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PROF. GIANNI MARONGIU PERSONALITÀ E PROGRESSIVITÀ 1 Sommario. 1. Il mito dell’eguaglianza e la sua lenta emersione nelle Costituzioni ottocentesche. 2 I principi del consenso e dell’uguaglianza e la lenta affermazione del principio di progressività. 3. Il contributo italiano alle regole e alle prassi dalla ripartizione progressiva 4. L’applicazione del principio, nell’Italia liberale 5. La costituzione della Repubblica e l’affermazione dei diritti e dei doveri per “il pieno sviluppo della persona umana” 6. Solidarietà vs uguaglianza 7. Il ruolo della progressività fiscale 8. La formulazione del primo comma dell’art. 53 e l’esenzione del minimo vitale 9. L’appropriata formulazione del secondo comma dell’art. 53 Cost. 10. Le indicazioni della normativa europea e il diritto di ciascuno a disporre delle proprie risorse 11. Il riferimento costituzionale all’esistenza libera e dignitosa e una breve parentesi sul diritto alla tutela della dignità 12. Un richiamo ai classici della letteratura finanziaria e la ricaduta in ambito fiscale. 1 Testo della relazione svolta all’Università di Napoli il 14 ottobre 2015 DOCUMENT.DOCX 21/02/22

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PROF. GIANNI MARONGIU

PERSONALITÀ E PROGRESSIVITÀ1

Sommario. 1. Il mito dell’eguaglianza e la sua lenta emersione nelle Costituzioni ottocentesche. 2 I principi del consenso e dell’uguaglianza e la lenta affermazione del principio di progressività. 3. Il contributo italiano alle regole e alle prassi dalla ripartizione progressiva 4. L’applicazione del principio, nell’Italia liberale 5. La costituzione della Repubblica e l’affermazione dei diritti e dei doveri per “il pieno sviluppo della persona umana” 6. Solidarietà vs uguaglianza 7. Il ruolo della progressività fiscale 8. La formulazione del primo comma dell’art. 53 e l’esenzione del minimo vitale 9. L’appropriata formulazione del secondo comma dell’art. 53 Cost. 10. Le indicazioni della normativa europea e il diritto di ciascuno a disporre delle proprie risorse 11. Il riferimento costituzionale all’esistenza libera e dignitosa e una breve parentesi sul diritto alla tutela della dignità 12. Un richiamo ai classici della letteratura finanziaria e la ricaduta in ambito fiscale.

1. In uno scritto del 1976 Sergio Cotta, un allievo di Norberto Bobbio e poi suo collega, a proposito dell’uguaglianza scriveva: “Gli uomini sono uguali solo in tre punti: di sentirsi diversi dalle cose e dagli animali, di essere tutti destinati a morire, di fronte alla divinità.E Arturo Carlo Jemolo, commentando questa asserzione, soggiungeva, in un articolo del 1977, “A ragione Cotta la vedeva soddisfatta solo nel lato a cui meno le masse pensano, 1 Testo della relazione svolta all’Università di Napoli il 14 ottobre 2015

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2l’eguaglianza dinanzi a Dio. Solo concependo un Dio che giudica con elementi che nessun giudice umano possiede, la conoscenza di ciò che ciascuno di noi ha compiuto ed omesso, delle possibilità che aveva di fare o non fare, può valere nella sua assolutezza la formula: la legge è uguale per tutti.”Ma lo stesso Jemolo, volgendo lo sguardo a terra (come Aristotele in un famoso quadro), soggiungeva: “La verità è che si può invocare l’uguaglianza per tutti ma poi, a parte pochi spiriti eletti, nessuno vorrebbe scendere gradini per collocarsi in posizione di parità: rinunciare non solo a quel po’ di agio che possa avere, ma di notorietà, di prestigio, di popolarità anche in una piccola cerchia”.Ma ancora Jemolo, metteva in guardia contro possibili scivolate qualunquistiche e scriveva: “Vorrei, però, che quei pochi esempi del diritto positivo (quanti altri si potrebbero riscontrare) fossero meditati, sia pure soltanto al modesto fine di non irridere troppo alle Costituzioni ottocentesche, allo Statuto albertino, alla formula “la legge è uguale per tutti”. Già realizzare questa eguaglianza era qualche cosa, e non era vano combattere perché fosse realizzata; riconosciamo che molti passi avanti si sono fatti in un secolo sul terreno della giustizia sociale, ma pochi assai, ed anzi con qualche slittamento, su quello della eguaglianza”.Indicazioni utili e proficue anche ai fini della mia relazione perché le Costituzioni ottocentesche, figlie delle rivoluzioni nordamericana e francese, a forte impatto fiscale, contengono non pochi e significativi precetti sulle regole e sui limiti della imposizione fiscale.

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2. Facendo tesoro dell’esperienza inglese e della sua gloriosa rivoluzione (1688), sul finire del “700” si diffuse il principio che non vi poteva essere imposizione senza consenso (“no taxation without representation”).Muovendo dalle dure reazioni all’ingiusta distribuzione dei carichi fiscali nella Francia del ‘700, le Costituzioni di questo paese imposero (e diffusero nell’Europa) l’ulteriore regola che nessuno poteva sottrarsi “all’onore” (così statuiva la Costituzione del 1793) di adempiere il proprio dovere fiscale verso la Nazione”.E l’onore, si statuì, doveva essere ripartito in proporzione degli averi di ciascuno.Anche le c.d. Costituzioni giacobine furono, invece, molto caute, direi sospettose, verso una distribuzione degli oneri che fosse progressiva.Proprio la Francia, che pure era la patria dei principi di libertà e di proprietà (la seconda anche a garanzia della prima), di uguaglianza e di fraternità, non fu affatto proclive verso la progressività; anzi, nel ricordo delle pesanti diseguaglianze e dell’iniquo sistema tributario del secolo XVIII per tutto l’800, non nascose i propri sospetti verso una vera e propria imposta sul reddito. Essa, infatti, doveva essere su un bene e non sulla persona, per quanto possibile doveva colpire un reddito stimato e presunto e non quello effettivo e il suo accertamento era ancorato a sintomi esterni di agiatezza e non doveva

