le autorità di controllo. In questa fase finale molte sono le soluzioni adottate: discariche abusive, vecchie cave abbandonate, impianti di compostaggio, cantieri edili, aziende agricole. La malavita con la pistola è essenziale in quest’ultima fase. Il capillare controllo del territorio, il dominio del

51

consenso, le permettono di fare il lavoro sporco senza proteste e senza verifiche. Ma anche in questo le organizzazioni criminali si sono evolute. Non più solo discariche abusive, quelle in fondo sono facili da scoprire. Ci vogliono tutte quelle attività che possono lecitamente ricevere, trasformare, utilizzare, rifiuti o materiali derivati dai rifiuti – dai laterizi alle massicciate stradali; dall’agricoltura alla bonifica delle cave e dei siti dismessi, dall’esportazione di “materiali secondari” verso i paesi in via di sviluppo all’affondamento doloso di cargo imbottiti di scorie.Nessuna parte del territorio nazionale, ad eccezione di Trentino e Val d’Aosta, può chiamarsi fuori, in base ai risultati delle molte inchieste giudiziarie, da questo scempio. Una forte e coordinata azione di contrasto e repressione si può e si deve portare avanti e la meritoria attività del NOE e della magistratura, alleati con la società civile, ne dimostra l’efficienza. Un ruolo e una assunzione di responsabilità delle organizzazioni imprenditoriali, analoga a quella che vede oggi Confindustria impegnata in Sicilia nella denuncia del pizzo, appare urgente e necessaria, per ridurre all’origine il flusso dei rifiuti che prende la strada dello smaltimento illegale. Ed è sulla filiera, sulla zone grigia di passaggio, che occorre concentrare l’attenzione.Accanto a questo, si rende necessaria una riflessione seria e dettagliata che sappia incidere e ridurre i costi dello smaltimento legale, comprimendo i margini e la convenienza del ricorso al circuito al di fuori delle regole. Questo richiede di muoversi su molti fronti. Occorre responsabilizzare gli enti locali, anche con adeguati incentivi, verso una gestione integrata e uno sviluppo della raccolta differenziata. Occorre poi eliminare eventuali eccessi di iper - regolamentazione che gonfiando i costi della gestione legale, creano in realtà spazio per i traffici illegali. Spesso chi deve smaltire si trova prigioniero di un labirinto di regole inapplicabili, adempimenti paralizzanti, norme contraddittorie, che andrebbero razionalizzate. Occorre sviluppare alternative alla discarica, con le quali difficilmente le organizzazioni criminali sarebbero in grado di competere, ma che richiedono, oltre agli investimenti, anche una nuova capacità di gestire il consenso. Spesso l’offerta di alternative lecite, oltre a dover fronteggiare la concorrenza sleale delle attività illegali, si trova frenata per l’opposizione sociale agli impianti. Non a caso, è la stessa camorra a pilotare le rivolte contro i termovalorizzatori, i veri concorrenti che possono darle fastidio.(Tratto da il Corriere della Sera del 14 gennaio 2008)

“Riciclo-logia”Giorgio Nebbia – La Gazzetta del Mezzogiorno -- Proposta per la rubrica CheAmbienteFa di martedì 23 novembre 2010.

Propongo di chiamare riciclo-logia quel capitolo della Merceologia che si occupa della tecnologia del riciclo dei materiali usati e delle proprietà dei prodotti riciclati. Chi volesse svolgere questo corso in una Università ha oggi a disposizione un apposito trattato chiamato: “L’Italia del riciclo”, pubblicata nei mesi scorsi dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, una organizzazione presieduta da Edo Ronchi che è stato Ministro dell’ambiente nel governo Prodi (1996-1998) e che ha legato al suo nome al primo decreto moderno e organico sul trattamento dei rifiuti. Come tale decreto ben specifica, la prima azione da fare per diminuire la massa dei rifiuti che finiscono nelle discariche e negli inceneritori consiste nel riutilizzare le materie di cui le merci, i prodotti usati e buttati via (quelli che “rifiutiamo” e per questo si chiamano “rifiuti”), sono fatti. Si tratta di far resuscitare in forma di nuovi prodotti quelli che vengono rifiutati: una impresa che dovrebbe mobilitare scienziati, chimici, ingegneri e merceologi, ma che in realtà viene attuata ben poco. Tanto per cominciare bisognerebbe sapere di che cosa è fatto ciascun prodotto. Ad esempio, si fa presto a dire carta, ma per ricavare carta nuova dalla carta straccia bisognerebbe sapere quali inchiostri e quali additivi e quali tipi di cellulosa sono stati impiegati nella fabbricazione di ciascun pezzo di carta e cartone buttato via. Nonostante le molte carenze nelle informazioni, molte cose si possono fare per ricavare merci ancora utili dai quasi 40 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani e dai circa 150 milioni di tonnellate di rifiuti “speciali”. Il libro citato all’inizio fornisce molte utili indicazioni proprio merceologiche spiegando la provenienza, alcuni caratteri e il risultati di alcuni

52

processi di riciclo di vari rifiuti. Il primo capitolo riguarda la carta: nel 2008 sono stati immessi al consumo circa 11 milioni di tonnellate di carte e cartoni, circa la metà dei quali sotto forma di imballaggi: del totale la raccolta differenziata è stata di circa 6 milioni di tonnellate, ma di queste sono state avviate al riciclo circa 3 milioni di tonnellate, soprattutto di imballaggi che sono raccolti diligentemente dai supermercati e dai negozi: avrete visto che la sera accanto al cassonetto, davanti ai negozi, ci sono cartoni ben ripiegati che saranno raccolti e che sono destinati al riciclo, un processo che produce anche lui dei residui e rifiuti. Nel complesso di tutta la carta e i cartoni consumati circa il 40 percento va perduto, il che mostra quanto ancora si possa migliorare nel campo delle raccolta differenziata e del riciclo di questa frazione merceologica. Un po’ meglio vanno le cose per il vetro; rispetto ad un consumo nazionale di vetro di circa 4,5 milioni di tonnellate nel 2009, il consumo di imballaggi è stato di circa 2 milioni di tonnellate, di cui sono stati raccolti circa 1,5 milioni di tonnellate; di questi poco più di 1,3 milioni di tonnellate vengono dalla raccolta differenziata, la quale peraltro fornisce soltanto poco più di 1,1 milioni di tonnellate di materiale veramente riutilizzato nella produzione di nuovo vetro; parte del vetro raccolto impropriamente insieme agli altri rifiuti di plastica, metalli, eccetera, va perduto. Lo studio citato indica bene quanta strada vada ancora fatta per una raccolta degli imballaggi di vetro da soli, una vera, e non finta, raccolta differenziata; solo così si possono effettivamente usare di meno materie prime (sabbia, carbonato sodico, marmo, eccetera), meno acqua ed energia. Gli altri interessanti capitoli di questo trattato di riciclologia riguardano la materie plastiche; la gomma e i pneumatici fuori uso; il legno; l’alluminio e gli altri metalli non ferrosi; i rottami ferrosi e gli imballaggi di acciaio come le “lattine” usate per bevande e molti alimenti; i cosiddetti RAEE, cioè i rifiuti di elettrodomestici, frigoriferi, lavatrici, ma anche di apparecchiature elettroniche come computer, televisori, eccetera. In Italia nel 2009 sono stati immessi in commercio frigoriferi, condizionatori di aria e scaldabagni per un peso di 120.000 tonnellate; si può immaginare che più o meno la stessa quantità sia stata buttata via, ma i rifiuti di queste apparecchiature identificati sono stati di circa 60.000 tonnellate, il che fa pensare che una grande quantità sia finita in discariche abusive. Nello stesso anno sono state immesse in commercio 74.000 tonnellate di televisori e monitor e ne sono state raccolte per 58.000 tonnellate. Mentre il riciclo di merci “semplici”, come carta, vetro, plastica, è relativamente facile, il recupero di materiali da merci complesse come elettrodomestici e rifiuti elettronici comporta delicati problemi anche ambientali perché talvolta contengono sostanze tossiche, molte delle quali sconosciute in quanto talvolta si tratta di apparecchi fabbricati anni fa, non si sa come. Una parte dei rifiuti elettronici, per esempio, viene esportata in Africa, India, Cina, Estremo Oriente, dove innumerevoli mani pazienti smontano (spesso senza precauzioni per la salute e l’ambiente) le apparecchiature nelle loro componenti fino a recuperare metalli preziosi nascosti in mezzo a plastica e altri materiali. Simili problemi si hanno nello smaltimento dei veicoli fuori uso (nel 2009 è stato di 1,2 milioni di tonnellate il peso di quelli destinati alla demolizione) e delle pile e accumulatori. La legge prevede la raccolta differenziata non solo degli oli lubrificanti usati, che vengono in parte riciclati, ma anche degli oli e grassi alimentari residui dopo la frittura nelle industrie e nei locali di ristorazione; nel 2009 ne sono state raccolte 42.000 tonnellate, una quantità destinata ad aumentare. Si stima che ogni anno circa 280.000 tonnellate di grassi di frittura vengano buttati via (senza contare quelli che vengono buttati via nel settore domestico) e questa massa di grassi usati, immessi impropriamente nelle fogne, rendono più difficile il funzionamento dei depuratori delle acque, quando invece potrebbero, con opportuni trattamenti, diventare lubrificanti e anzi carburanti per motori diesel. C’è della ricchezza nei rifiuti e nelle fogne.(Giorgio Nebbia – La Gazzetta del Mezzogiorno -- Proposta per la rubrica “CheAmbienteFa” di martedì 23 novembre 2010.)

ECOMAFIE

53

La tratta dei rifiuti

Legambiente: nel 2010 traffici illeciti per 11.400 tonnellate.Secondo i dati resi noti il 7 giugno dal Rapporto annuale sull’Ecomafia,  la quantità di rifiuti destinati al traffico illecito, sequestrata dall’Agenzia nazionale delle Dogane, è triplicata passando da 4.800 tonnellate del 2009 alle 11.400 tonnellate nel 2010.

 Eppure carta, plastica, vetro e tutti i metalli dall’alluminio al rame, dopo il loro primo ciclo di vita, attraverso la raccolta differenziata casalinga ed industriale, il trattamento di recupero ad opera dei consorzi di riciclo, potrebbero ritornare come nuovi. Non più rifiuti ma vere e proprie “materie prime seconde”. Un processo ideale riassumibile nelle ormai famose tre R: «Riduci. Riusa. Ricicla», ancora lontano dal compiersi, però. E che spalanca, così, le porte al traffico illecito di rifiuti.  

Le direttrici del traffico illecito

Tossici e non trattati, come lo scarto delle lavorazioni industriali. O come la plastica e la carta che impregnate di sostanze nocive, stipate in navi-container,  raggiungono, via mare, il Sud del mondo. Attività totalmente illegali, stando al Trattato internazionale di Basilea, varato nel 1989 e tuttora vigente, che proibisce ai Paesi europei aderenti all’Ocse di esportare rifiuti nei Paesi in via di sviluppo.La rotta verso l’Africa. «Ad oggi sono due le direttrici del traffico illecito che partono proprio dal Mediterraneo e dalle nostre coste», ha raccontato Antonio Pergolizzi, coordinatore nazionale dell'Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente. «I rifiuti ferrosi, come le carcasse d’auto non bonificate o i Raee di grandi dimensioni come lavatrici e frigoriferi, vanno dal Nord al Sud, in Africa. Mentre metalli, plastiche e carta, da qualche anno passano dalla direttrice Ovest-Est, dall’Europa al Sud Est asiatico e alla Cina».Così nei porti di Venezia, Genova, Gioia Tauro e Napoli si sono intensificati i controlli degli ufficiali dell’Agenzia nazionale delle Dogane, in collaborazione con il Comando carabinieri per la tutela ambientale e la Guardia di finanza.  

I sequestriCresce anche il traffico illegale di rifiuti Raee come televisori ed elettrodomestici.

Tanto che negli ultimi tre anni le quantità di materiali sequestrati è triplicata. Secondo i dati di Ecomafia 2011, il dossier presentato il 7 giugno a Roma, che fotografano annualmente le storie e i numeri della criminalità ambientale, siamo passati dalle 4.800 tonnellate del 2008 alle oltre 7.400 del 2009 fino ai ben 11.400 dell’ultimo anno. Un aumento proporzionale al considerevole flusso di merci che è stato movimentato nei porti italiani durante il 2010, pari a circa 4,4 milioni di container .Come un ago in un pagliaio. «Sequestri che non vengono effettuati a campione», ha precisato Pergolizzi, «sarebbe come cercare un ago in un pagliaio, ma dopo un’intensa attività di intelligence». Gli investigatori studiano, infatti,  i flussi di merci fatturate e descritte nei documenti per l’esportazione come materie prime seconde.Scarti di lavorazione industriale. Categorie merceologiche che hanno avuto un incremento tra il 150% e il 200%, solo nell’ultimo triennio. «In realtà avanzi e scarti di lavorazione industriale che vengono esportati in uno o più Paesi europei per poi arrivare in un Paese extra-Ue». Meccanismo attraverso cui i trafficanti cercano di aggirare le regole comunitarie, con vere e proprie

54

triangolazioni. «E che si potrebbe fermare, paradossalmente, solo bloccando il libero commercio di merci tra i Paesi  membri». 

Giocattoli e computer

Ma che fine fanno plastica e metalli? «Anche se non bonificati vengono impiegati da Paesi in crescita esponenziale come la Cina, come se fossero materie prime, rientrando nel ciclo produttivo industriale di prodotti elettronici e giocattoli». O bruciati negli inceneritori per produrre energia, con enormi danni ambientali ed umani.Smaltimenti illegali in Ghana. «Vere e proprie officine dell’orrore dove donne, uomini e bambini lavorano senza alcuna protezione, respirando e toccando materiali cancerogeni e velenosi», ha concluso Pergolizzi.Tragedie che accomunato Paesi e città da una parte all'altra del pianeta. Dalla capitale del Ghana, Accra dove arrivano i prodotti elettronici dei Paesi ricchi, smaltiti da giovani che vivono fra veleni e fumi tossici. Allo Yantgtze e nei laghi circostanti, in Cina dove sono ormai stoccati oltre venti miliardi di tonnellate di rifiuti. Eludere le norme di sicurezza. Intanto proprio la Cina e il Sud Est asiatico realizzano giocattoli, computer o telefonini prodotti senza le norme di sicurezza e qualità che vanno ad alimentare il mercato della contraffazione internazionale. Ritornando poi sulla “piazza” europea e italiana. Con un altro risvolto amaro. «Il recentissimo recepimento dell’ultima direttiva Ue, la 2008/99/Ce in materia di reati ambientali, pur istituendo la responsabilità giuridica delle aziende», ha concluso Pergolizzi, «lascia che, dopo il sequestro lo smaltimento resti a carico delle regioni o delle provincie autonome, quindi della collettività».Il risultato è che rifiuti tossici e merce non conforme agli standard, in attesa dei procedimenti penali, rimangono stoccati nelle aree portuali.  

L’oro rosso: dai treni ai super conduttori 

Secondo Legambiente il rame, che viene trafugato da reti ferroviarie e stazioni, è spesso fuso in lingotti e destinato al mercato asiatico.

Un capitolo a sé merita, invece, uno dei metalli che è da tempo al centro delle cronache italiane: il rame. Primo elemento metallico conosciuto e usato dall’uomo, dopo l’oro, è tutt’ora diffusissimo.Se per la sua resistenza agli agenti atmosferici e al suo potere batteriostatico è adatto all’utilizzo in edilizia e per le tubature di acqua e gas, grazie all’alta conducibilità elettrica è indispensabile per la produzione di qualsiasi oggetto abbia all’interno contatti elettronici, come i microprocessori di computer e cellulari. Ed è altrettanto  fondamentale per la creazione di super-conduttori e leghe speciali a memoria.Quotazioni mondiali in salita. Caratteristiche che, in concomitanza con l’aumento dei costi estrattivi, hanno provocato la salita della sua quotazione sul mercato internazionale, arrivata fino a 9.000 dollari la tonnellata.Tutti fattori che hanno inciso sull’aumento di furti sul territorio italiano e comunitario.Furti sulla rete ferroviaria. Colpendo principalmente reti ferroviarie e stazioni, dove vengono trafugati cavi elettrici «anche se bisogna distinguere tra bande di piccolo cabotaggio e l’attività della criminalità organizzata», ha precisato Pergolizzi. «In ogni caso, il rame viene fuso in lingotti da fonderie compiacenti e destinato anch’esso al mercato asiatico».Tanto che, secondo un’ultima indagine di Anie, la Federazione nazionale Aziende elettrotecniche ed elettriche, tra le imprese associate,  nell’autunno 2010 sono aumentati  i tentativi di furto direttamente a depositi e siti produttivi che impiegano il prezioso “oro rosso”. 

(R. Battaglia, Legambiente, rapporto di martedì 7 Giugno 2011)

55

27.L’accumulazione delle scorie nucleari

Nuke e carbone, costi segretiEnergia negli Stati Uniti: il rapporto “Benefits of Beyond Bau. Human, Social and Environmental Damages Avoided through the Retirement of the US. Coal Fleet”, redatto dagli specialisti della Synapse Energy Economics per l’istituto non profit Civil Society Institute (Csi) è molto chiaro sui costi umani, sociali e ambientali delle attuali modalità di produzione dell’energia elettrica, che nello scenario attuale prevedono un ampio ricorso a carbone e nucleare.Il carbone, intanto. Certo appare una fonte energetica economica, ma ogni anno le emissioni di gas e particolato dalle centrali provocano migliaia di morti premature, per un costo alla collettività (volendo monetizzare la vita!) di circa 272 miliardi di dollari; quattro volte il costo dell’energia elettrica prodotta con il carbone. Secondo la United States Geographic Survey, (Usgs), i prelievi di acqua da parte delle centrali termoelettriche costituivano (nel 2005) il 49% dei prelievi totali nella nazione; oltre 200 miliardi di galloni di acqua; solo per raffreddare gli impianti. E poi: circa 100 milioni di tonnellate di scarti di carbone sono già sepolti in discariche o lagune. E ancora: due miliardi di tonnellate di Co2 sono emesse da simili centrali.Passiamo all’energia nucleare. Senza che ci sia ancora un piano di lungo periodo per lo stoccaggio delle scorie radioattive, una tipica centrale nucleare da 1000 megawatt può produrre circa 30 tonnellate di scorie ad alto livello di radioattività. Gli Usa hab104 reattori per una capacità totale di 101.000 Mw e la produzione annuale di scorie può arrivare a 3.000 tonnellate, in gran parte stoccate sul posto o in luoghi temporanei. Ma 64 centrali non sanno più dove metterle Problematico il trasporto così pericolosi a un eventuale sito unificato. Anche la fase estrattiva ha un pesante impatto ambientale e produce significative quantità di scarti: una miniera richiede molta acqua e circa 100 ettari di terra che sarà in permanenza contaminata. Quanto ai rischi di incedente nucleare , prosegue il rapporto, non sono quantificabili e anche paesi con norme stringenti non possono dirsi immuni da potenziali disastri. Di fronte a questi immani danni del carbone e del nucleare, nel 2010 la stessa agenzia Synapse ha elaborato, sempre per il Civil Society Institute, un rapporto centrato su uno scenario di transizione per il 2010-2050, secondo il quale gli Usa dovrebbero investire il più possibile nella tecnologia dell’efficienza in ogni settore, il che ridurrebbe il consumo di elettricità del 40% rispetto allo scenario prevedibile nel “business as usual”. Così il paese potrebbe ritirare l’intero insieme di impianti a carbone senza costruirne di quelli cosiddetti di nuova generazione. E si risparmierebbero le decine di miliardi altrimenti necessarie per il controllo dell’inquinamento. Le emissioni di Co2 del settore elettrico si ridurrebbero dell’80% . Le emissioni di biossido di zolfo quasi si annullerebbero e quelle di ossidi di azoto calerebbero del 60%.Al tempo stesso, si potrebbe ridurre velocemente del 28% (così poco?) la capacità nucleare . Le energie rinnovabili – solare, eolico, geotermico,biomasse – potrebbero arrivare a soddisfare il 50% del fabbisogno elettrico. L’uso del gas naturale nel settore elettrico crescerebbe più lentamente.Conclude il Csi mentre la Casa Bianca e il Congresso dibattono su quello che chiamano “lo standard dell’energia pulita”, occorre una riflessione su cosa si intende con quell’aggettivo: “pulita”, appunto.(M. Correggia, su “il manifesto” del 2 febbraio 2011)

56

28.L’inquinamento da inceneritori e gassificatori

Idee sostenibiliL’inceneritore con il soprabito verdeSembra fantascienza e invece è Danimarca. Amagerforbraending è il nuovo inceneritore pensato per la periferia di Copenhagen. 91.000 metri quadri vestiti di verde a firma di Bjarke Angels Group. Dicono gli architetti: Molti degli impianti costruiti di recente sono scatole avvolte in una costosa carta da regalo. A noi interessava aggiungere una funzione”. Parco d’estate, d’inverno Amagerforbraending diventerà una pista da sci artificiale, con 31 mila metri di discese. Dagli ascensori che portano alla cima, si potranno scorgere, attraverso la facciata, gli impianti di smaltimento. E riflettere sul senso di questa montagna di rifiuti. Bella e orrifica (L.F.) (con foto)

29.Consumo eccessivo di materie prime industriali

I piani dell’ENI in Congo contestati dagli ambientalistiL’azienda italiana vuole estrarre il petrolio dalle sabbie bituminose congolesi. Ma gli ambientalisti insorgono: così si distruggono le foreste pluviali e un’area ricca di biodiversità.

Nel maggio del 2008 l’ENI, il gigante dell’energia italiano, ha annunciato un progetto per l’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose del Congo. Ma i suoi piani sono stati contestati dagli ambientalisti, preoccupati per il futuro di una delle foreste pluviali più grandi del mondo.Secondo l’ENI, le attività di estrazione riguarderebbero solo un’area coperta dalla savana erbosa, senza danneggiare l’ambiente circostante. Ma uno studio pubblicato il 9 novembre 2009 dalla Fondazione Heinrich Boll, il think tank dei Verdi tedeschi, rivela che la zona interessata è occupata per più della metà dalla “foresta vergine e da alcune aree con una grande biodiversità”. Il progetto dell’ENI in Congo sarebbe il primo tentativo compiuto fuori dal Canada di ottenere il petrolio contenuto nelle sabbie bituminose (una miscela di sabbia, argilla, acqua e bitume, un olio pesante). Come dichiara una delle autrici dello studio , l’attivista britannica Sarah Wykes, è “un processo molto inquinante, che comporta l’emissione di quantità elevate di anidride carbonica. E lo si vorrebbe applicare in una zona molto sensibile dal punto di vista ecologico. Il rischio è troppo alto”.L’ENI ha risposto ad una serie di domande via e.mail, assicurando che il progetto di sfruttamento delle sabbie bituminose non comporterà “la distruzione della foresta vergine originaria o l’occupazione di terreni agricoli, ne avrà un impatto sulle aree caratterizzate da notevole biodiversità e sulla popolazione locale, che non sarà costretta a trasferirsi”.In canada le sabbie bituminose si trovano in un’area molto estesa della foresta boreale nella regione dell’Alberta. Grazie a questa risorsa il paese è diventato un importante produttore di petrolio e può contare su 174 miliardi di barili di greggio ancora da estrarre.Queste operazioni, tuttavia, prevedono un grande dispendio di acqua e di energia. Alcuni scienziati hanno calcolato che per estrarre un barile di bitume si genera un volume di anidride carbonica tre volte superiore a quello prodotto nell’estrazione di un barile di petrolio con metodi convenzionali. Inoltre l’acqua usata per separare dalla sabbia viene scaricata in bacini di decantazione altamente tossici, che in alcuni casi sono talmente estesi da essere visibili dallo spazio. Enormi tratti di foresta sono stati abbattuti per far posto agli impianti di sfruttamento delle sabbie bituminose. Il costo elevato di questi progetti non scoraggia però le grandi aziende energetiche occidentali. Molte stanno prendendo di mira la fascia dell’Orinoco, un vasto giacimento di bitume in Venezuela. In Congo l’ENI ha ricevuto il permesso di esplorare, in cerca delle sabbie bituminose, due zone che si estendono su un’area complessiva di 1790 chilometri quadrati – Tchikatanga e TchiKatanga-

57

Makola, da cui ritiene di poter estrarre diversi milioni di barili di petrolio. Allo stesso tempo si è impegnata a costruire una nuova centrale elettrica e a creare delle piantagioni di palme da olio.L’ENI è attiva da anni in Congo, il quinto produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, dove gestisce il giacimento petrolifero onshore di M’boundi e pensa di usare il gas naturale estratto da questo bacino – che al momento viene bruciato nell’atmosfera, - per alimentare l’impianto di raffinazione delle sabbie bituminose. Da molti mesi, però, il nuovo progetto dell’ENI è contestato. Il 60% del territorio congolese è ricoperto da foreste tropicali di pianura in gran parte intatte. Questi boschi sono di importanza vitale per l’assorbimento dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera.Un impatto da calcolareNel corso dell’ultimo anno, l’azienda italiana ha cercato di stimare l’entità del giacimento di sabbie bituminose attraverso le prove sismiche, le immagini satellitari e le trivellazioni. Sta inoltre calcolando il possibile impatto socio ambientale delle attività estrattive attraverso uno studio ancora in corso. Nello studio pubblicato dalla fondazione Heinrich Boll si cita un documento dell’ENI del 31 marzo 2009, che sarebbe circolato tra i dirigenti dell’azienda italiana. Secondo il documento, a cui ha avuto accesso anche il Wall Street Journal, dalle rilevazioni satellitari e topografiche della flora risulterebbe che “la foresta tropicale e altri sensibilissimi settori della biosfera (per esempio le aree paludose) coprono dal 50 al 70% circa dell’area dove dovrebbero avvenire le esplorazioni”.(G. Chazan, tratto da “Internazionale “ del 17 novembre 2009, con foto)

