Benaco Mensile della Comunità Parrocchiale di Torri...

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«Non più schiavi, ma fratelli»: è il tema scelto da Papa Francesco per la quarantottesima giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio 2015. Nell’annunciare la notizia, un comunicato del Pontificio consiglio della giustizia e della pace sottolinea come spesso si creda che la schiavitù sia un fatto del passato. Invece si tratta di una piaga sociale fortemente presente anche nel mondo attuale. Il messaggio pontificio per la giornata dello scorso anno era dedicato al tema: «Fraternità, fondamento e via per la pace». L’essere tutti figli di Dio rende, infatti, gli esseri umani fratelli e sorelle con uguale dignità. La schiavitù colpisce a morte tale fraternità universale e, quindi, la pace, che può esistere solo quando l’essere umano riconosce nell’altro un fratello che ha pari dignità. Nel mondo, molteplici sono gli abominevoli volti della schiavitù: il traffico di esseri umani, la tratta dei migranti e della prostituzione, il lavoro- schiavo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la mentalità schiavista nei confronti delle donne e dei bambini. E su questa schiavitù speculano vergognosamente individui e gruppi, approfittando dei tanti conflitti in atto nel mondo, del contesto di crisi economica e della corruzione. La schiavitù non solo è una terribile ferita aperta nel corpo della società contemporanea, ma anche una piaga gravissima nella carne di Cristo, come ha più volte denunciato Papa Francesco. Per contrastarla efficacemente occorre innanzitutto riconoscere l’inviolabile dignità di ogni persona umana. È necessario, inoltre, tenere fermo il riferimento alla fraternità, che richiede il superamento della diseguaglianza, in base alla quale un uomo può rendere schiavo un altro uomo, ed esige un impegno di prossimità e gratuità, per un cammino di liberazione e inclusione per tutti. L’obiettivo è la costruzione di una civiltà fondata sulla pari dignità di tutti gli esseri umani, senza discriminazione alcuna. Per questo, occorre anche l’impegno dell’informazione, dell’educazione, della cultura, per una società rinnovata e improntata alla libertà, alla giustizia e, quindi, alla pace. Va ricordato che la giornata mondiale della pace è stata voluta da Paolo vi e dal 1968 viene celebrata il primo di gennaio di ogni anno. Il messaggio papale “Non siamo in vendita! Fermate la schiavitù” viene inviato alle cancellerie di tutto il mondo e segna anche la linea diplomatica della Santa Sede per l’anno che si apre. Auguri a tutti di Buon Anno! Don Giuseppe Gennaio 2015 - Anno 17 (n° 194) Mensile della Comunità Parrocchiale di Torri del Benaco

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«Non più schiavi, ma fratelli»: è il tema scelto da Papa Francesco per la quarantottesima giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio 2015. Nell’annunciare la notizia, un comunicato del Pontificio consiglio della giustizia e della pace sottolinea come spesso si creda che la schiavitù sia un fatto del passato. Invece si tratta di una piaga sociale fortemente presente anche nel mondo attuale. Il messaggio pontificio per la giornata dello scorso anno era dedicato al tema: «Fraternità, fondamento e via per la pace». L’essere tutti figli di Dio rende, infatti, gli esseri umani fratelli e sorelle con uguale dignità. La schiavitù colpisce a morte tale fraternità universale e, quindi, la pace, che può esistere solo quando l’essere umano riconosce nell’altro un fratello che ha pari dignità. Nel mondo, molteplici sono gli abominevoli volti della schiavitù: il traffico di esseri umani, la tratta dei migranti e della prostituzione, il lavoro-schiavo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la mentalità schiavista nei confronti delle donne e dei bambini. E su questa schiavitù speculano vergognosamente individui e gruppi, approfittando dei tanti conflitti in atto nel mondo, del contesto di crisi economica e della corruzione. La schiavitù non solo è una terribile ferita aperta nel corpo della società

contemporanea, ma anche una piaga gravissima nella carne di Cristo, come ha più volte denunciato Papa Francesco. Per contrastarla efficacemente occorre innanzitutto riconoscere l’inviolabile dignità di ogni persona umana. È necessario, inoltre, tenere fermo il riferimento alla fraternità, che richiede il superamento della diseguaglianza, in base alla quale un uomo può rendere schiavo un altro uomo, ed esige un impegno di prossimità e gratuità, per un cammino di liberazione e inclusione per tutti. L’obiettivo è la costruzione di una civiltà fondata sulla pari dignità di tutti gli esseri umani, senza discriminazione alcuna. Per questo, occorre anche l’impegno dell’informazione, dell’educazione, della cultura, per una società rinnovata e improntata alla libertà, alla giustizia e, quindi, alla pace. Va ricordato che la giornata mondiale della pace è stata voluta da Paolo vi e dal 1968 viene celebrata il primo di gennaio di ogni anno. Il messaggio papale “Non siamo in vendita! Fermate la schiavitù” viene inviato alle cancellerie di tutto il mondo e segna anche la linea diplomatica della Santa Sede per l’anno che si apre. Auguri a tutti di Buon Anno!

Don Giuseppe

Gennaio 2015 - Anno 17 (n° 194)

Mensile della Comunità Parrocchiale di Torri del Benaco

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LA VOCE DEL PRESEPE LA VOCE DEL PRESEPE LA VOCE DEL PRESEPE LA VOCE DEL PRESEPE SA PARLARE A TUTTISA PARLARE A TUTTISA PARLARE A TUTTISA PARLARE A TUTTI

La fortuna del presepe sta tutta nella sua natura semplice: una tradizione che non sembra avere segni di cedimento e che anzi pare vivere una nuova fioritura, specie nelle rappresentazioni "viventi". Eppure attorno a quei cieli di carta stagnola e capanne di cartapesta si accende ogni anno qualche polemica. La pietra dello scandalo è la presenza del presepe nella scuola, il più sensibile tra gli spazi pubblici. A Bergamo un preside ha negato l’autorizzazione a realizzare un presepe, mentre nell’ingresso di una scuola dell’infanzia di Salerno la scena della Natività è stata rimossa dopo le proteste di una famiglia atea (ma poi le statuine sono state ricollocate dal dirigente scolastico dopo che gli altri genitori si sono detti intenzionati a iscrivere i figli altrove). Al liceo Parini di Milano il dissidio è scoppiato tra i professori dopo che una docente ha proposto di allestire un presepe nella sala insegnanti. Al termine di un confronto piuttosto acceso si è giunti alla conclusione di lasciar perdere, contro il parere – tra gli altri – di un professore di religione ebraica. L’alibi invocato è sempre lo stesso: la necessità di non ledere la libertà altrui. Eppure, come ha ricordato venerdì papa Francesco in piazza San Pietro accendendo il "suo" presepe, queste semplici rappresentazioni parlano – anche a chi non è cristiano o non crede – «di fraternità, di intimità e di amicizia, chiamando gli uomini del nostro tempo a riscoprire la bellezza della semplicità, della condivisione e della solidarietà». Il coraggio di fare spazio al presepe, insomma, può portare solo benefici.

