BARBARIE IN ETà MODERNA · 2018. 12. 18. · 496.1.73 - G. CERChIAI, G. ROTA, L. SIMONuTTI (a cura...

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BARBARIE IN ETà MODERNA E CONTEMPORANEA a cura di Geri Cerchiai, Giovanni Rota, Luisa Simonutti filosofia e scienza nell’età moderna e contemporanea francoangeli

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La nozione di barbarie ha subìto, nelcorso degli ultimi secoli, trasformazionisemantiche tali da richiedere una sem-pre maggiore attenzione da parte dellariflessione storico-filosofica. Da un si-gnificato antico che indicava l’estra-neità di un popolo a un territorio, a unadeterminata civiltà o cultura, essa si èinfatti sviluppata fino a qualificare, vol-ta per volta, una condizione fisica, an-tropologica o morale in grado di desi-gnare l’alterità rispetto a una comu-nità, a una tradizione, a un complessoomogeneo di costumi. Ridefinire un ter-reno di riflessione capace di cogliere imutamenti del concetto di barbarierappresenta un importante contributoalla storia della cultura e del pensierocontemporanei. Il Convegno del qualesi presentano gli Atti ha esaminato al-

cune delle tappe cruciali che hanno ca-ratterizzato le trasformazioni della ca-tegoria di barbarie nella modernità,nell’epoca post-illuminista e in quellacontemporanea, concentrandosi su au-tori e su temi che richiedono una rinno-vata riflessione storiografica e filosofi-ca, anche in rapporto al mondo medi-terraneo.

Gli autori di questo volume: GiorgioBertolotti, Fabiana Cacciapuoti, Massi-mo Campanini, Geri Cerchiai, Raffael-la Colombo, Didier Contadini, IsabelDejardin, Antonello La Vergata, Ar-mando Mascolo, Vittorio Morfino,Gianfranco Mormino, Monica Riccio,Giovanni Rota, Manuela Sanna, LuisaSimonutti, Ann Thomson, Marco Van-zulli, Yves Charles Zarka.

€ 35,00 (U)

BARBARIEIN ETà MODERNA

E CONTEMPORANEAa cura di

Geri Cerchiai, Giovanni Rota,Luisa Simonutti

filosofia e scienzanell’età moderna e contemporanea

francoangeli

FrancoAngeliLa passione per le conoscenze

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FILOSOFIA E SCIENZA NELL’ETÀ MODERNA E CONTEMPORANEA

1. Studi

2. Strumenti bibliografici

3. Testi inediti o rari

Collana diretta daManuela Sanna

Enrico I. Rambaldi

Consiglio scientificoMaurizio Vitale (Presidente), Emanuela Scribano,

Giuseppe Cantillo, Jürgen Trabant

Coordinamento scientificoGeri Cerchiai (Responsabile), Giovanni Rota, Luisa Simonutti

SEZIONE DI MILANOISTITUTO PER LA STORIA DEL PENSIERO FILOSOFICO E SCIENTIFICO MODERNO

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHEVia Cozzi 53, 20125 Milano

La Sezione di Milano fa parte dell’Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricercheper la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno (ISPF)

via Porta di Massa 1, 80133 Napoli

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BARBARIEIN ETÀ MODERNA

E CONTEMPORANEAa cura di

Geri Cerchiai, Giovanni Rota,Luisa Simonutti

Atti del Convegno(Milano, 16-17 novembre 2016)

FrancoAngeli

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Il volume è inserito nelle attività di ricerca della Sede di Milano dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno (ISPF) del CNR.

Copyright © 2018 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy

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INDICE

Presentazione

Trasformazioni concettuali nell’età moderna

Isabel Dejardin, Le barbare, une construction fi ctionnelle?

Massimo Campanini, «I Turchi sono i più selvaggi degli uomini» [al-Ghazali]: faglie e fratture culturali del mondo arabo islamico nella rappresentazione dell’altro

Luisa Simonutti, Rappresentazioni della barbarie e inquietu-dine religiosa tra Sei e Settecento (Bayle, Picart, Demeunier, Encyclopédie)

Manuela Sanna, Barbarie e civiltà nella storia dell’uomo vichiano

Geri Cerchiai, Ingegno e «barbarie della rifl essione» in Giambat-tista Vico

Fabiana Cacciapuoti, Giacomo Leopardi: la barbarie della ragione

Monica Riccio, Barbarie dentro: il popolo “furioso” nella psicolo-gia collettiva di fi ne Ottocento

Yves Charles Zarka, Civilisation et barbarie chez Edward Gibbon

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Indice

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Interpretazioni verso il tempo presente

Raffaella Colombo, Leo Strauss e la fi losofi a come barbarie

Ann Thomson, La barbarie est-elle barbare?

