Bonora Orfana e claudicante

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Paola Bonora L'Emilia "post-comunista" e l'eclissi del modello territoriale

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Paola Bonora

Orfana e claudicanteL'Emilia "post-comunista" e l'eclissi

del modello territoriale

Baskerville

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PAOLA BONORA

Orfana e claudicante

© 2003 e 2005 (seconda edizione)Baskerville, BOLOGNA, ITALIA

ISBN 88-8000-503-0

TUTTI I DIRITTI RISERVATIQuesto volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in alcun modo (digitale, ottico o sonoro)

senza il preventivo permesso scritto di tutti i possessori dei relativi diritti ed in primo luogo di Baskerville c. s. Bologna,

editrice italiana del libro.

Baskerville è un marchio registrato da Baskerville, Bologna, Italia

www.Baskerville.it

Il volume è composto in caratteri Baskerville e Gill Sans

Foto di copertina di Marcello Rubini

Stampato in Italia

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Orfana e claudicante

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Indice

Prefazione 3

Dopo l’Emilia rossa e la rinuncia al progetto 9

Parte IDi cosa stiamo parlando 15

Gli SLoT e i paradigmi della ricerca 17Ciclo di vita e declino 21Complessità e contraddizioni 23La prospettiva di analisi e il caso Emilia-Romagna 25Gli indicatori 28

Modo di produzione 29Rapporto pubblico/privato e deregolazione del welfare 31Government/governance 32Partecipazione e accesso alla rappresentanza 34Attori e comparse 36Dalla crisi demica alla multiculturalità 37Reti, capitale sociale, plusvalore territoriale 39Politiche urbane e territoriali 41Rendimento istituzionale 43Sostenibilità umana 45

Parte IIL’Emilia “postcomunista”: un sistema locale territoriale in declino? 49

Una rappresentazione incrinata 51Un ciclo di vita esausto 52Un mélange di forme di regolazione 54La costruzione del mito 57Dalla frattura del ’77 alla crisi del “modello” 61Una società disgregata e incerta 64

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SLoT

La rigerarchizzazione economica 67Compagni dai campi e dalle officine ai salotti della finanza 70Dal pianismo al vuoto di strategie 74La pianificazione urbana tradita: il caso Bologna 78Illusioni della governance e inclinazioni al just in timeamministrativo 83Per un progetto (invece di conclusioni) 86Bibliografia 89

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Prefazione

Il paradigma che guida le riflessioni di questo libroè territorialista, ossia attento a quell’insieme combina-to e concatenato di processi e fattori che definisce lacomplessità dei sistemi locali. Al cui interno la compo-nente sociale svolge ruolo di perno coesivo, di attorecollettivo motore delle dinamiche e delle progettua-lità.

Una prospettiva che ha indotto a scegliere l’Emi-lia-Romagna come caso esemplare di studio, comecampo di verifica del metodo di analisi e progettazio-ne territoriale basato sulla categoria “sistema localeterritoriale”, intesa come insieme definito dalle vo-lontà agenti degli attori locali.

Nella prima parte del lavoro infatti si illustrano emotivano i paletti teorici che definiscono questa no-zione geografica e la differenziano da altri statuti epi-stemici.

La seconda parte ripercorre invece l’itinerario co-stitutivo del sistema locale territoriale emiliano-roma-gnolo e giunge alla conclusione che una serie di ele-menti congiura contro la sua stabilità. Elementi socialiinnanzitutto. Quella che era stata la matrice della coe-sione interna, la componente progettuale-ideativa eideale-identitaria, è venuta meno. Privando il sistema

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locale di quella forza agglutinatrice che nel capitale so-ciale aveva un puntello fondamentale. Una crisi dellereti delle relazioni sociali e fiduciarie che ha minato al-la base i requisiti che avevano portato al successo i di-stretti e i modelli produttivi di sviluppo.

Un venir meno delle appartenenze cui si è sovrap-posta una dinamica di interconnessione transcalaresempre più aggressiva, con forti spinte alla internazio-nalizzazione, divisione del lavoro, specializzazione, de-localizzazione.

Una svolta che ha chiuso la fase postfordista e con-validato la scelta operata in questo lavoro di introdur-re tra i parametri di analisi dei sistemi locali territoria-li il concetto di ciclo di vita, ipotizzando la fase attualecome discendente nella parabola di crescita-stabilizza-zione-destabilizzazione. Che teneva conto dei due ver-santi del problema: frantumazione delle solidarietà so-ciali da un canto, transcalarizzazione dei flussi dall’al-tro.

Fulcro della riflessione è infatti la dinamica di ter-ritorializzazione-deterritorializzazione-riterritorializza-zione, letta attraverso la costruzione culturale e semio-tica dell’identità emiliana. Un metodo qui utilizzatoper capire in quale fase il sistema locale territorialeemiliano-romagnolo si situi e quali ne siano le riper-cussioni in seno ai milieu. Distrettualizzazione e siste-ma locale territoriale in certi anni si sono trovati acoincidere, un “modello” sociale e produttivo che hagiocato sul territorio. Piccole e medie imprese, capa-cità capillare di lavoro, competenze diffuse e implicite,trasmissione familistica o associazionale dei mestieri edelle intenzionalità, reti fiduciarie di condivisione escambio, capacità di investimento interno alle famigliee ai gruppi, volontarismo e determinazione imprendi-toriale, ruolo di coordinamento e guida delle istituzio-ni. Una serie di elementi insomma che non attenevanosolo il lato produttivistico e specialistico delle econo-mie locali, ma rispecchiavano l’anima dei territori, lacultura, la passione civile e sociale, il senso di solida-rietà che dava fiducia e affrattellava.

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PREFAZIONE

Un quadro i cui elementi compositivi sono profon-damente mutati. Accorpamenti, fusioni, creazione digruppi hanno gerarchizzato la struttura aziendale. Ciònonostante la dimensione d’impresa rimane moltocontenuta. Una morfologia che rende difficile racco-gliere i lati positivi dell’internazionalizzazione e radi-calizza i posizionamenti: da una parte imprese che so-no riuscite a qualificarsi sul piano internazionale siasul versante commerciale che attraverso dislocazioniproduttive. Dall’altra un pulviscolo di piccole e picco-lissime aziende di taglio artigianale che soffrono di su-balternità – sia alle alloctone maggiori che alle stranie-re. Una situazione aggravata dalla fuga di capitali daisettori produttivi in seguito a riconversioni immobilia-ri e finanziarie. Con le implicite conseguenze di man-cati investimenti innovativi e invecchiamento delle li-nee produttive sia sotto il profilo merceologico che deiprocessi gestionali.

Un mancato aggiornamento degli impianti, delletecnologie e delle procedure organizzative che va a pe-sare anche sulla forza-lavoro, il cui profilo formativo edi competenze è rimasto legato al vecchio ciclo, alleprofessionalità della fase postfordista, e non viene sti-molato da una domanda di tipo nuovo. Carente dun-que sotto il profilo delle competenze cognitive volte al-l’innovazione. Un circuito che si morde la coda. Unasituazione diametralmente opposta a quella pioniera,in cui erano le imprese il motore dell’innovazione eriuscivano a trasferire o indurre rinnovo nell’interotessuto produttivo.

Elementi che aggravano la crisi del sistema localeterritoriale sovrapponendosi allo sfaldamento delle retidel capitale sociale. Sia di quelle familistiche che aveva-no sorretto la conduzione aziendale che di quelle idea-li e associazionali che avevano dato allo sviluppo econo-mico un progetto condiviso. Un panorama dunque inprofonda mutazione, in cui sono venute meno le ragio-ni identitarie di fondo e una serie di puntelli costitutivi.

Centrale è anche la transizione dall’economia so-ciale di mercato al pensiero e alle prassi liberisti. Una

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inversione degli orientamenti che ha collocato al cen-tro il profitto mercantile, non più filtrato da logichesociali. Una prospettiva che influenza non solo le con-dizioni generali della popolazione, ma ha finito per ri-verberare sull’intero sistema territoriale. Il venire me-no delle garanzie che lo stato sociale offriva ha divari-cato gli statuti di appartenenza, riaprendo la forbicedei consumi e dei redditi. L’esternalizzazione e priva-tizzazione di servizi collettivi e il loro sganciamento daprincipi di universalità ha portato la presenza privatain molti campi sino a quel momento affidati alle curedel pubblico, l’inseguimento di logiche di rendimentoe, alla fine, l’inaccessibilità ai gruppi sociali margina-lizzati dalla crisi. Un allontanamento dalle filosofiekeynesiane che risulta evidente specie in termini diconsumi e di stili di vita, le cui fisionomie sono profon-damente divaricate.

Una svolta liberista che ha pesato anche sugli inve-stimenti in capitale fisso territoriale: opere pubbliche edi pubblica utilità, dagli asili alle strade ai supporti al-le persone e alle imprese. Un depauperamento delledotazioni che ha ulteriormente aggravato le condizio-ni di vita e creato difficoltà all’economia.

Un altro nodo problematico su cui il libro puntal’attenzione è il ruolo istituzionale. Su civicness e ren-dimento istituzionale degli enti locali emiliano-roma-gnoli esiste una letteratura foltissima e una fama con-solidata nel tempo. Anche sotto questo profilo tuttaviala situazione si è modificata. Non in maniera tanto ra-dicale da vederne un’inversione, data la solidità del-l’impalco precedente, ma tale comunque da segnalareincoerenze.

Il nucleo del problema risiede nella ambigua cor-relazione tra government e governance. Un nesso di nonfacile risoluzione in una regione cresciuta sotto l’egida– per non dire l’egemonia – di un gruppo dirigenteomogeneamente orientato, che ha portato a non po-che contraddizioni – che il lavoro esamina - ma anchea una gestione ordinata e autorevole della cosa pub-blica. Il consociativismo emiliano ha infatti prodotto,

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PREFAZIONE

negli anni del boom economico e poi della distrettua-lizzazione, un consensualismo che attraversava e riu-sciva a coordinare l’intera società. Appagata da buonaripartizione dei redditi, delle risorse, dei servizi e coop-tata nella loro gestione. Ma la crisi della matrice idea-le del modello emiliano hanno messo in forte tensionela governabilità che oggi si muove senza un progettonitido e condiviso. E che la sinistra, dal momento diprima edizione di questo lavoro (2003), abbia ricon-quistato Bologna non sposta per ora l’asse delle consi-derazioni svolte sul sistema locale territoriale nel suoinsieme.

Università di Bologna, novembre 2005

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Dopo l’Emilia rossa e la rinuncia al progetto

Questa riflessione sull’Emilia-Romagna nasce nel-l’ambito di un progetto di ricerca sui “Sistemi localinei processi di sviluppo territoriale” (SLoT), coordina-to a livello nazionale da Giuseppe Dematteis e da chiscrive sul piano locale. Un lavoro che ha attraversatodiverse tappe di discussione e confronto1 e che oraapproda a una serie di volumi e monografie2.

In questo lavoro è stata assunta l’intera regioneEmilia-Romagna come “sistema locale territoriale”. Uncaso di studio a dimensione più ampia di quanto abbia-no fatto le altre unità di ricerca, che tuttavia rispetta (eanzi, sono persuasa, enfatizza) i presupposti concet-tuali entro cui si inquadra la nozione di SLoT cheabbiamo deciso di adottare.

Se infatti accettiamo l’idea, lanciata da Dematteis(2001), che un sistema locale territoriale è innanzi-tutto una collettività agente, in cui le volontà dei sin-goli attori riescono, in certe fasi e condizioni, a muo-

1 Cfr. Bonora P., a cura di, SLoT quaderno 1. Appunti, discussio-ni, bibliografie, Bologna, Baskerville.

2 La serie dei casi di studio è pubblicata nei “Quaderni SLoT ”dell’editore Baskerville.

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versi secondo una logica comune, il caso Emilia-Romagna balza agli occhi come esempio paradigma-tico. Le ragioni e le modalità di tale agire sono statediverse nell’arco dei cinquant’anni che hanno conso-lidato la personalità emiliana. E tuttavia hanno cri-stallizzato una rappresentazione a forte riconoscibi-lità, la cui prerogativa principale è stata ascritta allacoesione sociale e alla concordia civile.

Una condizione che di recente è mutata e la cuianalisi può offrire elementi di discussione sull’interoimpalco concettuale su cui fondiamo l’idea di sistematerritoriale locale e sulle variabili da considerare per laloro identificazione e progettazione.

Un “modello” su cui lungamente si è discusso, nonsolo in ambito locale, come espressione di civicness(Putnam, 1985) e nello stesso tempo di una originaleforma di economia sociale di mercato che è riuscita afar interagire i diversi attori, anche quando antagoni-sti. Una visione che, ibridando il materialismo dialetti-co delle origini con il riformismo del “nuovo corso” ele alleanze allargate che vi erano implicite, ha prodot-to una sorta di autoritarismo partecipato e cooptativo(irto di contraddizioni e sovente lacerato da conflittiinterni) che ha in ogni modo consorziato la società el’ha orientata sulla strada del successo.

Un dispositivo semiotico a forte riconoscibilità,che ha retto anche quando il sogno di una “via alter-nativa”, capace di coniugare attenzione sociale e eco-nomia di mercato, è tramontato, travolto dalla crisidelle idee, dal rimescolamento dei soggetti sociali e daun’adesione poco meditata alle lusinghe neoliberiste.

Un itinerario che il libro ripercorre. Assegnandoall’immagine-mito dell’Emilia rossa, che si è costruitasul protagonismo militante e la volontà di autodeter-minazione del primo ventennio del dopoguerra, unacarica performativa che è riuscita a influenzare anchei decenni successivi. Benchè fossero nel frattempo sbia-dite le ragioni ideali che l’avevano generata e divenuteevidenti le aporie. Una rinuncia che non ha colto ilgraduale disciogliersi delle reti delle appartenenze e il

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DOPO L’EMILIA ROSSA E LA RINUNCIA AL PROGETTO

disperdersi del capitale sociale e della coerenza istitu-zionale che erano stati i principali motori dello svilup-po emiliano.

Una situazione che oggi mostra segnali allarmantidi frantumazione, instabilità, vuoto progettuale. L’af-fievolirsi del senso identitario e della coesione metto-no a dura prova un sistema esausto, che ha abdicatoalla propria peculiarità e non sa dare direzione all’agi-re - neppure sul piano di quella “buona amministra-zione” che è stata uno dei principali segni di ricono-scimento dell’immagine emiliana. E che oggi è imbal-samata in una logorante impasse.

Se non si troveranno al più presto ragioni nuove,più alte e pluraliste, in grado di coalizzare la società, l’E-milia-Romagna rischia di entrare in una fase declinantee disperdere così il patrimonio comune ereditato.

L’approccio che è stato scelto è di natura cultura-le. Si danno perciò come impliciti i prerequisiti delsistema produttivo emiliano-romagnolo e la serie difattori economici che hanno portato alla specializza-zione distrettuale flessibile e alla diffusione imprendi-toriale. Una ricchezza compositiva, una costellazionedi risorse umane e patrimoni (già affrontata in Bono-ra, 1999), che ha ovviamente giocato un ruolo impor-tante nella costruzione della personalità emiliana.

Tuttavia in questa occasione si è puntata l’atten-zione sugli elementi di progetto, ossia sul disegno cheha organizzato lo spazio e lo ha trasformato in sistematerritoriale. E sulle rappresentazioni e autorappresen-tazioni che lo hanno performato.

Un progetto che scaturiva dal sogno della sinistradi un mondo diverso di eguali, che non si è mai realiz-zato nei termini teorizzati, ma che ha comunque pro-dotto una società in cui, per lungo tempo, il senso delcollettivo ha prevalso sull’individualismo. Una filosofiache, entrata in crisi con i rivolgimenti del postfordi-smo, non ha saputo cogliere i cambiamenti e innovar-si – se non adeguandosi a regole eteronome.

Un percorso complesso, che si è cercato di riper-correre nelle diverse fasi cercando di cogliere i passag-

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gi e gli elementi di maggiore rilievo, con piena consa-pevolezza della semplificazione compiuta. Un raccon-to che solo indagini più sottili e focalizzate potrannopuntualizzare, portando in luce le sfaccettature multi-ple del mélange emiliano-romagnolo che in questaoccasione si sono solo sfiorate.

Sul piano metodologico, ragionando sul caso emi-liano è emersa tutta l’ambiguità del concetto di siste-ma locale territoriale. Non mi riferisco solo al rischiogrossolano di scambiare “locale” e “localismo”, con lederive che conseguono, o all’utilizzo problematico ditermini come “autodeterminazione” che fanno parte(anche) del bagaglio lessicale della cosiddetta devolu-tion. Penso piuttosto alla difficile definizione dell’ideadi comunità o a come si debba intendere l’agire col-lettivo e a tutto il corollario di parametri che da questaimpostazione conseguono. Non necessariamente dal-l’agire collettivo scaturiscono soluzioni progressive eorientate a un tipo di sviluppo che sia rispettoso dellasostenibilità umana.

Un ruolo centrale e di discrimine svolgono la natu-ra e le finalità del progetto e delle pratiche. Concetticome capitale sociale o plusvalore territoriale sonodiventati talmente scivolosi (e abusati) da mostrarespesso il solo lato strumentale, utile agli scambi incro-ciati dei partenariati e delle cordate d’affari, che han-no scoperto il business del territorio e del suo marketinge si affannano a confezionare “comunità artificiali” e‘progetti’ (in questo caso intesi come esercizi retorici)di accaparramento dei fondi. Esperienze di brevedurata e il più delle volte di effimero spessore.

Questioni che hanno suggerito di precisare, nellaprima parte, i parametri di lettura e la prospettiva spe-cifica che ha guidato l’esame della realtà emiliana.

Alla luce del caso emiliano, e del lento affievolirsidel suo ciclo di vita, affiora il dubbio di fondo che leteorie sui sistemi locali territoriali arrivino in ritardo. Arazionalizzare un dispositivo ormai consumato, cer-cando di riprodurlo artificiosamente in un contestoche nel frattempo è mutato. La ricchezza progettuale

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DOPO L’EMILIA ROSSA E LA RINUNCIA AL PROGETTO

che il postfordismo ha lasciato esprimersi a livello loca-le è stata ricondotta alle ingegnerie della globalizza-zione, mentre le collettività che ne erano state prota-goniste sono disciolte. Il rischio è quello di progettaresituazioni analoghe ma fittizie, utili solo al mercatodelle innovazioni territoriali e a un tipo di società cheignora il significato morale di collaborazione e coope-razione e le interpreta in una chiave strumentale allacompetizione. Progetti che rischiano di diventare unarmamentario utile ad una logica meramente econo-mica, in cui anche la sostenibilità ha assunto connota-zione attrattiva, di marketing.

Contro questa visione riduttiva e mercantile credosia necessario dare maggiore spazio a inclinazioni idea-li, orientando la progettualità su una nuova etica delterritorio, su valori e principi che rinnovino il sensodell’agire collettivo e recuperino il significato irrinun-ciabile di bene comune. Ponendo alla base la redistri-buzione, il riequilibrio, il pluralismo, la partecipazio-ne, la democrazia.

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Parte IDi cosa stiamo parlando

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Di cosa stiamo parlando

Gli SLoT e i paradigmi della ricerca

Le ipotesi di fondo che hanno improntato la ri-flessionecerca originano dalla consapevolezza deimeccanismi postfordisti di riqualificazione dei territo-ri locali. Un dato empirico che da più di un ventennioè all’attenzione degli analisti, ma che ha conosciuto di-verse fasi e modalità interpretative. Che vanno rilettealla luce della tensione che attualmente guida la rifles-sione sui sistemi territoriali locali (SLoT). Una catego-ria progettuale utile, ma molto complessa e perciò stes-so ambigua e pericolosa. Che va utilizzata con moltacautela e precisando con cura i paletti concettuali en-tro cui si intende inquadrarla. Perché il rischio discambiare il “locale” con il “localismo” è sempre in ag-guato. Come quello di confondere l’idea di progettocon la sua deformazione retorica e il linguaggio per-suasivo e politically correct che ammanta i documentiprodotti dalle istituzioni e dalle iniziative di partena-riato.

Se inizialmente, tra la fine degli anni ’70 e l’iniziodegli ’80, il riconoscimento di vie di sviluppo alternati-ve alla dicotomia Nord-Sud e alla grande impresa, hatrovato nella “terza Italia” di Bagnasco (1977) e nell’I-

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talia “emergente” studiata dal gruppo guidato da De-matteis (1983) un primo piano di scoperta e analisi, èsolo successivamente che esplode la consapevolezzache le realtà locali stanno uscendo dallo stadio di peri-fericità in cui erano relegate per assumere una fisio-nomia centrale nello sviluppo italiano. L’enfasi postasul tema distrettuale e tutta la letteratura, anche inter-nazionale, che conclama l’originalità dei “sistemi pro-duttivi” italiani è talmente nota e vasta che sarebbepleonastico ricordarla.

Ma qualcosa cambia negli anni ’90. La rigidità deldato economico-funzionale, che aveva finito per preva-lere nelle interpretazioni e nelle scelte politico-legisla-tive, si rivela insufficiente per leggere un nuovo cam-biamento che si scopre legato non solo a performancee rendimenti aziendali o di filiera, ma attiene agli in-siemi territoriali.

Il territorio, dapprima relegato a scenografia deisuccessi localistici, riacquista propria fisionomia e di-viene protagonista. Il controcampo prende il soprav-vento sui singoli attori, il cui agire ha efficacia solo see nella misura in cui è coordinato e solidale con l’agi-re dell’intera compagine. Alle visioni individualistichee parcellizzate si sostituisce una visione d’insieme chepunta l’attenzione sugli elementi di coesione e nonpiù sui soli vertici di eccellenza.

Un percorso che è simbioticamente intrecciato alpassaggio ad un nuovo modello economico le cui pre-rogative affondano sulla pervasività della comunicazio-ne e sulla sua capacità di veicolare conoscenza e nellostesso tempo sussumere il plusvalore che essa genera. Isistemi locali si scoprono così miniere di creatività ecompetenze, in un complesso interrelato di saperi ta-citi e saperi formali, volontà e norme, il cui intreccioproduce milieu in grado di proporsi a quelle correla-zioni transcalari che il sistema della comunicazionemette a disposizione.