Non è una questione teorica. «I presepi viventi sono la dimostrazione di quanto sia sbagliato vietare i presepi tradizionali nelle scuole e nei luoghi pubblici». Ulderico Bernardi è un sociologo che ha studiato in profondità i fenomeni della cultura popolare in relazione ai mutamenti sociali. «I presepi viventi sono un fenomeno molto antico e radicato. In essi la comunità dimostra che è viva e espone i suoi frutti: Gesù Bambino rappresenta le generazioni a venire». Attorno a essi sono tanti a raccogliersi, di generazioni differenti: «Sono manifestazioni della tenuta comunitaria. Quando si vuole favorire l’integrazione bisogna offrire una identità stabile con cui le altre identità possano confrontarsi. I presepi viventi sono diffusi soprattutto fuori dalle aree cittadine, dove la residenzialità è legata a paesi e villaggi e il campanile della parrocchia è ancora più importante del Comune. È un dato di fatto che nei luoghi dove si fa il presepe vivente partecipano, come spettatori o attori, molti immigrati, musulmani o dell’Est europeo. È un aspetto positivo in cui una tradizione forte diventa invito a integrarsi senza abbandonare la propria cultura». Pensare al presepe come simbolo di divisione appare dunque strumentale. «La spinta a tener conto di tutti gli ambiti di appartenenza è giusta – osserva Michele Monopoli, dirigente scolastico del liceo statale Carducci di Milano –, semmai occorre mediazione. Non credo che il presepe intacchi e metta in discussione il sentimento religioso. Lo spirito della festa dovrebbe potersi rappresentare in tutte le dimensioni. La scuola deve farsi interprete di più istanze: deve essere aperta e plurale. Non è negando la presenza del presepe che

Presepe realizzato nella Chiesa Parrocchiale - Natale 2014

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si garantisce questa pluralità». Il presepe, d’altronde, è sempre stato "plurale": «Abbiamo dimenticato che nei racconti della natività il riferimento alle altre religioni è presente fin dall’inizio» spiega lo storico Franco Cardini. «La presenza dei magi, giunti dall’Oriente, ma anche il bue e l’asinello, animali dal forte connotato simbolico, sono un rimando al mazdeismo. Come il Cristo non è nato solo per il popolo ebraico, oggi potremmo dire che non nasce solo per il popolo cristiano». Ma soprattutto la forza del presepe è nella sua attualità: «È profondamente "antimoderno" – afferma Cardini – e quindi è buono: perché il moderno è il primato di individuo, tecnologia ed economia, a scapito del senso del divino. Non è questione di passatismo, ma di osservare con lucidità la realtà. Mi spiego: il presepe è antimoderno perché è un rito comunitario, tanto quando è allestito in famiglia o quando è un evento pubblico. Questo l’ha intuito Eduardo in Natale in casa Cupiello. Nella sua celebre battuta "Nun me piace ’o presepe" c’è il rifiuto a collaborare a un’azione sacra che coinvolge tutta la comunità: la ricostruzione simbolica della Sacra Famiglia a cui opera, insieme, ogni nucleo familiare. Nel rifiuto del presepe c’è il rifiuto del noi in favore dell’io, della comunità in favore del singolo. Lo stessa immagine del presepe ci ricorda che il messaggio divino di redenzione è comunitario».

Alessandro (da Avvenire)

AVVENTO 2014 RELAZIONE DAL CENTRO DI

ASCOLTO IN LOCALITÀ LONCRINO Riportare l’esperienza dei partecipanti all’incontro settimanale di Avvento sulla Parola è sempre un po’ riduttivo. E’ dato per certo che chi vi partecipa con impegno e interesse non pone limiti di tempo o altro, si dispone con piacere a questo appuntamento di incontro “sulle cose di Dio” arricchendo così se stesso e il gruppo con interventi appropriati ed edificanti. Anche quest’anno siamo stati ospiti nell’accogliente residenza dove è ormai consuetudine tenere i nostri incontri. Le proposte di Don Giuseppe presentate al lunedì ai responsabili dei centri di ascolto, erano

orientate alla conoscenza dell’Evangelista Marco. I brani su cui si è riflettuto, dialogato e condiviso sono stati tratti dal Capitolo 1,1-7;. Cap. 8,27-9,1 e nel Cap. 15,33-41. Nel primo incontro ci ha guidati la figura di Giovanni Battista che ci invitava a preparare la strada a Colui che viene, a raddrizzare i suoi sentieri. E’ la strada del cambiamento radicale e continuo. E’ la strada della speranza e della certezza fiduciosa. Il nostro sguardo, quindi, deve essere rivolto al futuro e al nuovo che sta per nascere. Nel secondo incontro ci siamo lasciati interpellare da Gesù che pone un interrogativo ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che io sia?” … “E voi chi dite che io sia?”. E più avanti aggiunge: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Cristo è venuto per cambiare il mondo e questo richiede, come prima cosa, il capovolgimento del nostro modo di pensare e il cambio di direzione per ritornare a Dio. Seguire Cristo è una scelta libera perché è una scelta d’amore. Il terzo incontro ci ha portati a contemplare la passione del Servo sofferente nell’immagine del Crocifisso per amore e a cogliere con stupore l’espressione del Centurione che, vedendo Gesù spirare in quel modo, esclama: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”. Nell’affrontare il tema della passione, in questo periodo prenatalizio, ci è stata di aiuto la lettura dell’Icona dell’Incarnazione del Verbo. Essa raffigura il neonato Bambino avvolto in fasce e deposto nella culla-tomba: nell’Incarnazione è già presente il Mistero di morte e risurrezione di Cristo. Gli incontri, partecipati con interesse dal gruppo, si sono conclusi con un momento conviviale e fraterno consumando insieme quanto preparato, per tutti noi, con abilità sorprendente: la “cioccolata calda” e la tipica “fugassa”. Ben rifocillati, ci siamo salutati con un sentito “Grazie!” e un caloroso arrivederci al prossimo appuntamento.