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4prevedere nessuna dichiarazione: nel 1873 il governo Thiers cadde per avere tentato di introdurre la dichiarazione che, in Italia, esisteva, con l’imposta di ricchezza mobile, dal 1864.La Francia, per più di un secolo ebbe un sistema tributario, giudicato antiquato, e solo nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, introdusse una vera imposta sul reddito delle persone fisiche a tassi progressivi.Anche la Gran Bretagna che aveva inventato e introdotto la più moderna e redditizia imposta sul reddito (l’income tax, il tributo che aveva sconfitto Napoleone) la rese progressiva solo nel 1909.In entrambi i Paesi diventarono progressive le tasse sulle successioni: in Francia dal 1901 e in Gran Bretagna dal 1898 . Ma significativamente proprio quando gli Inglesi fecero questa scelta, il cancelliere dello scacchiere dovette assicurare che la progressività, per almeno tre lustri, non sarebbe stata estesa all’income tax.Paradossalmente il primo grande Sato europeo che accolse il principio di progressività (ho sottolineato l’aggettivo grande, perché la progressività compariva, nell’800, in qualche paese più piccolo)fu la Germania, l’impero tedesco con l’importante riforma attuata da von Miquel, tra il 1891 e il 1893: la Germania “guglielmina” non era proprio un esempio di liberal-democrazia, ma il tributo nuovo era funzionale all’incremento delle entrate, necessarie alla fidelizzazione dei suoi sudditi con il “socialismo di Stato” e all’affermazione della potenza tedesca nel mondo.

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3.E in Italia ci si può chiedere. Ebbene al riguardo occorre smentire l’affermazione, ancora recente e scritta, secondo la quale l’imposta progressiva fu considerata contraria ai principi del nuovo Stato liberale.Il refrain trae origine dal fatto che lo Statuto albertino sanciva, all’art. 25, che “i regnicoli contribuiscono in proporzione dei propri averi” ma questa formulazione non fu mai ritenuta ostativa all’adozione di aliquote progressive.Già nel 1867 Matteo Pescatore (nella Logica delle imposte) scriveva che “il dovere di cui all’art. 25 non va inteso nel senso che il contributo debba di diritto proporzionarsi materialmente alle facoltà, agli averi, alle entrate ma piuttosto debba conformarsi come dovere, consentaneo alla esatta giustizia, di adottare, nella ripartizione delle imposte, una proporzione progressivamente crescente col crescere degli averi di ciascun individuo” (pp. 17-18).Analogamente Marco Minghetti, l’autorevole bolognese, presidente del consiglio e ministro delle finanze (tra il 1863 e il 1864 e poi ancora tra il 1873 e il 1876), che ha lasciato un segno profondo nell’elaborazione e nella pratica del pensiero liberale, scriveva, nel 1869, che “codesta proporzione dell’imposta se si guarda nei suoi effetti torna più grave a chi meno ha di quel che sia al più abbiente: onde per giustificare

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6l’apparente uguaglianza uopo è che sia temperata dalla progressione”2.Conseguenti e coerenti furono le coeve scelte normative tant’è che quando, nel 1868, per raggiungere il pareggio di bilancio (conseguito nel 1876) fu introdotta la c.d. tassa sul macinato (la prima imposta di fabbricazione italiana), Sella e Minghetti sostennero l’allora Ministro delle finanze Guglielmo Cambray-Digny non solo nella istituzione dell’imposta comunale di famiglia (un tributo comunale destinato ad avere una lunga e gloriosa storia: scomparirà solo il 31 dicembre 1973) ma nella facoltà, concessa ai Comuni, di applicarla anche con aliquote progressive: una rarità nel panorama europeo e mondiale, volta a tassare il c.d. tenore di vita.Certo le resistenze divennero fortissime e dai toni apocalittici quando di una possibile progressività si parlò con riguardo all’imposta di successione, un tributo che nell’Italia liberale, attenta alla tutela del patrimonio e della famiglia, suscitava una spasmodica attenzione.La propose, la progressività, Lazzaro Gagliardo, il genovese ministro delle finanze nel primo governo Giolitti (1893) con il pieno consenso del suo presidente del Consiglio.Si scatenò un consistentissimo fuoco di sbarramento guidato da un autorevole docente di scienza delle finanze, il prof. Tullio Martello, che, in una monografia allora di grande successo, scrisse che “la progressività dell’imposta non ha il conforto di applicazioni di fatto, è principio assurdo in teoria e impossibile

2 Così M. MINGHETTI, Dell’ordinamento delle imposte dirette in Italia in Nuova Antologia 1869, vol. X, p. 137

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7in pratica, arbitrario e antigiuridico, antidemocratico, socialista, rivoluzionario”3. Non furono risparmiati gli strali ai proponenti tacciati di essere “socialisti (Giolitti “socialista” attesta come, nel furore della polemica politica, i vaniloquenti, i demagoghi non sono patrimonio esclusivo dei nostri giorni), di temere l’impopolarità, di essere ispirati da un vago sentimento di filantropia”4.Quanto all’accusa di essere socialisti (decenni dopo un presidente del Consiglio sostituirà questa locuzione con quella di “comunisti”) a Martello replicherà un giovane e pur autorevole professore (morirà purtroppo prematuramente) Angelo Conigliani che “la progressività dell’imposta non è nello spirito di un sistema socialista ma è consona a quelle tendenze che i partiti democratici abbracciano oggi”5 Del resto che non fosse al centro del programma socialista è confortato dalla constatazione che essa si pose all’interno dell’elaborazione della scuola marginalistica austriaca che, al centro dei propri studi, poneva i rapporti tra l’individuo e il prelievo e ragionava in termini di sacrificio del singolo.Mordace fu la risposta dell’altrettanto autorevole prof. F. S. Nitti che scrisse che se l’imposta progressiva avesse uno solo dei difetti accennati dal Martello (“arbitraria”, “antigiuridica”,

