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Banda della Magliana
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Banda della Magliana
Banda della Magliana
Area di origine Roma
Aree di influenza Roma, Lazio
Periodo 1976 - in attività
Boss Franco Giuseppucci
Sottogruppi Enrico De Pedis
Maurizio Abbatino
Nicolino Selis
Alleati Clan dei Casamonica
Cosa nostra
NCO
Rivali Clan Proietti
Attività Traffico di droga
Usura
Sequestri di persona
Rapine
Traffico di armi
Prostituzione
Corruzione
Omicidi
Pentiti Maurizio Abbatino
Fulvio Lucioli
Claudio Sicilia
Antonio Mancini
Banda della Magliana è il nome attribuito ad una organizzazione criminale
italiana, operante nella città di Roma nel Lazio, con diverse ramificazioni. Il
nome, attribuito alla banda dalla stampa dell'epoca, deriva da quello del
quartiere romano della Magliana, nel quale risiedevano la maggior parte dei
fondatori.
Nata nella seconda metà degli anni settanta del XX secolo, la banda fu la
prima organizzazione criminale romana a percepire non solo la possibilità di
unificare in senso operativo la frastagliata realtà della malavita di Roma, ma
anche a sentire l’esigenza sia di diversificare le proprie attività
delinquenziali che andavano dai sequestri di persona, al controllo del gioco
d'azzardo e delle scommesse ippiche, alle rapine e al traffico di droga, sia di
estendere la propria rete di contatti alle principali organizzazioni criminali
italiane, da cosa nostra alla camorra, nonché ad esponenti della massoneria
in Italia, oltre che a numerose collaborazioni con elementi della destra
eversiva, della finanza e fu coinvolta in presunti rapporti tra servizi segreti
italiani e criminalità.
La storia dell'organizzazione, fatta anche di legami mai del tutto chiariti con
politica e apparati istituzionali statali, vide la banda coinvolta in alcune
vicende quali l'omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, il coinvolgimento
nel Caso Moro, i depistaggi nella strage di Bologna, i rapporti con
l'Organizzazione Gladio e con l'omicidio del banchiere Roberto Calvi, fino al
rapimento di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori ed all'attentato a Giovanni
Paolo II. Secondo alcune dichiarazioni rilasciate nel 2012 da Antonio Mancini
- uno dei principali boss - la banda sarebbe ancora in attività.[1]
Indice [nascondi]
1 La nascita
1.1 Il contesto
1.2 L'unione delle batterie
1.3 Provenienza geografica dei gruppi
1.3.1 Gruppo della Magliana
1.3.2 Gruppo di Testaccio-Trastevere
1.3.3 Gruppo di Ostia-Acilia
1.3.4 Personaggi minori
1.4 Il sequestro del Duca Grazioli
2 La conquista del potere
2.1 L'omicidio di Franco Nicolini
2.2 Il traffico di stupefacenti
2.3 Il deposito di armi al Ministero della Sanità
2.4 L'omicidio Giuseppucci e lo scontro col clan Proietti
3 I rapporti con la destra eversiva
3.1 Con il professor Aldo Semerari
3.2 Con i Nuclei Armati Rivoluzionari
4 L'intreccio con politica e servizi deviati
4.1 Il coinvolgimento nell'omicidio Pecorelli
4.2 Il legame con il sequestro Moro
4.3 I depistaggi nella Strage di Bologna
5 La crisi
5.1 Le lotte intestine
5.2 L'omicidio di Nicolino Selis
5.3 L'omicidio Balducci
5.4 La morte di Abbruciati
5.5 I primi pentiti
6 Il declino
6.1 La faida interna
6.2 La morte di De Pedis
6.3 Il pentimento di Abbatino
6.4 I processi
7 Gli anni 2000
7.1 L'omicidio Frau
7.2 L'omicidio Mozzilli
7.3 I rapporti con la politica
7.4 La recrudescenza
8 Personalità e vittime
9 Filmografia
9.1 Cinema
9.2 Televisione
10 Note
11 Bibliografia
12 Voci correlate
13 Altri progetti
14 Collegamenti esterni
La nascita[modifica | modifica wikitesto]
Il contesto[modifica | modifica wikitesto]
« Per cogliere la genesi di questa associazione occorre andare indietro nel
tempo, sino all'ultimo scorcio degli anni settanta. A quel tempo, a Roma, si
registrò la tendenza degli elementi più rappresentativi della malavita locale
a costituirsi in associazione. Sino ad allora, i Romani, dediti ai reati contro il
patrimonio, quali furti, rapine ed estorsioni, avevano consentito, di fatto, a
elementi stranieri, quali, ad esempio i Marsigliesi, di gestire gli affari più
lucrosi, dal traffico degli stupefacenti ai sequestri di persona. Una volta
presa coscienza della forza derivante dal vincolo associativo, fu agevole per
i Romani riappropriarsi dei commerci criminali, abbandonando
definitivamente il ruolo marginale al quale erano stati relegati in precedenza
»
(Ordinanza di rinvio a giudizio[2])
La struttura della malavita romana storicamente era sempre stata priva di
un'organizzazione verticistica o piramidale, mantenendo costantemente nel
tempo la dispersione dei suoi componenti in una moltitudine di piccoli
gruppi da quattro o cinque membri al massimo, ognuno padrone del proprio
territorio, le cui entrate finanziarie erano dovute a piccoli traffici, riciclaggio,
gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, contrabbando di
sigarette, furti e rapine.