Non spaccate quelle rocceIn Europa l’estrazione del gas di scisto, conosciuto anche con il termine inglese gas shale, ha conosciuto un nuovo stop. Dopo il divieto momentaneo imposto in Francia, nei giorni scorsi anche l’Inghilterra ha deciso di sospendere le attività di esplorazione. Il provvedimento è stato preso a seguito del ripetersi di fenomeni tellurici direttamente collegati alle operazioni per “stanare” il gas di scisto dal sottosuolo. Nei pressi di Blackpool, nella regione del Lancashire, (Inghilterra settentrionale), le scosse di terremoto registrate sono state senza dubbio di modestissima entità, 1,5 e 2,3 della scala della scala Richter, ovvero 12 miliardi di volte meno potenti di quella che ha devastato il Giappone lo scorso 11 marzo. Ciò non toglie che entrambe si sono verificate in contemporanea con il fracking messo in atto dalla compagnia energetica Cuadrilla Resources, come confermato dagli esperti del British Geological Survey, che hanno evidenziato un nesso di causalità quasi certo tra i due fenomeni. Il fracking consiste nell’iniettare ingenti quantità d’acqua mischiata a vari agenti chimici nelle viscere della terra così da portare al massimo la pressione e causare l’esplosione delle rocce che conservano al loro interno il gas. Una tecnica molto controversa importata dagli Stati Uniti, dove tra il 2009 e il 2010 la produzione di gas di scisto è raddoppiata, passando da 63 a 138 miliardi di metri cubi. Eppure proprio negli Usa, nello stato di New York e nella Pennsylvania, è stato imposto il divieto di cavare gas di scisto dal terreno. Non a caso, gli studi condotti nelle località interessate hanno dimostrato che nelle falde acquifere la presenza di metano era di 17 volte superiore alla norma. Motivo per cui sono già circolati su internet inquietanti filmati di persone che davano letteralmente fuoco all’acqua…Val la pena sottolineare che in Inghilterra l’alt ai lavori potrebbe durare solo poche settimane – è stato un provvedimento cautelativo, il Comitato sui cambiamenti climatici della Camera dei Comuni ha già fatto sapere che “non ci sono prove che il fracking sia insicuro” e il blocco delle prospezioni è arrivato su iniziativa della stessa Cuadrilla Resources. In Francia, invece, una moratoria iniziale si dovrebbe invece trasformare in uno stop vero e proprio, sull’onda lunga della battagli intrapresa dalla popolazione della regione di Languedoc-Roussillon. Lì, insieme alla quasi totalità della popolazione locale, per contrastare l’operato delle numerose compagnie energetiche che avevano già ottenuto i permessi dal governo centrale, è sceso in campo anche Josè Bovè. La protesta è stata massiccia e ben strutturata, con forti argomentazioni legali a sostegno delle istanze

58

presentate e gruppi di appoggio un po’ in tutto il paese. Lo stesso ministro dell’ambiente, Jean-Louis Borloo, che aveva siglato gli accordi per le concessioni, ha dovuto ammettere di aver commesso un errore.In Europa non sembra volersi fare troppi scrupoli la Polonia, che di gas shale ne ha parecchio e sta provvedendo ad estrarlo il più possibile . Anche Irlanda, Austria e Germania stanno provando a battere del gas non convenzionale, che al di fuori del Vecchio Continente è molto popolare in Cina, Australia e British Columbia. IL Canada è già il primo produttore mondiale di sabbie bituminose, fonti “anomale” che prevedono emissioni di gas serra dalle tre alle cinque volte superiori a quelle del petrolio. E che, come il gas di scisto, scombussolano vaste aree di territorio e inquinano le falde acquifere.(L. Manes su “Il manifesto” dell’8 giugno 2011)

Aziende troppo avideI profitti da record dei giganti minerari australiani – Bhp Billiton, Rio Tinto e Xstrata – dimostrano la loro avidità. Nell’ultimo decennio le loro entrate sono aumentate del 530 %, una crescita otto volte superiore a quella dei salari degli operai del settore. Con una campagna multimilionaria, le aziende minerarie sono riuscite a far ridurre l’imposta sugli utili da 40 al 30%. La tassa originaria, proposta dell’ex premier Kevin Rudd, avrebbe fruttato 99 miliardi di dollari, che potevano essere investiti nella sanità, nell’istruzione e nelle energie rinnovabili, mentre la Mineral resource rent tax del governo di Julia Gillard ridurrà la cifra a 38,5 miliardi. Una ricerca del dipartimento delle imposte, inoltre, dimostra che il settore minerario ha pagato meno tasse del dovuto. Come se non bastasse, le aziende minerarie, già complici del degrado ambientale del paese, hanno mostrato una totale indifferenza di fronte ai tentativi del governo di trovare le risorse per ricostruire le zone colpite dalle recenti alluvioni. “L’unica soluzione è nazionalizzare il settore minerario” conclude il settimanale Green Left Weekly. (Tratto da “Internazionale” dell’ 11 marzo 2011, con piccola foto)

30.Consumo eccessivo di terreni e materie prime agricole per scopi industriali

IndiaIndustrie contro terra: lo “sviluppo”crea i suoi conflittiIl governo dell’India ha deciso di autorizzare la costruzione di una grande acciaieria sulla costa del Golfo del Bengala, in uno stato noto per i suoi grandi giacimenti minerari e per la povertà del suo sviluppo sociale. Un mega-progetto: il gruppo sud coreano Posco, quarta azienda mondiale della siderurgia, ci metterà 12 miliardi di dollari. “Infine il più grande investimento diretto straniero ha avuto il via libera”, ha scritto il Times of India: è salva la reputazione del paese come destinazione per mega investimenti. La notizia è rimbalzata sulla stampa finanziaria internazionale – per Bloomberg News “è un incoraggiamento per aziende, nazionali e straniere, allarmate dalla linea dura tenuta da governo in materia ambientale. Di rado un progetto industriale aveva suscitato tanta attenzione. E non è solo per le dimensioni dell’investimento o la sua valenza economica e strategica (sembra che il primo ministro Manmohan Singh abbia premuto personalmente per mandare avanti l’affare). Il punto è che quel progetto è fermo da ben cinque anni, bloccato dall’opposizione degli abitanti della zona designata: venticinquemila persone che vivono di agricoltura e non vogliono perdere la terra a favore della nuova industria. Ed è questo che rende il caso Posco emblematico di decine, centinaia, di conflitti simili in tutta l’India – ricorda il caso Singur, in Bengala Ocidentale, la rivolta dei villeggi che hanno rifiutato di cedere la terra alla fabbrica in cui Tata, l’azienda automobilistica partner di Fiat, avrebbe costruito la sua nuova utilitaria.L’india è una delle “storie di successo” dell’economia globalizzata. Da quasi un decennio il prodotto interno lordo cresce oltre l’8% annuo; superata la recessione mondiale con appena una

59

piccola flessione, il 2010 si è chiuso con nuovi record – crescono export, produzione industriale, borsa, mercato immobiliare. E’ la nona destinazione per gli investimenti mondiali. Per il 2011 si fanno previsioni di crescita al 10% - l’India vuole essere riconosciuta come una nuova potenza mondiale.Sempre più spesso però, lo sviluppo economico- industrie, miniere, grandi infrastrutture – trova l’opposizione delle popolazioni costrette a sfollare. E questo è il rovescio della “storia di successo”. L’economia globale chiede materie prime e l’India ne è ricca: ma la mappa dei giacimento minerari coincide con la mappa delle foreste, delle popolazioni native (“tribali” nel vocabolario indiano), della povertà rurale. Poli industriali spuntano tra le risaie e i delta più fertili. E la spinta a moltiplicare miniere, industrie, centrali energetiche e “zone economiche speciali” si scontra con centinaia di movimenti per la terra, contro le requisizioni, anti-displacement. A volte sulle proteste popolari si inserisce il movimento armato di ispirazione maoista diffuso in quell’ampia regione di montagne e foreste: allora lo scontro cambia valenza. Spesso la presenza del movimento armato, vera o presunta, diventa alibi per reprimere organizzazioni della società civile e movimenti di massa. E’ questo che ha fatto delle acciaierie Posco un caso test. La pressione degli “investitori” è forte.“Quanto amichevole verso gli investitori è l’India?” si chiedeva un mese fa The Economist a proposito del caso Posco. Per aver discusso alcuni investimenti il ministro dell’ambiente Jairam Ramesh è tacciato di “oltranzismo”. Lui si difende “Io applico le leggi”, ci ha detto. Con sollievo dei “global player” il progetto Posco ora ha il nullaosta ambientale, sebbene con molte condizioni. Ma il conflitto non è chiuso, gli abitanti di quei villaggi sono pronti alle barricate. L’India, ci ha detto il portavoce del movimento contro l’acciaieria Posco, “sta bruciando di migliaia di conflitti” (M. Forti su “il manifesto” del 16 febbraio 2011, con un altro articolo e una intervista e alcune foto)

31.L’aumento di metalli pesanti nel sangue

Studio pubblicato a Oxford: ferro e radon oltre i livelli massimiL’Etna che fa ammalare “Troppi metalli nell’acqua”La media più alta al mondo di tumori alla tiroide

Catania – Ci si ammala di tumore alla tiroide a Catania, più che ogni altra parte del mondo e una delle cause potrebbe essere l’acqua potabile che arriva dall’Etna, ricca di metalli pesanti potenzialmente pericolosi. E’ stata accertata la presenza di ferro, boro, manganese e vanadio oltre che di radon con livelli spesso al di sopra della massima concentrazione ammissibile. Che Catania detenesse il primato per un tumore che colpisce soprattutto le donne si era capito da tempo. Ma finalmente si riesce a scoprire il motivo. Sul Journal National Cancer Institute di Oxford, una delle più importanti riviste internazionali di oncologia, è stata pubblicata una ricerca realizzata dagli istituti di endocrinologia siciliani in collaborazione con l’osservatorio epidemiologico e l’Arpa, l’Agenzia per l’Ambiente. Nel periodo 2002-2004 i ricercatori hanno accertato che l’incidenza di tumori alla tiroide in provincia di Catania è stata di 31,7 casi ogni cento mila abitanti nelle donne e di 6,4 per gli uomini. Contro una media della metà nel resto dell’isola (simile a quella italiana) :14,1 casi e 3 per gli uomini.Nell’area etnea quindi c’è qualche fattore di rischio. Altre ricerche avevano evidenziato che questa zona dell’isola e le Hawaii sono accumunate dall’alto numero di tumori della tiroide ed era stato immediato il collegamento con l’unica cosa che hanno in comune, cioè un vulcano. Ma se fino ad ora si era data molta importanza alle emissioni di vapori lo studio pubblicato sulla rivista americana analizza anche la qualità dell’acqua. Per una ragione: “Ci siamo accorti – spiega Riccardo Vigneri, direttore dell’Istituto di Endocrinologia di Catania – che l’incidenza di tumori alla tiroide in provincia di Catania è alta anche nei comuni che sono lontani dal vulcano. Mentre non è così in aree

60

della provincia di Messina che sono più vicine all’Etna. Da qui gli accertamenti sull’acqua che è l’unico elemento che accomuna i residenti della provincia. Ma cosa c’è di pericoloso nell’acqua dell’Etna? Le analisi hanno accertato livelli di metalli pesanti e radon troppo spesso al di sopra del cosiddetto “mac” (massima concentrazione consentita) Così per il vanadio, in 193 campioni di acqua sui 280 esaminati, fino al radon che supera il Mac in 48 campioni su 119. E questo per un bacino idrico enorme. Ben 1700 milioni di metri cubi di acqua utilizzata da 750.000 persone. Ecco perché gli stessi ricercatori vogliono evitare allarmismi. Nell’acqua ci sono metalli pesanti potenzialmente pericolosi – spiega Gabriella Pellegriti, responsabile esecutivo della ricerca – ma attenzione: non abbiamo la dimostrazione scientifica di un rapporto causa-effetto tra queste sostanze e l’insorgenza dei tumori. C’è invece una linea di ricerca sulla quale occorre continuare a lavorare”. Lo studio ha accertato l’aumento di un particolare tipo di tumore alla tiroide cosiddetto “capillifero”. “Spesso – spiega la Pellegriti – l’insorgenza di questo tumore è correlata ad una mutazione genetica di un gene chiamato “braf”. Nei tumori tiroidei di Catania questa alterazione è più frequente che altrove ed è possibile che sia dovuta alla presenza di un carcinogeno ambientale di natura vulcanica presente nell’aria o nell’acqua”.La ricerca sta suscitando grande interesse nella comunità scientifica soprattutto in altre aree del mondo in cui ci sono vulcani attivi.

(A. Sciacca; il testo completo con foto e mappe sul Corriere della Sera del 9 novembre del 2009)

32.Aumento delle malattie causate da danni ambientali

Da Nord a Sud i malati ambientali aumentano

Il degrado dell’ambiente a causa di fattori tossici, epidemici o sociali, è responsabile di un quarto delle malattie e causa 13 milioni di decessi l’anno nel mondo. Questo fardello è più pesante per i paesi del Sud, dove si cumulano i rischi di infezioni e di inquinamento.

Le politiche di igiene condotte nei paesi occidentali hanno quasi eliminato le malattie infettive, che ancora un secolo fa rappresentavano il 20% delle cause di mortalità. Attualmente, esse sono responsabili soltanto del 2% dei decessi. Al contrario, i paesi del Sud soffrono contemporaneamente di infezioni, intossicazioni croniche e carenze di cure. La prima causa è la cattiva qualità dell’acqua bevuta. Questa provoca diarree, dissenterie, colera, infezioni tifoidee e contaminazioni da vermi intestinali. L’insalubrità, con un gran numero di pozze d’acqua stagnante, favorisce gli insetti che trasmettono parassiti estremamente pericolosi: malattia di Chagas, oncocercosi, dengue, lesmaniosi, febbri emorragiche o chikungunya sono in piena recrudescenza. La malaria, da sola, uccide quasi un milione di persone l’anno. A queste minacce si aggiungono oggi le sostanze inquinanti, che si diffondono nei suoli, negli alimenti o nell’aria. In città, gli abitanti respirano ossidi i zolfo, residui di piombo, (eliminati nelle città del Nord), particelle fini che fuoriescono da veicoli e fabbriche. I sistemi di riscaldamento che non eliminano in modo corretto i fumi (monossido di carbonio), così come il consumo di tabacco, favoriscono bronchiti croniche o enfisemi, complessivamente definite malattie polmonari croniche ostruttive (Mpoc). L’incidenza di queste patologie, come quella dei tumori e delle malattie cardio-vascolari, è in aumento.In sostanza, l’ambiente infetto o intossicato è ritenuto responsabile del 25% dei morti nei paesi in via di sviluppo, contro il 17% nei paesi industrializzati. Il numero di anni di vita in buona salute per

61

abitante, persi a causa dell’ambiente, è quindici volte più elevato nei paesi in via di sviluppo che al Nord.Nei paesi industrializzati, è l’inquinamento a essere principalmente sotto accusa, in particolare nelle città, dove lo si ritiene responsabile, nella sola Francia, i un numero di decessi fra i 6000 e i 9000 l’anno. L’asma colpisce un bambino su dieci. I tumori che costituiscono con le malattie cardiovascolari il 60 % delle cause di mortalità, aumentano in particolare nei ragazzi (più 1% ogni anno). Colpiscono un uomo su due e una donna su tre, e la metà ne morirà. Il numero di nuovi casi, in Francia ad esempio, è aumentato del 63% negli ultimi venti anni.Dall’amianto al mercurioQuesto aumento non è dovuto unicamente all’invecchiamento: nel 35% dei casi può essere imputato all’effetto di sostanze cancerogene. Catrami, amianto e diverse particelle fini inducono cancri del polmone ; il benzene e l’ossido di etilene sono responsabili del 2% delle leucemie; le aflatossine (microscopici funghi dei semi) scatenano cancri del fegato e dei reni….Si osserva anche un aumento delle malattie autoimmuni (sclerosi a placche….), dell’obesità, delle difficoltà a procreare (diminuzione accentuata della quantità e della qualità degli spermatozoi), manifestazioni che possono spiegarsi con dei disordini ormonali causati da prodotti chiamati “perturbatori endocrini”. Questa categoria comprende molecole molto diverse che entrano nella composizione di detergenti, plastificanti, solventi o pesticidi, che costituiscono “cocktail” difficili da controllare. Perché l’industria chimica non ha frenato la sua crescita: ogni anno nel mondo si producono 400 milioni di tonnellate di prodotti chimici, contro un milione nel 1930. Le contaminazioni si diffondono attraverso tutti gli ambienti (suoli, fiumi, mari, sangue umano, latte materno….), ma anche attraverso il pianeta: così gli Inuit assorbono un elevato tasso di mercurio attraverso i pesci che mangiano. Il mercurio, proveniente dai rifiuti industriali, valutati in 4500 tonnellate l’anno, è neurotossico come altri metalli pesanti come piombo, arsenico e cadmio. Sono i bambini a pagare il tributo più pesante a questi inquinamenti, ne muoiono 4 milioni ogni anno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2004 ha lanciato un appello, a udapest, per “proteggere i bambini dimeno di 5 anni (cioè il 10% della popolazione mondiale) sui quali si riversa ogni anno il 40% delle malattie legate all’ambiente, soprattutto perché assorbono un ecceso di sostanze nocive rispetto al loro peso corporeo”.Infine, anche ambienti di vita traumatizzanti o carenti creano danni: dalle sordità e insonnie dovute al rumore, alle sofferenze psichiche, fino alla mancanza di attività fisica che facilita crisi cardiache o diabeti.(Tratto da “Atlante per l’Ambiente” , Le Monde Diplomatique – Il manifesto, 2008, con mappe e grafici)

La tendenza. Un fenomeno costante in tutto il mondo, legato al miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari e abitative. Ma anche all’inquinamento

Le allergie aumentano per colpa del benessere. La vita “sterile” manda in tilt il sistema immunitario.

Non sono pochi quelli che temono la primavera come il peggiore degli incubi, perché sanno che si ritroveranno a starnutire in continuazione, con gli occhi che lacrimano e il naso che cola. C’è chi va al ristorante con la paura che una piccola quantità di cibo “proibito” possa scatenare uno shock anafilattico. C’è chi si ritrova con prurito e la pelle arrossata solo per aver toccato qualcosa che non tollera. Non è una vita facile quella degli allergici e siccome la fantasia del nostro sistema immunitario, che “decide” di rispondere in maniera anomala a sostanze di per se innocue, non ha limite, di allergie ce n’è per tutti i gusti: ai pollini, agli alimenti, agli insetti, ai farmaci, a sostanze di

62

ogni genere con cui si può venire in contatto. E l’esercito degli interessati è imponente:secondo i dati riferiti dal Libro Bianco della World Allergy Organization, Asthma and Immunology, nel mondo ci sono oltre trecento milioni di asmatici, 400 milioni di persone con rinite allergica, centinaia di milioni di allergici “vari” ( gli intolleranti a qualche alimento sono stimati in mezzo miliardo). Quello che più preoccupa gli esperti è il continuo incremento delle allergie non solo nel mondo occidentale, ma ora anche nei paesi in via di sviluppo: soprattutto nei centri urbani negli ultimi 30 anni la frequenza di alcune forme di allergia, come l’eczema atopico, è raddoppiata o triplicata. “In Italia si prevede che entro il 2020 un bambino su due soffrirà di rinite allergica – spiega Giorgio Walter Canonica, unico italiano fra i quattro responsabili del Libro Bianco e direttore della Clinica di Malattie respiratorie e allergologia dell’Università di Genova -,il perché di tutto questo è legato allo stile di vita. Il nostro modo di vivere è molto cambiato, tanto che le allergie vengono ora considerate il prezzo per il miglioramento della qualità della vita degli ultimi decenni. Cinquant’anni fa i bambini giocavano all’aperto, mangiavano “più sporco”, perché non c’erano tante delle norme di sicurezza che oggi impediscono il consumo di cibi non perfettamente conservati. Magari si pativa qualche gastroenterite in più, ma c’erano molte meno allergie. Oggi i ragazzi vivono una vita più “sterile”; passano la maggior parte del tempo al chiuso e la loro flora batterica intestinale è cambiata, per le modificazioni nella dieta. E il sistema immunitario “impazzisce” più facilmente.” (…) Se a tutto questo si aggiunge la qualità dell’aria che respiriamo, peggiorata per colpa dello smog e anche per il fumo di sigaretta, ecco spiegato il maggior pericolo di asma e allergie: un sistema immunitario già “indebolito” esposto continuamente a polveri e gas con effetti pro-infiammatori, prima o poi deraglia. “ Nelle grandi città, i bimbi che vivono al primo piano, più vicini alla strada, hanno un maggior rischio di asma e allergie rispetto a quelli che abitano gli ultimi piani riprende Canonica -, i nostri ambienti domestici, inoltre, sono “sigillati” rispetto all’esterno e questo crea le condizioni le condizioni ideali per il proliferare di acari e muffe. L’inquinamento poi sta

33.Diffusione malattie da virus ancora non curabili

Ebola fa strage, anche tra i gorillaEbola è uno dei virus più letali noti all’umanità: uccide tra il 50 e il 90% degli individui che infetta, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ebola provoca febbri emorragiche violente, si trasmette facilmente – attraverso il contatto con sangue, saliva, secrezioni e fluidi corporali – e non esiste una cura nota, mentre il lavoro per preparare un vaccino non ha ancora dato frutti: per tutto questo chi si ammala di Ebola ha poche probabilità di sopravvivere. Ebola però non uccide solo gli umani. Ogni volta che si registra un’esplosione della malattia tra gli umani, nelle foreste vicine al luogo dell’epidemia sono state trovate carcasse di gorilla o scimpanzé. Così, da tempo molti sospettano che un virus analogo ad Ebola colpisca anche i primati, -anzi, molti hanno ipotizzato che le popolazioni di primati costituiscano un “serbatoio” da cui il virus passa agli umani, i quali vengono a contatto con gli animali attraverso la caccia e l’alimentazione.Ora un gruppo di scienziati conferma che Ebola colpisce , anzi : fa strage tra i primati. Un gruppo di ricercatori spagnoli e tedeschi ha osservato che negli ultimi quattro anni almeno 5000 gorilla sono morti nella sola regione del Lossi Sanctuary, un’area naturale protetta nella parte nord-occidentale della repubblica del Congo al confine con il Gabon (dove il gruppo ha condotto il suo studio): a ucciderli è stato il ceppo Zaire del virus Ebola (detto Zebov, uno dei quattro ceppi riconosciuti del virus). Pubblicato dalla rivista Science,lo studio è stato guidato dalla primatologa Magdalena Bermejo dell’Università di Barcellona, in Spagna, e dall’istituto Ecosystemes Forestiers d’Afrique Centrale, che ha sede in Gabon.E’ uno studio importante: in primo luogo perché conferma che il virus colpisce anche la popolazione dei primati e in proporzioni molto più alte di quanto non sisia mai pensato, quindi che ci sia un’alta incidenza del contagio da gorilla a gorilla (o da scimpanzè a scimpanzè). A partire dall’agosto 2002, e poi per tutto il 2003, circa la metà della popolazione di gorilla (stimati in 1200)

63

che viveva dentro e intorno al Santuario Lossi è risultata uccisa da Ebola. Uno degli indicatori sono i nidi usati dai gorilla in una zona di circa 52 mila chilometri quadrati attorno all’area protetta; il numero di quelli occupati è crollato del 96%. Su questa base gli scienziati hanno stimato la cifra di circa 5000 gorilla della regione uccisi da Ebola da quando è cominciata l’infezione nel 2002. Il ceppo Zaire ha infettato le popolazioni umane in Gabon e nella Repubblica del Congo a partire dal 1994, fanno notare i ricercatori: loro ipotizzano che un quarto della popolazione mondiale di gorilla sia morta della malattia d allora, anche se insistono che è una stima – nessuno sa esattamente quanti gorilla vivono ancora e quanti sono stati uccisi dall’infezione. Nell’articolo in cui riferiscono i risultati del loro studio però scrivono che se alla decimazione causata dal virus “si aggiunge la caccia commerciale, abbiamo la ricetta per una rapida estinzione ecologica” dei gorilla: “Le specie di primati che erano abbondanti ed ampiamente distribuite un decennio fa si stanno rapidamente riducendo a piccole popolazioni residuali”.Lo studio fa notare che ci dev’essere una via di trasmissione da primate a primate, ma non è ancora noto come esattamente i gorilla prendano il virus. Un’ ipotesi è che il “serbatoio naturale” da cui il virus passa ai primati sia la popolazione di pipistrelli mangiatori di frutta, che abita la densa foresta pluviale congolese in cui vivono anche i primati: osservazioni di laboratorio mostrano che i pipistrelli infettati non muoiono del virus Ebola, e questo fa pensare che abbiano un ruolo nel mantenere il virus. I risultati dello studio nel Lossi Sanctuary sono coerenti con un altro studio, che sarà pubblicato nel prossimo gennaio sul giornale scientifico Transactions of the Royal Society of Tropical Medicine and Hygiene, dove si dimostra che la trasmissione del virus Ebola tra animali è molto più pervasiva di quanto si pensasse. “Ebola si diffonde sia all’interno della stessa specie che tra specie diverse di animali, “ con grande facilità, commenta Sally Lahm, del Institute for Research in Tropical Ecology, a Makokou (Gabon), che ha diretto lo studio (citata dal notiziario Environment News Service del 7 dicembre). Dice anche che l’incidenza dell’infezione e della morte per Ebola aumenta nei periodi di clima secco : lo stress ambientale sembra facilitare la diffusione della malattia. Da cui si vede che la sorte della popolazione dei primati e quella degli umani è strettamente legata.(M.Forti su “Il manifesto” del 9 dicembre 2006)

34. Diffusione obesità e relative malattie

Il consiglio comunale dichiara guerra al cibo supercalorico: in Figueroa Street si allineano 20 locali in appena 400 metriLos Angeles, stop ai fast food “Un abitante su tre è obeso”Il distretto sud, più popoloso e povero: niente licenze per due anni

Per due anni niente più nuovi “fast food” a South Los Angeles. Se martedì il consiglio comunale voterà l’ordinanza presentata da Jan Perry, attivissima amministratrice del distretto più popoloso e povero della metropoli californiana, per la prima volta le grandi catene della ristorazione - da McDonald’s a Pizza Hut, da Taco Bell a Burger King - dovranno fronteggiare in una grande città americana un veto all’apertura di nuovi esercizi per motivi legati alla salute dei cittadini. Nell’America che non cucina più e consuma cibi troppo grassi e zuccherati, l’obesità è infatti ormai diventata una vera e propria epidemia. E South Los Angeles è uno degli epicentri di questa crisi. Fin qui ben poche comunità hanno osato sfidare le multinazionali del cibo; Concord in Massachussets e Calistoga, una cittadina della Napa Valley, hanno messo al bando tutti i fast food, ma per motivi architettonici: non vogliono “megamangerie” che rovinerebbero il fascino dei loro centri storici ben preservati. L’anno scorso, Joel Rivera, che a New York è capo della maggioranza in consiglio comunale e presidente della Commissione Sanità, ha tentato senza successo di bloccare la crescita esponenziale della ristorazione industriale in una metropoli anch’essa afflitta, nei quartieri poveri, da obesità e diabete ormai a livello di emergenza.

