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BOLLETTINO

D’ARCHIVIO

DELL’UFFICIO STORICO DELLA

MARINA MILITARE

Anno XXXI

2017

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BOLLETTINO D’ARCHIVIO DELL’UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE

Periodico trimestrale - Anno XXXI - 2017

Editore MINISTERO DELLA DIFESA

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Redazione e Progetto Grafico Marina Pagano

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Registrazione al Tribunale Civile di Roma (versione o n l in e ) n. 127 del 4 aprile 2011

La collaborazione è aperta a tutti. La responsabilità degli articoli è lasciata interamente agli Autori. Alla Direzione non è attribuita che la responsabilità inerente alla morale correttezza delle cose stampate nei

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Il Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare è consultabile on line al sito

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INDICE

5 Editoriale

7 Rubrica “La Marina vista dai Protagonisti”

SAGGI

27 Somalia, 26 novembre 1896: Lafolè…

Valeria Isacchini

65 Il potere nucleare della Marina italiana

Vincenzo Meleca

ARCHIVIO

107 DONAZIONE DELL’AMMIRAGLIO VITTORIO TUR

a cura di Claudia Lazzerini

Tavola delle abbreviazioni

Introduzione di Claudia Lazzerini

Inventario

Indici

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EDITORIALE

L’Italia è un paese a forte connotazione marittima e per questo motivo saremmo felici che il nostro Bollettino potesse essere letto anche da ragazzi in età scolare, perché, come diceva Indro Montanelli, “un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”, e, aggiungiamo noi, non avrà mai nemmeno una propria identità.

Siamo fermamente convinti che “chi non ha memoria, non ha nemmeno identità”; identità marinara italica che possiamo far risalire alle civiltà preromane quali gli Etruschi, e far proseguire in un unicum, attraverso i Romani, le Repubbliche Marinare, le Marine preunitarie, fino ad arrivare alla Regia Marina prima e all’attuale Marina Militare.

In questo numero abbiamo voluto aprire una finestra a un aspetto più specificatamente memorialistico con una rubrica dal titolo “La Marina vista dai Protagonisti”, nella quale sono ospitati documenti, diari, pensieri, foto e ricordi di chi la Marina l’ha vissuta “sul mare”.

Pertanto, oltre ai due saggi di Valeria Isacchini e di Vincenzo Meleca – rispettivamente “Somalia, 26 novembre 1896: Lafolé” e “Il potere nucleare della Marina italiana” – viene dato ampio spazio alla perdita dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere, avvenuto il 1° aprile 1942 davanti all’isola di Stromboli, attraverso il racconto che Mirella Fabbri, figlia di uno dei sopravvissuti, ha elaborato dai ricordi del padre e che abbiamo voluto corredare, in chiave scientifica, di documenti rinvenuti presso il nostro Archivio.

Nella sezione dedicata all’Archivio, infine, viene proposto il riordino dell’inventario della donazione dell’ammiraglio Vittorio Tur, che contiene documentazione molto interessante sulla Grande Guerra di cui si sta celebrando il centenario.

Sicuri di garantire anche con questo numero la divulgazione della

tradizione navale italiana, la Redazione augura una buona lettura a tutti.

La Redazione

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LA MARINA VISTA

DAI PROTAGONISTI

A cura di Leonardo Merlini e di Marina Pagano

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La Marina vista dai Protagonisti

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Molti sono i visitatori, studenti, appassionati di cose di Marina, ricercatori che in questi quasi trent’anni di redazione del Bollettino d’Archivio sono passati per il nostro ufficio. Nel presentare i loro saggi, ci hanno spesso incuriosito con le loro storie di famigliari, amici e conoscenti che con la Marina hanno avuto un contatto, o che in Marina hanno lasciato persino la propria vita.

In questo numero abbiamo deciso di proporre al lettore la presente rubrica, “La Marina vista dai Protagonisti”, nella quale sono ospitati documenti, diari, pensieri, foto e ricordi di coloro i quali la Marina l’hanno vissuta.

Tempo fa è venuta a trovarci Mirella Fabbri, autrice di Una stella nelle costellazioni. Storia di amicizia, amore, guerra e pace di un marinaio italiano.

Il suo racconto è nato da un sogno, in cui Mirella si trova sul ponte di una nave, vestita con una divisa della Marina Militare. Si desta nella notte con un nome preciso: Luigi Morelli. Decide allora di recarsi a Roma per effettuare ricerche d’archivio, e mirabilmente scopre che quel nome corrisponde a una persona realmente esistita, un cannoniere puntatore scelto imbarcato con suo padre Gino, fuochista ausiliario, il giorno dell’affondamento dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere,(1) il 1° aprile 1942, davanti all’isola di Stromboli, a opera

del sommergibile britannico Urge. L’autrice, in seguito a quel sogno, ha colto l’occasione per approfondire

gli eventi che hanno coinvolto la propria famiglia negli ultimi trent’anni. Ascoltarla è stato per noi un invito a reperire documenti del nostro

archivio che ci hanno emozionato, e che abbiamo voluto riproporre ai nostri lettori con foto degli originali.

(1) Per la scheda tecnica vds. http://www.marina.difesa.it/storiacultura/storia/almanacco/Pagine/ABCD/dalle_bande_nere.aspx

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Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare - 2017

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Ordine di trasferimento dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere da Messina alla Spezia. (AUSMM, Archivio Naviglio Militare, b. B2, f. 2, sf. 1, “Affondamento + relazioni personale 1.4.42”)

Il 28 marzo 1942 era stato trasmesso l’ordine di trasferimento dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere da Messina alla Spezia, con transito da Stromboli, per il 31 dello stesso mese, per giungere alla Spezia il mattino del giorno successivo. La scorta doveva essere effettuata dall’Aviere, dal Fuciliere e poi dall’avviso Diana, con scorta aerea durante le ore diurne.

La mattina del 1° aprile, a 8 miglia a sud-est di Stromboli, furono avvistate scie di siluri. L’incrociatore fu colpito al centro da un siluro lanciato da brevissima distanza dal sommergibile Urge, che si trovava nello spazio compreso fra l’Aviere e l’incrociatore; il secondo siluro divise la nave in due tronconi, che si inabissarono rapidamente.

Le perdite furono di 373 uomini, di cui 16 ufficiali, 57 sottufficiali, 295 sottocapi e comuni e 5 militarizzati. Le deposizioni dei superstiti furono di 18 ufficiali, 33 sottufficiali, 244 sottocapi e comuni (313 in totale).

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Affondamento dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere, colpito da due siluri lanciati dal sommergibile britannico Urge presso Stromboli il 1° aprile 1942. (Fototeca USMM)

Schizzo del siluramento del regio incrociatore Giovanni delle Bande Nere. (AUSMM, Archivio Naviglio Militare, b. B2, f. 2, sf. 2, “Ruolo del personale imbarcato alla data del 1° aprile 1942”)

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Varo del regio incrociatore leggero Giovanni delle Bande Nere, classe “Alberto di Giussano”. Genova, 27 aprile 1930. La madrina del varo fu la principessa Maria Adelaide di Savoia. (Fototeca USMM, Donazione Aldo Fraccaroli)

Giovanni delle Bande Nere in navigazione. (Fototeca USMM, Donazione Aldo Fraccaroli)

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La Marina vista dai Protagonisti

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Il Giovanni delle Bande Nere a Venezia. (Fototeca USMM, Donazione Aldo Fraccaroli)

L’affondamento del Giovanni delle Bande Nere aveva creato un legame indissolubile fra il padre dell’autrice e i suoi compagni scomparsi, che seguì a soli 44 anni.

Raccontare la storia di suo padre, che non aveva mai fatto cenno al nome di quel marinaio, Luigi Morelli,(2) con cui aveva condiviso un evento così tragico, ha permesso all’autrice, e a noi, di ricordare uomini che hanno dedicato la propria vita alla Patria e all’Onore.

Gino Fabbri era stato chiamato alle armi di leva nella Marina Militare nel settembre del 1941, fu imbarcato nell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere a novembre, dove rimase fino alla data dell’affondamento.

(2) Luigi Morelli, cannoniere puntatore scelto, era nato a Galatina (Lecce) il 18.5.1923.

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La divisione navale formata dal Giovanni delle Bande Nere (in primo piano), Attendolo e Duca d’Aosta. (Fototeca USMM, Donazione Aldo Fraccaroli)

A Messina, dove fu ricoverato dopo diverse ore di permanenza in mare, ricoperto come molti altri marinai di nafta e petrolio su tutto il corpo, Fabbri rilasciò una deposizione in cui afferma di trovarsi “di guardia in macchina vicino al centralino telefonico”. Improvvisamente udì un’esplosione, e subito si spense la luce. Aiutò un altro fuochista a mettere in mare una zattera, che fu subito occupata da numerose persone, mentre egli rimase in acqua per circa 15 minuti sorretto dal proprio salvagente.

Nelle pagine successive, dichiarazione dattiloscritta e autografa di Gino Fabbri, deposta all’ospedale di Messina, dove fu ricoverato in seguito all’affondamento del Delle Bande Nere. (AUSMM, Archivio 37, Naviglio Militare, b. B3, f. 1, sf. 3, Elenco dei comuni naufraghi, “Relazioni dalla lettera A fino alla lettera M”)

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Aveva cercato di aggrapparsi alla zattera, ma la lasciò, perché stretto da altre quattro persone, che poi vide scomparire in mare; poi, da solo, nuotò verso la torpediniera Libra, dalla quale due marinai lo sollevarono a bordo con una cima.

L’autrice ricorda il dolore e il rammarico di suo padre, per quelle quattro persone che poi non vide più.

Nel giugno del 1942 Gino Fabbri fu inviato in Africa Settentrionale, dove rimase fino al febbraio del 1943. In quel periodo avvertì i primi segni di un’affezione pleurica, causata dalle ore di permanenza nelle acque fredde, e che fu una delle concause che lo portarono a una morte precoce.

Ripercorrendo i momenti cruciali del siluramento dell’incrociatore, nei rapporti conservati in archivio, leggiamo che alle 05.45 del 1° aprile le unità che costituivano il reparto uscirono dal porto di Messina. Nell’ordine erano: Libra, Fuciliere, Bande Nere e Aviere.

Alle 06.36 le navi erano fuori delle ostruzioni, e l’Aviere si portò fra Libra e Fuciliere. Alle 06.41 il Libra comunicò di avere l’ecogoniometro in avaria;(3) alle 06.55 il Fuciliere informò che la macchina di dritta si era bloccata e che doveva diminuire di andatura; di conseguenza ricevette l’ordine di rientrare a Messina.(4)

(3) La perdita dell’uso dell’ecogoniometro della torpediniera Libra ha privato la formazione navale di un prezioso strumento che probabilmente avrebbe consentito di avvertire la presenza del sommergibile.

(4) La necessità di rimandare in porto il cacciatorpediniere Fuciliere ridusse l’efficacia della scorta navale che, limitata a due sole siluranti, lasciò scoperto un largo settore e non poté impedire al sommergibile di infiltrarsi internamente alla scorta.

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La cartolina ex voto, conservata in un cassetto insieme alle foto dei suoi compagni marinai, che Gino Fabbri fece stampare sul tragico evento.

L’Aviere richiese allora a Gorizia che il Libra potesse continuare la scorta, al posto del Fuciliere, fino a Ponza. Un aereo della Regia Marina (Cant Z 501, osservatore guardiamarina

Bruno Antonucci) assunse servizio di scorta dalle 7.10.

Alle 08.57, “nel punto a miglia 11 per 144° da Stromboli, il Bande Nere è stato colpito, a intervallo di pochi secondi, da due siluri ed è affondato nel giro di poche decine di secondi”.(5)

I siluri che colpirono l’incrociatore furono lanciati da un sommergibile britannico, l’Urge,(6) che si trovava sul lato sinistro della formazione.

L’osservatore dell’aereo della Regia Marina fu l’unico ad aver visto il punto di origine delle scie, definito da esso a circa 500 m dalla nave colpita.(7)

(5) Dal rapporto “Siluramento Incrociatore ‘Bande Nere’ ”, firmato da Raffaele de

Courten, Archivio Ufficio Storico Marina Militare, Archivio Naviglio Militare, b. B2, f. 2, sf. 1, “Affondamento + relazioni personale. 1.4.42”.

(6) Il sommergibile Urge fu attaccato e affondato da un aeroplano italiano a Ras el Hilal (Libia) alla fine dello stesso mese, il 29 aprile 1942.

(7) Data la breve distanza di lancio, il Giovanni delle Bande Nere difficilmente avrebbe potuto evitare i siluri con la manovra, anche qualora le scie fossero state tempestivamente

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L’aereo credette di avvistare tre scie, viste da tre soli superstiti, che come tutti gli altri parlarono di due soli siluri che colpirono la nave a distanza di 8-10 secondi al massimo l’uno dall’altro.(8)

Il primo siluro colpì la zona 7 (caldaie n. 5 e n. 6), provocando l’allagamento del locale caldaie 6 e 7, infiltrazioni di acqua nelle zone adiacenti, invasione di fumo e di vapore, lo spegnimento della luce a bordo, un leggero sbandamento della nave sulla sinistra, il lancio in aria di molti rottami.

Il comandante, il capitano di vascello Ludovico Sitta, ebbe la sensazione che la situazione non fosse ancora irreparabile, ma lo scoppio del secondo siluro, poco più a proravia, accentuò immediatamente lo sbandamento a sinistra, fino a portare il trincarino al pelo dell’acqua: il bastimento si insellò al centro, mentre le due estremità impennarono.

Prua e poppa, emergendo dal mare quasi verticalmente, si richiusero su loro stesse come un libro, infilandosi in acqua verso il centro.

In meno di due minuti dallo scoppio del primo siluro l’incrociatore era scomparso.

L’abbandono della nave fu eseguito ordinatamente. La torpediniera Libra ebbe l’ordine di dedicarsi alle operazioni di raccolta

dei superstiti e dei marinai morti, in un secondo tempo appoggiata dall’Aviere, impegnato nel rastrellamento per offendere il sommergibile nemico con il lancio di 11 bombe da 100 kg, 12 da 50 kg e 13 da 30 kg.

In molti furono vinti dalla stanchezza, dall’acqua gelida, dalle ferite riportate, mentre il mare era diventato nero per le tonnellate di nafta fuoriuscite dai serbatoi dell’incrociatore.

avvistate e segnalate (oltretutto l’avvistamento fu ostacolato dalle condizioni di vento e di mare).

(8) Si escluse, date le appariscenti colonne di acqua provocate dalle esplosioni e dagli effetti del primo siluro, che il nemico avesse impiegato siluri con acciarino magnetico.

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Il rapporto firmato il 3 giugno 1942 da Raffaele de Courten riguardo il siluramento dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere. (AUSMM, Archivio Naviglio Militare)

Emerge dalle sacre acque di Lissa un capo e dalla bocca esangue scaglia “Ricordati! Ricordati!” E s’abissa. (Da “La canzone d’oltre mare” di Gabriele D’Annunzio)

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Regio incrociatore Giovanni delle Bande Nere. Nelle pagine successive compaiono i nomi di Gino Fabbri (all’inizio) naufrago, e di Luigi Morelli (alla fine), disperso. (AUSMM, Archivio Naviglio Militare, b. B2, f. 2, sf. 5, “Elenco del personale deceduto o disperso, in licenza o ricoverato - Personale borghese”).

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SOMALIA, 26 NOVEMBRE 1896: “LAFOLÈ…”

VALERIA ISACCHINI

Fu alto il tributo versato da esponenti della Regia Marina durante l’espansione in Africa Orientale, in territori occupati da popoli combattivi e ovviamente gelosi della propria indipendenza, nonché sospettosi nei confronti degli stranieri.(1)

L’anno 1896 è legato nella memoria storica italiana al disastro di Adua; ma sul finire di quell’anno un altro grave episodio nel Corno d’Africa destò scalpore nell’opinione pubblica, rinvigorendo le posizioni di quelli, parlamentari o semplici cittadini, che chiedevano una revisione della politica coloniale: il cosiddetto “eccidio di Lafolè”, in Somalia, che coinvolse molti appartenenti alla Regia Marina, oltre a civili e ascari.

(1) Vds. anche V. Isacchini, “L’impegno della Regia Marina nella prima colonizza-zione dell’Eritrea e l’eccidio dei marinai dell’Ettore Fieramosca nel deserto dancalo (1881)”, Bollettino d’Archivio della Marina Militare, settembre 2013,

http://www.marina.difesa.it/conosciamoci/editoria/bollettino/Documents/2103/Settembre/Valeria_Isacchini.pdf

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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I primi insediamenti italiani in Somalia: una colonia commerciale

La Somalia, sul finire dell’Ottocento, era abitata prevalentemente da Galla(2) (che a quanto pare si erano imposti in epoca imprecisata sulle tribù di ceppo Bantu che precedentemente occupavano la valle del Giuba) e Somali, anch’essi, come i Galla, di tipo cuscitico, che si erano imposti sui Galla verso la metà del sec. XIX; durante le lunghe guerre per ricacciare i Galla verso sud-ovest, fino alla valle del Tana (nell’attuale Kenya) le varie tribù e cabile(3) somale si erano spesso combattute sanguinosamente tra loro per impadronirsi delle terre migliori, incrementando così una rete di faide che complicò i già difficili rapporti tribali. A questi due gruppi si aggiungeva una buona percentuale di popolazioni arabe, dato il traffico di merci che a bordo di dhow (i tipici velieri) venivano scambiate tra le coste del Golfo Persico sfruttando la regolarità dei monsoni. Furono gli Arabi a diffondere tra le popolazioni il credo islamico sunnita e a dare un primo impulso allo sviluppo di Mogadiscio (impulso poi spento per le continue infiltrazioni di tribù somale, che nel sec. XVIII occuparono definitivamente la città, che decadde). L’Islam, e la conseguente predicazione della guerra all’infedele, fu assimilato profondamente fra queste popolazioni (da notare che Mohamed Ben Abdullah, il cosiddetto Mad Mullah, o Mullah il Pazzo,(4) ovvero il Sayed, il Santo, secondo i somali, che diede tanto

(2) Attualmente conosciuti come Oromo, provenivano dall’attuale Etiopia meridionale. (3) Il termine, di origine araba, si applicava originariamente ai Beduini arabi, poi,

per estensione, è passato a indicare il basilare aggregato etnico-sociale delle genti islamizzate anche fuori d’Arabia.

(4) Da ragazzo, a Berbera, manifestò profondo interesse religioso, studiando appro-fonditamente il Corano. Iniziò la sua predicazione ad Aden, porto cosmopolita, dove il suo integralismo venne respinto. Tornato in Somalia, allora Somaliland britannico, la saggezza della sua predicazione gli attirò molti consensi. Pare su consiglio di un implacabile nemico degli inglesi, Agi Sady, iniziò la lotta armata contro i britannici. Verso il 1900 tutto il Somaliland era in fiamme; la reazione britannica fu stroncata dalla guerriglia. Nel 1903, la Gran Bretagna riprese la reazione, con l’appoggio di Abissinia e Italia, il che attirò anche sull’Italia l’ostilità del Mullah, che anche questa volta ebbe la meglio. Nel 1904 venne però ricacciato dai britannici, rifugiandosi nel territorio di Obbia, nostro protettorato. L’Italia fece da tramite per una composizione. Le trattative si conclusero con il trattato di Illig, il 5 marzo 1905. Tuttavia il Mullah continuò l’attività anti-occidentale cercando anche l’appoggio etiopico, ma con scarsi risultati. Tuttavia, dotato di qualità diplomatiche, politiche e organizzative, riprese le razzie per procurarsi armi e munizioni, costringendo la Gran Bretagna a un nuovo ripiegamento politico e militare. Il suo atteggiamento crudele e incontrollabile portò alla sua sconfessione (una sorta di scomunica) da parte della congregazione islamica cui apparteneva (Tarika Salehia). Dopo una vita di guerre, durante le quali riuscì a tenere in scacco gli inglesi, morì di influenza, nel 1920.

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filo da torcere al Regno Unito, era appunto nato nella Somalia allora britannica e poi italiana, a Bohotle).

Queste popolazioni bellicose, ostili fra loro e verso gli stranieri, impedirono a lungo i tentativi operati da stati europei (Portogallo, Gran Bretagna) di insediarsi sulle coste. Anche l’Egitto, quando, dopo avere esteso il proprio dominio su Aden (1871-1875), dichiarò nominalmente il proprio possesso della costa somala e tentò di impiantare presidi a Brava e a Chisimaio, venne respinto.

Mappa della Somalia. (Dalla Guida dell’Africa Orientale Italiana, Consociazione Turistica Italiana, 1938)

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A fine Ottocento, il governo islamico di Zanzibar aveva guarnigioni lungo la costa, chiamata Benadir, alla quale dall’interno pervenivano avorio e schiavi. I principali gruppi etnici del Benadir erano i Gheledi (Geledi),(5) gli Uadan (Wacdaan), i Biamal (Biyamaal) e i Mursada (Murursade). In particolare Uadan e Biamal erano ferocemente avversi all’insediamento di “infedeli”; la lotta contro gli invasori era quindi motivata non da ragioni etniche, economiche, o altro, ma religiose.

In quegli anni, Sceik Ahmed Haij Mahhadi, integralista islamico che aveva lasciato Mogadiscio, dove era nato e a lungo vissuto, non sopportando la convivenza con gli infedeli, si era trasferito presso gli Uadan, tra cui predicava attivamente la lotta religiosa, ottenendo largo seguito e aizzando in particolare Hassan Hussein, uno dei capi più bellicosi.(6)

Questo rapidissimo cenno alla storia somala vuole solo ricordare la situazione di instabilità etnica e di aggressività che caratterizzava le tribù situate lungo le coste, in particolare nella zona cosiddetta del Benadir, oltre lo Stretto di Bab El Mandeb e a sud di Capo Guardafui.

Tuttavia, la possibilità di incrementare i commerci attraverso il Golfo Persico, nonché la posizione strategicamente interessante delle coste che fronteggiavano l’Oceano Indiano, rendevano appetibili queste zone. Basti pensare che “benadir”, plurale di “bender”, ha in somalo il significato di “porti” (o meglio “scali”, cioè non di porti protetti e attrezzati) e, per estensione, di luoghi frequentati dai dhow dei commercianti, quindi “mercati”. Le potenze europee, in particolare Germania e Gran Bretagna, puntavano gli occhi all’occupazione di alcuni porti e territori; proprio mentre la rampante borghesia italiana, soprattutto lombarda, appoggiava la nascente politica di espansionismo dei governi della sinistra. Nell’aprile 1885, una volta occupata stabilmente Massaua, venne inviato l’avviso Barbarigo, al comando del capitano di fregata Matteo Fecarotta, a prendere contatti con il sultano di Zanzibar,(7)

(5) In corsivo, la trascrizione secondo siti web somali. (6) Vds. Lee V. Cassanelli, The Shaping of Somali Society: reconstructing the history of a

pastoral people, 1600-1900, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982; Cassanelli dichiara di avere utilizzato anche memorie orali somale. Vale la pena ricordare che presso le civiltà non alfabetizzate la memoria popolare – nel senso di ricordo etnico tramandato esattamente come tale da generazioni – ha praticamente la stessa validità storica di una documentazione archivistica.

(7) Come notava il cap. freg. Raffaele Volpe, comandante dello Staffetta, giunto a Zanzibar nel 1888, in una sua relazione, il sultano di queste isole era il più potente dell’Africa centrale orientale, ed estendeva il suo dominio ben addentro alle coste, da Capo Delgado (a nord del Mozambico) fino al Wadi (fiume) Nogal in Somalia (poco a sud del

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che, in quanto erede dei sultani arabi omaniti, era sovrano di queste coste, tanto da avere posto alcuni presidi a Mogadiscio (Mogdishu), Merca, Brava (o Barawa), Chisimaio e Uarsciech (o Uarsceic, Warsceic o altre trascrizioni simili), nella zona denominata Benadir. A bordo si trovava il capitano Antonio Cecchi,(8) che in base alle sue precedenti esperienze in Africa Orientale era stato incaricato di trattare col sultano un accordo commerciale che andò a buon fine. A Zanzibar, il Barbarigo, prima nave da guerra italiana vista in quel porto, volle impressionare sparando 21 colpi, ma, come riferisce lo stesso Cecchi in un rapporto al Ministero degli Esteri,(9) l’italico orgoglio fu bruscamente raggelato quando il comandante di un bastimento da guerra locale, il Glasgow, che voleva cortesemente ricambiare gli onori, dovette chiedere a prestito un tricolore per poterlo issare a prora, dato che ancora la nostra bandiera mancava alla collezione delle insegne europee… A Zanzibar gli italiani si incontrano con il commerciante e uomo d’affari Vincenzo Filonardi, unico compatriota residente in loco.

Mentre si avviano le lente trattative commerciali, il Barbarigo si reca a visitare le coste dell’attuale Kenya, da Lamu verso nord, fino alla foce del Giuba,

Capo Guardafui, la cui zona apparteneva al sultano della Migiurtinia). Ma il suo potere era inficiato dagli stretti rapporti con Gran Bretagna in particolare, e anche con la Germania, che aveva minacciosamente inviato una flotta armata per ottenere cessioni commerciali. L’unica soluzione per il sultano era quindi interporre una terza potenza tra le prime due, e si rivolse all’Italia, a cui offrì il porto di Chisimaio (offerta che venne poi declinata). Nel 1888 il sultano Sayd Bargash, aperto alle influenze occidentali morì, e venne sostituito, con l’appoggio britannico, dal fratello Sayd Kalifa. Costui era un arabo conservatore, poco propenso ai rapporti con l’Europa, ma descritto come di poca cultura e di scarsa intelligenza. Evidentemente, gli inglesi appoggiandolo pensavano di poterlo manovrare facilmente.