3 Così T. MARTELLO, L’imposta progressiva in teoria e in pratica, opera premiata dal reale istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia, 1895, spec. pp. 80-102.4 Così ancora T. MARTELLO, op.cit., pp, 2-35 così A.CONIGLIANI, Per l’imposta progressiva. Note critiche al libro del prof. Martello, in La Riforma Sociale, 1896, vol. quinto, pp. 143-144.

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8“impraticabile”, “socialista”) si sarebbe potuto fare a meno di enumerarne i vantaggi perché di essa si sarebbe potuto dire quel che si disse della giumenta di Orlando “aveva tutti i pregi e un solo difetto, era morta”6 In realtà non era morta come dimostrerà il mutare della scena politica.Il primo governo Giolitti cadde, fu sostituto dal 2° governo Crispi (1894-1896) e dopo l’umiliante sconfitta di Adua, dai governi di Rudinì e Pelloux (1896-1900) che portarono alla crisi di fine secolo, ai tentativi reazionari, all’assassinio del re Umberto primo.Ma quando, nel 1901, la guida del governo fu affidata al duo Zanardelli – Giolitti l’uno e l’altro vollero introdurre la progressività nel tributo successorio e così accadde con la legge del 1902.Era una scelta importante perché essa rompeva il tabù della progressività nella finanza erariale e perché la opzione italiana seguiva di poco l’analoga scelta fatta nel 1898 dalla opulenta Gran Bretagna e, nel 1901, dalla prospera Francia.Era il segnale (e non sarà l’unico) che l’Italia liberale sotto la guida di Giolitti non voleva perder terreno nel confronto con i più ricchi e progrediti Stati europei nel rendere gli assetti socio-economici più democratici.

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6 così F.S.NITTI, Principi di scienza delle finanze, Napoli, Pierro, 1903.

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94. Un altro mito da sfatare è quello secondo il quale l’Italia sarebbe giunta tardi a rendere progressiva l’imposta sul reddito delle persone fisiche.Al riguardo il confronto avviene con la celeberrima “income tax” inglese.Al riguardo sarebbe sciocco ignorare la modernità del sistema tributario inglese nell’800 specie se raffrontato con quello francese (fondato su tributi sintomatici) e con quello prussiano-tedesco modernizzato solo dal ministro von Miquel tra il 1891 e il1893).Occorre però considerare che l’imposta di ricchezza mobile italiana, istituita nel 1864: 1) praticava la discriminazione qualitativa dei redditi, sconosciuta in Europa, tassando con diverse aliquote proporzionali decrescenti i redditi di capitale, di impresa, di lavoro autonomo e di lavoro subordinato; 2) aveva introdotto l’esenzione del minimo vitale dal 1865, accresciuto nel tempo. E quanto all’income tax inglese essa divenne progressiva solo nel 1909, mentre la Francia adottò un sistema di aliquote progressive alla vigilia della “grande guerra”, nel 1914.L’Italia la adottò durante la guerra del 1918 e la istituzionalizzò nel 1923 con la riforma De Stefani.Occorre, però, ricordare che, nel frattempo, aveva avuto impulso, nell’età giolittiana, l’imposta di famiglia che, con aliquote progressive, colpiva a pro dei Comuni, soprattutto il tenore di vita e quindi la nuova ricchezza mobiliare che sfuggiva più di quella immobiliare ai tributi reali e proporzionali.

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10Al riguardo occorre considerare che se, per due volte, fallì il tentativo di introdurre un tributo personale e progressivo nel 1906 e nel 1909 (il cui gettito era stato preventivato in 30-35 milioni), ebbene l’imposta di famiglia prese piede soprattutto nelle grandi città (Milano, Torino, Genova ) e il suo gettito che, nel 1899 sfiorava i 20 milioni, salì, nel 1914, a più di 50 milioni.Come disse Giacomo Matteotti, nel 1920, la progressività, in Italia, era salita dal basso ad opera di forze politiche progressiste che videro l’alleanza di liberali, radicali e socialisti: esempio classico è la giunta Nathan che governò Roma dal 1907 al 1914 e applicò anche l’imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, istituita con la legge del 1904.

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5. Veniamo alla nostra Costituzione.Significativamente la nostra Costituzione all’art. 3 primo comma, ribadisce la uguaglianza di tutti davanti alla legge senza le distinzioni ivi indicate. E’ facilmente comprensibile che la nostra Costituzione, riandando alle più lontane diseguaglianze economiche e sociali e alle più vicine e tragiche discriminazioni razziali, abbia riaffermato il principio dell’uguaglianza davanti alla legge.Ma la stessa Costituzione (rispetto alle Costituzioni ottocentesche e quindi anche al nostra Statuto albertino) è andata oltre.