64

Ora ci prova Los Angeles: nella parte meridionale della città, quella con la maggiore concentrazione di fast food, gli adulti considerati obesi sono oltre il 30%, rispetto a una media nazionale del 21%. Molti considerano quella che verrà votata dopodomani una misura demagogica e una manifestazione di impotenza: non sarà certo una moratoria di due anni nell’apertura di nuovi punti di ristorazione a modificare i costumi alimentari della gente in un quartiere nel quale l’arteria principale, Figueroa Street, allinea 20 fast food in appena 400 metri.Non è nemmeno detto che alla fine la sospensione delle licenze venga effettivamente applicata. Quella dei fast food è ormai una industria potente, con un giro di affari di 134 miliardi di dollari l’anno, che ha dato vita a una lobby molto aggressiva. Ogni volta che la politica cerca di porre limiti alla vendita di cibi industriali nelle scuole, di vietare la pubblicità televisiva di questi prodotti o l’uso dei grassi “trans” nella preparazione dei pasti, schiere di consulenti si alzno per protestare contro i regolatori, definiti “food nazi”, nazisti del cibo, e per rivendicare il pieno diritto del cittadino di scegliersi il pasto che preferisce: sia esso un’insalata o un super hamburger da 2000 calorie. Anche a Los Angeles, alla vigilia del voto, si è mobilitata la schiera dei consulenti. “Come si fa a concedere licenze solo ai ristoranti nei quali i clienti stanno seduti e vengono serviti ai tavoli?” protesta Dennis Lombard , responsabile della Food Service Strategies alla WD Partners. “E’ come proibire di vendere Chevrolet perché si vuole che la gente compri Mercedes”.Ragionamento rozzo, ma dietro il quale c’è un pezzo di verità: se i quartieri nord della città – quelli ricchi di Beverly Hills, Santa Monica, e Hollywood – sono pieni di ristoranti tradizionali, mentre a sud imperversano le “mangerie” industriali, ciò non dipende dalla perfidia delle multinazionali dei pasti, ma dalla domanda di una popolazione più povera che trova nei fast food cibo gustoso che costa poco in ambiente nel quale spesso ci sono anche giochi per i bimbi che chi torna tardi dal lavoro non riesce a portare al parco. Per modificare questa situazione bisognerebbe cambiare la cultura alimentare degli americani e sradicare la povertà.Del resto anche l’industria i suoi sforzi li ha fatti: negli ultimi anni ha smesso di pubblicizzare in tv cibi destinati ai bambini ad alto contenuto di zucchero e grassi, ha accettato di vendere nelle scuole succhi invece di bibite gasate e merendine a base di frutta invece di quelle fritte. Convinte che i giovani ingrassino non solo per quello che mangiano, ma anche perché si muovono poco, le imprese del settore hanno poi sponsorizzato in molte città la realizzazione di nuovi parchi giochi. Le catene di fast food hanno poi cominciato a proporre anche insalate e altri cibi a basso contenuto calorico, mentre ai bambini si cercano di offrire “happy meal” nei quali le patatine fritte sono sostituite da frutta affettata e caramellata. Qualcuno ora indica nel menù il contenuto calorico dei piatti offerti.Sono tutti passi verso la costruzione (o ricostruzione) di una coscienza alimentare, ma sono piccoli passi, rispetto alle dimensioni del problema. Per questo a Los Angeles ora vogliono adottare misure più drastiche : “Limitare i fast food non è di per se una soluzione”, riconosce Mark Vallkianatos, direttore del del centro per l’Alimentazione e la Giustizia dell’Occidental College, “ma è un pezzo del puzzle”. L’Amministrazione cittadina ha, infatti, varato un sistema di incentivi per spingere gli empori agli angoli delle strade a vendere più frutta e verdura e sta cercando di favorire l’apertura di trattorie tradizionali anche nei quartieri meno ricchi della città. Misure che per l’America liberista hanno il sapore della pianificazione e del dirigismo. Gli assessori di Los Angeles South replicano che quello di garantire piena libertà di scelta al cittadino-consumatore è un principio senz’altro valido che però, nel loro distretto, è di fatto limitato , oltre che dalla esiguità del reddito, dal fatto che quelli che vogliono evitare la ristorazione industriale, devono prendere l’auto (se ce l’hanno) e percorrere le 10-15 miglia che li separano dalle trattorie di Long Beach o Santa Monica.

I numeriMcDonald’s 30.000 ristoranti in oltre 65 paesi; un milione e mezzo di dipendenti; 52 milioni di clienti al giorno; 21,79 miliardi di dollari di fatturato.Burger King 11.202 ristoranti in oltre 65 paesi; 340.000 dipendenti; 7,9 milioni di clienti al giorno; 1,94 miliardi di dollari di fatturato;

65

Yum Riunisce Taco Bell, Pizza Hut, Kfc e altri; 34.000 ristoranti in oltre 100 paesi; 850.000 dipendenti; 22 miliardi di dollari di fatturato.

(M. Gaggi, sul Corriere della Sera del 16 settembre 2007, con foto e tabelle)

Bye Bye mio grasso fast foodL’America fa i conti con un’epidemia incontrollabile di obesità fra bambini e adolescenti (soprattutto neri e ispanici). Imputati numero 1? Hamburger e patatine fritte. Dalla California parte la controffensiva contro il “cibo spazzatura”. Ma il resto del mondo scopre ora il ketchup

Il dato più clamoroso sull’epidemia di obesità che affligge l’America è dell’Associazione dei chirurghi plastici: l’anno scorso quasi 5000 adolescenti americani si sono sottoposti alla liposuzione, oltre a quattrocentomila adulti. Un quadro reso ancor più inquietante da una ricerca dell’Università del Minnesota: per dimagrire l’83% degli adolescenti e il 57% delle adolescenti sovrappeso saltano i pasti, usano pillole dietetiche, fumano. Tutto di nascosto. Riferisce Alan Lake, pediatra della Scuola di medicina all’Università John Hopkins: “Il 17% dei nostri ragazzi è obeso e un altro 17% è molto sovrappeso. Cresce il numero dei diabetici che, a vent’anni o poco più, svilupperanno gravi malattie, innanzitutto cardiache”. La metà dei bambini obesi alle elementari e l’80% degli adolescenti obesi “combatteranno la malattia per tutta la vita: per la prima volta nella storia rischiamo di allevare una generazione che vivrà meno a lungo di quella dei genitori”. Come per gli adulti, nell’America che non si ferma mai, neanche a tavola, il maggiore responsabile di questa epidemia è il fast food, la giungla delle alte calorie. Gli americani, spiega la nutrizionista Marlene Schwartz del centro di politica alimentare all’Università di Yale, “ingurgitano oltre un terzo delle loro calorie nei ristoranti fast food”. Catene come McDonald’s, Burger King, Kentucky Fried Chicken, Pizza Hut, Taco Bell e via dicendo, negli ultimi anni, dopo adulti e adolescenti hanno preso a bersaglio i bambini.”Quelli sotto i 12 anni sono bombardati da ben 7600 spot televisivi all’anno di fast food e dolci”, osserva la Schwarts. Sono le stesse catene di cibo rapido che hanno già contribuito a fare degli americani il popolo più obeso della terra: è sovrappeso il 65%, oltre 180 milioni di persone, e obeso il 31%, circa 90 milioni. Le minoranze povere , ispano-americani e neri in testa, sono le più colpite: i fast food sono i più economici, il cibo è gustoso. Insomma, è il loro regno.(…)“Un ambiente tossico”I prodromi della rivolta risalgono ad una diecina di anni fa, quando la rivista “Time” dedicò la copertina a David Ludwig, il primario della clinica pediatrica di boston, titolo “Il guerriero contro l’obesità”. La rivolta stentò a decollare, nonostante l’allarme dato nel ’99 John Jackie e Keith Sculle, due studiose dell’Università Hopkins, con Fast food, una ricerca epocale sui carichi calorici: dai Big Mac, ancora a 99 centesimi fino alle patatine fritte. Fu Schlosser, con una spietata analisi della ristorazione industriale, basata sulle parti di scarto e sugli immigrati clandestini, “la carne umana”, a sensibilizzare l’opinione pubblica ai pericoli del fast food. E un numero sempre maggiore di statistiche avallò la sua tesi, cioè che si tratta di un “ambiente tossico”. Nel ’70 l’America spese 66 miliardi di dollari nei fast food, oggi ne spende 134 miliardi, più che per l’istruzione o il cinema o le auto. E nonostante sia indubbio il ruolo della genetica nell’obesità e più in generale nei danni collegati al “mangiar male”, per colpa di questo tipo di alimentazione in trent’anni l’obesità è raddoppiata e ogni anno costa 117 miliardi di dollari in cure e visite mediche, oltre a provocare, secondo alcune stime, 300.000 morti premature. Ancora alla fine degli anni ’90 il fast food celebrava i suoi trionfi a un congresso a Las Vegas, capitale del gioco d’azzardo, con l’ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov come conferenziere.. Adesso, oltre venti Stati e città dibattono disegni di legge e ordinanze che impongono a tutti i ristoranti, non solo fast food, di precisare quante calorie contenga ciascun piatto, (un superhamburger ne contiene 2000): (….)Il modello: lo slow food italiano

66

Secondo il dottor Ludwig, tuttavia, non bastano nuove normative perché la rivoluzione culturale abbia successo: “Per neutralizzare la bomba alimentare nucleare del fast food, delle bevande gassate e dei dolciumi occorrono anche modifiche della condotta sociale e terapie di gruppo”. Il pediatra cita uno studio del New England Journal of Medicine su oltre 2000 persone, durato 32 anni: chi frequenta gli obesi ha il 57% di probabilità in più di diventare obeso a sua volta, il 71% se si tratta di amici molto stretti o familiari. Ludwig suggerisce una campagna educativa sul modello dello slow food italiano : I genitori che lavorano non devono portare fast food a casa per guadagnare tempo. Devono cucinare cibi sani e dare l’esempio ai figli. Aumentano i siti internet, rileva, dove i bambini invitano i coetanei a rinunciare all’hamburger: come il bambino di sette anni che disegna McDonald’s come un mostro a caccia di piccoli. (….)Inevitabilmente, c’è chi si oppone al mutamento. Devin Alexander, critico culinario, ha appena pubblicato il libro Fast Food fix (Iniezione di fast food), un elogio delle frequenti trasgressioni da un’alimentazione che etichetta come “salutista”. Ma la tendenza al pasto salubre pare irreversibile. In settemila scuole elementari si applica il programma Catch (afferra) che insegna agli alunni selezionare le vivande in base ai tre colori del semaforo: avanti con le verdi (legumi),adagio con le gialle (pizza), fermi con le rosse (hamburger). E vari atenei hanno adottato il programma “Pianeta salute” dell’Università di Harvard, che propone meno tv, più esercizio fisico e un vitto che rafforzi cellule e ossa. A 70 anni esatti dalla nascita di McDonald’s, non è ancora troppo tardi per tornare alle sane abitudini di un tempo, quando il picnic era preparato dalle mamme e i bambini non avevano la pressione alta (oggi sono due milioni). I baby boomers, i figli del boom delle nascite nel dopoguerra, sono stati la generazione più indulgente con se stessa. Quella nuova sembra aver imparato la lezione. ( E. Caretto, sul Corriere della Sera Magazine, settembre 2007, con foto e grafici).

35. Ambiente poco da “macho”

Il calo di testosterone riguarderà un numero sempre maggiore di uomini e con effetti sempre più evidenti. Questo perché negli ultimi decenni la produzione media dell’ormone nel maschio adulto è globalmente calata: un quarantenne di oggi parte già in svantaggio rispetto ad un uomo di cento anni fa, che aveva un capitale ormonale iniziale maggiore. Per questo è destinato ad arrivare prima al di sotto della soglia di deficit. “I motivi sono vari. Da una parte lo stile di vita, che rispetto al passato richiede una minor produzione di testosterone: non dobbiamo più cacciare, la maggior parte di noi trascorre vite sedentarie, - dice Andrea Lenzi – Inoltre, l’uomo

vive oggi in un ambiente permeato di sostanze simili agli estrogeni, dai semi di soia ai derivati degli idrocarburi. Si tratta di sostanze poco attive, che però “femminilizzano” l’uomo portandolo in una condizione costante di ipogonadismo, che poi, con l’età, si manifesta in maniera eclatante” (Corriere della Sera, 20-2-2011)

Salute. I ricercatori: in crescita le donne colpite dalla patologiaLa menopausa a trent’anni per colpa dell’inquinamentoSui forum femminili è tema ormai ricorrente: menopausa precoce o Pof (prematurian ovarian failure). Gli ovuli terminano e il ciclo della fertilità, che mediamente è di circa 40 anni, va in tilt. In anticipo e a sorpresa. (…) Decine e decine di ragazze che si interrogano su quello che , nella realtà, tanto raro non appare. In blog, forum, discussioni sul web. Oggi la Pof colpisce ufficialmente 10 ogni mille donne fertili. E almeno una ha meno di 30 anni. Ma secondo alcuni studiosi il numero reale è di 40-50 ogni mille, 4-5 con meno di trenta anni. Fenomeno, quindi, tutt’altro che raro. Dai risvolti psicologici importanti, perché spesso interessa donne ancora senza figli.Tra le cause c’è anche l’endometriosi, altra patologia femminile dei tempi moderni. E’ quanto hanno dimostrato gli italiani. Lo studio verrà pubblicato sulla rivista scientifica “Frontiers in Bioscience”: nelle donne con endometriosi , l’incidenza sale a 80 su mille, otto volte di più dei

67

numeri ufficiali. Studio firmato da Pietro Giulio Signorile, presidente della Fondazione Italiana Endometriosi (Fie), che ha sede a Roma, presso l’American Hospital. E tra le cause c’è l’assunzione di inquinanti ambientali (diossina o bisfenolo A, presente in bottiglie e contenitori di plastica) durante la gestazione di una figlia femmina. Sarà lei, da adulta, a rischiare endometriosi e Pof. “Ho trovato anche quindicenni con un impoverimento ovarico”, commenta Signorile.Campanello d’allarme è l’aumento dei livelli nel sangue di due ormoni: l’Fsh, o follicolo stimolante, e l’Lh, luteinizzante. Basta un esame del sangue a verificare (….)Una ricerca condotta in India, dall’Istituto per i Cambiamenti Sociali ed Economici, (Isec) di Bangalore, su 100.000 donne nella fascia di età 15-50 anni, ha rilevato dati drammatici: quasi il 4% era in menopausa già tra i 29 e i 34 anni; l’8% tra i 35 e i 39. Più colpite le caste elevate, più colte e ricche. E con la Pof le donne rischiano prima osteoporosi, malattie cardiache, diabete, ipertensione, e cancro al seno. Insomma disturbi e rischi della post-menopausa contrastabili con ormoni sostitutivi o con rimedi naturali tipo i fito-estrogeni. (Mauro Pappagallo, sul Corriere della Sera del 21 marzo 2011)

36.Aumento rottami spaziali

Spazzatura celeste L’allarme degli scienziati : ci sono sostanze tossiche Il mega satellite impazzitoDal cosmo pioggia di oggettiPesa 10 tonnellate, non si sa dove cadrà. Con altri 11.000Questa notte unmasso roccioso lungo 600 metri e largo 200, passerà ad appena 537.000 chilometri dalla Terra.

A guardarlo nelle foto trasmesse dagli astronauti il globo azzurro della Terra sembra un gioiello incastonato nel cielo, inviolato. Niente di più falso; corpi naturali e artificiali lo aggrediscono, a cominciare dalle 3000 tonnellate di polveri cosmiche che ogni giorno cadono nell’atmosfera. Ben diverso è quando la minaccia si chiama asteroidi o satelliti allo sbando. Questa notte un masso roccioso, l’asteroide 2007TU24 , lungo 600 metri e largo 200, passerà a 537.000 chilometri dalla Terra, cioè poco oltre la Luna, che dista in media 385.000 chilometri. Basta un piccolo telescopio amatoriale per poterlo vedere prima che scompaia nel buio. “Un oggetto di taglia simile così vicino transiterà ancora, in teoria, solo nel 2027”, nota Don Yeomans del Jet Propulsion Laboratory della NASA. In teoria, appunto, perché le sorprese con i cosiddetti NEO, Near Earth Object, vale a dire i corpi che volano nei pressi del nostro pianeta sono frequenti. Tra noti e ignoti si pensa ne esistano circa 7000. Dei 700 ben individuati, 140 sono giudicati dalla NASA ad alto rischio e tenuti sotto continua osservazione perché potrebbero con un minimo cambiamento d’orbita caderci addosso, come sembra intenzionato a fare Aphophis nel 2029 (o2036).Il TU 24 che ci fa visita questa notte, non sarà comunque, fonte dei guai raccontati anche in alcuni film. Per fortuna, perché il suo scontro con la Terra scatenerebbe un’energia pari ad una

68

atomica da 1500 megatoni (Hiroshima era appena di 15 chiloton) lasciando un cratere di cinque chilometri di diametro. Ma non c’è solo un rischio celeste naturale. Qualche volta cadono anche i veicoli spaziali. Tra la fine di gennaio e i primi di marzo un satellite militare americano “di grandi dimensioni” precipiterà sulla Terra. Non si può sapere dove, perché è fuori controllo e quindi non può essere pilotato sopra l’oceano Pacifico come solitamente avviene quando questi robot sono alla fine della loro vita. John Pike, direttore della società di ricerca americana per la difesa Global security, stima il peso del satellite in 10 tonnellate e la taglia analoga a quella di un autobus. Per il momento non sembra contenere generatori atomici di energia come il satellite russo Cosmos 954 schiantatosi in Canada nel gennaio 1978, trent’anni fa e impegnato nell’inseguire la flotta statunitense. “Però i materiali di cui è costituito, ad esempio berillio, possono essere rischiosi per l’uomo” aggiunge Pike. [A bordo aveva un carico di 50 chili di uranio. La causa dell’incidente non è mai stata chiarita. Per alcuni giorni, la Terra fu minacciata da una catastrofe atomica.] “Le agenzie governative coinvolte nel problema stanno monitorando la situazione e intanto valutiamo le potenziali opzioni per mitigare ogni possibile danno portato dal satellite” ha laconicamente precisato Gordon John Droe, portavoce del National Security Council. Ma c’è un piccolo mistero, perché nelle scorse settimane il Pentagono aveva confermato la caduta di un satellite radar sperimentale di soli 3400 chilogrammi. Ce ne sono dunque due?Intorno alla Terra ruotano 873 satelliti attivi su orbite diverse, appartenenti alle varie nazioni. Quasi la metà sono americani. Tuttavia di pezzi intorno azzurro, più grandi di 10 centimetri, tra satelliti “morti” e spazzatura, se ne contano 11.000. Per fortuna gran parte di questo materiale , attratto dalla gravità, si disintegra. E se qualcosa sopravvive?. L’ONU ha varato dei trattati sottoscritti dalle “nazioni spaziali”, proprio per tutelare le popolazioni dai pericoli celesti. Ma dalla caduta imprevedibile nessuno può difenderci. G. Caprara (Teso apparso sul Corriere della Sera del 29 gennaio 2008 con mappe e foto)

Rifiuti in orbitaLa Terra e i detriti spaziali che la circondano in un immagine diffusa dall’agenzia spaziale europea (ESA). Dei circa dodici mila oggetti fabbricati dall’uomo che attualmente si trovano nell’orbita terrestre, solo 800 sono satelliti funzionanti. Gli altri sono vecchi satelliti, razzi e frammenti di astronavi esplose o abbandonate. Il primo satellite artificiale fu lanciato il 4 ottobre 1957 con il programma spaziale sovietico Sputnik. Da allora sono stati effettuati più di 4600 lanci. (Tratto da “Internazionale” del 15 aprile 2008, con foto)

Spazio I detriti che oscurano i satellitiDiscarica in cieloNiente più telefonate satellitari, ne Gps, o foto dall’alto delle nuvole in arrivo sul weekend. E’ quello che rischiamo se non si bonificherà una discarica meno vistosa di quelle di Napoli: lo spazio intorno alla Terra. I residui di razzi e satelliti dismessi e disintegratisi stanno invadendo in particolare le orbite più basse, fino a mille chilometri sulle nostre teste, dove circola gran parte dei satelliti per le telecomunicazioni e per le prospezioni civili e militari.Anche un frammento di un centimetro, alle velocità orbitali, può distrugger un satellite. Creando migliaia di nuovi frammenti e innescando una cascata micidiale. Negli ultimi anni sono bastati due eventi a moltiplicare la spazzatura spaziale: i cinesi hanno distrutto un proprio satellite per sperimentare un’arma, e una collisione fortuita ha frantumato due satelliti per le telecomunicazioni. Pare quindi ora di fare pulizia. Le proposte non mancano, da robot che aggancino uno a uno i satelliti in disuso per spingerli su orbite innocue o negli oceani, a un laser orbitale che vaporizzi

69

in parte i frammenti maggiori: un solo laser completerebbe la pulizia in tre anni. (Giovanni Sabato, in L’Espresso n.11, del 17 marzo 2011), con foto.