(8) Antonio Cecchi, nato a Pesaro il 29-1-1849, capitano marittimo per la compagnia Rubattino, si trovava a Zeila nel 1876 quando ebbe occasione di entrare in contatto con Orazio Antinori che guidava un’esplorazione verso i grandi laghi interni del Rift africano. Nel 1877, ottenne di unirsi a Sebastiano Martini Bernardi, che partiva per raggiungere Antinori nello Scioa. A causa di una ferita di caccia di Antinori, e del rientro di Martini Bernardi, solo Cecchi col compagno Giovanni Chiarini proseguirono verso il Caffa, ma vennero imprigionati dalla regina di Ghera nel 1879. Chiarini morì in prigionia, Cecchi fu liberato solo nel 1880. Rientrato in Italia, compose su questa disgraziata spedizione un libro di successo, Da Zeila alle frontiere del Caffa. Nel 1885 partecipò alla spedizione militare a Massaua guidata dal col. Tancredi Saletta. Dopodiché, iniziò appunto la sua sfortunata avventura somala.

(9) G. Po, L. Ferrando, L’opera della Regia Marina in Eritrea e Somalia, Roma, Ufficio Storico R. Marina, 1929, p. 100.

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Vincenzo Filonardi. (Da L.

Robecchi Bricchetti, Somalia e

Benadir, Aliprandi, 1899)

per indagarne, senza grossi risultati (i locali non avevano la tecnologia per costruire imbar-cazioni in grado di risalire il fiume e non potevano quindi dare informazioni esaurienti), le condizioni di navigabilità e l’utilizzo come via di comu-nicazione verso l’interno, cioè verso le regioni del Caffa, nella zona più fertile dell’altopiano etiopico. Tuttavia, per non irritare l’alleata Germania, che ha messo gli occhi su

Chisimaio (che in un primo tempo il sultano aveva offerto all’Italia), per il momento si soprassiede sull’occupazione territoriale.

Questo primo accordo commerciale trattato da Cecchi fu poi seguito, nel 1889, da trattati con i sultani di Obbia (precedentemente sottomesso a Zanzibar)(10) e dei Migiurtini, a nord di Mogadiscio.(11) I due sultani, in cambio di un appannaggio annuo di 1800 talleri di Maria Teresa per la Migiurtinia, e di 1200(12) per Obbia, nonché della protezione (vecchio problema di quelle zone!) dalla pirateria, chiesero il protettorato italiano, poi esteso anche su alcuni tratti di costa del Benadir, a eccezione delle città del sultano di Zanzibar, nel

(10) Almerico Ribera sostiene che tali accordi vennero sollecitati dal sultano di Zanzibar, anche stavolta per scongiurare le mire dei tedeschi, che avevano messo gli occhi su Obbia. Cfr. A. Ribera, Vita di Antonio Cecchi, Firenze, Vallecchi, 1940.

(11) Le trattative furono condotte, per quanto riguarda il sultano di Obbia, dal già citato Filonardi e dal tenente di vascello Ferrara, comandante del Dogali; quelle, più complesse, col capo dei Migiurtini, Osman Mahamoud, da Filonardi col capitano di fregata Carlo Amoretti e col capitano di fregata Giuseppe Porcelli, comandanti rispettivamente del Rapido e dello Staffetta.

(12) Vds. Ribera, op. cit., e anche Robert Hess, Italian colonialism in Somalia, Chicago, University of Chicago Press, 1966, p. 24-25. Secondo G. Po, L. Ferrando, op. cit., il sultano di Obbia avrebbe accettato solo 600 talleri.

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frattempo cadute sotto l’influenza britannica. A quel punto, come ricorderà il capitano di fregata Giorgio Sorrentino in una sua relazione scritta pochi anni dopo, già l’Italia esercitava la sua influenza su ampi tratti del territorio occupato dai somali. Infatti:

Fin dal novembre 1889 […] in base ad accordi presi con l’Inghilterra e la Germania erasi stabilito che la sfera d’influenza italiana si fosse estesa con una linea che partendo dal mare segue il corso del Giuba fino al 6° parallelo di latitudine nord; poi procede lungo quel parallelo fino al 35° meridiano est Greenwich e rimonta quindi questo meridiano fino al suo incontro col Nilo azzurro. Inoltre i trattati stipulati l’8 febbraio e il 17 aprile dello stesso anno coi Sultani Jusuf Ali di Obbia e Osman Mohamed di Alula misero sotto il nostro protettorato la costa situata fra il parallelo 2° e 30' latitudine Nord e il Capo Beduin ed assicurarono alla nostra influenza la rimanente costa fino a Bander Ziada. Cosicché tutta la costa che si estende dalla foce del Giuba al 49° meridiano est Greenwich deve considerarsi legittimamente come compresa nella nostra sfera di’influenza.(13)

Il 1° luglio 1890 un trattato anglo-tedesco assegna alla Gran Bretagna il controllo costiero da Witu (presso Lamu) al fiume Giuba, a nord del quale si trovano i presidi italiani. Accordi anglo-italiani prevedono che il Giuba segni il confine tra le due zone, e che entrambi gli stati abbiano pari diritti di navigazione ed esplorazione del fiume. Nostre navi costeggiano il Benadir, per rilevamenti idrografici e per rinsaldare le relazioni con i predetti sultani, nonché per tessere nuovi rapporti con le popolazioni locali. Volta,(14) Volturno,(15)

Curtatone(16) frequentano i villaggi costieri, i cui capi sembrano particolarmente entusiasti di ricevere, oltre ai regali, il saluto a salve dai cannoni di bordo, tanto che spesso richiedono questo omaggio, per non parlare dell’entusiasmo quando, talvolta, in segno di festa e di cortesia viene utilizzato un proiettore per illuminare di notte le località o vengono sparati razzi.

(13) Vds. G. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 229. (14) Trasporto a elica, ex mercantile britannico Dundee; var. 25-1-1883; in serv. 19-

4-1885; rad. 1-3-1914; lungh. 85,6 m; largh. 9,74 m; imm. 5,55 m; disl. 2842 t; armamento 5 cannoni da 57 mm e 4 da 37 mm.

(15) Cannoniera, var. 22-12-1887; in serv. 16-12-1889; rad. 1-3-1914. (16) Cannoniera, var. 25-11-1885, in serv. 14-8-1888, rad. 8-6-1913; lungh. f.t. 56,80

m; largh. 9,89 m; imm. p.c. 4,57 m; disl. 1292 t; armamento 4 cannoni da 120 mm, 4 cannoni da 57 mm, 2 da 37 mm, 2 mitragliatrici.

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La cannoniera Volturno e il suo equipaggio in due foto di C.A Gomes di Zanzibar. (Da L’illustrazione italiana, 13 dicembre 1896)

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Popolazioni ostili Però, anche se i doni venivano accettati, questo non significava che la protezione degli stranieri incontrasse facilmente il favore dei locali, che anzi talvolta rifiutarono con aperta ostilità ogni contatto. È il caso del Volta, che dopo una tappa ad Aden viene incaricato di rimpatriare toccando gli scali del Benadir per mostrar bandiera in quelle zone, abitate da Bimal, bellicosi e ostili agli stranieri. A Uarsceic, a nord di Mogadiscio, il 24 aprile 1890 si verifica un gravissimo atto di ostilità. Viene filata una barca a vapore con a bordo, insieme ad alcuni marinai, il sottotenente di vascello Carlo Zavagli, il sottonocchiere Angelo Bartolucci e un interprete, che scendono a riva per incontrare i capi locali e invitarli a bordo a ricevere alcuni doni. Dopo pochi passi sulla spiaggia il gruppetto viene improvvisamente assalito da indigeni armati. I nostri riescono a ritirarsi verso l’imbarcazione, ma Zavagli, già ferito, viene raggiunto da un colpo decisivo di giavellotto alla carotide.(17) Anche un marinaio, Angelo Bertorello, gravemente ferito da un colpo di fucile, non sopravvive più di un giorno. Il comandante del Volta, capitano di fregata Giuseppe Amari, ordina un bombardamento del villaggio, ma con scarsi risultati.(18)

Tuttavia, il governo italiano (all’epoca guidato da Francesco Crispi, notoriamente favorevole all’insediamento di colonie), nonostante questo incidente, sembra ben deciso a proseguire nella ricerca di una base costiera; viene individuata una località dotata di due discreti ancoraggi, Ataleh,(19) a circa 150 km a nord-est di Mogadiscio, ad alcune decine di chilometri da Uarsceic. Con l’intercessione del solito sultano di Zanzibar, che ha nel frattempo stretto ulteriormente i rapporti con l’Italia, Filonardi, già console a Zanzibar, prende possesso, il 14 marzo 1891, di Ataleh, che viene subito ribattezzata, evidentemente per assonanza col nome locale, Itala. Gli accordi (cioè, in buona sostanza, il pagamento) per la presa di possesso vengono però presi con capi tribali dell’interno, non con gli indigeni della costa. Quando questi vedono che

(17) Per il suo comportamento in quell’occasione (nonostante le ferite, di cui una

mortale, continuò a dare ordini per salvare la barca e il suo equipaggio) ricevette la Medaglia d’Argento al Valore Militare.

(18) Secondo G. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 164, gli scarsi effetti del bombardamento furono dovuti allo scarso armamento in artiglierie. Secondo A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, Dall’Unità alla marcia su Roma, Laterza, 1985, p. 417, il Volta avrebbe tirato 56 colpi da una distanza di 3000 m. Non è però chiaro da dove Del Boca abbia tratto questi dati. Il Volta risultava armato di 5 cannoni da 57 mm e 4 da 37 mm (G. Galuppini, Guida alle navi d’Italia dal 1861 a oggi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1982).

(19) Talvolta scritta Athel.

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la piccola guarnigione di arabi(20) che Filonardi ha assoldato a protezione del nuovo insediamento sta organizzandosi in maniera stabile, l’ostilità si fa palpabile, e l’aghida, cioè il comandante delle truppe arabe, sta sul-chi-vive. Finché un giorno, probabilmente innervosito da un sospetto andirivieni di somali, ha la mala pensata di arrestarne tre dei più autorevoli.

Otto giorni dopo, il 25 maggio, verso le 3 antimeridiane, in una notte senza luna e piovosa, mentre una trentina dei 50 arabi della guarnigione era fuori in perlustrazione, la guarnigione fu assalita. Fu una strage, anche perché l’intervento dall’esterno dei soldati in perlustrazione rientrati al rumore dell’attacco provocò alcuni caduti per “fuoco amico”: caddero 4 arabi e due muratori, ben 45 (pare) i morti somali, seguiti da altri 37 per ferite.(21) A quanto pare, la lezione, almeno per il momento, servì, e la guarnigione non venne più molestata, anche perché i locali capirono che avere un luogo dove poter scambiare i loro prodotti (tessuti, stuoie, dura,(22) datteri), senza essere costretti ad andare fino a Mogadiscio, poteva essere vantaggioso. Non solo, ma entro l’anno si conclusero le pratiche per ottenere ulteriori ancoraggi in altre città.

Venne inviato lo Staffetta,(23) al comando del capitano di fregata Giorgio Sorrentino, che nei primi mesi del 1892, con l’appoggio di lettere raccomandatizie del sultano di Zanzibar, sbarcò, ben accolto, a Brava, Merca, Mogadiscio, Obbia, Alula. Non si trattava di occupazioni territoriali, ma di una sorta di protettorato, ottenuto col consenso dei capi locali. Il 12 agosto 1892 veniva firmata col sultano di Zanzibar la convenzione per la cessione dell’amministrazione di Mogadiscio, Merca, Brava e Uarsceic, che vennero affittate per 25 anni, rinnovabili per altri 25, a un canone annuo di 160 000 rupie, poi ridotte a 120 000.(24) Il territorio pertinente si estendeva per un raggio di 10 miglia inglesi per i tre primi porti, di solo 5 per Uarsceic; si trattava

(20) Tale guarnigione aveva peraltro ben poco della disciplina che normalmente si associa al mondo militare; il già citato comandante Sorrentino, che la visitò qualche anno dopo, rimase esterrefatto e schifato dal sudiciume del personale e degli ambienti, dall’indisciplina e apatia, dalla mancata manutenzione delle armi, dalla incapacità e arroganza dell’aghida, cioè del loro comandante, sposato fra l’altro anche con una dodicenne, e via elencando; mentre notava pulizia e decoro nei somali locali.

(21) Tali dati sono riportati nella relazione già citata del capitano di fregata Sorrentino, ma vanno presi con cautela; non si capisce come, per esempio, Sorrentino sapesse con certezza il numero dei feriti somali poi deceduti.

(22) Un cereale simile al sorgo, base dell’alimentazione locale. (23) Avviso a elica; v. 1876; compl. 1877; rad. 1914; lungh. f.t. 85,6 m; largh. 9,4 m,

imm. 4,5 m, disl. p.c. 1806 t; armamento 4 pezzi da 120 mm, 1 tubo lanciasiluri. (24) Nel 1905, gli scali del Benadir furono acquistati dietro versamento di 144 000

sterline.

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rispettivamente di 16 e 8 chilometri circa.(25) È un dato interessante per la nostra trattazione. L’affitto di tali stazioni venne dal governo italiano subappaltato per tre anni alla Società Filonardi, creata a Zanzibar fin dal 1884 dal commerciante romano Vincenzo Filonardi, che si impegnava all’amministrazione del Benadir, dietro rimborso da parte del governo del canone da versare al sultano. Da notare che dunque la Somalia non era propriamente colonia, cioè non era stata occupata militarmente né amministrativamente, ma parte (nel Sud-Est, cioè nel Benadir) comprendeva alcuni attracchi in affitto, parte (il Nord, cioè Obbia e la Migiurtinia) protettorato.

La guardia d’onore del sultano di Zanzibar schierata nel porto. (Da L’illustrazione italiana, 13 dicembre 1896)

(25) Vds. G. Mylius, L’Italia nei Benadir, Milano, tipografia Lombardi, 1895. Mylius,

industriale cotoniero milanese, imparentato con Antonio Cecchi, effettuò nei primi mesi del 1895 un viaggio nelle coste somale per indagare le possibilità di espansione economica dei nostri insediamenti; era quindi particolarmente interessato a conoscere l’ampiezza del territorio utilizzabile.

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I presidi italiani erano esclusivamente in alcune città, e con scopi commerciali. Non era però un buon momento per insediarsi nel Benadir: negli ultimi anni, malattie ed epidemie sia tra il bestiame sia tra gli abitanti avevano ridotto le popolazioni alla miseria e alla fame; a questo si aggiungeva l’ostilità dei locali sia verso forme di autorità in genere (dato anche il disastroso e arbitrario atteggiamento della precedente amministrazione zanzibarita) sia verso gli europei.

L’avviso Staffetta. (Da L’illustrazione italiana, 13 dicembre 1896)

Tra le principali ragioni che rendevano gli italiani, e gli europei in genere, invisi alle popolazioni locali c’era il timore che i nuovi arrivati volessero abolire la schiavitù, base dell’economia locale.(26) Vale la pena ricordare che la schiavitù

(26) Il 2 luglio 1890 era stato firmato da diciotto nazioni (più, con ratifica parziale,

dalla Francia) l’Atto Generale di Bruxelles, che impegnava le firmatarie ad energiche azioni antischiaviste nelle zone coloniali, fra le quali il controllo da parte delle navi da guerra dei mercantili sospettati di effettuare la tratta degli schiavi. Da notare che tra i firmatari compariva anche Zanzibar.

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in quelle zone non aveva il carattere predatorio e oppressivo che abitualmente vi colleghiamo. “La schiavitù fu una cosa orribile solo in mano ai popoli civili ed evoluti”, polemizzava Giuseppe Piazza nel 1913. Gli schiavi non erano preda di guerra, ma acquistati su base commerciale, e pagati a caro prezzo, il che li rendeva un investimento di capitale da curare; avevano forme istituzionalizzate di tutela e di protezione.(27) Anche dal punto di vista religioso, il Corano, che pure accetta la schiavitù, con esclusione dei correligionari, specifica che l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio implica doveri precisi verso gli schiavi, tanto che il diritto civile e penale islamico articola minuziosamente l’istituto della schiavitù, che era alla base dell’agricoltura e della produzione del mondo somalo, e arabo in generale. Ovvio che la minaccia di sovvertimento economico e sociale aizzasse i già bellicosi indigeni.

Anche la Gran Bretagna, a sud del Giuba, aveva problemi a trattare con i locali, e frequenti erano gli atti violenti contro amministratori e milizie inglesi, aggravati da episodi di ammutinamento fra le guarnigioni arabe. In particolare, fu un italiano, il tenente di vascello conte Giovanni Lovatelli, a collaborare con i britannici nell’agosto 1893: Lovatelli si trovava a Chisimayo, alle foci del Giuba, in attesa di compiere un viaggio conoscitivo lungo il fiume con il battello a vapore Kenia, quando il 18 agosto si verificò un ammutinamento dei militi della guarnigione araba, uniti ai somali. Lovatelli spontaneamente collaborò con l’amministratore britannico della IBEAC,(28) R.G. Farrant, per respingere l’attacco. Arrivò a rinforzo, il 23 agosto, l’HMS Blanche: con l’appoggio di Lovatelli, si riuscì a recuperare il Kenia, ormeggiato nel Giuba, liberando i britannici rimasti prigionieri e isolati a bordo, e ad attuare alcune operazioni di ritorsione su villaggi dei dintorni, sia in zona britannica sia a nord

(27) Vds. Giuseppe Piazza, Il Benadir, Roma, Bontempelli e Invernizzi, 1913. Piazza

dedica un intero capitolo (p. 315-346) alla difesa della forma di schiavitù praticata dai somali, facendo notare che solo con l’arrivo degli italiani comparvero le catene apposte dai proprietari, perché si verificarono fughe di schiavi verso la costa per essere dagli italiani liberati (che nella loro mentalità significava esenzione da qualsiasi lavoro). Gli schiavi corrispondevano sostanzialmente a ciò che noi definiremmo domestici, o lavoranti, ed erano, si può dire, “sindacalizzati”: avevano diritto a due giorni al mese di riposo totale; avevano formato società, dette soddon, fondate su suggerimento dei padroni stessi, regolate da statuti e con versamenti dei soci, che sovvenzionavano soci ammalati o infortunati, che controllavano che nessuno si sottraesse al lavoro (punizione con multe o battiture) ma altresì multavano padroni che battevano o incatenavano i propri schiavi o rifiutavano i due giorni di libertà. Una difesa della forma araba di schiavitù si trova anche in Beatrice Nicolini, Il sultanato di Zanzibar nel XIX secolo: traffici commerciali e relazioni internazionali, Torino, L’Harmattan Italia, 2002, p. 131 sg.

(28) Imperial British East Africa Company.

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del Giuba, su un villaggio in zona italiana. Per la sua collaborazione, il tenente di vascello Lovatelli ricevette la Medaglia d’Argento al Valore Militare dal Regno d’Italia, e fu insignito dell’Ordine di San Michele e San Giorgio dall’Impero britannico.

C’era parecchio fermento quell’anno fra le tribù indigene. Lo dimostra anche l’attacco subito dal tenente di vascello Maurizio Talmone,(29) dello Staffetta, ucciso a sorpresa l’11 ottobre 1893 da un somalo della tribù Bimal a Merca, subito dopo la cerimonia di consegna della città da parte dei rappresentanti del sultano di Zanzibar alla compagnia Filonardi; il fatto si sviluppò in modo simile a quanto era successo al sottotenente di vascello Zavagli. Mentre, dopo avere visitato il paese ed essersi incontrato con i notabili, stava per reimbarcarsi, l’ufficiale fu colpito alle spalle da un colpo di coltello. L’aggressore fu prontamente ucciso da un paio degli ascari di scorta. Il giorno seguente, come già era avvenuto l’altra volta, si effettuò il bombardamento della parte somala di Merca e dei villaggi Bimal dei dintorni, con 157 colpi che provocarono danni ingenti e almeno 21 morti (il numero esatto non poté essere appurato, data la fierezza dei locali, che “fieri e indomabili”, come li definisce lo stesso comandante dello Staffetta, capitano di fregata Edoardo Incoronato, nascondevano i cadaveri pur di non dovere ammettere le perdite e la sconfitta). Con una certa ammirazione Incoronato annota che, quando due granate inesplose scoppiarono il giorno dopo tra le mani degli indigeni che cercavano di spostarle, alla sua domanda su quanti morti avessero causato gli venne alteramente data l’incredibile risposta: “Nessuno”. Una decina di capi somali, che ammettono di avere congiurato per impedire l’arrivo degli italiani, vengono arrestati.

Il bombardamento di Merca, tuttavia, non è certo servito a calmare gli animi, tanto più che lo stesso Incoronato è perfettamente consapevole che l’assassino non era un suo abitante, e quindi viene chiaramente avvertito come una plateale forma di ingiustizia e di ritorsione senza ragione. Anche a Uarsceic lo Staffetta viene accolto con ostilità: un somalo cerca di ferire un militare; si levano grida manifestamente anti-italiane. Gli agricoltori dei dintorni, abituali fornitori di viveri, non osano avvicinarsi all’abitato. La tensione nella zona, quindi, è alta, anche se a Brava e a Mogadiscio, dove i Bimal sono odiati, per reazione vengono accettati gli italiani con tranquillità. È indicativo il commento del comandante Incoronato:

(29) Nato l’8 giugno 1868, era figlio del celebre industriale torinese del cioccolato, Michele Talmone.

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Questa missione che mentre a prima vista e da lontano sembrò dovesse consistere in una semplice passeggiata di piacere, tra le accoglienze di popolazioni festanti, come da molti si credeva, si è invece tramutata in una difficile ed ardua impresa, direi quasi una campagna di guerra …”.(30)

Dalla società Filonardi alla società del Benadir La Società Filonardi cerca di porre rimedio a tale situazione; nel trattare coi locali a Filonardi vengono riconosciute equità e saggezza, che lo rendono complessivamente bene accetto; più di una volta restituisce ai padroni gli schiavi fuggitivi, il che viene apprezzato:(31)

Questo signore, col suo carattere uniforme e tranquillo, disposto alla tolleranza e alla benevolenza, imparziale fino allo scrupolo, buono, ma energico, profondo conoscitore delle qualità e dei difetti dei suoi amministrati, merita effettivamente la simpatia e la stima di cui è fatto segno”.(32)

Così lo loda il capitano di vascello Agostino Rebaudi comandante del Piemonte. A Filonardi si affianca, come interprete, assistente, consigliere, un arabo, Abu Baker Bin Aohod.

Ma gli affari non vanno come si deve: la Compagnia deve amministrare il Benadir, svilupparne i commerci e l’agricoltura, cercare di importare e rivendere prodotti italiani, occuparsi di opere di pubblica utilità, procurarsi soldati e armi per garantirne la sicurezza, in cambio di una sovvenzione governativa annuale di 350 000 lire (comprensiva del tributo al sultano di Zanzibar), più gli introiti doganali. La mancanza di capitali solidi e abbondanti, nonché la difficoltà (e impreparazione) nel gestire amministrativamente popolazioni così ostili, resero presto difficoltosa la gestione della colonia, tanto che Filonardi, che già nel 1893 aveva dato le dimissioni da console di Zanzibar (ed era stato sostituito da Antonio Cecchi), si vide infine revocare la concessione alla sua società: si rendeva necessario un intervento più incisivo, ma anche più dispendioso.

(30) G. Po, L. Ferrante, op. cit., p. 259. (31) “Venuta poi la Compagnia (Filonardi) che governò per tre anni ci venivano restituiti gli

schiavi fuggitivi”, scrisse il sultano di Gheledi in una sua lettera del 7 dicembre 1903 a Chesi e Travelli, commissari della Società del Benadir (vds. G. Piazza, op. cit., p. 319).

(32) Ibidem, p. 273.

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La bandiera della Società Italiana del Benadir, con il simbolo milanese del biscione visconteo. (Da L. Robecchi Bricchetti, op. cit.)

Nonostante lo scalpore creato dalle notizie sulla disfatta di Adua del 2 marzo 1896, che raffreddarono molti entusiasmi coloniali, venne creata, con il favore del governo, la Società Commerciale Italiana del Benadir (emanazione della Banca Com-merciale Italiana), costituita a Milano il 15 aprile 1896. Ne facevano parte i nomi più illustri dell’industria lombarda: Visconti di Modrone, Crespi, Bocconi, Turati, Erba, Pirelli, Vimercati, l’industriale cotoniero Giorgio Mylius, ecc. Nell’attesa di ap-

provazione di tale società da parte del Parlamento, e dato che la nuova società prima di insediarsi attendeva una stabilizzazione della situazione locale, la gestione della colonia fu provvisoriamente assunta dal governo italiano, nella persona del console italiano a Zanzibar, il capitano Antonio Cecchi, che diventa quindi il primo governatore di Mogadiscio.(33) Arrivato a Mogadiscio il 15 novembre 1896 a bordo del Volturno, Cecchi trova una situazione critica: se Filonardi, rendendosi conto delle difficoltà in cui si è inguaiato avendo accettato la rappresentanza governativa, può accogliere la notizia del rientro in Italia con un certo sollievo,(34) certo questo non avviene per il suo assistente, interprete e factotum Abu Baker, che vede sfumare la sua influenza e le sue prospettive.

(33) L’esercizio provvisorio governativo durerà fino alla fine del 1899; nuovo governatore sarà nominato Emilio Dulio, colui che da regio commissario si era occupato appunto dell’eccidio di Cecchi e compagni.

(34) Già nel 1895 Giorgio Mylius, che dopo avere visitato il Benadir in vista del futuro scadere del contratto di concessione, ne aveva scritto una relazione sulle possibilità di sviluppo (L’Italia nei Benadir, op. cit.), scriveva con sicurezza che “la compagnia Filonardi rinuncerà volentieri alla rinnovazione del contratto” (p. 13).

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Antonio Cecchi con la divisa di

Console di Zanzibar (Da A.

Ribera, op. cit.)