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11Infatti, il 2° comma, innovativo, sancisce che la Repubblica deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.In sintesi, nonostante che si sia diversi, è ribadita l’uguaglianza davanti alla legge, ma il compito della Repubblica non è di renderci tutti uguali ma di consentire il pieno sviluppo della persona umana”.E il progetto è ribadito nell’art. 36 per il quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionale alla qualità e quantità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.Quindi, non uguaglianza/disuguaglianza ma solidarietà contro disuguaglianze.Su questo rinnovato sfondo va collocato il richiamo alla progressività di cui parlerò.La Costituzione repubblicana richiama espressioni e valori totalmente nuovi là dove intende valorizzare il pieno sviluppo della persona umana”, vuole garantire “un’esistenza libera e dignitosa”, richiede la fedeltà alla Nazione. E proprio la fedeltà che, nel codice civile, era limitata alla famiglia ( ) e al luogo di lavoro (….) fa ben comprendere il nuovo concetto di Stato (non più sovrano, ma) comunità.Progetto che è bene sintetizzato nell’art. 2 della Costituzione che pone il dovere di solidarietà politica economica e sociale “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo come base della convivenza sociale

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12normativamente prefigurata dal Costituente”7. Di qui l’osservazione che la solidarietà “costituisce il vero Leitmotiv della nuova costituzione”8.E proprio il richiamo alla solidarietà consenti di meglio comprendere il progetto costituzionale che non è volto a una generica e irrealizzabile uguaglianza ma alla lotta alle diseguaglianze.La solidarietà presuppone, infatti, la collaborazione politica, economica e sociale tra diseguali. Se si è tutti uguali non vi può essere solidarietà perché nessuno sente il dovere di aiutare chi gli è pari e, perché realizzata una volta l’uguaglianza, non vi può essere più solidarietà. La Costituzione concepisce, invece, un mondo in continuo movimento.Il racconto che vi farò è una simulazione.Immaginiamo una società divisa in due classi, uguali per popolazione. Chi fa parte della metà povera guadagna 15mila euro l’anno, chi fa parte del 50% ricco ne guadagna 150mila. L’economia va bene e quindi, dopo qualche anno, i redditi migliorano per tutti. Quello della metà povera triplica a 45mila euro, quello dei ricchi quadruplica, a 600mila euro. Si tratta di decidere se lo sviluppo è positivo, perché i poveri sono meno poveri; oppure se è negativo, perché la diseguaglianza è cresciuta da un rapporto di dieci a uno a un rapporto di oltre 13 a uno. L’esempio continua a rovescio. Immaginate che la stessa società entri, invece, in una fase di depressione 7 Corte Cost. 92/75; 89/409)8 Così P. BARILE in Pace (a cura di), Studi in onore di Leopoldo Elia, 99, II, 137

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13economica e di caduta dei mercati finanziari. I poveri vedono crollare il loro reddito del 50%, a 7.500 euro, i ricchi del 90%, a 15mila euro. La diseguaglianza è stata ridotta da un rapporto di 10 a uno a un rapporto di due a uno. E’ positivo o è negativo? Le persone di buon senso rispondono che è negativo.La simulazione è illuminante. Spiega che seguire la sirena della contrapposizione uguaglianza/diseguaglianza porta su strade che vanno verso il nulla; con alte probabilità di fallimento, come suggeriscono le esperienze delle società che hanno detto di volerlo fare. Allo stesso tempo, però, fa disperare perché è inutile. Per quanto sia razionale, non convince e non scalda nemmeno i cuori dei poveri, che dovrebbero essere quelli che più l’apprezzano.La povertà, infatti, è una condizione dolorosa che fa danni mentre di per sé la disuguaglianza è innocua. La posizione di chi sta in una posizione subalterna può essere buona abbastanza per garantire una vita soddisfacente.L’obiettivo ragionevole, quindi, non è l’uguaglianza ma l’autosufficienza.

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7. Tra gli strumenti per realizzare il programma costituzionale vi è, certamente,

il dovere di concorrere alle spese pubbliche e non a caso il collegamento del

principio di capacità contributiva col dovere di solidarietà di cui all’art. 2 è

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14posizione dottrinale assai diffusa9. L’affermazione scaturisce dalla essenza

dell’imposta che è, per sua natura e funzione, estrinsecazione del dovere che

lega gli appartenenti alla polis e che li sottomette all’obbligo di contribuzione

ai gravami generali non in proporzione a ciò che “ricevono” ma in base a ciò

che “possiedono”, indipendentemente dalla cittadinanza e dalla fruizione dei

diritti politici, solo perché partecipano alla vita della comunità politica.

E altrettanto significativamente il secondo comma dell’art. 53 statuisce che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.Proprio il riferimento alla progressività dà forza e vigore all’art. 2 Cost. perché “essa deve essere intesa come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di uguaglianza collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà e alla uguaglianza dei cittadini-persone umane” (così Corte cost. n. 34 del 2000 e n. 155 del 2001).Ma proprio il riferimento alla stessa progressività pone un ulteriore quesito e cioè fino a quale punto la solidarietà può spingersi.Nella sentenza n. 130 del 1988 si rinviene l’apodittico e laconico assunto che “l’art. 2 Cost. non tutela affatto un preteso diritto del cittadino all’equità fiscale”: stupisce il riferimento al cittadino in una norma che intende tutelare l’uomo.Nella sentenza n. 283 del 1987 si afferma che la pretesa ad una giusta imposizione non è logicamente configurabile come 9 F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, Cedam, 1973, 59-96, dedica un intero capitolo alla trattazione della correlazione tra art. 2 e art. 53 Cost.