Una partecipante

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Santa Maria, compagna di viaggio sulle strade della vita

“PREGHIERA DI INIZIO ANNO” Santa Maria, Madre tenera e forte,

nostra compagna di viaggio sulle strade della vita,

ogni volta che contempliamo le cose grandi che l'Onnipotente ha fatto in te,

proviamo una così viva malinconia per le nostre lentezze,

che sentiamo il bisogno di allungare il passo per camminarti vicino.

Asseconda, pertanto, il nostro desiderio di prenderti per mano,

e accelera le nostre cadenze di camminatori un po' stanchi.

Divenuti anche noi pellegrini nella fede, non solo cercheremo il volto del Signore,

ma, contemplandoti quale icona della sollecitudine umana verso coloro che si

trovano nel bisogno, raggiungeremo in fretta la 'città' recandole gli stessi frutti

di gioia che tu portasti un giorno a Elisabetta lontana.

Santa Maria, Vergine del mattino, donaci la gioia di intuire, pur tra le tante

foschie dell' aurora, le speranze del giorno nuovo.

Ispiraci parole di coraggio.

Non farci tremare la voce quando,

a dispetto di tante cattiverie e di tanti peccati che invecchiano il mondo,

osiamo annunciare che verranno tempi migliori.

Non permettere che sulle nostre labbra il lamento prevalga mai sullo stupore,

che lo sconforto sovrasti l'operosità, che lo scetticismo schiacci l'entusiasmo,

e che la pesantezza del passato ci impedisca di far credito sul futuro.

Aiutaci a scommettere con più audacia sui giovani,

e preservaci dalla tentazione di blandirli con la furbizia di sterili parole,

consapevoli che solo dalle nostre scelte di autenticità e di coerenza

essi saranno disposti ancora a lasciarsi sedurre.

Moltiplica le nostre energie perché sappiamo investirle

nell'unico affare ancora redditizio sul mercato della civiltà:

la prevenzione delle nuove generazioni dai mali atroci

che oggi rendono corto il respiro della terra.

Aiutaci a comprendere che additare le gemme che spuntano sui rami

vale più che piangere sulle foglie che cadono.

E infondici la sicurezza di chi già vede l'oriente

incendiarsi ai primi raggi del sole.

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All’inizio di un nuovo anno, che accogliamo come una grazia e un dono di Dio all’umanità, desidero rivolgere, ad ogni uomo e donna, così come ad ogni popolo e nazione del mondo, ai capi di Stato e di Governo e ai responsabili delle diverse religioni, i miei fervidi auguri di pace, che accompagno con la mia preghiera affinché cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità. Nel messaggio per il 1° gennaio scorso, avevo osservato che al «desiderio di una vita piena … appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare». Essendo l’uomo un essere relazionale, destinato a realizzarsi nel contesto di rapporti interpersonali ispirati a giustizia e carità, è fondamentale per il suo sviluppo che siano riconosciute e rispettate la sua dignità, libertà e autonomia. Purtroppo, la sempre diffusa piaga dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme sulle quali desidero brevemente riflettere, affinché, alla luce della Parola di Dio, possiamo considerare tutti gli uomini “non più schiavi, ma fratelli”.

In ascolto del progetto di Dio sull’umanità

Il tema che ho scelto per il presente messaggio richiama la Lettera di san Paolo a Filemone, nella quale l’Apostolo chiede al suo collaboratore di accogliere Onesimo, già schiavo dello stesso Filemone e ora diventato cristiano e, quindi, secondo Paolo, meritevole di essere considerato un fratello. Così scrive l’Apostolo delle genti: «E’ stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 15-16). Onesimo è diventato fratello di Filemone diventando cristiano. Così la conversione a Cristo, l’inizio di una vita di discepolato in Cristo, costituisce una nuova nascita (cfr 2 Cor 5,17; 1 Pt 1,3) che rigenera la fraternità quale vincolo fondante della vita familiare e basamento della vita sociale.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA CELEBRAZIONE DELLA XLVIII GIORNATA MONDIALE

DELLA PACE - 1° GENNAIO 2015

NON PIÚ SCHIAVNON PIÚ SCHIAVNON PIÚ SCHIAVNON PIÚ SCHIAVI, MA FRATELLII, MA FRATELLII, MA FRATELLII, MA FRATELLI

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Nel Libro della Genesi (cfr 1,27-28) leggiamo che Dio creò l’uomo maschio e femmina e li benedisse, affinché crescessero e si moltiplicassero: Egli fece di Adamo ed Eva dei genitori, i quali, realizzando la benedizione di Dio di essere fecondi e moltiplicarsi, generarono la prima fraternità, quella di Caino e Abele. Caino e Abele sono fratelli, perché provengono dallo stesso grembo, e perciò hanno la stessa origine, natura e dignità dei loro genitori creati ad immagine e somiglianza di Dio. Ma la fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa dignità. In quanto fratelli e sorelle, quindi, tutte le persone sono per natura in relazione con le altre, dalle quali si differenziano ma con cui condividono la stessa origine, natura e dignità. E’ in forza di ciò che la fraternità costituisce la rete di relazioni fondamentali per la costruzione della famiglia umana creata da Dio. Purtroppo, tra la prima creazione narrata nel Libro della Genesi e la nuova nascita in Cristo, che rende i credenti fratelli e sorelle del «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), vi è la realtà negativa del peccato, che più volte interrompe la fraternità creaturale e continuamente deforma la bellezza e la nobiltà dell’essere fratelli e sorelle della stessa famiglia umana. Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia commettendo il primo fratricidio. «L’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro». Anche nella storia della famiglia di Noè e dei suoi figli (cfr Gen 9,18-27), è l’empietà di Cam nei confronti del padre Noè che spinge quest’ultimo a maledire il figlio irriverente e a benedire gli altri, quelli che lo avevano onorato, dando luogo così a una disuguaglianza tra fratelli nati dallo stesso grembo. Nel racconto delle origini della famiglia umana, il peccato di allontanamento da Dio, dalla figura del padre e dal fratello diventa un’espressione del rifiuto della comunione e