Inoltre, i rapporti con le

popolazioni locali sono sul-l’orlo del collasso, e non solo con i somali: a Lugh (Luuq), nell’entroterra, Bottego e Ferrandi(35) hanno creato un caposaldo trincerato, ma di-feso da solo 90 fucili, e in quell’ottobre 1896 si sparge la voce che armati abissini stan-no puntando contro Lugh. Date le difficoltà di stabilire improbabili confini territoriali in quelle zone, infatti, mentre per gli italiani Lugh è somala, gli abissini dell’etnia Amhara la considerano di propria conquista, avendola occupata

nel corso di una loro scorreria (non si può non rilevare il secolare ripetersi di scontri di confine tra etiopici e somali, anche questo ancora di attualità ai giorni nostri). A questo si aggiungeva l’euforia abissina dopo la vittoria riportata ad Adua il 1° marzo di quell’anno.

A questo punto Cecchi, preoccupato forse per una possibile discesa degli Amhara fino alla costa, pensa bene di recarsi in visita dal sultano di Gheledi, lungo lo Uebi Scebeli, per concordare una possibile reazione comune nei confronti degli Amhara. Questa, almeno, è l’ipotesi avanzata nella sua relazione(36) dal comm. Emilio Dulio, commissario a Mogadiscio, ma è ipotesi che lascia perplessi, data la distanza fra Lugh e la costa, tanto più che semmai

(35) Vittorio Bottego e Vincenzo Ferrandi, com’è noto, sono tra i maggiori

esploratori italiani dell’Ottocento. (36) Nella relazione inviata al Ministro degli Esteri in data 28 nov. 1896, riportata in

G. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 303 sg.; anche A. del Boca, op. cit., p. 742, avvalora tale ipotesi.

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gli Amhara avrebbero trovato più semplice discendere lungo la valle del Giuba, nella quale si trova Lugh, arrivando quindi a Chisimaio.

Secondo la versione somala, fondata su alcuni storici americani(37) e divulgata via web,(38) l’intenzione era invece una vera e propria spedizione tesa all’espansione verso l’interno, appoggiandosi al fatto che il sultano di Gheledi era favorevole a un accomodamento con gli italiani. Versione invero poco probabile, data l’esiguità della scorta militare, e parecchi altri elementi che, al contrario, indicano semmai una sgradevole faciloneria.

In un momento di transizione fra due compagnie commerciali, e con guarnigioni costiere ancora scarse, non era ovviamente il caso di allargarsi verso l’interno; semmai, l’intenzione poteva essere quella di rafforzare con un incontro i rapporti di amicizia con il sultano di Gheledi (o dei Gheledi: nome di popolazione e di località coincidono).Vuole inoltre compiere una missione esplorativa della sponda settentrionale dello Scebeli, per visionarne le coltivazioni. Era un progetto che aveva fin da settembre e di cui aveva parlato con il comandante Mongiardini.

Anche il comandante dello Staffetta, Ferdinando Maffei, che era in missione esplorativa (aveva recentemente visitato Meregh, a mezza costa tra Mogadiscio e Obbia), aveva in programma di perlustrare lo Uebi Scebeli.

Già si sapeva che il sultano(39) del Gheledi si trovava in quei giorni fuori dalla sua sede, ed era sostituito dallo zio, che alle richieste degli italiani di visitarlo prende tempo. La tribù dei Gheledi era da due secoli(40) alleata con gli Uadan, ma in quegli anni, mentre gli Uadan, guidati dal già citato Ahmed Haij Mahhadi e da Hassan Hussein, erano fieri avversari di qualsiasi forma di invasione, il sultano di Gheledi era più disponibile alle trattative; questo provocava tensioni all’interno del sultanato, e forse per questo il sultano non si fa trovare e lo zio traccheggia. Ma Cecchi, convinto anche (nonostante i precedenti) del fatto che ormai le genti locali siano pacifiche e amichevoli nei confronti degli italiani, decide comunque di organizzare quella che probabilmente

(37) Lee V. Cassanelli, op. cit.; R.L. Hess, Italian Colonialism in Somalia, Chicago, University of Chicago, 1966.

(38) http://newsomalia.blogspot.it/2010/08/massacre-at-lafoole.html; http://beeshadireed.blogspot.it/2011/05/bimaal-dir-revolt-mas.html

(39) È bene specificare che il termine “sultano” non si deve intendere come riferito a carica particolarmente prestigiosa. In quelle zone ogni capo, anche di un semplice villaggio, veniva così definito.

(40) Vds. Virginia Luling, Somali sultanate: The Geledy City-State over 150 years, Haan Publ, 2001.

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Il capitano di fregata Ferdinando

Maffei, comandante dello Staffetta,

(Da L’illustrazione italiana, 13

dicembre 1896)

considera poco più di una gita nei dintorni. Vero che riceve varie rassicurazioni, anche dagli europei residenti (come il signor Trevis,(41) rappresentante della Società Filonardi), che gli garantiscono che gli abitanti di Mogadiscio sono di indole tranquilla, ma i numerosi e gravi episodi di ostilità pre-cedenti avrebbero dovuto ricordare che in ogni caso le tribù insediate nei villaggi

dell’entroterra e dei dintorni degli ancoraggi erano spesso ostili sia verso gli stranieri, sia verso gli abitanti dei centri principali.

Esce quindi da Mogadiscio il 25 novembre 1896 con un piccolo nucleo di compagni e con una scorta di una settantina di ascari. Lo accompagnano:

- il capitano di fregata Camillo Francesco(42) Mongiardini, comandante del Volturno;

(41) Giacomo Trevis pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1897, venne a sua volta

pugnalato da un Bimal a Merka, dove era appena sbarcato. L’assassino venne ucciso dalla scorta, ma Trevis morì dopo tre giorni di agonia.

(42) Nonostante venga comunemente indicato, anche in tutti i testi qui citati, col nome di Francesco, il comandante Mongiardini fu nominato come Camillo sia nel “ricordino funebre” stampato per l’equipaggio del Volturno subito dopo la sua morte, sia nella motivazione della Medaglia d’Argento al Valore Militare che gli fu concessa (come a tutti gli ufficiali della spedizione, mentre ai “militari di bassa forza” fu concessa la Medaglia di Bronzo; vds. decreto 1° giugno 1898, in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 162 del 14/7/98), sia nella G.U. n. 92 del 2 aprile 1873, che riporta la lista dei guardiamarina promossi a sottotenenti di vascello.

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- il capitano di fregata Ferdinando Maffei, comandante dello Staffetta, che già si trovava in porto all’arrivo del Volturno e di Cecchi;

- il sottotenente di vascello Onorato Baraldi; - il commissario di 2a classe Lucindo Baroni; - l’attendente Pio Caramelli, del Volturno; - il sottotenente di vascello Carlo Sanfelice; - il sottotenente di vascello Vincenzo De Cristofaro; - il medico di 2a classe Alfredo Smuraglia; - il commissario di 2 a classe Bernardo Gasparini; - il guardiamarina Luigi Guzzolini; - il macchinista di 3 a classe Giuseppe Olivieri; - il sotto capo fuochista Giuseppe Rolfo; - il sotto capo timoniere Nicolò Vianello; - i marinai Natale Buonasera e Federico Gregante, dello Staffetta,

attendenti del comandante Maffei; - il geometra Filippo Quirighetti, direttore delle dogane, incaricato di

stendere una relazione.

Gli ufficiali della regia nave Staffetta a Zanzibar, prima dell’eccidio: 1) comandante Maffei; 2) guardiamarina Guzzolini; 3) N.N.; 4) commissarioGasparini; 5) medico Smuraglia; 6) e 7) N.N.; 8) sottotenente Saureati; 9) N.N.; 10) sottotenente vasc. Sanfelice; 11) tenente Candeo.

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Lo stato maggiore del Volturno, con il comandante, il capitano di fregata Francesco Mongiardini, il sottotenente di vascello Onorato Baraldi, il comandante di 2a classe Lucindo. (Da L’illustrazione italiana, 13 dic. 1896)

La “strage di Lafolè” non avvenne a Lafolè Il gruppo era fornito di cavalcature (muli, cavalli e cammelli) per gli europei, di dieci cammelli da carico ed era scortato, per 16 bianchi, da una settantina di ascari. Nonostante gli incidenti precedenti, si accetta quindi di partire con una scorta stranamente scarsa, come venne rilevato anche nei successivi dibattiti parlamentari. Dulio, nella sua relazione, specifica che non è stato possibile averne di più perché il presidio locale era già stato fortemente diminuito dall’invio di una sessantina di uomini in altre località della costa. Come a dire

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che, se fosse stato possibile, la scorta sarebbe stata più numerosa. In effetti, risulta dalla relazione relativa al successivo assassinio di Giacomo Trevis che sei guardie per un bianco erano considerate poche. Addirittura, poche settimane dopo, il 2° capo cannoniere dello Staffetta, Sammartino, venne attaccato, il 15 dicembre 1896, benché accompagnato da un centinaio di armati.

Una stampa popolare d’epoca raffigurante il cosiddetto “eccidio di Lafolè”. (Da A.

Ribera, op. cit.)

Tali sorprendenti (col senno di poi è facile definirle sconsiderate) mancanze di cautele provocheranno in seguito violenti dibattiti parlamentari, tanto che si sparse la voce (infondata) che le vittime non sarebbero state considerate cadute in servizio ma “in una geniale escursione o partita di caccia”.(43) Addirittura si affermò(44) che il comandante Maffei prima di partire avesse deposto, come un inutile peso, la sua pistola, e fosse partito “armato” del solo frustino. E questo, però, non combacia assolutamente con quanto dichiarato da Federico Gregante, ordinanza del comandante Maffei, uno dei

(43) Come ebbe polemicamente a dire l’on. Santini, ex-ufficiale della Regia Marina, chiedendo in Parlamento informazioni al Ministero della Marina sui provvedimenti che si sarebbero adottati per ufficiali e marinai morti. Gli rispose il ministro Brin che erano stati e sarebbero stati presi tutti i provvedimenti di legge in soccorso delle famiglie dei caduti. Vds. http://storia.camera.it/regno/lavori/leg19/sed212.pdf.

(44) http://storia.camera.it/regno/lavori/leg20/sed051.pdf

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pochi sopravvissuti. Secondo Gregante, Maffei, convinto di andare a una partita di caccia di tre giorni, si raccomandò di preparare doppietta e munizioni.(45) Anche la partenza avviene in un orario particolare, cioè non nelle prime ore del mattino, ma nel pomeriggio verso le 15, quasi in piena canicola, a una latitudine in cui alle 18 circa si ha il tramonto. Tutti questi elementi smentiscono la teoria secondo cui si trattava di un vero e proprio “contingente militare”, o spedizione militare, mirante a firmare trattati col sultano di Gheledi, come si è affermato.(46)

Dopo un’ora la comitiva sparisce alla vista di chi la osserva da Mogadiscio, avendo superato la linea della duna costiera. Secondo le testimonianze raccolte da Dulio, e confermate, anche se con qualche comprensibile discordanza oraria, dall’ordinanza Gregante, si prosegue anche dopo il tramonto, dato che evidentemente l’illuminazione lunare consente di avanzare.(47) Dopo alcune ore di marcia, verso le 21, giunti nei pressi del villaggio dall’inquietante nome di Lafolè (“il luogo dove si trovano le ossa”, questo il significato nella lingua locale),(48) a circa venticinque chilometri dalla città, si decide di fare campo in uno spiazzo nella boscaglia. A quanto poi si seppe(49) Cecchi non gradiva questa sistemazione, tanto che si accese una discussione piuttosto animata con il capo cammelliere Mohammed Ghedi, che

(45) Intervista a Pietro Rembado (L’illustrazione italiana, 28 marzo 1897). (46) Vds. Lee V. Cassanelli, op. cit., p. 203 sg.: “It was the first colonial attempt to

penetrate the interior with a military contingent …”; anche Daud Jimale, op. cit., mira a presentare la “strage di Lafolè” come la reazione a un tentativo di espansione coloniale.

(47) Secondo i calcoli di http://www.timeanddate.com/calendar/moonphases.html?year=1896&n=160, nel

novembre 1896, nella zona di Mogadiscio, la luna piena si era verificata il 20 novembre, e ancora il 28 si era all’ultimo quarto; secondo

http://aa.usno.navy.mil/data/docs/RS_OneDay.php il 25 novembre 1896, alle coordinate di Lafoole (long. E 45.2, lat. N 2.2) la luna era sorta alle 17:40, per tramontare alle 6:15 del mattino, e l’80% del disco lunare era visibile; l’illuminazione notturna era quindi molto buona.

(48) Da “lafo” (pl. di “laf” = ossa) e “leh” (giacere, stare). Anche se in Italia è normalmente utilizzata la pronuncia con accento tronco, sull’ultima sillaba, la pronuncia corretta è con accento piano, Lafoòle, con “o” pronunciata lunga e aperta (ringrazio per le segnalazioni il prof. Ernesto Milanese); in effetti, attualmente viene normalmente scritta come Lafoole. Un identico toponimo (Lafolé) si trova in una dettagliata carta dell’Africa Orientale in scala 1:2.500.000, Ist. Geograf. De Agostini, 1935, ma si tratta di altra località somala, molto più all’interno, a più di centocinquanta chilometri in linea d’aria a nord ovest di Mogadiscio.

(49) Vds. Relazione al Ministero della Marina del tenente di vascello Foscari, nella versione riportata in Rassegna del Mediterraneo e dell’espansione italiana, 1928, SAIGE, Roma.

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invece insisteva per accamparsi. Furono i comandanti a intromettersi per fare accettare la tappa. In seguito Mohammed Ghedi venne accusato da un supposto testimone di collusione con gli attaccanti.

Che la compagnia si sentisse al sicuro è dimostrato sia dalla marcia, parzialmente notturna, nella fitta boscaglia, sia dal fatto che, come rilevò la successiva inchiesta, quella notte uno o più locali della tribù degli Uadan, avvicinatisi con il pretesto di vendere latte, vengono accolti dal comandante Maffei, ancora sveglio. Più probabile, comunque, che il venditore di latte e i suoi eventuali accompagnatori abbiano trattato la vendita non direttamente con l’ufficiale, ma con l’ordinanza Gregante, che dichiarò: “Sapendo quanto ne fosse ghiotto il mio comandante, mi alzai e lo comprai tutto per tre talleri”. Prezzo esagerato per un po’ di latte (tre talleri d’argento di Maria Teresa!), ma concediamo o svista del ricordo di Gregante, o coloritura nella relazione di chi riportò l’intervista.

Si tratta, evidentemente, di emissari incaricati di controllare le difese dell’attendamento e la situazione di tranquillità dei suoi occupanti. Circa un’ora dopo mezzanotte,(50) le sei sentinelle vengono improvvisamente pugnalate e il campo è sottoposto a un attacco a base di lancio nutrito di frecce avvelenate. Dall’indagine condotta in seguito, si dice che le sentinelle si erano forse assopite “causa la marcia piuttosto faticosa”(51) eppure si era trattato di poche ore, su sentiero stretto, certo disagevole dato l’impaccio del terreno sabbioso, in mezzo alla boscaglia, ma abbastanza tracciato,(52) con la sola eccezione delle alture costituite dalle dune; e per di più a passo calmo, dato che si percorse una ventina di chilometri in circa cinque ore, quasi tutte nel tardo pomeriggio o di sera, senza il calore delle ore centrali. È probabilmente da accreditare la notizia raccolta dal tenente di vascello Foscari(53) che quella notte, a causa delle proteste di qualche ufficiale, le scorte abbiano dovuto interrompere i canti che usualmente intonavano per tenersi sveglie; zittite, senza potere in qualche modo concentrarsi su altro, si assopirono.

(50) Nella citata intervista a Gregante, il venditore di latte sarebbe arrivato alle tre di notte, e l’attacco scatenato mezz’ora dopo. Poco credibile; chi mai, anche se sveglio, avrebbe accolto un venditore di latte alle tre di notte?

(51) G. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 308. (52) Vds. relazione comandante Foscari, ibidem, p. 331. (53) Il tenente di vascello Foscari, comandante ad interim del Volturno, stese la sua

relazione nel dicembre del 1896, avendo potuto quindi evidentemente raccogliere informazioni e dettagli più numerosi di quanto avesse potuto fare Emilio Dulio a poche ore dei fatti.

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Una tavola di Achille Beltrame.

Anche se nel testo di accom-

pagnamento si dichiara che è

stata eseguita sulla scorta delle

relazioni sull’accaduto, per

renderla il più possibile veri-

tiera, sono evidenti le finalità

agiografiche. (Da L’illustrazione

italiana, 20 dicembre 1896)

I sei aggressori delle sentinelle vengono uccisi nella sparatoria che segue. Per un quarto d’ora piovono nel campo frecce. Le bianche tende degli accampati sono un obiettivo facile, mentre gli assalitori sono ombre nella notte. Infatti, ricordò poi Gregante, le tende vennero ra-

pidamente smontate, lasciando solo quella del dottor Smuraglia, destinata ad essere ricovero per i feriti; intorno ad essa fanno cerchio gli ascari, ma il loro fuoco disordinato è influenzato dalla paura. Poi gli attaccanti si allontanano, pur continuando a far sentire nella notte le loro grida di guerra. Gli ascari continuano a sparare inutilmente nelle tenebre, sprecando cartucce, nonostante gli ordini di cessare il fuoco.

All’alba del 26 novembre si constata che sono caduti una dozzina di ascari, e che ci sono parecchi feriti; ma il gruppo degli italiani è ancora intatto. Si conta una ventina di somali morti.

Respinto il primo attacco, Cecchi, sperando evidentemente di avere superato la difficoltà (nonostante si avverta ancora la presenza di somali nei dintorni), conta di riuscire a rientrare su Mogadiscio partendo all’alba. Anzi, in un primo tempo pensa addirittura di proseguire verso il fiume, rinunciando all’idea solo per la presenza di alcuni feriti. Non si organizza un rientro immediato di notte verso la città, magari inviando subito un messaggero che richieda frettolosamente rinforzi (venticinque chilometri su quel terreno, al passo di corsa di un ascaro mediamente allenato, e con discreta illuminazione

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lunare, si potevano coprire in relativamente poco tempo: quattro ore, forse meno).(54) A quanto risultò, fu Cecchi che si oppose all’invio di una staffetta, temendo di esporre inutilmente un uomo a grave rischio, e che consigliò di attendere il giorno, pensando che i somali non avrebbero osato combattere contro armi da fuoco in piena luce, come anche la guida locale aveva assicurato.

Ma all’alba la fuga si risolverà in un disastro, tanto più che nella notte, forse rubati, forse fuggiti, in parte feriti, erano venuti a mancare alcuni degli animali; di quelli restanti, alcuni vengono caricati dei feriti, e per non abbandonare il materiale si caricano anche i cammelli da sella. Anche questo pare sorprendente: il campo era stato attaccato, per tutta la notte si erano sentite le grida di guerra di somali, evidentemente ancora nei dintorni, eppure ci si pone il problema di salvare materiale, someggiando delle cavalcature! Due o tre cavalli si sono salvati, e vengono montati.

Intorno, arrampicati sugli alberi, o occhieggianti nella boscaglia, si intravedono alcuni somali, silenziosi, inquietanti. Si pensa tuttavia che non vi sarà un altro attacco, e che si potrà effettuare il rientro. Il guardiamarina Guzzolini, appassionato cacciatore, di tanto in tanto mira e spara a qualche indigeno appostato, scherzando in modo macabro sulla qualità della selvaggina.

Una scarica di frecce arriva improvvisa; ricominciano gli ululati di guerra. Sono proprio i due o tre a cavallo, in quanto più in vista, a essere i bersagli più attaccati; perciò, scendono rapidamente e cercano, anche loro, di fuggire a piedi. I bianchi cercano di controllare il tiro di difesa; ma gli ascari scaricano i fucili a caso tra i cespugli; molti di loro fuggono. Si accelera la ritirata, cercando di raggiungere al più presto il territorio della tribù, creduta amica, dei Mursada, che fino ad allora erano sempre stati in ottime relazioni con gli italiani e che invece si erano alleati con gli Uadan.

Sono circa le otto, otto e mezzo; pochissimi gli ascari rimasti, quasi tutti fuggiti. Il comportamento degli ascari, in questa occasione, non fu certo fidato; le successive relazioni fanno notare mancanza di disciplina: le sentinelle addormentate, il fuoco scoordinato, gli ordini di risparmiare munizioni trascurati, e inoltre, durante la ritirata, risulta che alle grida di guerra dei somali essi rispondessero con la smargiassata di incitare i nemici alla battaglia (salvo poi fuggire in massa). Si trova una specie di orto, una spianata cinta da siepi

(54) Anche se in questo caso si trattava di ascari arabi o somali, non dei leggendari

eritrei, che erano in grado di tenere medie incredibili, come si può notare dalle indicazioni sulle mappe militari dell’Eritrea, che nel prevedere i posti tappa differenziavano nettamente fra l’andatura della truppa italiana e della truppa indigena.

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spinose, come si usa in quelle zone per tenere lontani gli animali; secondo il capitano di fregata Giorgio Sorrentino,(55) il luogo viene identificato come Sciamba Grasballe, a circa diciassette chilometri da Mogadiscio. Fu quindi questa, e non Lafolè, l’ultima località toccata dal gruppo, prima della strage. Anche Gregante confermò che l’attacco definitivo avvenne a circa due ore da Mogadiscio, quindi a circa due-tre ore da Lafolè. Si fa un attimo di riposo, circa un quarto d’ora; stanno quasi tutti bene, a parte il dottor Smuraglia, che si estrae da solo una freccia dal fianco. Ma le munizioni sono pochissime. Nessuno degli ascari accetta di partire da solo verso Mogadiscio per chiamare, tardivamente, rinforzi. Comprensibile, nella luce del mattino. Sarebbe stato meglio farlo sfruttando le ombre della boscaglia nella notte precedente.

Si riparte; ma, dirà l’inchiesta, per il caldo, la fatica, la sete molti si arrestano, e i compagni ancora in forze perdono tempo ed energia per soccorrere chi è più in difficoltà. Nascosti nei dintorni, i somali continuano a bersagliare di frecce i poveretti; ormai tutti sono feriti.

Chi cade lungo la strada per la debolezza dovuta alla stanchezza e alla perdita di sangue viene immediatamente assalito da una decina di indigeni che lo massacrano. I cadaveri verranno ritrovati distanti uno dall’altro, in un percorso di circa sei, sette chilometri.(56) Il comandante Mongiardini, che ha voluto partecipare alla spedizione nonostante una recente ferita a una gamba, viene sorretto da Cecchi e da Quirighetti, che pure forse potrebbero salvarsi abbandonandolo e allontanandosi in fretta; soprattutto Quirighetti, giovane e atletico, ottimo corridore, che ha fama di essere in grado di competere perfino con gli ascari. Cadono tutti e tre, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro. Ultimo, Maffei, il comandante dello Staffetta, a soli sette chilometri dalla città, quando è ormai al limitare della boscaglia. La sua ordinanza, Gregante, che era rimasta con lui, riferì poi di avere corso pazzamente per circa mezz’ora prima di vedere finalmente la città: mezz’ora di corsa sono compatibili con sette chilometri di distanza.

(55) Vds. G. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 352. Comandante della regia nave Elba, era stato nominato commissario straordinario del Benadir dopo l’eccidio; scrisse sugli avvenimenti, oltre che nei rapporti ufficiali, anche nel volume Ricordi del Benadir, Napoli, Trani, 1912.

(56) I dati tornano con discreta approssimazione: Lafolè, lo ricordiamo, è a venticinque chilometri da Mogadiscio. Durante la ricerca, Maffei venne trovato a circa 7 km dalla città, e i successivi caduti entro altri 6 o 7 km (quindi il più lontano era a una quindicina di km da Mogadiscio).

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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Il geometra Filippo Quirighetti. (Da L’Illustrazione italiana, 13 dicembre 1896)

Se quindi, come riferito nella citata relazione di Mylius, il territorio affittato dagli italiani si estendeva per un raggio di dieci miglia, cioè circa sedici chilometri, la maggior parte delle vittime cadde in zona italiana, e quindi sarebbe più corretto parlare di “massacro di Mogadiscio”, anziché di “massacro di Lafolè”. Furono probabilmente ragioni di opportunità a non legare il nome della strage a quello della nostra maggiore stazione commerciale in

Somalia. A conferma, la stampa straniera parlò di Mogadiscio, non di Lafolè.(57) Ma le roventi interrogazioni parlamentari che seguirono, tanto più in una Camera appena insediata proprio dopo il crollo del governo Crispi in seguito alla battaglia di Adua (d’altra parte, neanche la “battaglia di Adua” avvenne ad Adua…), consigliarono probabilmente di deviare l’attenzione dal nostro insediamento costiero per rivolgerla verso uno sconosciuto paese dell’entroterra; ammettere pubblicamente l’incapacità di proteggere i nostri concittadini anche negli immediati paraggi di Mogadiscio avrebbe aizzato ulteriormente le ire e giustificato le prese di posizione degli anticolonialisti.

Uno alla volta, nel giro di alcune ore, tredici bianchi e diciotto ascari furono raggiunti e trucidati. Da notare che vennero assaliti non solo gli ascari “stranieri” (generalmente di origine araba, o yemenita), ma anche i locali: tra essi, lo stesso figlio dell’imam di Mogadiscio e i tre interpreti furono assaliti, colpiti e si salvarono a stento.

(57) Vds. The New York Times, 4 dicembre 1896, che titolava “For the murder of italians at Magadoxo, Africa”; anche Le journal des Voyages (vds. Daud Jimale, “Massacre at Lafoole”, http://newsomalia.blogspot.it/2010/08/massacre-at-lafoole.html) dedicava l’immagine di copertina a “Le massacre de Mogadisho”.

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Il marinaio Federico Gregante, uno dei tre italiani sopravvissuti, in una foto prima dell’eccidio e poi negli anni Quaranta dello scorso secolo. (Da A. Ribera, op. cit.)