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15un diritto naturale. L’affermazione sembra fare supporre che esisterebbero diritti naturali e diritti non naturali e ai primi non sarebbe ascrivibile il diritto alla giusta imposta.Ora, a prescindere dalla introduzione di una distinzione che, nell’art. 2 Cost., non vi è (perché anche un fisco oppressivo può impedire il pieno sviluppo della persona umana), mi sembra che dalle poche sentenze della Corte costituzionale, non vengano molti lumi e soprattutto che da esse promani un sentire, fortunatamente generico, incline a consegnare il contribuente alla totale discrezionalità del legislatore ordinario.Ma così non può essere perché, proprio in conseguenza della formulazione dell’art. 3 Cost., non vi può essere nessuna antinomia tra diritto della persona al giusto riparto e dovere della persona a concorrere al riparto10

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8.Il quesito rimane, per altro, sul tappeto, nel senso che è lecito chiedersi fino a dove può spingersi la solidarietà e quindi la progressività e cioè se essa può avere un andamento

10 Ezio Vanoni, richiamando e condividendo la nozione di tributo elaborata dal De Luca (“chi ha il diritto di imporre ha il dovere di farlo secondo il diritto e secondo giustizia e chi ha il dovere di essere gravato ha insieme il diritto di essere trattato secondo giustizia”), scrive che questa incisiva affermazione “da un’idea esatta della correlazione tra i concetti di diritto e di dovere che si realizza nel precetto tributario” così E. Vanoni, Natura e interpretazione delle leggi tributarie, Padova, Cedam, 1932, p.______)

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16sostanzialmente espropriativo, al punto da consentire la confisca dei diritti proprietari con le imposte.11

Una prima risposta negativa è stata data autorevolmente e mi sembra che da essa possa muoversi avendo riguardo al comune riconoscimento che, nell’applicazione di una imposta sul reddito, si deve rispettare il c.d. “minimo vitale”.Lo impone la stessa letterale formulazione dell’art. 53 Cost.Nonostante il riferimento agli “averi” contenuto nello Statuto albertino (art. 30) già nella sua vigenza il legislatore previde esenzioni ed esclusioni del minimo vitale dall’imposta di ricchezza mobile.A maggior ragione questa conclusione vale vigente l’art. 53 Cost. nel quale ci si riferisce alla situazione complessiva economica del soggetto.Ne deriva, in primis, la necessità di esentare in ogni caso quelle manifestazioni economiche minime che non possono essere indicative di capacità contributiva. Dai lavori preparatori alla Costituzione risulta, addirittura, che proprio la necessità di esentare il minimo, fu la ragione principale per l’introduzione del principio di capacità contributiva nella carta costituzionale.E la Corte costituzionale afferma che la doverosa esenzione dei redditi minimi è attuazione non solo del principio di capacità contributiva, ma anche “del fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, al quale lo Stato deve ispirarsi anche nell’uso dello strumento fiscale. La rimozione degli ostacoli che

11 Si ricorda che, nell’ordinamento tedesco, la protezione del contribuente contro la imposizione eccessiva incomincia molto prima di un esproprio: si veda oltre nel testo.

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17di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini non solo esige che le spese pubbliche abbiamo a gravare in misura progressivamente maggiore sui soggetti economicamente privilegiati, ma presuppone altresì che a nessuno l’imposizione tributaria tolga quei mezzi che appaiono indispensabili alle fondamentali esigenze dell’uomo” (così Corte Cost., 10 luglio 1968, n. 97).Già muovendo da questa premessa se ne deduce un limite oggettivo alla scala della progressività che riguarda tutti.E invero “se si ammette come esistente un limite minimo, automaticamente si afferma come esistente un limite massimo, un tetto alla misura del prelievo sul reddito, varcato il quale il prelievo assume conformazione contraria alla Costituzione perché va ad intaccare la porzione di ricchezza costituente il minimo vitale. Se, per esempio, postuliamo che sia di ventimila euro il reddito complessivo non tassabile perché ricadente entro l’area di un ipotetico limite minimo, è assurdo reputare legittima qualunque tassazione, poniamo di un reddito di un milione di euro, che raggiunga livelli così elevati da non lasciare a disposizione del contribuente almeno ventimila euro. Ritenere tutelato un limite minimo e non tutelato un limite massimo non si può per la contraddizione che non lo consente”12

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12 Così G. FALSITTA, I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania,_______________ p. 148.

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189. Se questo è un primo punto fermo (il diritto al minimo esente è di tutti) altre sono le considerazioni che si possono svolgere.Coerentemente, la nostra Costituzione non solo statuisce, al primo comma

dell’art. 53, che tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della

propria capacità contributiva, ma, al secondo comma, soggiunge che “il

sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Essendo evidente la funzione solidaristico-comunitaria dell’intero precetto, di

esso generalmente si sottolinea la formulazione prudente quasi che esso sia

stato il risultato di una contrapposizione ideologica tra chi la progressività la

voleva e chi vi si opponeva.

In realtà non di contrapposizione si tratta perché la riflessione sulla

progressività e la istituzione di tributi progressivi si collocano all’interno dello

stesso pensiero liberale e le conseguenti applicazioni si ebbero, tra la fine

dell’Ottocento e i primi del Novecento, in Stati liberali e capitalistici, quali

l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania.

La formulazione letterale dell’art. 53 è piuttosto figlia della consapevolezza

che non tutti i tributi possono essere progressivi (ecco il riferimento al

“sistema”) e del dubbio, ideologicamente trasversale, che le imposte

progressive possano essere di per sé redistributrici di ricchezza. Nel farsi della

nostra Costituzione questo dubbio riapparve su sponde opposte perché vi fu chi

“ritenne pericoloso attribuire una larga funzione redistributiva alla imposizione

diretta “e chi dichiarò “di credere poco alla redistribuzione dei redditi

attraverso l’imposta”.13

E, infatti, a ben guardare la progressività è, di per sé, inidonea a realizzare

autonomamente l’obiettivo di spostare ricchezza dai più ai meno abbienti. Essa 13 Sono queste rispettivamente le risposte dall’avv. Luigi Biamonti e del prof. Antonio Pesenti in Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea Costituente, vol. V, Finanze, (Interrogatori, questionari, monografie), Roma, 1946, p. 71 e p. 82.