Non più dunque solo “territorio-fabbrica” (Bonomi,1998), la cui connotazione coglie il versante produttivi-stico e funzionalistico, ma, appunto, sistemi locali terri-

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DI COSA STIAMO PARLANDO

toriali. Al cui interno, in un amalgama complesso, le col-lettività locali mettono in campo tutto l’insieme delleproprie risorse, ereditarie e innovative. In cui i legamirelazionali diventano quel capitale sociale che costitui-sce la trama di solidarietà e regole condivise su cui si im-palca civicness.

Un modo nuovo di concepire il territorio. Che persemplicità, e per intenderci, definiamo postmoderno.Attento alla produzione di significati e identità cultu-rali. Alle ragioni e alla direzione delle trasformazioniche si sono sedimentate nella correlazione continua –anche dialettica e conflittuale – tra le diverse compo-nenti. Il territorio dunque non come somma di prero-gative e prestazioni o come supporto del loro agire, macome attore in prima persona. Unico e originale, do-tato di precisa fisionomia e riconoscibilità. Un organi-smo vivente, lo definisce Magnaghi (2000) per dare ilsenso della complessità, in continua trasformazione,che in certe condizioni sa riprodursi e autogovernarsie tuttavia dagli equilibri fragilissimi.

Ma anche, aggiungerei, un dispositivo semiotico.Una fabbrica generatrice di rappresentazioni in gradodi giustificare il passato e prefigurare e plasmare il futu-ro. Immagini costruite nel tempo, stratificate e modella-te dalle generazioni e custodi di senso. Innanzitutto delsenso di appartenenza e del sentimento di protagoni-smo all’interno delle fluttuazioni e della relatività di ruo-li che le logiche transcalari che dominano il mondo ag-giustano e dimensionano in maniera incessante. Un ter-ritorio agente, motore di reti di relazioni a complessitàcrescente, in cui si intersecano sottoinsiemi e sovrainsie-mi dalla natura più diversa, da quelli di vicinato a quellidi scala internazionale.

Riaffiora perciò, assieme a questa nozione polise-mica di territorio, anche la consapevolezza della “co-munità” che ne è l’anima. Un termine che userò conmolta cautela (Bagnasco, 1999) e che invece affolla illinguaggio localistico. Antico, di memoria premoder-na, prima travolto dall’industrialismo e poi atrofizzatodalla omologazione dei desideri e degli stili di vita.

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Che in Italia però riemerge negli anni ‘80 nelle vestisubculturali del localismo leghista e nella rivolta alcentralismo. Attraverso il recupero della dimensioneconservatrice e tradizionalista dei più minuti egoismipaesani e xenofobi.

Negli anni in cui lo smantellamento delle formeconcentrate del fordismo semina conflitto sociale, in-certezza. Travolge le identità create dall’industrialismosenza proporre alternative che riempiano il vuoto e losmarrimento. Anni in cui alla crisi occupazionale se-gue il progressivo depotenziamento del welfare e dellesue tutele. Destabilizzando un quadro che sino a quelmomento era sembrato di crescita (dirompente ben-chè asimmetrica).

Le ribellioni localistiche, che non a caso coinvol-gono quel Nord e quel Nord-Est in piena espansioneproduttiva, vengono a surrogare l’identità perduta. Al-la ricerca di un nuovo senso. Che individua nella chiu-sura endogena una risposta alle tensioni che proven-gono dall’esterno e spingono alla contaminazioneglobale e uniformante.

Una reazione estremistica, che esaspera l’ambi-guità del sentimento di appartenenza e poggia in ognimodo sulla percezione del rango delle economie loca-li nella transizione. E del loro ruolo all’interno di uncontesto nazionale che ancora non vuole prendere at-to del passaggio di consegne. Mentre la grande indu-stria e le principali correnti economiche si sono, unpo’ per volta, senza clamori, delocalizzate e globalizza-te, lo stato fatica a capacitarsi della propria crisi di le-gittimazione. Di non essere più il fulcro di decisioniche, ai due poli opposti della scala territoriale, ormailo scavalcano, lo ignorano. Se non per attingere allesue casse esauste per favorire un processo di riconver-sione che porta al di fuori dell’ambito locale, e il piùdelle volte di quello nazionale, le principali risorseproduttive.

In questa luce il leghismo ha rappresentato unoscossone che ha messo allo scoperto le carte con cui sistava giocando. Ha infatti portato alla ribalta il matu-

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rare delle realtà locali e messo in evidenza l’inadegua-tezza di una forma di stato centralista non più coeren-te con le dinamiche della società. Ma purtroppo nonsempre è vero che non tutti i mali vengono per nuo-cere. Sul piano politico, infatti, questa scoperta era ser-vita ben poco, se non a occasionali compromessi chehanno spianato la strada a svolte più decisive.

Nel sottile discrimine tra chiusura conservatrice ecapacità di autodeterminazione, alcune situazioni so-no riuscite a far prevalere le componenti virtuose e di-rezioni di sviluppo capaci di proporsi innovativamentesenza abbandonare le peculiarità di base. E tuttavia ri-mane compito particolarmente delicato, nella miriadedi situazioni diverse etichettabili come sistemi localiterritoriali, discernere fattori e situazioni dal volto pro-gressivo. Senza cadere nella facile identificazione diciò che si autoproclama tale.

Ciclo di vita e declino

In ogni caso sono permasa che il fenomeno di ag-gregazione che definiamo SLoT sia in fase di declino.Che insomma la transizione sia conclusa e con essa ilprocesso di riconversione che ha portato al successo isistemi locali territoriali. Che il postfordismo sia in-somma da considerarsi una parentesi chiusa all’inter-no del meccanismo di propagazione globale dei dispo-sitivi di valorizzazione economica. E che i sistemi loca-li abbiano perso quella relativa autonomia che la crisifordista aveva concesso e per molti versi incentivatoquando lasciava scatenare la forza creativa e propulsi-va delle energie locali, per poi ingabbiarla nei recintidella macchina produttiva che ha trasformato l’interomondo in catena di montaggio (Bonora, 2001a).

In questa luce credo che tra i parametri di analisisia utile inserire il concetto di “ciclo di vita” – sicura-mente opportuno nel caso emiliano, che mostra ine-quivoci segnali di una crisi difficilmente riassorbibilese non trasformando i termini della combinazione.

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Che lo SLoT vada insomma considerato all’interno delprocesso diacronico di formazione-stabilizzazione-de-clino. Una dinamica che possiamo ricomprendere al-l’interno del paradigma di territorializzazione-deterri-torializzazione e che mi pare possa efficacemente rap-presentare gli elementi di criticità e flessione e dunqueconsentire di ipotizzare le possibili soluzioni riterrito-rializzanti.

Certo quando utilizzo il termine ‘declino’ appli-candolo alla realtà emiliana sono consapevole dellaforzatura. Non ipotizzo infatti una inversione dram-matica delle condizioni emiliano-romagnole, ma mi li-mito a conseguire dal paradigma concettuale in cui siinquadra questa ricerca le possibili, tendenziali, conse-guenze. Che, nel caso emiliano, possono rivelarsi comeprodotto della frantumazione sociale e della scollaturatra società e territorio. Un processo di deterritorializ-zazione che può marciare assieme a trend di crescitainvariati, ma che ha perso di vista il concetto di svilup-po e le implicazioni di sostenibilità umana che gli sonosottese.

Il caso emiliano rappresenta una situazione cheper molti versi ha anticipato quella particolare misceladi comunanza sociale e fiduciaria, stabilità istituziona-le e capacità di innovazione che ha prodotto le formedi territorialità postfordiste. Dopo cinquant’anni disuccesso economico e di immagine, l’Emilia postco-munista mostra segnali di fragilità. Sono venuti menoi reticoli delle intese collettive e della partecipazione,la progettualità si è appannata, le istituzioni vivonouna fase di impasse. Un “modello” di sviluppo su cui siè lungamente discusso, non solo in ambito locale, co-me espressione di civismo e di economia sociale dimercato. Un dispositivo semiotico in cui, sterilizzate leoriginarie connotazioni ideali, si è avviato un processodi frammentazione e deterritorializzazione. Con sguar-do retrospettivo si cercherà di discutere una dinamicanon irreversibile e che tuttavia esige una progettualitàinnovativa e basi di analisi che scandaglino senza pu-

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dore gli errori e le contraddizioni che il “modello” na-scondeva.

Complessità e contraddizioni

Se i sistemi territoriali rappresentano il piano deisottoinsiemi, delle reti corte che agiscono a livello lo-cale, non si può ignorare (o sottostimare) che a scalediverse agiscono le reti lunghe delle correlazioni tran-sregionali e transnazionali. Che mettono in tensione icircuiti virtuosi animati dalle collettività locali, obbli-gandole al confronto con dimensioni e prospettiveesogene difficilmente controllabili.

Un raffronto in cui i luoghi rappresentano i fulcridei flussi transcalari e sono costretti ad una competi-zione che rischia di stravolgerne la natura. La globaliz-zazione infatti se per un verso è meccanismo omoge-neizzante, che tende a codificare e standardizzare lediversità per uniformarle ad unità produttive e di con-sumo, dall’altra, in modo apparentemente contraddit-torio, alimenta queste stesse peculiarità. A cui attingealla ricerca di competenze culturali e cognitive. Unalogica in cui ogni luogo viene ad assumere duplice ve-ste: di segmento specializzato del ciclo di produzione,da un canto, e di scaffale del mercato globale dall’al-tro. In entrambi i casi dunque facile preda. Se non sagiocare fino in fondo e con molta lucidità le carte del-la propria autodeterminazione. Ma, nella complessitàdegli equilibri instabili di relazioni multidimensionaliinterdipendenti, è sempre più difficile per i luoghi tro-vare un punto di discrimine tra adesione alle logicheche la globalizzazione impone e preservazione dellapropria autonomia decisionale e progettuale.

Sono sempre più numerosi i casi di comunitàconsapevoli che privilegiano il versante umano dellerelazioni sociali attraverso pratiche di programmazio-ne partecipativa (Sullo, 2002). Esperienze da cui pos-siamo trarre suggestioni, che tuttavia non sono gene-ralizzabili se non sotto il profilo etico/politico e del-

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la volontà di autodeterminazione. Ogni luogo infattideve saper trovare le proprie risposte, appropriate al-la scala e ai milieu territoriali. In una situazione cheimpone una continua dialettica multipolare che ren-de imprescindibile la consapevolezza.

Una questione che mette in campo non solo la no-stra coscienza critica di ricercatori e analisti, ma ri-chiama la politica al proprio ruolo. Alla sua (perduta)capacità di agire per il bene collettivo e di sceglierestrade di sviluppo che privilegino la qualità umana ri-spetto all’utilitarismo mercantile che ha dominato lascena nell’ultimo ventennio. Una svolta che in Emilia-Romagna stride con la sua storia precedente.

Il mondo-fabbrica tende a cristallizzare le conno-tazioni dei luoghi e dei soggetti. Sia quelle che favori-scono crescita, come è il caso dei nostri sistemi territo-riali locali, al cui interno si allargano tuttavia le dispa-rità sociali ed esistenziali, mentre vengono meno i re-quisiti della vivibilità e dell’accesso ai beni comuni. Siaquelle che conservano le marginalità – delle aree disottosviluppo e dei gruppi del nuovo sottoproletariatoglobale, privi di strumenti cognitivi da mettere in com-petizione. Entrambe le situazioni connaturate ad unacircolazione delle merci, delle persone e dei codici se-miotici che gioca sugli scambi ineguali frutto di fran-tumazione e squilibri. Ogni tassello vocato a funzionispecifiche, raccordate e ingegnerizzate in un dispositi-vo unico che interagendo produce valore.

Una macchina complessa che apparentemente hascelto di non darsi regole, se non quelle spontanee efluttuanti del mercato. I cui limiti sono sempre più evi-denti e le cui contraddizioni stanno emergendo comeintrinseche. Una deregolazione che costringe a spieta-ta concorrenza e mette i luoghi in contrapposizionetra loro nell’accaparramento di posizionamenti. In cuianche le cordate di impronta collaborativa si fondanocomunque sullo statuto della concorrenzialità e dellagara contro altri e si rivelano dunque fragili e succubi.

Una intelaiatura dominata da pochi fulcri decisio-nali che è difficile controllare dalla platea locale. Che

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rischia insomma di piombare del tutto esogena sui ter-ritori. E che solo con grande sforzo di autoconsapevo-lezza e molta capacità di mediazione può essere adat-tabile alle esigenze dei luoghi. Implicazioni che sotto-lineano il ruolo dei governi e delle politiche locali nelselezionare e progettare vie di sviluppo autonome.

La prospettiva di analisi e il caso Emilia-Romagna

La prospettiva entro cui questa riflessione si muo-ve basa l’identificazione dei sistemi locali territorialisulla loro capacità di azione collettiva. Sul presuppostoepistemico che ci si trova di fronte ad un “sistema ter-ritoriale locale” quando il coordinamento e la coesio-ne tra gli attori trasforma il territorio in attore, l’interacollettività in protagonista Al di là delle iniziative e vo-lontà dei singoli che, in certi momenti e fasi, vengonosussunte nell’agire comune (Dematteis, 2001).

L’Emilia-Romagna in questa prospettiva diventauno stimolante campo di sperimentazione e verifica.Per decenni è stata rappresentata come territorio sin-golare a straordinaria coesione sociale.

In questa visuale rappresentazione e autorappre-sentazione assumono significato euristico. Non a caso,poche pagine indietro, ho definito i sistemi locali ter-ritoriali un fenomeno culturale e assieme un dispositi-vo semiotico. Elementi, culture e semiosfera, stretta-mente interagenti, ma che mi sembra indispensabileriuscire a esaminare come matrici interagenti ma di-stinte, se non vogliamo ammettere di ragionare sul-l’immaginario, sui sogni più che sulle fattualità, suiprogetti anche quando non realizzati. E su tutto il ca-rico di retorica autoreferenziale che in molti casi li ac-compagna.

Il timore è insomma che i castelli di mappe chestiamo ammettendo come simulacri di realtà, anchequando di grande potenza performativa al primo sof-fio si dissolvano. Il territorio è sì rappresentazione eautorappresentazione, ma prima di tutto una precisa

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costruzione e stratificazione di persone e cose. Che co-me tali vanno portate alla luce. Con pazienza e unacerta dose di cinismo critico va strappato il velo del-l’autocelebrazione e messa a nudo con acribia l’impal-catura sottostante.

Un nodo essenziale quando affrontiamo il casodell’Emilia-Romagna. La regione ha un’immagine ni-tida nella letteratura e nel sentire comune. Di regio-ne coesa, a forte solidarietà sociale e morale, un “mo-dello” economico di successo, a forte regolazione econ una buona tenuta e resa istituzionale. Una rap-presentazione che ho contribuito a rafforzare quan-do, a metà degli anni ’90, l’ho raccontata come “co-stellazione”, come “mélange di diversità cementate dal-l’ethos e dalla volontà comune”1. Quella ricerca inda-gava, su incarico della Fondazione Agnelli, su “me-tafore territoriali e strategie regionali”, e aveva verifi-cato una straordinaria concordanza di vedute tra leopinioni soggettive e la letteratura copiosissima, an-che internazionale, che sul caso Emilia esiste.

A metà degli anni ’90, emergeva con chiarezza daquell’inchiesta, il mito di una “Emilia rossa” unitaria esolidale teneva anche presso gli oppositori, che sem-mai criticavano scelte, orientamenti, politiche, ma nonmettevano in dubbio personalità e originalità del siste-ma. (Lo testimonia anche il volume della collana Ei-naudi sulle regioni d’Italia edito nel ’97, che su questorequisito è impostato; Finzi, 1997)

Una rappresentazione – di cui nella seconda parteesamineremo la genesi e le contraddizioni – che all’e-sterno tuttora non ha grandi scalfitture2. E che ha co-

1 P. Bonora, 1997, Rapporto Emilia-Romagna. Metafore territorialie strategie regionali, Fondazione Agnelli; poi 1999 Costellazione Emi-lia. Territorialità e rischi della maturità, Torino, Fondazione Agnelli;nonostante la data di edizione in volume, la ricerca, pubblicata ini-zialmente nel 1997 nel Rapporto, a circolazione limitata, è statasvolta tra il ’95 e il ’96.

2 Cfr. ad esempio P. Messina, 2001.

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stituito il dispositivo semiotico condiviso su cui l’Emi-lia ha sedimentato le proprie sicurezze e ne ha trattoforza, ma in cui ha finito per imbozzolarsi in manierasterile, senza cercare, dopo la crisi delle matrici che l’a-vevano generata, forme innovative di condivisione so-ciale.

Una reputazione che tuttavia non coincide da tem-po con la realtà. Gli elementi di “maturità” che segna-lavo a metà degli anni ’90, e che Amin (1998) e Gari-baldo (2000) hanno ribadito, si sono trasformati in fat-tori critici. Che non risaltano, per ora, sul piano ma-croeconomico (benchè i dati più recenti evidenzinouna situazione complessa di stasi e stanchezza di moltisettori) o come calo occupazionale e dei redditi, ma co-me indebolimento delle componenti che più avevanoconnotato il sistema. Leggibile nella frantumazionedella società, nell’allentamento del welfare state e dellepreoccupazioni redistributive che erano state marchiodistintivo dell’Emilia-Romagna. Ma più che tutto nel-l’assenza di pratiche tese a ricucire il rapporto con laterritorialità, vuoi sul piano delle reti del capitale socia-le, vuoi nella relazione con l’ambiente. Un processo dilarvata deterritorializzazione i cui esiti possono orienta-re l’intero sistema territoriale verso una parabola decli-nante. Un destino non irreversibile, ma le cui avvisagliespingono a riflettere sulle causalità e sulle possibili scel-te progettuali riterritorializzanti. Un problema scienti-fico, nella prospettiva che guida questo lavoro, che puòoffrire strumenti interpretativi e suggerire correzioniper situazioni a un diverso stadio evolutivo, ma anche,per chi scrive, una questione di responsabilità civile.

Quali le sorti dunque di quella fortunata rappre-sentazione? e quali, di conseguenza, le sorti del sistematerritoriale che su quella icona poggiava? Un quesito,quest’ultimo, che mi sembra essenziale. Non solo percercare di capire quali strade stia percorrendo la regio-ne, ma per mettere a verifica un metodo di indagine.Perché se accettiamo il presupposto che il collante iden-titario di uno SLoT si fonda anche sulla sua rappresen-tazione-autorappresentazione-identificazione, dovremo

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anche ammettere che a crisi di rappresentazione coin-cida crisi del sistema. Un percorso che vaglieremo nellaseconda parte.

Un ulteriore elemento resta da chiarire sul pianometodologico – ed è risvolto squisitamente disciplina-re. Quali siano le dimensioni di un sistema locale ter-ritoriale. In questo lavoro il concetto di SLoT viene ap-plicato ad un’intera regione, discostandosi dalle sceltedegli altri ricercatori del progetto nazionale di ricerca,che hanno preferito dimensioni più contenute. I mo-tivi di questa scelta sono stati molteplici e indiretta-mente sono già stati esplicitati.

Nel momento in cui si decide di porre a fondamen-to paradigmatico dell’idea di SLoT l’agire collettivo,l’accezione di “locale” perde riferimenti ad una precisascala3, ma diventa relativo a questo preciso angolo di vi-suale. Secondo cui ciò che importa è la capacità di coor-dinamento, le reti, le correlazioni incrociate e più chetutto la capacità di azione comune tra attori diversi. Unacoerenza e coesione che in Emilia-Romagna, sino ametà degli anni ’90, ha conservato verosimiglianza.Rafforzata da un’immagine che, nella letteratura nazio-nale e internazionale, accredita alla regione forte per-sonalità territoriale.

Gli indicatori

A corollario delle due categorie di fondo che at-tengono l’agire collettivo e la personalità territoriale,sono stati selezionati indicatori in grado di verificarle.La scelta è caduta non su misuratori di natura quanti-tativa, come si era fatto un tempo sui sistemi locali diproduzione, ma su elementi più impalpabili e discre-zionali che attengono le culture, i comportamenti, lefilosofie d’azione, le rappresentazioni. Buone perfor-

3 A. Scott (2001) continua a preferire non a caso il termine“regione”.

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mance economiche, agire collettivo, rispetto dei patri-moni e delle volontà endogeni sono infatti versanti chenon necessariamente coincidono.

Una cernita di parametri che viene presentata quidi seguito e che ha costituito l’intelaiatura concettualedella seconda parte.

Modo di produzione

Benchè possa sembrare enfatico ragionare di mo-do di produzione applicandolo ad un insieme territo-riale di piccole o medie dimensioni, credo che ogniSLoT compia scelte di adattamento a modelli, o se pre-feriamo a stili, comportamentali e relazionali che di-ventano in questo modo singolari e tipici. Non mi rife-risco alle tipicità produttive e specialistiche, ma ai mo-di in cui, in una determinata area, si concepisce la re-lazione produttiva e di lavoro. Al senso insomma che lasocietà locale dà al lavoro e all’attività imprenditoriale.Sotto questo profilo l’Italia offre un campionario diesperienze mutevolissimo, che attiene la dimensioneantropologica e le culture dei singoli luoghi e affondain portati storici e statuti etici diversi.

Oggi, in una situazione di tendenziale omologa-zione, credo sia indispensabile mettere in relazionequesto bagaglio esperienziale e comportamentale conle logiche che governano la globalità. Un bilancio in-somma tra ciò che proviene, in maniera esogena, dal-l’esterno e ciò che il territorio è in grado di risponde-re senza forzare (troppo) la propria identità. Le solu-zioni che in Emilia si sono inventate in molti casi ri-specchiano eredità storiche e quell’insieme di compe-tenze e risorse che hanno portato alla distrettualizza-zione. Hanno poi aggiunto a questo spontaneo orien-tamento specialistico un originale plusvalore generatodalla solidarietà e dalle relazioni fiduciarie. Scelte chesi sono accompagnate alla decisione istituzionale di in-centivare una struttura imprenditoriale che, privile-giando la piccola e media dimensione, ha diffuso i van-taggi economici ad una base sociale allargata. Modalità

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che non hanno sovvertito le convenzioni che proma-navano dall’esterno, ma le hanno piegate e adattate aregole endogene.