Didier Contadini e Vittorio Morfi no, La metafora della “barbarie” nella tradizione marxista

Antonello La Vergata, Barbari, selvaggi, primitivi (vecchi e nuovi)

Armando Mascolo, Il naufragio dell’umano. Ortega y Gasset e la barbarie dell’uomo-massa

Marco Vanzulli, Forme della barbarie nella contemporaneità. La Dialettica dell’illuminismo e Le origini del totalitarismo in discussione

Giovanni Rota, Jean Améry: un «reduce» contro la «riabilitazione della barbarie»

Giorgio Bertolotti, Su alcuni usi di «barbarie» nel Novecento

Gianfranco Mormino, La barbarie come polarizzazione degli affet-ti: Jules Henry e il popolo Kaingáng

Indice dei nomi

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PRESENTAZIONE

L’idea di barbarie ha subito, nel corso dei secoli, trasformazioni semantiche tali da richiedere una sempre maggiore attenzione da parte degli studiosi. Da un iniziale signifi cato volto ad indicare l’estraneità di un popolo a un particolare territorio o a una determinata civiltà, essa si è infatti sviluppata fi no a qualifi -care, volta per volta, una condizione fi sica, antropologica o morale in grado di designare l’appartenenza a una comunità, a una tradizione, a un complesso ap-parentemente omogeneo di costumi. La questione dell’alterità, nel corso della lunga modernità, si è in tal modo costituita lungo il fi lo di un viaggio narrato, immaginato e reso infi ne reale attraverso letture e interpretazioni che interroga-vano tanto l’interiorità del singolo quanto la coscienza delle civiltà.

Il volume Barbarie in età moderna e contemporanea, che raccoglie gli Atti del Convegno internazionale svoltosi a Milano il 16 e 17 novembre 2016, in-tende mettere in luce la ricchezza semantica e concettuale delle nozioni di “bar-baro” e di “barbarie”. Anziché presentarsi con la rigidità di principi monolitici, esse dovrebbero infatti venire interpretate a partire dalla storia alla quale appar-tengono, in modo da essere ricomprese all’interno delle culture che le hanno concepite. Muovendo da simili presupposti, i contributi raccolti in questo vo-lume esaminano autori e temi centrali utili a fi ssare alcuni degli snodi storici e teorici fondamentali della categoria di barbarie nel mondo mediterraneo islami-co, nella modernità e nell’epoca post-illuminista e contemporanea.

Il Convegno, promosso dalla sede milanese dell’Istituto per la storia del pensiero fi losofi co e scientifi co moderno (ISPF) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si è svolto con il contributo dell’Università Paris Descartes-Sorbon-ne-équipe PHILéPOL, del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli studi di Milano-Bicocca e del Dipartimento di Filosofi a dell’Università degli studi di Milano. I nostri ringraziamenti, per il patrocinio accordato, vanno al Rettore della Università degli studi di Milano-Bicocca, Maria Cristina Messa, alla Società Filosofi ca Italiana, alla Regione Lombar-dia, al Municipio IX del Comune di Milano e al Presidente dell’Area 3 di Mi-lano-Bicocca del CNR.

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TRASFORMAZIONI CONCETTUALI NELL’ETÀ MODERNA

LE BARBARE, UNE CONSTRUCTIONFICTIONNELLE?

par Isabel Dejardin*

Abstract: The barbare, a fi ctional construction? Even though the concept of barbarism does not fi gure in the ancient Hellenic literature, some representation of alterity, which is to be related to the adjective “barbaros”, does emerge in such an area. Not only is the term used to refer to “the foreigner”, “the stranger”, but it also denotes a wide range of meanings which allude to the notion of exteriority in archaic semantics. Later on its signifi cance widens and impregnates the rich linguistic fi eld of the ancient Greek and post-classic literatures, fueling a discourse which is more poetic than conceptual. Nevertheless our linguistic tradition has taken hold of the term “barbarian” which now pervades our sociolect. Thus, what is deemed “barbarian” hints to some nonsensical action whose violence startles and alarms “civilization”. The aim of this study is to account for the conditions in which this essentially dramatic term (actually quite akin to “praxis”) emerged from the original ancient Hellenic context so as to grasp its signifi cance and use in our contemporary collective Psyche.

Aborder aujourd’hui la question de la barbarie, c’est d’abord questionner une actualité dramatique et linguistique pressante. Dramatique, puisque le terme qualifi e de manière récurrente, dans leur relation médiatique, des actes dont l’Europe se constate victime; linguistique, dans la mesure où son emploi vient à nouveau interroger la relation entre les mots et les choses, ou, plus largement, la capacité du langage à restituer le réel et les affects qu’il suscite. Malgré la propension de nos langues actuelles à produire des néologismes susceptibles d’adhérer aux modifi cations de notre biotope, il peut être frappant de les entendre reprendre un vocable ancien, transmis par une longue tradition, pour dire le choc issu d’événements aux modalités inédites. Or ce même vocable draine une série d’images associées à des réalités antiques fort éloignées des nôtres. Autrement dit, si on le rapporte au contexte qui l’a vu émerger, le mot «barbare» est saisissant d’inactualité; et pourtant, on ne l’a peut-être jamais autant employé.

* [email protected]; CPGE Orléans.

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Isabel Dejardin

Deuxième constat: le terme «barbare» est essentiellement appliqué à des actes. Nombreux seraient les exemples de ce sémantisme qui court dans la communication européenne  – en témoigne ce récent extrait d’un article de Libération, publié le 3 avril 2017, suite à une attaque terroriste dans le métro de Saint Pétersbourg:

La cheffe de la diplomatie de l’Union européenne, Federica Mogherini, a envoyé ses condoléances à «tous les Russes, en particulier ceux qui ont perdu leurs proches». Le président français François Hollande a exprimé «sa solidarité avec le peuple russe», tandis que la chancelière allemande Angela Merkel a fait part de son «effroi» face à cet «acte barbare». En réponse à une question sur cette attaque, le président américain Donald Trump a pour sa part dénoncé un attentat «absolument horrible».