Tale consuetudine cambiò solo all'inizio degli anni settanta quando, con
l'avvento del clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e
Jacques Berenguer trasferitisi nella capitale per dare vita ad un redditizio
business dello spaccio di eroina e, soprattutto, dei sequestri di persona, si
determinò un deciso cambiamento dei rapporti di forze all'interno della
piccola e frammentata malavita capitolina che vide i Marsigliesi imporre la
loro legge ed esercitare un certo controllo sul territorio, facendo fare così un
notevole salto di qualità alla piccola delinquenza di borgata romana.
Nel 1976 gli arresti dei principali boss del clan francese sancirono la
definitiva uscita dalla scena criminale romana dei Marsigliesi. Tale vuoto
rese possibile l'avvento di piccoli boss romani che, fiutato l’affare, iniziarono
a organizzarsi in alleanze (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”, un
nucleo di quattro o cinque elementi che si occupava di controllare la propria
zona, nella quale era detenuto il potere esclusivo) coinvolgendo malavitosi
provenienti dai vari quartieri capitolini come Trastevere, Testaccio, Ostiense
e Magliana.[3]
Fu questa la situazione nella quale Franco Giuseppucci, detto er Fornaretto
e in seguito ribattezzato er Negro, un buttafuori di una sala corse di
Ostia[4] con molte conoscenze nell'ambiente della mala romana, doti di
leadership e grande carisma, iniziò a compiere i primi piccoli reati e a
comparire nei verbali della polizia. Vista la sua intraprendenza, considerato
persona affidabile dai malavitosi più esperti, spesso e volentieri le varie
batterie di rapinatori affidavano proprio a lui la custodia delle loro armi, che
Giuseppucci custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà
parcheggiata al Gianicolo, sulla riva del fiume Tevere.[4] Quando però, nel
1976, tale nascondiglio venne scoperto dai Carabinieri, Giuseppucci fu
arrestato ma, grazie al vetro rotto della roulotte, in sede processuale venne
a mancare il presupposto probatorio della sua consapevolezza che
all'interno della roulotte fossero nascoste delle armi e la pena fu contenuta
a qualche mese di detenzione[4].