Ma dopo un successo insperato, l’immagine dellosviluppo fondato su piccole e medie imprese si sta ap-pannando. Torna di moda la grande impresa. La glo-balizzazione spinge verso direzioni che tolgono spaziovitale alle organizzazioni basate sulle reti di prossimitàe promuove invece le reti lunghe transregionali e tran-snazionali. Si moltiplicano accordi e cordate, ma piùspesso acquisizioni e fusioni, che rigerarchizzano lastruttura aziendale, creando gruppi in grado di regge-re la concorrenza internazionale. Con dinamiche op-poste e concatenate: da un canto attraverso cessioni dimarchi e della componente cognitiva ad imprese mul-tinazionali; mentre dall’altro si allarga il fenomenodelle delocalizzazioni anche da parte delle impresemedie e medio-piccole che, irrobustite dal postfordi-smo, ora abbandonano i luoghi e spostano in aree re-mote, a basso costo d’entrata, le attività di manifattu-ra. Un processo a catena che residua nei sistemi localii segmenti tradizionali della produzione e fa riemer-gere l’antica inclinazione alla subfornitura. Una ri-conversione che, secondo visioni ottimistiche, dovreb-be spingere il territorio a riqualificarsi in direzione diprodotti ad alto valore aggiunto cognitivo e informati-vo, ma che, in questa fase, sta generando crisi del tes-suto molecolare e polarizzazione sociale. Non vi è in-fatti osmosi tra due direzioni che sono contrapposte. Isaperi taciti dell’impresa posfordista non sono più fun-zionali all’azienda globalizzata, che ora cerca le mede-sime competenze in territori marginali meno esigentisul piano salariale e normativo. Mentre, dall’altra par-te, l’impresa globale necessita di professionalità avan-zate di tipo terziario e quaternario che i sistemi localinon offrono, e tende dunque ad avocare a se’, centra-lizzandola, la componente cognitiva indispensabileper gestire e avvalorare il ciclo.

Le piccole imprese flessibili, salvatrici della patriadopo la crisi del fordismo, perdono credito e appeal.

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Mentre sotto il sembiante delle “imprese a rete ” si ce-lano selezioni e gerarchizzazioni che, dopo averli ido-latrati e prosciugati, abbandonano i sistemi locali al lo-ro destino. Problemi che stanno imbalsamando la so-cietà emiliana, incapace di innovazioni che riescano amantenere l’antica centralità.

Rapporto pubblico/privato e deregolazione del welfare

Il rapporto pubblico/privato, e le ricadute su quel-lo che un tempo era lo “stato sociale”, è una correla-zione in grado di offrire avvisaglie importanti sulla fi-losofia che guida gli SLoT. Sulla maggiore o minore at-tenzione che questi accordano ai beni comuni e alleregole che ne consentono la fruizione. Tanto più inEmilia-Romagna, dove il senso sociale della statualitàun tempo è stato caposaldo della politica locale.

Dal momento in cui, scavalcato da logiche transca-lari di direzione opposta, si è rinnegata la natura regola-trice dello stato, la liberalizzazione ha scardinato la vec-chia impalcatura costituzionale e spostato all’ambito pri-vatistico compiti che attengono la sfera comune. Sonocosì saltate non solo la precedente costruzione normati-va, ma l’idea stessa di statualità garante e capace di go-vernment. Con il neoliberismo si appanna contempora-neamente sia la fisionomia di custode dell’imprendito-rialità, che quella di mediatore keynesiano del conflitto.

Una svolta che se da un canto accentua il ruolofunzionale dei governi locali, dall’altra paradossal-mente ne indebolisce la fisionomia, assegnando im-magine negativa a tutto ciò che attiene la sfera del pub-blico. Muta il concetto di regolazione per dare spazioad una concezione di statualità leggera e non incom-bente, con delega e sussidiarietà a cascata dei compiti.Che in ambito locale in molti casi si traduce in ester-nalizzazione e privatizzazione anche dei servizi di pub-blica utilità, abbandono della concezione universalisti-ca e adesione acritica a redditività e competizione.

Si tratta allora di capire quali soluzioni siano statetrovate in sede locale in risposta allo snaturamento del

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senso dello stato. Se l’idea di collettività abbia conser-vato la centralità che la retorica del linguaggio politicole attribuisce o se siano invece prevalse pratiche selet-tive attente al solo versante mercantile.

Anche sotto questo profilo la riflessione non puòpoggiare solo su dati quantitativi. Poco importa stabili-re in che misura prerogative e competenze che in pre-cedenza appartenevano alla statualità siano transitatein mano privata, ma piuttosto quale tipo di indirizzivengano perseguiti. Se pensiamo ad esempio al campo,delicatissimo, dell’assistenza, constatiamo una semprepiù significativa presenza di componenti private, legateal volontariato e al no-profit. Le cui finalità, scaturite damatrice etica, hanno mantenuto finalità sociale. Di se-gno opposto sembrano invece le privatizzazioni delleex aziende municipalizzate che, scegliendo la stradadella redditività, rischiano di non assolvere ai compitiuniversalistici che erano loro fondamento giuridico.Una riconfigurazione degli scopi rappresentata comeadeguamento e razionalizzazione di tipo funzionale,ma che solo apparentemente attiene questa sfera. Checrea dipendenze dal mercato, dimenticando la naturacollettiva ed essenziale dei beni erogati per privilegiaregli aspetti finanziari e gestionali. I principi dell’equitàdistributiva e della utilità pubblica da fondanti diventa-no così subalterni.

Anche l‘Emilia, come vedremo, non è estranea aquesto scivolamento che è assieme anche una forma dideresponsabilizzazione dai compiti istituzionali. Unnodo particolarmente importante in una regione cheattraverso la costruzione dello stato sociale, la sua filo-sofia e i suoi strumenti perequativi, si era costituita insistema territoriale.

Government/governance

Strettamente correlato alla concezione dello stato,il problema della governabilità emerge come questio-ne centrale. Un tema declinato secondo interpretazio-ni tra loro diversissime (Governa, 2003).

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Il passaggio da forme di legalità formale, a regola-mentazione autoritativa di impronta verticistica e cen-tralistica, a una regolazione debole ha determinatoambiguità degli indirizzi e delle procedure di governo.Un passaggio che non solo ha decentrato sussidiaria-mente al piano locale sempre maggiori responsabilitàsenza fornire strumenti economici diretti, ma ha tra-sformato la concezione della statualità, sganciandoladai compiti di supervisione e riequilibrio che avevanocaratterizzato la fase keynesiana. Un processo conna-turato ai principi di un’economia aperta e che, ripar-tendo i compiti di regolazione su più sfere di governo– dall’Unione europea a cascata fino ai comuni – ha fi-nito per depotenziarne l’autorevolezza e l’incisività.

La statualità neoliberista è stata così confinata a ruo-lo amministrativistico e gestionale. Una fisionomia chenon le ha permesso di rispondere alla complessità delmodello postfordista e che ora la trova impreparata allafrantumazione sociale derivata dal passaggio alla globa-lizzazione. Una moltitudine di soggetti reclama voice enon trova risposta efficace nei tavoli della concertazioneche, quando riescono ad operare, si rivelano frutto diaccordi tra le componenti forti, più che di negoziazioniparitarie.

Il piano locale si trova così lacerato tra il centro,che demanda operatività inconciliabili con risorsesempre più scarne, e attori in concorrenza tra loro perun posto da protagonisti. Ma nel frattempo ha abban-donato, come ubbia ideologica, la capacità di fare scel-te, di pianificare lo sviluppo. L’idea della programma-zione messa in crisi dagli insuccessi e dalle rigidità delpianismo, ma soprattutto quando la deregolazione ar-riva a legittimare una realtà che di fatto già si muove aldi fuori delle regole.

Personalmente ho l’impressione che la governan-ce si traduca il più delle volte in alibi liberista, in cassadi compensazione di cacofonie stridenti e di fatto in-governabili e in ogni caso strumento di legittimazionedi scelte deboli e di basso profilo. Anche quando agitain modo non strumentale, scegliendo il minor attrito

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tra le componenti in gioco, di fatto promuove il deno-minatore comune minimo e si trova così a svolgere unruolo compositivo che isterilisce le potenzialità inno-vative, schiacciate da una procedura algebrica il cui fi-ne ultimo diventa la consensualizzazione. Anche quan-do applicata correttamente nel rispetto delle variecomponenti si rivela priva di vaglio critico e strumentodi una negoziazione fine a se stessa, che lascia agire li-beramente (e darwinianamente) le forze in campo. Ilpiù delle volte si traduce in cordate di partenariatostrumentale all’acquisizione di fondi o di appalti, incui prevalgono le componenti più forti, che offronomaggiori dotazioni economiche o riescono a mobilita-re relazioni privilegiate con i decisori. I soggetti debo-li si trovano così spiazzati e privi di ascolto.

Ingegnerie concertative che, volendo sterilizzarela decisione astraendola dalle idealità e dalla politica,diventano contenitori vuoti, in cui la maggior partedegli attori non si identifica e non si sente rappresen-tato – come emerge da un’inchiesta recente svolta inEmilia-Romagna e di cui daremo conto nella secondaparte.

Partecipazione e accesso alla rappresentanza

La legittimazione è il nodo conseguente, cheemerge dal rimescolamento caotico delle posizioni so-ciali. Che oscillano tra indifferenza alle vicende pub-bliche, manifestata con astensionismo e non parteci-pazione, e un nuovo e recentissimo dissenso e richiestadi ascolto. Una società frantumata in gruppi portatoridi istanze diverse e difficilmente conciliabili. Trasver-sali a classificazioni generazionali o reddituali. Il mon-do dei giovani utopisti e del volontariato e, all’estremoopposto, i giovani delle bande xenofobe, ma nel mez-zo un arcobaleno di figure sociali giovanili, prive diprecisa collocazione. I mille comitati di protesta e l’a-patia, l’indifferenza, l’isolamento. La middle class ram-pante, affarista e speculatrice e la vecchia classe media

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impoverita e schiacciata dalla trasformazione. Le im-prese di rango globale che chiedono valore aggiuntoterritoriale e atmosfere culturali in grado di compete-re a livello internazionale e le piccole e piccolissimeimprese che continuano a pensare al welfare come ri-sorsa integrativa. I vecchi marginalizzati e i nuovi, an-ch’essi in concorrenza, in un intreccio multiculturaletuttora incompreso.

Una moltitudine di soggettività diverse. Che nep-pure conosce o ricorda il concetto fordista di classe so-ciale e nel frattempo ha disgregato le alleanze su cui ilpostfordismo ha costruito i propri successi e che, an-che sul piano locale, vive le contraddizioni di una so-cietà che non ha precise direzioni di marcia e cinica-mente attende una sorta di selezione naturale. Spon-tanea, ritiene, come il liberismo a cui è demandata.

Un cambiamento frutto di una mutazione antro-pologica che scatena una gamma di bisogni del tuttonuovi e per molti versi ancora sconosciuti. Il senso dicomunità, i rapporti fiduciari, le vecchie reti delle in-tese collettive scompaiono in un magma di nuove rela-zioni dalle scale diversissime. Una nuova geografiaumana che non si rispecchia nella geografia dei dirittidi cittadinanza. Che vede inceppata la catena della de-cisione e non chiare le modalità di legittimazione del-le istanze. Sicché al senso di appartenenza subentra losconcerto che deriva dall’esclusione, dal sentirsi fuoridal consesso civile che decide o che riesce ad incidere.Un sentimento di incertezza che oggi appartiene an-che a fasce che non sono economicamente marginali,ma che vivono con voluto distacco e diffidenza una si-tuazione a cui non sentono di appartenere. Problemiche mettono in forte difficoltà i sistemi locali territo-riali e minano le fondamenta della socialità.

Una riconfigurazione leggibile anche negli esitielettorali, sempre più connotati dall’astensionismo ein cui paradossalmente, dopo il passaggio al maggiori-tario che avrebbe dovuto compattare le rappresentan-ze, si è assistito, all’opposto, ad ulteriore frammenta-zione e proliferazione di liste, non a caso personali e

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civiche, che hanno accentuato l’instabilità e circolar-mente incrinato la fiducia.

Attori e comparse

Una moltitudine in movimento, instabile, priva diprecisi indirizzi e obiettivi anima la vita sociale. Lacompone una miriade di soggettività che, atrofizzati ivincoli delle reti solidaristiche e ideali, persegue scopiindividualistici. Si rinchiude in corporazioni, lobby,fonda piccoli partiti e minuscoli sindacati di parte –gruppi sparuti, di interessi fluttuanti e minuti, statuta-riamente indefiniti. Oppure sogna grandi utopie, maancora non possiede gli strumenti (politici) in gradodi realizzarle.

Una società frantumata in mille rivoli di interessi,che non sa scegliere e non sa indicare. Apparente-mente assopita nel benessere e nei consumi, maprofondamente insoddisfatta e infelice. Chiusa alla di-versità e ostile al cambiamento. Percorsa dalla esaspe-rata percezione di insicurezza che scaturisce dall’ano-nimato e dalla scomparsa delle forme di vigilanza so-ciale implicite che derivavano dai legami di vicinato. Equindi fautrice di risposte autoritarie e repressive. Ir-retita dai media, incapace di reazione critica anche difronte a eventi che stravolgono il quadro delle prece-denti certezze. Attendista, fatalista, priva di idealità,scettica e rassegnata. Che guarda con sospetto e timo-re quella parte di società civile che crede ancora nelvolontarismo e nella proposta.

E dall’altra soggetti che agitano le acque dei siste-mi locali e chiedono di cogestire secondo logiche affa-ristico-mercantili le sorti dei territori. E si affannano aconfezionare “comunità artificiali” e partenariati stru-mentali all’accaparramento di fondi pubblici o alle ga-re d’appalto. Procedure in cui, in molti casi, l’identitàdiventa orpello decorativo, merce di scambio. E in cuirete e coesione sono strumento a tempo di un com-promesso economico. Così le città, dopo avere a lungonegoziato, tornano in mano agli immobiliaristi mentre

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il territorio, uno spicchio per ciascuna controparte,viene consumato.

Un mosaico sociale molto variegato in cui è diffici-le identificare ruoli. In cui gli attori di ieri sono diven-tati personaggi di sfondo, comparse, mentre diventafacile scambiare le controfigure con i veri protagonistidi oggi.

Personalmente temo sia irrealistico pensare di re-duplicare artificialmente le collettività che sono statel’anima dei sistemi locali postfordisti. Ne scaturisconocostruzioni malferme e comunque provvisorie, il cuicollante mercantile è negazione dello spirito comuni-tario che innervava i luoghi. Vanno scelti valori e pen-sate soluzioni in grado di condensare interessi più am-pi e alti, in grado di cementare nuove forme di unitàsociale.

Dalla crisi demica alla multiculturalità

Una società che invecchia, la famiglia che non rie-sce a garantire il ricambio generazionale e d’impresa,l’immigrazione come risorsa e come preoccupazione:ecco riassunti i termini della crisi della famiglia tradi-zionale. Un’istituzione cardinale nella società e nell’e-conomia italiana. La famiglia allargata di memoria pa-triarcale è scomparsa da tempo, ed è in via di estinzio-ne anche la famiglia-impresa che ha costituito l’ossatu-ra del capitalismo italiano, sia alle grandi che alle pic-cole dimensioni. Un fenomeno che scatena un insie-me di conseguenze incrociate che coinvolgono piùpiani di riflessione.

Da una parte vengono meno le reti di quel famili-smo virtuoso che aveva innervato i sistemi locali di spi-rito imprenditoriale. Ma, su un piano direttamenteeconomico, dopo la fuga dall’attività produttiva dellegenerazioni cadette, attirate da investimenti speculati-vi di tipo finanziario o immobiliare, si esauriscono lefonti di autofinanziamento delle aziende.

Una situazione che in Emilia-Romagna è aggravatadalla deterritorializzazione delle sorgenti di credito

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bancario, che hanno perso connotazione locale per es-sere inglobate in gruppi nazionali i cui vertici direzio-nali sono esterni alla regione.

Dunque non solo una crisi di ricambio che investela direzione d’impresa, ma una minaccia alla sopravvi-venza stessa delle aziende. Una spoliazione delle vo-lontà imprenditoriali che si traduce, da almeno un de-cennio, in processi di verticalizzazione della strutturadelle imprese. Un fenomeno che sostituisce alle retidell’imprenditoria familiare gruppi classificati comeimpresa-rete, ma che sottende gerarchizzazione esoge-na da parte di gruppi extraregionali e multinazionali.Un processo che si riflette sulla trama pulviscolare del-la subfornitura, che se da un canto trae vantaggi im-mediati nei canali commerciali, dall’altro si trova vin-colata unilateralmente a direttive esterne. Che posso-no, in maniera repentina e indipendente dalle volontàlocali, volgere i propri interessi verso localizzazioni piùconvenienti. Scatenando ripercussioni a domino sututto il sistema territoriale.

Ma, su un altro versante della questione demica, ladenatalità che coinvolge la società italiana – e che inEmilia conosce punte estreme – comporta una crisi delricambio sociale che sottrae alle imprese risorse uma-ne. E mentre le aziende premono per garantirsi unmercato del lavoro che copra le carenze e mantengaduttilità, dall’altra la società e le istituzioni non sonopronte all’accoglienza.

Anche su questo fronte ci troviamo davanti a unmutamento di natura complessa. Che costringe a farei conti, a cascata, con una serie di conseguenze checoinvolgono prima di tutto il welfare e tutto ciò che èconnesso con sanità, formazione, assistenza. Che im-plica trasformazioni nella costellazione sociale, ma an-che nella riorganizzazione funzionale e morfologicadelle città, che sempre più si colorano di fisionomie le-gate al rimescolamento di culture e stili di vita.

Un processo di risemantizzazione che ridisegnacon significati e comportamenti altri i sistemi locali.Ma che spesso, alterando il senso delle combinazioni

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precedenti, viene a collidere con le identità pregresse.Che, messe in difficoltà su più fronti, scelgono comenemico il più debole, creando barriere difensive e osti-li.

Il sistema locale territoriale si trova così a fare iconti non solo con lo sgretolamento della società au-toctona, ma con l’emergere di comunità altre, più sal-de e coese di quella d’accoglienza, che non sa ancoracomprendere e tanto meno integrare.

Reti, capitale sociale, plusvalore territoriale

Le interpretazioni più recenti dei sistemi locali ter-ritoriali assegnano grande enfasi ai temi della coesionee correlazione sociale, indicandola come elementoprogettuale per lo sviluppo – e anche questo lavoro siinscrive in questo filone. Ma temo arriviamo in ritardo.A descrivere, a posteriori, aspetti che sono stati fon-danti in fase postfordista, ma che appartengono aduna dimensione ormai scomparsa e difficilmente re-duplicabile se non su basi nuove. Sono infatti venutemeno le condizioni costitutive. Prima la crisi di con-senso degli anni ’70, poi la rivolta localistica del de-cennio successivo, infine la perdita di credibilità deipartiti e la disistima nei confronti della politica hannominato le basi dei collanti ideali che saldavano i grup-pi. E che consentivano ai diversi schieramenti di cre-scere sulla dialettica, confrontandosi sui valori e nonsullo scambio.

Le delusioni epocali sulle grandi ideologie, e il ri-getto che ne è derivato, non solo hanno demolito leaggregazioni partitiche tradizionali, ma prodotto ungenerale senso di non appartenenza e indifferenza incui è prevalso il sentimento di delusione che attraver-sa tuttora larghe fasce della società. E spiega la rinun-cia alla partecipazione.

Complice una sinistra che non ha saputo ricono-scere i cambiamenti che la società attraversava, le nuo-ve figure che emergevano, i bisogni; e le domande dilegittimazione che scaturivano dal ricambio dei sog-

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getti sociali. E non è stata in grado di sostituire alleideologie rinnegate analisi che delineassero il nuovoquadro dei rapporti e indicassero direzioni verso cuiorientare le politiche. Anche la sinistra è caduta nel-l’abbaglio del liberismo, dell’individualismo, e si èmessa a rincorrere le sue utopie sullo stesso terreno digioco. Una gara impari, oltre che innaturale, che nonha prodotto neppure quell’allargamento del consensoa cui puntava; e anzi allontanato la base sociale che erastata culla del suo radicamento.

Ma se la ‘pace sociale’, formula inventata in quellaboratorio istituzionale che è stata l’Emilia degli anni’50 e ’60, era il prodotto (compromissorio e cooptati-vo, come vedremo, ma sicuramente efficace sotto mol-ti profili) della dialettica locale ed esprimeva i mo-menti alti del confronto civile, la consensualizzazioneodierna appiattisce il tono del dialogo a strumentalemediazione di interessi. Ne deriva indifferenza e insof-ferente rigetto alla partecipazione, vissuta come inin-fluente su vicende determinate da logiche economi-che e di potere non controllabili da parte dei cittadini.Ne consegue perciò la dissoluzione del senso di appar-tenenza a una collettività agente e in grado di autode-terminarsi.

Personalmente ho molti dubbi che nuove reti in-ventate attorno a un tavolo potranno riprodurre i ri-sultati di convivenza e mutualità che hanno portato aidentificare la maglia delle relazioni come capitale so-ciale in grado di incrementare il plusvalore territoria-le. A meno che non assegniamo a questi termini signi-ficato contabile – come mi sembra avvenga in molti‘progetti’ locali. Casi in cui prevale il risvolto econo-mico-competitivo e che non consentono di ragionaredi SLoT, ma semmai (ancora) di sistemi produttivi, dialleanze e partenariati strumentali, di cordate negozia-li in cui il territorio è inteso come mero contenitore enon come essenza del progetto. Credo sia indispensa-bile a questo riguardo analizzare i fini e le modalitàdell’agire e se le politiche messe in atto (e non solo di-chiarate) realizzino scopi comuni, capaci di porre in

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primo piano la collettività e le comunità che la com-pongono. A fondamento e ragione delle progettualità.

Sotto questo profilo il caso emiliano diventa parti-colarmente interessante; un’esperienza in grado di te-stare i parametri della nostra ricerca. Una situazione incui il dissolvimento delle reti fiduciarie – ideali e fami-listiche – e l’instabilità dello SLoT mostrano strettacorrelazione. Una atrofia graduale, avvenuta in tempie con modalità diversi del ciclo di vita dello SLoT, inparallelo con l’appiattirsi della politica a gestore dellacompetitività e alla rinuncia all’idea di territorio comepatrimonio comune. Questioni che spingono a rico-struire i vari stadi del processo, come si farà nella se-conda parte, e a tentare di rintracciare causalità e lineedi tendenza.