si traduce nella cultura dell’asservimento (cfr Gen 9,25-27), con le conseguenze che ciò implica e che si protraggono di generazione in generazione: rifiuto dell’altro, maltrattamento delle persone, violazione della dignità e dei diritti fondamentali, istituzionalizzazione di diseguaglianze. Di qui, la necessità di una conversione continua all’Alleanza, compiuta dall’oblazione di Cristo sulla croce, fiduciosi che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia … per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 5,20.21). Egli, il Figlio amato (cfr Mt 3,17), è venuto per rivelare l’amore del Padre per l’umanità. Chiunque ascolta il Vangelo e risponde all’appello alla conversione diventa per Gesù «fratello, sorella e madre» (Mt 12,50), e pertanto figlio adottivo di suo Padre (cfr Ef 1,5). Non si diventa però cristiani, figli del Padre e fratelli in Cristo, per una disposizione divina autoritativa, senza l’esercizio della libertà personale, cioè senza convertirsi liberamente a Cristo. L’essere figlio di Dio segue l’imperativo della conversione: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Tutti quelli che hanno risposto con la fede e la vita a questa predicazione di Pietro sono entrati nella fraternità della prima comunità cristiana (cfr 1 Pt 2,17; At 1,15.16; 6,3; 15,23): ebrei ed ellenisti, schiavi e uomini liberi (cfr 1 Cor 12,13; Gal 3,28), la cui diversità di origine e stato sociale non sminuisce la dignità di ciascuno né esclude alcuno dall’appartenenza al popolo di Dio. La comunità cristiana è quindi il luogo della comunione vissuta nell’amore tra i fratelli (cfr Rm 12,10; 1 Ts 4,9; Eb 13,1; 1 Pt 1,22; 2 Pt 1,7). Tutto ciò dimostra come la Buona Novella di Gesù Cristo, mediante il quale Dio fa «nuove tutte le cose» (Ap 21,5), sia anche capace di redimere le relazioni tra gli uomini, compresa quella tra uno schiavo e il suo padrone, mettendo in luce ciò che entrambi hanno in comune: la filiazione adottiva e il vincolo di fraternità in Cristo. Gesù stesso disse ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa

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quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

I molteplici volti della schiavitù

ieri e oggi

Fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui l’istituto della schiavitù era generalmente accettato e regolato dal diritto. Questo stabiliva chi nasceva libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce. Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la schiavitù, reato di lesa umanità, è stata formalmente abolita nel mondo. Il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile. Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello

minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore. Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì, penso al “lavoro schiavo”. Penso alle persone costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori, ed alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o non dare il proprio consenso. Non posso non pensare a quanti, minori e adulti, sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per

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essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale. Penso infine a tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi.

Alcune cause profonde

della schiavitù

Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine. Accanto a questa causa ontologica – rifiuto dell’umanità nell’altro –, altre cause concorrono a spiegare le forme contemporanee di schiavitù. Tra queste, penso anzitutto alla povertà, al sottosviluppo e all’esclusione, specialmente quando essi si combinano con il mancato accesso all’educazione o con una realtà caratterizzata da scarse, se non inesistenti, opportunità di lavoro. Non di rado, le vittime di traffico e di asservimento sono persone che hanno cercato un modo per uscire da una condizione di povertà estrema, spesso credendo a false promesse di lavoro, e che invece sono cadute nelle mani delle reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Queste reti utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo.

Anche la corruzione di coloro che sono disposti a tutto per arricchirsi va annoverata tra le cause della schiavitù. Infatti, l’asservimento ed il traffico delle persone umane richiedono una complicità che spesso passa attraverso la corruzione degli intermediari, di alcuni membri delle forze dell’ordine o di altri attori statali o di istituzioni diverse, civili e militari. «Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il dominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori». Altre cause della schiavitù sono i conflitti armati, le violenze, la criminalità e il terrorismo. Numerose persone vengono rapite per essere vendute, oppure arruolate come combattenti, oppure sfruttate sessualmente, mentre altre si trovano costrette a emigrare, lasciando tutto ciò che possiedono: terra, casa, proprietà, e anche i familiari. Queste ultime sono spinte a cercare un’alternativa a tali condizioni terribili anche a rischio della propria dignità e sopravvivenza, rischiando di entrare, in tal modo, in quel circolo vizioso che le rende preda della miseria, della corruzione e delle loro perniciose conseguenze.

Un impegno comune per sconfiggere la schiavitù

Spesso, osservando il fenomeno della tratta delle persone, del traffico illegale dei migranti e di altri volti conosciuti e sconosciuti della schiavitù, si ha l’impressione che esso abbia luogo nell’indifferenza generale. Se questo è, purtroppo, in gran parte vero, vorrei ricordare l’enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili, portano avanti da tanti anni in favore delle vittime. Tali istituti operano in contesti difficili, dominati talvolta dalla violenza, cercando di spezzare le catene invisibili che tengono legate le vittime ai loro trafficanti e

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sfruttatori; catene le cui maglie sono fatte sia di sottili meccanismi psicologici, che rendono le vittime dipendenti dai loro aguzzini, tramite il ricatto e la minaccia ad essi e ai loro cari, ma anche attraverso mezzi materiali, come la confisca dei documenti di identità e la violenza fisica. L’azione delle congregazioni religiose si articola principalmente intorno a tre opere: il soccorso alle vittime, la loro riabilitazione sotto il profilo psicologico e formativo e la loro reintegrazione nella società di destinazione o di origine. Questo immenso lavoro, che richiede coraggio, pazienza e perseveranza, merita apprezzamento da parte di tutta la Chiesa e della società. Ma esso da solo non può naturalmente bastare per porre un termine alla piaga dello sfruttamento della persona umana. Occorre anche un triplice impegno a livello istituzionale di prevenzione, di protezione delle vittime e di azione giudiziaria nei confronti dei responsabili. Inoltre, come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono la società. Gli Stati dovrebbero vigilare affinché le proprie legislazioni nazionali sulle migrazioni, sul lavoro, sulle adozioni, sulla delocalizzazione delle imprese e sulla commercializzazione di prodotti realizzati mediante lo sfruttamento del lavoro siano realmente rispettose della dignità della persona. Sono necessarie leggi giuste, incentrate sulla persona umana, che difendano i suoi diritti fondamentali e li ripristinino se violati, riabilitando chi è vittima e assicurandone l’incolumità, nonché meccanismi efficaci di controllo della corretta applicazione di tali norme, che non lascino spazio alla corruzione e all’impunità. È necessario anche che venga riconosciuto il ruolo della donna nella società, operando anche sul piano culturale e della comunicazione per ottenere i risultati sperati. Le organizzazioni intergovernative, conformemente al principio di sussidiarietà, sono chiamate ad attuare iniziative coordinate per combattere le reti transnazionali del crimine organizzato che