37.Aumento polveri sottili nell’aria

Italia, repubblica fondata sullo smogLa polveri sottili sono fuorilegge ovunque, ma dalla Lombardi a Napoli, nessuno è in grado di fermare le auto. Anzi, si finisce spesso con il favorire l’effetto opposto

Centoventisei. E’ il numero di giorni di superamento dei livelli consentiti di polveri sottili (Pm10) a Milano da gennaio. Si chiamano sottili, danno l’idea di leggerezza, ma inquinano l’aria e la fanno diventare irrespirabile. In molti casi provocano malattie e morte. Secondo il rapporto dell’OMS ( i cui dati sono stati confermati due settimane fa in Commissione ambiente del senato) sono almeno 8000 i decessi provocati ogni anno dall’inquinamento in Italia.A Milano la situazione è più grave che altrove. Basti pensare che negli ultimi tre anni la media di sforamenti sui livelli consentiti dalla norma (35), è stata di 130. Il Comune, sul suo sito, ha ammesso che la vita dei milanesi è diminuita di un anno proprio a causa delle polveri. In termini ambientali e sanitari Milano è fuorilegge. Tanto che la UE ha dato un ultimatum: o si mette in regola o paga la multa di 820 milioni di euro. Non si tratta più di slogan o battute cinematografiche (in Johnny Stecchino, Benigni dice che a Palermo il problema è il traffico). Ormai è una certezza scientifica: le auto sono la causa di molte malattie e problemi respiratori, le cui emissioni producono i velenosi Pm10 e Pm 2,5.Ha fatto il giro del mondo la notizia che pure il Cenacolo, il capolavoro di Leonardo Da Vinci, rischia di essere rovinato dalle polveri. Eppure sono anni che singoli cittadini, associazioni ecologiste, istituti di ricerca e professori universitari denunciano i rischi per la salute e lanciano allarmi. Sorretti, almeno in teoria, dalle promesse di amministratori, di piccole e grandi città, circa piani faraonici di lotta all’inquinamento. Considerati però i livelli di polveri e di ozono, viene il sospetto che le strategie adottate sono sbagliate oppure carenti.Secondo il Bipe (istituto di studi economici francese), l’aumento del prezzo della benzina ha fatto diminuire, dal 2004, l’uso dell’auto privata in tutta l’Europa. Tranne che in Italia: nel 2006 circolava lo stesso numero del 1996. Il motivo? Per gli esperti francesi va ricercato nella mancanza di alternative: l’offerta dei mezzi pubblici non è adeguata. Nel 2015 il trend crescerà dell’1,5%, mentre scenderà del 2% in Europa. Numeri? Si può credere o meno alle statistiche, ma a Firenze, città governata da sinistra e ambientalisti, il problema esiste, eccome (Pm10 costanti, in crescita Pm 2,5). Addirittura la città vanta una ztl (zona a traffico limitato) tra le più grandi di Europa. Il problema? Le 200.000 auto dei pendolari, gli automobilisti che aggirano le telecamere, i permessi in deroga, i pullman che scaricano migliaia di turisti. (…)

La biologa cellulare: perché misurare il Pm10 non basta“Metalli e idrocarburi arrivano fino al cuore”

Tutto è cominciato, tredici anni fa, con il polverino che rilasciano gli pneumatici sfregando sull’asfalto. “Il detrito da usura delle gomme ha una composizione estremamente complessa, molto simile al particolato atmosferico: una componente inorganica, i metalli, e una organica, gli idrocarburi policiclici aromatici. Abbiamo iniziato testando questi elementi su linee cellulari polmonari umane”. Marina Camatini, docente di biologia cellulare al Dipartimento di scenze ambientali dell’Università Bicocca, ha quindi trasferito il test dalle gomme al Pm atmosferico. Una ricerca che ha ora unito intorno allo stesso tavolo Provincie, Regione e Comune: è nato così il progetto Vespa per l’analisi dell’impatto del particolato sulla salute umana. “Vogliamo capire qual è la soglia di rischio delle componenti assemblate. Oltre all’inquinamento primario, dovuto ai processi di combustione, dobbiamo considerare che le polveri in sospensione si rimescolano con

70

altri elementi presenti in atmosfera, quali pollini, gas naturali, radiazioni ultraviolette”. La scommessa è passare da una valutazione quantitativa ad una qualitativa. E abbassare la soglia dei filtri. “in molte città europee le centraline monitorano Pm 2,5 e Pm1, in Italia siamo fermi al Pm10”. Il fattore dimensione, conferma la biologa, gioca un ruolo fondamentale: “Il Pm10 difficilmente supera la barriera cellulare, Pm2,5 e Pm1 entrano facilmente e fanno danno”.Gli elementi che preoccupano di più? “Metalli e idrocarburi. Più in generale, il particolato delle auto diesel, aumentando l’esposizione delle cellule in vitro, aumenta il numero di cellule che muoino e anche l’espressione di interleuchina, che segnala un processo di infiammazione in corso.E sono sempre più evidenti i danni a nucleo e Dna”.A livello degli alveoli, le particelle limitano il trasporto di ossigeno scatenando deficit respiratori. “Ma a volte vanno oltre i polmoni, entrano nella circolazione del sangue e arrivano all’apparato cardiocircolatorio dove possono provocare ischemie”. Il rischio si valuta a lungo termine: alcune stime parlano di un aumento complessivo della mortalità del 3-8% e un aumento dell’incidenza delle bronchiti negli adulti del 25% (35% nei bambini). Per questo bisogna agire subito. “Milano è ad altissimo rischio. Per la sua posizione in una conca non è destinata ad avere ricambio d’aria ne ora, ne nei prossimi 15 anni”. Un microcosmo alieno ci invadeUn vorticare di innumerevoli particelle microscopiche si può osservare quando un raggio di sole penetra nell’oscurità di una stanza. Queste rappresentano la parte non gassosa dell’aria. Può trattarsi di particelle solide o di gocce microscopiche e rappresentano un microcosmo, dove c’è letteralmente di tutto, dai pollini alle spore batteriche e vegetali, dai virus alle uova di artropodi, dalle particelle di carbone ai nitrati e ai solfati. Sono tantissime, di tante dimensioni e provenienze diverse, e vengono oggi chiamate collettivamente Pm, particulate matter, e distinte in tre-quattro sottoclassi sulla base delle loro dimensioni espresse in micron, come dire micrometri, cioè millesimi di millimetro. Si tratta delle famose e famigerate polveri sottili, la cui densità è continuamente misurata in molte delle nostre città e che di tanto in tanto causano il blocco del traffico automobilistico. Le polveri Pm10, ad esempio, hanno dimensioni non superiori ai 10 micron, le polveri fini Pm 2,5 sono inferiori a 2,5 micron, mentre le polveri ultrafini Pm0,1 sono inferiori a 0,1 micron. La loro azione, comunque non positiva se la densità supera certi livelli, dipende dalle loro dimensioni e dalla loro composizione chimica, e può arrecare un danno meccanico o ostruttivo, causare una irritazione, una infiammazione o una vera e propria allergia.Per quanto riguarda i distretti corporei che le polveri possono raggiungere, l’elemento fondamentale è la loro dimensione: più minuscole sono, più a fondo penetrano. Una particella maggiore di 7-8 micron si fermerà nel cavo orale o nelle primissime vie respiratorie; una di dimensioni comprese tra i 3 e i 5 micron penetra nei bronchi, dove si addentra sempre più a dimensioni inferiori, fino a che non entra direttamente negli alveoli se inferiore a un micron.Il danno può essere immediato o protratto. Forse quest’ultimo è il caso peggiore. La permanenza di tali corpuscoli nelle sottilissime vie respiratorie terminali può causare un’infiammazione cronica che può talvolta risolversi in una formazione tumorale. Fortunatamente questa è una evenienza rara; meno rara è invece l’induzione di risposte allergiche che contribuiscono a rendere difficoltosa le respirazione, soprattutto in persone di una certa età.Ciò accade perché il sistema immunitario commette errori in misura crescente con gli anni e sempre più spesso attacca i propri tessuti, invece degli invasori esterni (Edoardo Boncinelli)(A.Gramigna, testo integrale sul Corriere della Sera Magazine del 21 novembre 2007 con foto e dati)

L’allergologa: Patologie in aumento“Gas e zolfo, alleati dell’asma”

“E’ ormai ampiamente documentato che i gas di scarico e il microparticolato diesel potenziano la risposta immunitaria a livello respiratorio, dunque possono peggiorare l’allergia già in atto o

71

favorirne la comparsa. Se per esempio i pollini o altri agenti allergenici si legano in atmosfera con il Pm10 da un lato hanno un effetto irritante diretto sulle cellule della mucosa e allo stesso tempo agiscono sui linfociti, stimolando cioè le cellule della risposta immunitaria e aumentando la reazione patologica: ossia l’allergia”. La dottoressa Giselda Colombo, responsabile del centro di allergologia al San Raffaele di Milano, vive ogni giorno, in corsia, il costante aumento di allergie e forme asmatiche. E cita uno studio epidemiologico che conferma il comune sentire dei meneghini: “Gli extracomunitari appena arrivati a Milano manifestano nuove forme allergiche e, dopo qualche anno, la percentuale di allergici in una comunità di immigrati pareggia quella dei milanesi di nascita: insomma esiste una predisposizione genetica ma altrettanto se non più importante è l’ambiente in cui si vive”.Tra i metalli, un sorvegliato speciale è lo zolfo: “Se contenuto in alcune molecole come i solfiti, può indurre irritazione e asma , o comunque peggiorare la risposta infiammatoria in un soggetto allergico”. Il nichel, invece, scatena patologie allergiche al livello cutaneo, quali le dermatiti da contatto (che affliggono, per esempio, il 50% delle donne che non possono utilizzare orecchini con nichel): “Teoricamente, simili reazioni possono peggiorare se l’aria è ricca di queste sostanze o se ingeriscono alimenti che ne contengono in quantità rilevanti”. Stesso discorso per il bicromato di potassio, contenuto nel cemento, che a volte provoca reazioni allergiche nei muratori. Di per se, comunque, un metallo semplice , una sostanza inorganica difficilmente induce allergia. Diverso il discorso se si lega in atmosfera con altre molecole. (Tratto da Il Corriere della Sera Magazine del 21 novembre 2007)

Inquinamento record a Corso Francia, RomaPolveri sottili, nel 2007 i limiti superati 784 volte

I limiti delle polveri sottili, nel 2007, sono stati superati 784 volte. E in nove centraline su dieci è accaduto per più dei 50 giorni consentiti dalla legge. In particolare, Tiburtina e Corso Francia, 116 giorni; Fermi 98; largo Prenste 87; Magna Grecia 82; largo Arenula (disattivata il 22 novembre) 69; Cipro 66; Cinecittà 65; Bufalotta 52. Unica stazione a non varcare la soglia è stata quella di villa Ada, che ha registrato 33 giorni di PM10 in eccesso. Problemi anche per il biossido d’azoto, che ha infranto i limiti dei superamenti annuali nelle centraline Tiburtina (19),Cipro (13), Cinecittà (9), Fermi e magna Grecia (3), Bufalotta (2), e corso Francia (1). (Dal Corriere della Sera del 6 gennaio 2008)

38. Aumento delle due “isole” di plastica nel Pacifico

La pattumiera dell’oceano PacificoDa anni il capitano Moore e un gruppo di ricercatori solcano i mari a caccia di plastica: penne, bidoni, palloni. E tonnellate di minuscoli frammenti inquinanti.

Charles Moore conserva le sue scoperte più belle in un armadio in fondo al suo giardino davanti all’oceano Pacifico, a Long Beach, in California. E’ da dieci anni, che a bordo di Alguita, il suo catamarano, da ostinatamente la caccia a una preda molto particolare, la plastica finita nell’oceano. E ne trova di tutti i tipi: “Gli oggetti di plastica che preferisco sono i manici di ombrello”, dice sorridendo. Ha anche una grande quantità di spazzolini da denti, penne, recipienti deformati dai morsi degli squali. Un pallone a forma di cuore. Dei caschi. Ma gli oggetti identificabili sono pochi, poiché nessun oggetto rimane intatto a lungo. Il grosso della collezione è meno spettacolare, ma più preoccupante. Sono particelle più piccole di un granello di sabbia, il resto del deterioramento degli oggetti. Ci sono anche tonnellate di granulati plastici, che servono da materia prima all’industria. Moore ha appena scaricato dall’Alguita 50 campioni di “zuppa di plastica” pescati al largo. Questo suo interesse è nato per caso. Nel 1997, tornando da una regata tra Los Angeles e Honolulu, decise

72

di prendere una rotta normalmente evitata dai marinai perché attraversa una zona di alta pressione, senza vento, dove le correnti si avvolgono in senso orario:il vortice del nord Pacifico.”Passavano i giorni e non vedevo un delfino, una balena, un pesce.Vedevo solo plastica”, ricorda. Così si prese a cuore questo luogo sperduto. Creò una fondazione e con l’aiuto di scienziati specializzati nell’inquinamento marino, mise a punto un metodo di quantificazione dei rifiuti, prima di ritornare nella zona.I primi risultati sono stati pubblicati sul Marine Pollution Bulletin, nel 2001. L’equipe ha contato mediamente 334,271 frammenti di plastica per chilometro quadrato ( fino a un massimo di 969.777 per chilometro quadrato) per un peso medio di cinque chili per chilometro quadrato. La massa di plastica era sei volte più elevata della massa di plancton raccolta. Il vortice intrappola i frammenti. Il sito dove vengono effettuati i prelievi, grande quanto il Texas, è chiamato Eastern Garbage Patch, la “discarica dell’est” del Pacifico. Qual è la superficie totale della “discarica”? “Non lo sappiamo”, spiega Moore, . “L’acqua è sempre in movimento, l’inquinamento è difficile da misurare. Ho percorso 150.000 chilometri a bordo dell’Alguita nel nord Pacifico e non ho trovato altro che plastica, ovunque”.

Un materiale indistruttibileI frammenti prelevati durante l’ultimo viaggio dell’Alguita saranno selezionati e classificati in 128 categorie, in funzione del tipo (filo, pellicola, spuma, frammento, granulato) della dimensione e del colore. Moore non ha una formazione da scienziato, ma il suo lavoro è molto apprezzato dagli esperti perché si spinge dove nessun altro va, nel bel mezzo dell’oceano. “Ha dimostrato che questo inquinamento esiste, è un pioniere, “, commenta Anthony Andrady, esperto in polimeri del Research Triangle Institute. Secondo Andrady, l’impatto di questo tipo di inquinamento è sottostimato. Nel 2006 nel mondo sono state prodotte circa 245 milioni di tonnellate di plastica. Una parte, difficile da quantificare, raggiunge il mare, soprattutto tramite i fiumi e i sistemi di scarico delle acque urbane. Senza dimenticare i rifiuti abbandonati sulle spiagge. Circa l’80% della plastica trovata in mare viene dalla terraferma. Solo il 20% dalle imbarcazioni.La plastica ha tante qualità. Costa poco ed è molto resistente. Troppo, quando sfugge ai circuiti di raccolta e smaltimento dei rifiuti. In natura sembra indistruttibile. “Nessuno sa quanto tempo ci mette a scomparire del tutto”, spiega Andrady. “Può frammentarsi al punto da trasformarsi in polvere, ma rimane lì. Nessun microorganismo è in grado di degradarla completamente. Tutta la plastica che si è dispersa nell’ambiente da quando si è cominciato a produrla c’è ancora”. Pulire l’Oceano è impossibile. “Sarebbe come passare al setaccio il Sahara”, sostiene Moore. L’unica soluzione, afferma, è sviluppare la plastica riciclabile, biodegradabile, attualmente poco diffusa e cambiare le nostre abitudini. “Dovremmo usare la plastica solo per gli oggetti che davvero vogliamo far durare”.G. Dupont, Le Monde (tratto da “Internazionale” del 16 maggio 2008, con cartina)

Un iceberg di rifiuti più grande del Texas galleggia nel Pacifico puntando sulle Hawaii. Pesci e uccelli che se ne nutrono morendo soffocati. E Greenpeace lancia l’Sos.

Un mare di plasticaGuardate questa impressionante massa di plastica che galleggia nelle acque dell’Oceano: sono sacchi della spazzatura, bottiglie, giocattoli, spazzolini, contenitori di vario genere che le onde hanno spinto al largo, nel pacifico. Le correnti dell’oceano, creando un “effetto vortice”, hanno concentrato tonnellate e tonnellate di spazzatura in un’area precisa, estesa più del Texas, a centinaia di miglia dalle coste della California. “ Un immenso iceberg di plastica spalmato in orizzontale, e in balia dei venti, che si dirige verso le Isole Hawaii”, denuncia Greenpeace nel “Rapporto sui rifiuti di plastica nei mari” appena pubblicato dal gruppo ambientalista.

73

Tartarughe marine, foche, balene, pesci di diecine di specie diverse sono venuti a contatto con l’iceberg di plastica: molti animali sono soffocati dopo aver ingerito shopper e pezzi di cellophane. Una colonia di albatross che si nutre dei rifiuti galleggianti rischia di andare incontro a una morte atroce, per fame: saziandosi dei detriti raccolti tra le onde , gli uccelli non ingeriscono sostanze nutrienti a sufficienza. Un inchiesta di “Science” che, se non si porrà freno a dispersione di plastica e a pesca intensiva, le riserve ittiche del pianeta si esauriranno entro il 2048. E. Lucchini (Tratto dal Magazine “Io Donna” del Corriere della Sera, con foto)

I detriti dello Tsunami nell’oceano. Quelle storie del Giappone alla derivaCase, auto, e ricordi: in tre anni la massa arriverà sulle coste della California.Automobili, barche distrutte, intere case con tutti i mobili, migliaia di oggetti di plastica.E’ una gigantesca isola galleggiante quella che sta fluttuando nelle acque dell’Oceano Pacifico, al largo del Giappone. Dopo il terremoto, lo tsunami dell’11 marzo scorso ha travolto oltre 200.000 case finite in mare. La massa dei relitti si sta lentamente muovendo seguendo le correnti, rendendo molto pericolosa la navigazione. Per gli esperti, i primi resti dello tsunami come barche da pesca e tutto ciò che non assorbe acqua raggiungeranno la California entro un anno, mentre gli oggetti domestici navigheranno per tre anni prima di spiaggiarsi.

Il primo pensiero che ti viene è che dietro quel tetto, quel pezzo di casa, quell’automobile c’era una famiglia, un uomo, una storia. Ma subito dopo penso a un’altra cosa , che è ancora più grave, perché riguarda il futuro, riguarda la vita che sarà ancora messa in pericolo. Le migliaia di detriti dello tsunami che ha colpito le coste giapponesi l’11 marzo scorso fluttueranno verso la California, l’Oregon, l’Alaska, le Hawaii prima di tornare indietro impiegando sei anni, cambieranno consistenza, forma e saranno scambiate per cibo dai pesci e dagli uccelli. E’ un disastro ambientale di dimensioni epocali, senza precedenti, senza misure di intervento possibili.Il problema non è solo di chi rischia la vita navigando in quelle acque (pescherecci, navi mercantili, barche da diporto), dato che è pressoché impossibile evitare ostacoli semi sommersi (gli americani stanno addirittura pensando di riscrivere le rotte delle loro navi nel nord del Pacifico). In gioco è l’ecosistema di tutto un oceano. Trasformato in spazzatura da milioni di piccoli frammenti di plastica. Alcuni finiranno sulle coste della California, altri verranno risucchiati dalla Great Pacific Garbage Patch, “l’isola di plastica” o anche “isola della spazzatura”. E’ uno sterminato concentratori rifiuti che ha cominciato a formarsi negli anni cinquanta, ha raggiunto lo spessore di un metro e si stima occupi il 3% della superficie del Pacifico. Non l’ho mai vista. Ma mi fa impressione l’idea di questo buco nero che per via delle correnti catalizza gran parte della plastica galleggiante che c’è nel mare. E la plastica non è un problema da poco. Quasi tutti i pesci , i cetacei e gli uccelli trovati morti sulle spiagge di tutto il mondo hanno la pancia piena di pezzi di plastica. Che scambiano per calamari o altri cibi per loro appetitosi. E’ successo anche in Italia nel dicembre 2009, quando un gruppo di capodogli si spiaggiò sulle coste della Puglia e l’autopsia dimostrò che la causa della morte era l’ingente quantità di plastica che era stata mangiata. (…)(Giovanni Soldini, velista; l’intero articolo sul Corriere della Sera del 9 aprile 2011, con varie foto e proiezioni sulla rotta dei detriti)

39. L’aumento dei rifiuti elettronici

CellulariNegli Usa anche usati sono un gran businessIn pochi anni il mercato dell’usato rappresenterà un quinto delle vendite di cellulari negli Stati Uniti. ReCellular, il colosso del settore, ha rivenduto e riciclato 5,2 milioni di cellulari lo scorso

74

anno, in crescita rispetto ai 2,1 milioni di cinque anni fa. E per approfittare delle potenzialità del settore ha ora deciso – riporta il quotidiano Wall Street Journal – di procedere al’acquisto diretto dei telefonini usati dai consumatori e non solo da rivenditori e associazioni di beneficienza(Corriere della Sera del 25 febbraio 2011)

Migliaia di tonnellate di rifiuti elettroniciLa faccia nascosta della corsa all’hi-techL’altra faccia dello switch off, il passaggio della tv dall’analogico al digitale. Nel corso del 2010 è stato calcolato che circa una famiglia italiana su tre ha cambiato il proprio televisore, passando nella maggior parte dei casi dal vecchio tubo catodico agli schermi piatti. Il che ha generato circa 300.000 tonnellate di rifiuti costituiti da vecchie tv, che insieme ai monitor da computer vanno a costituire la categoria R3 dei cosiddetti Raee –“Rifiuti apparecchiature elettriche ed elettroniche” – che in Italia incide per terzo del totale contro il 18% della media europea. I Raee sono il rovescio dell’elevato consumo di tecnologia di questi anni, con un rapporto quasi di uno a uno. Secondo i dati anticipati da ReMedia, uno dei principali soggetti italiani che si occupano della gestione dei rifiuti elettronici, a fronte di un milione di tonnellate di prodotti immessi sul mercato nel 2010, 245.000 tonnellate di rifiuti sono state avviate al riciclo. Cifra che corrisponde a una media di 4 chili per ogni abitante, raccolta che ci pone a d una notevole distanza dall’Europa: nei paesi del Nord, per esempio, il riciclo arriva a 10 chili pro capite.Le cause sono da ricercare nella partenza tardiva (era il 2008) della gestione eco-sostenibile di questa tipologia di rifiuti “ricchi” – si possono recuperare ferro e acciaio, ma anche metalli preziosi come oro e argento – e nella bassa diffusione del servizio di ritiro da parte dei rivenditori di elettronica, dell’apparecchiatura usata che viene sostituita con i nuovi acquisti. Se attualmente quindi in Italia si raccoglie poco più di un quarto dei Raee prodotti – il resto finisce in discarica o viene esportato illegalmente – entro il 2016si dovrà arrivare all’ 85%, il nuovo obiettivo fissato dall’Unione Europea. (F.Cella sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2011)

Elettrodomestici in discarica Peschiera del Garda. Arrestata dai carabinieri di Peschiera del Garda una banda di ghanesi dediti al furto di elettrodomestici di scarto dalle isole ecologiche, rivenduti poi come merce di lusso nel loro paese. Le indagini dei militari hanno messo in evidenza un fenomeno di tendenza, in costante aumento. «Vengono rubati piccoli elettrodomestici come forni a microonde, televisori, videoregistratori, frullatori e soprattutto motori di frigoriferi e lavatrice - spiega il comandante capitano Mario Marino - il più delle volte perfettamente funzionanti, o i televisori sostituiti per quelli lcd, che non sono più considerati trend». Gli elettrodomestici, ripuliti e rimessi in efficienza, trovano un fiorentissimo mercato nelle loro comunità… sia in Italia che, sopratutto, nei paesi africani dove un televisore o un frigorifero sono considerati un lusso alla portata di pochissime persone. «Nelle isole ecologiche dove sono stati sottratti questi beni - afferma Marino - è attivo il riciclo che porta vantaggio economico ai comuni, impadronirsene quindi costituisce furto, come tale punito dalla legge».(Notizia internet maggio 2011)

40. L’inquinamento da radon

Vivere senza radonL’Organizzazione Mondiale della Sanità ha reso noto i nuovi limiti di sicurezza per il radon domestico: 100 becquerel per metro cubo di aria, contro i mille indicati nel 1996. Il drastico abbassamento del valore soglia è dovuto al fatto che negli ultimi anni il ruolo di questo gas del tutto

75

inodore,incolore e insapore nell’insorgenza di tumori polmonari è stato dimostrato al di là di ogni dubbio, al punto che oggi esso è considerato la seconda causa della malattia dopo il fumo della sigaretta, nonché un elemento di rischio aggiuntivo molto importante per chi già fuma. Vista la significativa riduzione, l’OMS ha affermato di ritenere accettabili, in situazioni particolari, anche valori intorno ai 300 becquerel, ma solo per periodi di tempo limitati, perché ogni 100 becquerel in più rispetto al limite equivale a un aumento del rischio di cancro del 16%.Il radon è il prodotto del decadimento naturale dell’uranio ed esce spontaneamente dal terreno, soprattutto nelle zone ricche del minerale. Molti studi ne hanno confermato la pericolosità: il più recente, apparso su “Science of the Total Environment”, ha messo in luce la presenza di alti livelli di radon in alcune aree della Romania e della Spagna. In metà circa delle circa 90 case dove sono state effettuate misurazioni prolungate, la concentrazione di radon è risultata doppia rispetto alla soglia attuale così come i decessi per tumori polmonari tra i non fumatori.Per difendersi dal radon la misura più semplice è quella di areare spesso gli ambienti e di cercare, per quanto possibile, di dormire e di passare più tempo ai piani alti degli edifici; oggi, inoltre, sono disponibili efficaci materiali-barriera da impiegare nelle costruzioni nuove e kit per il dosaggio del radon nell’aria di casa.(A. Codignola su “L’Espresso” del 20 dicembre 2009)

41. Inquinamento acustico

Rumori molestiL’inquinamento acustico causato da aerei e automobili pregiudica il normale sviluppo cognitivo dei bambini, spiega The Lancet. L’indagine è stata condotta su più di 2800 bambini, tra i nove e i dieci anni,di 89 scuole situate nelle vicinanze di tre grandi aeroporti europei in Gran Bretagna, Olanda e Spagna. Secondo i test, il rumore degli aerei ritarda l’apprendimento della lettura e ne compromette la capacità; inoltre, una esposizione ad alti livelli di inquinamento acustico peggiora la qualità della vita e aumenta lo stress nei bambini.(Tratto da “Internazionale” del 10 giugno 2005)

42. Inquinamento urbano

Chi patisce di più in mezzo al traffico delle città Sta meglio chi pedala di chi usa l’autoIl ciclista urbano, irrorato dai gas di scarico degli automobilisti si consoli: perché sono loro, non lui, a respirare più veleni.Incredibile ma vero. L’auto in realtà non è uno scudo, ma una trappola: una volta entrati i gas e le particelle generate soprattutto dagli onnipresenti diesel, si accumulano esponendo i forzati delle quattro ruote a quantità industriali di smog. La notizia arriva da una ricerca appena pubblicata dalla rivista Atmospheric Environment e condotta dall’Università della California sui pendolari di Los Angeles, dichiarata qualche mese fa la città più inquinata degli Stati Uniti.L’indagine sostiene che più della metà dell’esposizione agli inquinanti avviene durante gli spostamenti in auto e che quindi i pendolari sono particolarmente a rischio: fatte le dovute proporzioni, è probabile che situazioni analoghe si in Italia sulle tangenziali di Milano o sul grande raccordo anulare di Roma. Gli esperti statunitensi hanno monitorato per tre mesi le principali arterie stradali e autostradali della regione di Los Angeles. Sebbene l’automobilista medio della città californiana trascorra in auto solo il 6% del suo tempo (circa un’ora e mezzo), quel periodo è responsabile del 35-45% dell’esposizione a diesel e particelle ultrafini. In causa sarebbero soprattutto i camion alimentati a diesel. L’altro fattore critico è l’accelerazione dei veicoli dopo uno