« Negli anni settanta, nella zona dell'Alberone si riunivano varie "batterie" di
rapinatori, provenienti anche dal Testaccio. Ne facevano parte, oltre ad
alcune persone che non ricordo, Maurizio Massaria, detto "rospetto", Alfredo
De Simone, detto "il secco", i tre "ciccioni", cioè Ettore Maragnoli, Pietro "il
pupo", e mi sembra Luciano Gasperini - questi tre, persone particolarmente
riconoscibili per la mole corporea, svolgevano più che altro il ruolo di basisti
e di ricettatori - Angelo De Angelis, detto "il catena", Massimino De Angelis,
Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Mariano Castellani, Alessandro
D'Ortenzi e Luigi Caracciolo, detto "gigione". Tutti costoro affidavano le armi
a Franco Giuseppucci, chiamato allora "il fornaretto", ancora incensurato e
che godeva della fiducia di tutti. Questi le custodiva all'interno di una
roulotte di sua proprietà che teneva parcheggiata al Gianicolo. All'epoca
frequentavo l'ambiente dei rapinatori della Magliana, del Trullo e del
Portuense. Nel corso del tempo si erano cementati i rapporti tra me,
Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro ed Emilio Castelletti, ma
non costituivamo quella che in gergo viene chiamata "batteria", cioè un
nucleo legato da vincoli di esclusività e solidarietà, in altre parole non ci
eravamo ancora imposti l'obbligo di operare esclusivamente tra noi, né di
ripartire i proventi delle operazioni con chi non vi avesse partecipato. In
particolare, negli anni precedenti il 1978, ognuna delle suddette persone
operava o da sola ovvero aggregata in gruppi più piccoli o diversi. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992[5])
L'unione delle batterie[modifica | modifica wikitesto]
Giuseppucci, una volta scarcerato, riprese la sua attività di "custode" per
conto terzi, ma subì il furto del suo Volkswagen Maggiolino, a bordo del
quale si trovava una borsa piena di armi appartenente a Enrico De Pedis[4]
(detto Renatino, un passato da scippatore per poi passare, molto presto,
alle rapine a capo di una batteria di malavitosi dell’Alberone). Giuseppucci,
a seguito di alcune ricerche, venne a sapere che le armi erano entrate in
possesso di Emilio Castelletti, un rapinatore che all’epoca operava in una
batteria che aveva come punto di ritrovo un bar sito in via Gabriello
Chiabrera, nel quartiere San Paolo, capeggiata da Maurizio Abbatino (detto
Crispino per i suoi capelli ricci e noto per il sangue freddo nelle rapine e per
l'abilità come pilota di auto), e fu a questi che Giuseppucci si rivolse per
reclamarne la restituzione[6].
« Era accaduto che Giovanni Tigani, la cui attività era quella di scippatore,
si era impossessato di un'auto Vw "maggiolone" cabrio, a bordo nella quale
Franco Giuseppucci custodiva un "borsone" di armi appartenenti a Enrico De
Pedis. Il Giuseppucci aveva lasciato l'auto, con le chiavi inserite, davanti al
cinema "Vittoria", mentre consumava qualcosa al bar. Il Tigani, ignaro di chi
fosse il proprietario dell'auto e di cosa essa contenesse, se ne era
impossessato. Accortosi però delle armi, si era recato al Trullo e, incontrato
qui Emilio Castelletti che già conosceva, gliele aveva vendute, mi sembra
per un paio di milioni di lire. L'epoca di questo fatto è di poco successiva a
una scarcerazione di Emilio Castelletti in precedenza detenuto. Franco
Giuseppucci non perse tempo e si mise immediatamente alla ricerca
dell'auto e soprattutto delle armi che vi erano custodite e lo stesso giorno,
non so se informato proprio dal Tigani, venne a reclamare le armi stesse. Fu
questa l'occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci il quale si
unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che
fece sì che ci si aggregasse con lo stesso. La "batteria" si costituì tra noi
quando ci unimmo, nelle circostanze ora riferite, con Franco Giuseppucci. Di
qui ci imponemmo gli obblighi di esclusività e di solidarietà »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992[5])
Dall'incontro tra Giuseppucci, Abbatino e De Pedis nacque l'idea di
abbandonare definitivamente sia il ruolo marginale al quale erano stati
relegati in passato, che le divisioni di quartiere, allo scopo di unire le sorti e
appropriarsi delle attività criminali capitoline.[4] Quella che in un primo
tempo nacque come una semplice "batteria", una volta presa coscienza
delle propria forza, si trasformò molto velocemente in una vera e propria
"banda" per il controllo dei traffici illeciti romani che, da li' a poco, verrà
conosciuta come Banda della Magliana.