Politiche urbane e territoriali

Anche a proposito delle scelte di piano in campourbano e territoriale, più che in positivo si è costretti aragionare in negativo. Ovvero di assenza di politiche ur-banistiche e territoriali. Le dinamiche che hanno coin-volto città e regioni sono avvenute alla luce del più de-solante spontaneismo. Situazione che ha fatto la fortu-na di immobiliaristi e speculatori e prodotto danni ir-reversibili.

Quando, all’inizio degli anni ’80, le statistiche sul-la popolazione ufficializzarono che le città si stavanosvuotando, il più era fatto. Non si trattava di uno stadiomomentaneo, di corto respiro, che invertiva la ten-denza alla concentrazione. Prosegue tuttora, ma senzache le politiche urbane e regionali ne abbiano fattiva-mente preso atto. La dispersione insediativa è conti-nuata ininterrotta, urbanizzando e saturando il territo-rio senza soluzione di continuità. Un consumo di spa-zio che ha travolto le campagne e le ha fagocitate nel-l’ingorgo di un nomadismo perpetuo che rimescolasenza tregua i luoghi di residenza, li distanzia dai luo-ghi di lavoro, di formazione, dai servizi – anche i piùelementari. La popolazione fugge dal caos cittadino,

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ma diventa artefice della sua propagazione. I piccolicomuni si affannano a concedere licenze edilizie, a co-struire villette, a inventarsi falsi borghi antichi stile mu-lino bianco, ma poi lamentano l’estraneità dei nuoviresidenti. Che lì dormono e la domenica accendono ilbarbecue, ma non consumano, ne’ frequentano la co-munità locale. Cittadini trapiantati, estranei ai territo-ri, perenni migranti. Di giorno frenetici city user me-tropolitani, di notte incapsulati in residenze spurie aicontesti; come astronauti che attendono nel sonno dirituffarsi nell’unica dimensione dell’esistenza, il tem-po, che hanno deciso di frequentare.

Le politiche locali hanno registrato il fenomeno,inneggiato la morte della distanza e lasciato che ognimunicipio agisse in autonomia. Selve di palazzi in ver-ticale nelle aree di minor pregio destinate a chi dallacittà fugge a causa dei costi, villette a schiera per chivuole illudersi, ville plurifamiliari per chi ha maggioripossibilità economiche. Nessuna infrastruttura, nessunservizio, pubblico o privato che sia.

Nelle cinture periurbane intanto proliferano megacentri commerciali, calamite di mobilità e nuove agoràdello shopping e del consumo. Le cui localizzazioni,negli interstizi tra free-way, ottimizzate sulla circolazio-ne privata, rendono impensabile l’immissione di mez-zi di trasporto collettivo.

I piani regolatori calpestati da varianti che in sor-dina ne hanno ribaltato il senso. I vuoti urbani colma-ti da interventi di cattiva qualità pensati per il terziarioe per il mordi e fuggi della new economy. L’immobi-liarismo come vero attore della scena. I centri storici“liberalizzati” alle auto, deserti di popolazione residen-te se non per le fasce quaternarie ad altissimo reddito,colonizzati dalle catene dei grandi marchi globali,coinvolti in un processo di ri-gentrificazione continuo.Le città della finzione descritte da Augè, giochi di spec-chi e luci, ammiccamenti, immagine, marketing urba-no e territoriale. Come nei centri minori, in cui il re-cupero di sagre e tipicità paesane vampirizza le iden-tità culturali ad uso dei turisti domenicali. Manierismi

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estetizzanti e frivoli, in cui l’arte del decoro, l’immagi-ne edulcorata e civettuola, lo spettacolo, prevalgonosulla solidità degli impalchi.

La programmazione urbana e regionale, rinnegatacome vincolistica e prescrittiva a favore di concertazio-ni perequative che nascondono un sostanziale laissezfaire regolato dalla forza dei contraenti, che si con-fronta con un apparato amministrativo e decisionaleprivo di orientamenti, impantanato nella negoziazionee che, per darsi una ragion d’essere, si arrocca nei bu-rocratismi.

In compenso una selva di ‘progetti’ locali, aggan-ciati alle specificità più minute, finalizzati all’accapar-ramento di finanziamenti, frutto di cordate in cui l’i-dea di comunità territoriale è al tempo stesso alibi escenografia. In cui è estremamente complesso discer-nere le reali intenzionalità dall’uso strumentale. E chesono documento troppo ambiguo per valutare espres-sioni di territorialità. È sicuramente preferibile esami-nare le realizzazioni, che invece sono rare e compro-messe.

Rendimento istituzionale

Le istituzioni locali, succubi del consociativismo eprive di idee guida, stagnano nell’impasse. Un para-dosso apparente assegna loro, dopo le leggi di riordi-no, la revisione del Titolo V e la cosiddetta devolution,maggiori poteri, ma nello stesso tempo le ingrovigliain una maglia fittissima di procedure e vincoli. Una de-centralizzazione che ha condotto ad una forma di neo-centralismo localistico che ha trasformato le regioni inistituzioni di controllo amministrativo. Che insomma,anziché potere di governo, ha demandato alla perife-ria il carico della gestione dell’apparato dello stato.

Un processo che è rimasto nascosto nelle pieghedel successo localistico, ma che era leggibile già al mo-mento della istituzione delle regioni all’inizio degli an-ni ’70. Quando, in una situazione di forti squilibri ter-ritoriali e all’avvio di una crisi che era preludio del tra-

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collo del fordismo, le regioni vennero istituite comestrumento di mediazione dei conflitti tra centro e pe-riferia. In una fase in cui lo stato sociale era progetta-to come garante di ammortizzatori indispensabili allacrescita dei redditi e dei consumi. Un contratto socia-le che vedeva le regioni come cinghia di trasmissionein grado di recuperare il consenso perduto (Bonora,1984).

Alcune regioni sono riuscite, come per molti versil’Emilia, a spezzare i limiti angusti in cui erano stateconfinate. E, travalicando i compiti, a porsi come pro-tagoniste di innovazione istituzionale e concordia so-ciale. Quei risultati che Putman ha classificato come“rendimento istituzionale” (1985) e che hanno rap-presentato una delle condizioni del successo dell’eco-nomia locale.

E anche dopo, quando in piena transizione po-stfordista la statualità abbandona la propria fisionomiakeynesiana e abbraccia il neoliberismo, trova di nuovoun paracadute salvifico negli enti locali, a cui delegaretagli, austerità e conflitti. Si chiude così quella paren-tesi di relativa autonomia che si era poggiata sui disa-vanzi e che, se in molte situazioni aveva generato spre-co e malgoverno, in altre più virtuose aveva permessodi costituire le dotazioni su cui i sistemi territoriali ave-vano potuto svilupparsi. Fase in cui in Emilia la naturasociale e diffusa dell’intervento pubblico era riuscita aconiugare ragione morale e ragione economica, reci-procamente sorrette e protette dalla personalità politi-ca di una regione “diversa” e di un “modello” alterna-tivo, che piegava le esigenze economiche a quelle del-la collettività (di cui vedremo in ogni modo più avantile contraddizioni).

Un equilibrio fragile che tagli di bilancio, derego-lazione e adesione alle logiche manageriali neoliberi-ste hanno scardinato. Portando un generale smarri-mento di senso che percorre l’intera piramide dellastatualità, fino agli enti periferici che, nonostante i nu-merosi interventi legislativi tesi a rafforzarne fisiono-mia e poteri, attraversano una fase di logorante inde-

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terminatezza. Aumentati oneri e compiti, infittiti man-sionari e vincoli, gli enti locali sono entrati in una faseche non riesce a controbilanciare il burocratismo conefficaci pratiche. Una situazione di stallo che si tenta dicorreggere attraverso una logica efficientista che li im-magina gestiti come imprese – con il corollario di unridicolo linguaggio pseudoaziendale e manageriale.

Di fatto ci troviamo di fronte ad un panoramasfrangiato di situazioni, in cui è difficile individuare ti-pologie di comportamenti omologhi. Anche all’inter-no della medesima istituzione si constatano comporta-menti diversi e concorrenziali tra i vari uffici. Alcunicomuni, alcune provincie, alcune regioni, alcune dire-zioni, insomma singole realtà, continuano a muoversiin termini propositivi, più per effetto di attivismi indi-viduali che di scelte maturate collegialmente. L’abiuradella politica, e del senso dell’agire collettivo che vi eraimplicito, attribuendo ai decisori fisionomia soggettivi-stica, ha dato credito ai personalismi. Che non riscat-tano il quadro di difficoltà e di inefficienza in cui ver-sa il governo locale, confinato a ruolo di (inefficace)gestore dell’esistente.

Alla fine viene la tentazione di chiedersi quale ruo-lo abbia giocato il disavanzo sul buon rendimento isti-tuzionale. E se davvero vi sia stata capacità di scegliere.Oppure se il deficit spending e la distribuzione a pioggia,generosa e sprecona, di risorse pubbliche non sianostati i veri artefici dei successi locali.

Dov’è finita, altrimenti, la capacità di scegliere, diprogettare. È morta assieme alla politica? Assieme alleidealità e alle consonanze di vedute che tenevano uni-ti i gruppi sociali? Oppure è stata il risultato di equili-bri fragilissimi, pressoché casuali e dunque irriprodu-cibili?

Sostenibilità umana

La logica neoliberale di un’economia spontanea eacefala, cieca di preoccupazioni ecologiche e della per-cezione del rischio per le generazioni future, sta mo-

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strando tutti i propri limiti e, come un boomerang, sista ritorcendo sulle basi economiche, demolendo i pa-trimoni territoriali su cui sono edificate.

Il tema della sostenibilità è un altro capitolo do-lente. Un contenitore passe-partout che conosce unagamma di interpretazioni pressoché infinite e dunquetra i più ambigui. Utilizzato da chiunque, ormai è di-ventato un ingrediente indispensabile per arricchirela retorica dei progetti locali e coprire, con l’ombrel-lo di una terminologia politically correct, la totale indif-ferenza.

Sulla prassi dei grandi eventi o delle grandi emer-genze che connota le politiche del territorio domina lamancanza di memoria e più che tutto la mancanza diorizzonti. La durata dei progetti non ha scadenza piùlunga dei mandati elettorali, sicché i problemi di lun-ga durata scompaiono dalle visuali dei decisori.

Il tema della salvaguardia ambientale, e più in ge-nerale della vivibilità e della qualità del vivere, vengo-no ricondotti a riferimenti valoriali che non partonodagli uomini e dalle loro esigenze vitali ed esistenziali,ma rovesciano la prospettiva e ragionano a partire dal-l’attrattività.

Una piegatura dell’idea di sostenibilità che scorgesolo il versante economico e confonde aspettative dicrescita quantitativa e aspirazioni allo sviluppo qualita-tivo. Ma la crescita esasperata finisce per erodere il ter-ritorio, per risucchiare le sue risorse senza concederetempi di ricostituzione. Un processo che coinvolge tut-te le componenti in gioco, ma che sul piano ambien-tale ha conseguenze particolarmente nefaste.

La città che si disperde nelle campagne, la conge-stione che si metropolizza, lo spazio abusato e consu-mato, la mobilità individuale liberalizzata, l’ammorba-mento dell’aria, l’inquinamento da rumori, lo sprecoenergetico, l’accumulo di rifiuti, l’incuria dei suoli, deicorsi d’acqua, dei sottosuoli, e via elencando.

Se ci fermassimo alla lettura dei documenti di pia-no, potremmo cadere nell’equivoco di ritenere i temidi natura ambientale al centro delle preoccupazioni

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dei governi locali. Senza accorgerci che in realtà le uni-che iniziative prese rispecchiano un copione teso a se-dare il dissenso. Rappresentazioni di grande efficaciacomunicativa, che coinvolgono gli spettatori pesandosulla quotidianità; e dunque non passano indifferenti– è evidente che penso alle limitazioni alla circolazio-ne e a tutto il disagio che esse comportano ai cittadini.Ma che non incidono sulle cause e assai poco influi-scono sugli effetti.

Mentre sulla salvaguardia dell’ambiente, la curadel territorio e dei suoi sedimenti potrebbero fondarsiprogetti centrati su una idea di sviluppo innovativoimperniato sulle tecnologie pulite e sul rispetto del-l’uomo.

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Parte IIL’Emilia “postcomunista”:

un sistema locale territoriale in declino?

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L’Emilia “postcomunista”:un sistema locale territoriale in declino?

Una rappresentazione incrinata

Abbiamo ragionato sinora sulla cornice concettua-le. Ora si tratta di applicare tali categorie e parametrialla specificità emiliana.

Abbiamo anche detto delle ragioni che mi hannoindotto a scegliere come campo di verifica l’interaregione Emilia-Romagna, le interpretazioni e le rap-presentazioni che dell’Emilia-Romagna si sono date –una letteratura copiosa che, se editata prima del 1996,è già riportata nella mia ricerca per la FondazioneAgnelli (Bonora, 1999).

Anche negli anni successivi l’immagine di unaEmilia coesa e ad alto rendimento istituzionale non hamolti detrattori. Tanto più che non si travasano all’e-sterno le (poche) voci critiche che mettono in luce lescrepolature del “modello”. Molta anche la letteraturalocale – grigia o apparentabile alla grigia, prodotta dal-le istituzioni, da loro direzioni, o sponsorizzata da asso-ciazioni categoriali, che si rivela molte volte retorica, ditono consolatorio, giustificativo e autocelebrativo. Èsolo negli anni più recenti che alcuni analisti hannocominciato ad interrogarsi sulle sorti del sistema terri-toriale. Una letteratura non foltissima a dire il vero e

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ancora poco nota al di fuori dell’Emilia, la cui imma-gine esterna risulta perciò ancora intatta.

Un dispositivo semiotico, l’Emilia-rossa-coesa-efficien-te, che ha rappresentato un fenomeno culturale parti-colarmente complesso, al cui interno hanno agitoragioni anche dicotomiche, che sono riuscite tuttavia acomporsi entro uno schema che ha consentito al siste-ma territoriale locale di consolidare la propria perso-nalità. Una formula di tale successo che, come scrivePatrizio Bianchi, è arrivata a “marmorizzarsi”. Chedirei abbia trovato momento di massima acclarazionenazionale con il governo Prodi, in buona parte com-posto da emiliani e per molti versi ispirato da soluzio-ni istituzionali scaturite dal “modello emiliano”.

Ma quando nel ’99, per la prima volta, il centro-destra conquista il comune di Bologna (mentre l’ana-loga sorte di Parma era rimasta in sordina), si scoper-chia una situazione latente. Nella cittadella rossa saltad’un tratto l’illusione della coesione e della concordia.Rimane, intesa come eredità della fase precedente, lareputazione di buona amministrazione e di sistemaeconomico solido.

Vacilla dunque uno dei presupposti del sistemalocale territoriale, la condivisione, che aveva operatocon singolare efficacia all’intera scala regionale. Ed èlecito chiedersi quali siano le sorti degli altri elementiche hanno connotato l’esperienza emiliana – buonaamministrazione e sistema economico solido – che,nella prospettiva di queste pagine, figurano come con-seguenza e non come principio di coesione. Ma ce neoccuperemo più avanti.

Un ciclo di vita esausto

A monte di questa riflessione, credo sia utile cer-care di capire, con sguardo retrospettivo, quale tipo dicoesione abbia caratterizzato l’Emilia-Romagna. Qualielementi si siano travasati nel sistema territoriale equali mostrino ora una allarmante flessione.

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L’EMILIA “POSTCOMUNISTA”: UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE IN DECLINO?

I segnali di maturità e stanchezza del sistema sonosempre più evidenti. Un esito che affonda le proprieragioni nel processo costitutivo dello SLoT, le cui con-traddizioni oggi implodono nelle forme della disgre-gazione sociale, della ripolarizzazione e dell’instabilitàdel posizionamento.

Ma è necessario chiarire a quale tipo di coesione inquesto caso intendo fare riferimento. Anche l’UnioneEuropea, quando indica la “strategia sociale” comemetodica di governo, suggerisce percorsi di sviluppopoggiati sul valore della coesione. Ma sollecita aggre-gazioni ben diverse da quelle di natura ideale o ideo-logica, come più piace, che aveva analizzato Trigilia(1986). Sono molto più simili alle “comunità artificia-li” di cui parla Bonomi. Strumentali e confinate a pre-cisi obiettivi operativi. Benché il modello europeo dicollettività agente attinga a piene mani alle esperienzeitaliane, intese come risposta creativa e originale allacrisi della grande fabbrica fordista, si riferisce ad unarealtà paesana in cui la volontà del fare è riconducibi-le al “toyotismo familistico” (Bonora, 2001b) che haconnotato l’imprenditoria diffusa, più che alla volontàcomune che ha animato l’Emilia per una lunga fase.Dove i riferimenti valoriali che hanno impalcato lereti, sostanziato il capitale sociale e generato plusvalo-re territoriale, non sono state costruzioni artificiose,ma vivevano dentro i soggetti come impegno civile.

Quando infatti si ragiona di Emilia-Romagna sideve constatare che, per una certa fase, i legami socia-li hanno avuto una connotazione che trascendeva ladimensione funzionalistica ed era configurabile comeethos civile, come senso del collettivo (Bonora, 1997).Uno “sviluppo economico senza frattura sociale”,come lo definisce Patrizio Bianchi (1997), che avevaalla base un forte volontarismo e una intensa parteci-pazione militante. Un impegno rivolto alla collettivitàche, nella sua fase iniziale, pioniera, assomiglia più alproselitismo che a un accordo economico e che suquella componente di consapevole autodeterminazio-ne riesce a gettare le basi di uno sviluppo che per mol-

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ti anni presenta un discreto equilibrio. Un sistema cheoggi si scopre fragile, e cristallizzato in una forma diconsociativismo che, dimenticate le origini, ha sposta-to sul piano dell’efficientismo neoliberale ogni volontàd’azione.

Ma bisogna ripercorre a ritroso le prime fasi del-l’esperimento emiliano per comprendere il formarsidell’identità territoriale. Un patrimonio andato in ere-dità alle transizioni successive e che solo di recente,orfano delle matrici ideali, si scopre snaturato. Si trat-ta insomma di capire su quali elementi l’agire colletti-vo emiliano si sia fondato, quando e per quali ragionila coesione sia andata in crisi e quali ne siano le con-seguenze sul sistema locale territoriale.

Un mélange di forme di regolazione

Una “stilizzazione” – è ancora Bianchi che com-menta il “modello” emiliano – che non ha tenuto con-to delle diversità interne. O che, anche quando ne èconsapevole, le vede come tasselli integrati di untutt’uno che sa agire in consonanza. Un “mélange”insomma – come lo definivo nella ricerca per la Fon-dazione Agnelli per sottolineare il caleidoscopio inter-no – in cui le diverse sfaccettature della realtà si com-ponevano con una certa armonia. Sia sul piano terri-toriale, sia sul versante delle forme di regolazione(Cossentino, 1997). Che in Emilia-Romagna sono statemolteplici, diverse fase per fase, situazione per situa-zione, ma sono riuscite a combinarsi in un prodottooriginale che per lungo tempo è riuscito a comporre ledivergenze.

Se infatti andiamo a guardare dentro la realtà emi-liana, come ha fatto Seravalli (1999) che ha confronta-to le forme di regolazione parmense e modenese, tro-viamo situazioni fortemente differenziate. Il modelloparmense si rivela a impronta gerarchica, oligarchica,guidato dalla borghesia industriale, che qui è legataalle grandi aziende. Le piccole imprese in quest’area

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L’EMILIA “POSTCOMUNISTA”: UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE IN DECLINO?

sono confinate in ruolo subordinato, non raccolte inaree di specializzazione, sconosciuto il fenomenodistrettuale. Le istituzioni in questo caso – e lo confer-ma anche il II Rapporto di ricerca IpL (2003) – hannostoricamente rivestito un ruolo morbido di accompa-gnamento, subalterno alle volontà e decisionalità dellagrande imprenditoria locale. Che tuttora le tiene almargine del processo decisionale. A Modena inveceSeravalli vede un sistema pluralistico e maggiore con-certazione a tutto campo sotto la guida del soggettopubblico.

Una diversità tra le “architetture istituzionali” cheporta Seravalli a conseguire non solo che “hanno diver-samente condizionato la disponibilità di risorse localispecifiche e sono quindi alla base di diversi modelli diorganizzazione industriale”, ma che “mettono in dub-bio l’esistenza storica di un modello emiliano”.

Un’affermazione che va contestualizzata all’inter-no dell’ormai antico dibattito, tutto emiliano, sulla“diversità positiva” del modo di sviluppo e incrina lavisione che si è accreditata fuori dall’Emilia.

Mette in luce d’altro canto la compresenza di siste-mi di regolazione tra loro assai diversi, sia sotto il pro-filo diacronico che territoriale. Che si sono esplicati informe diverse, manifestando, di volta in volta, aspetticonflittuali, collaborativi, autoritativi, cooptativi, pater-nalistici, compromissori. Sui quali ha prevalso unalogica, per molti versi granitica, che è riuscita a pro-durre una combinazione originale tra le diverse formeregolative e le ha compattate in una direzione comuneche ha lasciato segni positivi sull’organizzazione delterritorio e della società. Un disegno perseguito contutte le forze, anche in maniera contraddittoria, che inalcune fasi riesce ad essere lungimirante e a progetta-re una miscela di elementi di grande efficacia. Cherispecchia il sogno della sinistra di un mondo diversoma che, assieme ad essa, si sgretola mano a mano chevanno in crisi i principi ideali che l’avevano alimenta-to. Lasciando un vuoto non colmato che ora minacciala stabilità del sistema territoriale.

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Un meccanismo forte e determinato che è riuscitoa intrecciare economia di mercato e redistribuzionedei redditi, diffondendo sul sistema locale un benesse-re che ha rafforzato circolarmente consenso e coesio-ne, che sono perdurati anche quando ormai eranovenute meno le ispirazioni di fondo.

Diversità degli impalchi regolativi che si rispecchia-no nelle differenziazioni territoriali. Un mélange di spe-cializzazioni monoproduttive e di diffusione imprendi-toriale, ma anche di relative perifericità (Bonora, 1997).Realtà subregionali dotate di autonoma fisionomia e dirango equilibrato che si sono autorappresentate nel“sistema territoriale policentrico” (Bianchi, 1997).