Le réseau dans lequel s’intègre ici le terme «barbare» associe le fait – la mort répandue – à l’émotion qu’il fait naître, l’«effroi», et à sa caractérisation, puisqu’il est dit «absolument horrible»… Par conséquent, est barbare ce qui s’articule par essence à une action, et aux émotions qui en surgissent: la barbarie est un drame, plus qu’un concept. Ce constat n’est pas sans poser problème: il révèle un emploi fortement idéologique du terme, dans la mesure où il génère des représentations intégrées au discours d’une culture donnée, sans être pour autant établi sur un sémantisme notionnel fi xe. Montaigne avait déjà formulé ce paradoxe interne à l’adjectif «barbare» et au substantif «barbarie»: «chacun appelle barbarie ce qui n’est pas de son usage»1 – donc chacun comprend son interlocuteur lorsque celui-ci emploie le terme «barbarie», mais personne n’entend ce terme.

Et Montaigne poursuit: «comme de vray il semble que nous n’avons autre mire de la verité et de la raison que l’exemple et idée des opinions et usances du païs où nous sommes»2. L’examen archéologique peut être l’un de ces instruments rationnels permettant de questionner ces «usances»: quel a été le sémantisme premier du mot «barbare»? comment l’Antiquité grecque, qui l’a forgé, l’a-t-elle utilisé? par quelles circonstances et selon quels détours parve un est-il pour jusqu’à notre Occident moderne, pour en féconder l’imaginaire? C’est cet itinéraire accidenté, à travers un millénaire ou presque qu’il s’agit ici d’emprunter, dans la référence à l’hellénisme, espace historique et culturel où naît ce terme dangereusement glissant. Certes, en le reprenant à son compte, la romanité forgera le substantif barbaria, générant par là-même une conceptualisation à laquelle la langue grecque n’avait pas songé. Mais ce serait une histoire seconde3, au sens où elle suit et prolonge la première. Cette enquête se propose donc d’examiner exclusivement les aventures du vocable barbaros dans le vaste champ de l’hellénisme. Elle passera par les trois grands moments qui en constituent les subdivisions historiques canoniques: les âges archaïque,

1. Montaigne, I, XXXI.2. Ibid.3. Le sémantisme des mots barbarus et barbaria a notamment été étudié par Emilia Ndiaye

dans de nombreux travaux. Voir notamment: «L’étranger «barbare» à Rome: essai d’analyse sémique».

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Le barbare, une construction fi ctionnelle?

classique, hellénistique – ou, considérés dans une perspective littéraire: les moments «épique», «rhétorique», et «romanesque», subdivision évidemment simplifi ante ici posée comme points de référence. Il peut être intéressant en effet de considérer à quel point chacun de ces vastes moments constitue aussi une étape fondatrice pour le mot «barbaros» et surtout pour l’élaboration d’un réservoir iconographique qui continue d’alimenter le paysage mental de l’Occident moderne.

1. C’est à l’épopée homérique que le vocable barbaro- doit sa première apparition littéraire, au sein d’un contexte dramatique associé à la représentation de l’altérité. Encore celle-ci n’est-elle nullement défi nie par la négative. Au chant II de l’Iliade, l’aède organise le défi lé de fi gures étrangères, dans le «catalogue des Troyens»4  où leur représentation ne relève pas de l’étrange mais de l’extériorité: elle est de ce point de vue «objective», pour autant que puisse l’être la mimésis engagée par toute poétique; tout au moins apparaît-elle affranchie de tout jugement et surtout d’une quelconque distinction d’essence entre Troyens et Grecs. À cette extériorité le poème donne en outre une représentation sonore qui doit en partie à la luxuriance onomastique, reprenant le procédé déjà utilisé dans le «Catalogue des vaisseaux» qui représentent les guerriers grecs5. Mais là où les auditeurs de l’aède pouvaient reconnaître des fi gures familières, issues de leur royaume ou des royaumes voisins, ils entendent avec le «catalogue des Troyens» une musique venue de l’extérieur, associée aux consonances de l’altérité ainsi proposée à leur découverte: l’onomastique active le levier de la curiosité au sein de la fi ction, tandis qu’émerge une poétique du nom, à laquelle il revient d’exprimer l’extériorité. Plus encore, si les noms sollicitent des paysages extérieurs, les hommes intégrés à ces espaces ne sont pas caractérisés comme tels: les guerriers orientaux ne se distinguent pas des grecs par la qualifi cation. L’étranger n’est pas étrange. C’est même tout le contraire: un transfert du qualifi catif s’opère d’un catalogue à l’autre, annulant toute distinction. L’aède chante le guerrier indifféremment, qu’il soit hellène ou asiatique: Énée est «noble»6, comme Achille dans le catalogue des vaisseaux7; Archéloque et Acamas sont «bien instruits de tous combats»8, comme Philoctète et ses rameurs9, les tribus des Pélasges sont dits «fameux par la lance»10, tel encore ce même Philoctète, «archer expert»… La liste est longue de ces qualifi catifs où la fameuse épithète homérique joue de l’héroïsme commun, et jamais de la discrimination. La poétique épique se tient à distance de tout essentialisme, et l’étranger est un avatar du même.

4. Homère, Iliade, chant II, vers 816-877.5. Ead., chant II, vers 484-780.6. Ead., chant II, vers 818.7. Ead., chant II, vers 768.8. Ead., chant II, vers 823.9. Ead., chant II, vers 718-720.10. Ead., chant II, vers 840.