Degli italiani, solo tre marinai raggiunsero, feriti, la città per portare la notizia: Federico Gregante e Nicolò Vianello, quest’ultimo gravemente ferito, con ancora due frecce conficcate in una guancia e a un braccio, cui si aggiunse poco dopo Natale Buonasera. Il loro arrivo alimentò la speranza di poter recuperare altri della sfortunata spedizione, ma l’interprete Hamed Faya, ansante e disperato, arrivò e comunicò il massacro.

In città, il commissario Dulio, sperando di poter tuttavia trovare qualche sopravvissuto, cerca di organizzare una reazione: le porte della città vengono immediatamente chiuse; sugli edifici più alti vengono piazzate quattro mitragliere; dalle navi Staffetta e Volturno scendono a terra due compagnie da sbarco, agli ordini dei sottotenenti di vascello Mellana e Caccia, che vengono inviate a fare ricerche lungo lo Uebi Scebeli; viene trascinato fino in cima alla duna retrostante alla città un cannone, che spara a salve per dare un orientamento sia agli eventuali dispersi, sia ai marinai che stanno facendo ricerche. Il rientro di questi ultimi conferma che non ci sono speranze, e si può

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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solo tentare di recuperare le salme. Al mattino, la compagnia agli ordini di Mellana e Caccia riparte, con cammelli, facchini, e attrezzatura per ricomporre i cadaveri, ma con l’ordine di ritirarsi in caso di attacco. Attacco che puntualmente si verifica, ad opera di centinaia di somali, che costringono al ripiegamento.

Altro che gita in zona tranquilla, come, con una certa sconsideratezza, visti anche i precedenti, Cecchi aveva pensato! I reiterati attacchi sembrano semmai indicare che è in corso una sollevazione tribale, non mirante al saccheggio e alla ruberia, ma all’intimidazione degli italiani e di chi li appoggia. Eppure le tribù attaccanti, nota Dulio nella sua relazione, sono proprio quelle più vicine alla città e quindi più coinvolte dalla sua prosperità: possibile che si voglia allontanare gli stranieri e quindi i commerci e l’amministrazione civile, che hanno migliorato la vita dei locali? E perché il sultano di Gheledi non aveva ricevuto gli italiani? Il suo allontanamento proprio in quei giorni forse non era casuale, tanto più che si sapeva che tra gli assalitori c’era un suo zio.

Dulio decide quindi di ricorrere a un misto fra vie diplomatiche e misure di polizia: chiede all’imam e agli sciuba (cioè ai capi) di Mogadiscio di prendere contatti, per cercare di recuperare le salme, con le tribù assalitrici (“dissi loro che era venuto il momento di mostrare la loro fedeltà al Governo italiano, dal quale ricevono pure un assegno mensile”;(58) e questo accenno all’assegno mensile deve essere stato ben capito dagli interlocutori); nel frattempo fa arrestare tutti i “beduini” di Mogadiscio, cioè i somali non residenti in città e rimasti bloccati dall’immediata chiusura delle porte, ottenendo così 86 ostaggi. Alcuni somali particolarmente audaci e sfrontati si fanno vedere, inquietanti, sul profilo della duna litoranea. Tre di essi vengono catturati e uccisi dagli ascari; a uno di loro viene tagliata una mano, data poi in pasto a leoni in gabbia. Esistono alcune fotografie dei prigionieri, che furono diffuse in Italia.

I delegati inviati a parlamentare rientrano con l’autorizzazione a recuperare le salme. Ma, la mattina in cui si dovrebbe provvedere a questa operazione, i capi degli assalitori vogliono conferire nuovamente con l’imam. Al rientro, l’imam comunica le condizioni: gli Uadan consegneranno le salme in cambio di 17 dei prigionieri catturati in città come ostaggi. La comunicazione degli Uadan è sferzante e orgogliosa: “Essi aggiungono che se noi siamo un Governo (sircal), anche loro sono un Governo, e che quindi alla nostra domanda mettono le loro condizioni.”(59)

(58) Relazione di Dulio al Ministero degli Esteri in data 28 novembre, riportata per intero in G. Po, L. Ferrando, op. cit., p. 308.

(59) Ibidem, p. 321.

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Tuttavia, c’è poco da scegliere: i giorni stanno passando nelle trattative, e il caldo equatoriale non permette di lasciar trascorrere altro tempo per ottenere i cadaveri. Inoltre, gli abitanti locali, anche se innocenti, sono timorosi di entrare a Mogadiscio, e quindi dalle campagne intorno non arrivano più da giorni rifornimenti alimentari.

È da sottolineare la precarietà degli insediamenti italiani, che a causa del loro isolamento erano sottoposti (la situazione già si era verificata nel caso dell’attacco al marinaio a Uarsceic nel 1893 e si verificherà anche in altre occasioni, come nel caso dell’uccisione di Trevis) al rischio, che poteva diventare ricatto, di mancati approvvigionamenti alimentari.

Si decide di accettare lo scambio, purché non ci siano altre tergiversazioni da parte degli indigeni; altrimenti, si provvederà alla fucilazione di cinque ostaggi al giorno.

Il giorno seguente, il 2 dicembre, ancora non si ha alcuna comunicazione da parte dei ribelli: i primi cinque ostaggi vengono fucilati.(60)

Nel frattempo, il Governolo, recandosi a Merka per acquistare viveri per Mogadiscio ormai affamata, fa tappa lungo la costa per bombardare il villaggio di Nimuhu, abitato da gente della tribù Uadan. Niente da meravigliarsi se, di conseguenza, si teme un attacco su Mogadiscio da parte dei somali, per ritorsione.

Le trattative per il recupero dei morti durano molto a lungo. Nel frattempo, si pensa di tumulare provvisoriamente le salme in un’antica costruzione araba, denominata Torre Mnara, nei pressi della città.(61)

(60) Impressionante la macabra descrizione che della fucilazione dà il diario di G.

Trevis, residente di Merca, che a sua volta sarà ucciso poche settimane dopo (L. Goglia, G. Trevis, cit., p. 108); dopo aver notato l’indifferenza dei prigionieri già al muro, aggiunge: “A uno squillo di tromba gli ascari fanno fuoco. 4 somali cadono, il 5° è ancora in piedi, un proiettile solo lo ha colpito di sbieco a un occhio. Egli è ritto con un occhio vuoto e sanguinoso e guarda gli ascari che dietro mio ordine puntano di nuovo su di lui con uno sguardo pieno di terrore. Alza le mani rattratte all’altezza del viso. Diversi proiettili lo colpiscono ed egli cade. L’orribile spettacolo! Le membra dei 5 caduti palpitano, uno puntando le mani in terra sembra volersi rialzare un ascaro lo finisce con un colpo a bruciapelo.”

(61) Detta anche Amnara, risulta ancora esistente e praticabile almeno fino al 1929, quando viene citata nella Guida d’Italia del Touring Club Italiano, “Possedimenti e colonie”, a p. 758. Sorgeva su un promontorio a una decina di minuti dal centro di Mogadiscio; era una costruzione tronco-conica su base quadrata, con una lanterna provvista di quattro finestre, che probabilmente fungeva da faro.

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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Il sottotenente di vascello Vincenzo De Cristoforo. (Da L’illustrazione italiana, 20 di-cembre 1896)

Nella notte fra l’8 e il 9 dicembre si recuperano i cadaveri di Mongiardini, Maffei, Baroni, Gasparini e De Cristofaro. Cecchi non c’è: la sua testa è stata portata in giro per i villaggi e poi abbandonata a terra per alcuni giorni, prima di essere gettata su un albero, come una palla. Dopo pochi giorni, viene recuperata, grazie a un collaboratore somalo.(62) Ma a fine gennaio 1897 risulta che molti fossero ancora insepolti e giacenti sul luogo dell’eccidio, tranne le salme di Cecchi e degli ufficiali Maffei, Mongiardini, Gasparini, Baroni e De Cristofaro, provvisoriamente custodite in un edificio nei

pressi della garesa.(63) Il 26 gennaio 1897 giunge a Mogadiscio il commissario straordinario inviato dal governo, il capitano di fregata Giorgio Sorrentino, comandante dell’Elba, ben deciso a indagare sui mandanti e a risolvere rapidamente la questione. Pochi giorni dopo, il 1° febbraio 1897, Sorrentino,

(62) Vds. il diario di G. Trevis, in Arch. Storico Minist. Africa Italiana, 66/2, cit. in L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 108 sg.

(63) Sarà il capitano di fregata Giorgio Sorrentino, nominato Commissario

straordinario, comandante dell’Elba, che, giunto a fine gennaio 1897 a Mogadiscio, si

occuperà di organizzare la cerimonia funebre definitiva.

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Il comandante commissario di 2a classe Lucindo Baroni. (Da L’illustrazione italiana, 20 di-cembre 1896)

Dulio e tutta la guarnigione, con protezione di artiglierie e delle compagnie da sbarco di Elba e Governolo, si occupano di andare a recuperare gli scheletri insepolti. Gli Uadan non si fanno vedere.

Sorrentino organizza, con solennità e onori militari, la cerimonia funebre defi-nitiva per dare ai caduti tumulazione, il 28 gennaio 1897, in una cappella pros-sima al lido.(64) Subito dopo la

cerimonia, si reca sulla duna costiera, alta circa cinquanta metri, a scegliere il luogo dove poi verrà elevato Forte Cecchi, armato di 4 pezzi da 75 mm, con una muraglia quadrata e una torre pure quadrata, dipinta a scacchi bianchi e neri per servire da segnale di riconoscimento alle navi. Nella boscaglia presso Lafolè alla strage fu dedicato un monumento, che, secondo una fonte somala,(65) risultava ancora presente sul luogo nel 2010; il 1896 fu ricordato nel Benadir come “Axad Shiiki”, “l’Anno della Domenica di Cecchi”, e un detto somalo si rivolge al fondamentalista leader degli Uadan, Sheik Axmed Xaaji, citando Cecchi come “un diavolo”.(66)

Dopo il recupero dei corpi, si passò a cercare una punizione dell’eccidio, non ritenendosi evidentemente sufficiente la rappresaglia effettuata col bombardamento di Nimuhu da parte del Governolo. Nel frattempo, il 24

(64) Le salme furono poi traslate in Italia, dove, nel novembre 1898, a cura del

Ministero della Marina, fu innalzato un monumento dello scultore Giulio Bertuccioli nel Cimitero del Campo Verano a Roma per accogliere in una tomba comune i resti non riconoscibili della strage.

(65) Daud Jimale, in http://newsomalia.blogspot.it/2010/08/massacre-at-lafoole.html, settembre 2010.

(66) Vds. Lee V. Cassanelli, op. cit., p. 207.

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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febbraio 1897, Sorrentino comunica a Dulio che, dopo il già citato bombardamento a opera del Governolo, il villaggio di Nimuhu, in quel momento abbandonato, è stato incendiato, e che nel villaggio di Gesira una settantina di somali furono catturati e i pozzi inquinati.(67) Il ritardo nell’operazione viene addebitato alla necessità di attendere l’arrivo di rinforzi di centocinquanta ascari eritrei da Massaua, che giungono solo il 12 aprile 1897, col Volta; bisognò infatti attendere che l’Eritrea fosse messa al sicuro dai contemporanei attacchi di dervisci alle frontiere sudanesi.

Forte Cecchi, a Mogadiscio. (Da La Lettura, aprile 1908)

Sorrentino vorrebbe distruggere tutti i centri dei ribelli, sulla costa e nel centro, ma non c’è tempo, dato che il monsone di sud-ovest sta già cominciando a soffiare, e occorre quindi affrettarsi, perché egli deve poi andare a Zanzibar, mentre gli ascari devono rientrare a Massaua. Deve quindi “accontentarsi” di incendiare i villaggi ribelli di Gellai, Res e Lafolè. La rappresaglia, effettuata il 19 aprile, viene peraltro subito vendicata dai bellicosi somali, che attaccano la colonna degli ascari sulla via del ritorno, in una vera e propria battaglia che dura parecchie ore.

Tra i somali, si viene a sapere, cadono anche i due Uadan che avevano ucciso Cecchi. La cosa suscita scalpore e serve, almeno per il momento, insieme alla sottomissione del sultano di Gheledi, a pacificare la zona; quando

(67) L. Goglia, F. Grassi, op. cit., p. 111.

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Sorrentino, di ritorno in novembre da Zanzibar, fa sosta nuovamente a Mogadiscio, viene rassicurato da Dulio che regna l’ordine e che gli Uadan si sono volontariamente allontanati dal territorio. Tutto sommato, quando si ha a che fare con popolazioni così coraggiose e guerriere, è meglio che siano ostili, ma lontane, che averle fintamente sottomesse e vicine. Mandanti, cause, conseguenze I mandanti della rivolta degli Uadan vennero individuati(68) in due arabi, Abu Baker-bin-Aood e Islam-bin-Mohammed, due alti funzionari dell’ammini-strazione Filonardi, che temevano, con l’arrivo di Cecchi, di perdere la propria influenza e i propri alti guadagni. Avevano perciò diffuso calunnie sul nuovo console, eccitando l’odio degli indigeni. I due, catturati, ammisero, secondo Sorrentino, la propria colpa. Tuttavia, solo Abu Baker fu catturato, mentre Islam-bin-Mohammed fece perdere le proprie tracce. Abu Baker fu portato a Massaua (dove, a giudicare da alcune foto circolanti all’epoca, furono tradotti anche alcuni somali catturati) e fu poi tenuto agli arresti domiciliari a Cheren, per più di dieci anni. Confino alleggerito da servitù e condizioni di vita agiate, in considerazione anche del fatto che, essendo nato a Zanzibar, era suddito britannico.(69) Le prove, dal punto di vista giuridico, sono alquanto labili: “lo dice l’opinione pubblica”, “lo dicono i notabili”, e c’è una testimonianza a verbale. Certo questa testimonianza (ne risulta, attualmente, solo una copia, anche se non firmata né tantomeno controfirmata, presso l’Archivio della Banca Commerciale Italiana) non è da trascurare.

Il 14 settembre 1897 a Mogadiscio Dulio interrogò Scek-Hamet-el Gobron, parente prossimo del sultano di Gheledi.(70) L’interrogato, che dichiarò di essere venuto su incarico dello stesso sultano, indicò in Abu Baker il “tuttofare” di Filonardi, un sobillatore, che avrebbe accusato i nuovi venuti, cioè Cecchi e la nuova società, di “non essere come Filonardi”, e di avere intenzione di mettere tasse sui raccolti, di volere occupare con la forza l’interno, rubando, fucilando, deportando e schiavizzando.

(68) Vds. la già citata relazione del capitano di fregata Giorgio Sorrentino. (69) Vds. Gian Carlo Corada, Lafolè, un dramma dell’Italia coloniale, Roma, Ediesse,

1996, p. 168 ss. (70) Archivio Storico Intesa San Paolo, patrimonio BCI, fondo SG 12, fasc. 2.

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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Le immagini rappresenterebbero alcuni dei somali accusati del massacro; ma l’affermazione è dubbia, dato che non risulta siano stati catturati gli autori della strage, bensì appartenenti alle tribù assalitrici, bloccati a Mogadiscio. (Da A. Ribera, op. cit.)

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Eppure, il governo italiano era in pace con gli Uadan, tanto che poco tempo prima dell’eccidio aveva costretto gli abitanti di Mogadiscio a pagare 200 talleri agli Uadan come indennizzo per l’uccisione di uno di essi da parte di un loro concittadino. Abu Baker aveva radunato un gruppo di Mursala e di Uadan in casa sua, per incitarli a impedire “a tutti i costi” il passaggio di consegne alla nuova società di Cecchi, che, a differenza di quanto aveva fatto Filonardi, avrebbe liberato tutti i loro schiavi, non avrebbe distribuito denaro, avrebbe imposto requisizioni dei raccolti. I convenuti giurarono di opporsi al Cecchi, ottenendo in cambio denaro da Abu Baker. Tra loro, c’era Mohammed Ghedi, cammelliere del governo, che quindi avrebbe certo saputo il momento della partenza della carovana, in modo da poter avvertire gli altri.

Ma può anche essersi trattato di un espediente del sultano di Gheledi per accattivarsi gli italiani, facendo dichiarare da un suo parente ciò che gli italiani volevano sentir dire.

Inoltre, data la necessità di ricorrere a un interprete per le indagini, può esserci stata anche l’intromissione di Hag Ahmed ben Fahio, uno dei sopravvissuti alla strage, interprete prima di Cecchi, poi di Dulio.

La pista riguardante maneggi sul passaggio di consegne venne subito seguita, anzi, venne considerata, forse con fin troppa superficialità, come unica causa della strage, mentre c’erano magari ragioni più profonde a questo attacco. Infatti, dopo ben dodici anni, il processo tenuto nel 1908, data la plateale mancanza di prove, dichiarò Abu Baker assolto.

Una fonte somala, Taarakida Beesha Direed Dir,(71) esaminando le informazioni dal punto di vista somalo, rifiuta ogni intromissione araba nel fatto, dato che a suo parere i due arabi sospettati non potevano avere alcuna influenza sulle popolazioni dell’interno. Inoltre, dichiara che in conseguenza dell’attacco che aveva eliminato Cecchi, l’uomo che “aveva guidato l’espansione italiana in Somalia” (in realtà, aveva firmato trattati commerciali), gli italiani “si ritirarono” sulla costa (da dove invece non si erano mai allontanati). L’episodio viene visto come un’impresa esclusivamente somala, tesa a mantenere l’indipendenza politica, e anzi come anticipazione di una ben più vasta ribellione.

A simili conclusioni era giunto, ben prima, Gustavo Chiesi, che già nel 1906, pur addebitando ad Abu Baker opera di istigazione, riconosceva che la strage cosiddetta “di Lafolè” era solo l’inizio di una sollevazione di più ampia portata, tesa a respingere le interferenze italiane in Somalia.

(71) http://beeshadireed.blogspot.it/2011/05/bimaal-dir-revolt-massacre-of-

italian.html

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V. Isacchini - Somalia, 26 novembre 1896: “Lafolè...”

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Più che di indipendenza, pare più giusto parlare di lotta religiosa, dato che come visto le tribù maggiormente coinvolte, Uadan e Bimal, da tempo erano animate da capi coranici che li spingevano alla guerra contro gli infedeli; a questa si aggiungeva il problema dello schiavismo. È certo che per molti anni dopo il 1896 la Somalia rimase agitata da aggressioni e sommosse anche molto violente, come quella che tra il 1903 e il 1905 scatenò i Bimal, quando la Società del Benadir abolì la schiavitù.

Alla Camera le polemiche furono roventi, data anche l’incertezza e l’imbarazzo con cui all’opinione pubblica venne presentata la cosa: non erano chiari i motivi della spedizione (si parlò anche di una semplice “spedizione di caccia”), né le ragioni delle ritorsioni contro villaggi costieri (tanto erano capanne di paglia, facilmente ricostruibili, secondo Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Affari Esteri, di Destra e anticolonialista). Poi le cose, come sempre, parvero acquietarsi: vennero distribuite Medaglie d’Argento e di Bronzo al Valore Militare sia ai membri della spedizione sia ad alcuni ufficiali e militari che si erano particolarmente prodigati nel recupero delle salme, e la Società del Benadir iniziò la propria opera, in perenne difficoltà finanziaria. Il governo italiano, almeno per il momento, si guardò bene dall’effettuare atti di occupazione militare, trattandosi di colonia esclusivamente commerciale; infatti, le compagnie di ascari vennero fatte reimbarcare, e a Mogadiscio rimase un semplice presidio costiero di 150 ascari. Ma la Somalia rimase sempre un territorio difficilmente controllabile.

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IL POTERE NUCLEARE

DELLA MARINA ITALIANA

VINCENZO MELECA

Le Forze Armate italiane hanno avuto un potere nucleare?

Volendo dare subito una risposta secca, ebbene, sì, Esercito e Aeronautica hanno effettivamente avuto un potere nucleare. Certo, un potere condizionato dal principio della “doppia chiave”; certo, un potere limitato, di tipo tattico (anche se l’Aeronautica per circa tre anni lo ebbe anche a livello strategico), ma sempre un potere nucleare.

E la Marina? La Marina cercò di averlo, si dotò anche di un know-how teorico,

sperimentò soluzioni tecniche innovative, ma, alla fine, fu l’unica delle nostre Forze Armate che non ebbe un potere nucleare.

Un po’ di storia, adesso. Il 10 febbraio 1947 veniva firmato il trattato di pace fra l’Italia e le

Potenze alleate vincitrici del secondo conflitto mondiale. Ai fini dell’argomento che ci proponiamo di trattare, è di particolare rilievo l’art. 51, in cui si stabiliva che:

Art. 51 L’Italia non dovrà possedere costruire o sperimentare: I - alcuna arma atomica, II - alcun proiettile ad auto-propulsione o guidato, o alcun dispositivo impiegato per il lancio di

tali proiettili (salvo le torpedini o dispositivi di lancio di torpedini facenti parte dell’armamento normale del naviglio autorizzato dal presente Trattato),

III - alcun cannone di una portata superiore ai 30 chilometri, IV - mine marine o torpedini di tipo non a percussione azionate mediante meccanismo ad

influenza, V - alcuna torpedine umana.

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V. Meleca - Il potere nucleare della Marina italiana

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Il divieto di possedere costruire o sperimentare armi atomiche era quindi sancito in modo estremamente chiaro.(1)

La tensione fra Stati Uniti e Gran Bretagna, da un lato, e l’Unione Sovietica, dall’altro, portò ben presto alla nascita della NATO, con il Trattato di Washington del 4 aprile 1949, firmato da dodici Stati membri fondatori (Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti) e, qualche anno dopo, al Patto di Varsavia, sottoscritto il 14 maggio 1955(2) da otto Nazioni (Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica di Germania/Germania Est, Polonia, Romania, Ungheria e Unione Sovietica).

Con la sua adesione all’alleanza e quale Stato fondatore della NATO, l’Italia veniva di fatto sollevata dalle limitazioni del Trattato di pace, in quanto l’articolo 5 del Trattato di Washington prevedeva che:

Nel giro di pochi anni la tensione fra i due blocchi crebbe progressivamente, tanto che entrambe le alleanze si prepararono a un possibile scontro armato.

(1) Così come chiare erano del resto le restrizioni imposte alle nostre Forze Armate: alla Marina, con gli art. da 56 a 60, all’Esercito con gli art. da 61 a 63 e all’Aeronautica con gli art. da 64 a 66. Il testo ufficiale del trattato di pace è consultabile (in lingua francese) su: https://treaties.un.org/doc/Publication/UNTS/Volume%2049/v49.pdf. La traduzione in lingua italiana è su: http://www.anvgd.it/documenti/TrattatodiPace.pdf

(2) Da notare che il 6 maggio 1955 era entrata a far parte della NATO la Repubblica Federale di Germania, più comunemente conosciuta, fino al 3 ottobre 1990, quando vi fu la riunificazione, come Germania Ovest.

Art. 5 Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell’America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.

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La forte preponderanza delle truppe del Patto di Varsavia, soprattutto per quanto riguardava i mezzi blindati e corazzati e l’artiglieria, spinse gli Stati Uniti a dotare le proprie truppe di armi nucleari “tattiche”,(3) cioè di potenza limitata, schierate lungo la linea di frontiera, soprattutto terrestre. Col tempo, ritennero di dotare delle stesse armi anche le Forze Armate di molte Nazioni alleate, stipulando accordi bilaterali.

Con l’Italia una prima, importante intesa fu raggiunta il 20 ottobre 1954, con la dichiarata finalità di costituire sul territorio italiano un sistema di difesa nucleare rivolto principalmente agli eserciti e alle aviazioni del Patto di Varsavia.(4)

Il bacino del Mediterraneo, infatti, non veniva considerato parti-colarmente pericoloso, e la Flotta sovietica del Mar Nero non faceva paura.

Fu in base ai trattati internazionali e agli accordi bilaterali, dunque, che l’Esercito e l’Aeronautica furono messi in condizione di impiegare sistemi d’arma e munizionamento nucleare, così come furono ancora i trattati internazionali a far perdere la gran parte del loro potere nucleare.(5)

Non la Marina, invece, che quel potere lo cercò, ma mai lo ebbe. Con le note che seguono cercheremo di ripercorrere le fasi salienti dei vari tentativi di procurarselo.

(3) Per “arma nucleare tattica” si intende un ordigno nucleare progettato per essere

utilizzato sul campo di battaglia in funzione principalmente difensiva e in presenza di situazioni critiche determinate da forte e sfavorevole disparità di forze tradizionali, con l’obiettivo di ridurre o annullare la capacità aggressiva del nemico arrestandone lo slancio e l’avanzata. Le armi nucleari tattiche hanno (o dovrebbero avere) in genere un basso potere distruttivo. Gli ordigni sono quindi di relativamente piccole dimensioni, facilmente trasportabili e utilizzabili direttamente dalle truppe sul campo di operazioni. A proposito del basso potere distruttivo delle armi nucleari tattiche, vale la pena ricordare l’esercitazione “Carte Blanche”, svoltasi dal 23 al 28 giugno 1955, durante la quale fu simulato l’uso di 335 proiettili e bombe nucleari in Germania, Francia del Nord e Olanda. In base agli algoritmi utilizzati, si stimò che i morti sarebbero stati circa un milione e mezzo e i feriti tre milioni e mezzo. Non vi furono stime circa le vittime a medio-lungo termine dovute agli effetti della radioattività.

(4) Il “Bilateral Infrastructure Agreement” (BIA) o “Accordo segreto USA-Italia” del 20 ottobre 1954, accordo firmato dal ministro Mario Scelba e dall’ambasciatrice statunitense Clare Booth Luce, non fu mai sottoposto alla verifica, né alla ratifica del Parlamento.

(5) In particolare, citiamo il Trattato di non proliferazione nucleare (NPT/TPN), sottoscritto da Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna ed entrato in vigore il 5 marzo 1970, e il trattato Start I del 31 luglio 1991.

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1 - Studi e progetti

Il C.A.M.E.N. - Nella seconda metà degli anni ’50 la Marina mise in atto varie iniziative volte sia alla sperimentazione di sistemi di propulsione nucleare, sia all’impiego di vettori d’arma strategici. Fu così che nacque il C.A.M.E.N. (Centro per le Applicazioni Militari dell’Energia Nucleare).(6)

Lo stemma del C.I.S.A.M. (ex C.A.M.E.N.)