Le istituzioni in questo quadro hanno giocato unruolo stabilizzante che ha permesso il consolidamentodelle basi produttive e nello stesso tempo la costruzio-ne sociale di un sistema territoriale di scala regionaleche, anche quando si sarebbero allentati i legami del-le idee, avrebbe preservato per lungo tempo le reti del-la fiducia. Insomma un percorso che, scaturito da unpreciso disegno e dalla sua forza aggregante, ha finitoper travasarsi nella collettività. Educandola alla colla-borazione e trasformandola in quella che oggi repu-tiamo una forma di capitale e di plusvalore.

Una costruzione che aveva al fondo un volontari-smo oggi difficilmente riproducibile. Poggiato su unavisione dialettica della storia e del conflitto sociale chericonosceva identità agli attori anche quando antago-nisti e li cooptava all’interno del processo decisionale.Che riusciva a mediare, forzare, persuadere, coinvol-gere, sostituendo lo scontro con la mediazione, sottol’egida e l’egemonia del partito comunista. Una misce-la che, seppure attraverso aggiustamenti continuianche di natura contraddittoria, riusciva a esprimereuna capacità di governo autorevole e stabile.

Una saldezza tuttavia che, logorata la matrice idea-le che ne era stata il motore, ha finito per tradursi indirigismo e rigidità istituzionale, che oggi ingessanol’apparato decisionale. Il partito dei lavoratori si è allafine reincarnato nel partito degli amministratori.

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Emiliani orfani del Pci? Dopo tante critiche al‘centralismo democratico’, ne rimpiangiamo la forzaaggregativa? Credo valga la pena a questo punto cer-care di capire la genesi del mito emiliano e le correla-zioni tra dispositivo semiotico e territorialità.

La costruzione del mito

La personalità territoriale emiliana si forma nel pri-mo ventennio del dopoguerra come espressione di anta-gonismo, di convinta autodeterminazione. Poggia su unadiversità politica che, sconfitta a livello nazionale, vuoleradicarsi nei propri territori e competere sul piano dellaequità sociale coniugata a “buona amministrazione”. Sidelinea dunque da subito la curvatura amministrativistaed efficientista che, esasperata dopo la crisi politica, por-terà al vuoto formalismo attuale. Una contraddizioneimplicita all’ambiguità che la sinistra emiliana non hamai sciolta tra governo e gestione e che l’ha portata aconfondere l’efficacia con l’autodeterminazione.

Un antagonismo che nella prima fase punta suicomuni, recuperando la tradizione del socialismomunicipale e piegandolo a un uso “di classe”(Balzani,1997). Dal 1946 il partito comunista è il primo partitodell’Emilia-Romagna e controlla tutti gli enti locali.Un municipalismo “forzato” che tuttavia ha l’intelli-genza politica di cooptare la migliore borghesia locale,coinvolgendola nel processo decisionale. Anni di diffi-cile mediazione tra la base comunista, che ragionaancora in termini resistenziali, e che con grande faticaviene tenuta a freno, e il centralismo della direzioneromana del partito che non vede di buon occhio l’e-sperimento riformista emiliano. Nonostante le paroledi Togliatti che, nel ’56, propone la “via italiana alsocialismo” e indica l’alleanza con i ceti medi realizza-ta nell’Emilia rossa come esempio di “rinnovamentonella continuità” (Fanti e Ferri, 2001).

Una proposta politica che soffre di laceranti ambi-guità di fondo. Che tenta di allargare il consenso cer-

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cando di tenere assieme mito sovietico e nuove formedi collaborazione interclassista. Un atteggiamento chelegittima la duplicità di sentimenti dei comunisti emi-liani, al cui interno convivono l’anima sovversiva e lariformista. Quest’ultima che già dagli anni ’40 coltiva,come antidoto a svolte reazionarie, l’idea di un “nuovocorso” teso a favorire “alleanze strategiche” e apertureliberiste (Brusco e Pezzini, 1991).

Diversità interne che tuttavia compongono unaggregato politico che mostra all’esterno straordinariacompattezza e unità d’intenti. Un monolite poco per-meabile che agisce all’unisono e radica, per differenzacon il resto del paese e la maggioranza democristianache lo governa, l’identità rossa dell’intero territorioregionale.

Ma che coltiva anche errori di valutazione chepeseranno nei decenni successivi. In particolare sulpiano dell’analisi economica, quando giudica, mante-nendosi fedele alla interpretazione togliattiana, lastruttura delle piccole e medie imprese una formaalternativa al grande capitale, implicitamente e assio-maticamente democratica e pluralista. Una lettura cherimarrà cara alle direzioni emiliane del partito per lun-go tempo, anche quando, negli anni ’70, ne verrannodenunciate le palesi contraddizioni (Rinaldi, 1992).

Il primo sindaco di Bologna del dopoguerra, Doz-za, idolatrato ed emulato persino dall’amministrazionedi centro-destra, governa Bologna fino al ’66 con unospirito progressista che lo porta da una parte a coopta-re la buona società illuminata e dall’altra a creare orga-nismi di partecipazione popolare che diventerannomodello istituzionale.

Una fase in cui “buon governo” si traduce nellacapacità di prefigurare il futuro, di fare scelte in gradodi modellarlo, pur mantenendo pareggio di bilancio.Mentre dalla metà degli anni ’60 prevale, anche inEmilia come nel resto del paese, la politica economicabasata sul deficit spending. Rivolta, nella prima fase dicrescita, agli investimenti infrastrutturali e, negli annisuccessivi, quando la crisi comincia a manifestarsi, agli

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ammortizzatori anticongiunturali di impronta keyne-siana. Manovre che – non dimentichiamo la coeva isti-tuzione delle regioni e la logica che vi è sottesa – dele-gano alle periferie l’incapacità dello stato di controlla-re gli squilibri territoriali e i conflitti sociali. Ma decen-trano anche una sorta di euforica filosofia degli incen-tivi pubblici che, pur senza adeguate coperture finan-ziarie e fiscali (ma il problema esploderà più avanti),divarica i destini delle regioni e consente alle più lun-gimiranti di progettare le basi della crescita economi-ca.

Nel ’56 oltre un quinto dei residenti in provinciadi Bologna è iscritto al partito comunista, organizzatoin 286 sezioni. Un’organizzazione capillare della mili-tanza non dissimile da quella del resto della regione,che crea una rete di fratellanza solida ed efficiente. Acui si aggiunge la maglia della cooperazione che, inuna alleanza stretta con le amministrazioni locali,diviene il referente privilegiato dell’operatività.

Il “partito” è al centro dell’organizzazione dellasocietà e dell’economia (Magagnoli, 2003). Un impal-co del potere locale che è poggiato su un sentimentodi appartenenza che si presenta granitico, escludente,finalizzato alla ‘causa’. Che in Emilia, sconfitte e mar-ginalizzate le componenti interne più radicali, è il pre-stigio e l’orgoglio della diversità. La dimostrazionedelle qualità e dell’efficienza della sinistra nel buongoverno e la presunzione di operare all’interno delmeccanismo capitalistico e del mercato secondo pro-spettiva sociale classista. Un risvolto dirigista che èperdurato a lungo ma che, spogliato dei riferimentivaloriali che ne erano l’anima e trasmutato in pigliomanageriale neoliberista, ha piegato il volontarismomilitante ad una macchina amministrativa farraginosae lenta che non riesce più ad essere efficace.

Esito di una concezione della politica che si è viavia isterilita, ha rinunciato alla diversità, all’autodeter-minazione e ai legami ideali che ne erano il nerbo, perabbracciare acriticamente il piano della competizioneliberale.

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Ma nel primo ventennio del dopoguerra l’energiacon cui la sinistra persegue l’idea dello sviluppo alter-nativo determina una sorta di “patriottismo emiliano”che costruisce il senso di appartenenza territoriale cheaccomuna l’intera popolazione, al di là dei ceti e deglischieramenti. Si concretizza insomma un modello diciviltà, fondato sul compromesso socialdemocratico tragli attori, che si presenta del tutto originale e che, sul-la forza delle idee, l’esercizio del potere e la lungimi-ranza delle pratiche, riesce a convivere anche con gliopposti.

Un “modello” che in realtà non si è realizzato neitermini teorizzati, ma che è parso a tal punto credibi-le, gli antagonisti anch’essi cooptati nella sua realizza-zione, da concretizzare, sul piano dell’immagine e delconsenso, l’idealtipo di regione rossa, paradigma diuna economia diffusiva fondata su una società pacifi-cata, pluralista e solidale. Una rappresentazione in cuigli spunti di socialdemocrazia vengono confusi, perverosimiglianza, con gli ideali socialisti e comunisti cheli hanno ispirati. E che, nonostante le contraddizioni,consolida un dispositivo semiotico che si autoalimentae manterrà efficacia anche negli anni successivi.

Gli elementi di veridicità non mancano. Gli espe-rimenti di partecipazione popolare – prima i consiglicomunali tributari e le consulte popolari, poi, nel ’62,i consigli di quartiere – rappresentano anticipazionicui la normativa nazionale è stata debitrice. Indicatoridel coinvolgimento sociale che ha contribuito al climadi fiducia e di collaborazione.

Ma non mancano neppure elementi di falsificazio-ne. Contraddizioni che esploderanno, a partire dall’i-nizio degli anni ’70, nella critica – anche violenta nel-le giornate bolognesi del marzo ’77 – ad una costru-zione politica che, se da un canto mostra un’immaginepubblica di pluralismo, dall’altra preferisce ignorareche il sistema produttivo è in larga misura subalternoalle grandi aziende del capitalismo nazionale. Che inEmilia cercano risposta alla crisi del fordismo giocan-do sulla duttilità del tessuto molecolare.

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Dalla frattura del ’77 alla crisi del “modello”

Il 1977 rappresenta un momento di svolta. Nonsolo a causa delle giornate del marzo, e di una fase vis-suta all’insegna della protesta, o perché da quell’annoil consenso elettorale del partito comunista, che sino aquel momento non aveva conosciuto flessioni, comin-cia a calare per non arrestarsi. Ma è da qui che, messea nudo le antinomie, si rivela impraticabile la “via ita-liana al socialismo” e si evidenzia la contraddizioneimplicita alla formula “partito di lotta e di governo”. Siavvia insomma un processo lungo e tormentato chescalfisce le basi su cui l’identità emiliana si era costrui-ta e che assieme al partito comunista vede appannarsianche la personalità del sistema territoriale che sullasua capacità di ideazione e aggregazione si era costrui-ta.

Segnali non erano mancati. Alcune componentidel sindacato dei metalmeccanici, all’inizio degli anni’70, denunciano la catena di subfornitura che imbri-glia le piccole e piccolissime imprese emiliano-roma-gnole e le rende suddite delle grandi imprese nazio-nali (prima fra tutte la Fiat) che hanno avviato il pro-cesso di esternalizzazione e decentramento. Che inEmilia delegano la componentistica. Alla ricerca disalari più bassi, lavoro nero e domiciliare, duttilità. E diuna linea di fuga al controllo sindacale che nelle gran-di fabbriche si è fatto vincolante. Denunciano insom-ma il decentramento come manovra congiunturale delgrande capitale e la dipendenza delle imprese minoriemiliane da un ciclo del tutto esogeno e instabile. Esegnalano le ricadute sulla società locale, stretta entroun meccanismo che, pur potendo poggiare sul welfareper una serie di garanzie, subisce i ricatti di un merca-to del lavoro che nella microimprenditoria è total-mente deregolato.

Un quadro che si configura ben diverso dallo sce-nario togliattiano, che assegnava alle piccole impreseuna valenza politica alternativa al modello capitalistico“oligarchico e monopolista”, ma che le dirigenze emi-

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liane continuano a coltivare, illudendosi di allevare un“ceto medio produttivo” sensibile alle esigenze dellefasce subalterne e in grado di stringere alleanze inter-classiste. Ma la loro attenzione si concentra solo sulleaziende integrate verticalmente e produttrici di benifinali, di cui avviano il consolidamento, in chiave com-petitiva, attraverso incentivi e attrezzaggio territoriale(credito agevolato, infrastrutture, aree attrezzate). Unerrore di valutazione che ignora la subordinazione deltessuto sociale diffuso e le contraddizioni che le sonoimplicite. O che spera di riuscire a dominarle attraver-so le reti del consenso e la manovra del welfare. Non acaso il partito comunista, nel corso degli anni ’70, noninterviene sulle diversità di condizioni (salariali, disicurezza, di stabilità) dei dipendenti delle impreseminori o sulla diffusione del lavoro nero (Brusco ePezzini, 1991), intendendo implicitamente favorire ilrafforzamento delle presenze industriali in una logicadi contrapposizione con le aree della grande industriae di alleanza con i piccoli imprenditori.

E se è pur vero che il “modello emiliano”, formulalanciata in quegli anni con implicazioni ideologiche, sitradurrà più tardi, depurata da tali inclinazioni, inricetta economica, bisogna forse ringraziare una dina-mica congiunturale che favorisce i sistemi produttivilocali ed erogazioni pubbliche copiose, che in Emilia-Romagna vengono amministrate con finalità ammor-tizzatrici e consensuali. Non a caso è una metafora che,sino a che mantiene colorizzazione, nell’Emilia deglianni ’70 trova più contestazioni che plausi e che finiràper accreditarsi a livello nazionale e internazionalesolo nel decennio successivo assieme al paradigma del-la distrettualizzazione flessibile. E dunque assieme aun’interpretazione di natura squisitamente economi-ca, attenta ai soli risvolti specialistici e produttivistici,che rinuncia alla caratura sociale e territoriale.

Ma le aporie latenti nel “modello” emiliano diven-tano da questa fase sempre più profonde e credo pos-sano essere sintetizzate nell’equivoco tra keynesismo esocialismo. Gli “elementi di socialismo” che il partito

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comunista si illude di immettere nel sistema territoria-le rispecchiano infatti una concezione dello statosociale che risponde alle regole della manovra redi-stributiva che si avvia congiuntamente nell’Italia dellacrisi fordista, e che in Emilia si colora di pluralismo.Forme di capitale incorporato nella società e nel terri-torio che, assieme a saldo government, alla organizza-zione consensuale e alla capacità di accumulazioneflessibile implicita alla duttilità del sistema produttivo,rappresentano le basi dello sviluppo e avvalorano la“diversità positiva”. Anche perché riescono a diffonde-re un benessere prima sconosciuto e buoni livelli diqualità della vita. E tuttavia se la “positività” si rivelaveridica sotto il profilo della crescita economica, la“diversità” scolora sempre più e intacca i legami cheerano fondamento del clima fiduciario e dell’anticodesiderio di autodeterminazione antagonista.

Ciò che esplode, anche con veemenza nel ’77 enon viene percepito, è la scollatura tra cultura di sini-stra e rappresentatività sociale. Miopia che perdura. Ametà degli anni ’70 la crisi del fordismo sta mutando lasocietà, la sua composizione e collocazione. Ma la sini-stra non coglie il cambiamento. Vede la “transizione”,ma non si accorge dei suoi effetti di frantumazionesociale. Si irrigidisce dapprima nell’alleanza con le figu-re tradizionali e non avverte che decentramento e fles-sibilizzazione stanno trasformando il sistema locale infabbrica sociale, con nuovi soggetti e professionalità.Un processo che disgrega la vecchia struttura classista efa emergere, accanto ai ceti rampanti del postfordismo,nuove figure deboli prive di rappresentatività e tutele.Non si accorge che la transizione postfordista intacca levecchie aggregazioni solidaristiche e polverizza lasocietà e che si stanno sfaldando le coesioni e coalizio-ni su cui il sistema locale poggiava. O forse continua aritenere di avere la forza di controllare e mediare il pas-saggio attraverso il consociativismo. Un esito di cui l’ar-roccamento nel partito degli amministratori è diventa-to espressione. Privo di base sociale reale, di soggettipolitici di riferimento e quindi di progetto.

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Il mito però ha continuato a tenere fin quasi allafine degli anni ’90. Irrobustito dall’ammirazione inter-nazionale. (Red Bologna, un libello scritto da giornalistisvizzeri e tradotto in inglese, diventa “il libro-guidadegli amministratori londinesi degli anni settanta”,scrive Sassoon, 1997). E da quando Putnam (1985)dichiara le istituzioni emiliane le migliori possibili e apiù alto rendimento, il caso Emilia-Romagna è al cen-tro di analisi e studi.

Un’immagine talmente schiacciante e univoca chela rivolta giovanile del ’77 è indirizzata prevalente-mente a questo dominio semiotico.

Una combinazione dunque davvero complessa.Un sottile equilibrio tra government e governance, traregole eteronome e volontà autoctone, tra spontanei-smo e progetto. Che ha portato frutti innegabili sulpiano economico, della redistribuzione dei vantaggidello sviluppo e dell’innovazione istituzionale, ma cheha generato fratture che ora sono diventate laceranti.Che ha retto per cinquant’anni, ma che, se non ven-gono individuate nuove sensibilità e nuove forme didemocrazia e partecipazione, sembra destinato a incri-narsi. Il nesso tra sviluppo e coesione è saltato e nonmi sembra ricucibile attraverso le procedure algebri-che della concertazione. Società e sistema produttivostanno attraversando una fase di ripolarizzazione chegerarchizza da una parte e frammenta dall’altra.

Una società disgregata e incerta

Da anni gli emiliani si sono fatti persuadere di vive-re in una società opulenta e sazia. Hanno indossatouna sorta di paraocchi e smesso di guardare. Non sisono accorti che aumentavano i lavavetri ai semafori,che i mendicanti agli angoli dei portici sono semprepiù numerosi, che se si alzano di buon mattino debbo-no scavalcare un homeless che dorme nei cartonidavanti al portone di casa. Segnali di una società che sipolarizza, in cui aumenta la divaricazione tra consumi-

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smo e pauperismo. E quando se ne sono accorti, nonlo hanno fatto con la preoccupazione etica che liavrebbe animati nel passato, ma con distacco. Manife-stando un aristocratico fastidio, non contro un model-lo di società dicotomico ed escludente, ma controcoloro che sono marginalizzati o si sono autoesclusi,incapaci di competere; e per i quali le politiche socialinon hanno saputo sinora trovare soluzioni. La societàè cambiata, la globalizzazione non è solo uno slogan eporta con sè fratture e contraddizioni, lusinghe e mar-ginalizzazioni. Ha scombinato le carte della società,generando figure nuove e cambiamenti che intaccanogli stili di vita tradizionali e le basi economiche deigruppi più instabili.

In Emilia-Romagna si è inceppata la correlazionetra capacità di accumulazione e riproduzione sociale(Cossentino, 2001). L’economia emiliana si è storica-mente fondata sulla famiglia e sulle reti di relazionefiduciaria che essa ha intessuto. Una forma di capitalesociale oggi estremamente vulnerabile. Sia sul versantedelle piccole e piccolissime imprese, la cui duttilità erain funzione della capacità di assorbimento familiaredei momenti di crisi. Sia sotto il profilo delle impresepiù grandi, che in Emilia hanno avuto connotazionesquisitamente domestica e che oggi scontano l’allonta-namento delle giovani generazioni. Con le conseguen-ti carenze nell’autofinanziamento e cessioni aziendali.

Una questione che si complica se andiamo a guar-dare i trend demici. La quota di popolazione anzianaè sempre più alta, mentre il tasso di natalità è tra i piùbassi del mondo e porta di conseguenza cambiamentiche alterano radicalmente la struttura della popolazio-ne e configurano una piramide delle età quasi rove-sciata. È sempre più marcata la frantumazione familia-re a favore di persone che vivono sole, aumenta l’in-stabilità delle unioni matrimoniali ed è sempre più fre-quente il fenomeno delle famiglie di fatto (Barbagli,2000). Tutti elementi che mettono in tensione unmodello di organizzazione sociale che aveva coperto,attraverso la famiglia e le reti parentali, la gamma dei

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bisogni esistenziali. E che, abbinati ad un tasso di occu-pazione femminile tra i più elevati, rendono più dram-matico il depotenziamento del welfare. Fattori che siintrecciano allo sprawl urbano e alla diffusione “pulvi-scolare” della trama insediativa (Anderlini, 2000). Conle conseguenze di ulteriore frantumazione e dispersio-ne dei nuclei familiari di reciproco aiuto.

Un’involuzione demica che non garantisce ilricambio e, unita alle aspettative di promozione socia-le dei giovani autoctoni, crea problemi a un mercatodel lavoro già saturo. Che deve aprire alle correntiimmigratorie non comunitarie. Un ripopolamentomultietnico che in Emilia non sta dando (per ora) esi-ti xenofobi, ma sta mutando il volto e la natura dellasocietà locale, attraverso cambiamenti sottili che ridi-segnano la mappa sociale e riscrivono il territorio. Unprocesso di risemantizzazione non appariscente chetuttavia sta coinvolgendo a chiazze il territorio dellaregione.

Una cartografia sociale che si presenta complessa emagmatica, che ha visto incrinarsi e scomparire il tes-suto delle appartenenze e delle rappresentanze e nonha ancora trovato alternative. Una comunità ricca,beneducata, sorniona, che continua a vestire gli abitidel perbenismo e del conformismo, ma cela frattureindividualistiche, divaricazioni corporative e diversifi-cazioni polarizzanti. Iconicamente raffigurata dal bran-ding della Coop quando propone consumi di qualità emarketing dei valori. Affannata dalle ansie da metro-polizzazione e dal senso di insicurezza e insalubritàche ne deriva. Che percepisce drammaticamente ifenomeni di microcriminalità impliciti all’allentamen-to della vigilanza sociale e alla dispersione insediativa.Che lamenta il depotenziamento dei servizi e del wel-fare, ma non sa opporsi alla deregolazione, e fatica aintravedere sbocchi al vuoto di idee.

Una società che, sotto il profilo dei comportamen-ti, si presenta divaricata tra chi aderisce acriticamenteal laissez faire cercando di profittarne, nelle piccolevicende personali come nelle grandi questioni colletti-

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ve, e chi comincia invece a chiedere il ripristino diregole e riferimenti certi.

Al momento una babele di linguaggi diversi, tra-sversali, antideologici, che tuttavia mostrano comecomune denominatore la volontà di cambiamento e direcupero di autodeterminazione. Forme di partecipa-zione nate dal disagio, che esprimono innanzituttoinquietudine e rifiuto delle vecchie e compromessepratiche politiche, dell’attendismo che le ha ingessatee inaridite. Ma che dalla negazione stanno passandoalla proposta, alla ideazione di progetti in cui riemer-ge la prospettiva del futuro.