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Isabel Dejardin

Un seul adjectif émerge toutefois, qui pourrait déroger à cette règle, et constitue dans la langue homérique un hapax non seulement linguistique mais peut-être aussi culturel: les Cariens sont dits *barbarophonoi, littéralement «émettant un son barbare»11. Ce qualifi catif peut en effet apparaître comme l’indice d’une discrimination. Encore l’entendons-nous au travers de toutes les strates temporelles, historiques et culturelles qui conditionnent notre réception; dans l’environnement textuel qui est le sien, le terme ne semble pas résonner autrement que comme une précision objective apportée à ce paysage. Comment donc traduire l’adjectif *barbarophonos dans la langue homérique? Jean-Louis Backès propose une périphrase12: «dont barbare est le langage»; plus anciennement, Paul Mazon posait le syntagme «au parler barbare», qui actualise la proposition de Leconte de Lisle en 1866, «au langage barbare»… Langage, parler, ou simplement «son émis», ce que suppose le terme *phonos entrant dans la composition de l’adjectif grec: il ne s’agirait fi nalement que d’apporter une contribution à ce paysage sonore soutenu par les noms – un paysage dans lequel les Cariens introduiraient une coloration rocailleuse, selon l’acception communément admise, et dont on peut à bon droit douter13.

En bref, il est diffi cile de cerner si l’aède suscitait une émotion particulière en énonçant ce terme, issu d’une concaténation inédite; son usage dans le contexte du «Catalogue des Troyens» laisse même supposer le contraire. Pour l’enquête, il apporte néanmoins un double enseignement: d’abord, c’est un adjectif, qui n’a donc pas pour but de désigner mais de caractériser – de donner à voir ou à entendre; s’il s’agit de qualifi er, c’est qu’il n’y a pas d’identité conçue comme barbare dans ce monde archaïque: on n’est pas barbare, on parle «en barbare». Ensuite, le mot *barbaros n’a pas d’autonomie, puisqu’il entre en composition: le sémantisme initial de *barbaros s’inscrit dans l’interdépendance à un autre sémantisme: l’un et l’autre se conditionnent – il n’est pas certain d’ailleurs que son emploi ait jamais cessé de nécessiter des corollaires, même dans nos langues européennes.

À ces deux remarques, on peut ajouter que la représentation de l’altérité à l’époque archaïque est multiple. Et cette multiplicité doit principalement à deux orientations: l’une empirique, l’autre fi gurative. Sur le premier plan, l’adjectif *barbarophonos énonce un possible, une potentialité de l’altérité, parmi beaucoup d’autres. Et en effet, dans cette Grèce archaïque, l’altérité est d’abord une expérience. Mais celle-ci est concurrencée par le plan fi guratif, où s’exprime une appréhension: la représentation de l’altérité conçue comme dangereuse ne doit alors plus à l’homme mais au monstre, fi gure exponentielle d’un autre incompréhensible et possiblement mortifère – monstres de l’Odyssée ou de la Théogonie hésiodique. L’altérité radicale s’assume donc dans l’espace du fantasme poétique, tandis que dans celui du réel, l’Autre est une donnée pragmatique, intégrée aux realia du monde archaïque: sa représentation doit à des rencontres multiples, dans une interaction constante des territoires et des peuples.

11. Ead., chant II, vers 867.12. Backès 2013.13. cf. infra.

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Le barbare, une construction fi ctionnelle?

Voilà en tout cas l’acte de naissance d’un réseau sémantique que la langue grecque développera, un réseau dont la matrice est ce radical *barbaro-, et qui se déploie en une famille étendue – notons par exemple les verbes *barbarizein, «parler une langue barbare», ou *barbarein, «devenir barbare»… Néanmoins, comme il a déjà été signalé, la langue grecque n’a jamais formé de substantif sur ce radical, sinon par un syntagme: to barbaron, «le fait barbare». Or le neutre n’engage pas une défi nition mais un constat, un regard dont il formule l’objet. Aussi sa substantivation permet-elle d’apercevoir l’une des données majeures de cette représentation antique de l’autre: son inscription première dans la praxis. Dès lors, il peut être plus aisé de comprendre comment le «fait barbare» (to barbaron) a pu davantage féconder une iconographie poétique qu’une réfl exion conceptuelle. Il apparaît plus attaché à la fi ction qu’à la diction, ce qui détermine son sémantisme et ses usages.

Tout commence donc par un son. L’apparition du radical «barbaro-» dans la langue homérique l’inscrit dans une immédiateté sensorielle. L’altérité est d’abord une expérience, associée à la multiplicité de rencontres entre les peuples d’Asie et d’Occident, une réalité formulée par ce mythe que rappelle Eschyle avec un vibrato particulier, dans le songe de la reine Atossa:

J’ai cru voir venir à moi deux femmes magnifi quement vêtues, l’une parée à la mode perse, l’autre à la mode dorienne, toutes deux surpassant de loin les femmes d’aujourd’hui, à la fois par leur taille et par leur beauté sans tache. C’étaient deux sœurs du même sang; mais elles habitaient, l’une la Grèce, que le sort lui avait attribuée, l’autre la terre barbare14.