« L'aver costituito una "batteria" - parlo di "batteria" perché in un primo
momento ci dedicavamo quasi esclusivamente alle rapine - comportò che
ognuno di noi apportasse le armi di cui disponeva, che venivano custodite
inizialmente da incensurati ai quali ci rivolgevamo per questioni di sicurezza
e di fiducia o da familiari o in appartamenti disabitati di cui alcuni di noi
avevano la disponibilità. Nel frattempo la "batteria" si trasformò in "banda"
e si allargò, come ho già riferito, integrando altri partecipi - come a esempio
Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia e altri gruppi come quello
di Acilia e i "testaccini", talché si rese necessario provvedere altrimenti alla
custodia delle armi. La differenza tra "batteria" e "banda", oltre che nel
diverso numero dei partecipi, minore nella prima rispetto alla seconda, sta
anche nel ventaglio più ampio di interessi criminosi della "banda", rispetto
alla "batteria", la quale si dedica alla commissione di un unico tipo di reati,
a esempio le rapine. La "banda", peraltro, comporta l'esistenza di vincoli più
stretti tra i partecipi, vincoli che si traducono in obblighi maggiori di
solidarietà tra gli associati, i quali sono, pertanto, maggiormente impegnati
e tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi
dal dare esecuzione alle stesse. Ad esempio, tutti gli omicidi di cui ho
parlato, riconducibili alla banda, in quanto funzionali ad assicurarsi il
rispetto da parte delle altre organizzazioni operanti su Roma e a imporre un
predominio il più possibile incontrastato sul territorio, vennero di volta in
volta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momento
dell'esecuzione, di volta in volta affidata a chi aveva maggiori capacità per
assicurarne il successo con il minor rischio sia personale che collettivo,
soprattutto sotto il profilo preminente di assicurarsi l'impunità. Questo
comportava che tutti si era parimenti compromessi, quindi tutti parimente
motivati ad aiutare chi fosse stato colto in flagranza o comunque arrestato o
incriminato, sia a limitare i danni processuali, sia ad avere la tranquillità di
assistenza a sé e ai familiari. Inoltre, una volta costituiti in banda, sempre
al fine di garantirsi l'impunità, ci imponemmo l'obbligo di non avere stretti
legami di tipo operativo con gruppi esterni, che non fossero funzionali
all'accrescimento dei profitti e dello sviluppo delle attività programmate, il
che, unitamente alla pari compromissione, assicurava la massima
impermeabilità della nostra banda, nel senso che nessuno poteva
agevolmente venire a conoscere i particolari delle azioni a noi riconducibili »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992[5])
Ognuno dei tre portò nella nuova banda, oltre che la propria esperienza nel
crimine, le proprie conoscenze, nonché le armi da utilizzare nelle azioni,
oltre a tutta una serie di fidati sodali e compagni di vecchie batterie che
andarono così a formare le varie anime della Banda. Nei testaccini di
Giuseppucci e De Pedis, batteria che si muoveva tra i quartieri di Trastevere
e Testaccio, ad esempio, operavano l’amico di sempre Raffaele Pernasetti
detto er Palletta, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati[7], mentre tramite
Maurizio Abbatino, che invece faceva capo proprio alla zona della Magliana,
arrivarono nel gruppo Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro,
Emilio Castelletti e in seguito anche Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e
Claudio Sicilia.
Il boss della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, con il quale
Nicolino Selis mantenne i contatti per la fornitura di droga alla banda
A questi due gruppi se ne aggiunse poi un terzo, quello proveniente dalla
zona di Ostia e Acilia capeggiato da Nicolino Selis, detto il Sardo, che già da
qualche anno aveva subito varie detenzioni ed era già una figura di spicco
nel panorama criminale della zona Sud della Capitale, vantando numerosi
contatti con elementi di spicco della malavita organizzata e una stretta
amicizia con il boss campano Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova
Camorra Organizzata, conosciuto durante la detenzione in carcere. Proprio
tra le sbarre di Regina Coeli, dov'era recluso per tentato omicidio e furto nel
1975, assieme a un altro detenuto comune, Antonio Mancini (detto
Accattone), Selis pensò di mettere in pratica per Roma lo stesso tipo di
operazione che Cutolo stava realizzando a Napoli con la NCO. Un grande
progetto criminale, un'organizzazione malavitosa ben strutturata per la
gestione dello spaccio delle sostanze stupefacenti, con lo scopo ulteriore di
escludere dal territorio infiltrazioni di altre bande di diversa provenienza e
gettare così, dall'interno dell'istituto carcerario, le basi della trasformazione
organizzativa della mala romana, cosa che poi effettivamente avvenne, una
volta liberi, con quel "patto" che, assieme agli altri due gruppi criminali,
diede forma alla banda.