76

stop, fenomeno che si reitera continuamente nelle lunghe code a singhiozzo. Che fare allora per ridurre l’esposizione? “L’unica è andare meno in automobile. Può aiutare guidare a bassa velocità, intorno ai 40 all’ora, ma non risolve il problema. Così come non è efficace tenere i finestrini chiusi e bloccare il ricircolo dell’acqua: l’inquinamento da micro particelle, che è quello più pericoloso per polmoni e cuore, diminuisce di poco, -spiega Scott Fruin, docente di Salute Ambientale all’Università del Sud California, autore dello studio, - dopo il fumo questi lunghi spostamenti in auto rappresentano il maggior fattore di rischio”. A questo punto c’è da chiedersi anche quale sia il vantaggio di chi si trasferisce nei suburbi - più verdi e tranquilli – se poi ogni giorno deve farsi il pieno di nervosismo e di gas di scarico per entrare in città. Diversa e sostanzialmente migliore invece la situazione dei ciclisti, almeno per quanto riguarda l’inalazione di schifezze. Uno studio australiano ha misurato, utilizzando dosimetri personali, la quantità di benzene assorbita da ciclisti, automobilisti, pedoni e utenti di treni e autobus a spasso per Sidney. Risultato: il ciclista assorbe metà inquinanti rispetto a chi va in macchina. Meglio ancora però andare in treno o camminare. Anche perché pedalare aumenta il ritmo del respiro e i litri d’aria inspirati. Tuttavia, se si considera che in bicicletta si fa più in fretta che a piedi e si resta quindi meno tempo esposti all’inquinamento, le due ruote si rivelano più salubri della semplice passeggiata. (…)(L. Carra sul Corriere della Sera del 18 novembre 2007, con altri articoli, dati e immagini)

43. Inquinamento da amianto

Amianto per poveri“Non c’è più posto nel mondo per questa industria di morte e morente”. Così ripetono all’International Ban Asbestos Secretariat-Ibas, la rete che coordina l’attività di decine di Comitati nazionali per la messa al bando mondiale dell’amianto. O asbesto: due nomi per un solo terribile minerale; in greco infatti amianto significa “incorruttibile” mentre asbesto sta per “inestinguibile”.A livello mondiale da tempo le avvelenate fortune dell’asbesto sono in declino. Dopo un picco dei 4,79 milioni di tonnellate del 1977, l’anno scorso la produzione è stata di “soli” 1,97 milioni di tonnellate. Sono 55 i paesi che hanno messo al bando ogni uso generico del minerale, compresi i membri dell’Unione Europea e l’Italia, dove il procuratore Raffaele Guariniello continua il suo ottimo lavoro. Ma rimangono i paesi meno “sviluppati” soprattutto in Asia , e la Cina e l’ex Unione Sovietica.Proprio dalla Russia sono arrivate le più recenti accuse all’Ibas di “ecoterrorismo” e di “pseudo ambientalismo pagato dalle potenti lobby industriali che si oppongono all’amianto”. Non male per il paese che incassa attualmente di più dalla produzione ed esportazione della sostanza. Intanto in Canada è stata nuovamente rinviata la decisione politica sulla richiesta da parte di un imprenditore al governo del Quebec di accordare- informa il New York Times – un prestito di 58 milioni di dollari per la riapertura di una miniera nella città di….Asbestos, nata nel 1879 intorno alla miniera che ha funzionato per oltre cento anni. La città non ha cambiato nome, malgrado l’associazione chiarissima fra asbesto e malattie mortali quali mesoteliomi e asbestosi. L’industria dell’asbesto è stata un simbolo del Quebec e la miniera – ora chiamata Jeffrey – ha giocato un ruolo importante nella storia politica della provincia. Ora qualcuno, scrive il New York Times, spera di attrarre investitori e rivitalizzare il settore. A quale scopo, visto che il Canada sta spendendo fior di dollari per rimuovere il minerale dagli edifici?La strategia sarebbe esportare verso India, Pakistan, Vietnam, realtà nelle quali l’economicità dell’asbesto da usare nelle case e nei luoghi di lavoro fa passar sopra ai rischi. Come denuncia l’Ibas, sarebbe in corso uno “tsunami amianto” diretto all’India, il principale acquirente del crisotilo (amianto bianco). Di recente una nutritissima delegazione di imprenditori del Quebec è volata in India con l’obiettivo di decuplicare le vendite che nello scorso decennio sono ammontate a 700.000

77

tonnellate. Critiche sia in Canada che a Mumbai, dove vittime dell’amianto e attivisti hanno denunciato “il doppio standard canadese”: niente uso in patria e grandi esportazioni in India.Come argomenta l’Ibar, il crisotilo non si presta affatto a quell’uso “safe” (senza rischi), ventilato dai canadesi. E non solo da loro: a Muzzaffarpur, in Bihar, la popolazione locale continua ad ostacolare con coraggio (ultima manifestazione il primo febbraio scorso) l’apertura di una fabbrica di cemento-amianto della Balmukund Cement & Roofing Ldt., una compagnia di Kolkata specializzata in materiali da costruzione per tetti, muri e rivestimenti. La buona notizia di questi giorni è che in Brasile il movimento per la messa al bando dell’amianto ha ottenuto una vittoria giudiziaria importante pochi giorni fa: un tribunale federale ha bloccato alcune navi in partenza da un porto di San Paolo con la motivazione che nello stato non è solo l’uso dell’amianto a essere vietato ma l’intero ciclo, compresa l’esportazione.(M. Correggia, su “Il manifesto” dell’8 febbraio 2011)

Quei 75.000 ettari di amianto che chiedono un piano serioE’ presto per dire se sarà il processo del secolo. Certamente quello che si è aperto ieri a Torino contro gli ex capi dell’Eternit, multinazionale elvetica dell’amianto, ha per ora il raccapricciante primato delle parti lese: più di 2800 persone colpite dal tumore. Al tribunale il compito di fare giustizia. Ma la faccenda dell’amianto non può finire qui. Mentre i magistrati torinesi indossavano la toga, il senatore Francesco Ferrante descriveva in una interrogazione parlamentare una situazione agghiacciante, e non solo per “i 2056 morti e gli 853 malati accertati di mesotelioma pleurico”. Il fatto è, ricorda Ferrante, che l’Italia è ancora piena di quel materiale killer. Tanto che fra tettoie, canne fumarie, serbatoi e rivestimenti sarebbe necessario bonificare 75.000 ettari inquinati dall’amianto. Avete presente? E’ una superficie paragonabile a quella dell’intera provincia di Lodi. Ci sono scuole piene di amianto. Condomini tappezzati di amianto. Perfino, è accaduto a roma, motrici della metropolitana zeppe di amianto, che hanno trainato vagoni con milioni di passeggeri fino al 2006. Cioè quando i pericoli che correva la salute a causa di quel materiale erano noti da tempo immemore. Per esempio, il piano per smantellare il palazzo Berlaymont , la sede della Commissione europea a Bruxelles, e bonificarlo completamente dall’amianto, risale al 1991: quasi 18 anni fa. Ma i primi allarmi erano stati lanciati dalla comunità scientifica internazionale addirittura alla metà degli anni Sessanta. Un paese serio avrebbe fatto prima un censimento serio. Poi un piano serio. Quindi avrebbe preso dei provvedimenti seri, anche finanziari, per affrontare e risolvere il problema. Soprattutto in fretta. Non vale nemmeno la giustificazione che non c’erano i soldi per concedere aiuti o sgravi, per questo scopo: nessuno è in grado di dire quanto questa tragedia sia già costata alla collettività. E quanto ancora purtroppo costerà. Speriamo soltanto che il processo di Torino, oltre ad accertare eventuali colpe, possa servire anche a risvegliare un minimo di senso di responsabilità. Ci accontenteremmo di un minimo.(S. Rizzo, sul Corriere della Sera dell’11 dicembre 2009)

44.Inquinamento da “coltan”

La columbite-tantalite o columbo-tantalite (per contrazione linguistica congolese Coltan) è una miscela complessa di columbite e tantalite, due minerali della classe degli ossidi che si trovano molto raramente come termini puri.

La columbo-tantalite pur essendo un minerale duro, è molto fragile e tende facilmente a sfaldarsi e disgregarsi formando una polvere nera-rosso bruna. La columbite-tantalite è il minerale di estrazione primario del tantalio di cui fornisce la quasi totalità della produzione mondiale e il minerale di estrazione secondario del niobio (dal 10 al 15% della produzione mondiale).

78

Il niobio si usa nell'industria metallurgica per la preparazione di leghe metalliche con elevato punto di fusione, per aumentare la resistenza alla corrosione in alcuni tipi di acciai inossidabili e, infine, nella preparazione di superconduttori elettromagnetici.Il tantalio si usa sotto forma di polvere metallica nell'industria elettronica e dei semiconduttori per la costruzione di condensatori ad alta capacità e dimensioni ridotte che sono largamente usati in telefoni cellulari e computer.

Coltan (contrazione per columbo-tantalite) è il nome comune e colloquiale usato in Africa (nella regione geografica del Congo) e, talvolta, dall'industria mineraria in Africa per una columbite-tantalite a relativamente alto tenore di tantalio.

Il termine coltan ha ottenuto un particolare riscontro da parte dei mass media per le implicazioni sociali, etiche e politiche che assume, nell'Africa congolese e in Rwanda, l'estrazione e la vendita para-legale e non controllata di columbo-tantalite. Il minerale estratto in questi paesi è usato come una redditizia fonte economica da parte di diversi movimenti di guerriglia e concorre, quindi, indirettamente ad alimentare la guerra civile nella regione del Congo.

Produzione e disponibilità

I maggiori giacimenti minerari di columbo-tantalite sono localizzati in Australia occidentale, Nigeria e, soprattutto, Brasile, dove essendo concentrati anche i maggiori giacimenti mondiali di pirocloro (il minerale di estrazione primario) si realizza la massima produzione mondiale di niobio con 29.900 tonnellate totali. Oltre il 95% delle riserve totali mondiali di niobio (5.200.000 tonnellate di riserve stimate, 4.300.000 economicamente sfruttabili) sono costituite dal pirocloro e dalle columbiti-tantaliti brasiliane.

Nel 2005, la produzione annuale di niobio in Brasile a partire dalla sola columbite-tantalite assomma a circa 3.000 tonnellate; segue l'Australia con circa 300 tonnellate e altri paesi con valori molto più modesti (qualche decina di tonnellate).

La varietà di columbo-tantalite con un alto tenore di tantalio (quella che viene chiamata colloquialmente coltan in Africa meridionale) ha le maggiori coltivazioni in Australia dove sono state prodotte, nel 2005, 1200 tonnellate di tantalio con riserve totali stimate per 80.000 tonnellate (40.000 sfruttabili economicamente). La compagnia mineraria australiana Sons of Gwalia Ltd rappresenta, con due miniere, il maggior estrattore mondiale di tantalio.

Le miniere in Brasile hanno fornito, al 2005, una produzione di sole 215 tonnellate annue di tantalio, ma si stimano riserve per 73.000 tonnellate. Il maggior produttore africano è il Mozambico con 260 tonnellate annue. Altri produttori africani sono Repubblica Democratica del Congo (provincia del Katanga), Nigeria, Rwanda, Uganda e Etiopia con produzioni annue inferiori alle 50 tonnellate. L'entità delle riserve totali in Africa non è stata ancora stimata.

La sproporzione fra la produzione mondiale totale di niobio (34.000 tonnellate comprendendo anche il pirocloro) e tantalio (circa 1900 tonnellate) è un indicatore della rarità in natura del tantalio come elemento chimico.

Il coltan nell'Africa congolese

Il valore commerciale del tantalio è molto elevato e, di conseguenza, anche una bassa produzione, come quella congolese, può fornire elevati proventi economici. Con l'aumento della richiesta mondiale di tantalio, si è fatta particolarmente accesa la lotta fra gruppi para-militari e guerriglieri

79

per il controllo dei territori congolesi di estrazione. Un'area particolarmente interessata è la regione congolese del Kivu (sul confine centro-orientale della Repubblica Democratica del Congo) e i due stati confinanti, Rwanda e Uganda; gli intermediari che trattano la vendita del coltan in questi due paesi si approvvigionerebbero, infatti, dai giacimenti minerari congolesi. I proventi del commercio semilegale di coltan (così come di altre risorse naturali pregiate) attuato dai movimenti di guerriglia che controllano le province orientali del Congo, alimentano la guerra civile in questi territori. Tuttavia, il fatto che gruppi armati o comunque non rappresentanti società statali e industrie, si impossessino del minerale e lo vendano con grossi introiti ad acquirenti principalmente occidentali od asiatici non costituisce di per se un reato in nessuno dei tre stati interessati, rendendo più controversa la situazione. All'acquisto di columbo-tantalite congolese si sarebbero interessate, come intermediarie, anche organizzazioni criminali europee ed asiatiche dedite al traffico illegale di armi, che verrebbero scambiate con il minerale. La questione dello sfruttamento incontrollato delle risorse congolesi ha raggiunto un livello di gravità tale da interessare l'ONU che ha pubblicato, nell'ottobre 2002, un rapporto(1) che accusava le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del paese africano - tra cui il coltan - di favorire indirettamente il prosieguo della guerra civile. Nell'inchiesta in merito all'acquisto di columbite-tantalite venne coinvolta anche la H.C Starck, una sussidiaria della Bayer che si occupa della raffinazione di metalli di transizione quali il molibdeno, niobio, tantalio, tungsteno e renio e della produzione per il mercato dell'elettronica, dei semiconduttori e dei superconduttori, di parti di precisione in leghe speciali e componenti ceramici.

Il rapporto del 2002 fu alla base di una condanna di ordine generale da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite , nel 2003, in merito allo sfruttamento delle risorse naturali della Repubblica Democratica del Congo che comprendono, oltre alla columbite-tantalite, anche diamanti, smeraldi, uranio, oro e altri metalli preziosi.

Il Tantalum-Niobium International Study Centre - un'organizzazione internazionale con sede in Belgio che raggruppa i maggiori produttori, raffinatori e intermediari mondiali di tantalio e niobio - ha esortato i suoi associati ad evitare l'approvvigionamento di columbo-tantalite congolese e rwandese denunciando come eticamente inaccettabile tale commercio in quanto la vendita del minerale in quei paesi finanzia e ha finanziato la guerra civile oltre ad aver creato danni ambientali a causa dello sfruttamento minerario indiscriminato.

(1)Final report of the Panel of Experts on the Illegal Exploitation of Natural Resources and Other Forms of Wealth of the Democratic Republic of the Congo ONU Panel of Experts Reports dell'ottobre 2002.

(Sintesi da Wikipedia)

45. Rischi connessi alle nanotecnologie

La morte di due operaie cinesi attribuita alla inalazione delle micro sostanzeNanoparticelle, prima accusa di omicidio

Due operaie cinesi uccise dalle nano particelle? Lo riferisce uno studio pubblicato dall’European Respiratory Journal, cui ha dato eco planetaria la prestigiosa rivista Nature. Se così fosse davvero si tratterebbe del primo caso documentato al mondo. Nell’apparato respiratorio delle due donne è stata rinvenuta un’alta concentrazione di particelle nanoscopiche ( cioè del diametro di un milionesimo di millimetro) e diversi granulomi riconducibili

80

al tentativo del sistema immunitari odi eliminarle. Le nano particelle sono state inalate dalle due operaie durante la lavorazione di materie plastiche. Ma la loro morte è stata causata proprio da questi corpuscoli “infinitesimali”? La discussione, in realtà, è aperta.Per alcuni esperti non ci sono dubbi, per altri non si può esserne affatto sicuri. Secondo questa seconda ipotesi, nonostante la loro presenza sul luogo del delitto, le nanoparticelle non avrebbero premuto il grilletto.La causa della morte, - sostiene il fronte nanoinnocentista – sarebbe da attribuire a micro particolato inalato con il vapore della lavorazione o ad altre sostanze chimiche. L’unica certezza è che le operaie lavoravano in totale assenza di sicurezza (impianto di ventilazione guasto, niente mascherine, una sola porta nella stanza.).Me perché è così importante stabilire se se le nano particelle sono o no responsabili di queste due morti? Perché le nanotecnologie si avviano a diventare uno dei più importanti fronti scientifici e industriali dei prossimi anni, con prospettive difficili persino da immaginare; ma sul loro utilizzo pesano già molti timori, legati alla sicurezza per l’uomo e per l’ambiente. Senza scomodare le paure declinate da Michael Crichton nel romanzo “Preda”, c’è da scommettere che lo scontro sarà parecchio aspro.(L. Ripamonti, sul Corriere della Sera del 13 settembre 2009)

46. I danni della produzione di agro carburanti

Agrocarburanti, un rimedio peggiore del maleUna risposta seria alla prevista penuria energetica? Un contributo importante alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra? Di fatto gli agro carburanti, abusivamente chiamati biocarburanti, non potranno mai sostituirsi ai carburanti convenzionali. La loro capacità di ridurre il riscaldamento climatico è molto contestata.

Su scala mondiale, le superfici agricole rappresentano 1,4 miliardi di ettari. Calcolando una tonnellata di agro carburanti per ettaro coltivato, e supponendo che cessi qualunque produzione alimentare, potremmo teoricamente produrre un massimo di 1,4 miliardi di tonnellate di equivalente petrolio, mentre il consumo mondiale è oggi di 3,5 miliardi di tonnellate. In questa ipotesi, evidentemente assurda (perché i bisogni alimentari non sono comprimibili) non potremmo comunque soddisfare più del 40% dei nostri bisogni di carburante. Questo semplice calcolo dimostra che, contrariamente a certe premesse, gli agro carburanti non possono rappresentare che un aiuto marginale ai bisogni energetici.In Francia, l’obiettivo molto ambizioso di incorporare il 10% di agro carburanti nei carburanti convenzionali presuppone la messa a coltura di qualcosa come 2-3 milioni di ettari, cioè circa il 20% delle superfici arabili. Ne nascerà una concorrenza feroce tra produzione alimentare e produzione energetica, che condurrà necessariamente all’importazione di etanolo da canna da zucchero brasiliana e da olio di palma indonesiano o malese. Circoleremo in modo più pulito…grazie alla deforestazione massiccia dell’Amazzonia e delle foreste tropicali asiatiche. IL brasile, come l’Indonesia, sono infatti pronti ad accaparrarsi i mercati di agro carburanti perché i loro costi di produzione sono irrisori rispetto ai costi europei. Inoltre, l’efficienza energetica della trasformazione in etanolo della canna da zucchero o dei frutti della palma da olio è molto superiore alla trasformazione del grano francese, del mai o della barbabietola. Perché la canna da zucchero è una pianta perenne, che dura da otto a dieci anni, (e la palma cinquant’anni), il che riduce notevolmente i costi energetici della lavorazione del terreno e della messa a dimora annuale.

Sovvenzioni mascherate

81

D’altra parte, contrariamente alle filiere europee, i sottoprodotti della canna servono da combustibile alle unità di fermentazione e distillazione, che consumano una parte notevole dell’energia prodotta. Oltre alle centinaia di litri d’acqua necessari per l’irrigazione, bisogna poi iniettare un litro di petrolio per produrre 1,3 litri di equivalente petrolio sotto forma di etanolo, di mais, di grano o barbabietola, contro una produzione di 5 litri per l’etanolo brasiliano. In Francia, come negli Stati Uniti, le filiere di agrocarburanti industriali sono in realtà sovvenzioni mascherate ai produttori di cereali. IL Brasile si dice pronto a mettere colture energetiche su altri 14 milioni di ettari, (cioè, praticamente, la superficie arabile francese). Naturalmente queste superfici saranno sottratte alla foresta, con tutte le conseguenze prevedibili sulla biodiversità, sull’erosione dei suoli e sul regime delle piogge. Il secondo aspetto importante riguarda le emissioni di gas a effetto serra. Si sente spesso dire che sarebbero neutre, perché il carbonio emesso dalla combustione degli agrocarburanti proverrebbe dall’atmosfera, via fotosintesi. Questo sarebbe vero, se non ci fossero i trattori per arare, i concimi e i pesticidi da spargere, le macchine per raccogliere e trasportare i raccolti verso gli stabilimenti di trasformazione, e se poi questi funzionassero con energia rinnovabile. Così non è, ovviamente, e il bilancio non può quindi essere neutro. Secondo l’Agenzia per l’Ambiente e il controllo dell’energie (Ademe), dall’aratura alla combustione nei motori, gli agrocarburanti riducono dal 30 al 40% le emissioni nette rispetto alla benzina. Ma, se provengono da colture tropicali, il bilancio sarà catastrofico: la deforestazione tramite debbiatura, si traduce nello sprigionamento nell’atmosfera del carbonio organico degli alberi così come nella mineralizzazione dell’humus della vecchia foresta. Secondo il Global Canopy Programme, la deforestazione rappresenta il 25% delle emissioni totali del carbonio e costituisce una delle principali fonti di gas a effetto serra. Gli agrocarburanti sono presentati come una delle soluzioni ecologiche del futuro. Con la deforestazione indispensabile per soddisfare simultaneamente i bisogni alimentari e quelli energetici, potrebbero essere ancor peggio delle energie fossili e far perdere di vista la cosa essenziale: la necessità di bloccare la deforestazione, rivedere le necessità di trasporto e diminuire il consumo energetico. (Tratto da “Atlante per l’Ambiente, Le Monde Diplomatique – Il manifesto, 2008, con schema filiera e tavole)

47.La morte delle api

Api a rischio estinzione, l’umanità potrebbe scomparire assieme a loro“Se dovessero scomparire le api dalla superficie della Terra, all’uomo non rimarrebbero più di quattro anni di vita. Senza le api non si ha impollinazione e quindi l’uomo sarebbe condannato all’estinzione”. La teoria di Albert Einstein, famosissimo fisico statunitense di origine tedesca, preoccupa il mondo. A 55 anni dalla sua scomparsa, infatti, le sue parole sembrano trovare riscontro nella realtà degli eventi. A confermarlo un team di scienziati che sostiene che dal 1965 ad oggi, nell’Europa centrale il numero degli alveari si è ridotto in maniera drammatica. Secondo i ricercatori, il cui lavoro è stato coordinato dal dottor Simon G. Potts, dell’Università di Reading, nel Regno Unito, le api da miele, come anche le api selvatiche e le mosche bianche, stanno letteralmente lottando per la sopravvivenza. Per l’equipe di scienziati i risultati evidenziano un imminente collasso del sistema dell’impollinazione che avrà conseguenze catastrofiche anche nelle coltivazioni. La scoperta, pubblicata integralmente sulla rivista Journal of Apicultural Research conferma un problema già segnalato dagli apicoltori. L’importanza dei risultati sta nel fatto che essi riguardano la maggior parte dell’Europa, non soltanto i singoli paesi. Gli scienziati hanno analizzato dati disponibili nelle relazioni nazionali e nelle riviste specialistiche degli apicoltori. E grazie a questi hanno potuto determinare il numero complessivo di alveari e di apicoltori. Sulla base di questi dati, il team ha ricostruito la situazione degli alveari in 14 paesi europei tra il 1965 e il 1985, e in 18 paesi europei tra il 1985 e il 2005 (esclusi Spagna, Francia e alcuni stati membri dell’Europa

82

Orientale). Le loro scoperte rivelano che i paesi dell’Europa occidentale e orientale hanno visto diminuire il numero dei loro alveari a partire dal 1965. Nella Repubblica ceca, in Norvegia, Slovacchia e Svezia è stato osservato un affievolirsi dei numeri dal 1985.In alcuni paesi si registra un fenomeno inverso. Al contrario, in Europa meridionale, in particolare Grecia, Italia e Portogallo, è stato registrato un aumento del numero di alveari tra il 1965 e il 2005. La maggior parte degli scienziati ipotizza che la causa va cercata nei mutamenti sociali ed economici: l’apicoltura non è più quella di una volta. Il lavoro manuale è stato sostituito dalle macchine e la richiesta di maggiori guadagni da parte della popolazione rurale ha reso i prodotti basati sullo zucchero economicamente più appetibili. “I costi del trattamento delle malattie delle api sono cresciuti in maniera tale che a volte un trattamento può costare l’equivalente dell’intero guadagno annuale di un alveare, rendendo quindi non redditizia quest’attività su scala ridotta,.ha detto Potts, inoltre il problema delle malattie – in particolare quella causata dal V. Destructor (un acaro parassita esterno che colpisce le api)– ha probabilmente anche ridotto l’attrattiva dell’apicoltura come passatempo”.Nonostante i risultati dello studio, sono comunque necessarie ulteriori ricerche. !Dal momento che le prove a disposizione sono poche, non è possibile individuare uno stimolo efficace per ovviare alla diminuzione degli alveari in Europa e neanche si è in grado di rispondere alla tendenza negativa relativa ad alveari e apicoltori – ha spiegato il coautore dottor Josef Settele del Centro Helmholtz per la ricerca sull’ambiente (UFZ). Questo crea ovviamente un urgente bisogno di normalizzazione dei metodi di valutazione, soprattutto riguardo al numero degli alveari. Tali metodi, normalizzati e affidabili, dovranno costituire la base di qualsiasi ricerca tesa a chiarire e a mitigare la perdita degli alveari. Al progetto, denominato “Alarm” (Assessing large-scale environmental risks with tested methods) hanno collaborato 200 ricercatori di 35 paesi e 68 organizzazioni partner.(Testo su internet Tiscali Notizie del 12 febbraio 2010)

48.Inquinamento elettromagnetico

Appello del Consiglio d’Europa. L’OMS: sicuro“Bandite il wi-fi almeno nelle scuole”

Il Consiglio d’Europa teme che si ripetano gli errori del passato, commessi con l’asbesto, il fumo di sigaretta, e il piombo della benzina, e avverte: i cellulari, i sistemi wireless (wi-fi) e i telefoni cordless, potrebbero essere dannosi per la salute. E invita a bandire, almeno nelle scuole, questi strumenti, per proteggere i più piccoli. Secondo l’organizzazione di Strasburgo (che raccoglie rappresentanti di 47 Stati membri e ha il compito, fra le altre cose, di promuovere i diritti dell’uomo e la ricerca di soluzione ai problemi sociali), le onde elettromagnetiche emesse da questi dispositivi, potrebbero provocare danni soprattutto ai più giovani, stando alle ultime evidenze della ricerca scientifica.In particolare, potrebbero interferire con lo sviluppo del cervello e aumentare il rischio di cancro. Ma non tutti sono d’accordo: l’Organizzazione Mondiale della Sanità assicura che l’uso di questi dispositivi non rappresenta alcun pericolo. E come spesso succede, quando si parla di nuove tecnologie, (basti pensare agli organismi geneticamente modificati, gli Ogm), e di effetti sulla salute, prendono forma due partiti contrapposti: quello dei “tecnologi fiduciosi” (che ovviamente include chi ha interessi nel campo: uno studio del 2007, promosso dalla Britain’s Mobile Telecommunications, per esempio, ha escluso rischi da cellulare) e quello dei “sospettosi precauzionisti” (che trova oggi grande spazio nei blog e nei social network).Le risposte certe dovrebbero arrivare dalla ricerca scientifica, ma questa tecnologia è troppo giovane e ancora non si riescono a valutare gli effetti a distanza.Studi condotti nel breve periodo (dieci anni), e pubblicati l’anno scorso hanno escluso il rischio tumore, ma secondo gli esperti è ancora tutto da valutare l’impatto sullo sviluppo cognitivo e sul

83

sonno. Nel frattempo, c’è, appunto, chi non rinuncia al progresso e chi invoca il principio di precauzione e propone una limitazione dell’uso prima che faccia danni (anche se soltanto ipotetici).La risoluzione del Consiglio d’Europa (che comunque andrà approvata dall’Assemblea Generale e rappresenta soltanto un indirizzo per gli Stati membri) suggerisce tre o quattro cose, nell’ottica di una “precauzione morbida”: chiare etichettature sui prodotti che sottolineino i rischi dei campi elettromagnetici, bando nelle scuole di cellulari e sistemi wi-fi, promozione di campagne sui rischi e di ricerche che studino dispositivi meno dannosi.