Les territoires interagissent dans une contiguïté que souligne le thème de la sororité. C’est seulement à l’aube de l’âge classique que cette interaction donne lieu à une cristallisation dramatique, comme le souligne la suite du récit exposé par Atossa:

Une querelle, à ce que je crus voir, s’était élevée entre elles. Mon fi ls, s’en étant aperçu, entreprit de les contenir et de les calmer, puis les attela à son char et leur mit les courroies sur le cou. Alors l’une d’elles se redressait sous son harnais et offrait aux rênes une bouche docile; mais l’autre regimbait, et soudain, de ses deux mains, elle met en pièces les agrès du char, qu’elle entraîne de force en dépit des rênes, et elle brise le joug en deux15.

La vision d’Atossa souligne l’irréversibilité de la rupture, soit, dans la langue eschyléenne, une crise (stasis) qui ne sera pas surmontée. Le lien de consanguinité une fois brisé, le confl it fratricide qui se solde dans l’histoire par les guerres médiques inaugure une nouvelle ère pour la civilisation grecque.

Ce recommencement doit non seulement à la consécration d’Athènes dans le monde grec, grâce à la victoire de Salamine en 480, mais aussi à l’impulsion

14. Eschyle, Les Perses, vers 181-187, p. 48. 15. Ibid., vers 188-196.

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d’une interrogation majeure touchant à l’ordre même de la civilisation. Car cette victoire laisse Athènes pantoise: comment a-t-elle pu vaincre l’immense empire perse? L’événement suscite impulse alors une nécessité heuristique: rechercher les sources de cette supériorité pour le moins improbable que l’hellénisme vient d’acquérir. La geste historique engendre alors un nouveau discours: l’*historiè, discours de celui qui sait parce qu’il a vu. C’est le projet d’Hérodote que de saisir les causes de la supériorité hellène sur les «barbares», sans l’installer toutefois sur une quelconque discrimination. L’œuvre historiographique est d’abord de mémoire: il s’agit d’écrire pour que «les grands exploits accomplis soit par les Grecs, soit par les Barbares, ne tombent pas dans l’oubli»; mais il s’agit aussi de porter à l’intelligence les causes de la guerre entre l’Europe et l’Asie mineure16. Mémoriser et fonder en légitimité l’aura toute neuve de l’hellénisme, donc; faire œuvre monumentale en même temps que rhétorique, puisque au logos est confi ée la faculté d’articuler les faits dans une logique consécutive.

Mais de ce prologue découle une ambiguïté perturbante pour sa réception moderne: Hérodote installe la relation entre Grecs et Barbares sur une antithèse féconde, mais la lisse aussitôt par un parallélisme qui accorde une égale valeur aux uns et aux autres. Or cette ambiguïté persistera dans le discours historiographique classique: Thucydide non plus, ni Xénophon n’adopteront le principe d’une antithèse radicale. L’*Historiè s’oppose ainsi à une essentialisation du «fait barbare»: elle en fait émerger les fondations de sa représentation, notamment le nombre, le luxe, la servilité et son corollaire, le despotisme; mais elle ménage aussi la représentation d’hommes dont l’humanité reconnue s’oppose à toute réduction – Cyrus, roi perse, commande à des barbares, c’est-à-dire à des peuples asiatiques, mais sa fi gure constitue un paradigme politique positif. Voilà qui dissipe l’ambiguïté pressentie: dans la langue de l’historiographie comme auparavant chez Homère, le mot «barbare» demeure l’expression d’une différence territoriale sans inférer d’automatisme discriminant. Le mot barbaros demeure «objectif», comme il l’était dans le *barbarophonos homérique, et n’engage donc pas encore de réduction essentialiste.

Cette réduction, il revient à la rhétorique de l’avoir opérée. Sa vocation logique creuse le défi cit d’essence attaché dès lors à l’adjectif *barbaros. En témoigne ce passage du Panégyrique d’Athènes, où l’orateur Isocrate oppose fermement le modèle hellène aux réalités dites barbares:

Il est impossible à des gens élevés et gouvernés comme ils sont d’avoir quelque vertu et, dans les combats, de dresser un trophée sur les ennemis. Comment pourrait-il exister soit un général habile, soit un soldat courageux avec les habitudes de ces gens dont la majorité forme une foule sans discipline ni expérience des dangers, amollie devant la guerre, mais mieux instruite pour l’esclavage que les serviteurs de chez nous, et chez qui ceux qui ont la plus haute réputation, sans nulle exception, n’ont jamais vécu avec le

16. Hérodote, «Prologue».

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souci de l’intérêt des autres ou celui de l’État, et passent tout le temps à outrager les uns, à être esclaves des autres, de la façon dont les hommes peuvent être le plus corrompus? Ils plongent leur corps dans le luxe par suite de leur richesse, ils ont l’âme humiliée et épouvantée par la monarchie, ils se laissent inspecter à la porte du palais, ils se roulent à terre, ils s’exercent de toute manière à l’humilité en adorant un mortel qu’ils nomment dieu et en se souciant moins de la divinité que des hommes17.