(6) Il C.A.M.E.N. fu però istituito ufficialmente soltanto sei anni dopo, con legge 29 settembre 1962, n. 1483 (in Gazz. Uff., 30 ottobre, n. 275), “Autorizzazione ad assumere personale laureato per ricerche e studi nel campo dell’energia nucleare e istituzione presso il Ministero della difesa, di un ruolo di personale tecnico di concetto per l’energia nucleare”. Il 13 luglio 1985 il C.A.M.E.N., con apposito decreto del Ministero della Difesa, diventa C.R.E.S.A.M. (Centro Ricerche, Esperienze e Studi per Applicazioni Militari) e quindi, dal 28 aprile 1994, sempre con decreto del Ministero della Difesa, viene assorbito dal neocostituito C.I.S.A.M. (Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari), ente di supporto per le Forze Operative, sempre alle dipendenze del capo di Stato Maggiore della Difesa. Il 20 gennaio 1998, infine, con il decreto ministeriale 20 gennaio 1998, il C.I.S.A.M. passa alle dipendenze del capo di Stato Maggiore della Marina.

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L’edificio che ospitò il reattore C.A.M.E.N.

La prima iniziativa si

concretizzò con la creazione, il 12 gennaio 1956, di un centro ricerche all’interno del com-prensorio dell’Accademia Na-vale di Livorno. La Marina, essendo limitate le proprie conoscenze nel settore dei sistemi di propulsione nu-cleare, aveva infatti intenzione di colmare questa lacuna, prima sul piano teorico – costituendo un centro di studio e di sperimentazione, avvalendosi anche dell’espe-rienza e della capacità dei docenti universitari pisani – e

successivamente dotandosi di un piccolo reattore nucleare sperimentale, l’RTS-1 Galileo Galilei, costruito poi a San Piero a Grado, vicino a Pisa, ove nel 1961 si trasferisce il Centro.

Logica conclusione delle ricerche era comunque senz’altro quella di costruire due unità a propulsione nucleare, la prima subacquea, con il progetto del sottomarino Guglielmo Marconi (1957), la seconda di superficie, con il progetto di un’unità di supporto logistico e di rifornimento di squadra, l’Enrico Fermi (1966), anche se vi fu chi, in Parlamento, ipotizzò che il C.A.M.E.N. potesse servire anche alla costruzione di armi nucleari.(7) Vi fu pure chi accennò all’esistenza di una serie di documenti del Centro in cui si esplicitava la

(7) Cfr. l’intervento del deputato Giuseppe Niccolai che, in un suo discorso

pronunciato alla Camera dei Deputati, il 23 gennaio 1969 affermò testualmente che il C.A.M.E.N. sarebbe servito anche a “produrre armi nucleari. Nei primi programmi del C.A.M.E.N. si parla esplicitamente della costruzione della bomba atomica italiana”. L’intervento dell’on. Niccolai è consultabile integralmente su:

http://www.beppeniccolai.org/CAMEN.htm.

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necessità di utilizzare nel reattore plutonio anziché uranio.(8) Con la firma da parte dello Stato italiano del Trattato di non proliferazione nucleare avvenuta il 2 maggio 1975, il Ministero della Difesa fu giocoforza costretto a rivedere le esigenze nucleari delle Forze Armate, con conseguente inizio delle procedure di spegnimento del reattore, che avvenne alle undici e nove minuti del 7 marzo 1980,(9) forte riduzione dell’attività di ricerca in campo nucleare del Centro e riposizionamento in altri settori di ricerca, quali la Compatibilità Elettromagnetica, l’Optoelettronica e la Diagnostica dei Materiali, pur continuando a operare nel campo della Sicurezza e della Difesa Nucleare.(10) Tale riorganizzazione venne ufficialmente sancita nel 1985 con un apposito provvedimento di legge che istituiva il Centro Ricerche, Esperienze e Studi per Applicazioni Militari (C.R.E.S.A.M.),(11) Ente interforze alle dipendenze dirette del capo di Stato Maggiore della Difesa, come del resto anche il Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari (C.I.S.A.M.), che nel 1994 sostituisce il C.R.E.S.A.M.

Il destino giuridico del Centro cambia ancora nel 1998, quando torna a essere gestito dalla Marina Militare,(12) ma quello militare, con il sogno di poter utilizzare l’energia nucleare autoprodotta, sia come fonte di propulsione delle sue

(8) Vengono citati a tal proposito i rapporti n. 1010 del 3 settembre 1973, “Studio sulla possibilità di impiego di plutonio in sostituzione di uranio 235 nei reattori nucleari termici”, n. 1037 del 6 maggio 1974, “Progetto di un elemento di combustibile sperimentale per esperienza di conversione Uranio-Plutonio nel reattore G. Galilei”; e n. 1041 del 21 agosto 1974, “Impianto di laboratorio per il ritrattamento di uranio irraggiato”.

(9) Negli anni successivi risulta che siano state cedute alla Francia le quantità di uranio 235 utilizzate nel reattore, la cui disattivazione definitiva dovrebbe concludersi entro il 2020. Cfr: M.E. Dalessandri, F. Fineschi e A.M. Spano, “Smantellamento delle barre di controllo e regolazione del reattore nucleare G. Galilei”, su:

http://conference.ing.unipi.it/vgr2006/archivio/Archivio/pdf/034-Dalessandri-Fineschi-Spano.pdf Il documento è tra gli atti del convegno “Valutazione del Rischio”, tenutosi a Pisa dal 15 al 17 ottobre 2002, volume Atti VGR 2002.

(10) Le esperienze maturate nel campo delle ricerche nucleari furono utilissime quando l’Italia si trovò a dover affrontare gli effetti del disatro nucleare di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986. In tale occasione il C.A.M.E.N. fu un importante punto di riferimento per la Protezione Civile.

(11) Decreto del Ministro della Difesa 13 luglio 1985. Il C.R.E.S.A.M. e successivamente il C.I.S.A.M., che lo sostituì nel 1994 (Decreto del Ministro della Difesa 28 aprile 1994) furono equiparati agli Enti pubblici di ricerca con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 dicembre 1993, n. 593, art. 8, comma 1.

(12) Decreto del Ministro della Difesa 20 gennaio 1998. Compiti, struttura organizzativa e attività sono illustrate dal sito della Marina Militare

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Quanto rimane della targa che indicava i momenti salienti dell’attività del C.A.M.E.N.

navi sia come fonte per la produzione di testate nucleari è già finito vent’anni prima.

Quanto agli studi e ai progetti che avrebbero potuto concretamente utilizzare tecnologie nucleari, la Marina sin dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso seguì due linee parallele: con la prima, si dedicò alla progettazione di navi di superficie e di sottomarini a propulsione nucleare; con la seconda, alla progettazione di unità di superficie e sottomarine che potessero utilizzare vettori missilistici in grado di trasportare testate nucleari. Emblematico fu lo scambio di corrispondenza intercorso negli anni 1958-1962 tra il capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Corso Pecori Giraldi, ed il capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Giuseppe Mancinelli (1958) e Generale Aldo Rossi (1960-1962).

http://www.marina.difesa.it/conosciamoci/comandienti/scientifici/cisam/Pagine/

default.aspx La storia del Centro è stata raccontata da Amerigo Vaglini nel suo libro Il nucleare a Pisa, quaderno di memorie storiche sul Camen (1955-1985), Pisa, edizioni Ets, 2009.

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Di particolare interesse circa l’argomento di cui stiamo trattando sono soprattutto due documenti, entrambi inviati dal CSM MMI al CSM Difesa, in data, rispettivamente, 9 giugno 1960 e 15 gennaio 1962, di cui riportiamo più sotto le prime pagine.

Con il primo si accenna all’esame di fattibilità circa l’installazione di missili Polaris su vari tipi di unità, sia di superficie (Incrociatori rimodernati o nuovi Giuseppe Garibaldi, Andrea Doria e Caio Duilio; Unità onerarie della flotta (sic); incrociatori non rimodernati Duca degli Abruzzi e Raimondo Montecuccoli; cacciatorpedinieri (sic), sia subacquee (sommergibili convenzionali), arrivando alla conclusione di rinviare gli studi più approfonditi circa i cacciatorpediniere e i sommergibili. Nello stesso documento si afferma che furono discusse con la Marina USA le linee concettuali che la nostra Marina intendeva seguire, ottenendo dalla prima il riconoscimento che tali linee erano state “valutate, nel loro insieme,operativamente e tecnicamente corrette e meritevoli di essere sviluppate”. Si prevedeva, infine, che la cessione dei missili Polaris avrebbe dovuto avvenire “a titolo gratuito, come attualmente per gli Jupiter”,(13) mentre sarebbero state a carico dell’Italia tutti i costi relativi all’allestimento delle navi.

Con il secondo documento, oltre a fornire dettagli sui lanci di prova di missili Polaris dall’incrociatore Giuseppe Garibaldi, si affermava che erano stati eseguiti progetti di dettaglio per l’installazione di missili MRBM anche su altri quattro incrociatori (i nuovi Andrea Doria, Caio Duilio e Vittorio Veneto e l’anziano Raimondo Montecuccoli), su “qualche C.T. e navi ausiliarie” nonché sulla nave trasporto mezzi da sbarco Etna, di prossima cessione da parte della Marina USA. La scelta di proseguire studi, progetti e sperimentazioni su navi era giustificata dalla constatazione che eventuali installazioni fisse terrestri di missili con “deterrente” (ovviamente testate nucleari) sarebbero equivalse “a sicuro bersaglio primario e pagante dell’offensiva nemica, con relative terrificanti conseguenze”.

(13) Nell’ambito delle politiche statunitensi di “difesa lontana”, nel 1958 fu deciso di dotare di missili Jupiter alcune Nazioni della NATO, in particolare Italia, Turchia e Francia. Quest’ultima rifiutò, puntando come è noto, alla creazione di una forza nucleare totalmente nazionale, la cosiddetta “Force de frappe”. Nel nostro Paese lo spiegamento di Jupiter fu deciso il 26 marzo 1959 con uno specifico accordo bilaterale tra USA e Italia che affidò la gestione dei missili e dei loro siti all’Aeronautica Militare, che costituì il 23 aprile 1960 un’apposita unità, la 36ª Aerobrigata da Interdizione Strategica, con due squadroni, ciascuno dotato di 15 missili, con il Comando basato a Gioia del Colle e dieci siti di lancio situati in Puglia e Basilicata.

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Sottomarino Guglielmo Marconi

Sulla scorta di quanto avevano fatto gli statunitensi con il sottomarino sperimentale Albacore, alla fine degli anni ’50, la Marina italiana manifestò l’intenzione di progettare un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi Guglielmo Marconi, cui avrebbe dovuto far seguito un’unità gemella col probabile nome di Enrico Toti.

Il modellino del Marconi esposto nella caserma sommergibili della Spezia.

L’idea fu presentata dall’ammiraglio Ernesto Giuriati, capo di Stato Maggiore della Marina, all’allora ministro della Difesa, on. Giulio Andreotti, che ne accennò in un suo intervento in Senato il 3 luglio 1959.(14)

(14) L’intervento è integralmente consultabile sul sito dell’archivio Giulio

Andreotti, conservato presso l’istituto Don Luigi Sturzo: http://91.212.219.214/andreotti/scripts/GeaCGI.exe?REQSRV=REQSEQUENCE&ID=142La parte relativa al Marconi è a p. 19. Secondo Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, Andreotti tornò sull’argomento almeno in altre due occasioni, la prima il 22 dicembre del 1962, in occasione del varo dell’incrociatore Duilio a Castellammare di Stabia (il testo del discorso è conservato presso l’Istituto Don Luigi Sturzo, Archivio Giulio Andreotti, serie “Discorsi”, busta 730), affermando: «Noi desideriamo portare avanti al più presto il progetto della costruzione di un sottomarino nucleare italiano che andrà incontro alle aspirazioni di fondo della nostra Marina e rappresenterà altresì un passo in avanti verso quel progetto tecnico a cui tutti dobbiamo cooperare»; la seconda alla Camera dei Deputati il 18 settembre 1963, chiedendo un impegno «a realizzare un’unità di superficie a propulsione nucleare, primo passo verso la costruzione del sommergibile atomico, che resta l’obiettivo finale». Cfr. P. Mannironi, “Il sogno nucleare del ‘mandarino’ e il veto americano - Andreotti firmò l’accordo con Washington per la Maddalena in cambio di uranio per il sottomarino atomico made in Italy”, La Nuova Sardegna, 7 maggio 2013.

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Il battello, simile allo Skipjack statunitense, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di circa 3400 t e una velocità massima, sempre in immersione, di 30 nodi, con timoni di direzione e di profondità a croce, posizionati a poppa, subito davanti l’unica elica e una coppia di timoni di profondità orizzontali posizionati sulla vela.

Il progetto di massima prevedeva anche che il battello fosse diviso da quattro paratie stagne, tenendo separati e in sicurezza il locale siluri, il compartimento di comando, quello del reattore e il compartimento destinato ai sistemi elettrici di bordo. La propulsione doveva essere affidata a un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello S5W della Westinghouse e studiato dal CAMEN, che alimentava due turbine (alta e bassa pressione) accoppiate a un riduttore che avrebbe trasmesso la potenza (15 000 hp) all’unico asse con elica a 5 pale.

Il modellino dello Skipjack (sopra)...

... e quello del Marconi (sotto). È evidente la forte rassomiglianza con lo Skipjack.

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Una rara fotografia dell’effettiva impostazione del sommergibile Guglielmo Marconi.

La realizzazione del progetto, il cui costo era stato stimato in circa 30 miliardi di lire del-l’epoca (cosa che avrebbe as-sorbito buona parte dell’intero bilancio del Ministero della Difesa), necessitava dell’impe-gno degli Stati Uniti a fornirci parte della tecnologia neces-saria, ma, nel settembre 1963, questo impegno non ci fu in quanto, formalmente sulla scor-ta di una loro legge che vietava il trasferimento all’estero di conoscenze e tecnologie nu-cleari utilizzabili a fini militari, ma sostanzialmente per il timo-

re che, a causa della forte presenza di partiti politici vicini all’Unione Sovietica, la tecnologia venisse trasferita a questa Nazione.(15)

Anche il tentativo di ottenere dalla Francia tecnologia e combustibile nucleare fallì, e il progetto venne quindi abbandonato, nonostante il Marconi fosse stato già impostato il 16 giugno 1957 presso l’Italcantieri di Taranto.(16)

Secondo alcuni commentatori il Marconi avrebbe potuto rappresentare un primo, importante passo per la costruzione di altre unità subacquee a propulsione nucleare dotate di missili MRBM, magari derivati dal progetto nazionale Alfa, i cui prototipi furono sperimentati con successo negli anni successivi e di cui accenneremo nel prosieguo di queste note, oppure di missili da crociera, tutti comunque dotati di testate nucleari.

(15) Forse non è un caso che, quando gli Stati Uniti decisero di tirarsi indietro, si

costituisse in Italia il primo governo di centro-sinistra. (16) La Marina Militare nel 1980 battezzò con lo stesso nome Guglielmo Marconi e

con identificativo NATO S-521 un sommergibile classe Sauro - 2a serie, entrato in servizio l’11 settembre 1982 e radiato il 1° ottobre 2003.

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Sottomarino d’attacco a propulsione nucleare Guglielmo Marconi

Cantiere Italcantieri (oggi

Fincantieri) Lunghezza 83 m

Ordinazione 1° luglio 1959 Larghezza 9,55 m

Dislocamento In emersione: 2300 t In immers.: 3400 t

Velocità max 30 nodi

Propulsione

Un reattore nucleare CAMEN da 30 MW termici e 11,032 MW (15 000 hp) all’elica

derivato dal Westinghouse S5W

Un’elica a 5 pale

Autonomia Max 36 000 miglia (pari a 12 000 h di

moto)

Armamento

6 tubi di lancio collocati a prua per siluri da 533 mm, con una dotazione

di 30 armi

Sottomarino lanciamissili

Presso il Museo storico navale di Venezia è apparso il disegno, poco più di uno schizzo, di un SSBN, il cui scafo sembra essere in parte derivato da quello del Marconi.

Dal disegno si evince che l’unità avrebbe dovuto essere dotata di sei tubi lanciasiluri a prua e di 16 pozzi di lancio per missili MRBM, in due file da otto, posizionate a poppa della vela e subito prima dell’apparato di propulsione nucleare.

Non si hanno altre notizie su questo ipotetico battello, ma il semplice fatto che qualche progettista della Marina sia stato incaricato di accennarne le linee starebbe a significare non solo che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso si ipotizzò di dotarsi di vettori sottomarini in grado di lanciare missili a media o lunga gittata (ovviamente

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muniti di testata nucleare), ma spiegherebbe anche la costanza con la quale la Marina portò avanti il progetto del missile MRBM Alfa, di cui accenneremo nella parte finale di queste note.

Il disegno del sottomarino nucleare lanciamissili esposto al Museo Storico Navale di Venezia (cortesia del personale del Museo)

Rifornitore di squadra Enrico Fermi

Fallito il progetto di potersi dotare di un sottomarino nucleare, la Marina, anche in questo caso su iniziativa del suo capo di Stato Maggiore, ammiraglio Ernesto Giuriati, ripiegò su un’unità di superficie non da combattimento ma da supporto logistico e rifornimento di squadra. Lo studio di fattibilità fu affidato al Reparto Progetto Navi di Mariconav.

L’unità, alla quale sarebbe stato dato il nome di Enrico Fermi, avrebbe dovuto avere una lunghezza di circa 175 m, una velocità massima di 30 nodi (21 nodi la velocità di crociera) e un dislocamento di circa 18 000 t; un reattore da 80 MW avrebbe fornito la potenza per gli usi di bordo, inclusi i 22 000 hp necessari per la propulsione. Anche per tale progetto era però necessario un minimo di collaborazione da parte di Nazioni già in possesso del knowhow nucleare indispensabile per realizzare impianti navali di tale potenza.

Tra il 1965 e il 1966 si definirono le specifiche e si passò persino a contatti con Italcantieri, per quanto riguardava lo scafo e le sovrastrutture, e con il gruppo FIAT per l’apparato motore nucleare, per verificare la possibilità

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di tradurli in un ordine vero e proprio.(17) Anche in questo caso il progetto non andò avanti, fermato prima dal divieto degli Stati Uniti di fornirci sia il reattore nucleare, sia il combustibile e poi dall’impossibilità di ottenere da altre Nazioni(18) il combustibile nucleare per l’alimentazione di un reattore nucleare nazionale derivato dal R.O.S.P.O., orribile acronimo che sta per “Reattore Organico Sperimentale Potenza Zero), realizzato come prototipo dalla Marina per il CAMEN. Tale apparato avrebbe dovuto essere del tipo ad acqua pressurizzata, racchiuso in un contenitore di sicurezza cilindrico verticale dal diametro di 8,40 m. La potenza sviluppata risultava di 22 000 cavalli/asse e la velocità massima della nave di 21 nodi.

L’Enrico Fermi avrebbe dovuto avere scafo e sovrastrutture simili al mercantile statunitense Savannah, con sovrastrutture a corpo unico, spostate leggermente verso poppa, e apparato motore anch’esso posizionato abbastanza indietro rispetto a metà lunghezza nave. L’armamento sarebbe stato essenzialmente di tipo antiaereo e le sistemazioni elicotteristiche alquanto spartane.

Il profilo dell’Enrico Fermi. (Cortesia di Giuseppe Garufi)

In base alle testimonianze di chi ci lavorò, non è azzardato affermare che molti dei dati e dei disegni dell’Enrico Fermi che vengono invece riportati possono ritenersi di fantasia. A puro titolo di cronaca ne proponiamo comunque un profilo.

(17) la realizzazione del progetto veniva data così per certa che La Gazzetta del Mezzogiorno del 9 agosto 1968 così titolava: “Sarà pronta nel 1972 la Enrico Fermi, prima nave nucleare della flotta italiana. I lavori saranno affidati alla FIAT”.

(18) Negli anni ’70, in realtà la Francia ci fornì oltre due tonnellate di uranio per alimentare il ROSPO.

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Profilo dell’Enrico Fermi, secondo un’interpretazione non corrispondente al vero progetto.

In quanto all’apparato motore, il gruppo turboriduttore sarebbe stato

quasi certamente Ansaldo-General Electric, mentre per il reattore non fu mai presa una decisione, optando per uno dei due sistemi proposti dal gruppo IRI/Ansaldo e dal gruppo FIAT, ciascuno dei quali aveva una diversa licenza di produzione di reattori statunitensi.

Rifornitore di squadra a propulsione nucleare Enrico Fermi

Cantiere Italcantieri (oggi

Fincantieri) Lunghezza 170-175 m

Ordinazione 1966 Larghezza 14 m

Dislocamento 17 000-18 000 t a

pieno carico Velocità max

30 nodi (21 nodi di crociera)

Propulsione 1 reattore nucleare ROSPO da 80 MW 1 elica quadripala

Armamento(19)

4 o 6 cannoni Oto Melara da 76mm/62 SR, 2 elicotteri SH-

3D

(19) Secondo talune fonti, il Fermi avrebbe dovuto avere (come è visibile nel profilo

di fantasia proposto) anche 2 o 4 cannoni Oto Melara da 127mm/54 Compatto, cosa alquanto improbabile, soprattutto per motivi tecnici legati ai pesi e ai volumi dei pezzi poppieri. È escluso che il Fermi fosse dotato di rampe per missili superficie-aria Tartar o Terrier, ma, essendo progettato come rifornitore di squadra, è logico che avrebbe avuto stivati un certo numero di questi missili, come del resto di tutto ciò che necessita a una squadra navale. È possibile che in fase di studio si sia anche ipotizzato di installare tubi di lancio per missili balistici, come era stato effettuato sull’incrociatore Giuseppe Garibaldi, magari sulla falsariga di quanto veniva propugnato negli Stati Uniti (progetto MLF Multi Lateral Force) circa la creazione di una flotta di navi mercantili lanciamissili Polaris.

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2 - Le unità realizzate

Se i progetti del Marconi e del Fermi non andarono oltre una sommaria definizione delle specifiche, la Marina riuscì egualmente a fare qualche passo concreto se non nel campo nucleare vero e proprio, quantomeno nei sistemi d’arma (piattaforme navali e vettori missilistici) che le avrebbero consentito di avere un seppur limitato potere nucleare strategico.

Ciò avvenne con le importanti modifiche apportate all’incrociatore Giuseppe Garibaldi, con la costruzione e sperimentazione dell’Alfa, un missile balistico intercontinentale, e con la prevista installazione, poi non completata, di pozzi di lancio per missili IRBM sull’incrociatore Vittorio Veneto.

Incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi (C551)

Varato il 21 aprile 1936 come incrociatore leggero, apparteneva alla classe “Condottieri”,(20) tipo “Duca degli Abruzzi”. Durante la 2a guerra mondiale il Giuseppe Garibaldi svolse attività bellica partecipando soprattutto alla scorta di convogli diretti in Africa settentrionale, mentre, eccezion fatta per la battaglia di Punta Stilo (9 luglio 1940), non prese parte a nessun altro scontro navale significativo.

Nel 1941, nonostante fosse stato colpito da due siluri lanciati dal sommergibile britannico Upholder, riuscì a riparare nel porto di Palermo, pur con circa 700 t d’acqua imbarcate. Lievi danni subì invece lo scafo a seguito di un bombardamento alleato il 31 gennaio 1943. Nel dopoguerra, dopo essere stato sottoposto tra il 1957 e il 1961 a radicali lavori di ammodernamento che ne modificarono la classificazione in incrociatore lanciamissili, ricoprì il ruolo di nave ammiraglia.(21) La Marina Militare, infatti, seguendo l’esempio di quella statunitense,(22) colse l’occasione dei lavori di ammodernamento del Garibaldi per la realizzazione e la sperimentazione della prima unità lanciamissili italiana.

(20) Alberto di Giussano, Alberigo da Barbiano, Giovanni delle Bande Nere, Bartolomeo Colleoni, Luigi Cadorna e Armando Diaz da 7000 t, tutti entrati in servizio tra il 1931 e il 1933. Molto differenti erano Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo, da 8700 t, entrati in servizio nel 1935, e ancor di più Duca Degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi da 11 262 t, entrati in servizio nel 1937.

(21) I lavori di trasformazione terminarono il 3 novembre 1961, quando il Garibaldi venne riconsegnato alla Marina Militare.

(22) La U.S. Navy aveva infatti ammodernato fra il 1954 e il 1956 due incrociatori della classe “Baltimore” da 14 700 t, Boston e Canberra, installando anche due rampe per il lancio

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L’incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi.

Le modifiche riguardarono in particolare le sovrastrutture (con la rico-

struzione della plancia, la costruzione di un lungo castello raccordato verso poppa con un’ampia tuga, l’installazione di due strutture a traliccio per i nuovi sistemi radar e l’eliminazione di uno dei due fumaioli), lo scafo (con la ricostruzione della parte poppiera, che divenne del tipo a specchio, con una zona sgombra idonea a consentire appontaggio per un piccolo elicottero AB 47G), l’apparato motore (che, a seguito dell’abolizione di due caldaie, comportò la riduzione della potenza, scesa a 85 000 CV, con ovvia riduzione della velocità massima a 30 nodi, compensata però da un aumento del-l’autonomia a 4500 miglia),(23) i sistemi elettronici (con l’installazione di vari tipi

di missili superficie-aria “Terrier” e altri quattro, Toledo, Macon, Helena e Los Angeles equipaggiati con tre missili a testata nucleare SSM-N-8 Regulus.

(23) Originariamente, i valori erano rispettivamente di 100 000 CV, 35 nodi e 4125 miglia.