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19direttamente può ridurre le disuguaglianze tra ricchi e poveri mediante

l’impoverimento dei primi. E solo indirettamente può avere una funzione

solidaristica ma a condizione che il maggior gettito fiscale sia destinato a

finanziare spese a vantaggio dei meno abbienti.14

I dubbi sopra indicati e le incertezze applicative (la scelta delle spese non

spetta a chi contribuisce) spiegano l’appropriata formulazione letterale del

precetto e impediscono di ritenere che la progressività possa avere un

andamento sostanzialmente espropriativo al punto da consentire la confisca dei

diritti proprietari con le imposte.15

La locuzione del primo comma dell’art. 53 (“in ragione della propria capacità

contributiva) indica che il prelievo non può essere per l’intero, deve essere

parziale e la parzialità deve essere intesa anche come possibilità di permanenza

14 Su questo delicato tema, a commento dell’analisi empirica condotta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si veda F.A. Hayek, The constitution of liberty, Chicago, 1978, pg. 311-315.A commento della spesa sociale italiana dal 1974 al 2001 si veda A. Martino, Semplicemente liberale, Macerata, 2004, pg. 73-76.15 In anni difficili, connotati dall’esistenza di non pochi Stati autoritari, nei quali la sovranità fiscale non incontrava limiti, né nei principi né nei fatti, Benvenuto Griziotti scriveva che “vi è un limite all’esercizio della sovranità fiscale dello Stato” (così in Principi di politica, diritto e scienza delle finanze, Padova, 1929, p. 50).A commento dell’art. 53 Cost. Benvenuto Griziotti scrive che “non è necessario che siano soddisfatti fini economici o demografici e sociali distributivi, bensì che i tributi siano applicati su buoni accertamenti” e soggiunge: “L’esperienza moderna di tributi con fini redistributivi riconferma l’insegnamento antico dei dazi protettivi. Le alte aliquote dei tributi redistributivi non consentono buoni accertamenti e gettiti proficui. In Italia l’imposta complementare sul reddito è progressiva fino al 75% (la pressione tributaria arriva oltre il 100% tenendo conto degli altri tributi sullo stesso contribuente). Ma l’evasione è così elevata, che i più ricchi in proporzione al loro reddito sopportano aliquote effettive, misurabili a decimali (0,50 o 0,20%), anziché a unità intere; cioè sopportano una pressione inferiore a quella dei minori contribuenti. Lo stesso dicasi per l’imposta di successione anch’essa regolata da una progressione molto elevata di aliquote” (così B. Griziotti, L’imposta come istituto della finanza fiscale e della finanza extrafiscale, in AA.VV., Finanza pubblica contemporanea. Studi in onore di J. Tivaroni, Bari, Laterza, 1950, pg. 251 sg. e spec. P. 254-255-256).

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20del prelievo (e dunque della relativa forza economica che ne costituisce la

fonte) nel tempo16: questo, si noti, è il fondamento della solidarietà che non può

esaurirsi in una unica dazione proprio perché deve contribuire allo “sviluppo”

della persona umana.17

La locuzione “criteri”, di cui al secondo comma, non significa solo regola,

principio, ma, secondo l’etimo greco e i dizionari della lingua italiana, anche

“senso, avvedutezza”, onde si dice agire come criterio e chi non lo pratica

viene considerato “scriteriato”: di qui il rilievo della ragionevolezza e della

proporzionalità che non a caso è l’indicazione che promana dalla

giurisprudenza della Corte Costituzionale tedesca.18

******

10. Proprio quest’ultimo riferimento deve indurre ad allargare lo spettro delle

riflessioni perché dall’Europa (tanto bistrattata) emergono indicazioni

favorevoli alle conclusioni sopra enunciate.

La sola ipotesi di una progressività espropriatrice oggi sembra confliggere con

la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà

fondamentali e, per quanto riguarda l’Unione Europea, non solo con i principi

codificati dalla Corte di Giustizia ma anche da alcuni importanti documenti. E

così l’art. 17 della Carta di Nizza statuisce che “ogni individuo ha il diritto di

16 Si veda F. MOSCHETTI, Interesse fiscale e ragioni del fisco nel prisma della capacità contributiva, in Studi in onore di G. Falsitta, cit., p. 205).17 Nel farsi della Costituzione “l’esigenza di una limitazione quantitativa dell’esercizio della potestà impositiva” fu sottolineato dalla Corte di Cassazione che la individuò nella capacità contributiva “soddisfacendo così alla fondamentale esigenza che il contribuente non sia gravato oltre il limite necessario alle possibilità di vita della sua economia individuale”: si noti non al solo minimo vitale ma alla possibilità di vita della sua economia individuale (si veda il cap. primo del Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea costituente, cit.).18 Si veda G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nell’evoluzione del diritto tributario, Padova, Cedam, 2015, spec. 67 sg.

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21godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di

disporne e di lasciarli in eredità”.19

Questa ultima asserzione impedisce di concludere che il prelievo può essere

tale da rendere tutti uguali e cioè di garantire a tutti solo il c.d. minimo vitale.

Certo il minimo vitale deve essere garantito a tutti ma la locuzione sopra

trascritta sta a significare che non può essere vanificato il diritto di disporre

delle proprie risorse (ad esempio con donazioni) ivi compreso il diritto a

lasciare in eredità i beni posseduti.