Comment recevoir la radicalité de cette déclaration, de la part d’un auteur qui pourtant n’apparaît pas dans le paysage athénien classique comme le parangon de la violence politique? Car une violence s’exerce bien ici, d’abord parce qu’elle entérine la fi xation du discours, ensuite et surtout parce qu’elle pénètre l’éthos de l’autre pour le cristalliser en une image répulsive: aux barbaroi, Isocrate dénie la possibilité de la vertu (aretè), de la discipline (taxis), de la compétence politique établie sur le bien commun, pour leur attribuer en retour une forte appétence à l’esclavage (douleia), associé au goût tout aussi fort pour le luxe (truphè), terme qu’il faut comprendre dans sa relation conceptuelle avec l’asservissement aux passions. Isocrate est-il raciste? Là encore, ce serait une lecture anachronique. Ni raciste ni violent, il est «logique»: afi n de répondre à la nécessité pour Athènes de légitimer sa suprématie par une identité valeureuse, aristocratique au sens étymologique du terme, l’orateur active le principe du miroir inversé: il s’agit toujours d’une image, d’une vision de l’autre, mais validée par la géométrie plus que par l’empirisme.

2. Pourtant, cette même image instrumentalisée devient un paradigme, un outil de pensée: l’expérience est fi ltrée par une représentation mentale fi xe, l’eidos. Le discours rhétorique, selon une méthodologie qui lui est propre, engendre une catégorie, ou un genre. Et il est à noter l’emploi du pluriel chez Isocrate: les barbaroi, ce sont les non-hellènes, c’est-à-dire les peuples qui ne bénéfi cient pas de la paideia, garantie de la vertu politique. Ils deviennent les habitants d’un espace essentiellement mental, comparable à des «antipodes». Le paradigme peut alors enfanter une série de stéréotypes: du «fait barbare», l’oraison explore les coordonnées attachées à la formulation d’une existence humaine conceptualisée, articulée avec les tropismes du discours philosophique contemporain. Quatre coordonnées entrent ainsi dans cette représentation: l’espace – la désignation de peuples comme barbaroi s’intègre à une chorographie –; le temps historique, réfl échi dans le fait barbare, le to barbaron; la situation cosmique – soit la place de l’homme entre les pôles diurne et nocturne –; enfi n, et c’est peut-être le repère fondamental, le rapport au langage, ou plus précisément au logos entendu comme une modalité majeure de l’être au monde. Ces quatre coordonnées se déclinent dans la représentation du «fait barbare»: son espace est extérieur à l’œkoumène; son organisation politique est antérieure à celle de la cité athénienne – c’est notamment le propos de Thucydide –; son essence est nocturne; enfi n, son fonctionnement est hors-logos.

17. Isocrate, Panégyrique, § 150-151.

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Certes, ces coordonnées et leur infl uence sur la manière dont se pense alors le «fait barbare» se rencontrent chez les historiens grecs; mais là où l’historiographie nuance en individualisant, la rhétorique radicalise en essentialisant. Pourquoi? peut-être parce que ces quatre caractéristiques fondatrices de la représentation attachée au «fait barbare», l’extériorité, le despotisme, le nocturne, et l’alogie, ne sont appliquées dans l’istoriè qu’à l’évocation plurielle du fait barbare, et cessent d’être actives dès que l’historien considère un individu singulier issu de ce même collectif – on se souvient de Cyrus. Or la rhétorique accorde la prééminence au collectif, par une pulsion politique qui l’amène à le défi nir en engageant l’usage de l’antithèse: la polis grecque est ce qui s’oppose aux barbaroi. Dans ce processus, c’est donc bien moins la barbarie qui s’invente, que la cité grecque, laquelle trouve dans le procédé du miroir inversé le moyen de se reconnaître et de se dire. C’est peu ou prou ce même procédé qui se retrouve dans le discours philosophique: de Platon à Aristote, l’usage du terme «barbaros» et des connotations qui lui sont associées, permet de signifi er ce que Fulcran Teisserenc appelle une «coupure  d’essence»18. Le mot est important, notamment pour l’horizon conceptuel qu’il révèle et que la rhétorique s’approprie, dans ce dialogue fécond entre le philosophe et le rhéteur: c’est autour du postulat attaché à l’essence que le groupe se fédère, d’autant plus aisément que «la notion d’essence, élaborée en philosophie, est néanmoins familière à la pensée du sens commun, et [que] ses rapports avec tout ce qui l’exprime sont conçus sur le modèle du rapport de la personne avec ses actes»19. L’usage rhétorique de cette notion l’inscrit dans une praxis, laquelle consolide sa performance par la discrimination, en énonçant un «défaut d’essence», condition nécessaire à la fédération du groupe20. La défi nition de l’essence se consolide donc par le contrepoint: l’isonomie, socle de l’exercice démocratique, est ce qui se phénoménalise dans l’opposition au despotisme «barbare»; plus largement, l’identité athénienne s’affi rme comme détentrice du logos, dans l’antithèse à l’alogie barbare. C’est ce qu’illustre par exemple, pour la méthodologie et pour l’articulation entre humanité et logos, ce passage des Politiques d’Aristote consacrés aux différents régimes observables en son temps:

Après celle-là, je placerai une seconde espèce de royauté, que l’on trouve établie chez quelques peuples barbares: en général, elle a les mêmes pouvoirs à peu près que la tyrannie, bien qu’elle soit légitime et héréditaire. Des peuples poussés par un esprit naturel de servitude, disposition beaucoup plus prononcée chez les barbares que chez les Grecs, dans les Asiatiques que dans les Européens, supportent le joug du despotisme

18. Fulcran Teisserenc, «Du bon usage de la barbarie», in La Vie des ideés, 26 janvier 2012.19. Perelman et Olbrecht-Tyteca 2008, p. 440 – c’est nous qui soulignons. 20. «Un groupe qui rejette immédiatement, et quasi automatiquement, tout membre dont le

comportement est aberrant, qui ne consent jamais à servir de caution à ses membres, se rapproche le plus de la situation de la personne parfaite», Perelman et Olbrecht-Tyteca 2008, p. 437 – nous soulignons. Dans la perspective de cette analyse, le groupe qui se forme excède le cadre de la cité: c’est celui de l’«humanité raisonnable», inscrite dans l’espace du logos.