« Intorno al 1975, mentre ero detenuto, insieme a Nicolino Selis, Giuseppe
Magliolo e Gianni Girlando, nel carcere di Regina Coeli, si parlava del fatto
che a Napoli, tal Raffaele Cutolo - allora il personaggio non era noto come
poi lo sarebbe divenuto in seguito - stava mettendo in piedi
un'organizzazione criminale, allo scopo di escludere dal territorio infiltrazioni
di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale. Con il Selis, Magliolo
e Girlando erano presenti, ma non si tenevano in altissima considerazione le
loro opinioni - si decise di tentare su Roma la stessa operazione che
Raffaele Cutolo stava tentando su Napoli... Nicolino Selis, il quale aveva una
grande stima per Raffaele Cutolo e per questo era portato a emularlo,
aveva trascorso diversi anni in carcere, pertanto, sebbene godesse di una
notevole reputazione all'interno del mondo penitenziario, non aveva, però,
grandi conoscenze all'esterno. Da parte mia, io venivo da tre anni d'intensa
attività criminale e le mie conoscenze all'esterno del carcere erano più
fresche e attuali, sicché, progettando un'organizzazione similare a quella
che stava mettendo in piedi Raffaele Cutolo, avevo maggiori possibilità di
indicare persone che potessero essere in grado e disposte a farne parte. »
(Interrogatorio di Antonio Mancini del 29 aprile 1994[8])
Diversi uomini della batteria di Selis furono naturalmente coinvolti in questo
nuovo sodalizio, come ad esempio suo cognato Antonio Leccese, Giuseppe
Magliolo detto il Killer, Fulvio Lucioli (detto il Sorcio), Giovanni Girlando (il
Roscio), Libero Mancone, i fratelli Giuseppe (il Tronco) e Vittorio Carnovale
(detto il Coniglio) e Edoardo Toscano (Operaietto).[7] Ognuno di loro riunirà
le proprie conoscenze e, una volta usciti dal carcere, essi si uniranno ai
testaccini e ai maglianesi per realizzare così il progetto criminale ideato dal
"Sardo" per la conquista di Roma.
Provenienza geografica dei gruppi[modifica | modifica wikitesto]
Gruppo della Magliana[modifica | modifica wikitesto]
Maurizio Abbatino, detto Crispino. Nato nel cuore della Magliana Vecchia,
prima dell'incontro con Giuseppucci era già a capo, pur giovanissimo, di una
batteria di malavitosi di quartiere specializzata in rapine. Arrestato nel 1972
e nel 1974, prima per furto e resistenza a pubblico ufficiale e poi per duplice
omicidio (assolto per insufficienza di prove)
Marcello Colafigli, detto Marcellone. Amico fraterno di Giuseppucci, con cui
spesso si ritrova in una batteria dedita alle rapine, è introdotto da
quest'ultimo nel nucleo originario della banda
Claudio Sicilia detto Il Vesuviano. Originario di Giugliano in Campania (NA)
e nipote del boss Alfredo Maisto, si stabilisce a Roma nel 1978 e diviene ben
presto l'anello di congiunzione della banda con la Camorra di Corrado
Iacolare, Michele Zaza e Lorenzo Nuvoletta
Giorgio Paradisi, detto Er Capece. Attivo nel settore delle rapine ai camion,
entra nella banda attraverso la conoscenza di Giuseppucci, con cui divide la
comune passione per i cavalli e la frequentazione di ippodromi, sale corse e
bische.
Antonella Rossi, detto Il Killer. Arrestata già diverse volte per aver
commesso vari omicidi su commissione e donna di fiducia di Giuseppucci.
Renzo Danesi, detto El Caballo. Originario del Trullo, fa parte del gruppo di
malavitosi dediti alle rapine che gravita attorno ad Abbatino, il quale poi
non manca, sin dall'inizio, di coinvolgerlo nel progetto criminale della banda
Enzo Mastropietro, detto Enzetto. Anche lui frequenta l'ambiente dei
rapinatori della Magliana di Abbatino per poi entrare a far parte del nucleo
storico della banda
Emilio Castelletti. Rapinatore, assieme ad Abbatino partecipa, tra le altre
cose, al tentato sequestro Pratesi che si conclude con la fuga dell'ostaggio
Giovanni Piconi. Era legato al nucleo originario della banda che ruotava
intorno ad Abbatino.
Roberto Giusti. Cognato di Mastropietro, entra a far parte della banda in un
secondo momento e in maniera autonoma, occupandosi della vendita di
sostanze stupefacenti
Gianfranco Sestili. Introdotto da Colafigli insieme al quale, in seguito,
gestisce il controllo del mercato degli stupefacenti alla Garbatella e a Tor
Marancia. Più tardi opera anche come fiancheggiatore, curando il trasporto
delle armi a disposizione della banda e la loro riconsegna, dopo le azioni,
nel deposito presso il Ministero della Sanità
Gruppo di Testaccio-Trastevere[modifica | modifica wikitesto]
Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto e poi Er Negro. Buttafuori in una
bisca clandestina a Ostia, grande appassionato di scommesse e assiduo
frequentatore di ippodromi e sale corsa romane, muove i primi passi nel
mondo della mala a capo di una batteria di criminali del Trullo dedita
soprattutto a furti e rapine. Fascista convinto e tramite del gruppo con gli
esponenti dell’eversione nera e dello spontaneismo armato dei Nuclei
Armati Rivoluzionari. È il primo a percepire la possibilità di unificare
operativamente la frastagliata realtà della criminalità romana
Enrico De Pedis, detto Renatino. Nasce come scippatore per poi passare,
molto presto, alle rapine legandosi a una batteria di malavitosi
dell’Alberone. Nel 1977 viene arrestato, uscendo di prigione tre anni dopo.