(A. Bazzi, sul Corriere della Sera del 16 maggio 2011)

Sanità Gli operatori: standard di sicurezza affidabiliL’allarme dell’OMS “I cellulari potrebbero provocare il cancro”Lo studio di 31 scienziati sulle radiofrequenze

L’OMS ci ripensa. Dopo aver sostenuto in precedenza che non esiste alcun legame scientifico accertato tra uso dei cellulari e tumori, l’Agenzia Onu per la salute ieri ha cambiato improvvisamente registro, suggerendo che l’uso di cellulari potrebbe essere classificato come “potenzialmente cancerogeno” per l’uomo. “Esistono possibili correlazioni tra il cancro e le radiazioni elettromagnetiche di cellulari, forni a microonde e radar” sostiene Jonathan Samet, a capo del team di 31 ricercatori di 14 paesi, tra cui l’Italia, riunitisi per una settimana a Lione, in Francia, per discutere uno degli enigmi che da anni divide ricercatori e consumatori. Secondo gli scienziati dell’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’Oms (Iarc), le radiazioni elettromagnetiche dei cellulari aumenterebbero il rischio di contrarre il glioma, una tipologia di cancro maligno e spesso mortale che colpisce il cervello.Nel corso del gruppo di lavoro, gli esperti hanno consultato decine di studi già pubblicati, osservando gli effetti di lungo periodo dell’esposizione alle radio frequenze. Spiega Samet: “ le prove che continuano ad accumularsi sono sufficientemente valide da giustificare l’inclusione dei cellulari nella categoria 2B di una scala che va da 1 a 5, dove uno sta per le sostanze certamente cancerogene, 5 per quelle non cancerogene”Un ampio studio pubblicato nel 2010 e condotto nel corso di 10 anni su un campione di 13.000 persone non ha mostrato alcun legame certo fra cellulari e cancro. “Non ci convince” fu la risposta dei gruppi in difesa dei consumatori,soprattutto negli Stati Uniti, decisi a continuare la loro crociata per far luce sui potenziali rischi. Ma l’Oms ha dovuto riesaminare la letteratura scientifica anche alla luce della centralità della questione per la salute pubblica mondiale. Secondo un sondaggio del 2010, il numero di persone che hanno un cellulare ha toccato quota 5 miliardi, (circa cento milioni in Italia, quasi due a testa). L’uso è in espansione soprattutto tra bambini e giovani.”E’ importante che ulteriori ricerche vengano condotte nel lungo periodo”, precisa il direttore dell’Iarc, Christopher Wild. Il problema maggiore è che “spesso servono molti anni di esposizione prima di vedere le conseguenze di questi fattori ambientali”, come ha spiegato alla Cnn Keith Black, capo del dipartimento di neurologia al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles. In attesa di uno studio definitivo,i consumatori sono invitati a “trovare il modo per ridurre la loro esposizione”. “Nell’effettuare telefonate, tenere il telefono ad una distanza di almeno un centimetro e mezzo dal corpo” si legge già da tempo sul manuale dell’iPhone4, mentre il Blackberry suggerisce “una distanza di almeno 2 centimetri e mezzo”.La notizia ha subito conquistato le prime pagine in America dove una conferma definitiva del potenziale cancerogeno potrebbe avere un esito devastante sul mercato. “la classificazione Iarc non significa che i cellulari provocano il cancro- ribatte John Walls, portavoce dell’Associazione degli operatori americani del settore Ctia – nella stessa categoria di cancerogeni potenziali rientrano anche caffè, cloroformio, piombo e cetrioli sotto aceto”. La Gsma, l’associazione che rappresenta gli operatori di telefonia mobile nel mondo, afferma che “gli standard di sicurezza rimangono validi”

84

(A. Farkas, sul Corriere della Sera dell’1 giugno 2011, con foto e dati relativi allo studio svedese del 2007 e intervista scientifica a Maria Rossini, oltre al commento di M. Pierotti a pag.52)I precedentiI ricercatori danesiNel 2009 la Società di oncologia danese analizza i tassi di incidenza annuale di due tipi di tumori al cervello tra i venti e i 79 anni di età, tra 1974 e 2009: nessun chiaro cambiamento nonostante la diffusione dei cellulari.Lo studio svedesePoco dopo una ricerca dell’Università di Orebro, in Svezia, riscontra una correlazione tra l’uso dei cellulari e l’aumento della transtiretrina, una proteina che protegge il cervello da influenze esterne. Nel 2007 lo stesso ateneo aveva invece rilevato che usare un cellulare per più di dieci anni raddoppierebbe il rischio di tumori cerebrali.Contro l’AlzheimerA gennaio 2010 la rivista Journal of Alzheimer’s Diseases pubblica una ricerca in base a cui le onde elettromagnetiche proteggerebbero dall’Alzheimer e farebbero regredire i segni tipici del morbo, le placche amiloidi.Le versioni dell’OmsL’Organizzazione mondiale della sanità aveva in passato sostenuto che i telefonini fossero “innocui”, a fine 2009 si ricrede: “Facilitano l’insorgenza dei tumori al cervello”.Missione CosmosCoordinato dall’Imperial College di Londra , lo studio lanciato ad aprile 2010 coinvolgerà 250.000 “cavie” europee per 20-30 anni, per stabilire in via definitiva se usare il cellulare sia dannoso. Primi risultati previsti in 5 anni.

Radio VaticanaElettrosmog , in procura altri 23 casi di leucemia

Altri 23 casi di leucemia per colpa dell’elettrosmog. Accusano ancora una volta Radio Vaticana a Cesano e il radar della Marina Militare a La Storta i cittadini di Roma Nord, che chiedono alla procura di insistere nelle indagini e di contestare un reato più grave di quello ipotizzato finora, l’omicidio colposo. In fondo al triste elenco c’è per adesso una signora di 48 anni, sconfitta dal cancro a gennaio scorso. I suoi familiari non hanno ancora deciso se affidarsi all’autorità giudiziaria, al contrario dei genitori di altre due vittime, un bimbo malato di sei anni di Santa Maria di Galeria e un ragazzo di 26 anni di Anguillara morto due anni fa. Sono queste le ultime due denunce finite sul tavolo del Pm Stefano Pesci, mentre il comitato “Bambini senza onde” ha consegnato al magistrato le cartelle cliniche di nove pazienti colpiti da leucemia, linfoma e mieloma dal 2006 ad oggi, tutti residenti nelle zone di Cesano, Anguillara, La Storta e Formello. Per gli altri 11 casi l’associazione sta completando la raccolta della documentazione medica.“Bambini senza onde” ha iniziato a raccoglier i nuovi dati dopo la perizia epidemiologica disposta dal gip Zaira Secchi per verificare il ruolo delle onde elettromagnetiche nella morte di 19 bambini tra la fine degli anni ’80 e il 2003. “Lo studio – ha sottolineato il perito Andrea Micheli – suggerisce che vi sia stata un’associazione importante, coerente e significativa tra esposizione residenziale alle strutture di Radio Vaticana ed eccesso di rischio di malattia e che le strutture di “Mari Tele” (il radar ndr) in modo limitato e additivo, abbiano presumibilmente contribuito all’incremento di quel rischio”. Cinque gli indagati nell’inchiesta, fra cui quelli dell’emittente della Santa Sede già coinvolti nel primo processo “per getto pericoloso di cose”: a febbraio la Cassazione ha dichiarato prescritte le condanne, ma ha confermato il diritto al risarcimento dei danni alle vittime. Ora si attende la motivazione.(L. Di Gianvito, sul Corriere della Sera dell’8 giugno 2011)

85

49. Inquinamento luminoso

L'inquinamento luminoso è un'alterazione dei livelli di luce naturalmente presenti nell'ambiente notturno. Questa alterazione, più o meno elevata a seconda delle località, provoca danni di diversa natura: ambientali, culturali ed economici. La definizione legislativa più utilizzata (vedi sotto) lo qualifica come "ogni irradiazione di luce diretta al di fuori delle aree a cui essa è funzionalmente dedicata, ed in particolare verso la volta celeste".

Tra i danni ambientali si possono elencare: difficoltà o perdita di orientamento negli animali (uccelli migratori, tartarughe marine, falene notturne), alterazione del fotoperiodo in alcune piante, alterazione dei ritmi circadiani nelle piante, animali ed uomo (ad esempio la produzione della melatonina viene bloccata già con bassissimi livelli di luce). Recentemente (2001) è stato scoperto un nuovo fotorecettore che non contribuisce al meccanismo della visione, ma regola il nostro orologio biologico. Il picco di sensibilità di questo sensore è nella parte blu dello spettro visibile. Per questo le lampade con una forte componente di questo colore (come i LED) sono quelle che possono alterare maggiormente i nostri ritmi circadiani. Le lampade che fanno meno danno da questo punto di vista sono quelle al sodio ad alta pressione e, ancora meno dannose, quelle a bassa pressione.

Il danno culturale principale è dovuto alla sparizione del cielo stellato dai paesi più inquinati, cielo stellato che è stato da sempre fonte di ispirazione per la religione, la filosofia, la scienza e la cultura in genere.

Fra le scienze più danneggiate dalla sparizione del cielo stellato vi è senza dubbio l'astronomia sia amatoriale che professionale; un cielo troppo luminoso infatti limita fortemente l'efficienza dei telescopi ottici che devono sempre più spesso essere posizionati lontano da questa forma di inquinamento.

Il danno economico è dovuto principalmente allo spreco di energia elettrica impiegata per illuminare inutilmente zone che non andrebbero illuminate, come la volta celeste, le facciate degli edifici privati, i prati e i campi a lato delle strade o al centro delle rotatorie. Anche per questo motivo uno dei temi trainanti della lotta all'inquinamento luminoso è quello del risparmio energetico. La spesa energetica annua per illuminare l'ambiente notturno è dell'ordine del miliardo di euro, non contando le spese di manutenzione degli apparecchi, sostituzione delle lampade, installazione di nuovi impianti.

La disciplina dell'inquinamento luminoso in Italia.

Alla data attuale la prevenzione dell'inquinamento luminoso non è regolamentata da una legge nazionale: benché essa sia stata più volte sottoposta al parlamento, non è mai giunta alla discussione in aula. Le singole regioni e la provincia autonoma di Trento hanno tuttavia promulgato testi normativi in materia, mentre la norma Uni 10819 disciplina la materia laddove non esista alcuna specifica più restrittiva. A seconda del regolamento tecnico richiamato i testi normativi possono essere classificati in:

1. Disposizioni basate sulla norma Uni 10819: Valle d'Aosta, Basilicata, Piemonte. Nessuna disposizione di questo tipo è posteriore all'anno 2000.

86

2. Disposizioni basate su specifiche più severe della norma Uni 10819: Toscana, Lazio, Campania, promulgate o modificate nelle forma definitiva tra il 1997 (Veneto, ora aggiornata come al punto seguente) ed il 2005.

3. Disposizioni basate sul criterio "zero luce verso l'alto": fanno riferimento ai contenuti della Legge Regionale Lombardia 17/2000 e successive modifiche. Sono basate sul criterio per cui salvo poche e ben determinate eccezioni nessun corpo illuminante possa inviare luce al di sopra dell'orizzonte. Sono state promulgate da Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Marche, Abruzzo, Puglia, Sardegna, Liguria, Veneto e dalla provincia autonoma di Trento. Tutte le disposizioni successive al 2005 si basano su tali fondamenti. La regione Veneto, la prima ad essersi dotata di una legge per combattere l'inquinamento luminoso, ha adeguato la normativa nell'estate 2009 rendendola molto più efficace.

Nell'ottobre 2006 l'associazione dei produttori di apparecchi illuminotecnici (ASSIL) ha sottoscritto con l'International Dark Sky Association e l'Unione Astrofili Italiani un protocollo di intesa finalizzato a migliorare l'efficienza dell'illuminazione, definendo i criteri cui devono sottostare gli impianti di illuminazione ed i singoli punti luce a seconda del luogo di installazione (centri storici, territorio ordinario, zone sensibili all'inquinamento luminoso). Tale protocollo di intesa è il primo importante accordo firmato sia dai produttori che dagli astrofili. Tuttavia, è da sottolineare come tale accordo sia stato rifiutato in blocco da CieloBuio - coordinamento per la protezione del cielo notturno (l'associazione che ha promosso la LR17/00 Lombardia), che lo ritiene del tutto inadeguato nel contesto della lotta all'inquinamento luminoso.

(Sintesi da Wikipedia)

50.L’imbottigliamento delle acque fossili da permafrost

La Terra trema

I ghiacci perenni si sciolgono? Imbottigliamoli

C’è un’isola frigorifero, in Groenlandia, che il permafrost aveva mantenuto intatta: Disko, riserva planetaria di risorse naturali vasta quanto la Corsica. Oggi, mille anni dopo Enrico il Rosso, su questo paradiso dell’Antartide sbarcano nuovi Vichinghi a caccia di un impagabile tesoro: l’acqua. Purissima acqua primordiale che lo scioglimento dei ghiacci perenni regala al mare. Un’azienda svizzera imbottiglia la preziosa minerale d’annata, in sofisticati contenitori di plastica, (sul business dell’acqua, vedi il reportage “La campagna del tubo”, n. 41 di IO Donna), etichettati come “acqua dell’incontaminata Groenlandia”. Incontaminata sì, fino all’altro ieri. (E.L)

51. Le conseguenze per l’ambiente dei rifiuti alimentari

Il pranzo finisce nei rifiuti

87

Negli Stati Uniti la quantità di cibo che finisce nella spazzatura è raddoppiata del 1974 ad oggi. Il contenuto energetico degli scarti alimentari è passato da 900 chilo calorie procapite al giorno a 1400. Questo spreco ha un impatto ambientale : per produrre il cibo che finisce nella spazzatura servono più di un quarto dell’acqua consumata e 300 milioni di barili di petrolio all’anno. Inoltre la decomposizione degli alimenti produce metano e CO2.(Tratto da “Internazionale” del 4 dicembre 2009, con grafico)

Storie Ottobre è il mese dell’alimentazione: oggi la FAO ci dirà che un miliardo di persone non ha da mangiare: il 10 abbiamo saputo che ci sono 300.milioni di obesi. Nessuno parla mai degli sprechi alimentari.

Il pane buttatoOggi la Fao ci dirà quante donne e uomini sono denutriti e sottoalimentati. Probabilmente la cifra sarà tornata sopra il miliardo, come già annunciato da un enorme striscione, come già annunciato da un enorme striscione appeso sulla facciata della sede a Roma (…)Contrariamente a quanto molti credono, gli obesi stanno aumentando vertiginosamente non nei paesi industrializzati ma soprattutto nelle economie in via di sviluppo, non solo nelle zone urbane. Che significa tutto questo? Purtroppo che il peggior modello di consumo (e di vita) dei paesi industrializzati sta diventando veramente globale. Complessivamente due miliardi di persone (un terzo della popolazione mondiale non mangia, mangia poco oppure mangia male e troppo. Ma c’è di più: miliardi di persone sprecano cibo che con una gestione più accorta basterebbe a sfamare chi ha problemi di alimentazione.I dati sono impressionanti. Negli ultimi 35 anni lo spreco alimentare nel mondo è aumentato del 50%. Negli Stati Uniti il 25% degli alimenti perfettamente commestibili viene distrutta, incenerita. Calcolando una spesa campione di 42 dollari, 14 vengono spesi per l’acquisto di prodotti non necessari. Ma non sono solo gli Stati Uniti, (padri degli obesi) a sprecare cibo. In Gran Bretagna ogni anno si gettano 6,7 milioni di tonnellate di cibo ancora consumabile con uno spreco di dieci miliardi di sterline. In Svezia in media ogni famiglia getta il 25% del cibo acquistato.Non va meglio in Italia: lo spreco di prodotti alimentari ancora commestibili ammonta – sostiene Andrea Segrè , preside della facoltà di Agraria e presidente di Last Minute Market con sede nella opulenta Bologna – a 20 milioni di tonnellate , pari ad un valore di mercato di 37 miliardi di euro. Il 3% del Pil. Con questo cibo sprecato potrebbero mangiare 44 milioni di persone. Di più. Aggiunge Segrè: ogni anno finiscono nella discariche o negli inceneritori il 19% del pane, il 4% della pasta. E ancora: il 39% dei prodotti freschi come latte, uova, carne, mozzarella, yoghurt e il 17% della frutta e della verdura. Tutto questo ha un costo economico non indifferente: ogni nucleo familiare getta via ogni anno 515 euro in prodotti alimentari, oltre il 10% della spesa mensile che ammonta in media a 450 euro. Evidente che se proiettiamo le cifre italiane e quelle statunitensi su scala globale (cioè gli sprechi alimentari comuni a tutti i paesi sviluppati) otterremmo una quantità di cibo sufficiente a eliminare la carenze di cibo tra la popolazione mondiale affamata. Come si può fare?Non è facile ma bisogna provarci. “Un anno contro lo spreco 2010” è una campagna promossa da Last Minute Market e dalla facoltà di Agraria assieme al Parlamento Europeo con lo scopo – apparentemente limitato – di sensibilizzare l’opinione pubblica e cercare di ridurre lo spreco di almeno il 50% entro il 2025. (…)E’ stato calcolato che la distribuzione al dettaglio italiana (l’ultimo anello di una catena che parte dai produttori agricoli, dalle organizzazioni dei produttori, dall’industria e dai centri agroalimentari) ogni anno spreca oltre 244.000 tonnellate di prodotti alimentari il 40% dei quali sono prodotti ortofrutticoli. Il valore totale (calcolando un prezzo medio di 3,8 euro al chilo) si aggira sul miliardo di euro. Recuperando questi alimenti sarebbe possibile dar da mangiare (tre pasti al giorno) a 636.000 persone (l’equivalente di una città come Genova) e su base annua sarebbe possibile recuperare 580 milioni di pasti.

88

Alcune catene della grande distribuzione hanno aderito alla campagna di recupero degli alimenti che finiscono al macero. Altri, invece, più disinvoltamente, (come ci dicono le cronache), modificano la data di scadenza. Però il problema rimane. E’ forte nella fase di produzione e distribuzione degli alimenti, ma su questo versante si può fare molto perché la collaborazione non manca. L’anello debole è però il comportamento individuale, la frenesia consumistica ( che diventa spesso un comportamento compulsivo) alimentata frequentemente dalle imprese. Sconfiggerlo non è facile: è una questione di educazione (quella alimentare è scarsa) cultura, solidarietà e civiltà. I ”vecchi” dicevano: “si mangia per vivere, non si vive per mangiare”. Forse dovremmo riscoprire un vecchio/nuovo modello di sviluppo, diverso dall’attuale.(Galapagos, il testo integrale su “Il manifesto” del 16 ottobre 2010; altri dati sul Corriere della Sera del 2 novembre 2010)

Danni emergenti

52. Lo sfruttamento dei giacimenti di litio

La rinascita della BoliviaScenari Nel Salar de Ayuni sull’altopianoSotto un mare di sale il litio, la grande speranza

Mentre nel mondo ci si danna l’anima per trovare una alternativa credibile ai veicoli a petrolio e l’opzione dell’etanolo come combustibile “verde” non convince affatto, la Bolivia confida nelle sue riserve di litio per lanciare una nuova fonte energetica. E, di lì, dopo il secolare saccheggio dell’argento e dello stagno (oltre a quelli sventati dalle lotte popolari, dell’acqua e del gas) fruire di una nuova (e preziosa) risorsa e di un nuovo peso politico. Come la recente scoperta di enormi depositi di petrolio al largo della costa di San Paolo potrebbe cambiare la storia del Brasile, così le grandi riserve di litio sull’altopiano boliviano potrebbero cambiare la storia della poverissima (per quanto ricchissima) Bolivia. Per verificare l’attendibilità di queste speranze, la BBC ha spedito il suo inviato Peter Day nel Salar de Uyuni, la più grande e famosa delle distese di sale di cui è costellato l’altipiano.Uyuni il cielo è di un blu intenso, la terra perfettamente piana è di un bianco accecante, fino alla linea lontana dei vulcani sullo sfondo. Questo, scrive Peter Day, è il fulcro di un progetto potenzialmente enorme su cui la Bolivia sta puntando le sue speranze di riscatto. A 3700 metri dell’altipiano andino nel sud-ovest del paese, le notti sono sotto zero ma i giorni sono caldi anche nel pieno dell’inverno. Il sole nel cielo senza nubi si riflette sulla superficie della più grande distesa salina del mondo: il Salar de Uyuni. E’ un deserto spettacolare (…) sono ingegneri e uomini d’affari di alcune delle più importanti compagnie minerarie e chimiche del mondo. Arrivano ormai ogni settimana, e sono attratti verso quella distesa salina da ciò che trova sotto la crosta di sale e fango dura come il ghiaccio. La sotto giace una grande riserva di acqua salmastra e, in quel liquido salato, i più grandi depositi al mondo del più leggero dei metalli: il litio.Per anni il litio è servito per cose molto speciali, come le ceramiche o le pillole anti depressive. Ma improvvisamente oggi c’è una nuova ed enorme domanda potenziale. Negli ultimissimi anni molti hanno avuto l’occasione di salire su automobili elettriche ricaricabili. Molti costruttori vecchi e nuovi, per rispondere agli alti prezzi del petrolio o ai danni procurati all’ambiente, stanno provando a cercare dei sostituti ai tradizionali motori a scoppio. Grandi speranze sono riposte sulle batterie basate sul leggerissimo litio, molto più rapide a caricare e scaricare potenza- dicono- di qualsiasi altra batteria tradizionale. Se questo tipo di auto prendesse piede, il litio potrebbe diventare una delle materie prime vitali di una rivoluzione automobilistica.