La rigerarchizzazione economica

Il paradigma delle economie distrettuali e dellosviluppo locale è in crisi. Tornano di moda le impresedi ampie dimensioni e le conseguenze implicite ad unadimensione che si sgancia dal territorio e assume con-notazioni transnazionali. Con questo non si vuolenegare che vi sia in atto una crisi più strutturale delmodello della piccola e media impresa, schiacciato daimeccanismi della competizione globale. Ma ad essa siaccompagna, e per molti versi la induce e approfondi-sce, una svalutazione della componente culturale,identitaria e territoriale che era stata matrice dello svi-luppo postfordista. Sembra insomma che, al di là dellessico, che continua a enfatizzare le competenze deiluoghi e il ruolo delle identità, in maniera contraddit-toria si proponga di liquidare al più presto questiorpelli del passato per assumere vesti più “moderne”.Una tensione che spinge verso forme economichegerarchiche spesso a forte dipendenza esogena. Unatransizione che mi è difficile classificare come auto-poiesi, perché di fatto rinnega l’essenza dei milieu espinge all’omologazione e alla subalternità a regoleimposte dall’esterno. Una visione che tenta di coniu-gare sincreticamente locale e globale e non si accorgedelle aporie nascoste in questo slogan.

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Il clima neoliberale ha tacitato le preoccupazioniche avevano promosso lo stato sociale e introdottoprospettive individualistiche. Che misconoscono, al dilà della retorica, il ruolo degli insiemi territoriali eriaffidano ai soggetti imprenditoriali ruolo da prota-gonisti. Non a caso sono scomparsi da tempo dal lin-guaggio economico, anche della sinistra, i temi delriequilibrio e della redistribuzione, per lasciare spazioalla nozione di eccellenza, con i suoi corollari di fulcriprivilegiati e di crescita puntiforme e diversificata.Vanno di moda insomma le velocità diverse, le geo-metrie variabili e l’ossimoro ingannevole che metteassieme cooperazione e competizione.

Un ribaltamento delle ottiche che prima ha tra-sformato il territorio in fabbrica, ne ha sussunto edesaurito le creatività, e che ora lo colonizza e trasformain preda di volontà esogene.

Un adeguamento alle visioni del capitalismo glo-bale che ha coinvolto anche l’Emilia-Romagna, che èpassata da un’impostazione che subordinava l’indu-strializzazione ai valori sociali a una che piega la col-lettività alle esigenze di una crescita senza regole e pro-tezioni (Garibaldo, 2001).

Di fatto, quando si va alla verifica empirica, si con-stata la rigerarchizzazione della struttura imprendito-riale emiliano-romagnola, la diminuzione delle piccolee piccolissime imprese contro il rafforzamento dellemedie. E diventa difficile misurare cause che vadano aldi là del generico affronto della competizione mondia-le e della fragilità endemica del localismo. Lasciandocosì fuori dal computo la serie di elementi che vannosotto l’etichetta di ammortizzatori sociali.

L’economia emiliana presenta in questa fase carat-teri contrapposti. Da una parte le eccellenze – assairare peraltro. Imprese che sono riuscite a globalizzar-si, attraverso strategie di acquisizioni, fusioni, incrocisocietari, capaci di innovazione, tese a internalizzare isegmenti a più alto valore aggiunto a monte e a valledel momento produttivo. Impegnate a esternalizzare edelocalizzare le mansioni manifatturiere. Aziende che

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coprono, o comunque controllano verticalmente, l’in-tero processo produttivo o che vi contribuiscono comeprotagoniste delle fasi ideative.

Sull’altro versante, più denso di presenze, stannoinvece le aziende che, nel corso degli anni ’90, attra-verso complesse procedure di riorganizzazione e sele-zione, hanno ceduto le redini del controllo (spessoassieme a un marchio che nel passato ha significatosuccesso commerciale) e si sono trasformate in mani-fatture, vincolate a direzioni esterne e a saperi localiesausti. Incapaci di innovazione di prodotto, sono sta-te inglobate nelle maglie di processi gestionali cheescludono la loro decisionalità e che ora, in una fase didisinvestimento da parte dei gruppi multinazionali,rischiano di venire espulse anche dai segmenti resi-duali. Una riconfigurazione che coinvolge settori cen-trali nell’economia emiliano-romagnola e in cui siincrociano elementi interni, che vanno dal mancatoricambio generazionale, alle carenze finanziarie, alvuoto progettuale, e ragioni esterne, che trascinano leimprese locali nella crisi internazionale. Il boomerangdella globalizzazione ha invertito la rotta e ripiombasui sistemi locali.

Infine al capo estremo della struttura imprendito-riale emiliano-romagnola, ma con quote di presenzepreponderanti, le attività artigianali e piccolo-impren-ditoriali, afflitte dai volti multiformi della crisi, prive diautonomia e condizionate in rapporti di subfornitura.

Un tessuto economico che, da almeno un decen-nio, si gerarchizza. Una situazione che, se guardassimoi dati astraendoli dai modelli interpretativi, non è radi-calmente distante dalla conformazione (flessibile) disempre, ma che sta perdendo il radicamento territo-riale e le protezioni che garantivano una discreta omo-geneità redistributiva. Una polarizzazione che si scari-ca sul sociale e che qui, diversamente da un tempo,diventa evidente nella divaricazione a forbice dei con-sumi e degli stili di vita.

Entrano così in crisi la fabbrica sociale che ha soste-nuto i meccanismi della specializzazione distrettuale e i

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sistemi locali territoriali che li avevano allevati. Si sonoincrinati i puntelli su cui l’organismo reggeva: la capa-cità di innovazione si è arenata e ora in molti casi è pilo-tata da logiche esogene; l’intelligenza distribuita nontrova eredi e in ogni modo è ancorata a competenze abasso valore aggiunto (quelle stesse offerte concorren-zialmente dalle aree di delocalizzazione); perduranolentezze nell’adeguare le basi formative delle cono-scenze; nelle imprese minori permane l’incapacità diorganizzare e controllare il ciclo del prodotto; le acqui-sizioni da parte di imprese extraregionali operate neglianni ’90 sono nuovamente a rischio di dimissione; il45% delle aziende emiliano-romagnole vive in base arapporti di subfornitura (dati 2001 Unioncamere-Isti-tuto Tagliacarne); i costi ambientali e sociali residuatinel territorio sono altissimi.

Il tutto all’interno di un quadro istituzionale chenon sembra più in grado di programmare modelli disviluppo innovativi. Una miscela di fattori che inceppail meccanismo di crescita e in cui la crisi di maturitàche già si intuiva nella seconda metà degli anni ’90 si ètrasformata in un processo insidioso di destabilizzazio-ne dell’intero sistema territoriale.

Compagni dai campi e dalle officine ai salotti del-la finanza

In Emilia ha sede quasi la metà delle cooperativeitaliane. Un fenomeno associativo singolare e partico-larmente interessante sotto il profilo culturale, cheaffonda le proprie origini tra fine Ottocento e primoNovecento e cresce in ragione di una società sangui-gna in cui impegno politico e vicenda umana si intrec-ciano indissolubilmente. In una “terra di associazioni”(Ridolfi, 1997) in cui, al di là del colore, prevale il sen-so del collettivo e della solidarietà.

Ma è forse l’ambito in cui con maggiore efficaciapuò essere testato il concetto di capitale sociale e leambiguità e contraddizioni che gli sono connaturate.

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Che spesso oggi lo fanno coincidere con un’idea arti-ficiosa e costruita della coalizione sociale che vi è sot-tesa, orientando questa nozione verso un significatoeconomico-funzionale e un’accezione strumentale del-le alleanze in grado di attivare azioni valorizzanti.

Il fenomeno cooperativo se da un canto mi sembrain grado di testimoniare, nelle speciali condizioni sto-riche e politiche che l’hanno generato, la positività delprincipio di coesione, dall’altro mi pare anche unesempio della sua progressiva sterilizzazione e dellaperdita delle connotazioni territoriali, di milieu, chedovrebbero invece stare alla base della nozione di capi-tale sociale.

La cooperazione “rossa”, ma è ormai tempo di tro-varle un attributivo meno nostalgico, è stata icona eparabola della capacità aggregante e partecipativa del-la sinistra. Del suo vigore morale nella fase antagonistae della sua resa omologante alla filosofia del mercatonei decenni successivi. Una svolta leggibile non tantosul piano esterno dell’inevitabile allineamento alleregole commerciali, ma sul piano interno delle rela-zioni di lavoro tra quelli che un tempo si considerava-no “soci” e vivevano intensamente la dimensione par-tecipativa – anche accettando, in nome del bene comu-ne e dell’identità collettiva, il volontaristico e militanteautosfruttamento. Ma che si sono poi gradatamentetrasformati in dipendenti, inseriti in una logica azien-dale dirigista e verticistica, senza che mutasse il mododi concepire la loro condizione di lavoro, che è rima-sta imbrigliata dentro le maglie ideologiche della vec-chia veste cooperativa anche quando non ne sussiste-vano più i requisiti – persino in deroga alle tutele sin-dacali (Non a caso la Lega delle Cooperative nel 2002ha firmato senza riserve il Patto per l’Italia propostodal governo di centro-destra, contro il parere del sin-dacato della sinistra).

La cooperazione ha rappresentato fino agli anni’60 una rete il cui principio ordinatore era la mutua-lità, con un ruolo preciso a difesa dei diritti e della qua-lità della vita delle classi lavoratrici. Ma a partire da

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quella fase la natura della cooperazione cambia. Siavvia infatti un processo di aziendalizzazione che vedela logica d’impresa affermarsi sulla filosofia sociale.

La cooperazione ha rappresentato in Emilia unintreccio di relazioni capillare. Prima nelle campagnee poi nelle città il simbolo della Lega delle cooperativesignificava lavoro, tutele, abitazioni, consumi calmiera-ti. E soprattutto senso di fratellanza, aiuto reciproco,comunanza. Una inverazione del concetto di comu-nità.

Un sentimento di appartenenza che coniugato, nelsecondo dopoguerra, alla rete del partito comunista ealla conquista dei governi locali, innerva e controlla ilterritorio regionale, e che, benchè per molti versiescludente e autoreferenziale, si travasa nella costru-zione sociale del territorio e marca l’identità rossa.

Le società cooperative operano in tutti campi ediventano uno dei principali referenti dell’economiaregionale, comprese le pratiche e gli appalti pubblici.Grazie a questo mercato protetto le cooperative salgo-no sul carro dello sviluppo e del boom economico.Crescono assieme al resto del paese e tuttavia manten-gono personalità e natura giuridica alternativa. Fonda-ta sulla partecipazione dei soci e su un principio diaccumulazione che prevede il reinvestimento degli uti-li, intesi come riserva indivisibile. Un requisito che,assieme alla raccolta del risparmio individuale attra-verso la formula del prestito sociale, garantisce l’auto-finanziamento e la relativa autonomia dai canali di cre-dito tradizionali.

Un meccanismo che, unito alla volontà di qualifi-carsi anche sul piano dell’efficienza economica, e dun-que a rendimenti intensivi del capitale umano, pone lebasi del successo economico della cooperazione.

Ma anche l’associazionismo rosso, assieme al mon-do comunista cui apparteneva, esaurita la carica anta-gonista del primo ventennio postbellico, gradatamenteabbraccia un nuovo stile, in cui la componente d’im-presa finisce per prevalere sull’economia sociale. Cam-biano i rapporti societari interni mentre le vecchie diri-

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genze onorifiche di matrice politica lasciano posto aimanager. Una svolta efficientista che riesce a cogliere leopportunità offerte da una fase in cui, con la creazionedella regione e l’avvio delle politiche di programmazio-ne, si moltiplicano i cantieri e le attività legate al welfa-re state. In un clima culturale che privilegia il sostegnoe le relazioni istituzionali con l’associazionismo – comerecita lo Statuto della regione. In un contesto in cui sirafforza l’alleanza e quel peculiare compromesso social-democratico tra i diversi attori della realtà locale.

Gli anni ’70 rappresentano una fase di accelerazio-ne dell’economia emiliana e insieme di svolta. Il voltosociale della cooperazione ne riassume le contraddizio-ni. La disaffezione alla matrice ideale diventa semprepiù evidente e, nel corso degli anni ’80 e ‘90, si concre-tizza nella progressiva omologazione alle leggi dell’eco-nomia neoliberista, depurata dei principi valoriali. Siavvia contemporaneamente un processo di riorganizza-zione che, attraverso accorpamenti, concentrazioni,fusioni, sposa l’economicità delle gestioni e mina lagaranzia del lavoro. E nel contempo introduce nuoveforme di regolazione dei rapporti societari che tolgonopeso alla partecipazione interna.

Un capovolgimento diametrale della filosofiamutualistica, che si trasforma in mera impresa e rinun-cia alle basi etiche – che permangono come etichetta,come branding pubblicitario. Ma che, spezzando i vin-coli solidaristici, rischia di mettere in crisi anche quelpatrimonio sociale fatto di relazioni privilegiate e fidu-cia che ne sono state fecondo incubatore. Non a casoil numero di cooperative rosse si è assottigliato e ben-chè la forza economica, i fatturati e la produttività dellavoro siano in costante aumento, la dipendenza dalleregole esogene del mercato si è fatta stringente.

Una considerazione che non rileva soltanto la scol-latura tra l’immagine che la cooperazione continua adare di sè e la realtà di una corporation perfettamenteintegrata nei meccanismi dell’economia mercantile,ma che vuole sottolineare i rischi dell’allontanamentodalla base sociale che l’ha nutrita.

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Le garanzie liberiste che Lega Coop si è cercatasono peraltro forti e ben posizionate, nel contestodegli schieramenti economici attuali. Unipol, dopol’acquisizione di una serie di società in crisi, è per fat-turati la quarta compagnia assicuratrice in Italia e si staproponendo come gruppo bancario. Ma più che tutto,attraverso una complessa articolazione di incroci azio-nari, governa una galassia di finanziarie dalle presenzecomposite, in prevalenza provenienti dalla cosiddettafinanza rossa, ma al cui interno compaiono anche con-sistenti capitali assai più spregiudicati.

Un tempo si sarebbe potuto ipotizzare la scalatafinanziaria di Unipol come risposta alla deterritorializ-zazione del credito, che in Emilia ha visto le banchelocali inglobate da grandi gruppi nazionali. Tuttavia,nella situazione attuale, temo che gli orizzonti dellaholding siano più remoti e puntino ad altri obiettivi. Unproblema per il sistema locale, ma anche uno scavalca-mento che rende la cooperazione sempre più sgancia-ta dalle sue matrici territoriali.

Un allontanamento dal milieu che atrofizza le rela-zioni fiduciarie che la cooperazione aveva costruito e larende un attore economico omologo agli altri. Salta cosìquel rapporto privilegiato che nel passato aveva consen-tito alla cooperazione e alle sue reti di capitale sociale disvolgere ruolo protagonista nella valorizzazione del ter-ritorio.

Dal pianismo al vuoto di strategie

Molto è stato scritto sulla capacità di innovazionenormativa e sulla scuola di urbanistica e pianificazioneregionale che si è sviluppata in Emilia-Romagna tra glianni ’60 e ’70. Una fase in cui l’Emilia ha rappresenta-to una palestra di sperimentazione istituzionale che inmolti casi è riuscita a travasarsi sul piano nazionale.Tuttavia, anche in questo ambito, un’attenzione trop-po benevola, edulcorata e reiterata senza acribia, haspesso preferito esaminare i successi glissando sulle

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lacune. Si è così sottaciuto lo iato, che diventa eviden-te dalla seconda metà degli anni ’80, tra una produ-zione normativa e di piano sovrabbondante e realizza-zioni modestissime. Se non addirittura contrastanti,nel caso dell’urbanistica, con indirizzi e vincoli dichia-rati e non osservati.

L’idea della programmazione, che in Italia si svi-luppa assieme alla concezione sociale dello stato e allamanovra di decentramento regionale, trova in Emilia imigliori sostenitori. Frutto della lunga mediazione chesi consuma a livello nazionale tra l’ipotesi keynesianadella “programmazione economica” e la prospettivacollettivista della “pianificazione” (Bonora, 1984), chein Emilia si ibrida in “programmazione democratica”.

Un progetto politico che il neonato istituto regio-nale persegue con determinazione, che rispecchia nel-lo stesso tempo la filosofia sociale che guida la sinistraal governo e un modello di regolazione a legalità for-male che riesce a orientare entro uno schema prede-terminato la multiformità di attori che la sinistra hachiamato a cogestire lo sviluppo. Insomma una corni-ce istituzionale per l’economia sociale di mercato chegli emiliani stanno realizzando, attenta ai diversi ver-santi del sistema territoriale e alle sue componenti.Una miscela di government e di una embrionale formadi governance in cui la programmazione rappresenta iltavolo degli impegni e delle mediazioni. Una versionedella governabilità che tuttavia ha caratteristiche diri-giste, top down, in cui la partecipazione è oligarchica,connessa al potere e alla forza degli attori, e la decisio-nalità promana gerarchicamente, passando attraversoil vaglio e le coordinate del partito egemone.

L’esperienza dei comprensori rientra in questavisione autoritativa, che non tiene conto delle comu-nità locali e tenta di aggregarle in costruzioni artificia-li di natura funzionalistica. Ma, vuoi perché i tempinon sono maturi per forme di gestione interistituzio-nale, vuoi perché i comprensori minano l’autonomiadei comuni e si contrappongono alle province, la lorovita è breve e di scarso significato. Un esperimento che

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non sedimenta se non, a volte, dove coincide con idistretti dell’industrializzazione, dove si radica solocome denominazione lessicografica in assenza di uncontenitore istituzionale appropriato o di una marca-tura territoriale identitaria.

Sin quasi alla fine degli anni ‘70 le scelte di pro-grammazione si orientano alla costruzione infrastrut-turale del territorio, con sguardo attento ai prerequisi-ti dell’industrializzazione, e, sul versante delle garanziedi flessibilità del mercato del lavoro, alla creazione deiservizi sociali in grado di liberare la componente fem-minile dagli oneri domestici (le scuole emiliane perl’infanzia per lungo tempo hanno vantato il primatodelle migliori e più diffuse).

Una fase che è stata definita “minimalista” in con-trapposizione a quella “manageriale” degli anni ’80,giudicata dagli analisti estremamente positiva (Leo-nardi e Nanetti, 1991). Un termine, il primo, che tut-tavia sembra sminuire il ruolo che gli enti locali hannorivestito nel porre i fondamenti dello sviluppo dei siste-mi produttivi. Pratiche che soffrivano le contraddizio-ni e gli errori di valutazione che abbiamo già ricorda-to, ma in ogni modo hanno creato le basi su cui l’eco-nomia emiliana si è sviluppata, ridistribuendo benes-sere e consenso. Una fase in cui il disegno politico siabbina ad una strategia di consolidamento del potereche sceglie la strada del collateralismo e della coopta-zione. Un connubio, ispirato da un basilare pragmati-smo, che trasforma lo spazio regionale in sistema terri-toriale.

A partire dagli anni ’80 il clima cambia e anche laprogrammazione regionale segue la corrente e assumequel tono manageriale che porterà alla sterilizzazionedella mediazione politica che fino a quel momentoaveva ispirato il governo della sinistra. Una fase che inEmilia è ricordata come quella in cui la guida dellaregione, indicata dalla direzione nazionale del Pci(che opera in questo modo precise opzioni politiche epersonali), passa ai modenesi. Si affievolisce in queglianni la matrice riformista e si avvia il graduale avvici-

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namento alle logiche liberiste. Cambia il linguaggio,che abbandona la retorica di partito, e sposa il nuovostile dell’efficientismo manageriale.

Il Piano Territoriale Regionale approvato nel 1990abdica dal ruolo regolativo e abbraccia l’idea di pro-grammazione come metaprogetto e come “processodecisionale da costruire valorizzando il protagonismo,il ruolo creativo e innovatore del soggetto privato”(Regione Emilia-Romagna, 1990). Una svolta che siriflette sull’analisi territoriale e sulle indicazioni che ilpiano prospetta, quando suggerisce di potenziare ilsistema metropolitano policentrico attraverso immis-sioni privilegiate in “centri ordinatori”. Il riequilibrioterritoriale e la redistribuzione sociale, che avevanoispirato le fasi precedenti, lasciano posto alla competi-tività territoriale (Franz, 2001).

Un’inclinazione che si accentua quando il piano,sette anni dopo, viene aggiornato. Il nuovo documen-to si fonda sulla nozione di eccellenza e su interventipuntiformi “per superare la logica della dotazione ter-ritoriale e assumere quella della competitività tra terri-tori” (Regione Emilia-Romagna, 1997). Un documen-to colto, aggiornato, in cui la società è “capitale socia-le”, l’identità da “prodotto naturale” viene progettatacome “prodotto artificiale”, il welfare deve “formareun mercato del lavoro più flessibile, elastico”, i servizipubblici debbono adeguarsi a logiche gestionali dimercato attraverso l’ingresso di capitali privati. Dapolitiche del territorio a forte originalità e autodeter-minazione, che avevano subordinato la crescita econo-mica allo sviluppo collettivo, si passa a una visione incui i correttivi sociali assumono il ruolo di un paesag-gio sfocato.

Quando si passa dal piano delle enunciazioni aquello delle pratiche, il quadro diventa ancor più com-promesso. La regione ha una copiosissima produzionecartacea di piani e progetti, ma una bassissima tradu-zione in operatività. Salvo nell’accaparramento di fon-di, ambito in cui detiene un primato che le deriva dal-la perdurante efficienza di (alcuni) settori dell’appa-

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rato amministrativo e dalla spregiudicatezza nella scel-ta dei partner privati.

Il vuoto regolativo e di progettualità ha finito pertrasformare la prassi amministrativa in burocratismo.Un esito paradossale nel clima liberista odierno, cheha abiurato i vincolismi, ma ha confinato la funzionedegli enti locali nel controllo delle procedure. Mamentre la rigidità del pianismo aveva prodotto la sal-vaguardia dei centri storici, l’edilizia popolare e la con-servazione dei beni culturali e paesaggistici, il buro-cratismo non fa che reduplicare se stesso in una pleto-ra di procedure che non recuperano il potere perdu-to, ma si limitano all’esercizio della verifica procedu-rale. Sicché l’iniziativa privata, e la sua capacità di pres-sione, finisce per prevalere. Mentre la logica dellavariante da eccezionale diventa la norma. Ciò cheallarma maggiormente oggi in Emilia-Romagna è l’as-senza di discussione sulla natura dello sviluppo. Il pro-blema, insomma, non è tecnico ma Politico, di demo-crazia, di attenzione sociale e civile.