gestiscono la tratta delle persone umane ed il traffico illegale dei migranti. Si rende necessaria una cooperazione a diversi livelli, che includa cioè le istituzioni nazionali ed internazionali, così come le organizzazioni della società civile ed il mondo imprenditoriale. Le imprese, infatti, hanno il dovere di garantire ai loro impiegati condizioni di lavoro dignitose e stipendi adeguati, ma anche di vigilare affinché forme di asservimento o traffico di persone umane non abbiano luogo nelle catene di distribuzione. Alla responsabilità sociale dell’impresa si accompagna poi la responsabilità sociale del consumatore. Infatti, ciascuna persona dovrebbe avere la consapevolezza che «acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico». Le organizzazioni della società civile, dal canto loro, hanno il compito di sensibilizzare e stimolare le coscienze sui passi necessari a contrastare e sradicare la cultura dell’asservimento. Negli ultimi anni, la Santa Sede, accogliendo il grido di dolore delle vittime della tratta e la voce delle congregazioni religiose che le accompagnano verso la liberazione, ha moltiplicato gli appelli alla comunità internazionale affinché i diversi attori uniscano gli sforzi e cooperino per porre termine a questa piaga. Inoltre, sono stati organizzati alcuni incontri allo scopo di dare visibilità al fenomeno della tratta delle persone e di agevolare la collaborazione tra diversi attori, tra cui esperti del mondo accademico e delle organizzazioni internazionali, forze dell’ordine di diversi Paesi di provenienza, di transito e di destinazione dei migranti, e rappresentanti dei gruppi ecclesiali impegnati in favore delle vittime. Mi auguro che questo impegno continui e si rafforzi nei prossimi anni.

Globalizzare la fraternità,

non la schiavitù né l’indifferenza

Nella sua opera di «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società», la Chiesa si impegna costantemente nelle azioni di carattere caritativo a partire dalla

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verità sull’uomo. Essa ha il compito di mostrare a tutti il cammino verso la conversione, che induca a cambiare lo sguardo verso il prossimo, a riconoscere nell’altro, chiunque sia, un fratello e una sorella in umanità, a riconoscerne la dignità intrinseca nella verità e nella libertà, come ci illustra la storia di Giuseppina Bakhita, la santa originaria della regione del Darfur in Sudan, rapita da trafficanti di schiavi e venduta a padroni feroci fin dall’età di nove anni, e diventata poi, attraverso dolorose vicende, “libera figlia di Dio” mediante la fede vissuta nella consacrazione religiosa e nel servizio agli altri, specialmente i piccoli e i deboli. Questa Santa, vissuta fra il XIX e il XX secolo, è anche oggi testimone esemplare di speranza per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa «piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo». In questa prospettiva, desidero invitare ciascuno, nel proprio ruolo e nelle proprie responsabilità particolari, a operare gesti di fraternità nei confronti di coloro che sono tenuti in stato di asservimento. Chiediamoci come noi, in quanto comunità o in quanto singoli, ci sentiamo interpellati quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone. Alcuni di noi, per indifferenza, o perché distratti dalle preoccupazioni quotidiane, o per ragioni economiche, chiudono un occhio. Altri, invece, scelgono di fare qualcosa di positivo, di impegnarsi nelle associazioni della società civile o di compiere piccoli gesti quotidiani – questi gesti hanno tanto valore! – come rivolgere una parola, un saluto, un “buongiorno” o un sorriso, che non ci costano niente ma che possono dare speranza, aprire strade, cambiare la vita ad una persona che vive nell’invisibilità, e anche cambiare la nostra vita nel confronto con questa realtà. Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un fenomeno mondiale che supera le competenze di una sola comunità o nazione.

Per sconfiggerlo, occorre una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso. Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo, che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama «questi miei fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45). Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2014 FRANCISCUS

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LE DIVISIONI TRA I CRISTIANI

SONO SCANDALO La Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani che inizia domenica 18 gennaio per concludersi il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo apostolo. Questa iniziativa spirituale, quanto mai preziosa, coinvolge le comunità cristiane da più di cento anni. Si tratta di un tempo dedicato alla preghiera per l’unità di tutti i battezzati, secondo la volontà di Cristo: «che tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ogni anno, un gruppo ecumenico di una regione del mondo, quest’anno il Brasile, sotto la guida del Consiglio Ecumenico delle Chiese e del Pontificio Consiglio per la

Promozione dell’Unità dei Cristiani, suggerisce il tema e prepara sussidi per la Settimana di preghiera. Ma dobbiamo riconoscere sinceramente e con dolore, che le nostre comunità continuano a vivere divisioni che sono di scandalo. Le divisioni fra noi cristiani sono uno scandalo, non c’è un’altra parola, sono uno scandalo! «Ciascuno di voi – scriveva l’Apostolo – dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo”» (1,12). Anche quelli che professavano Cristo come loro capo non sono applauditi da Paolo, perché usavano il nome di Cristo per separarsi dagli altri all’interno della comunità cristiana. Ma il nome di Cristo crea comunione ed unità, non divisione! Lui è venuto per fare comunione fra noi, non per dividerci. Il Battesimo e la Croce sono elementi centrali del discepolato cristiano che abbiamo in comune. Le divisioni invece indeboliscono la credibilità e l’efficacia del nostro impegno di evangelizzazione e rischiano di svuotare la Croce della sua potenza (cfr 1,17)”. Paolo rimprovera i corinzi per le loro dispute, ma anche rende grazie al Signore «a motivo della grazia di

Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza» (1,4-5). Queste parole di Paolo non sono una semplice formalità, ma sono il segno che egli vede prima di tutto – e di questo si rallegra sinceramente – i doni fatti da Dio alla comunità. Questo atteggiamento dell’Apostolo è un incoraggiamento per noi e per ogni comunità cristiana a riconoscere con gioia i doni di Dio presenti in altre comunità. Malgrado la sofferenza delle divisioni, che purtroppo ancora permangono, accogliamo, le parole di Paolo come un invito a rallegrarci sinceramente delle grazie concesse da Dio ad altri cristiani. Abbiamo lo stesso

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Battesimo, lo stesso Spirito Santo che ci ha dato le grazie, riconosciamo e rallegriamoci”. “E’ bello riconoscere la grazia con cui Dio ci benedice e, ancora di più, trovare in altri cristiani qualcosa di cui abbiamo bisogno, qualcosa che potremmo ricevere come un dono dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle. Andiamo avanti su questa strada, pregando per l’unità dei cristiani, perché questo scandalo venga meno e non sia più fra noi.

Il tema di quest’anno è dedotto dal brano evangelico della Samaritana:

“Dammi un po’ d’acqua da bere” (Giovanni 4, 7)

Viaggio, sole cocente, stanchezza, sete… “Dammi un po’ d’acqua da bere”. Questa è una delle richieste primarie di tutti gli esseri umani. Dio, che diviene umano in Cristo (cfr. Gv 1, 14) e svuota Se stesso per condividere la nostra umanità (cfr. Fil 2, 6-7) è capace di chiedere alla donna samaritana: “Dammi un po’ d’acqua da bere” (Gv 4, 7). Al contempo, questo Dio che viene ad incontrarci, offre l’acqua viva: “[…] l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente che dà la vita eterna” (Gv 4, 14). L’incontro fra Gesù e la Samaritana ci invita ad assaporare l’acqua da diversi pozzi e anche a offrirne un poco della nostra. Nella diversità, infatti, tutti ci arricchiamo vicendevolmente. La Settimana per l’unità dei cristiani è un momento privilegiato di preghiera, di incontro e di dialogo. È l’occasione per riconoscere la ricchezza e il valore presenti negli altri, in chi è diverso da noi, e per chiedere a Dio il dono dell’unità. Un proverbio brasiliano recita così: “Chiunque beve di quest’acqua, ritorna” ed è usato quando un visitatore si congeda. Un refrigerante bicchiere d’acqua, di chimarrão, di caffè o di tereré sono segni di accoglienza, dialogo e coesistenza. Il gesto biblico di offrire acqua a chiunque arrivi (cfr. Mt 10, 42) è un modo di dare il benvenuto e di condividere, ed è una usanza diffusa in tutte le regioni del Brasile. Lo studio e la riflessione proposti in questo testo della Settimana intendono essere un aiuto ai fedeli e alle comunità perché realizzino la dimensione dialogica e unitaria del piano di Gesù: il Regno di Dio.

Il testo presenta l’importanza per ciascuno di noi di conoscere e comprendere la propria identità, cosicché l’identità dell’altro non sia vista come una minaccia. Se non ci sentiremo minacciati, saremo in grado di sperimentare la complementarità dell’altro. Nessuna persona, nessuna cultura da sola sono sufficienti! Pertanto, l’immagine che appare dalle parole “Dammi un po’ d’acqua da bere” è un’immagine che parla di complementarità: bere l’acqua dal pozzo di qualcun altro è il primo passo per sperimentarne il modo di essere e giungere ad uno scambio di doni che arricchisce. Laddove i doni degli altri vengono rifiutati, viene causato molto danno alla società e alla Chiesa. Nel testo di Giovanni 4, Gesù è il forestiero che arriva stanco e assetato. Ha bisogno di aiuto e chiede dell’acqua. La donna si trova nella sua terra; il pozzo appartiene alla sua gente, alla sua tradizione. È lei che tiene il secchio e ha accesso all’acqua. Ma anche lei è assetata. I due si incontrano e quell’incontro offre un’opportunità inattesa per entrambi. Gesù non cessa di essere Ebreo perché ha bevuto dall’acqua offerta dalla Samaritana, e lei rimane ciò che è mentre abbraccia la via di Gesù. Quando riconosciamo che tutti abbiamo delle necessità, la complementarità prende corpo nella nostra vita in un modo più ricco. “Dammi un po’ d’acqua da bere” presuppone che sia Gesù sia la Samaritana chiedano ciò di cui hanno bisogno l’uno dall’altra. “Dammi un po’ d’acqua da bere” ci insegna a riconoscere che le persone, le comunità, le culture, le religioni e le etnie hanno bisogno le une delle altre e ci insegna a ricevere ciò che è prezioso per il bene dell’umanità e della sua salvezza. “Dammi un po’ d’acqua da bere” implica un impegno etico che riconosca il bisogno gli uni degli altri per realizzare la missione della Chiesa. Ci spinge a cambiare il nostro atteggiamento, ad impegnarci nel cercare l’unità nella nostra diversità, aprendoci ad una varietà di forme di preghiera e di spiritualità cristiana.

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31 gennaio31 gennaio31 gennaio31 gennaio

FESTA DI FESTA DI FESTA DI FESTA DI SAN GIOVANNI BOSCOSAN GIOVANNI BOSCOSAN GIOVANNI BOSCOSAN GIOVANNI BOSCO

Brevi note biograficheBrevi note biograficheBrevi note biograficheBrevi note biografiche