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di radar)(24) e l’armamento (quattro cannoni da 135/45 mm in due torrette binate e otto cannoni OTO Melara da 76/62 mm in altrettante torrette singole e un lanciatore a doppia rampa Mk 10 per il lancio di missili superficie-aria RIM-2 Terrier).

La modifica che più ci interessa ai fini dell’argomento di cui stiamo trattando, fu però l’installazione di quattro pozzi di lancio per missili Polaris nell’estremità della tuga.

Tale installazione, al di là dell’aspetto tecnico, era dovuta all’ambizione della Marina Militare di dotarsi di sistemi d’arma con capacità di deterrenza strategica, cioè, in parole povere, nucleare.

Non potendo dotarsi di idonee unità subacquee, a causa dell’opposizione degli Stati Uniti, si puntò a verificare la possibilità di installare dei missili IRBM o ICBM su unità di superficie, cosa non osteggiata dall’U.S. Navy, che stava nelfrattempo studiando una soluzione praticamente identica sull’incrociatore a propulsione nucleare USS Long Beach,(25) nonché forme di installazione più semplici ed economiche, addirittura quali quelle su navi mercantili come da progetto NATO MLF (Multy Lateral Force), una forza navale costituita da 25 mercantili da 18 000 t con una velocità di almeno 20 nodi e un’autonomia di navigazione di oltre 100 giorni, in grado di trasportare e lanciare fino a un massimo di 200 missili Polaris.

Il progetto fu però abbandonato per vari motivi, primo dei quali l’entrata in servizio degli SSBN (Submersible Ship Ballistic Nuclear) classe “George Washington”, di gran lunga più interessanti sotto il profilo strategico, soprattutto per la sostanziale impossibilità, a quei tempi, di una loro individuazione.

Tornando alle modifiche apportate al Garibaldi per consentire il lancio di missili balistici, il progetto e la realizzazione furono curati dal capitano di vascello Glicerio Azzoni, che si occupò anche di realizzare la sistemazione in locali adiacenti ai pozzi di lancio di tutti gli impianti e apparecchiature necessarie al lancio e alla guida dei missili stessi.

(24) Le nuove apparecchiature radar erano quelle di sorveglianza aerea Frescan AN/SPS-39 e Selenia ARGOS 5000, di sorveglianza aeronavale Westinghouse AN/SPS-6 e SET-6B, di navigazione SMA CFL3-C25 e dei radar di tiro Sperry-RCA AN/SPG-55.

(25) Sul Long Beach era stato previsto di installare quattro pozzi di lancio per i Polaris a centronave, dove successivamente venne invece posizionato il lanciatore ASROC. Secondo altre fonti i pozzi di lancio sarebbero dovuti essere invece otto: cfr: N. Polmar, The Naval Institute Guide to the Ships and Aircraft of the U.S. Fleet, e N. Friedman, US Cruisers. Nel 1986 vennero installati due lanciatori contenenti ciascuno 4 missili da crociera BGM-109 Tomahawk.

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Sopra: Particolare dei pozzi per il lancio dei missili Polaris, collocati sulla tuga poppiera del Giuseppe Garibaldi. Sotto: I portelloni di chiusura dei pozzi di lancio.

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Lancio di simulacro di missile Polaris A-1 UGN-27A con nave Garibaldi alla fonda nel Golfo della Spezia.

L’installazione dei pozzi di lancio, lunghi 8 m, con un diametro di 2 m e con i portelloni che si aprivano ruotando verso l’asse di simmetria della nave, richiese un rafforzamento delle strutture di alloggiamento, in quanto, a dif-ferenza del lancio da sottomarini, che avviene “a freddo”, cioè me-diante espulsione del missile con un forte impulso di aria compressa,(26) quello da unità di superficie sarebbe avvenuto “a caldo”, cioè con una carica esplosiva, che avrebbe ov-viamente creato forti conseguenze termiche e meccaniche.

A partire dal luglio 1960, quando i lavori di allestimento

furono terminati, vi furono una serie di prove di collaudo della tenuta dei pozzi, alle quali seguirono alcuni lanci di collaudo di simulacri di missili, sia a nave ferma sia in navigazione, tra il dicembre 1961 e il 1° agosto del 1962 nel Golfo della Spezia.(27)

(26) I motori a razzo si accendono soltanto quando il missile è completamente uscito dall’acqua.

(27) Secondo altra fonte, l’ultimo lancio avvenne in realtà il 31 agosto 1963, sempre nel Golfo della Spezia (cfr. http://www.betasom.it/forum/index.php?showtopic=34505). Il Garibaldi effettuò una lunga crociera negli Stati Uniti dalla fine di agosto 1962 al gennaio 1963. Arrivato a Norfolk il 14 settembre per la messa a punto del sistema missilistico Terrier, si spostò a San Juan de Portorico, dove l’11 novembre effettuò una serie di lanci di prova del missile antiaereo. Secondo talune fonti, (una delle quali particolarmente importante perché è il discorso dell’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti fatto alla Camera dei deputati il 15 ottobre 1963, il cui testo integrale, conservato nell’Archivio Giulio Andreotti, Fondazione Don Luigi Sturzo, è consultabile sul sito http://91.212.219.214/andreotti/scripts/GeaCGI.exe?REQSRV=REQSEQUENCE&ID=282) in quell’occasione furono effettuate anche prove di lancio di simulacri di missili

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L’incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi mentre esce dal porto di Taranto.

Sebbene le prove avessero dato tutte esito positivo, i missili Polaris che

avrebbero dovuto essere consegnati all’Italia (secondo alcune fonti, 200) non vennero mai consegnati dagli Stati Uniti, poiché motivazioni di natura politica ne impedirono la prevista acquisizione e i pozzi furono utilizzati diversamente.

La crisi di Cuba si era infatti risolta con un accordo segreto fra URSS e USA in base al quale i sovietici non diedero seguito al programma di costruzione di 40 siti di lancio per missili a testata nucleare MRBM SS-4 Sandal e SS-5 Skean, mentre gli americani si impegnarono a ritirare in tempi brevissimi i 30 missili Jupiter installati in Italia e i 15 installati in Turchia. Probabilmente in questo accordo vi erano anche clausole finalizzate a non consentire che Paesi della NATO o del Patto di Varsavia si potessero dotare di vettori di armi nucleari strategiche difficili da controllare dalle due Nazioni capofila delle rispettive alleanze militari. Questo decretò per la Marina italiana la fine del programma Polaris, che si cercò di sostituire con il progetto del missile balistico Alfa, un clone del Polaris, progetto sviluppato a partire dal 1971. L’impossibilità di ottenere testate nucleari per questo vettore nazionale, nonché l’adesione dell’Italia al Trattato di non proliferazione nucleare, sottoscritto il 2

Polaris. Sul sito http://www.betasom.it/forum/index.php?showtopic=24562 vi è una bella foto del Garibaldi ormeggiato nel porto di New York nel dicembre 1962.

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maggio 1975, portarono al definitivo abbandono dell’Italia dal diventare una potenza nucleare strategica. Dopo i lavori di ammodernamento, che avevano comportato una notevole dotazione di attrezzature radar e sistemi elettronici (un radar di scoperta aerea a grande distanza Selenia Argos 5000, portata massima di 500 km, la cui antenna originale fu sostituita con altra più leggera e meno voluminosa nel 1966; un radar tridimensionale di scoperta aerea a media distanza Frescan AN/SPS-39, con portata di 300 km; un radar di scoperta aero-navale Westinghouse AN/SPS-6, con portata di 250 km; un radar di scoperta all’orizzonte, con portata di 90 km; un radar di scoperta di superficie e navigazione Selenia MM-SPQ-2, con portata di 50 km; 2 radar direttori guida-missili Sperry AN/SPG-55 per i missili superficie-aria RIM-2 Terrier;(28) 5 centrali per direzione di tiro per i cannoni da 135/45 mm e 76/62 mm.), le caratteristiche generali dell’incrociatore missilistico Giuseppe Garibaldi − distintivo ottico di identificazione: 551, motto “Obbedisco”− erano le seguenti:

Incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi (C551)

Cantiere Arsenale

Militare della Spezia Dislocamento

Normale: 9802 t A pieno carico:

11 350 t

Lavori di ricostruzione

Inizio: 1957 Completamento: 3.11.

1961 Lunghezza

Fra perpendicolari: 171,8 m

Fuori tutto: 187 m

Rientro in servizio

5 febbraio 1962 Larghezza 18,9 m

In disarmo 20 febbraio 1972 Immersione 6,7 m

Radiazione 16 novembre 1976 Velocità max 30 nodi

Demolizione 3 novembre 1978 Autonomia 4500 miglia a 18 nodi

Equipaggio 665 uomini (47 ufficiali e 618 fra sottufficiali e

marinai) Protezione

verticale 100 mm, orizzontale 40 mm,

artiglierie 135 mm, torre di comando 140 mm

Propulsione

6 caldaie Yarrow con 2 turboriduttori Parsons

per una potenza massima di 85 000 CV;

2 eliche

Armamento

4 cannoni da 135/53 mm in 2 impianti binati; 8

cannoni da 76/62 mm in impianti singoli; un

lanciatore binato per missili SA Terrier

(28) I missili S-A Terrier, ma solo quelli in dotazione alla US Navy, erano in grado di portare anche testate nucleari W-45.

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Nel disegno è possibile vedere la raffigurazione dei missili Polaris e Terrier in corrispondenza dei rispettivi sistemi di lancio.

Incrociatore lanciamissili portaelicotteri Vittorio Veneto (C550) Mentre si stavano ancora valutando i risultati dei test di lancio di simulacri di missili Polaris effettuati nel 1963 sul Garibaldi, si dava il via alla progettazione del Vittorio Veneto, evoluzione dei due precedenti incrociatori lanciamissili portaelicotteri classe “Andrea Doria”,(29) mantenendo su uno scafo di dimensioni ben maggiori di queste ultime la formula dell’armamento missilistico, artiglieresco ed elicotteristico (rampa missilistica AA a prua, cannoni antiaerei al centro e un ponte di volo a poppa), ma prevedendo l’installazione di quattro pozzi di lancio per missili a testata nucleare IRBM/MRBM Polaris. Ciò risulta in modo incontestabile dalle specifiche contenute nel progetto sottoscritto fra l’Ufficio Studi della Marina Militare e i Cantieri del Tirreno datato 27 febbraio 1963 e custodito presso l’Ufficio Storico della Marina Militare.

Nella parte “Specifica dell’armamento guerresco”, all’art. 1 viene infatti indicato che, oltre a otto impianti singoli da 76/62, a due lanciarazzi trinati illuminanti da 105 mm, a due lanciasiluri trinati mk 32, a due cannoncini per salva di saluto e a sei elicotteri Sikorsky S-58 o nove Agusta-Bell AB-204, i Cantieri avrebbero dovuto installare “n° 2 gruppi di lancio per armi speciali, ciascuno costituito da due tubi, un gruppo a dritta ed uno a sinistra nave, completi dei relativi apparecchi

(29) Come più sopra accennato, anche per i due incrociatori Andrea Doria e Caio

Duilio sarebbe stata prevista l’installazione di due pozzi di lancio per missili Polaris, comunque, in fase di costruzione, mai installati. È più che probabile che le dimensioni delle due navi difficilmente avrebbero potuto consentire una simile realizzazione.

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Il Vittorio Veneto nel porto di Malaga.

di espulsione, dei portelloni di chiusure e degli accessori. Per la condotta di queste armi, sarà necessario un locale sistemato per quanto possibile vicino ai tubi di lancio. ”Non si prevedeva che vi fosse alcun deposito per missili di scorta, tant’è che non vi sono indicazioni in tal senso nell’art. 8 “Depositi delle munizioni”, in quanto in fase di progetto si prevedeva soltanto che vi fossero quattro missili, alloggiati nei rispettivi tubi di lancio, come confermato al successivo art. 9 “Munizio-namento”: “Per le armi speciali: n° 4 armi speciali da conservare nei tubi di lancio”. Infine, all’art. 10 “Imbarco, sbarco e trasferimento del munizionamento”, viene precisato che: “Armi speciali: le armi speciali saranno imbarcate con mezzi esterni e sistemate con gli stessi nei tubi di lancio”.(30)

(30) Secondo la testimonianza diretta di persona che partecipò ai lavori e al collaudo, “in sede non solo di progetto, ma anche di allestimento si considerò la predisposizione, e furono disegnate e preparate le strutture relative, non molto evidenti data la continuità dei ponti. Furono installati i rinforzi (virole) per la successiva installazione (2 pozzi per lato) senza peraltro mai praticare i passaggi (fori) sui ponti, furono previsti passaggi cavi e tubolature. Data la zona relativamente accessibile anche i tempi di imbarco e sistemazione dei “pozzi” (mantenendo disegno ed allestimento originale) sarebbero stati ridotti. Non so peraltro se altrove, e con altro programma, si fosse proceduto all’approntamento dei tubi di

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Non era però del tutto chiaro dove i pozzi avrebbero dovuto essere collocati, c’è chi afferma che a poppavia della sovrastruttura della plancia, tra le due strutture “mack”(31) e a proravia della paratia dell’hangar, ma dai disegni del progetto di musealizzazione del Vittorio Veneto sembrerebbe che la loro collocazione sarebbe invece stata a centro nave, lateralmente, fra i pozzi elevatori munizioni/giostrine degli impianti di poppa e a proravia del locale caldaie di poppa, come si può notare dal disegno di seguito riprodotto, opera dell’Associazione Nave Museo Vittorio Veneto, dove la collocazione dei pozzi di lancio è rappresentata da quattro piccoli cerchi (evidenziati nel disegno con due frecce gialle).

lancio. Non avendo poi seguito l’unità dopo i lavori di fine garanzia, non so che sorte o riutilizzo abbiano avuto spazi e predisposizioni previste ... Le virole ed i rinforzi, che interessavano tutta l’altezza di costruzione, erano evidenti solo per chi ha vissuto la fase di costruzione, con ponti non ancora continui, così come successivamente (oltre che a disegno) si sarebbero dovute ricercare le tracce solo sulla parte (struttura) sottostante ai ponti che ovviamente sulla parte superiore, di calpestio, erano continui, non essendo installati né pozzi né portelli. La coibentazione ed i passaggi cavi (parte sottostante i ponti-parte superiore della zona abitata infraponte) certamente non facilitava l’identificazione dei rinforzi, unico indice della predisposizione”.

(31) Il termine è la crasi (MAst + staCK) di altri due termini anglosassoni di architettura navale, mast (che significa “albero”, “alberatura” come sostegno delle antenne radar) e stack (“fumaiolo”).

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Nel corso dei lavori di allestimento, quando erano già stati ricavati gli spazi e collocate le strutture cilindriche dei pozzi di lancio, si decise di rinunciare al loro completamento, tanto che non furono praticate le necessarie aperture sul ponte di coperta. In funzione del tipo di missioni per le quali era stato progettato, il Vittorio Veneto, che dal 1969 al 1985 è stato la nave ammiraglia della Marina Militare, aveva una dotazione di radar ed elettronica di bordo per l’epoca senz’altro avanzata: un radar di scoperta aerea lontana, Hughes AN/SPS-52B; un radar di scoperta aeronavale MM/SPS-768; un radar di navigazione e scoperta navale SMA MM-SPQ-2B (poi sostituito da uno SMA MM/SPS-702); 2 radar guida missili Standard/ASROC(32) Sperry SPG-55A (poi sostituiti dalla versione C); 4 radar per il controllo del tiro ELSAG-Elettronica San Giorgio Argo NA-10/RTN-10X abbinati ai cannoni da 76/62 mm; 2 radar per il controllo del tiro Selenia-Elsag Orion SPG-74 RTN-20X abbinati ai CIWS Dardo; sistemi elettronici difensivi ESM\ECM: un sistema IFF/ESM/ECM Abbey Hill, 2 lanciatori di chaff/flare SCLAR Breda-Elsag; un TACAN Face Standard URN-25 per assistenza navigazione elicotteri; sonar: AN/SQS-23G (associato anche ai sensori degli elicotteri ASW).

Una foto della zona centrale del Vittorio Veneto dove sarebbero stati collocati i pozzi di lancio per i Polaris.

(32) Tanto gli Standard quanto gli ASROC, ma solo quelli in dotazione all’US Navy, erano in grado di portare una testata nucleare (rispettivamente la W-81 e la W-44).

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Un disegno del profilo del Vittorio Veneto, peraltro non del tutto fedele, in quanto sposta troppo verso poppa la torre del cannone da 76/62 posta a centro nave.

Le caratteristiche generali dell’incrociatore missilistico portaelicotteri Vittorio Veneto (distintivo ottico di identificazione: 550, motto “Victoria nobis vita”) erano le seguenti:

Incrociatore lanciamissili portaelicotteri Vittorio Veneto (C550)

Cantiere Italcantieri di

Castellammare di Stabia

Dislocamento Normale: 7500 t

A pieno carico: 9950 t

Costruzione

Impostazione: 10.6.1965

Varo: 5.2.1967 Completamento:

12.7.1969

Lunghezza Fra le perpendicolari:

171,8 m Fuori tutto: 179,6 m

Entrata in servizio

31 ottobre 1969 Larghezza 19,4 m

In disarmo

29 giugno 2006. Dal 2003 era stato

collocato in posizione di ridotta tabella di

disponibilità, in attesa del disarmo.

Immersione

6,0 m

Velocità max

30 nodi

Autonomia 4500 mi a 18 nodi 6000 mi a 17 nodi

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Radiazione Radiata il 23.4.2007, attualmente in attesa di musealizzazione

Armamento

8 cannoni da 76/62 mm in torri singole; 3

mitragliere binate CIWS Breda Dardo; da 40mm; 4 missili OTOMAT in

lanciatori singoli; 1 lanciatore binato Mk 10

per missili Standard/ASROC;(33)

2 lanciasiluri tripli ILAS-3 per siluri Mk 46 (e poi

A244) da 324 mm; 6 elicotteri Sikorsky SH-3 Sea King o 9 Agusta-Bell

AB 212. ASW(34)

Equipaggio 557 uomini (47

ufficiali e 618 tra sottufficiali e marinai)

Propulsione

4 caldaie Ansaldo-Foster Wheeler con 2 turboriduttori per una potenza massima di 73 000 CV; 2 eliche

I missili

Ricordando che – come risulta da un interessante documento datato 8 settembre 1958, di cui riproduciamo più sotto la prima pagina – la Marina Militare sin dalla seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso aveva preso in considerazione la possibilità di dotarsi di missili MRBM Polaris, contrastando l’idea di installazioni terrestri di questi missili,(35) e che erano stati presi contatti con la Marina USA (e, probabilmente, anche ai massimi livelli politici) per poterne ottenere un certo quantitativo,(36) e rammentando anche che nel periodo da noi preso in considerazione nel presente studio la Marina italiana ha avuto in dotazione vari tipi di missili, sia superficie aria (RIM-2 Terrier,(37) RIM-24 Tartar, RIM-66 Standard, Aspide) sia superficie-superficie (Marte, Otomat)

(33) La dotazione prevista era di 20 ASROC antisom e 40 Terrier antiaerei/antimissile. (34) I Sea King non potevano però operare stabilmente dalla nave, perché, essendo

troppo alti, non potevano essere ricoverati, per le loro dimensioni, nell’hangar. (35) Cfr. doc. SMM 8 settembre 1958, prot. 356/ss. Nel documento i Polaris sono

ancora classificati come IRBM (Intermediate-Range Ballistic Missile). Nel già citato documento del 1962, i Polaris sono classificati invece come MRBM (Medium-Range Ballistic Missile).

(36) Sempre nel già citato documento del 1962, il capo di Stato Maggiore della Marina scrive testualmente: “Ritengo sia giunto il momento di avanzare proposte al Ministro, che d’altra parte è già al corrente della questione, perché richieda l’assegnazione di missili Polaris all’Italia per l’imbarco sulle navi della Marina Militare”.

(37) Per inciso, risulta che il Terrier sia stato utilizzato oltre che dall’US Navy, soltanto dalla Marina italiana.

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sia, infine, antisom (RUR-5A ASROC e MILAS), alcuni dei quali erano in grado di avere testate nucleari, come ad esempio il Terrier (testata W-45 da 0,5 a 15 kiloton), l’ASROC (testata W-44 da 10 kiloton) e lo Standard (testata W-81 da 2 a 4 kiloton), non risulta che la nostra Marina ne sia mai stata dotata.

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Svanita la possibilità di ottenere i Polaris, la Marina puntò su un missile di produzione nazionale, quello che poi divenne l’“Alfa”. Ci limiteremo pertanto a descrivere, per la sua importanza sotto il profilo concettuale e tecnico, il progetto di questo missile balistico MRBM, possibile vettore, questo sì, di una testata nucleare italiana.

Missile “Alfa” – Il rifiuto degli Stati Uniti a fornirci una certa quantità di missili Polaris per il Giuseppe Garibaldi(38) (dopo che, come abbiamo prima accennato, erano stati effettuati una serie di lanci dall’incrociatore nel Golfo della Spezia, con simulacri inerti e autopropulsi, tanto a nave ferma quanto in navigazione) e la denuncia della Francia a maggio 1958 dell’accordo tripartito sottoscritto appena un mese prima, nell’aprile 1958, con Italia e Germania per lo sviluppo comune di un MRBM con un raggio d’azione di 2500 km, indusse la Marina Militare attorno ai primi anni ’60 a progettare e costruire un vettore ICBM, puntando anche a ricadute di tipo industriale nel settore aerospaziale civile. Le evidenti difficoltà di tipo politico ed economico indussero comunque la Marina a coinvolgere nel progetto anche le altre Forze Armate, tramite il CTSD (Comitato Tecnico Scientifico della Difesa).

Ottenutone l’assenso, venne creato nel 1971 un apposito gruppo di lavoro interforze, il GRS (Gruppo di Realizzazione Speciale), al quale fu affidata la realizzazione del progetto.

La scelta dei partner industriali cadde su Aeritalia (ora Alenia Spazio) come capocommessa, su Selenia (oggi Selex) e Sistel per i sistemi di guida e controllo e, per i motori, su SNIA-BPD (oggi Avio) che utilizzò anche i risultati delle ricerche effettuate fra il 1951 e il 1954 da Hermann Oberth, pioniere della missilistica e dell’astronautica.(39)

(38) La decisione di non consegnare i Polaris alla Marina italiana fu dovuta quasi sicuramente al fatto che, dopo la crisi di Cuba, gli USA si orientarono sempre più verso una limitazione della diffusione di armi nucleari e di relativi vettori, lasciando questo potere ai soli cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, URSS, Regno Unito, Francia e Cina).

(39) Hermann Julius Oberth (1894-1989), dopo aver lavorato per molti anni in Germania, nell’immediato dopoguerra si trasferì prima in Svizzera, presso la fabbrica di fuochi artificiali Hemberger, e quindi in Italia, dove arrivò nel 1951, invitato dal generale del Genio Navale italiano Sergio Pellegrini, ai primi del 1951. Stabilitosi alla Spezia, lavorò fino al 1954 come impiegato civile della Marina Militare, proseguendo a San Bartolomeo di Val di Lochi le sue ricerche sui combustibili solidi iniziate anni prima in WASAG, azienda tedesca leader negli anni ’30 nella produzione di esplosivi. Scopo principale delle ricerche, cui sembra abbiano collaborato alcuni tecnici tedeschi e italiani, era quello di trovare un

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Altre imprese partecipanti, seppur in forma minore, furono l’Oleo-dinamica Magnaghi, la Motofides, la Pirelli e altre ancora.(40)

Un disegno dell’Alfa (i piani, disegni e schemi originali dovrebbero essere tuttora conservati presso il CAMEN).

propellente per missili stabile, affidabile e di facile stoccaggio, puntando soprattutto sul nitrato d’ammonio. L’esperienza italiana terminò a seguito dell’invito di Werhner von Braun a recarsi negli Stati Uniti, per lavorare alla Redstone di Huntsville.

(40) L’elenco dettagliato degli enti e imprese coinvolte nel progetto Alfa è contenuto nell’articolo di Luciano Castro “Dossier Alfa”, pubblicato su Aerospazio Mese, n. 36, dicembre 1982.

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Un esemplare dell’Alfa montato su una rampa per le prove di valutazione effettuate dalla Selenia (oggi Alenia Spazio) presso Torre Murtas (Salto di Quirra), Sardegna.

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Il progetto, che si sviluppò probabilmente anche con un trasferimento di know-how statunitense,(41) era inizialmente basato su un missile bistadio interamente a propulsione solida, lanciabile sia da unità navali di superficie sia da sommergibili e sottomarini, dotato di un singolo motore sia per il primo stadio (con quattro ugelli in carbonio) sia al secondo, con una gittata massima intorno ai 4500 km, poi ridotta a 1600.

Il propellente solido, di produzione della statunitense Rocketdyne, era polibutadiene in grani, cioè un polimero composto di ammonio perclorato (ossidante) 73%, alluminio 12% (riducente), binder (agglomerante cata-lizzatore) 15%. Il carico pagante, ovviamente consistente in una testata nucleare, sarebbe stato di 950 kg.

Tra il dicembre 1971 e il luglio 1973 vennero effettuate presso lo stabilimento SNIA di Colleferro varie prove su due modelli in scala ridotta del motore, seguite fra il dicembre 1973 e il febbraio 1975, dai test effettuati nel balipedio della Marina della Spezia di alcuni prototipi di propulsore in scala 1:1.

Nel frattempo veniva sviluppata la cellula aerodinamica del missile, il cui disegno era stato senz’altro influenzato dalle conoscenze e misurazioni che la Marina Militare aveva tratto dall’utilizzazione degli esemplari del Polaris a bordo del Garibaldi.