La pianificazione urbana tradita: il caso Bologna

Progettare il futuro di una città e di una regionesignifica sempre anche riflettere sul passato. Partirecioè da quel processo incessante di trasformazioneche, anche quando si crede di non scegliere, imboccacomunque una direzione. L’Emilia si è assopita sulleglorie trascorse, abbandonata all’illusione che nullapotesse accadere su così solide basi consensuali e isti-tuzionali. Senza accorgersi che il clima cambiava. Chela società andava di corsa verso una trasformazione cheavrebbe ribaltato gli equilibri precedenti.

E così una regione, un tempo modello e icona del-la salvaguardia urbanistica e del governo del territorio,è gradatamente scivolata ad una condizione che ha fat-to della logica immobiliarista, della speculazione edili-zia e della congestione i propri marchi. Fenomeni chesi assommano al processo di metropolizzazione che

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coinvolge l’intero globo e che, privo di regolazioni ecorrettivi, ha degradato a tal punto il senso di comu-nità da declassare Bologna tra le città in cui gli abitan-ti si sentono più insicuri. Un ribaltamento di immagi-ne repentino, che rimanda ad una situazione comples-sa, stratificata nel tempo e che solo ora esplode.

Quando ci si mette a ragionare sulle vicende urba-nistiche di Bologna bisogna fare i conti anche con lacultura di sinistra. Sarebbe infatti miope esaminaresolo l’ultima gestione amministrativa di centro-destra,il cui ruolo in questa rappresentazione è, per ora, soloquello di aver esasperato meccanismi già avviati. Unprocesso che se da una parte, fino a metà degli anni’80, ha salvaguardato con acribia il centro storico epromosso una politica del recupero che ha fatto scuo-la, dall’altra ha lasciato dilagare la città senza freni esenza controlli di qualità. Già negli anni ’60, scrive PierLuigi Cervellati, “l’urbanistica è tema dominante nelleassemblee, nei dibattiti consiliari, nei riferimenti quo-tidiani. Tranne che nella pratica urbanistica, in cuiprevalgono le vecchie logiche e i mai sopiti affarismi”.Anche negli anni successivi, ai vincolismi che bloccanoil centro storico fa da contraltare “il furore costruttivo”e l’espansione incontrollata. “Il recupero della cittàstorica è ammesso se non sconfina dal suo rango cul-turale, se non invade la produzione di nuovo” (Cervel-lati, 1997).

Un meccanismo che si esaspera nell’ultimo quin-dicennio, nel silenzio-assenso di quella società civile difama progressista su cui l’Emilia ha costruito la pro-pria reputazione civica. Una fase in cui anche il cen-tro storico ha conosciuto una corsa all’edificazioneche, rigettati i valori della salvaguardia storica comeorpelli di un passato colorizzato e ideologico, ha col-mato ogni interstizio e cambiato destinazione a tessu-ti sino ad allora intatti. Senza preoccupazioni di qua-lità, né di rispetto ambientale.

Una sorta di ribellione ai vincolismi e alle tuteleprecedenti, sulle ali della rincorsa al liberismo e alladeregolazione che hanno ubriacato anche la sinistra.

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Un’ansia da modernizzazione che ha coinvolto l’interasocietà e in cui è gioco futile ormai andare a cercareprecise responsabilità partitiche o scappatoie giustifi-cative che ne alleggeriscano il peso. Sta di fatto, e soloquesto conta ormai, che il PRG della fine degli anni’80, a furia di varianti e aggiustamenti negoziali, si èconstatato strumento di degrado urbanistico anzichédi qualificazione (La Compagnia dei Celestini, 2001).E poco importa se ciò è avvenuto travisandolo, varian-dolo o alterando. Forse non era un buon piano sin dal-l’inizio, o forse non si è applicata la saggia regola delcontrollo.

Certo quando, in corso d’opera, si decide di cam-biare l’unità di misura e dal metro quadro lordo si pas-sa al metro quadro netto per il calcolo dell’edificabilitàe nessuno denuncia, si accorge, protesta – se non aposteriori – le interpretazioni possono essere due. Unappannamento da liberalizzazione tanto forte da sot-tostimare il dato. Oppure un abbassamento delle cau-tele che ha privilegiato aspettative di scambio tra pub-blico e privato che poi non sono state corrisposte (Oche non si ha avuto la forza e la volontà di esigere).

Non è un caso, direi, vista alla luce delle dinami-che urbanistiche, che la sinistra abbia perso il governodella propria città simbolo. Chi già di fatto ne decide-va le sorti ha preferito prendere direttamente le redi-ni, senza la mediazione di quel potere che, in altreepoche, aveva imposto regole e preoccupazioni.

Il PRG dell’85-89 e la sua applicazione diventanocosì la cartina di tornasole dell’intera vicenda bolo-gnese degli ultimi anni, dell’allentamento delle caute-le che, un tempo, se da una parte avevano imposto unasin troppo rigida macchina normativa, dall’altra aveva-no però garantito quell’impalco di regole che facevadell’Emilia-Romagna un modello di efficienza e diqualità del vivere.

La città dei costruttori ha cancellato la memoriastorica e preso il sopravvento. La popolazione fuggenei centri periferici alla ricerca di convenienze eco-nomiche e migliori qualità ambientali. Il processo di

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gentrificazione ha trasformato il centro storico inrifugio elitario delle classi quaternarie e vetrina dellusso provinciale. La città fisica ha riempito ogni vuo-to residuo all’interno dei confini comunali mentre lasua area funzionale e di gravitazione si dilata oltre gliambiti della provincia. Ma nessuno si preoccupa diorganizzare il territorio tenendo conto delle relazio-ni allargate di una città che sino a pochi anni addie-tro si rappresentava come crocevia.

Sicché Bologna ha perso l’immagine che la con-notava come luogo della buona qualità del vivere e del-l’abitare (Emblematico che la Repubblica, nelle paginenazionali, abbia dedicato al “tramonto della cittàmodello” un lungo articolo all’interno di una serie sul-la “brutta Italia”; Erbani, 2002).

La popolazione fugge il caos, l’inquinamento e icosti. Abbandona al terziario commerciale griffato ealla speculazione immobiliare. Si disperde in periferieprive di servizi, dalle quali quotidianamente generauna mobilità che soffoca anche le zone rurali. E men-tre l’ansia immobiliarista satura gli spazi e ne cambia lafisionomia, si perde quel tessuto così gelosamente con-servato nei decenni precedenti e l’edificato storico vie-ne schiacciato dalla soverchiante verticalità di un’edili-zia priva di estetica. Attenta solo a profittare della dere-golazione. Un liberismo cieco di preoccupazioni urba-nistiche, sordo al malessere della società civile. La qua-le denuncia l’invivibilità, il caos del traffico, segnalal’approfondirsi dei solchi sociali, si preoccupa dellostress e delle malattie da congestione. E ha scelto lafuga, innescando un processo di metropolizzazioneipertrofica, paradossale in una situazione di calodemografico, che vuota di abitanti la città storica e,con l’eterogenea omologazione delle tipologie edili-zie, compromette e degrada i paesaggi e le individua-lità dei luoghi di insediamento. In entrambi i casi met-te in moto un ciclo di deterritorializzazione che snatu-ra il rapporto tra abitanti e milieu.

Una città in cui anche le relazioni sociali e di vici-nato, assieme alle reti fiduciarie, si sono isterilite.

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Lasciando spazio, nell’affollamento di city user frettolo-si e di consumatori distratti, a quei fenomeni di micro-criminalità che aggiungono insicurezza allo smarri-mento identitario. Segnali di scadimento della convi-venza civile e della difficoltà a riconoscersi in una cittàfrantumata in zone conchiuse e separate: gli spazi delconsumo, le enclaves residenziali asserragliate dietro icancelli blindati, mentre si allargano le chiazze didegrado. Una città insalubre, ammorbata da un usoincolto dell’automobile.

Sotto gli occhi di un’amministrazione miope,scoordinata che flirta con il mercato senza riuscire agovernare. L’urbanistica preordinata dai costruttori edalla grande distribuzione, che ha scelto le proprielocalizzazioni saturando lo spazio comunale senzapreoccuparsi dei servizi e creato grandi generatori ditraffico non contrappesati dal trasporto collettivo.Assente la pianificazione di area vasta, i comuni dellacintura sono entrati in serrata competizione nell’offer-ta residenziale, affastellando “villettopoli”, come ledefinisce Cervellati, e finti borghi. Calamita per lapopolazione bolognese affamata di spazio, aria, silen-zio, socialità. Una dinamica di polverizzazione insedia-tiva moltiplicatrice di mobilità privata intrametropoli-tana.

In un clima culturale che sempre più si appanna diastensionismo e rinuncia. Se non fosse per le nuovevoci che, al di là e al di sopra delle rappresentanze isti-tuzionali, chiedono una città diversa. Che voglionocontrastare la frammentazione e la larvata intolleranzache serpeggia tra i corpi sociali, recuperare civismo esenso della collettività. E chiedono di parteciparedemocraticamente alla costruzione di un nuovo statu-to della cittadinanza.

Una città che non può essere concepita se non nelcontesto più ampio del suo sistema territoriale e di unalogica progettuale lungimirante e di lungo periodoche sappia coordinare le emergenze locali con i flussie le dinamiche che irraggiano alla dimensione regio-nale. Un’area cruciale nel contesto nazionale. Un cro-

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cevia che grava su Bologna, da sempre fulcro dei flussidi attraversamento di tutta la penisola. Una centralitàche non porta più vantaggi, ma si è trasformata in ele-mento di degrado.

Illusioni della governance e inclinazioni al just intime amministrativo

Tra i temi ricorrenti di questa fase l’argomentodella governance compare con particolare insistenza.Vanta una folta letteratura di varia ispirazione discipli-nare e affolla il linguaggio politico e istituzionale. Ma“minimal state”, “corporate governance”, “good gover-nance”, approccio “socio-cibernetico”, per ricordare iprincipali filoni (analizzati da Governa, 2003), rispec-chiano prospettive e filosofie tra loro inconciliabili.Per antico vizio, la schiavitù alle formule lessicali haprevalso sul nitore dei significati. Sicché la governance siè trasformata in formula salvifica e vuota. Un conteni-tore onnicomprensivo al quale rinviare, barattando l’e-sotismo del termine con l’innovazione progettuale ecostringendo a precisazioni e continue ridefinizionichiunque lo voglia/debba adottare. Una ricetta che èstata derivata acriticamente dal linguaggio del FondoMonetario Internazionale, scavalcando la ricchezzasemantica della cultura giuridica e istituzionale euro-pea e la lunga storia dei sedimenti di significati cheessa ha tracciato.

Ma il problema non è semantico. L’ambiguità con-tenutistica rispecchia la sterilità di un approccio alladecisione che pretende di essere tecnico, procedurale.La governance racchiude infatti il tentativo di sopperireal vuoto progettuale attraverso la compensazione delleistanze più diverse. Una tecnica, scaturita dal mondoaziendale e dalle teorie dei gruppi, che, quando appli-cata professionalmente e con acribia metodologica,tende a valorizzare l’incontro tra idee diverse libera-mente espresse, ma che, applicata ai tavoli della con-certazione, si scontra con palesi contraddizioni. Innan-

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zitutto con l’assenza di competenze idonee a condurreil percorso decisionale – un problema di cui non esisteneppure percezione – e con la disparità dei soggetticoinvolti, che non sono affatto liberi di esprimere leproprie volontà, ma sono condizionati dai rispettiviruoli e pesi.

La governance finisce quindi per concretizzarsi ingeneriche prassi di concertazione. Una procedura cheil più delle volte conduce all’appiattimento e a media-zioni che rispecchiano il denominatore comune mini-mo, con rinuncia all’innovazione e al coraggio dellascelta. E nei fatti, nelle esperienze esaminate da unaricerca IpL (2003), si traduce nello scontro tra i ranghidiversi degli attori e con il conseguente prevalere dilogiche selettive in cui i soggetti deboli perdono voice.Una tecnica di ispirazione liberista che quindi del libe-rismo ha tutte le pecche polarizzanti e rigerarchizzan-ti. Una procedura in cui la forza dei contraenti prede-termina gli esiti e in cui le “pratiche migliori” costitui-scono il tentativo di razionalizzare le disparità. Esperi-menti che spesso si arenano mentre, al di fuori delnegoziato ufficiale, le relazioni privilegiate con i deci-sori possono ammantarsi dell’alibi concertativo.

Pecche implicite ad un metodo che deriva dallaatrofia della decisione, dalla pretesa astrazione dallapolitica e dalle idealità. Una soluzione gestionale chevuole presentarsi neutrale, ma che, sotto il cappellodell’ecumenismo, cela uno strumento di appianamen-to dei confitti e consensualizzazione. Raramente infat-ti produce risultati efficaci mentre più spesso si tra-sforma in schermo pluralista a ratifica di disequilibri –oppure diventa momento di raccordo tra interessi spe-cifici, per legittimare contratti d’affari tra pubblico eprivato. Situazioni in cui la partecipazione si traduce inpartenariato, strumentale a precisi scopi di accaparra-mento di fondi o all’espletamento di appalti, e in cuila scelta dei partner si piega alla forza delle fidejussio-ni di cofinanziamento.

Un’inchiesta condotta in Emilia-Romagna nel cor-so del 2001 sul rapporto government/governance ha esa-

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minato sotto questo profilo i tavoli regionali della con-certazione e alcune situazioni territoriali (IpL, 2003;Bonora, 2003). I risultati mettono in evidenza le ambi-guità interpretative intorno al concetto di governancee la diversa percezione della sua efficacia a seconda deisoggetti. Le rappresentanze più forti giudicano positi-vamente la concertazione perché la ritengono unmodo per escamotare i paletti della pubblica ammini-strazione. La governance insomma diventa in questi casistrumento di autonomizzazione dal controllo istituzio-nale che apparteneva al centralismo del modello emi-liano. Secondo una prospettiva in cui l’autodetermina-zione è prerogativa liberale, tesa a produrre un quadrofunzionale alla deregolazione.

Chi valuta negativamente l’esperienza dei tavoliappartiene invece alla schiera dei soggetti deboli, che,anche quando sono riconosciuti in veste di attori einvitati a partecipare, non hanno voce abbastanza for-te da indurre ascolto. E dunque si sentono coinvolti inun gioco impari, a rivestire un ruolo di legittimazionedi scelte già prese in accordi bilaterali con i decisori. Eperciò denunciano la natura meramente informativa econsensuale delle procedure negoziali.

Ma assieme alle richieste di maggiore coinvolgi-mento partecipativo, la ricerca ha messo in evidenzaanche la denuncia, comune a tutti gli attori, dell’as-senza in Emilia-Romagna di capacità di governo, rias-sunta nella “mancanza di una cabina di regia” che sap-pia coordinare e guidare la decisione. Un vuoto che,su problemi cruciali quale quello dell’immigrazione,viene colmato dall’istituzione prefettizia e dagli orga-nismi dell’assistenzialismo cattolico.

Una verifica empirica della debolezza dell’attualeconfigurazione del potere in Emilia che mette in lucelo sgretolamento dell’antica autorevolezza e capacitàdi governo. Ne deriva un quadro di incertezza decisio-nale e scoordinamento amministrativo. Aggravato dal-la scollatura tra decisione e pratiche. Uno iato eviden-te nel campo delle politiche per l’immigrazione. Dove,in assenza di prassi consolidate, l’attività tecnica degli

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operatori si trova spesso ad avviare iniziative che difet-tano di legittimazione.

Il partito degli amministratori ha insomma talmen-te scolorito la propria appartenenza che, non solo nonè più riconosciuto dai soggetti che dovrebbe rappre-sentare, ma anche al suo interno ha rinunciato a codi-ci comuni.

Una cacofonia dei linguaggi e degli indirizzi cheproduce competizione infraistituzionale e andamentoasimmetrico e claudicante della pubblica amministrazio-ne. Non a caso, emerge dall’inchiesta citata, tra i tavoliregionali che sono stati esaminati l’unico che mostrabuon funzionamento è quello che raccorda i diversi entiterritoriali, che viene giudicato efficace momento diincontro e integrazione tra i diversi assessorati.

La governance in questo caso sopperisce in qual-che misura all’essenza di progetto condiviso, di pro-grammazione. Un espediente che mi pare una sorta dijust in time applicato all’amministrazione locale. Uncapovolgimento diametrale dello spirito della pro-grammazione, un modo di agire che interviene aposteriori, cercando di razionalizzare l’esistente rap-pezzando le toppe più evidenti. Privo della capacità evolontà di fare scelte politiche.

Per un progetto (invece di conclusioni)

Trarre a questo punto delle conclusioni sarebbeincoerente con la logica progettuale che ha ispirato ilpercorso di ricerca, come chiudere le considerazionicritiche sin qui fatte in un archivio e dimenticarle. Mipiace invece pensare di appartenere a quella schiera diricercatori, un po’ démodé di questi tempi, per i qualistudiare rappresenta non solo curiosità scientifica, maimpegno civile, che intendono il progetto come utopiapossibile e si autocoinvolgono nella sua realizzazione.Credo quindi che, più che trarre improbabili sintesi daciò che finora è stato detto, sia più utile tracciare pos-sibili linee di uscita.

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I rischi che il sistema locale corre sono ormai evi-denti a molti. Non altrettanto chiare sono le possibi-li soluzioni, anche se sono sempre più numerose levoci che in ambito locale si alzano a suggerire idee(mi piace segnalare tra gli altri il gruppo ospitato inwww.bolognaideeperunprogetto.it).

Ma se non è facile ipotizzare strade che non riper-corrano gli itinerari già calpestati e consunti, non riescoa immaginare soluzioni che non recuperino il senso delcollettivo che per molti versi ha connotato il successodell’esperienza emiliana. Un successo che valuto nontanto sotto il profilo economico, peraltro innegabile, macome capacità di distribuire quei frutti e di prefigurareun futuro.

Lo smarrimento identitario, l’assenza di un dise-gno condiviso, la debolezza delle reti fiduciarie, lafrantumazione della società e delle solidarietà civiche,la rigerarchizzazione e polarizzazione, e la serie com-plessa di elementi che abbiamo esaminato, sono frut-to della passività con cui si è abbracciata un’interpre-tazione della modernità che ripudia i valori dell’egua-litarismo e della reciprocità a favore di una visionecompetitiva e diversificante.

Il caso emiliano insegna come mai nulla possa dar-si per acquisito e come sia nociva l’autoreferenzialitàcon cui si è smesso di guardarsi intorno, presuppo-nendo erroneamente che attraverso lo strumento delconsociativismo si sarebbe comunque conservata la sta-bilità.

La buona qualità della vita e il benessere diffusosono stati frutto di una società che ha saputo metterein gioco risorse, abilità e volontà. Una combinazionedi fattori che ha collocato la regione tra le aree a mag-giore sviluppo europeo. Un esito che è andato oltre leaspettative e ha configurato una condizione di “opu-lenza e sazietà” – come ebbe a dichiarare criticamenteanni addietro il cardinale di Bologna.

Un successo che va ascritto in larga misura algoverno “comunista”. Paradossale dunque se voglia-mo, sicuramente dalle dimensioni inaspettate, quando

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invece le preoccupazioni originarie erano di naturaclassista.

Ma il disegno politico è stato talmente forte e per-seguito con tanta passione civile da innescare il vola-no del progresso per l’intera società. Un progetto incui nessuna componente si è sentita (troppo) trascu-rata o maltrattata e si è quindi assoggettata anche arigidità e forzature, pur di perseguire in quella strada.Una vicenda che sarebbe semplicistico demandare alconformismo storico degli emiliani o alla sola potenzadella macchina consensuale. Se va trovato un ruolo,oltre che al progetto e al buon senso delle prassi, piut-tosto assegnerei una parte allo spirito volontaristico,all’etica del lavoro che da sempre connota gli emilia-ni, iperattivi, passionali, disposti al sacrificio, all’auto-sfruttamento pur di conseguire risultati.

Un attivismo che oggi è privo di scopo morale, didirezioni precise che non siano speculative. Che si èrinchiuso nel burocratismo privo idee dell’ammini-strazione, nell’immobiliarismo, nella rincorsa degliindici di produttività e nei consumi (Ma che vedeanche una folta presenza di associazioni del volonta-riato). Manca una “cabina di regia”, lamentano gliindustriali, che non trovano nel “partito degli ammini-stratori” quella coerenza e autorevolezza che criticava-no ai “comunisti”. Manca il governo del territorio,denunciano i comitati di protesta che sempre piùnumerosi si affacciano sulla scena.

Il sistema locale territoriale emiliano-romagnolo èa un passo dall’involuzione. Per dirla nei termini diquesta ricerca la deterritorializzazione sta disgregandola complessità della costruzione sociale e del patrimo-nio emiliano. Se non si innesca al più presto un pro-cesso di riterritorializzazione, gli effetti negativi diven-teranno evidenti anche sul piano economico e dei con-sumi (dove la crisi si sta in ogni modo manifestando)oltre che su quello sociale e della sostenibilità dovesono palesi.

Ma se non si recupera il senso del collettivo e del-l’agire per il bene comune, e non si introducono nuo-

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vi strumenti di democrazia, partecipazione e condivi-sione, qualsiasi obiettivo rivela fiato corto, qualsiasiprogetto risulta monco. E solo da un rinnovamentovaloriale possono conseguire buone pratiche.

In Emilia va anche recuperata l’idea della pianifi-cazione urbana e regionale e delle regole che le sonoimplicite. Va ridiscussa la miscela tra (libero) mercato e(programmata) statualità. La privatizzazione quando ècontraria a logiche di piano si rivela cieca produttricedi guasti, specie quando applicata a patrimoni di utilitàcollettiva. Per troppo tempo in campo urbano si èseguita la logica dei grandi eventi e in ambito territo-riale quella delle emergenze, abbandonando il territo-rio allo spontaneismo, alla speculazione, al laissez faire.