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sans peine et sans murmure; voilà pourquoi les royautés qui pèsent sur ces peuples sont tyranniques, bien qu’elles reposent d’ailleurs sur les bases solides de la loi et de l’hérédité. Voilà encore pourquoi la garde qui entoure ces rois-là est vraiment royale, et qu’elle n’est pas une garde comme en ont les tyrans. Ce sont des citoyens en armes qui veillent à la sûreté d’un roi; le tyran ne confi e la sienne qu’à des étrangers. C’est que là, l’obéissance est légale et volontaire, et qu’ici elle est forcée. Les uns ont une garde de citoyens; les autres ont une garde contre les citoyens21.

Renversons chacune des expressions ici soulignées, et nous retrouvons formulée l’appétence déclarée par Athènes à une isonomie installée sur «l’esprit de liberté», sur la capacité de «murmurer» et sur celle de choisir plutôt que d’obéir. «Sans murmure», dit notamment le Stagirite: le silence politique étaie l’assimilation essentialiste des barbares à la servitude, tandis que la discrimination négative joue de cette articulation fondamentale de la cité démocratique au logos. Se formule ainsi la représentation du barbare comme un être hors-logos.

3. De ce survol, il ressort que la représentation du «fait barbare» à l’âge classique doit à deux langages, lesquels peinent parfois à s’accorder: celui de l’histoire, et celui de la rhétorique. Dissociation qui croise celle que le même Aristote pose entre *istoriè et *mimésis dans la Poétique: alors que la première catégorie discursive suppose une relation au réel aussi fi dèle que possible, la seconde détecte et exhausse les potentialités de ce même réel. On peut ainsi distinguer entre la curiosité dont témoigne le discours historiographique lorsqu’il considère «le fait barbare», ce qui le conduit à intégrer la merveille (thôma), et les images qu’élabore le discours poétique dans une double perspective heuristique et apotropaïque. En témoignent les formes de la fi ction à l’âge classique: le théâtre grec développe l’iconographie attachée au «fait barbare»22 – naît alors ce que l’on pourrait appeler une barbarie poétique, ou fi ctionnelle. Or cette fi guration des barbares dans le drame classique23 entre en forte coïncidence avec la représentation du «fait barbare» dans le discours rhétorique. Une évolution conjointe se dessine qui aboutit chez Euripide, le dernier des Tragiques, à une représentation du fait barbare en totale conformité avec celle qu’en livre la rhétorique à la même époque. Car à l’aube de ce théâtre, l’individu barbare l’était en toute neutralité: Atossa, dans Les Perses, est avant tout un être humain en proie à la désespérance; le même dramaturge s’interroge ensuite dans l’Agamemnon: comment dire que Cassandre ne comprend pas les mots que lui adresse Clytemnestre? En lui attribuant une «langue barbare» qui peut aussi être le langage de l’hirondelle:

21. Aristote, Politiques, III, IX, §3 – 1284b.22. Sur cette fi xation poétique des images dans la tragédie grecque de l’âge classique, voir

Edith Hall 1991.23. L’expression inclut la comédie, qui n’est pas en reste dans cette élaboration, notamment

l’œuvre d’Aristophane.

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LE CHOEUR (à Cassandre). – C’est à toi qu’elle vient de parler, et en termes clairs. Puisque tu es prise dans les rets fatals, obéis, si tu veux obéir; mais peut-être t’y refuseras-tu. CLYTEMNESTRE. – Si elle n’a pas un langage inconnu et barbare, comme l’hirondelle, je veux bien essayer en lui parlant de faire entrer la persuasion dans son cœur24.

Eschyle se souvient donc des Cariens barbarophones, mais aussi de ce chant III de l’Iliade où ils «marchaient, à cris et à clameurs, comme des oiseaux»… Comme Homère, le poète cherche à restituer le réel de l’altérité en passant à nouveau par l’expérience, installée sur la sensorialité. Au cours du Ve siècle en revanche, le barbare, fût-il singulier, devient un stéréotype, inquiétant ou raillé: c’est Médée, la magicienne inquiétante qui rapporte de l’Orient la somme de ses maléfi ces25, ou Thoas, roi balourd berné par Iphigénie26. Le lien entre représentation dramatique et stéréotype éthique se confi rme, dans une poétique tragique articulée avec l’exercice civique: l’essentialisation du «fait barbare» joue d’un réservoir de topoi pour permettre à l’essence athénienne de se défi nir. Sur cette représentation dramatique plane l’ombre portée de Dionysos, qui trouve alors dans la «barbarie poétique»  l’une de ses expressions majeures: les barbaroi émanent de ce monde obscur, pulsionnel qu’incarne la fi gure dionysiaque, justement venue d’Asie27.