89

E proprio nel Salar de Uyunu, racchiuse in questi vasti e nascosti laghi di acqua salmastra , gli esperti ritengono che la poverissima Bolivia detenga il 50% delle riserve totali di litio del mondo.Ecco perché Marcelo Castro, che alleva galline e conigli su quella piana desolata, ha deciso di costruire un impianto-pilota per imparare come si fa ad estrarre il litio da queste distese di sale, e poi come far evaporare l’acqua salmastra e separare il prezioso metallo dal sale. (….)Ed Evo Morales non ha perso tempo a spostare il baricentro del potere verso la gente da cui proviene. Ha nazionalizzato i vertici dell’economia, compresi il petrolio e il gas. Si è mosso per rompere i grandi latifondi di terra. Morales ha già affermato che la nuova manna, il litio, non sarà preda delle “multinazionali capitaliste e predatrici che vengono da fuori” ma sarà sfruttata dallo Stato a beneficio della Bolivia (come è accaduto con il gas). Questa è una posizione che provoca orgoglio ed entusiasmo fra i sostenitori di Morales. Indossando il caratteristico cappello delle donne indie, preso dalle tradizionali bombette inglesi più di un secolo fa, Domitila Machaca racconta come negli anni ’90 la gente del posto abbia marciato per centinaia di chilometri verso la capitale La Paz per bloccare lo sfruttamento straniero di queste distese di sale e sorride a tutti denti accennando alla strategia di Morales per lo sfruttamento “domestico” di questa ricchezza. Una volta tornati a La Paz, facendo notare, con il filo di fiato lasciato dall’altitudine, al Ministro delle Miniere Luis Echazu che la Bolivia si prende un bel rischio se davvero vuole diventare, come dice qualcuno, la “Arabia Saudita del litio”, la risposta è stato un secco “no”: “Noi vogliamo molto di più. Non vogliamo soltanto processare il metallo, vogliamo anche costruire le batterie”. Ma per raggiungere questo obiettivo ci vorranno soldi ed expertise , che la Bolivia dovrà prendere da fuori, e le multinazionali tradizionalmente diffidano dei paesi socialisti che danno un grosso ruolo allo Stato. (…)(Il testo completo su “Il manifesto” del 20 agosto 2009, con foto)

“Dal litio alla rete elettrica, patto tra Italia e Germania per lanciare la ricostruzione dell’Afghanistan di Karzai”….sigla di protocollo di intesa tra i due Stati per la collaborazione economica su dieci temi, dall’energia alle infrastrutture, passando per lo sfruttamento dei minerali, delle terre rare (c’è abbondanza di litio), del marmo…….(il testo completo dell’articolo sul Corriere della Sera del 13 aprile 2011).

Mobilità in Cina“Auto elettriche per tutti”La Byd (Build your dreams, costruite i vostri sogni) di Shenzhen è una delle perle dell’industria cinese moderna. E’ nata poco più di dieci anni fa come azienda specializzata in componenti elettronici ma con il passare del tempo si è specializzata nelle batterie, soprattutto a ioni di litio. Oggi nel mondo un computer portatile su due ha una batteria della Byd. Lo stesso vale per i cellulari. Nel 2003 Wang Chuanfu, il proprietario, ha deciso di puntare sul settore automobilistico e oggi il gruppo Byd è un protagonista assoluto nel settore delle auto elettriche. Il piano di espansione della Byd sul mercato ha delle proporzioni cinesi: 400.000 veicoli venduti nel 2009, il doppio nel 2010, il quadruplo nel 2011 e così via fino al 2015, quando “la Byd sarà diventata, spiegano i suoi dirigenti, il numero uno mondiale davanti alla General Motors. La differenza rispetto agli americani è che noi produciamo. Il nostro modello al cento per cento elettrico, la e-6, è pronto. E ha una autonomia di 300 chilometri, il doppio del migliore dei nostri concorrenti”. Hanno una risposta a tutto. “Il litio? Ce n’è tantissimo in Tibet, a casa nostra. Il cobalto? Andremo a cercarlo in Congo, sono nostri amici. Tutto questo farebbe sorridere se non avesse già convinto un investitore lungimirante come Warren Buffett, che nel 2008 ha comprato per 230 milioni di dollari un decimo del capitale della Byd. Oggi la sua partecipazione vale dieci volte tanto. La Cina infatti è diventata pochi mesi fa il primo mercato automobilistico del mondo. Il problema è che il petrolio non è

90

eterno: “Ecco perché dobbiamo elettrificare la mobilità”. L’auto elettrica è il mercato di domani su cui tutti gli occidentali puntano. La Cina invece non aspetta. E Pechino sta investendo molto nel settore. (S. Enderlin, su Internazionale del 20 maggio 2011)

53. Il mercurio da lampadine

Lampadine a basso consumo: sono una buona idea?

Una delle prime lampade a filamento incandescente di Edison. Questa è del 1878. Dopo quasi un secolo e mezzo di onorato servizio, nel 2009 queste lampade sono state messe fuori legge dalla commissione europea in quanto giudicate troppo energivore. Questa potrebbe essere stata una

decisione un po’ affrettata.

Nel suo romanzo “Le ceneri di Angela”  Frank McCourt ci racconta di quando era bambino in Irlanda, negli anni 1930 e 1940. Uno dei suoi ricordi è di quando viveva in casa da suo zio, il quale si portava con se al lavoro, ogni mattina, i fusibili dell’impianto elettrico di casa. Era per risparmiare sulla bolletta evitando che suo nipote accendesse la luce per leggere nella nebbiosa Limerick.

Lo zio di Frank McCourt non era di certo un ecologista. Era semplicemente uno che cercava di risparmiare in un’epoca in cui il costo dell’elettricità era ben superiore a quello attuale, in termini relativi. Le cose sono ben diverse, oggi, e credo che tutti possiamo raccontare di familiari e conoscenti che lasciano accesa la luce tutta la notte; “tanto costa poco”.

In effetti, per quanto cozzi contro la coscienza ecologica di molti di noi, è vero che l’illuminazione è una voce molto piccola sui consumi domestici. In un post di Gianluca Ruggeri su ASPO-Italia troviamo che, in media, l’illuminazione rappresenta circa il 12% dei consumi elettrici domestici. A loro volta, i consumi elettrici rappresentano circa il 16% dei consumi energetici domestici, quindi l’illuminazione rappresenta meno del 2% del totale in termini di quantità di energia usata in casa. In termini monetari è un po’ di più dato che l’energia elettrica costa più cara di altre forme, ma è comunque una frazione molto piccola.  Un modo alternativo di quantificare le cose è di considerare che i consumi elettrici domestici, secondo Federconsumi, sono circa il 23% del totale dei consumi elettrici in Italia. Ovvero, l’illuminazione domestica rappresenta meno del 3% dei consumi elettrici totali.

Nonostante questa piccola incidenza sui consumi, sembra che la Commissione Europea abbia considerato molto importante risparmiare in quest’area ed è andata a promulgare un decreto decisamente pesante in merito: dal 1 Settembre 2009 in tutta l’Unione Europea è vietata la vendita delle tradizionali lampadine a filamento di tungsteno. Si possono commerciare soltanto le lampadine a basso consumo, principalmente di tre tipi: fluorescenti, alogene o a LED. Nella pratica, quasi tutte le nuove lampadine sono fluorescenti compatte, con un risparmio sui vecchi tipi a filamento di circa il 70%-80%. Considerato questo fattore e assumendo che il “parco lampade” esistente sia tutto a incandescenza, il risparmio totale del provvedimento è di circa il 2% dei consumi elettrici totali e poco più dell’1% dei consumi energetici domestici.

Non è che sia una cosa entusiasmante e, in effetti, leggiamo sul “Sole 24 ore” che il risparmio sulla bolletta domestica per una famiglia dovrebbe “aggirarsi intorno ai 20 euro” all’anno con le lampade a basso consumo. Non è una cosa che risolva il problema di far quadrare il bilancio familiare e, decisamente, non sono più i tempi dello zio di Frank McCourt che per risparmiare sulla bolletta si

91

portava via i fusibili di casa. Inoltre, queste stime potrebbero essere molto ottimistiche dato che non tengono conto dei fattori legati al cosiddetto “paradosso di Jevons”. In pratica, se l’illuminazione costa meno va a finire che si tengono le lampadine accese per più tempo e non si risparmia niente o quasi.

Valeva la pena, allora, intervenire così pesantemente sul mercato per ottenere dei vantaggi così limitati (e forse inesistenti)? Si potrebbe rispondere con il vecchio detto Toscana, “meglio che nulla, marito vecchio”. Tuttavia, come spesso succede, il diavolo sta nei dettagli. Risparmiare va bene, ma quali sono gli effetti collaterali?

C’è prima di tutto un problema di inquinamento: le lampade a basso consumo, come abbiamo detto, sono quasi tutte a fluorescenza e le lampade a fluorescenza contengono mercurio. Di quanto mercurio stiamo parlando? Beh, si stimano circa 4 mg di mercurio per lampada. Allora, se in Europa ci sono – diciamo – 5 lampade a persona per 350 milioni di europei, questo vuol dire circa un miliardo e mezzo di lampade. Ammesso che durino 10 anni l’una, si parla di sostituirne 150 milioni l’anno, ma il realtà i dati disponibili parlano di 200 milioni e oltre all’anno. Fatti i dovuti conti, in totale, si crea un giro di quasi una tonnellata di mercurio all’anno soltanto in Europa.

Secondo il “Consorzio Ecolamp“  il mercurio si può recuperare quasi al 100% nello smaltimento di queste lampade (vedi anche questo articolo dell’Environment Protection Agency).  Siccome  il mercurio costa caro, conviene recuperarlo. Però, ogni lampadina ne contiene talmente poco che il suo valore economico è praticamente zero. Quindi, con tutta la buona volontà, non tutte le lampade fluorescenti verranno smaltite correttamente. E’ difficile dire quante di queste lampade finiranno nei cassonetti dei rifiuti, ma sicuramente parecchie. Questo è specialmente vero per quelle lampade che andranno a finire nei paesi del terzo mondo dove mancano le risorse per mettere insieme sistemi di smaltimento moderni.  Sia da noi che nei paesi poveri, le lampade non smaltite correttamente andranno a finire in discarica, oppure in un inceneritore. Ammesso che dall’inceneritore il mercurio non finisca nell’atmosfera, finirà comunque in discarica come ceneri da incenerimento. Inoltre, un certo numero di lampade finirà rotto durante l’uso, disperdendo il mercurio nell’ambiente domestico. Non è chiaro quali effetti questo potrà avere sulla salute umana, ma sicuramente il mercurio è un veleno molto potente. Ne bastano nanogrammi per millilitro nel sangue per avere effetti dannosi e il contenuto di mercurio in una singola lampada è più che sufficiente per arrivare a queste concentrazioni in un essere umano.

Una lampada rotta in un ambiente poco ventilato potrebbe fare seri danni, ma – fortunatamente – dovrebbe essere un evento raro. In ogni caso, è probabile che con le lampade fluorescente sparpaglieremo qualcosa come mezza tonnellata di mercurio all’anno nell’ambiente, nella sola Europa. In termini relativi, è una quantità limitata.  Tanto per dare un’idea, la produzione mondiale attuale di mercurio è di circa 1000 tonnellate l’anno e le emissioni di mercurio da parte di processi di combustione – principalmente le centrali a carbone – sono molto superiori. Si calcola che una lampada a fluorescenza contiene meno mercurio di quello che emetterebbe una centrale a carbone per alimentare una lampada a filamento di pari potenza. In realtà, tuttavia, questi calcoli sono fatti per paesi dove ci sono molte centrali a carbone e non valgono per l’Italia; dove ce ne sono poche. Da noi si usa principalmente il gas naturale, che non contiene mercurio. Lo stesso vale se usiamo energia rinnovabile. Insomma, queste tonnellate di mercurio sparse nell’ambiente non faranno (forse) gravi danni, ma il concetto di spargerle va contro il principio di base che dice “primo non nuocere”.

C’è poi un altro problema. In questi ultimi tempi, ci stiamo focalizzando al 100% sull’energia senza considerare l’altro gravissimo problema che ci sta di fronte: quello del graduale esaurimento delle

92

materie prime (vedi per esempio il mio articolo su “The Oil Drum”). Allora, abbiamo abbastanza mercurio per tutte queste lampade?

In un articolo scritto insieme a Marco Pagani abbiamo notato come la produzione mondiale di mercurio abbia piccato ormai da decenni. Siamo scesi oggi a una produzione, come dicevo , di circa 1000 tonnellate all’anno. Ora, se tutto il mondo usasse lampade a fluorescenza, avremmo bisogno di solo qualche decina di tonnellate all’anno di mercurio, ma la produzione tende a scendere e a lungo andare ci troveremo in difficoltà. In secondo luogo, stiamo sparpagliando nell’ambiente risorse minerali in forme che non saranno mai più recuperabili. Probabilmente, di mercurio per le lampade ne avremo ancora per parecchi decenni ma, comunque vada, lasceremo senza mercurio i nostri discendenti, qualunque uso ne vogliano fare.

In confronto, una lampadina a incandescenza tradizionale è tutta un’altra cosa: rame, vetro e il filamento di tungsteno. Tutto materiale facilmente riciclabile quasi al 100%. Anche se è finito in discarica si può recuperare lo stesso senza pericolo per chi lo fa (non dall’inceneritore, però). In effetti, esiste già oggi una fiorente industria che recupera il tungsteno dalle lampadine scartate.  Se smettiamo di incenerire, possiamo continuare per secoli a fare lampadine a incandescenza senza privare i nostri discendenti di nessuna risorsa, anzi facendogli trovare tungsteno in forma metallica e facilmente utilizzabile.

In sostanza, la lampada fluorescente nasce da ottime  intenzioni e – a breve termine – porta dei vantaggi innegabili, anche se modesti. Nella pratica, tuttavia, è una di quelle soluzioni che a lungo andare portano problemi difficili da risolvere. Prima di forzare i cittadini europei a usare queste lampade, si sarebbe potuto e dovuto investigare un po’ di più sulle conseguenze a lungo termine di questa scelta.

Ovviamente, non ci sono solo le lampade a fluorescenza fra quelle a basso consumo. Ce ne sono almeno altri due altri tipi: quelle dette “alogene” e quelle dette “a LED” dove “LED” sta per “light emitting diode”. I LED sono ancora per certi versi sperimentali, ma si stanno sviluppando rapidamente. Hanno il vantaggio rispetto alle fluorescenti di non contenere materiali velenosi. Il problema è che quasi tutte fanno uso di metalli molto rari e in via di esaurimento: quasi sempre gallio, spesso indio. Mancano dati sulle quantità di gallio usate, che sono comunque molto piccole. In ogni caso, il recupero del gallio e dell’indio dalle lampade, al momento, non sembra possibile. Anche qui, dunque, stiamo utilizzando risorse non rinnovabili in modo insostenibile.

Rimangono le lampade alogene; discendenti dirette delle vecchie lampade a filamento. Contengono un alogeno (iodio) che permette di tenere il filamento a temperature più alte, migliorando l’efficienza delle emissioni. Lo iodio è, in principio, un elemento abbastanza abbondante anche se viene estratto da riserve limitate. Anche qui è difficile dire esattamente quanto sia sostenibile il suo uso nelle lampade. Probabilmente il problema è meno grave che negli altri due casi di lampade a basso consumo, ma esiste comunque.

Ma, allora, esiste un’illuminazione veramente sostenibile e a basso consumo? Ci sono tantissimi modi di eccitare materiali a emettere luce, ma pochi che siano a basso costo, pratici, e che si possano avvitare su un portalampade. Se potessimo trovare il modo di fare dei LED basati sul silicio, avremmo una sorgente basata su un materiale abbondante. Purtroppo, la cosa è molto difficile per via di certi problemi intrinseci con la struttura elettronica del silicio che rendono il LED al silicio poco efficiente. Ci sono anche lampade fluorescenti senza mercurio ma, alla fine dei conti, non sono più efficienti delle lampade tradizionali a filamento.

93

Alla fine dei conti, se in futuro avremo energia rinnovabile abbondante e a basso costo ci potrebbe convenire tornare alle vecchie lampadine a incandescenza. Saranno poco efficienti ma non inquinano e si riciclano. Se usate con parsimonia, non ci sarà bisogno di mettersi i fusibili di casa in tasca tutte le mattine, come faceva lo zio di Frank McCourt.

E se non avremo l’energia rinnovabile? Beh, ci dovremo contentare di olio di balena o grasso di foca.(U. Bardi, 30 settembre 2009; il testo integrale con commenti sul sito di ASPO Italia)

54. Le Terre rare

Tensioni Molta pressione sui listini, prezzi anche decuplicati e ora minacce di protezionismo. Così negli Stati Uniti si riaprono alcune vecchie miniere.

Hi-tech L’ultima bolla? I materiali strategici

La Cina ne limita l’export. Usa e Germania in campo sugli elementi che sono alla base di laptop, schermi, iPod

Prezzi alle stelle, bolla speculativa in Borsa, paura di vendette protezioniste. La disputa sulle “terre rare” tra la Cina, che ne detiene il quasi monopolio, e il resto del mondo, ha scatenato una nuova tempesta sui mercati, aggiungendo un ulteriore elemento di incertezza al quadro della debole ripresa economica. L’Unione Europea, gli Stati uniti, il Giappone stanno valutando come rispondere alla decisione di pechino di tagliare le esportazioni di questi minerali diventati preziosissimi per il crescente utilizzo che ne fa l’industria dell’alta tecnologia (vedere tabella in fondo). Il ministro dell’economia tedesco, Rainer Bruderle ha chiesto all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) di intervenire e il parlamento americano sta valutando il varo di incentivi e assistenza per la ricerca e sviluppo di fonti alternative domestiche.Crisi orientaleLa crisi delle terre rare si è aggravata a settembre, quando ha assunto anche una valenza politica tra Cina e Giappone in rapporto a una disputa sulle rispettive acque territoriali. Le autorità di Tokio avevano arrestato il capitano di un peschereccio cinese che aveva speronato la barca di una guardia costiera giapponese vicino ad un’ isola contesa tra i due paesi. L’incidente diplomatico (non ancora risolto) ha preso una piega economica con lo stop delle esportazioni di terre rare dalla Cina al Giappone. Pechino nega di aver deciso l’embargo, ma gli operatori del settore confermano che la consegna delle materie prime si è fermata.Prima di questo, la Cina aveva comunque scelto di ridurre l’esportazione di questi minerali, spiegandolo con “motivi ambientali” e scatenando una ridda di interpretazioni sui veri motivi.La ragione più benigna – secondo il Wall Street Journal – è mostrare i muscoli per rintuzzare le tentazioni protezioniste dei partner commerciali e soprattutto degli Stati Uniti, dove in vista delle elezioni politiche di domani, marted’ 2 novembre, molti candidati hanno alzato i toni polemici contro la Cina, accusandola di concorrenza sleale e promettendo contromisure. Alta tecnologiaUn’altra lettura invece parte dalla constatazione che dietro il made in China dei prodotti più sofisticati – proprio quelli che usano le terre rare come i laptop o gli iPod – c’è una catena produttiva dove i segmenti a più alto valore aggiunto non sono controllati dai cinesi, ma da chi crea e sviluppa quei prodotti in altri paesi. La scommessa di Pechino può allora far leva sui preziosi ingredienti per costringere le multinazionali a muovere in Cina anche il resto del processo produttivo: una strategia pericolosa per le altre nazioni, anche dal punto di vista della sicurezza, visto che le terre rare sono utilizzate fra l’altro per la produzione di componenti di armi “intelligenti”.

94

Geopolitica e affari“Le materie prime sono diventate un problema geopolitico, ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo”, ha confermato il presidente della Confindustria tedesca Hans-Peter Keitel. Ma il direttore generale del WTO Pascal Lamy ha già fatto sapere che sulla materia la sua organizzazione ha le mani legate: il WTO può intervenire sulle restrizioni alle importazioni, ma il controllo delle esportazioni di risorse naturali attiene alla sovranità nazionale. Intanto dall’estate scorsa i prezzi delle Terre rare sono triplicati o addirittura decuplicati , a seconda dell’elemento in questione. E parallelamente sono decollate in Borsa le quotazioni delle compagnie minerarie che vantano il possesso di giacimenti in Usa, Canada e Australia. Anche questi paesi infatti hanno queste risorse e le avevano sfruttate fino agli anni Novanta, quando l’estrazione si era fermata perché troppo costosa in confronto all’offerta proveniente dalla Cina.Via alle riapertureOra riavviare quelle miniere e aprirne altre può essere di nuovo redditizio. La società australiana Lynas (+ 120% il prezzo delle sue azioni negli ultimi tre mesi) sostiene di essere pronta a iniziare la produzione di terre rare nel 2011; anche l’americana Molycorp (+ 150%) dice di poter riaprire l’anno prossimo una miniera che era stata chiusa nel 2002 per motivi ambientali e perché i prezzi allora erano troppo bassi; mentre l’avvio dei lavori di estrazione sembra lontano per le canadesi Ucore rare metals (+50%) e Rare Elements Resources (+ 300%), che vantano giacimenti rispettivamente in Alaska e in Wyoming.Alcuni analisti mettono in guardia sui rischi di questo boom delle quotazioni: in alcuni casi i rialzi sono motivati da promesse di affari per ora solo sulla carta. Per esempio secondo il rapporto di uno short seller (speculatore al ribasso) citato da Canadian Business Online, il giacimento in Wyoming di Rare Elements Resources era stato esplorato da altre tre compagnie minerarie, abbandonato da tutte e tre e non presenta alcun segno di attività (vi lavorano due dipendenti e l’azienda vi ha investito meno di 7000 dollari negli ultimi tre anni).

Per che cosa si sta cominciando a contendere Le basi della predominanza materiale dei cinesi rispetto all’Occidente.

Gli elementi, le loro applicazioni

Scandio Lampade ad alta intensitàIttrio Schermi piatti al plasma e LCD di TV e PC, luci fluorescenti compatteLantanio Schermi piatti al plasma, e LCD di Tv e PC, auto ibride, catalizzatori per il cracking del petrolioCerio Schermi piatti al plasma e LCD di Tv e PCPraseodimio Schermi piatti al plasma e LCD di TV e PC, memorie PC, CD, DVD magneti per speaker iPod e altri MP3 player, auto ibrideNeodimio Memorie PC, CD, DVD, magneti per speaker iPod e altri MP3 player auto ibridePromezio Batterie nucleariSamario Lampade ad arco per il cinemaEuropio Schermi piatti al plasma e LCD di TV e PC, luci fluorescenti compatteGadolinio Dispositivi a microonde, televisori a colori, CD e memorie PCTerbio Schermi piatti al plasma e LCD di TV e PCDisprosio Batterie per auto ibride, laser e CDOlmio Barre di controllo per reattori nucleari, laser e microondeErbio Fibre ottiche, metalli specialiTidio Magneti ceramiciItterbio Acciaio e dispositivi laserLutezio Catalizzatori per il cracking del petrolio

95

(M.T. Cometto su Corriere Economia del 1° novembre 2010, con dati sui prezzi e altro articolo)

E’ cominciato il “grande gioco” geopolitico sulle “terre rare”, i metalli indispensabili per la fabbricazione di apparecchi ad alta tecnologia. Una produzione mondiale dominata dalla Cina che ne limita l’esportazione. Per rafforzare il suo controllo su questi minerali strategici, Pechino ha adottato quello che il capitalismo mondiale rifiuta, una politica industriale di lungo periodo.