Né si dica che detto diritto potrebbe non valere per un tributo, ad esempio sul

reddito da lavoro, in quanto il contribuente potrebbe avere un cospicuo

patrimonio e quindi un ulteriore reddito. Non è così perché il principio di

capacità contributiva, la ragionevolezza e la proporzionalità devono essere

rispettati con riguardo a ciascun tributo e quindi ogni imposta sul reddito deve

garantire di goderlo, di usarlo, di disporne anche risparmiando (valore tutelato

dalla Costituzione).20

E non a caso la Corte costituzionale tedesca ha individuato il limite

costituzionale alla pressione tributaria nel diritto di proprietà privata e nel

principio di proporzionalità, che impone di garantire comunque al contribuente,

una volta soddisfatti gli obblighi tributari, “la garanzia di un reddito

liberamente disponibile”21

19 Si veda anche l’art. II-77 del trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, in AA.VV., La Costituzione europea, Bologna, Il Mulino, 2004, pg. 332.20 In altre parole non occorre individuare un limite, all’imposizione, complessivo e soggettivo riferito all’intera capacità contributiva di un soggetto perché la Corte costituzionale è giudice della legittimità delle diverse e di ciascuna legge tributaria onde il limite va rispettato all’interno della disciplina di ciascuna imposta.21 Così nella sentenza del 18 gennaio 2006: si veda al riguardo N. BOZZA-BODDEN, L’imposta confiscatoria nella giurisprudenza e nella dottrina tedesca dopo la sentenza del 18 gennaio 2006 della Corte costituzionale germanica, in AA.VV., Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, Cedam. 2012, pp. 99 sg.)

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22

* * * * * * *

11. Significativamente l’art. 36 della nostra Costituzione statuisce che “il

lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità

del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia

un’esistenza libera e dignitosa”.22

Sulla “dignità” – la dignità dell’uomo intesa in tutti i suoi molteplici aspetti - si

è acceso un serrato dibattito che dura ormai da parecchi anni: sono decine le

monografie recenti e centinaia, se non di più, i saggi che si avvicendano sulle

riviste a opera di studiosi di tutte le discipline sociali, dalla antropologia alla

bioetica, dalla filosofia alla teoria generale del diritto, al diritto costituzionale e

al diritto privato. E’ un termine di storia e di valori, è un valore in sé, che si

esprime attraverso le relazioni inter-soggettive, è un valore che si apprezza

nell’ambito delle aggregazioni umane, è un valore relazionale. Che si tratti di

“valore” – con tutto il peso che anche questo concetto porta con sé- nessuno lo

dubita, ormai, anche se il suo significato non può che essere relativo, e

cangiante nel tempo, nello spazio, nella memoria, nelle modalità con cui lo si

vuol rappresentare. E’ un termine/concetto/valore traducibile in tutte le lingue,

e lo dimostra la copertina di un recente libro di Aharon Barak, docente

israeliano di diritto costituzionale, per molti anni presidente della Corte

costituzionale di Israele, studioso di teoria generale del diritto, ben noto ai

giuristi italiani per le sue opere sempre colte e tecnicamente precise, limpide e

brillanti23.

Già dalle prime pagine e dalla introduzione si comprende che ogni volta che si

fa riferimento a questo termine non lo si usa nella sua isolata e solenne

22 Così l’art. 36 della Costituzione.23 Si veda A. Barak, Human Dignity Costitutional Value and the Costitutional Right, Cambridge.

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23crudezza, ma lo si colloca in un contesto, lo si abbina, esplicitamente o meno,

ad altri termini altrettanto pregnanti come libertà, autodeterminazione,

uguaglianza, consapevolezza e così via.

Ma Barak è un giurista e si preoccupa soprattutto di tre problemi: la

connessione della dignità come valore con la dignità come diritto

costituzionale; i limiti al diritto costituzionale che garantisce questo valore; il

significato anche pragmatico di termine/ concetto/ valore, che diventa, nella

proposta dell’A., anche un “progetto” ermeneutico.

Per i giuristi italiani – specie per chi ritiene che si possa ancor oggi parlare di

valori in prospettiva giuridica, e non solo di norme “pure” e di interpretazione

formale – la prima connessione viene per così dire naturale. Nella Costituzione,

una delle prime del Dopoguerra, e appunto per questo illuminata e

lungimirante, le disposizioni che fanno esplicito riferimento a questo valore,

trasformato in norma, sono diverse, sì che, per usare la prospettiva di Barak,

questo termine non allude solo a un valore e a un diritto, ma è anche inteso

come “diritto-madre”, cioè il fondamento dei diritti, e pure come framework,

cioè come cornice entro la quale si interpretano e si applicano tutti i diritti

costituzionalmente garantiti.

12. Quindi tornando al nostro tema un’esistenza “libera e dignitosa” va ben al

di là del minimo vitale e sta a significare che, per il Costituente, l’obiettivo

assegnato al legislatore non è l’uguaglianza ma l’autosufficienza.

E l’obiettivo è l’autosufficienza proprio perché l’art. 3, 2° comma, vuole

assicurare quel dinamismo sociale che, del capitalismo, è un apprezzato

sottoprodotto ma che può essere ostacolato (e l’esperienza che stiamo vivendo

ne è testimonianza) da una eccessiva pressione fiscale.

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24Così come qualsiasi tributo sul patrimonio24 deve garantire il diritto a goderlo, a

usarlo, ma anche ad amministrarlo e a non dissiparlo per lasciarlo in tutto o in

parte in eredità.

In altre parole, il diritto di godere della proprietà dei beni si proietta anche al di

là della vita del possessore e nessun prelievo può ostacolare l’intento di

provvedere ai figli, ai nipoti del possessore stesso.

Se così non fosse non solo sarebbero mortificate le aspettative (legittime) dei

buoni figli dei buoni genitori, ma vanificato anche l’art. 42 della Costituzione

per il quale “la legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima e

testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità”.

Se, con lo strumento fiscale, al netto del minimo vitale, tutti fossimo resi

uguali, non si tratterebbe di limiti alle successioni, come la Costituzione

prevede, ma non vi sarebbero più eredità, con la vanificazione anche dei diritti

dello Stato.

In sintesi, la nostra Costituzione non è, selvaggiamente e incoscientemente,

egualizzatrice e mortificatrice della vita, delle iniziative, dei successi di

ciascuno di noi. Essa pone solo dei limiti, dei limiti alla proprietà (art. 42, 2°

comma), dei limiti alle successioni (art, 42, 4° comma), dei limiti ragionevoli

al prelievo. Non a caso, ripeto, l’art. 53 usa la locuzione “in ragione”, e non a

caso, il 2° comma dello stesso art. 53 sancisce che il sistema tributario è

informato a “criteri” di progressività.