Rappresenta il lato "imprenditoriale" della banda, nel tentativo di
smarcamento dal crimine di strada per potersi sedere ai tavoli del potere,
grazie anche ai suoi legami con i poteri occulti, il mondo del riciclaggio e i
servizi segreti
Danilo Abbruciati, detto Er Camaleonte. Pugile mancato, si lega prima a una
batteria di rapinatori (la Gang dei Camaleonti) specializzata in furti nelle
abitazioni, per poi entrare nel giro delle bische clandestine controllate dal
Clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli. È uno dei leader del nucleo storico
della banda, cui porta in dote la sua conoscenza con Giuseppe Calò,
"ambasciatore" di Cosa nostra a Roma e boss del clan palermitano di Porta
Nuova, e dalla quale, tuttavia, mantiene sempre una certa indipendenza,
coltivando rapporti di collaborazione con politici corrotti, estremisti di
destra, mafiosi, spie e massoni
Raffaele Pernasetti, detto Er Palletta. Da giovane lavora come
commerciante di frattaglie all’ingrosso, prima di fare il proprio ingresso nel
crimine organizzato, introdotto da De Pedis, di cui diviene in breve uomo di
fiducia e spietatissimo "braccio armato"
Ettore Maragnoli. Truffatore e usuraio, si inserisce nella banda dove opera
nel settore della gestione del racket del gioco d'azzardo, del prestito a usura
e dei videopoker
Ernesto Diotallevi. Faccendiere legato agli ambienti dell'estrema destra, già
intorno alla metà degli anni settanta è conosciuto per la sua attività di
usuraio. Viene poi introdotto nella banda da Abbruciati come suo tramite
con la mafia siciliana (per via della sua amicizia con Pippo Calò), verso altre
associazioni malavitose e verso il mondo economico/finanziario, nel quale
vanta notevoli entrature. Col tempo, poi, va a costituire l'anima finanziaria
del gruppo di Testaccio-Trastevere, oltre che a occuparsi di riciclare e
investire i capitali della Magliana
Paolo Frau, detto Paoletto. Nato a Roma ma sempre vissuto ad Ostia, con
precedenti per detenzione di sostanze stupefacenti, opera come
guardaspalle di Renatino De Pedis. Comincia a gravitare intorno alla banda
poco prima dell'omicidio di Giuseppucci e gestisce per lui il commercio di
droga sul litorale romano
Giuseppe De Tomasi, detto Sergione. Noto, intorno alla metà degli anni '70,
per la sua attività di usuraio a Campo de' Fiori. È il Mario che, il 28 giugno
1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, telefona a casa
della famiglia della ragazza
Francesco Zumpano e Domenico Zumpano (detto Mimmo il biondo).
Introdotti nella banda da Giuseppucci che poi affida loro la gestione, per
conto della banda stessa, del commercio della cocaina nella zona di viale
Marconi, a Trastevere
Angelo Cassani, detto Ciletto. Amico dei fratelli Zumpano che lo presentano
alla banda, cui si unisce a tutti gli effetti nel 1981 in occasione dell'omicidio
di Roberto Faina, commesso dallo stesso Ciletto e da Giorgio Paradisi.
Anch'egli si occupa del commercio di cocaina nelle zone di Testaccio e
Trastevere
Enrico Nicoletti. Ex carabiniere e poi usuraio e truffatore, conosce De Pedis
nel carcere di Regina Coeli e diviene prima l'anima finanziaria del gruppo di
Testaccio-Trastevere (attorno al quale girano anche esponenti dell'eversione
nera del tempo), poi il cassiere dell'intera banda, che lo considera un
personaggio presentabile e con le conoscenze giuste (come, per esempio,
l'allora giudice e senatore Claudio Vitalone). Tramite lui, il gruppo reinveste
i proventi delle attività illecite in attività commerciali e immobiliari,
incrementando enormemente il capitale dei boss della Magliana
Gruppo di Ostia-Acilia[modifica | modifica wikitesto]
Nicolino Selis, detto Il Sardo. Nato in Sardegna, a Nuoro, ben presto si
trasferisce nella capitale divenendo, in poco tempo, uno dei padroni
incontrastati del traffico di droga e delle rapine nella zona di Ostia. Si
occupa principalmente di tenere i contatti tra l'organizzazione e la Nuova
Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, da lui conosciuto anni prima in
carcere e di cui diviene il referente su Roma per il traffico di droga, il
riciclaggio e la vendita di armi.