Si arrivò così all’8 settembre 1975, quando alle 17:00 il primo esemplare del missile veniva lanciato con successo dal poligono interforze di Salto di Quirra. A questo lancio, nell’ambito del “Programma tecnologico diretto allo sviluppo di un carburante solido ad alto potenziale per razzi per applicazioni civili e militari”, ne seguirono almeno altri due, il 23 ottobre 1975 e il 6 aprile 1976.(42)

Va comunque evidenziato che non è facile stabilire con certezza, in quanto la documentazione ufficiale è ancora segretata, né il numero esatto di lanci né la loro data di effettuazione: secondo una fonte, infatti, i lanci furono almeno sei, e sarebbero iniziati due anni prima, con il primo lancio effettuato il 1° febbraio 1973 e seguito da altri cinque, uno nel 1974 (in data imprecisata), tre nel 1975 (4 aprile, 8 settembre e 23 ottobre) e uno, l’ultimo, nel 1976 (6 aprile).(43)

(41) Ciò è coerente con il fatto che gli Stati Uniti nel 1961 avevano proposto a Luigi

Broglio di realizzare un vettore spaziale in comune che si sarebbe dovuto costruire a Livorno, con la Fiat come capocommessa e l’ing. Giuseppe Gabrielli come responsabile del progetto.

(42) Cfr. L. Castro, “Dossier Alfa”, cit. (43) Cfr. http://www.astronautix.com/lvs/alfa.htm. Secondo un’altra fonte

l’ultimo lancio sarebbe stato effettuato il 15 aprile 1976. Cfr. http://www.friends-

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Un Alfa appena lanciato.

La ratifica del Trattato di Non Proliferazione Nucleare da parte dell’Italia, avvenuta il 2 maggio 1975, rendeva però inutile per le nostre forze Armate − e in particolare per la Marina − il progetto di un missile balistico, la cui unica ragion d’essere stava nella possibilità di essere dotato di testata nucleare.

Dopo l’ultimo lancio l’Alfa fu quindi abbandonato. Degli esemplari dell’Alfa prodotti e non utilizzati nei test di lancio si perdono le tracce, tranne per uno, che risulta tuttora abbandonato all’interno dell’aeroporto di Cameri, e

partners.org/partners/mwade/lvs/alfa.htm. Le ultime tre date corrispondono anche a quelle indicate dal periodico francese Air et Cosmos n. 599 del 22 novembre 1975, e n. 621 del 24 aprile 1976.

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L’autore con l’esemplare dell’Alfa abbandonato nell’aeroporto di Cameri.

per il quale alcune associazioni si stanno interessando al fine di trovargli una più idonea e consona sistemazione. Di un altro si sa che fu esposto per anni alla Mostra Aerospaziale di Roma Eur.

Poiché, come già accennato, un missile balistico a medio-lunga gittata ha senso solo se dotato di testata nucleare, e considerato che né gli Stati Uniti − che ci avevano già negato i missili Polaris − né altre Nazioni della NATO, come Francia o Gran Bretagna, ci avrebbero certo fornito testate nucleari, in che modo i vertici delle nostre Forze armate, e specificatamente della Marina, pensavano di procurarsele?

Un’ipotesi era senz’altro quella di produrle in Italia, e il CAMEN/CISAM sarebbe stato senz’altro in grado.(44)

(44) Secondo quanto riferito da Panorama del 22 novembre 2005, in un’intervista

all’ex ministro della Difesa Lelio Lagorio, questi si sarebbe detto sicuro che “il nostro apparato scientifico-tecnico-industriale era in grado di produrla. Con me ne parlò espressamente il Capo di Stato Maggiore ammiraglio Torrisi (luglio 1980). Più tardi l’idea venne risollevata dal mio sottosegretario alla difesa Ciccardini in sintonia con l’esperto Stefano Silvestri (autunno 1982). Era vero che l’Italia aveva ratificato il trattato di non proliferazione nucleare, ma da poco e dopo molte incertezze e resistenze.

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Museo della Marina alla Spe-zia: la targhetta riporta: “Mo-dello di missile balistico spe-rimentale su di un carrello con sistema di sollevamento a due stadi. Studiato e realizzato ne-gli anni 1961-1963 dal gruppo speciale della Marina Militare italiana”.

Caratteristiche del missile Alfa

Il missile Alfa era lungo 6,5 m (3,85 il 1° stadio e 2,65 il 2°), con un diametro di 1,37 m. Il peso totale era di 10 695 kg, di cui 6057 kg di carburante e 1000 kg del carico pagante, costituito dall’ogiva con ca-rica nucleare. La velocità massima era di Mach 10

(circa 12 200 km/h). La gittata massima prevista era di 1600 km, in grado quindi di colpire

molti obiettivi situati all’interno del Patto di Varsavia (ma anche del Nord Africa e del vicino Oriente).

Vi è molta incertezza circa il numero di missili prodotti fino al 1976; secondo alcune fonti(45) gli Alfa completi di motore furono soltanto sei,

Un ripensamento era sempre possibile”. L’intervista fu oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato. Atto n. 4-09803, 6 dicembre 2005) da parte del senatore Luigi Malabarba di Rifondazione Comunista, alla quale replicò ancora il ministro Lagorio affermando che “[la costruzione di una bomba atomica] non era un programma, ma solo un’idea che discussi col Capo di S.M. della Difesa, ammiraglio Torrisi, come tema di riflessione”.

(45) Cfr. http://www.astronautix.com/lvs/alfa.htm.

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secondo altre il totale fu invece di 40. È possibile che il primo dato si riferisca agli esemplari che furono effettivamente lanciati da Salto di Quirra.

La versione lanciabile da unità navali di superficie prevedeva l’uti-lizzazione di una carica di lancio esplosiva.

Note conclusive Nonostante tutti gli sforzi profusi e le esperienze acquisite, la Marina Militare non riuscì a dotarsi di un potere nucleare né tattico né, tantomeno, strategico. Ciò è sicuramente imputabile a decisioni prese a livello politico sia nazionale sia estero. Resta però il mistero di comprendere come mai proprio la Marina non sia stata ritenuta in grado di gestire − o, meglio, cogestire − la pesante responsabilità di avere in dotazione armi nucleare

Studi ed esperienze furono però utilissimi ad alcune delle imprese coinvolte al progetto Alfa per entrare nel mercato dell’astronautica civile, come ad esempio la SNIA-BPD, che entrò a far parte del progetto del vettore europeo Ariane.(*)

(*) Per l’importante contributo datomi circa vari aspetti legati alla progettazione e

sperimentazione dei pozzi di lancio sui nostri incrociatori Giuseppe Garibaldi e Vittorio Veneto, desidero ringraziare l’amico capitano di fregata ing. Gian Carlo Poddighe. Circa il problema del posizionamento dei pozzi di lancio sul Vittorio Veneto, un ringraziamento al prof. Giuseppe Mastronuzzi e agli ammiragli Edoardo Faggioni e Nicolò Marasciulo. È anche grazie a Giuseppe Garufi che si è chiarito quale sarebbe dovuto essere il vero aspetto dell’Enrico Fermi. Infine un ringraziamento per la disponibilità dimostratami va al personale dell’Ufficio Storico della Marina Militare, e in particolare al 1° maresciallo Vincenzo Fiorillo, addetto alla fototeca, e all’ammiraglio Giuliano Manzari, appassionato storico della nostra Marina, per l’aiuto e l’incoraggiamento fornitomi nelle ricerche.

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Bibliografia

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ARCHIVIO

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DONAZIONE DELL’AMMIRAGLIO VITTORIO TUR

a cura di Claudia Lazzerini

DONAZIONE DELL’AMMIRAGLIO VITTORIO TUR

Tavola delle abbreviazioni Introduzione Inventario Indici

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Inventario della Donazione dell’ammiraglio Vittorio Tur

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TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

ago. agosto amm. ammiraglio apr. aprile aus. ausiliario B. / b. / bb. busta/e c. /cc. carta/e C.i.a.f. Commissione italiana di armistizio con la Francia cap. corv. capitano di corvetta cap. freg. capitano di fregata cap. vasc. capitano di vascello c.r.e.m. corpo regi equipaggi marittimi ct. cacciatorpediniere d.v.m. decorazione valor militare dic. dicembre fasc./fascc. fascicolo/i feb. febbraio gen. gennaio giu. giugno incr. incrociatore lug. luglio m.m. militare marittimo mag. maggio mar. marzo mons. monsignore ms. / mss. manoscritto/i n. nave nov. novembre ott. ottobre p.fo piroscafo r recto (di foglio) r. regio/a / i /e s.d. senza data s.l. senza luogo S.m. Stato maggiore S.M. Sua maestà set. settembre ten. vasc. tenente di vascello U.s.m.m. Ufficio storico della marina militare v verso (di foglio)

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L’ammiraglio Vittorio Tur.

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Inventario della Donazione dell’ammiraglio Vittorio Tur

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Introduzione

Vittorio Tur nacque a Livorno il 30 marzo 1882, da Carlo Tur e Ada Dolci.

Ammesso all’Accademia navale nel 1897, conseguì la nomina a guardiamarina

nel 1901. Da giovane ufficiale prese parte al viaggio di circumnavigazione della

nave Calabria (1902-1904) e, dopo imbarchi su navi maggiori, partecipò alla

campagna d’Africa della nave idrografica Staffetta (1907-1908). Promosso

tenente di vascello nello stesso anno, prese parte alla guerra italo-turca del

1911-1912 sulla corazzata Sicilia.

Durante la 1a guerra mondiale svolse la sua attività dapprima sul ct. Irrequieto

per passare poi sulle torpediniere in alto Adriatico, meritando una medaglia di

bronzo al valore militare. Promosso capitano di corvetta nel giugno 1917, nel

marzo dell’anno successivo fu destinato al Reggimento Marina, al comando del

battaglione “Caorle” che operava lungo la linea del Piave, assieme agli altri

battaglioni “Grado” e “Monfalcone” e poi al “Golametto”, dapprima sotto la

guida del cap. vasc. Dentice di Frasso e poi del cap. freg. Sirianni. Nel periodo

più critico della resistenza e in quello successivo dell’attacco e dello

sfondamento delle linee nemiche si distinse per coraggio, iniziativa e

risolutezza meritando ben due medaglie d’argento e una seconda medaglia di

bronzo al valore militare.

Nell’immediato dopoguerra fu destinato a Pola sempre al comando del

battaglione “Caorle”, e in seguito fu al comando del ct. Palestro (1919-1921).

Capitano di fregata nel 1922 e capitano di vascello nel 1928, ebbe brevi

destinazioni a terra a Spezia, in arsenale e alla direzione torpedini e

munizionamento, e i comandi navali dei ct. Achille Papa e Impavido e delle

relative squadriglie. Da capitano di vascello fu comandante delle Scuole

C.r.e.m. di Pola (1928-1929), della nave da battaglia Giulio Cesare (1929-1930) e

dell’incr. Trieste (1930-1932).

Contrammiraglio nel 1934 e ammiraglio di divisione nel 1935, prese parte

alle operazioni militari in Africa orientale (1935-1936), quale comandante della

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Divisione navale con insegna sull’incr. aus. Bari, e successivamente alle

operazioni militari in Spagna, quale comandante della 7a Divisione navale con

insegna sull’incr. Eugenio di Savoia.

Comandante superiore del C.r.e.m. nel 1934-1935 e nel 1937-1939 e quindi

comandante m.m. autonomo dell’alto Adriatico nel 1939-1940. All’entrata

dell’Italia in guerra si trovava a Durazzo in qualità di comandante militare

marittimo.(1) Nell’ottobre dello stesso anno, promosso ammiraglio di squadra,

assunse il comando in capo delle forze navali speciali assegnate ad operazioni

di sbarco.(2) Nel novembre 1942 fu incaricato dell’occupazione della Corsica;

dal gennaio al maggio 1943 fu comandante militare marittimo in Francia con

sede a Tolone,(3) e quindi comandante in capo del Dipartimento m.m. del basso

Tirreno fino all’8 agosto 1943. L’8 settembre 1943 era a Roma, a disposizione

del ministero.

Rimase in territorio occupato dalle forze germaniche, rifiutando la

collaborazione con le autorità tedesche e con quelle della Repubblica sociale.

Collocato in ausiliaria il 30 marzo 1945, fu richiamato in servizio fino al 15

luglio dello stesso anno.

Conclusa la carriera, l’ammiraglio si dedicò anche all’attività di scrittore

dando alle stampe due libri basati per lo più sui propri ricordi ed esperienze

autobiografiche: Con i marinai d’Italia da Bastia a Tolone del 1948, e Plancia

(1) Si veda anche la documentazione relativa al Comando m.m. in Albania

(Marialbania) nel fondo Supermarina - Scacchieri esteri, b. 10 e 11, inventario pubblicato in Bollettino d’Archivio dell’U.s.m.m. giugno-settembre 2002.

(2) Relativamente alla Forza navale speciale si veda l’inventario dell’omonimo fondo di Supermarina, in Bollettino d’Archivio dell’U.s.m.m. giugno 2006, in cui (b. 3 fasc. 51) si conserva un promemoria dell’amm. Tur.

(3) Si veda la documentazione relativa a Maricorsica e a Mariprovenza nel fondo Supermarina - Scacchieri esteri, rispettivamente b. 26 e b. 24 e 25, inventario pubblicato sul Bollettino d’Archivio dell’U.s.m.m. giugno-settembre 2002.

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Ammiraglio, composto da tre volumi editi tra il 1958 e il 1963. (4) Morì a Roma il

22 ottobre 1969.(5)

La donazione Tur è contenuta in quattro faldoni, già identificati dai numeri

50-51-52 e 53. Nella busta 1 (ex 50) si conserva essenzialmente carteggio. Nel

primo fascicolo si trovano le lettere inviate da Vittorio Tur e dal fratello Paolo,

ancora bambini, ai loro genitori in occasione del Natale o di altre ricorrenze,

molte di esse sono su carta intestata dell’Istituto italo-germanico Slegers di

Livorno, presso il quale studiavano i due fratelli. Seguono alcuni fascicoli in cui

le lettere provengono da personalità della Marina, da congiunti e amici in

occasione di eventi legati alla vita famigliare o alla carriera, fra questi

ricordiamo: la morte del padre (b. 1 fasc. 4) e la nascita del figlio (b. 1 fasc. 7;

Vittorio si era spostato con Emily Rae nell’agosto 1912), le promozioni (b. 1

fasc. 6).

Sempre nella busta 1, i fascicoli dall’8 al 13 contengono carteggio risalente

agli anni 1917-1919; in particolare i fascicoli 9 e 11 conservano testimonianze

relative al periodo in cui Vittorio Tur, al tempo capitano di corvetta,

comandava il battaglione “Caorle” del Reggimento Marina.(6) Il fasc. 16,

composto quasi esclusivamente da carte del 1924, concerne la progettata

candidatura alle elezioni di quell’anno. Il fasc. 21 conserva carteggio e altra

documentazione riguardante l’avanzamento ad ammiraglio di squadra. Nel fasc.

23 si conservano comunicazioni ricevute durante il periodo dopo l’8 settembre

1943 fino al 1944. Il fasc. 25 riguarda invece alcune problematiche connesse

con l’incarico di comandante di Mariprovenza (Comando militare marittimo in

(4) Ambedue i libri, Con i marinai d’Italia da Bastia a Tolone, Roma L’Arnia, 1948 e Plancia Ammiraglio, Roma, Edizioni Moderne, poi Camesi, 1958-1963, si conservano presso la biblioteca dell’Ufficio storico della marina militare.

(5) Le notizie sopra riportate sono tratte in larga parte da P. Alberini, F. Prosperini «Vittorio Tur», in Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico, Roma, U.s.m.m., 2015.

(6) Il 30 ottobre passava il Piave e attaccava le linee di Redevoli e il rovescio della linea di Piverotto facendo prigioniero il presidio. Per questa azione fu proposto da Sirianni, comandante del Reggimento, alla promozione straordinaria per merito di guerra al grado di capitano di fregata.

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Francia) e contiene una relazione dell’Ufficio recuperi di Tolone sull’incr. La

Galissonière e sulla situazione politica in Provenza.

La busta 2 (ex 51) contiene documentazione relativa prevalentemente alla

carriera di Vittorio Tur: curriculum vitae (fasc. 31), decreti di nomina,

promozioni, concessioni di idoneità e brevetti (fasc. 32 e 33), diplomi (fasc. 42),

onorificenze (fasc. dal 36 al 40 e fasc. 43).(7) Nei fascicoli 45 e 46 sempre della

busta 2 sono conservati i testi di alcuni discorsi, così come minute e appunti

redatti dall’ammiraglio per diverse occasioni. L’ultimo fascicolo della busta, il

47, contiene un testo dell’amm. Antonio Foschini dal titolo “Il Natale fiumano:

giornale di bordo del comandante della R. nave Dante Alighieri (21 dicembre

1920 - 6 gennaio 1921)”. Infine nelle buste 3 e 4 (rispettivamente ex 52 e 53)

sono conservati i diari di bordo delle navi Flavio Gioia, Vespucci, Calabria, Saint

Bon e Carlo Alberto, dal 1898 al 1906. Fra questi, il diario in due volumi della

nave Calabria (b. 3 fasc. 52), impegnata nel suo secondo viaggio di

circumnavigazione, appare come il più curato e corredato oltre che da cartoline

d’epoca – molte quelle di Buenos Aires – anche da fotografie. Fra l’altro, nel

primo volume si dà notizia della devastante eruzione del vulcano Pelée,

avvenuta l’8 maggio 1902. La descrizione è basata sulla testimonianza fornita

da tre marinai italiani superstiti dell’equipaggio del p.fo Roraima, che trovarono

ricovero sulla nave Calabria giunta presso l’isola della Martinica una ventina di

giorni dopo l’evento, non è azzardato pensare che possa essere stato lo stesso

Tur a scattare la fotografia che li ritrae conservata tra le pagine del diario.

(7) Alcuni documenti a causa delle loro dimensione sono conservati in cartellina a

parte come segnalato nell’inventario.

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INVENTARIO

B. 1 fasc. 1

Lettere di auguri, in italiano, francese e tedesco, scritte da Vittorio e Paolo Tur ai genitori per festività e anniversari.(8) Contiene anche una medaglietta votiva con nastrino tricolore.

1889 dic. 24 - 1892 dic. 24

Lettera di Vittorio Tur alla madre, s.l., s.d., b. 1 fasc. 1.

B. 1 fasc. 2

(8) Alcune lettere su carta intestata Istituto italo-germanico Slegers di Livorno; alcune ornate; tre lettere sono di Paolo, cinque di Vittorio, una di Paolo e Vittorio.

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Lettere di auguri inviate da Carlo Leone Reynaudi e Paolo Thaon di Revel.

1907 dic. 10 - 1908 gen. 28

B. 1 fasc. 3

Lettere inviate dalla madre Ada Dolci, da Kate C. [Lathaun], Carlo Leone Reynaudi, Paolo Thaon di Revel, Cantiere Fratelli Orlando di Livorno. Alla lettera di Reynaudi del 15 agosto 1914 è allegata lettera di presentazione a Federico Giolitti.

1910 lug. 1 - 1914 ago. 15

Lettera di Reynaudi, Castigliole Saluzzo, 15 agosto 1914, b. 1 fasc. 3 [c. 1r].

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116

Lettera di Reynaudi, Castigliole Saluzzo, 15 agosto 1914, b. 1 fasc. 3 [cc. 1v e 2r].

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Lettera di Reynaudi, Castigliole Saluzzo, 15 agosto 1914, b. 1 fasc. 3 [c. 2v].

B. 1 fasc. 4

Lettere, telegrammi e ritagli stampa, inviati da famigliari e amici per la morte del padre, Carlo Tur.

Mittenti: Eligio Giacopini, Wladimiro Pini, G. Pesci, Emily Rae, Paolo Tur, e altri mittenti non identificati.

1913 apr. 2 - 16

B. 1 fasc. 5

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Lettere inviate da Alfredo Acton, Ettore Bravetta, Carlo Leone Reynaudi, Leone Viale, e altro mittente non identificato.

1916 apr. 23 - 1918 mar. 12

B. 1 fasc. 6

Lettere, biglietti e telegrammi di congratulazione per la promozione a capitano di corvetta e per l’encomio.

Mittenti: Alfredo Acton, Arturo Bechis, Brighenti, De Felice, Umberto Martelli, Margaret Rae, Donato Epifanio, Ada Dolci, Emily Rae e altri mittenti non identificati.

1917 mag. 28 - giu. 4

B. 1 fasc. 7

Lettere e telegrammi della moglie Emily Rae, dei famigliari Ada Dolci, Hope Rae, Margaret Rae, Paolo Tur, e di amici in occasione della nascita del figlio Carlo Giacomo.

1917 dic. 20 - 28

B. 1 fasc. 8

Ritagli di giornale contenenti i Bollettini del Comando supremo e notizie riguardanti i battaglioni Caorle e San Marco.

1917 - 1919

B. 1 fasc. 9

Lettere ricevute da Vittorio Tur durante il comando del Battaglione Caorle. Contiene anche il testo di una poesia del cappellano trincerista don Adolfo Arrigoni.

Mittenti: Umberto Cagni, Carlo Carnevale, Attilio Casagrande, Santi Ceccherini, Edgardo Cerutti, Feroldi, Leonardo Finocchi, Carlo Fettarappa, Gino Lucrezi, Adelchi Lugarini, Irene Martinuzzi, Francesco Ogliari, Piero Ogliari, Flavio Pessa, Giuseppe Viora, e altri mittenti non identificati.

1918 mar. 18 - ott. 26

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Lettera firmata dal tenente Feroldi, [s.l., 1918], b. 1 fasc. 9 [c. 1r].

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Lettera firmata dal tenente Feroldi, [1918], b. 1 fasc. 9 [cc. 1v e 2r, 2v].

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121

B. 1 fasc. 10

Comunicazioni e ordini di operazione del Comando tattico del Reggimento Marina e del Comando terza brigata bersaglieri.

1918 giu. 10 - ott. 24

B. 1 fasc. 11

Lettere di ringraziamento o di richiesta ricevute da Vittorio Tur per la pergamena ricordo del Battaglione Caorle, per biglietti di auguri e di fotografie. Contiene anche disposizioni del brigadiere generale dei Cacciatori delle Alpi, Montezemolo, incaricato del comando della rappresentanza italiana per i festeggiamenti della vittoria a Parigi.

Allegati: due fotografie e un opuscolo di Santi Ceccherini, tutti con dedica.

Mittenti: Alfredo [Bombin], Giacomo Briguglio, Biagio Calò, famiglia Campisi, Giovanni Capuano, Santi Ceccherini, Alfredo Dentice, Domenico Durante, Arturo Faccioli, Fiorito, Mario Gaglione, sorelle Ghioni, Carmelo Gimbo, Rolando Guidotti, Gino Lucrezi, Serafino Madula, Maria Grazia Mastromano ved. Vincenzo Fiorentino, Alberto Mazzi, Pasquale Mele, Fernando Mignani, Luigi Mini, Piero Ogliari, Paolo Olivotto, Cesare Padovani, Mario Ravazzolo, Carlo Leone Reynaudi, Francesco Rollandi, Giuseppe Sirianni, Pia di Valmarana, [Van der Kofstadt], altri mittenti non identificati.

1918 nov. 12 - 1919 dic. 31

B. 1 fasc. 12

Telegrammi di auguri ricevuti da Vittorio Tur durante la destinazione a Veglia (Krk) e a Livorno, per l’imbarco sul ct. Palestro.

1918 - 1919

B. 1 fasc. 13

Dichiarazioni dei sindaci di Baska (Bescanuova), Pinezici (Santa Fosca) e Dobrinj (Dobrigno) nell’isola di Krk (Veglia) in relazione alle vicende di Fiume. Richiesta di lasciapassare e biglietti del vescovo di Veglia, Antonio Mahnic.

1919 mar. 13 - 26

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Biglietto con gli auguri di Pasqua, 19 apr. 1919, b. 1 fasc. 11 [c. 1r].

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Biglietto con gli auguri di Pasqua, 19 apr. 1919, b. 1 fasc. 11 [c. 1v].

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B. 1 fasc. 14

Lettere e biglietti di Umberto Cagni, Maria Cagni Nasi, Francesco De Pinedo, Paolo Olivotto, mons. Giovanni Piccioni, Associazione nazionale combattenti - Sezione di Livorno, e altro mittente straniero non identificato.

1920 lug. 20 - 1923 dic. 23

B. 1 fasc. 15

Lettere inviate al cap. corv. Vittorio Tur, comandante del ct. Palestro.

Mittenti: Arturo Cittadini, primo aiutante di campo generale di S.M. il Re; Luigi Biancheri, Ministero della Marina - Gabinetto del ministro; Francesco Fabiani, notaio; P. Lobetti Bodoni, Accademia navale - Comando; Associazione nazionale fra mutilati ed invalidi di guerra - Sezione di Livorno; Croce bianca di Oneglia; E. Porta, sotto ammiraglio del Comando in capo del Dipartimento - Spezia; [Giovanni Sechi], ministro della Marina.

1921 apr. 7 - dic. 21

B. 1 fasc. 16

Lettere e biglietti riguardanti principalmente l’eventuale candidatura di Vittorio Tur alle elezioni politiche del 1924.

Allegati: Diploma di gratitudine della Scuola di nuoto per soccorrere.

Mittenti: Ettore Bravetta, Filippo Camperio, Carlo Capellini, Costanzo Ciano, Ernesto Civelli, Francesco De Pinedo, Armando Masci, mons. Giovanni Piccioni, Teresa Sacco, Giuseppe Sirianni, Paolo Thaon di Revel, Associazione nazionale Fanti del mare, Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra, Società anonima cooperativa fra facchini da carbone, Capitaneria di porto del compartimento marittimo di Pizzo e altri mittenti non identificati.

1923 feb. 3 - 1924 dic. 31

B. 1 fasc. 17

Lettere e biglietti inviati da Ambrose Abbay, Umberto Cagni, Giuseppe Cantù,

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Alberico De Pascale, Piero Pellerano, Giuseppe Sirianni, Paolo Thaon di Revel, Associazione nazionale Fanti del mare.

1925 gen. 2 - ott. 19

B. 1 fasc. 18

Lettere e biglietti inviati da Antonio Giordani, Giuseppe Sirianni.