Il nostro costituente vuole che il legislatore fiscale, quanto alla progressività, la

usi con criterio proprio perché, nell’art. 53 e nel complesso delle sue norme,

non esiste contrasto tra la funzione garantista e quella solidaristica in quanto

la seconda esige, richiede il mantenimento e la tutela dell’economia privata.24 Ci si riferisce anche a questo tributo perché, a fronte della crisi della tradizionale imposta personale e progressiva che non riesce più a riportare a tassazione tutti i redditi, si può realizzare l’intento della nostra Costituzione attraverso una più razionale mediazione di prelievi sul reddito e sui consumi, ma anche attraverso la valorizzazione dell’imposta di successione, che è una imposta sul patrimonio.

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13. In sintesi occorre ritrovare quello che la Costituzione ci suggerisce, il senso

del limite proprio perché in tutti i paesi industriali si osserva una continua

estensione della politica sociale: trasferimenti alle famiglie; imposizione

progressiva, spese sanitarie; spese per l’istruzione; politica dell’abitazione e

così via. Si tratta dello sviluppo di un fenomeno che comincia nella seconda

metà dell’ottocento ma che, dagli anni della seconda guerra mondiale, ha avuto

una forte accelerazione quantitativa. E questo ha avuto conseguenze qualitative

importanti e non sufficientemente percepite e valutate. Si è passati, cioè, da

schemi di portata relativamente ristretta a schemi di portata molto più ampia

senza tenere conto che il cambiamento di dimensioni poteva cambiare

profondamente il significato degli eventi.

Per esempio, si è passati da imposte progressive con funzioni di integrazioni e

di correzione marginale degli effetti distributivi del sistema tributario nel suo

complesso, a imposte progressive che aspirano a incidere fortemente sulla

distribuzione del reddito e che si applicano a un numero di contribuenti che

comprende gran parte della popolazione attiva (durante la seconda guerra

mondiale i contribuenti dell’income tax britannica sono passati da 1 a 14

milioni; in Italia, tra il 1973 e il 1974, i contribuenti alla imposta progressiva

sul reddito sono passati dal 4.800.000 a quasi 23 milioni). Cambiamenti di

ordine di grandezza, con conseguenze qualitative che non erano state previste e

che hanno dato luogo a problemi intrattabili, si sono avuti nelle spese sanitarie

e scolastiche e nella politica dell’abitazione.

E’ forse opportuno ricordare che questi sviluppi recenti segnano la perdita del

senso dei limiti che furono proprio della tradizione radicale alla quale, da

Bentham in poi, si deve l’elaborazione di gran parte dei temi della politica

sociale moderna. Bentham poteva porre le basi dalle quali dedurre una formula

livellatrice di distribuzione delle imposte, ma metteva in chiaro che il

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26perseguimento dell’uguaglianza avrebbe dovuto essere temperato dalla

necessità di garantire la sicurezza nella produzione e nel possesso della

ricchezza25. E questa cautela nel passare dai giudizi di valore e dalle

formulazioni di principio alle applicazioni pratiche rimane evidente nella linea

che, attraverso Stuart Mill Sidgwick e Marshall, arriva a Pigou.

Questo senso dei limiti che si riscontrano, e che si devono rispettare, quando si

calano le idee nella realtà sociale, si perde in un periodo che si può porre

attorno alla seconda guerra mondiale, e si perde proprio quando di dilatano le

dimensioni degli interventi. Da una tradizione nella quale il senso dei limiti era

sentito rispetto a interventi più modesti si passa a una carenza del senso dei

limiti rispetto a interventi importanti.

Lo scriveva Luigi Einaudi, in una tra le più belle “Prediche inutili”, che

“occorre andare incontro alle esigenze di sicurezza della maggior parte degli

uomini ma a condizione che sia serbata in vita la minoranza di uomini disposti

a vivere incertamente, a correre rischi, a ricevere onorari invece di salari,

profitti invece di interessi”.26

E Carlo Arturo Jemolo commentò che “l’anima cristiana di Einaudi sentiva

profondamente le esigenze del povero ma “considerava negativamente chi

seppelliva i talenti”.27

25 Per la derivazione da premesse benthamiane della formula della distribuzione delle imposte secondo il principio del sacrificio minimo, cfr W.J. BLUM – H. KALVEN, JR, The Uneasy case for Progressive Taxation, Chicago, the University of Chicago Press, 1953, pp. 49-50. Per il rapporto tra uguaglianza e sicurezza in Bentham, si vedano i passi citati da W.C. MITCHELL, Bentham’s Felicific Calculus (1918), in IDEM, The Backward Art of Spending Money, and Other Essays, New York, MacGraw Hill, 1950, pp. 199 200.26 Così L. Einaudi, In lode del profitto (1956), in Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1959, p. 153.27 La citazione di Jemolo è tratta dalla relazione svolta, in occasione del centenario della nascita, da Sergio Steve all’Accademia dei Lincei ora pubblicata in S. Steve, Scritti vari, Milano, F. Angeli, Cisiec, 1997, p. 747. E proprio il prof. Sergio Steve chiudeva la relazione tenuta a Roma il 4 novembre 1980 alla 21” riunione scientifica della

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27Gianni Marongiu

Società italiana degli economisti (intitolata “I fondamenti attuali della politica sociale”) con le seguenti parole: “Ritrovare il senso dei limiti, che è stato proprio dei grandi riformisti del passato, non dovrebbe essere considerato un passo indietro, ma la condizione per affrontare consapevolmente incognite e rischi”.

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