Giovanni Bosco nacque il 16 agosto 1815 al Colle dei Becchi, una località presso Castelnuovo d 'Asti, ora Castelnuovo Don Bosco. Di famiglia povera si preparò, fra stenti ed ostacoli, lavorando e studiando, alla missione che gli era stata indicata attraverso un sogno fatto all'età di nove anni e confermata più volte in seguito, in modo straordinario. Studiò a Chieri, a pochi chilometri da Torino. Tra le belle chiese di Chieri Santa Maria della Scala (il duomo) fu la più frequentata da Giovanni Bosco, ogni giorno, mattino e sera. Pregando e riflettendo davanti all'altare della Cappella della Madonna delle Grazie egli decise il suo avvenire. A 19 anni voleva farsi religioso francescano. "Informato della decisione, il parroco di Castelnuovo, don Dassano, avvertì Mamma Margherita con queste parole molte esplicite: "Cercate di allontanarlo da questa idea. Voi non siete ricca e siete avanti negli anni. Se vostro figlio va in convento, come potrà aiutarvi nella vostra vecchiaia?". Mamma Margherita si mise addosso uno scialle

nero, scese a Chieri e parlò a Giovanni: "Il parroco è venuto a dirmi che vuoi entrare in convento. Sentimi bene. Io voglio che tu ci pensi e con calma. Quando avrai deciso, segui la tua strada senza guardare in faccia nessuno. La cosa più importante è che tu faccia la volontà del Signore. Il parroco vorrebbe che io ti facessi cambiare idea, perché in avvenire potrei avere bisogno di te. Ma io ti dico. In queste cose tua madre non c'entra. Dio è prima di tutto. Da te io non voglio niente, non mi aspetto niente. Io sono nata povera, sono vissuta povera, e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio subito dire: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco non metterò mai più piede in casa tua. Ricordatelo bene". Giovanni Bosco quelle parole non le avrebbe dimenticate mai. Dopo molta preghiera, ed essersi consultato con amici e con il suo confessore Don Giuseppe Cafasso, entrò in seminario per gli studi della teologia. Fu poi ordinato sacerdote a Torino nella chiesa dell'Immacolata Concezione il 5 giugno del 1841. Don Bosco prese con fermezza tre propositi: "Occupare rigorosamente il tempo. Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre quando si tratta di salvare le anime. La carità e la dolcezza di San Francesco di

Sales mi guideranno in ogni cosa". Venuto a Torino, fu subito colpito dallo spettacolo di centinaia di ragazzi e giovani allo sbando, senza guida e lavoro: volle consacrare la sua vita per la loro salvezza. L'8 dicembre 1841, nella chiesa di San Francesco d 'Assisi, ebbe l'incontro con il primo dei moltissimi ragazzi che l'avrebbero conosciuto e seguito: Bartolomeo Garelli. Incomincia cosi l'opera dell'Oratorio, itinerante al principio, poi dalla Pasqua 1846, nella sua sede stabile a

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Valdocco, Casa Madre di tutte le opere salesiane. I ragazzi sono già centinaia: studiano e imparano il mestiere nei laboratori che Don Bosco ha costruito per loro. Nella sua opera educativa fu aiutato da sua madre Mamma Margherita, che fece venire dai Becchi, per sostenerlo e perchè facesse da mamma a tanti suoi ragazzi che avevano perso i propri genitori. Nel 1859 poi invita i suoi primi collaboratori ad unirsi a lui nella Congregazione Salesiana: rapidamente si moltiplicheranno ovunque oratori, scuole professionali, collegi, centri vocazionali, parrocchie, missioni. Nel 1872 fonda l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) che lavoreranno in svariate opere per la gioventù femminile. Confondatrice e prima superiora fu Maria Domenica Mazzarello (1837-1881) che verrà proclamata santa il 21 giugno 1951, da Pio XII. Ma Don Bosco seppe chiamare anche numerosi laici a condividere con i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice la stessa sua ansia educativa. Fin dal 1869 aveva dato inizio alla Pia Unione dei Cooperatori che fanno parte a pieno titolo della Famiglia Salesiana e ne vivono lo spirito prodigandosi nel servizio ecclesiale. A 72 anni, sfinito dal lavoro, secondo quanto aveva detto: "Ho promesso a Dio che fin l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani". Don Bosco muore a Torino-Valdocco, all'alba del 31 gennaio 1888. Fu beatificato il 2 giugno 1929 e dichiarato santo da Pio XI il l aprile 1934, domenica di Pasqua. In seguito, molti altri sono venuti a gettare nei solchi semi di vita: Domenico Savio, Don Rua, Don Rinaldi...affinché il terreno continuasse ed essere fertile, anche dopo Don Bosco.

RIESCONO I GIOVANI A CAVALCARE LA TIGRE?

«L’ideologia permissiva della “contestazione” (del ’68) ha registrato un singolare successo storico, plasmando gli orientamenti delle nuove generazioni... seguendo questa immagine, l’infelicità umana si spiega con la repressione del piacere e dell’impulso a vivere liberamente ». Italo Vaccarini, sociologo “La droga è spesso simbolo del diritto ad essere liberi e a disporre di se stessi oltre ogni limite. Sono scientificamente provati, però, gli effetti dannosi sulla personalità”. In quegli anni, avanzava a livello culturale, portata avanti da intellettuali e da movimenti sociali e politici, quello che sarà chiamato umanesimo radicale borghese: cioè una diversa visione dell’uomo e del suo progetto esistenziale, con una nuova etica che si struttura “strada facendo” seguendo il principio che è doveroso soltanto ciò che la singola coscienza individuale valutata di volta in volta come tale. In tale etica non c’è spazio né per i Dieci Comandamenti. Unico principio guida “il dovere coincide con il mio piacere”. Altro slogan di quel periodo, super citato, era: “Proibito proibire”. Venne chiamata borghese questa nuova antropologia perché proponeva ed esaltava uno stile di vita privo di carica ideale. Si propone la presentificazione del tempo (il futuro è preoccupazione inutile) , un “hic et nunc” chiave edonistica, il via libera agli istinti, al “carpe diem” , vivi alla giornata, al “vado al massimo” sempre. Meglio “una vita esagerata” adesso, non domani. Perché poi arriva il nulla della morte. C’è quindi il rifiuto di ogni accenno al trascendente, specialmente quando questo è portatore di norme, leggi, tradizioni che pretendono di limitare il piacere individualistico del “qui ed ora”. È presente in essa anche la componente nichilista (la vita è nulla) come corollario del tutto. Quando una rivoluzione etica? Questa ideologia radicale borghese viene vissuta con orgoglio da personaggi ben in vista nel sistema massmediatico. E molti giovani guardano, ammirano, assimilano “copiano e incollano”. E spesso si