1927 gen. 2 - 1928 mar. 3

B. 1 fasc. 19

Lettere di ringraziamento per la ricezione di vaglia e minuta di discorso di Vittorio Tur, comandante dell’incr. Trieste.

Mittenti: Giuseppe Cacciolo, Rosario Calabrò, Giovanni Cimmino, Sebastiana Formica, Margherita Lamonica, Colomba Leonardi, Rosetta Musso, Elena Pelliccioli, Ida [Rossini].

1931 gen. 30 - 1932 mar. 24

B. 1 fasc. 20

Lettere, telegrammi e biglietti inviati da Armando Giovanni Bartoletti, François Casadello, Alberto Da Zara, Mohamed Giaduri, Carmelo Gimbo, Giovanni Potì, Giovanni Scarabello, Giuseppe Sirianni, Paolo Thaon di Revel, e altri mittenti non identificati. Contiene anche tre fotografie.

1933 ago. 11 - 1938 dic. 28

B. 1 fasc. 21

Fascicolo relativo al reclamo circa il mancato avanzamento ad ammiraglio di squadra: carteggio intercorso tra Vittorio Tur e varie personalità.

Allegati: elogi, promozioni, benemerenze fasciste firmate, tra l’altro, da Romeo Bernotti, Domenico Cavagnari, Edoardo Somigli, Augusto Mengotti, Enrico Millo, Carlo Tallarigo, una fotografia.

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Mittenti: Guido Bacci, Balbo, Luigi Biancheri, Guido Bosero, Bruto Brivonesi, Filippo Camperio, Giuseppe Cantù, Cavagnari, Costanzo Ciano, Giuseppe Cigala Fulgosi, Oscar di Giamberardino, Alessandro Frigerio, Carlo Giartosio, Agostino Grillo, Angelo Jachino, Giotto Maraghini, Gustavo Nicastro, V. Pietroforte, Riccardo Pontremoli, Arturo Resio, Giuseppe Romagna Manoja, Giuseppe Sirianni, Paolo Thaon di Revel, Regolo Zappi, Circolo del Prione - La Spezia, e altri mittenti non identificati.

1913 dic. 6 - 1940 mar. 1(9)

B. 1 fasc. 22

Tre ordini del giorno dell’amm. di squadra Vittorio Tur, ispettore designato dal sottosegretario di Stato per la Marina, Tobruch, 11 ottobre 1940; comunicazione di Marina Venezia sulla bandiera, conservata presso il Museo storico navale della città, che venne issata sulla cittadella di Corfù nel 1923.

1940 ott. 11 - nov. 9

B. 1 fasc. 23

Comunicazioni ricevute dall’amm. di squadra Vittorio Tur dopo l’8 settembre 1943: comunicazioni del Ministero della difesa nazionale; promemoria, comunicazioni e foglio di viaggio del Ministero delle Forze armate relativi al trasferimento al nord degli ufficiali; comunicazioni della Guardia nazionale repubblicana - Comando provinciale di Imperia e del Comando servizi Marina italiana di Genova.

1943 dic. 2 - 1944 giu. 28

B. 1 fasc. 24

Lettere, telegrammi e biglietti inviati da Umberto Cagni, Alfred Rycerz, Giuseppe Sirianni, Paolo Thaon di Revel e altri mittenti non identificati.

s.d.

B. 1 fasc. 25

(9) Gli estremi cronologici sono comprensivi di quelli degli allegati.

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“Ufficio recuperi di Tolone”. Relazione dell’Ufficio recuperi di Tolone sui lavori di recupero dell’incr. La Galissonière (marzo 1943); studio e relazioni compilate da Maurice Charge, capo dipartimentale del francismo nel Var (dattiloscritto, s.d.); relazioni e promemoria dell’amm. Tur, comandante militare marittimo in Francia, sulla situazione politico-militare francese (febbraio e maggio 1943); due memorie sull’attività della C.i.a.f., una a firma G. Valli, carta intestata Senato del Regno (dattiloscritto, s.d.) e una a firma Lorenzo Stallo (dattiloscritto, Torino 14 aprile 1946). Contiene anche due specchi della situazione della flotta francese al novembre e al dicembre 1942 e una situazione, corredata da pianta, delle navi affondate nell’arsenale di Tolone.

[1942 dic. 10] - 1946 apr. 14

B. 1 fasc. 26

Materiale a stampa: La madonnina blu, dalla “Tradotta” giornale settimanale della III Armata; discorso pronunciato da Eugenio Marini in occasione dello scoprimento della lapide al generale Dalesme (3 maggio 1914); pieghevole delle Imprese idrauliche ed elettriche del Tirso, visita ai lavori Santa Chiara del Tirso (1 maggio 1921); In memoria di S.a.r. Luigi di Savoia duca degli Abruzzi, discorso di Vittorio Tur.

s.d. B. 1 fasc. 27

Minute di lettere e recensioni di Vittorio Tur riguardanti articoli e libri di Ettore Bravetta e Silvio Lomezzo.

s.d.

B. 1 fasc. 28

Trascrizione di lettere di Napoleone Bonaparte, Bayonne maggio 1808, relative alla campagna d’Italia e al Piave.

s.d.

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B. 1 fasc. 29

Studio di un capitano di fregata della Direzione armi e armamenti di La Spezia(10) sui siluri italiani moderni, corredato da disegni e con relativa lettera di trasmissione.

[post 1928]

B. 1 fasc. 30

Lettere, relazioni e grafico di Araldo Fadini e Mario Bonetti sui fatti di Massaua (aprile 1941).

1960 ago. 10 - 1961 gen. 26

B. 2 fasc. 31

Curriculum vitae di Vittorio Tur: manoscritto e varie copie del dattiloscritto.

s.d.

B. 2 fasc. 32

Decreti di nomina, promozione, concessione di idoneità e brevetti: guardiamarina (1901.03.07, decorrenza 1 aprile), sottotenente di vascello (1903.10.22, decorrenza 1 novembre), tenente di vascello (1908.09.17, decorrenza 1 ottobre); idoneità per l’incarico di materiale d’artiglieria (1913.07.01); concessione stipendio (25.09.1913, decorrenza 1 ottobre 1913); comandante di torpediniera (21.11.1915); brevetto di primo direttore del tiro (1921.07.01).

1901 mar. 19 - 1921 dic. 31

B. 2 fasc. 33

Specchio caratteristico del ten. vasc. Vittorio Tur (1916.05.15); certificato medico per febbre malarica (1919.09.05); nomina a membro della commissione

(10) Mittente non identificato: Angelo [del ?]

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per l’esame dei lavori utili alla Marina (1924.03.02), comunicazione di avanzamento (1938.12.21), comunicazione passaggio di consegne del Comando M.M. autonomo dell’alto Adriatico e assunzione della carica di comandante M.M. autonomo in Albania (1940.06.07), comunicazione di posizione fuori quadro (1940.10.07), comunicazione di rientro in ruolo organico del Corpo di S.m. (1940.11.06).

1916 mag. 15 - 1940 nov. 6

B. 2 fasc. 34

Proposte di encomio e di promozione, elogi, valutazioni. Contiene, tra l’altro, ringraziamento per la donazione della bandiera del Montenegro al Museo tecnico navale di Spezia (1925.06.23), lettera di trasmissione della medaglia ricordo delle nozze del principe di Piemonte (1930.01.24), proposta di collaborazione alla Rivista di cultura marinara (1930.10.02), attestazione per aver donato oro alla patria (1935.12.18).

[1905 dic. 22] - 1935 dic. 18

B. 2 fasc. 35

Raccolta di fogli d’ordini, estratti e supplementi di fogli d’ordini, D.V.M. (materiale a stampa).

1913 ott. 29 - 1946 giu. 25

B. 2 fasc. 36(11)

Onorificenze del Regno d’Italia. Ordine della Corona d’Italia, decreti di nomina a: cavaliere (1917.05.31), ufficiale (1921.06.12), commendatore (1930.10.06), grande ufficiale (1935.10.27), cavaliere di gran croce (1964.09.15).(12)

1918 gen. 31 - 1964 set. 15(13)

(11) In cartellina a parte. (12) Firmato a Cascais da Umberto II. (13) La data dell’attestato può essere successiva a quella del conferimento del-

l’onorificenza.

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B. 2 fasc. 37(14)

Onorificenze del Regno d’Italia. Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, decreti di nomina a: cavaliere (1920.10.08), ufficiale (1923.01.04), a commendatore (1936.09.28), di concessione della medaglia mauriziana (1939.01.19).

1921 mag. 31 - 1939 gen. 19(15)

B. 2 fasc. 38(16)

Onorificenze del Regno d’Italia. Ordine coloniale della stella d’Italia decreto di nomina a grande ufficiale (1936.07.16); Ordine militare di Savoia decreti di nomina a cavaliere (1937.10.07) e a ufficiale (1942.12.24).

1936 set. 10 - 1942 dic. 30(17)

B. 2 fasc. 39(18)

Onorificenze della Regia Marina. Medaglia delle campagne d’Africa (1909.06.24), medaglia della guerra italo-turca (1913.04.24), distintivo per le fatiche di guerra (1916.06.21), medaglia di bronzo al valor militare (1918.05.16), croce per anzianità di servizio (1918.08.21), medaglia di bronzo e medaglia d’argento al valor militare (1919.02.16), medaglia della guerra europea, medaglia d’argento al valor militare (20.10.1919), croce al merito di guerra (1920.01.18), medaglia della guerra 1915-1918 (1921.02.04), croce d’oro sormontata da corona reale (1931.10.03), medaglia d’oro per lunga navigazione (1931.11.16), distintivo d’onore dei feriti per causa di servizio (1935.06.29), medaglia operazioni in Africa orientale (1936.11.22), medaglia operazioni militari in A.O. (1938.03.11), distintivo commemorativo per operazioni militari in servizio non isolato all’estero (1938.12.06), medaglia per i volontari di guerra (1939.06.02), nastrino della croce al merito di guerra per operazioni militari in servizio non isolato

(14) In cartellina a parte. (15) Vedi nota 5. (16) In cartellina a parte. (17) Vedi nota 5. (18) In cartellina a parte.

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all’estero (1939.06.02), medaglia di benemerenza per i volontari di guerra (1940.12.14), medaglia commemorativa per la campagna di Spagna (1940.12.14), croce al merito di guerra (1940.12.14), distintivo della guerra in corso e nastrino con due stellette (1941.11.27), croce di guerra al valor militare (1946.04.12), medaglia d’argento al valor militare (1946.04.12).

1909 giu. 24 - 1947 set. 9(19)

B. 2 fasc. 40

Onorificenze e brevetti della Marina militare. Riconoscimento delle campagne di guerra 1940-1943 (1952.03.18), Croce al merito di guerra (1952.11.26), concessione del distintivo del periodo bellico con quattro stellette (1953.12.19).

1952 mar. 18 - 1953 dic. 19(20)

B. 2 fasc. 41(21)

Onorificenze dell’Esercito. Croce al merito di guerra (1918.12.17).

1918 dic .17 - 1919 ago. 28(22)

B. 2 fasc. 42(23)

Diploma n. 12308, Roma il 21 ottobre 1928, concesso dall’Istituto del Nastro azzurro fra combattenti decorati al valor militare.

1928 ott. 21

B. 2 fasc. 43(24)

Onorificenze straniere. Insegna di ufficiale de l’Ordine de l’epée del Governo svedese (1921.01.07); Ordine di terza classe (Commandeur) del principe Danilo I istituito per l’indipendenza del Montenegro (1921.07.04); foglio di

(19) Vedi nota 5. (20) Vedi nota 5. (21) In cartellina a parte. (22) Vedi nota 5. (23) In cartellina a parte. (24) In cartellina a parte.

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trasmissione delle insegne (mancanti) e dello statuto della Croce al merito ungherese di seconda classe (1931.07.01); conferimento della Croce di Commandeur con stella dell’ordine al merito ungherese (1936.11.24).

1921 mar. 5 - 1937 ago. 18(25)

B. 2 fasc. 44

Ritagli stampa relativi alla concessione di onorificenze. 1937

B. 2 fasc. 45

Discorsi e scritti. L’Accademia navale dalla sua fondazione a oggi; Ricordi di un vecchio marinaio: come assunsi il comando della R. nave Dante Alighieri bloccata nel porto di Fiume da Gabriele d’Annunzio, discorso in occasione di un premio letterario organizzato dalla Lega navale sezione di Roma e dal “Giornale d’Italia”.

s.d.

B. 2 fasc. 46

Minute e appunti di Vittorio Tur. s.d.

B. 2 fasc. 47

“Il Natale fiumano: giornale di bordo del comandante della R. nave Dante Alighieri (21 dicembre 1920 - 6 gennaio 1921)”, dattiloscritto dell’amm. Antonio Foschini.(26)

s.d.

(25) Vedi nota 5. (26) Il giornale di bordo è citato da Tur in Plancia ammiraglio, vol. 2, p. 515: «Mi

auguro venga da lui pubblicato, ampliandolo, quanto ha scritto nel suo giornale di bordo dal momento in cui assunse il comando della nave a quello nel quale lasciava Fiume». Il Foschini, nel 1963, dedicherà a Tur una copia delle Conclusioni documentate a mia difesa, rivolte alla Alta corte di giustizia, edite a Roma da Arte della stampa nel 1945, (vedi la busta Foschini in U.s.m.m., fondo Pratiche personali).

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133

B. 3 fasc. 48

Giornale di bordo di Vittorio Tur imbarcato sulla nave Flavio Gioia, quaderno mss., non cartulato, sulle ultime carte schizzi a penna e a matita.

[1898] B. 3 fasc. 49

Giornale di bordo di Vittorio Tur imbarcato sulla nave Vespucci, quaderno mss. non cartulato.

[1900]

B. 3 fasc. 50

Giornale di bordo di Vittorio Tur imbarcato sulla nave Vespucci, quaderno ms. cartulato, suddiviso in andata e ritorno.

[1900]

B. 3 fasc. 51

“Regia nave A. St. Bon, marzo - dicembre 1901, 1° giornale da G. marina di Vittorio Tur”. Quaderno ms. non cartulato corredato da fotografie, ritagli stampa, disegni e tavole.

1901 mar. - dic.

B. 3 fasc. 52

“V. Tur, Giro del mondo R. nave Calabria”. Parte prima, febbraio - agosto 1902; parte seconda, agosto - dicembre 1902. Giornale di bordo, composto da due volumi mss., corredato da illustrazioni, fotografie, disegni, grafici, cartine geografiche, cartoline e ritagli stampa.

1902 feb. - dic.

B. 4 fasc. 53

“V. Tur. A bordo della R. nave Carlo Alberto, aprile 1904 - marzo 1905”. Giornale di bordo corredato da fotografie, cartoline e disegni, volume ms., paginato 1-250.

1904 apr. - 1905 mar.

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B. 4 fasc. 54

“Regia nave A. Vespucci, agosto - novembre 1906, Campagna di istruzione per gli allievi della R. Acc. Navale, Giornale di bordo del Sot.te di Vascello V. Tur”, volume ms. non cartulato corredato da cartoline, fotografie, disegni.

1906 ago. - nov.

B. 4 fasc. 55

“V. Tur. Al Polo nord. Il Giappone. Navi e marinaio. 1900, 1904, 1906”: volume ms. non cartulato contenente alcune conferenze di Vittorio Tur: “Al Polo nord, a bordo della N. Vespucci”, settembre 1900; “Il Giappone: ricordi del viaggio della N. Calabria”, Circolo filologico di Livorno e Salone del Teatro nuovo di Pisa, marzo 1904; “Nave e marinaio”, Teatro Rossini di Livorno, 22 marzo 1906. Corredato da ritagli stampa, lettere, inviti e/o programmi a stampa delle conferenze, contiene una carta geografica dell’America del sud e minuta della conferenza sul Giappone.

1900 - 1906

B. 4 fasc. 56

Forza navale in Mediterraneo: grafici, firmati Vittorio Tur, delle evoluzioni simulate della nave Vettor Pisani, Gaeta 19 maggio 1905 e dell’esercizio di segnali di evoluzioni dal 12 maggio 1905.

1905 mag. 12 - 19

B. 4 fasc. 57

Albo d’oro dei marinai d’Italia morti nelle guerre d’indipendenza e coloniali: 1860-1918, Venezia: Stamperia del R. istituto d’arte, 1929(27) (esemplare non rilegato).

1929 apr.

(27) Con fregi xilografici e in oro, ideazione di Gian Luciano Sormani.

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135

INDICE DEI NOMI

Abbay, Ambrose

B. 1 fasc. 17

Acton, Alfredo

B. 1 fascc. 5, 6

Arrigoni, Adolfo

B. 1 fasc. 9

Bacci, Guido

B. 1 fasc. 21

Bartoletti, Armando Giovanni

B. 1 fasc. 20

Bechis, Arturo

B. 1 fasc. 6

Biancheri, Luigi

B. 1 fascc. 15, 21

[Bombin], Alfredo

B. 1 fasc. 11

Bonetti, Mario

B. 1 fasc. 30

Bosero, Guido

B. 1 fasc. 21

Bravetta, Ettore

B. 1 fascc. 5, 16, 27

Brighenti

B. 1 fasc. 6

Briguglio, Giacomo

B. 1 fasc. 11

Brivonesi, Bruto

B. 1 fasc. 21

Cacciolo, Giuseppe

B. 1 fasc. 19

Cagni Nasi, Maria

B. 1 fasc. 14

Cagni, Umberto

B. 1 fascc. 9, 14, 17, 24

Calabrò, Rosario

B. 1 fasc. 19

Calò, Biagio B. 1 fasc. 11

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136

Camperio, Filippo B. 1 fascc. 16, 21

Campisi (famiglia) B. 1 fasc. 11

Cantù, Giuseppe B. 1 fascc. 17, 21

Capellini, Carlo B. 1 fasc. 16

Capuano, Giovanni B. 1 fasc. 11

Carnevale, Carlo B. 1 fasc. 9

Casadello, François B. 1 fasc. 20

Casagrande, Attilio B. 1 fasc. 9

Cavagnari, Domenico B. 1 fasc. 21

Ceccherini, Santi B. 1 fascc. 9, 11

Cerutti, Edgardo B. 1 fasc. 9

Charge, Maurice B. 1 fasc. 25

Ciano, Costanzo B. 1 fascc. 16, 21

Cigala Fulgosi, Giuseppe B. 1 fasc. 21

Cimmino, Giovanni B. 1 fasc. 19

Cittadini, Arturo B. 1 fasc. 15

Civelli, Ernesto B. 1 fasc. 16

Da Zara, Alberto B. 1 fasc. 20

De Felice B. 1 fasc. 6

De Pascale, Alberico B. 1 fasc. 17

De Pinedo, Francesco B. 1 fascc. 14, 16

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137

Dentice di Frasso, Alfredo

B. 1 fasc. 11

Di Giamberardino, Oscar

B. 1 fasc. 21

Dolci, Ada

B. 1 fascc. 3, 6, 7

Durante, Domenico

B. 1 fasc. 11

Epifanio, Donato

B. 1 fasc. 6

Fabiani, Francesco

B. 1 fasc. 15

Faccioli, Arturo

B. 1 fasc. 11

Fadini, Araldo

B. 1 fasc. 30

Feroldi

B. 1 fasc. 9

Fettarappa, Carlo

B. 1 fasc. 9

Finocchi, Leonardo

B. 1 fasc. 9

Fiorito B. 1 fasc. 11

Formica, Sebastiana

B. 1 fasc. 19

Foschini, Antonio

B. 2 fasc. 47

Frigerio, Alessandro

B. 1 fasc. 21

Gaglione, Mario

B. 1 fasc. 11

Ghioni (sorelle)

B. 1 fasc. 11

Giacopini, Eligio

B. 1 fasc. 4

Giaduri, Mohamed

B. 1 fasc. 20

Giartosio, Carlo

B. 1 fasc. 21

Gimbo, Carmelo B. 1 fascc. 11, 20

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138

Giolitti, Federico B. 1 fasc. 3

Giordani, Antonio B. 1 fasc. 18

Grillo, Agostino B. 1 fasc. 21

Guidotti, Rolando B. 1 fasc. 11

Iachino, Angelo B. 1 fasc. 21

[Kofstadt, Riccardo van der] B. 1 fasc. 11

Lamonica, Margherita B. 1 fasc. 19

Leonardi, Colomba B. 1 fasc. 19

Lobetti Bodoni, Pio B. 1 fasc. 15

Lomezzo, Silvio B. 1 fasc. 27

Lucrezi, Gino B. 1 fascc. 9, 11

Lugarini, Adelchi B. 1 fasc. 9

Madula, Serafino B. 1 fasc. 11

Mahnic, Antonio B. 1 fasc. 13

Maraghini, Giotto B. 1 fasc. 21

Marini, Eugenio B. 1 fasc. 26

Martelli, Umberto B. 1 fasc. 6

Martinuzzi, Irene B. 1 fasc. 9

Masci, Armando B. 1 fasc. 16

Mastromano, Maria Grazia ved. Fiorentino B. 1 fasc. 11

Mazzi, Alberto B. 1 fasc. 11

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139

Mele, Pasquale

B. 1 fasc. 11

Mignani, Fernando

B. 1 fasc. 11

Mini, Luigi

B. 1 fasc. 11

Musso, Rosetta

B. 1 fasc. 19

Nicastro, Gustavo

B. 1 fasc. 21

Ogliari, Francesco

B. 1 fasc. 9

Ogliari, Piero

B. 1 fascc. 9, 11

Olivotto, Paolo

B. 1 fascc. 11, 14

Padovani, Cesare

B. 1 fasc. 11

Pellerano, Piero

B. 1 fasc. 17

Pelliccioli, Elena

B. 1 fasc. 19

[Pesci, G.]

B. 1 fasc. 4

Pessa, Flavio

B. 1 fasc. 9

Di Valmarana, Pia

B. 1 fasc. 11

Piccioni, Giovanni

B. 1 fascc. 14, 16

Pietroforte, V.

B. 1 fasc. 21

Pini, Wladimiro

B. 1 fasc. 4

Pontremoli, Riccardo

B. 1 fasc. 21

Porta, Ettore

B. 1 fasc. 15

Potì, Giovanni

B. 1 fasc. 20

Rae, Emily B. 1 fascc. 4, 6, 7

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140

Rae, Hope B. 1 fasc. 7

Rae, Margaret B. 1 fascc. 6, 7

Ravazzolo, Mario B. 1 fasc. 11

Resio, Arturo B. 1 fasc. 21

Reynaudi, Carlo Leone B. 1 fascc. 2, 3, 5, 11

Rollandi, Francesco B. 1 fasc. 11

Romagna Manoja, Giuseppe B. 1 fasc. 21

[Rossini], Ida B. 1 fasc. 19

Rycerz, Alfred B. 1 fasc. 24

Sacco, Teresa B. 1 fasc. 16

Scarabello, Giovanni B. 1 fasc. 20

Sechi, Giovanni B. 1 fasc. 15

Sirianni, Giuseppe B. 1 fascc. 11, 16, 17, 18, 20, 21, 24

Stallo, Lorenzo B. 1 fasc. 25

Thaon di Revel, Paolo B. 1 fascc. 2, 3, 16, 17, 20, 21, 24

Tur, Carlo B. 1 fasc. 4

Tur, Carlo Giacomo B. 1 fasc. 7

Tur, Paolo b. 1 fascc. 1, 4, 7

Valli, Giulio B. 1 fasc. 25

Viale, Leone B. 1 fasc. 5

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141

Viora, Giuseppe

B. 1 fasc. 9

Zappi, Regolo B. 1 fasc. 21

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142

INDICE DEI TOPONIMI

Beska (Bescanuova) B. 1 fasc. 13

Corfù B. 1 fasc. 22

Dobrinj (Dobrigno) B. 1 fasc. 13

Gaeta B. 2 fasc. 56

Krk (Veglia) B. 1 fascc. 12, 13

Livorno B. 1 fasc. 12

Massaua B. 1 fasc. 30

Parigi B. 1 fasc. 11

Pinezići (Santa Fosca) B. 1 fasc. 13

Tobruch B. 1 fasc. 22

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143

INDICE DELLE NAVI

Amerigo Vespucci nave scuola

B. 2 fascc. 49, 50, 54, 55

Ammiraglio di Saint Bon nave da battaglia B. 2 fasc. 51

Calabria ariete torpediniere B. 2 fascc. 52, 55

Carlo Alberto incrociatore corazzato B. 2 fasc. 53

Dante Alighieri nave da battaglia B. 2 fascc. 45, 47

Flavio Gioia nave scuola

B. 2 fasc. 48

La Galissonière incrociatore B. 1 fasc. 25

Palestro cacciatorpediniere B. 1 fascc. 12, 15

Trieste incrociatore B. 1 fasc. 19

Vettor Pisani incrociatore corazzato B. 2 fasc. 56

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144

INDICE DEGLI ENTI E DEI COMANDI

Arsenale di Tolone B. 1 fasc. 25

Associazione nazionale Fanti del mare B. 1 fascc. 16, 17

Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra B. 1 fascc. 15, 16

Battaglione Caorle B. 1 fascc. 8, 9, 11

Battaglione San Marco B. 1 fasc. 8

Cantiere Fratelli Orlando di Livorno B. 1 fasc. 3

Capitaneria di porto del compartimento marittimo di Pizzo B. 1 fasc. 16

Circolo del Prione - La Spezia B. 1 fasc. 21

Comando Supremo B. 1 fasc. 8

Comando tattico del Reggimento Marina B. 1 fasc. 10

Comando terza brigata bersaglieri B. 1 fasc. 10

Commissione italiana di armistizio con la Francia B. 1 fasc. 25

Croce bianca di Oneglia B. 1 fasc. 15

Direzione armi e armamenti di La Spezia B. 1 fasc. 29

Imprese idrauliche ed elettriche del Tirso B. 1 fasc. 26

Società anonima cooperativa fra facchini da carbone B. 1 fasc. 16

Ufficio recuperi di Tolone B. 1 fasc. 25

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 Tipografia non classificata MM - Palazzo Marina - Roma

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