Antonio Leccese. Personaggio di rilievo, ma certamente non di particolare
spicco nella malavita romana, marito di Anna Paola Selis, sorella di Nicolino.
Controlla per conto del cognato il traffico di droga nei quartieri di Casal
Bruciato e Tiburtino, oltre che adoperarsi come suo guardaspalle.
Giuseppe Magliolo, detto Il Killer. Arrestato già diverse volte per aver
commesso vari omicidi su commissione e uomo di fiducia di Selis, che aveva
conosciuto da ragazzino. Nel 1975, durante un periodo di detenzione, i due
sono protagonisti con Edoardo Toscano di un'evasione dal carcere di Regina
Coeli.
Giuseppe Carnovale e Vittorio Carnovale, detti rispettivamente Il Tronco e Il
Coniglio. Cognati di Toscano (che sposò la loro sorella Antonietta), sono
operativi nel gruppo di Nicolino Selis che agiva ad Acilia.
Edoardo Toscano, detto Operaietto. Arrestato per rapina e tentato omicidio
nel 1975, lo stesso anno evade dal carcere romano di Regina Coeli assieme
a Selis e Magliolo. Tornato libero, si unisce alla batteria del Sardo, per poi
aderire al progetto criminale della banda.
Giovanni Girlando, detto Gianni il Roscio. Luogotenente di Toscano, si
unisce alla batteria di Selis con cui, nel 1976, realizza una serie di furti e
rapine a mano armata in banche e uffici postali. Arrestato dopo la rapina al
treno Chiusi-Siena, è condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere. Una volta
libero si dedica al traffico di droga, attività che prosegue anche all'interno
della banda.
Fulvio Lucioli, detto Il Sorcio. Nel 1976 entra a far parte della batteria
capeggiata da Selis che, per i seguenti due anni, fino al suo arresto, mette
a segno un incredibile numero di rapine a mano armata. Durante la
carcerazione accetta la proposta di Toscano di entrare a far parte della
neonata banda ricevendo, ancora tra le sbarre, una stecca di trecentomila
lire alla settimana.
Antonio Mancini, detto l'Accattone. Originario del quartiere San Basilio,
inizia la propria carriera criminale fin da giovanissimo, in una batteria
specializzata nell’assalto ai treni. Nel 1976, durante uno dei suoi tanti
soggiorni nel carcere di Regina Coeli, ha modo di stringere ulteriormente i
rapporti con Selis e di sposare appieno il suo progetto di tentare su Roma la
stessa operazione di controllo del territorio che il camorrista Raffaele Cutolo
stava realizzando sulla piazza di Napoli. Cosa che poi effettivamente
avviene, una volta liberi, con quel patto che, assieme agli altri due gruppi
criminali, dà forma alla banda della Magliana.
Libero Mancone. Primo arresto nel 1970 per furto aggravato, anche lui
coinvolto nella banda da Selis.
Gianfranco Urbani, detto Er Pantera. Uomo "più di parole che di pistole" e
basista della batteria di Selis, è anche ben inserito nel traffico degli
stupefacenti, grazie anche ai suoi contatti con grossi spacciatori.thailandesi.
Ancora carcerato, accetta la proposta di entrare a far parte della neonata
banda, ricevendo fin dall'inizio una "stecca" di trecentomila lire alla
settimana. Punto di contatto e tramite con esponenti di primo piano della
'Ndrangheta come Paolo De Stefano, Giuseppe Piromalli e Pasquale
Condello.
Angelo De Angelis, detto Er Catena. Pregiudicato, con diversi precedenti
penali a suo carico, si vantava di far parte di un gruppo massonico per il
quale agiva e da cui riceveva protezione a livello poliziesco e processuale.
Trafficante di stupefacenti, attività che prosegue anche nella banda, è
accusato dai componenti della stessa di tagliare la cocaina che era
incaricato di vendere e per questo ucciso.