Or, si l’on accepte l’idée de «barbarie poétique», on se demandera où situer la rhétorique dans ces ordres discursifs: ni dans l’*istoriè ni dans la *mimésis, si l’on continue à suivre Aristote, elle représenterait une troisième voie. Mais, à bien y regarder, lorsqu’il représente le «fait barbare», l’orateur en revient à ce fonctionnement mimétique qui assure la performance discursive et soutient l’actio: la communication avec son auditoire et son espace mental engage des topoi, eux-mêmes référés à un éthos – attitudes, telles que la proskynèse, et comportements politiques déterminés par le despotisme. L’essentialisation du «fait barbare» dans l’espace rhétorique est fi ltrée par ce réservoir de topoi et de motifs qu’il partage avec le théâtre.

4. La fi n de l’âge classique propose ainsi une double voie à la représentation de l’altérité: la voie de l’*historiè, et celle de la mimésis. Certes, comme l’a montré François Hartog dans Le Miroir d’Hérodote28, il y a interaction entre

24. Eschyle, Agamemnon, vers 1047-1053, trad. Émile Chambry.25. Euripide, Médée – la pièce est représentée en 431 avant notre ère.26. Euripide, Iphigénie en Tauride – la pièce est représentée en 412 avant notre ère.27. La violence que déchaîne Dionysos dans Les Bacchantes d’Euripide, composée en 406

avant notre ère, interroge l’imperméabilité du pulsionnel et du rayonnement logique; dans le taragmos, trouble généralisé, s’illustre aussi l’impossibilité désormais soldée de la rencontre entre fait barbare et logos. Il est notable, si l’on accepte cette lecture, de mesurer la victoire de la divinité barbare, une victoire qui dit la menace exercée par cette déferlante orientale.

28. «Ainsi, quand Hérodote commence son chapitre par les Gètes, oi athanatizontes, les Gètes, ces «faiseurs d’immortalité», il intervient dans le récit et il intervient même d’autant plus, si l’on

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l’histoire antique grecque et la rhétorique, notamment parce que le discours historiographique en revient fi nalement toujours à l’autopsie, au regard sur soi... Néanmoins, de ces deux voies, c’est manifestement l’orientation fi ctionnelle qui l’emporte à l’âge hellénistique, confortée par un climat politique qui entérine le schisme. Après la mort d’Alexandre, sorte de Janus bi-frons entre Occident et Orient, toute porosité mentale entre les deux espaces semble fortement compromise, voire impossible. En témoignent les écrits de Ctésias: son discours, autoproclamé historiographique, est en réalité adossé à une représentation parfaitement poétique du «fait barbare», cumulant les anecdotes exemplaires d’une altérité scandaleuse et fantasmatique, telles que celle-ci:

Un certain Mage, nommé Sphendadates, ayant commis quelque faute, Tanyoxarcès, le condamna au fouet. Le Mage vint trouver Cambyse. Il ne fut pas plutôt arrivé qu’il accusa Tanyoxarcès, frère du Roi, de lui dresser des embûches; et pour marque qu’il s’était révolté, il ajouta que si on le mandait en Cour, il n’y viendrait pas.Sur cette accusation, Cambyse manda son frère. Tanyoxarcès, retenu dans son gouver-nement par des affaires importantes, différa quelque temps de se rendre auprès du Roi. Ce délai rendit le Mage plus hardi à l’accuser. […] [Cambyse] manda son frère pour la troisième fois. Tanyoxarcès se rendit enfi n à ses ordres. Le Roi l’embrassa, bien résolu cependant de le faire mourir; mais il voulait que ce fût à l’insu d’Amytis. Ce projet fut exécuté, et voici de quelle manière il s’y prit par les conseils du Mage. Sphendadates ressemblait parfaitement à Tanyoxarcès. Il conseilla à Cambyse de le condamner publi-quement à avoir la tête tranchée pour avoir accusé faussement le frère du roi, de faire mourir cependant secrètement Tanyoarcès et de revêtir le Mage des habits de ce Prince, afi n qu’on le prît à la vue de ces ornements pour Tanyoxarcès. Ce pernicieux conseil s’exécuta. On fi t boire à Tanyozarcès du sang de taureau; il en mourut. Le Mage se revêtit des habits de ce Prince; on le prit pour Tanyoxarcès. La méprise dura longtemps; personne n’en eut connaissance, excepté Artasyras, Bagapates et Ixabates, les seuls à qui le Roi avait confi é ce secret29.

Pouvoir obscur des mages et occultisme du pouvoir politique, mensonge, trahison, crédulité: autant de topoi devenus des tropismes attachés au fait barbare. La mimésis a vaincu.

À cette victoire collaborent des conditions politiques qui exercent une sérieuse menace sur l’identité des cités grecques, confrontée à des phénomènes de brouillage. À l’aube du IIIe siècle avant notre ère, le premier d’entre eux doit au régime imposé par les Diadoques, lequel, quoique offi ciellement référé à une autorité gréco-macédonienne, intègre des pratiques auliques de type oriental – un contexte qui met à la peine des cités grecques soucieuses de maintenir leur

admet, avec Linforth 1918, que l’expression est une citation, sinon un sobriquet, qui fait surgir et tourne en dérision l’image des pythagoriciens; appliquée aux Gètes, elle provoque un effet de surprise et en même temps les catalogue. On peut encore rappeler la remarque faite à propos de theos, le ciel, qui est importation subreptice d’une vision grecque du monde, et donc une façon de jauger le comportement des Gètes, en train de décocher des fl èches vers le ciel: attitude aussi vaine que dérisoire de qui ne sait assurément pas ce qu’il fait». Hartog 1980, pp. 386-387.

29. Ctésias, X, Bibliothèque de Photius.