Con la programmazione contrattata si sono persedi vista le problematiche d’insieme, si è smarrito il sen-so del futuro, della irreparabilità dei danni e, assieme,si è persa cognizione della scala dei fenomeni spaziali.Sicché ogni municipio si è arroccato in se stesso e pre-tende una libertà che non è rispettosa degli interessigenerali. Senza che nessun livello istituzionale sia ingrado di indirizzare e controllare l’agire dei singoli.Un liberalismo lassista e miope, che provoca danni enon sa trovare soluzioni. La logica della produttivitàapplicata a beni che sono comuni e in molti casi nonriproducibili. Un operare per frammenti che non hacognizione del contesto.

Mentre va individuata una modalità di sviluppoche sappia cogliere i cambiamenti, prefigurare il futu-ro e concepire la territorialità. Che sappia ascoltare edar voce alla città e al territorio e farsi carico dellagamma di bisogni che da lì emergono.

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Baskervi l leCentro studi e casa editriceFondata a Bologna nel 1986

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Baskerville Biblioteca di scienze della comunicazione

1. Stewart BrandMEDIA LAB - IL FUTURO DELLA COMUNICAZIONEViaggio nei segreti del famoso laboratorio del M.I.T. di Boston in cui si inventano i nuovi media.La realtà virtuale, il giornale personalizzato, l’ipertesto, la televisione intelligente, il cinema tridimensionale, il computer parlante sono tutti progetti ed esperimenti ai quali lavora il laboratorio del M.I.T. di Boston. Stewart Brand offre uno sguardo sul futuro della comunicazione e dei media.ISBN 88-8000-000-4

2. Derrick de KerckhoveBRAINFRAMES - MENTE, TECNOLOGIA, MERCATOCome le tecnologie della comunicazione trasformano la mente umana.La televisione, il computer e le banche dati sono per noi realtà quotidiane perfettamente naturali. Tuttavia l’utilizzo delle tecnologie della comunicazione implica inscindibili risvolti psicologici e psichici sull’uomo. Il libro descrive quanto sia importante avere coscienza della connessione fra tecnologia e psicologia.ISBN 88-8000-001-2

3. Daniel Dayan, Elihu KatzLE GRANDI CERIMONIE DEI MEDIALa Storia in diretta.La trasmissione in diretta di eventi “storici” costituisce un nuovo genere televisivo e al tempo stesso rappresenta il momento di massima celebrazione della comunicazione di massa. Le grandi cerimonie dei media creano immagini televisive dotate di potere reale, capaci di agire sul comportamento sociale.ISBN 88-8000-300-3

4. Kevin Robbins e Antonia Torchi (a cura di)GEOGRAFIE DEI MEDIAGlobalismo, localizzazione e identità culturale.Il volume è un’analisi della natura degli spazi audiovisivi e del rapporto fra televisione e territorio. La geografi a è intesa come prospettiva teorica per rifl ettere sulle trasformazioni contemporanee nell’industria e nella cultura dei media.ISBN 88-8000-302-X

5. Joshua MeyrowitzOLTRE IL SENSO DEL LUOGOL’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale.La radio, il telefono, la televisione, il fax hanno cancellato le distanze annullando lo spazio fi sico e allo stesso modo anche la nostra mappa delle relazioni spaziali si è modifi cata in seguito all’avvento delle nuove tecnologie. Oggetto dell’analisi di Meyrowitz è il modo in cui questi cambiamenti modifi cano la società. Nel 1986 quest’opera ha vinto il premio della Broadcast Education Association come miglior testo sulla comunicazione e la stampa internazionale ha paragonato l’importanza del lavoro di Meyrowitz alle ricerche di Marshall McLuhan.ISBN 88-8000-306-2

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6. Giuseppe RicheriLA TV CHE CONTATelevisione come impresa.Le imprese televisive sono oggi ad un punto di svolta. Come reagisce l’impresa televisiva privata e pubblica di fronte ai primi segni di crisi delle fonti economiche tradizionali quali la pubblicità e il canone? A questa e ad altre domande risponde Giuseppe Richeri, studioso internazionale di economia dei media.

ISBN 88-8000-301-1

7. Bruce CumingsGUERRA E TELEVISIONEIl ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra.L’autore analizza il ruolo decisivo e il grande potere che la televisione ha nella progettazione, nella pianifi - cazione e nella presentazione delle guerre. I molteplici aspetti dei confl itti vengono fi ltrati, adattati e poi venduti al pubblico televisivo mondiale con precisi obiettivi strategico-militari.ISBN 88-8000-002-0

8. Howard RheingoldLA REALTÀ VIRTUALEI mondi artifi ciali generati dal computer e il loro potere di trasformare la società.L’autore descrive la nuova rivoluzionaria tecnologia che crea mondi generati dal computer completi di sensazioni tattili e motorie e indaga sull’impatto che essa ha su tutto ciò che ci circonda. E’ un’analisi accurata di una tecnologia agli inizi del suo sviluppo, ma con grandi potenzialità applicative..ISBN 88-8000-003-9

9. I. Miles, H. Rush. K. Turner, J. BessantIT - INFORMATION TECHNOLOGYOrizzonti ed implicazioni sociali delle nuove tecnologie dell’informazione.Come si stanno evolvendo l’industria informatica, le telecomunicazioni, i sistemi di automazione della produzione, i servizi pubblici, la comunicazione personale, gli elettrodomestici? Il libro traccia le linee di questa evoluzione e ne sottolinea l’infl uenza sul nostro stile di vita individuale, familiare e sociale.ISBN 88-8000-004-7

10. Marco Guidi LA SCONFITTA DEI MEDIA

Ruolo, responsabilità ed effetti dei media nella guerra della ex-Jugoslavia.In che modo televisioni e giornali italiani ci stanno raccontando la guerra nella ex-Jugoslavia? Perché, dopo il Golfo, questa guerra pare fatta apposta per vincere le frustrazioni della stampa? L’autore, inviato di guerra del “Messaggero” e storico di formazione, affronta tali temi con l’occhio critico del giornalista e con la capacità di analisi e di approfondimento propria dello studioso.ISBN 88-8000-005-5

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11. Fred Davis MODA, CULTURA, IDENTITÀ

La moda è un sistema complesso di simboli, come un linguaggio, che parla di noi e della nostra identità.Cosa dicono i nostri abiti su chi siamo o su chi pensiamo di essere? Come comunichiamo messaggi sulla nostra identità? Il desiderio di essere alla moda è universale o è tipico della nostra cultura occidentale?Queste sono alcune delle domande alle quali Fred Davis risponde analizzando ciò che noi facciamo attraverso i nostri abiti e ciò che essi possono fare di noi.ISBN 88-8000-006-3

12. George Landow IPERTESTO - IL FUTURO DELLA SCRITTURA

La convergenza tra teoria letteraria e tecnologia informatica.Il processo di elaborazione elettronica del testo costituisce un’innovazione tecnologica talmente importante che ci costringerà a riformulare i nostri concetti di lettura e di scrittura, stravolgerà il ruolo dell’autore e lo schema lineare della pagina a stampa: il lettore potrà scegliere gli itinerari su cui operare e pensare o leggere in modo non sequenziale.ISBN 88-8000-007-1

13. Pier Luigi Capucci (a cura di) IL CORPO TECNOLOGICO

L’infl uenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà.Oggi gli strumenti tecnologici coinvolgono tutti i settori della nostra esistenza e il corpo nella sua totalità è investito direttamente da questo processo. Quali sono i suoi cambiamenti? Quale lettura dare del rapporto fra corpo e tecnologia? Il libro contiene interventi di Antinucci, De Kerckhove, Capucci, Maldonado, Moravec, Parisi, Pryor, Stelarc, Varela, Virilio.ISBN 88-8000-008-X

14. Gianluca Nicoletti ECTOPLASMI

Tipi umani nell’universo TV.Partendo dall’analisi dei “luoghi” dell’attuale TV vengono esaminate le categorie di personaggi che la popolano: coloro che hanno avuto il privilegio dell’iniziazione televisiva, gli sfi orati, i lambiti, poi i maestri illustri e alcuni imperituri presi in esame non come identità, ma come archetipi (Sgarbi, Funari, Costanzo).ISBN 88-8000-009-8

15. Patrice FlichySTORIA DELLA COMUNICAZIONE MODERNASfera pubblica e dimensione privata.Quest’opera è un’attenta ed esauriente storia della comunicazione. Dal telegrafo fi no al telefono portatile come si è formata la nostra società di comunicazione? L’autore ne traccia un’analisi che integra elementi di storia sociale e tecnologica per presentare la genesi dei grandi sistemi di comunicazione. ISBN 88-8000-304-6

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16. Carlo SorrentinoI PERCORSI DELLA NOTIZIALa stampa quotidiana in Italia tra politica e mercato.Sorrentino traccia una dettagliata storia sociale della stampa quotidiana italiana per trovare le ragioni delle principali peculiarità: dalla forte politicizzazione alla diffusione a carattere regionale, all’elitismo. L’autore analizza le trasformazioni degli ultimi vent’anni, quando per la prima volta in Italia nasce un mercato dell’informazione e si modifi cano le dorme della concorrenza tra i quotidiani e fra questi e i nuovi media, in particolare la televisione.ISBN 88-8000-305-4

17. Lucio PicciLA SFERA TELEMATICACome le reti trasformano la societàLa diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione sta rivoluzionando la nostra vita e le organizzazioni che, sempre più, diventano delocalizzate e virtuali. Cambia l’ambiente in cui viviamo e con esso le persone, confrontate da un nuovo insieme di aspettative e di opportunità. ISBN 88-8000-010-1

18. Antonio Pilati e Giuseppe RicheriLA FABBRICA DELLE IDEEEconomia dei media in ItaliaIl libro delinea le articolazioni dell’economia della conoscenza e situa al suo interno l’industria della comunicazione, analizza il sistema dei media rivolti al largo pubblico, determina le dimensioni economiche della comunicazione e descrive il ruolo della comunicazione di marketing. Nella seconda parte analizza i vari segmenti che compongono l’industria dell’audiovisivo: televisione, cinema, musica, audiovisivi d’uso familiare. Nella terza parte affronta lo studio dell’industria editoriale; quotidiani, libri, editoria elettronica, le prospettive di sviluppo che assumono i consumi e gli introiti dei media dell’indistria della comunicazione nell’epoca della convegenza tra i media. Il volume presenta inoltre, per la prima volta raccolti in modo sistematico e dettagliato, i dati principali sull’industria italiana della comunicazione dall’86 ad oggi.ISBN 88-8000-307-0

19. Paola Bonora (a cura di)COMCITIESGeografi e della comunicazioneLa comunicazione intesse la trama connettiva delle nuove relazioni, crea nuovi signifi cati e immagini, nuovi spazi, un nuovo modello di società che si identifi ca nella marea multimediale incarnata da internet, agorà e mercato, paese delle meraviglie e dello sperdimento, iper-reale, u-topico, a-sensoriale, privo di confi ni, etici, logici, emozionali. Una rappresentazione del mondo mutevolissima, che toglie senso al mondo precedente senza dargliene uno nuovo se non una sfuggente complessità. Un pianeta sempre più piccolo, ma sempre più diseguale.ISBN 88-8000-308-9

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20. Enrico Menduni (a cura di)LA RADIOPercorsi e territori di un medium mobile e interattivoLa radio vive una terza e fortunata giovinezza della sua lunga vita. È stato il primo mass medium personale e mobile, ha lasciato i salotti delle case (in cui ha lasciato ben piazzata la più giovane sorella televisiva) per andare per le vie del mondo sotto forma di transistor, di autoradio, di walkman; si è miniaturizzata come apparato mentre cresceva a dismisura la sua funzione di medium delle identità e della connessione, di strumento di informazione in tempo reale e di contenitore soffi ce dell’oralità e dell’intimità. ISBN 88-8000-012-8

21. Stephen Graham e Simon MarvinCITTÀ E COMUNICAZIONESpazi elettronici e nodi urbaniPer un po’ di anni ci siamo illusi che lo sviluppo della comunicazione annullasse la distanza e rendesse quindi indifferente la localizzazione. Una speranza che si è subito smorzata di fronte al dilatarsi degli agglomerati e al diffondersi degli effetti perversi della metropolizzazione.Il libro raccoglie e confronta tutta la letteratura internazionale prodotta nell’ambito delle scienze del territorio sulla correlazione tra fenomeno urbano e cambiamento comunicazionale. La gamma di questioni affrontate è ampia e corposa e nulla o quasi nulla viene trascurato, sia sul versante delle opportunità che su quello dei rischi. Un modo scientifi co per smontare i miti che hanno accompagnato l’esplosione delle comunicazioni a lunga distanza e proporre la ridefi nizione dei paradigmi geografi ci e urbanistici attraverso cui analizzare e progettare la città.ISBN 88-8000-309-7

22. Leonardo Benvenuti MALATTIE MEDIALIElementi di socioterapiaL’ipotesi della socioterapia è che non vi sia un concetto astratto di disagio ma che si debba fare riferimento ad una serie di ambiti, alcuni dei quali sono intimamente legati a quella che l’autore ha defi nito la deriva storica dei media: il succedersi di media via via dominanti che crea periodi iniziali di disagio in relazione dell’obsolescenza di quello precedente e nella fase di consolidamento di quello successivo. Così è stato, nel passaggio dalla cultura orale a quella tipografi ca, per il vagabondaggio, il brigantaggio e l’alcolismo. ISBN 88-8000-011-X

23. Michelantonio Lo RussoPAROLE COME PIETRELa comunicazione del rischioLe informazioni concernenti i rischi non sono come le altre. Il loro statuto particolarissimo è legittimato dal fatto che, appunto, ci riguardano tutti ... I destinatari di tali messaggi formano un nuovo tipo di sfera pubblica, la sfera pubblica mediata. Una sfera pubblica aperta e globale, che fa a meno della compresenza dei diversi attori in un’unica dimensione spazio-temporale. La mediatezza di questo tipo di sfera pubblica, distinta dall’ambito economico e politico, si basa sull’importante presupposto del dialogo e quindi dell’azione a distanza. ISBN 88-8000-023-3

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24. Elena EspositoI PARADOSSI DELLA MODAOriginalità e transitorietà nella società modernaUna delle peculiarità della società moderna è la sua tendenza a prendere qualcosa di transitorio come punto di riferimento stabile e questo pur conoscendone la natura effi mera. La moda è, a questo riguardo, esemplare: ciò che è IN non rivendica di essere anche bello, ragionevole e interessante, ma solo ALLA MODA. Capita, nonostante o a causa di ciò, che l’IN diventi presto OUT e non piaccia più. Inoltre nella moda si ha la pretesa di non imitare nessun modello, bensì di affermare la propria individualità sebbene si sappia benissimo che tutti lo fanno allo stesso modo. Ci si comporta come gli altri, al fi ne di essere diversi e di dimostralo apertamente. Il libro analizza le modalità con cui si è affermata una concezione della moda che non riguarda solo o prevalentemente gli abiti, ma coinvolge, in modo più radicale, le passioni, gli interessi, gli orientamenti fi losofi ci ed estetici. ISBN 88-8000-024-1

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Baskerville UniPress

1. Paola Bonora (a cura di)SLoT - quaderno 1Appunti, discussioni, bibliografi e del gruppo di ricerca SLoT (Sistemi Territoriali Locali) sul ruolo dei sistemi locali nei processi di sviluppo territoriale. Contributi di: Giuseppe Dematteis, Francesca Governa, Egidio Dansero, Carlo Salone, Vincenzo Guarrasi, Paola Bonora, Unità locale dell’Università di Firenze, Lida Viganoni e Rosario Sommella, Sergio Ventriglia, Ugo Rossi.ISBN 88-8000-500-6

2. Giuliana Gemelli e Flaminio Squazzoni (a cura di)NEHS / NessiIstituzioni, mappe cognitive e culture del progetto tra ingegneria e scienze umane.Contributi di: Marisa Bertoldini, Giuliana Gemelli, Kenneth Keniston, Giovan Francesco Lanzara, Enrico Lorenzini, Vittorio Marchis, Guido Nardi, Girolamo Ramunni, Flaminio Squazzoni, Pasquale Ventrice, Alessandra Zanelli.ISBN 88-8000-501-4

3. Cristiana Rossignolo e Caterina Simonetta Imarisio (a cura di)SLoT - quaderno 3Una geografi a dei luoghi per lo sviluppo localeApprocci metodologici e studi di caso.Contributi di: Marco Bagliani, Angelo Besana, Federica Corrado, Egidio Dansero, Giuseppe Dematteis, Raffaella Dispenza, Fiorenzo Ferlaino, Francesco Gastaldi, Cristiano Giorda, Oscar Maroni, Carmela Ricciardi, Cristina Rossignolo, Carlo Salone, Marco Santangelo, Caterina Simonetta Imarisio.ISBN 88-8000-502-2

4. Paola Bonora e Angela GiardiniSLoT - quaderno 4Orfana e claudicanteL’Emilia “post-comunista” e l’eclissi del modello territorialeISBN 88-8000-503-0

5. Rosario Sommella e Lida Vigagnoni (a cura di) SLoT - quaderno 5

Territori e progetti nel MezzogiornoCasi di studio per lo sviluppo localeContributi di: Ornella Albolino, Fabio Amato, Aldo di Mola, Luigi Longo, Mirella Loda, Maria Gabriella Rienzo, Ugo Rossi, Rosario Sommella, Luigi Stanzione, Sergio Ventriglia,, Lida VigagnoniISBN 88-8000-504-9

6. Rosario Sommella e Lida Vigagnoni (a cura di) FILANTROPI DI VENTURA

Rischio, responsabilità, rifl essività nell'agire fi lantropicoContributi di: Jed Emerson, Laura Bertozzi, Emanuele Cassarino, Giuliana Gemelli, Flaminio Squazzoni, Claudia Rametta, Giorgio Vicini, Girolamo RamunniISBN 88-8000-505-7

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7. Giuliana Gemelli (a cura di) FONDAZIONI UNIVERSITARIE

Radici storiche e confi gurazioni istituzionaliContributi di: Benjamin Scheller, Christopher D. McKenna, Jon S. Dellandrea, Joe McKenna, Matthias Schumann, Bruno van Dyk, Joseph Tsonope, Giovanni Maria Riccio, Flora Radano, Giuseppe Cappiello, Enrico Bellezza, Francesco Florian, Alessandro Hinna, Marco Demarie, Pier Luigi Sacco.ISBN 88-8000-506-5

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Baskerville Collana Blu

1. Pier Vittorio TondelliBIGLIETTI AGLI AMICIQuesto di Tondelli è un viaggio lirico verso mete talvolta quotidiane, quasi sempre irraggiungibili. Un errare che percorre il desiderio di scoprire se stessi, identifi candosi negli altri o leggendo il paesaggio, che attraversa carezzevoli fi losofi e orientali e non disdegna di soffermarvisi, attratto e confortato dalle dolci parole di un poeta-cantante.ISBN 88-8000-900-1

2. Gianni CelatiLA FARSA DEI TRE CLANDESTINIE’ lecito sognare? o meglio: chi di noi non ha mai desiderato, e non solo da bambino, di far rivivere un’avventura a qualche grande eroe dello schermo? Bene, Gianni Celati ha catturato questa opportunità e ce la offre sotto forma di una tanto deliziosa, quanto purtroppo irrealizzabile sceneggiatura per un fi lm dei fratelli Marx.ISBN 88-8000-901-X

3. Fernando PessoaNOVE POESIE DI ÀLVARO DE CAMPOS E SETTE POESIE ORTONIMEA cura di Antonio TabucchiAlto, elegante, con monocolo, capelli neri con riga da una parte, l’anglofi lo ingegnere Alvaro de Campos, laureatosi a Glasgow e dandy ozioso a Lisbona, è, fra i personaggi fi ttizi di Pessoa, colui che più ebbe una vita reale.(Dall’introduzione di Antonio Tabucchi)ISBN 88-8000-902-8

4. Georges PerecTENTATIVO DI ESAURIRE UN LUOGO PARIGINOLa vita, intesa come irripetibile avventura, è per Perec un gioco. Un gioco al quale partecipa, però, con la stessa creatività ed impegno dei bambini. Il suo catalogare non è né critico, né lezioso, è al di sopra delle parti: si diverte ad osservare, ad annotare, ma con distacco, senza farsi condizionare dall’essenza delle cose.ISBN 88-8000-903-6

5. Orson WellesLA GUERRA DEI MONDIPrefazione di Fernanda Pivano e una nota di Mauro WolfQuando la trasmissione andò in onda, diventando uno dei momenti più famosi della produzione di Welles, si verifi cò un fenomeno straordinario di schizofrenia collettiva. Un annunciatore anonimo interruppe la trasmissione con la notizia che i marziani erano sbarcati nel New Jersey; milioni di ascoltatori credettero che fosse giunta la fi ne del mondo ...ISBN 88-8000-904-4

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6. Eiryo Waga (eteronimo di Raul Ruiz)TUTTE LE NUVOLE SONO OROLOGIChe uno scrittore giapponese si interessi ad un tema essenziale dell’epistemologia contemporanea (il saggio Delle nuvole e degli orologi di K. Popper) ha già dello stupefacente; ma che poi si diverta a giocare con i concetti trasfi gurandoli in una fantasia onirica, (...) mi ha semplicemente incantato.(Dalla presentazione di Raul Ruiz) ISBN 88-8000-905-2

7. Astro TellerEXEGESISEdgar è un agente intelligente: un software per cercare e raccogliere informazioni in internet. Un giorno Edgar, inspiegabilmente, supera la soglia tra la creazione tecnologica e l’esistenza autonoma ed inizia la sua navigazione indipendente alla ricerca della conoscenza e della libertà. Exegesis è in parte un tecno-triller e in parte una storia d’amore: l’intrigante percorso di una intelligenza artifi ciale che gradualmente scopre poteri e limiti di una natura cosciente ma non umana.ISBN 88-8000-906-0

8. Patrizia Adamoli e Maurizio Marinelli (a cura di)COMUNICAZIONE MEDIA E SOCIETÀPremio Baskerville Mauro Wolf 2004Saggi di Andrea Segre, Annalisa Pelizza, Stefano Russo, Mario Scanu, Elisa Giomi e Tommaso Ceccarini, Lorenzo Facchinotti, Oliver PanichiISBN 88-8000-507-3

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FINITO DI STAMPARE

NEL MESE DI NOVEMBRE 2005PER CONTO DELLA CASA EDITRICE

BASKERVILLE CS

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(RASTIGNANO, BOLOGNA, ITALIA)

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