Le terre rare sono un gruppo di 17 metalli dalle proprietà uniche, utilizzati in modo sempre più massiccio nell’industria moderna e di alta tecnologia. Laser, telefoni portatili, schermi a cristalli liquidi, contengono questi minerali e la prestazioni dei terminali di ultima generazione di “connessione di massa”, dall’iPhone ai tablet touchscreen, si basano in parte sulle proprietà di questi elementi. Anche le nuove industrie “verdi” conoscono questa dipendenza: batterie per veicoli ibridi, pannelli solari, lampade a basso consumo o turbine eoliche dipendono da questi metalli particolari come il neodimio, il lutezio, il disprosio, l’europio o il terbio, molto promettenti anche in termini catalisi per la raffinazione del petrolio. L’industria della difesa, infine, utilizza le terre rare per sistemi molto importanti come i missili da crociera, i proiettili teleguidati, i radar o le corazzature reattive. La domanda mondiale di terre rare cresce ad un ritmo superiore al 10% annuo ed è passata in un decennio da 40.000 a 120.000tonnellate annue. (…) In linea generale, più un modello industriale è innovativo (resistente, leggero, di dimensioni ridotte, “ecocompatibile”), più aumenta la sua dipendenza dalle terre rare. Il Giappone è un caso tipico: le sole batterie della Prius della Toyota richiedono per essere assemblate diecimila tonnellate di terre rare all’anno. L’avvento dell’industria “verde” potrebbe far crescere la domanda mondiale annua a 200 mila tonnellate; in una sola turbina eolica di grandi dimensioni si trovano diverse centinaia di chili di terre rare.Secondo l’Us Geological Survey, Pechino avrebbe solo fra il 40 e il 50% delle riserve mondiali. Concentrazioni importanti di questi minerali esistono in molti altri paesi, dagli Stati Uniti all’Australia, dal Canada al Kazachistan o al Vietnam. Cosa spiega allora il nervosismo giapponese e di altri paesi su questi materiali? Il motivo è semplice, nel 2010 il 97% delle 125.000 tonnellate di ossidi di terre rare estratte annualmente in tutto il mondo proviene dalla Cina. Un monopolio assoluto e piuttosto recente. (…) Fra il 1978 e il 1989 la produzione cinese cresce ad un ritmo del 40% annuo e supera la produzione americana, che al contrario tende progressivamente a ridursi. Sfruttando l’accessibilità e l’abbondanza delle loro riserve in Mongolia interna, che permettono loro di vendere per anni a basso prezzo le terre rare, i cinesi schiacciano progressivamente gli altri produttori che preferiscono applicare la legge del vantaggio comparato abbandonando la filiera attraverso un “disinvestimento competitivo” e alcune delocalizzazioni in Cina. La progressiva scomparsa dei concorrenti stranieri negli ultimi venti anni si spiega anche con la pesantezza della filiera: le operazioni di separazione e di valorizzazione di questi elementi richiedono grandi capitali e sono nocive per l’ambiente. La separazione delle terre rare necessita infatti l’utilizzo di sostanze chimiche estremamente inquinanti e produce rifiuti radioattivi. Sacrificando la salute degli operai delle miniere di Baotou e l’ambiente, solo la Cina ha volontariamente scelto di sviluppare di sviluppare una produzione di massa nonostante queste “esternalità negative”. Lo sversamento delle miniere della Baotou Steel nel Fiume Giallo costituisce ormai un problema enorme. Il tasso di tumori fra gli operai ha raggiunto un livello estremamente alto. Un economista presso l’Ufficio di ricerche geologiche e minerarie (Brgm) e affermato specialista del settore, Christian Hocquard, osserva “un paradosso evidente fra l’utilizzo delle terre rare per le energie rinnovabili e queste procedure di estrazione inquinanti”. (…)

96

Il monopolio prende forma. Alcuni esperti ritengono che la Cina potrebbe progressivamente modificare la sua politica delle terre rare e passare da una strategia di dipendenza a una di strangolamento. In questa ipotesi Pechino comincerebbe a ridurre progressivamente il volume delle sue esportazioni, con due obiettivi: da un lato far crescere i prezzi e così rendere più redditizio il suo monopolio di fatto (nell’agosto 2010 il neodimio ha raggiunto i trentaduemila dollari la tonnellata,un aumento del 60% in un anno), dall’altro riservare le sue terre rare alla produzione industriale interna. La Cina, infatti, dopo aver prodotto terre rare “grezze” o prodotti semilavorati ed essersene assicurata il monopolio, vorrebbe ormai fabbricare dei prodotti finiti a più alto valore aggiunto, con obiettivo di avere una filiera completamente integrata. Accompagnata da un’interruzione quasi totale delle esportazioni di questi minerali, la combinazione le darebbe un vantaggio strategico considerevole. I sacrifici ambientali – che la contrario di quello che si pensa la Cina non prende affatto alla leggera – troverebbero in questo modo la loro giustificazione di lungo periodo, sempre che un tale disastro possa giustificarsi con delle ragioni economiche. (…)Di conseguenza, un insieme di ragioni complementari al tempo stesso volute (strategia di influenza politica, ambizioni industriali) e subite (crescita del mercato interno dei consumi), hanno spinto la Cina a ridurre effettivamente del 40% le sue esportazioni di terre rare negli ultimi sette anni, e ad annunciare nel luglio 2010 che queste ultime si sarebbero ridotte di oltre il 70% nel secondo semestre dell’anno, passando a 8000 tonnellate rispetto alle 28 mila dello stesso periodo dell’anno precedente. (…) Per mantenere a tutti i costi il monopolio, Pechino incoraggerebbe i suoi industriali ad assumere il controllo capitalistico di alcune compagnie straniere che si interessano da vicino (imprese di estrazioni australiane o metallurgiche canadesi) o da lontano (imprese di trasformazione europee) al settore delle terre rare.Così nel 2009, la China Investment Corp. Ha rilevato il 17% della Teck Resources LTD., una società molto importante nel campo minerario in Canada. In Australia l’aggressività cinese nell’assumere il controllo della Lynas Corporation ha fatto reagire Canberra alla fine del 2009. Ma questo non ha impedito nello stesso anno a un’altra impresa cinese di comprare il 25% di un produttore locale di terre rare, l’Arafura Resources Ltd.. Anche il Mountain Pass, il principale giacimento “dormiente”di terre rare americano, ha rischiato di passare sotto il controllo cinese: nel 2005, poco dopo la chiusura della miniera californiana, la China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) aveva presentato una offerta per comprare la società petrolifera americana Unocal. Apparentemente la cosa non presentava legami diretti, ma in realtà l’Unocal – attraverso la Molycorp acquisita nel 1978 – era di fatto la proprietaria di Mountain Pass. Alla fine l’Unocal è rimasta americana in seguito alle vive proteste del Congresso americano e dell’opinione pubblica sulla questione dell’autonomia petrolifera degli Stati Uniti, ma pochi osservatori si sono resi conto che con questa offerta la Cina era sul punto di ottenere due piccioni con una fava (petrolio e terre rare). (…) L’esempio americano è particolarmente illuminante: tra il 1965 e il 1985 gli Stati Uniti controllavano l’integralità della filiera delle terre rare. L’anello in “basso” (il sito californiano di Mountain Pass) riforniva l’anello in “alto” (( ad esempio l’impresa Magnequench nell’Indiana, una filiale della della General Motors, produttrice di magneti a base di neodimio-ferroboro, oggi indispensabili per l’impresa automobilistica moderna. Il successivo sviluppo dell’economia cinese ha provocato una forte pressione sui prezzi. Nel 1985, mentre questo dumping rendeva sempre più difficile l’attività del Mountain Pass, costretto a fare i conti anche con dei problemi ambientali, due imprese cinesi, alleate per l’occasione a un investitore americano, hanno presentato un’offerta per comprare la Magnequench. Il governo degli Stati Uniti ha finito per dare l’assenso, a condizione che i cinesi accettassero di conservare l’impresa in territorio americano per cinque anni. Ma allo scadere del termine i dipendenti sono stati licenziati e l’impresa è stata letteralmente smontata e traslocata a Tianjin, in Cina. Nel frattempo anche altri produttori, tedeschi e giapponesi, chiudono le loro imprese americane e si trasferiscono in Cina. Così, oggi sul territorio americano questo settore è praticamente inesistente. (…) (Il testo completo su Le Monde Diplomatique del novembre 2010, con note e tavole)

97

Una notizia del 10 gennaio 2011: Terre rare da riciclare. La necessità aguzza l’ingegno. E così la decisione della Cina di restringere nel 2011 le sue esportazioni di terre rare – i minerali usati per produrre, fra l’altro, iPod, laptop, auto ibride e turbine eoliche, di cui oggi Pechino ha il monopolio – ha spinto i colossi giapponesi dell’elettronica a trovare alternative. Hitachi, che usa 600 tonnellate di terre rare all’anno, ha avviato un processo di riciclaggio di elettrodomestici, da cui estrae le terre rare: pensa di soddisfare in questo modo il 10% del suo fabbisogno entro il 2013, si legge nell’articolo Rare Earths from Japan’s Junk Pile (terre rare dal mucchio della spazzatura in Giappone) su Business Week/Bloomberg. Il riciclaggio e l’apertura di nuove miniere di terre rare in Australia e anche negli USA finiranno con l’erodere il monopolio cinese. (M.T.C)

Germania, Un’alleanza per i metalli rari.L’industria tedesca è sempre più affamata di materie prime e soprattutto di metalli rari, per esempio il palladio e il litio, indispensabili nella realizzazione di molti prodotti avanzati come cellulari e batterie di auto elettriche. “Per questo”, spiega Der Spiegel, nei piani alti dei ministeri di Berlino e della Confindustria tedesca, molti cominciano a pensare alla fondazione di una piattaforma che assicuri una fornitura costante di metalli”. Le aziende dovrebbero unirsi in una specie di gruppo di acquisto, attraverso il quale aumentare il loro potere contrattuale con i paesi fornitori. Potrebbero perfino comprare partecipazioni al capitale di gruppi minerari. Già a settembre il capo degli industriali tedeschi, Hans-Peter Keitel, ha istituito un gruppo di esperti che ha il compito di elaborare un piano d’azione. L’obiettivo è la nascita della Deutsche Rohstoff NewCo, una società di cui potranno far parte sia le imprese private sia lo Stato. Finora hanno dimostrato interesse per l’iniziativa grandi gruppi tedeschi come Thyssen Krupp, Siemens e Basf. “Tuttavia, conclude il settimanale, “non è ancora chiaro come faranno a convivere gruppi che hanno interessi differenti. Cosa succederà se più aziende punteranno alle stesse risorse, soprattutto se concorrono sullo stesso mercato? Non sarà facile stabilire chi ha la precedenza”.(Tratto da “Internazionale” n.887, del 4 marzo 2011, con grafico)

Baotou, velenoso bacinoIl risparmio energetico è un giacimento pulito al quale attingere senza controindicazioni. Invece, pensare di soddisfare l’obesità energetica del Nord globale (cioè la media degli abitanti dell’Occidente e le elite del Sud) senza ridimensionarla ma semplicemente rivolgendosi a nuove fonti, produce inquinamento da qualche altra parte del mondo.Il sito di Ecological Internet www.climateark.org, ci riferisce di un reportage effettuato da giornalisti britannici nella città di Baotou, non lontano dalla quale è cresciuto negli anni un desolato bacino tossico largo cinque miglia.La regione è la Inner Mongolia, che ha il 90% delle riserve legali mondiali di terre rare, soprattutto il neodimio, elemento necessario a fabbricare i magneti per (fra l’altro) le turbine eoliche.Estrarre e lavorare il neodimio ha un pesante impatto ambientale. Baotou, area dalla quale proviene metà dell’offerta mondiale di terre rare, è una città dall’aria acre e metallica dove la maggior parte delle persone portano le mascherine ovunque, nell’illusione di proteggersi. Gli operai delle fornaci che trasformano i minerali lavorano praticamente senza protezione e davanti a forni roventi, anche se la compagnia statale Baogang sostiene di investire molto nella protezione ambientale. Le scorie industriali, mescolate con acqua, vengono pompate ogni giorno da condutture rugginose nel bacino. In un anno sono sette milioni di tonnellate di sostanze a finire là. Una visione da incubo. I rifiuti tossici e radioattivi sono sormontati da una crosta scura; le polveri sono respirate dagli abitanti del villaggio di Dalahai e altri.Quelle persone da anni soffrono di chiari sintomi di avvelenamento Cinque anni fa, studi medici ufficiali hanno confermato nel villaggio tassi di tumori, osteoporosi, e malattie dermatologiche e respiratorie superiori alla media. E che i livelli di radiazioni del bacino sono dieci volte più alti di quelli delle zone più lontane. Ma i risultati degli studi sono stati tenuti a lungo segreti e le autorità hanno rifiutato di riconoscere l’esistenza di pericoli per la salute.

98

In effetti il processo di estrazione e trasformazione delle terre rare è disastroso per l’ambiente. Per estrarle bisogna pompare acidi nel terreno, e per trasformarle occorrono altri acidi e sostanze chimiche. Alla fine gli scarti sono scaricati in lagune spesso costruite senza regole ne protezione. Nel processo una quantità di acidi tossici, metalli pesanti e altri veleni sono emessi nell’aria e vanno a contaminare il suolo e le acqua che i contadini usano per le necessità domestiche e per irrigare. Il lago mortale di Baotou non è lontano dal bacino del Fiume Giallo che fornisce acqua a molta parte cella della Cina del Nord. L’agricoltore Yan Man Jia Hong, intervistato dai reporter, è un maoista di 74 anni che ricorda i campi di grano di prima e accusa i giovani funzionari e gli imprenditori di oggi per le distruzioni che hanno favorito. Delle 17 “terre rare” (l’aggettivo deriva dal fatto che i minerali non si trovano in depositi concentrati ma piuttosto sparsi) il neodimio è usato per fabbricare i magneti più potenti, dunque i più adatti a rendere efficienti motori e generatori nei quali sono utilizzati. In piccole quantità viene usato da tempo in tecnologie quali gli altoparlanti hi-fi, i laser e simili. Ma solo con la crescita delle fonti alternative di energia il neodimio è diventato davvero importante sia per le auto ibride che per le turbine.(M. Correggia, su “Il manifesto” del primo febbraio 2011)

55. Il metano idrato sotto il permafrost

A togliere il sonno agli studiosi del clima è il disgelo delle grandi distese artiche, ricoperte di torba. “La fusione del permafrost avrebbe conseguenze terrificanti”. Di recente, una equipe di ricercatori russi e americani ha calcolato che tutto il permafrost presente sul pianeta contiene circa 1000 miliardi di tonnellate di carbonio, più che in tutta l’atmosfera(circa 700 miliardi), e in tutta la vegetazione del pianeta (circa 650 miliardi), mentre l’uomo ne emette solo 6,5 miliardi all’anno. Gli studi dimostrano che, a causa del disgelo e della decomposizione della ricca materia organica che vi è intrappolata, alcune aree di permafrost cominciano ad emettere anidride carbonica e metano. Si teme che una volta avviato il disgelo il permafrost rilascerà carbonio nell’atmosfera a ritmi piuttosto rapidi, amplificando l’effetto delle emissioni umane fino a indurre cambiamenti climatici gravi e inarrestabili.(J.K Bourne, in “ Il pianeta rovente”, National Geographic, I grandi speciali, 2008)

56. Batteri mutati resistenti agli antibiotici

Il killer è alle porteUn gene mutato. E un’intera famiglia di batteri diventa resistente a tutti gli antibiotici.

E’ ormai arrivato in Austria. E bisogna bloccarlo. In attesa di un farmaco efficace.

E’ inevitabile. Arriveranno presto anche in Italia: parola di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, che monitora passo dopo passo l’avvicinamento alle nostre frontiere dei batteri resistenti a tutti i singoli antibiotici conosciuti che hanno colpito in Asia l’estate scorsa. India, Pakistan, e Regno Unito, e oggi l’Austria, come ha appena riportato “Emerging Infection Disease: arrivano i batteri mutati con il gene denominato NDM-1 che causano infezioni urinarie e gastriche, polmoniti e infezioni sistemiche contro le quali non ci sono antibiotici efficaci. (…)Il responsabile della resistenza ai farmaci è un gene che consente ad alcuni ceppi di enterobatteri, microbi che si trovano in abbondanza nell’apparato digerente, di esprimere una proteina che

99

respinge l’attacco degli antibiotica. La sostanza è una metallo-beta-lattamasi e il gene, isolato per la prima volta in India, per questo si chiama New Delhi Metallo 1. Ma dal paziente Zero i casi si sono andati moltiplicando: almeno 140 tra India e Pakistan,più di 35 in Inghilterra, 3 negli Stati Uniti, e poi, nei giorni scorsi, i due casi austriaci. E di questi è in particolare un malato a spaventare i medici, in quanto indica la presenza di un nuovo focolaio non identificato. (….) “Non abbiamo nuovi antibiotici su cui contare, spiega Ippolito, si è creduto che la lotta contro i batteri fosse stata vinta e gli investimenti si sono rivolti altrove, per esempio verso gli antivirali. Ma la vera emergenza, quella scientifica, sono le infezioni batteriche”. Insomma, i batteri mutano, sviluppano resistenze ai farmaci in commercio e per contrastarli bisognerebbe produrre sempre nuovi antibiotici. Ma non accade: lo dimostra un rapporto del gruppo di esperti di “Extending the Cure”, negli ultimi 30 anni lo sviluppo di nuovi antibiotici si è notevolmente rallentato. In più, la maggior parte di quelli che hanno trovato la via della commercializzazione fanno parte di classi già presenti sul mercato. Come denuncia un articolo apparso sul “British Medical Journal” lo scorso maggio, al momento sono solo due le nuove molecole allo studio in questo campo. E sono entrambe nei primissimi stadi della sperimentazione, quindi non è affatto certo che si dimostrino alfine efficaci.Per evitare di ritornare nelle condizioni dei nostri nonni, quando ancora non esisteva la penicillina, l’Infectious Disease Society statunitense ha quindi lanciato la campagna “Dieci nuovi antibiotici entro il 2020”, che prevede il finanziamento di studi con l’obiettivo di trovare nuove classi di farmaci, nuovi target per quelli già esistenti e nuovi test diagnostici. Nella speranza che non sia troppo tardi. (L’Espresso, 3 marzo 2011)

57. Quanto inquina Internet

Nel 2020 Internet inquinerà più dei trasporti

Avviso ai naviganti. Non tutti i siti sono uguali. A differenziarli non è solo la grafica, l’utilità o la navigabilità. Alcuni inquinano poco, altri hanno un impatto ambientale più alto. Analizzando gli effetti prodotti da ogni utente, dall’infrastruttura e dal server, un team del Centre for sustainable communications di Stoccolma è riuscito a calcolare l’impronta carbonica di portali e indirizzi web. L’equipe, partendo dal servizio di Google che consente di analizzare le statistiche sui visitatori di un sito, ha creato il software “green analytics”, in grado di monitorare le emissioni prodotte dagli utenti. Risultato? Inquinano meno che si può: basta una buona architettura telematica e in pochi clic si raggiunge qualsiasi contenuto all’interno del sito, con un’emissione di “soli” 0,13 kg. di Co2

630 i milioni di tonnellate di Co2 prodotte nel 2009 dagli utenti web72 i milioni di tonnellate di Co2 prodotte nel 200220 i milligrammi di emissioni di carbonio generate dal tempo impiegato a leggere due parole di un articolo2 la percentuale di emissioni di Co2 provenienti dall’uso di internet rispetto al totale mondiale40 la percentuale che deriva dall’elettricità per l’illuminazione degli schermi23 la percentuale che deriva dall’utilizzo dei server2020 l’anno in cui l’inquinamento di server e centri di elaborazione dati supererà quello dei trasporti11 i miliardi di dollari che si spenderanno nel 2020 per alimentare e raffreddare i data center(M.S. su “Sette” del Corriere della Sera del 4 novembre 2010)

100

58. I parabeni, conservanti rischiosi

Sostanze indesiderabiliLa camera francese ha votato una bozza di legge che proibisce l’uso dei parabeni, i conservanti usati nei farmaci e nei cosmetici. Il sospetto è che siano dannosi alla salute.

Circa 400 prodotti farmaceutici, alcuni molto usati, contengono parabeni. La tossicità e i possibili effetti cancerogeni di questi conservanti sono al centro di un intenso dibattito scientifico e il 3 maggio l’assemblea nazionale francese li ha vietati. La lista dei prodotti che contengono parabeni compilata da Le Monde (bit.ly/moGn7j) va dai dentifrici agli antitumorali.Tra i prodotti più usatici sono molti cosmetici per neonati, creme come la Biafine, numerosi sciroppi per la tosse (Clarix, Codotussyl, Hexapneumine, Humex, Pectosan, Rhinathiol ), antiacidi gastrici (Maalox, Gaviscon); antibiotici in sospensione bevibile (Josacine, Zinnat); farmaci per i disturbi del transito intestinale (Motilium) o contro la nausea e il vomito (Primperan), medicinali per i disturbi cardiovascolari (Cozaar, Vastarel), contro il dolore e la febbre (generici dell’ibuprofene e del paracetamolo); i trattamenti per l’astenia (Sargenor); e i vari farmaci equivalenti a questi prodotti. I parabeni sono presenti in migliaia di prodotti cosmetici, alimentari e medicinali per evitare lo sviluppo di funghi e microrganismi che potrebbero essere nocivi per la salute delle persone. Questi conservanti hanno anche l’obiettivo di impedire il deterioramento del medicinale e la riduzione della sua efficacia, o addirittura la sua nocività. Tuttavia, il 3 maggio i deputati francesi hanno adottato a sorpresa, contro il parere del governo, la proposta di legge di Yann Lachaud, del Nuovo Centro, che vieta l’uso degli ftalati, dei parabeni e degli alchilfenoli, tre categorie di sostanze che interferiscono con il sistema endocrino.Il testo deve ancora essere votato al senato, ma nel settore la preoccupazione è forte: se la legge passasse in via definitiva, i produttori sarebbero obbligati a trovare delle sostanze alternative.L’agenzia francese per la sicurezza dei farmaci (Afssap) in collaborazione con diversi laboratori farmaceutici sta conducendo uno studio tossicologico: “I 400 prodotti farmaceutici contenenti parabeni, sotto forma di metile o propile, riguardano circa 80 imprese”, spiega Vincent Gazin, responsabile dell’unità di tossicologia clinica dell’Afssap, e coordinatore dello studio, i cui risultati sono attesi per novembre.Alterazione ormonaleL’Afssap si è occupata dei parabeni già nel 2004, seguito alla pubblicazione di uno studio britannico, condotto dall’equipe di Philippa Darbre, che aveva trovato dei parabeni intatti nei tumori al seno, in particolare parabene di metile. “questo dimostra che almeno una parte dei parabeni nei cosmetici, negli alimenti e nei farmaci può essere assorbita e trattenuta nei tessuti del corpo umano” senza essere trasformata. Però i ricercatori precisavano che fino a quel momento non erano stati determinati la fonte e il percorso seguito dai parabeni trovati nei tessuti umani. In compenso, ipotizzavano un effetto in grado di favorire lo sviluppo dei tumori attraverso l’azione esercitata dai parabeni simile a quella degli estrogeni, una funzione nota fin dal 1998.Lo studio di Philippa Darbre è stato oggetto di diverse critiche, ma nel giugno del 2004 l’Afssap ha avviato una valutazione sulla sicurezza dei parabeni, chiedendo il parere ad un gruppo di esperti. Un anno dopo, il Bollettino di vigilanza dell’Afssap indicava che i parabeni “sono poco tossici e ben tollerati, anche se su alcune persone possono provocare reazioni allergiche”.Tuttavia, il gruppo di scienziati aggiungeva che alcuni studi avevano”stabilito che questi conservanti potrebbero essere all’origine di una lieve alterazione del sistema endocrino”. Precisavano, però, che i dati a disposizione non permettevano di definire ne di quantificare il rischio, in particolare da un punto di vista cancerogeno, associato all’alterazione endocrina”.Inoltre il rapporto sottolineava gli effetti tossici sulla riproduzione dei giovani topi riscontrati da un’equipe giapponese. “La valutazione del 2004 aveva lasciato delle zone d’ombra e lo studio

101

giapponese presentava dei difetti. Quindi abbiamo deciso di rifare uno studio sui topi”, spiega Gazin.Anche se i parabeni da soli non sono in grado di alterare in modo significativo il sistema ormonale, rimane il problema di un effetto cumulativo con l’esposizione ad altri interferenti endocrini.(P.Benkimoun su “Internazionale” del 2 giugno 2011)

Ma se proprio volete approfondire…..

In modo assolutamente incoerente rispetto ai criteri che hanno guidato la raccolta di articoli che precede, si è anche pensato a chi fosse interessato a conoscere più a fondo i meccanismi finora individuati. Non si può infatti proprio escludere che qualche persona, magari stimolato dalla lettura delle pagine precedenti, senta la necessità di approfondire la conoscenza di alcuni aspetti che lo hanno particolarmente colpito.Le indicazioni che seguono sono sempre ridotte all’essenziale per rendere meno onerosa la lettura o la visione e sono limitate a testi e mezzi audiovisivi di facile comprensione, molto aggiornati e rapidamente reperibili e ovviamente sempre in italiano. I numeri tra parentesi quadra in fondo ad alcune indicazioni si riferiscono alla lista dei meccanismi sopra utilizzata, in modo da facilitare l’eventuale percorso di approfondimento, anche se naturalmente uno stesso testo può contenere elementi di conoscenza relativi a più meccanismi.

a) Riguardo al clima in generale

Daniel Tanuro, “L’impossibile capitalismo verde”, il riscaldamento climatico e le ragioni dell’eco-socialismo, Edizioni Alegre, Roma, 2010 [1 -7]

Luca Mercalli, “Che tempo che farà”, Rizzoli RCS libri, 2009

“Il pianeta rovente”, come salvarsi dal riscaldamento globale, National Geographic,

b) Sui temi relativi alle fonti di energia

Mirco Rossi, “Energia e futuro, le opportunità del declino”, EMI, Bologna, seconda edizione, giugno 2011

P. Tronconi, M. Agostinelli, L’energia felice, Socialmente ed. Granarolo dell’Emilia, Bologna, 2009

Guido Viale, “La conversione ecologica”, N.d.A Press, Rimini, 2011

M. Agostinelli, R. Meregalli, P. Tronconi, “Cercare il sole, dopo Fukushima”, EDIESSE, Roma 2011

c) Sui danni ambientali in generale

“State of the World”, Nutrire il pianeta, Edizione ambiente, Roma, 2011 ( e anni precedenti)

WWF Italia, “Il Living Planet Report 2010” (in italiano)

102

Se invece di leggere…..preferite vedere un film…..

a) Riguardo al clima in generale

Ultime notizie dalla Terra Il punto sul riscaldamento globale, DVD National Geographic [1-7]“Sei gradi possono cambiare il mondo”, DVD National Geographic, 2008 [1 – 7]

“Ultime notizie dalla Terra”, DVD National Geographic, 2006

b) Riguardo ai problemi ambientali in generale

Una scomoda verità Una minaccia globale. La denuncia di Al Gore dei rischi ambientali

Paramount DVD [1-55]

L’incubo di Darwin Un film di Hubert Sauper Feltrinelli Real Cinema DVD e libro, 2004

“2210, civiltà al collasso”, DVD National Geographic, 2010

c) Sui problemi dell’acqua

“Water makes money”, come le multinazionali fanno profitti sull’acqua, DVD, ATTAC, 2011 (in italiano)

d) Su altri meccanismi ambientali

McLibel La storia di due attivisti che non vennero condannati a risarcire la McDonald’s, DVD

Syriana Petrolio significa denaro, tanto denaro. Prima Visione, Panorama, DVD

Blood Diamonds Diamanti di sangue Un film d’azione….che chiarisce il funzionamento del monopolio dei diamanti della De Beers

e) Sui danni ambientali in Italia

103

Ecofollie, M.Gabbanelli, Bur Rizzoli, Senza Filtro, RAI Trade, Report, 2009

BeppeGrillo.it spettacolo registrato a Roma il 28 aprile 2005, DVD, Casaleggio Associati, www.casaleggio.it

Sitologia delle principali fonti di informazione in Italia

a) Le associazioni ambientaliste

WWF

Legambiente

Greenpeace

b) i principali dossier periodici

Le Monde Diplomatique – Il manifesto (mensile)

“Internazionale” (settimanale)

Le Monde Diplomatique – Il manifesto, “L’Atlante per l’ambiente” (annuale)

“Green” (supplemento del Corriere della Sera, settimanale)

Living Planet (in inglese e italiano, annuale)

Atlante de La Repubblica (annuale)

104