SONO TORNATI AL PADRE

UGO

FABIO

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rovinano. Anche loro sono “vittime” di questo clima culturale e di questa crisi etica nata dal fallimento della “rivoluzione” permissiva predicata dal ’68 in poi. “Questi figli vogliono solo lavori di soddisfazione: non sanno cos’è stata la fatica e il sacrificio dei padri. Il boom del Nordest si è strutturato sulla cultura cattolica del sacrificio... La prospettiva dei giovani è vivere il presente, consumandoquello che hanno accumulato i padri... Il denaro è il valore dominante e il generatore simbolico di tutti gli altri valori. Sappiamo cosa è utile e conveniente, ma non sappiamo più cosa è buono, etico, sacro”. Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista

“Tutto e subito, “carpe diem”: slogan per una vita “esagerata” che porta alla morte. In alto: l’alcol, la droga più economica”. L’esempio più eclatante che riguarda i nostri adolescenti è proprio quello della droga e del suo uso libero come parte integrante di questa “rivoluzione”. Si voleva e si predicava di riabilitare il piacere in tutte le sue componenti, di rivendicare il diritto ad essere liberi e a poter disporre di se stessi oltre ogni limite. In altre parole: il diritto assoluto e inviolabile alla gestione di se stessi e del proprio piacere. La libertà totale. Molti però, specie i giovani, non si accorgono che il fare ciò che pare e piace in nome della libertà riduce la libertà stessa. Perché resta pur sempre vero che la libertà senza virtù (o autocontrollo) e senza verità (ideali e valori esistenziali) diventa solo schiavitù. Possiamo proporre o ammirare come modello di libertà un giovane in crisi di astinenza che ruba, dice falsità, si prostituisce o addirittura picchia la propria madre per avere il denaro della “roba”? Non è forse il classico esempio di schiavitù “liberamente” scelto? Mentre secondo le statistiche si abbassa l’età del primo spinello o della prima “sniffata” è diventato sempre più difficile parlare di pericolo di queste sostanze e di opporsi alla loro legalizzazione. Continua a imporsi, grazie ad una potente lobby pro-droga, questa cultura fatta di relativismo e di nichilismo, che punta alla diffusione di queste droghe (sia di origine botanica che chimica) chiamandole eufemisticamente “sostanze ricreazionali” o

“leggere” nel senso di innocue. Da tempo libero, insomma, tanto per ricrearsi ed essere più efficienti. Nello stesso tempo si continua a voler decolpevolizzare a tutti i costi gli utenti come se facessero una cosa innocua. Quando, ormai, è dimostrato tutto il contrario. Basti pensare alle stragi del sabato sera, vero incubo per tanti genitori. Quanti giovani in preda allo sballo procurato dalla droga, sovente mixata con alcol, finiscono contro un muro? Un proverbio cinese dice: “Chi cavalca la tigre non può più scendere”. È forse questa l’immagine di molti giovani che credono di riuscire a cavalcare la “tigre-droga” e poter scendere quando vogliono. Si illudono. Stanno solo imboccando la strada che corre verso l’autodistruzione.

Enrica

DOMENICA 25 GENNAIO 2015

FESTA DEL BEATO

GIUSEPPE NASCIMBENI

ORE 18.00

S. MESSA SOLENNE

E PROCESSIONE

AAAAAAAAPPPPPPPPPPPPPPPPUUUUUUUUNNNNNNNNTTTTTTTTAAAAAAAAMMMMMMMMEEEEEEEENNNNNNNNTTTTTTTTIIIIIIII SSSSSSSSEEEEEEEETTTTTTTTTTTTTTTTIIIIIIIIMMMMMMMMAAAAAAAANNNNNNNNAAAAAAAALLLLLLLLIIIIIIII GGGGGGGGEEEEEEEENNNNNNNNNNNNNNNNAAAAAAAAIIIIIIIIOOOOOOOO 22222222000000001111111155555555

OGNI DOMENICA ore 10.00: S. MESSA DELLE FAMIGLIE ore 17.00: ADORAZIONE EUCARISTICA E CANTO DEL VESPERO.

OGNI LUNEDÌ ore 9.00-12.00: ADORAZIONE EUCARISTICA E CONFESSIONI.

OGNI MARTEDÌ ore 15.00: CATECHESI SCUOLA MEDIA.

OGNI GIOVEDÌ ore 15.00: CATECHISMO SCUOLA ELEMENTARE.

ore 17.00: ADORAZIONE EUCARISTICA.

OGNI VENERDÌ ore 20.00: INCONTRO GRUPPO ADOLESCENTI / GIOVANI.

OGNI SABATO ore 15.00 - 18.00: TEMPO PER LE CONFESSIONI.

GIOVEDÌ 1

MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO SANTE MESSE ORE 8.30–10.00–11.15-18.00

ORE 11.15 S. MESSA E CANTO DEL VENI CREATOR

MARTEDÌ 6 EEPPIIFFAANNIIAA DDEELL SSIIGGNNOORREE

SANTE MESSE ORE 8.30–10.00–11.15-18.00

DOMENICA 11 BATTESIMO DI GESÙ

ANNIVERSARI DI BATTESIMO

MERCOLEDÌ 14 ore 20.00 INCONTRO DI PREGHIERA IN ONORE DI S. ANTONIO. DAL 18 AL 25 GENNAIO

SETTIMANA DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

Il tema: “DAMMI UN PO’ D’ACQUA DA BERE” (Giovanni 4,7)

DOMENICA 25 FESTA DEL BEATO G. NASCIMBENI ORE 18.00 S. MESSA E PROCESSIONE

CELEBRAZIONE DELLA LITURGIACELEBRAZIONE DELLA LITURGIACELEBRAZIONE DELLA LITURGIACELEBRAZIONE DELLA LITURGIA

PARROCCHIA DI TORRI

ORARIO FERIALE

ore 7.00 Lodi ore 17.00 Vespero

ore 18.00 S. Messa

ORARIO FESTIVO

Sabato ore 17.00 Vespero ore 18.00 S. Messa

Domenica ore 8.30 S. Messa ore 10.00 S. Messa ore 11.15 S. Messa ore 17.00 Vespero ore 18.00 S. Messa

PARROCCHIA DI PAI

ORARIO FESTIVO

Sabato ore 19.30

Domenica ore 10.00

Bollettino di informazione Parrocchiale stampato in proprio La Redazione: Don Giuseppe Cacciatori – Daniela Pippa – Addea Cestari - Anna Menapace - Nuccia Renda – Rosanna Zanolli - William Baghini. Collaborazione

fotografica: Mario Girardi /Impaginato e stampato da: Daniela Pippa