Gianni Travaglini. Gestore di una stentata attività di commercio d'auto che,
una volta diventate più floride le situazioni economiche del gruppo di Acilia,
ha immediatamente un notevole incremento grazie ai prestiti e agli acquisti
di auto dei componenti della banda. Ne diviene il fornitore ufficiale,
fornendo assistenza logistica (auto ai familiari dei detenuti per recarsi ai
colloqui, auto blindate all'occorrenza) e garantendo così libertà di
movimento, riducendo i pericoli di controllo e di individuazione, perché non
effettua i passaggi di proprietà. Inoltre, disponendo di autorimessa, occulta
talvolta mezzi predisposti o utilizzati per le operazioni.
Roberto Frabetti, detto il Ciccione. Titolare di una tintoria ad Acilia che gli
consente di giustificare all'occorrenza la disponibilità di ragguardevoli
somme di denaro liquido. Inizialmente opera come autista per conto di
Mancone e, pur non partecipando mai ad azioni violente della banda, svolge
attività di supporto, specie per quel che concerne gli aiuti ai detenuti e alle
loro famiglie, di favoreggiamento ai latitanti e di custodia e trasferimento
degli stupefacenti.
Emidio Salomone. Cresce all'ombra di Vittorio Carnovale, e quando
quest'ultimo è ucciso si impadronisce del traffico di stupefacenti, del gioco
clandestino e dell'usura nel quadrante di Ostia.
Bruno Tosoni, detto er Capoccione. Gestisce l'usura per conto del gruppo.
Personaggi minori[modifica | modifica wikitesto]
Roberto Fittirillo. Uno dei sicari della banda, per cui gestisce anche il
controllo del traffico di stupefacenti della zona del Tufello
Alessandro D'Ortenzi (detto Zanzarone). Malavitoso con precedenti per
associazione per delinquere, rapina, furti, ricettazione, detenzione di armi,
ricopre una posizione marginale all'interno della banda ma, dati i suoi
trascorsi giudiziari e una certa familiarità con specialisti in psichiatria, è
utilizzato per ottenere perizie psichiatriche compiacenti. Costituisce, in
particolare, il punto di contatto tra la banda e il professor Aldo Semerari
Alvaro Pompili. Introdotto nella banda da Colafigli, vista l'esigenza
dell'organizzazione di avvalersi di personaggi "puliti" in grado di far riciclare
i loro capitali. Guardia giurata in servizio presso il Ministero della Sanità,
fece da tramite con Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero
stesso, convincendolo a custodire un deposito di armi all'interno dello
stabile dell' ente.
Il sequestro del Duca Grazioli[modifica | modifica wikitesto]
Il debutto come banda vera e propria, che fino a quel momento aveva
vissuto essenzialmente solo di rapine, fu il sequestro del duca Massimiliano
Grazioli Lante della Rovere[9].
« Fu Franco Giuseppucci a proporci il sequestro del duca Massimiliano
Grazioli, operazione alla quale aderimmo e che effettivamente portammo a
compimento. Giuseppucci aveva avuto a sua volta l'indicazione dell'ostaggio
da tal Enrico (Mariotti, n.d.r.) gestore di una sala corse a Ostia, il quale
frequentava il figlio del duca Massimiliano con cui condivideva la passione
per le armi. Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che sino a
quel momento costituivano la nostra principale attività. Ovviamente il
sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica
che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del
sequestrando prendemmo anche contatto, da un lato, con Giorgio Paradisi,
il quale conosceva il Giuseppucci a ragione della comune passione per i
cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, con il predetto
"Bobo", nonché con altra persona, di cui non ricordo le generalità e
dall'altro lato, con una banda di Montespaccato, della quale ricordo
facevano parte Antonio Montegrande, siciliano »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[10])
La sera del 7 novembre 1977, lasciata da poco la sua tenuta di Settebagni a
bordo della sua BMW 320, il Duca venne bloccato all'incrocio di via della
Marcigliana con via Salaria da due auto: una Fiat 131 guidata da Maurizio
Abbatino ed un'Alfetta con al volante Renzo Danesi e sulle quali c'erano
anche Giuseppucci, Paradisi, Piconi, Castelletti e Colafigli che, incappucciati,
lo fecero scendere a forza per poi caricarlo a bordo di una delle auto e
successivamente trasportarlo in diversi nascondigli provvisori. Inizialmente
venne rinchiuso in un appartamento di Primavalle, poi trasferito in una
località sull'Aurelia e infine nel napoletano[11].
A causa dell'inesperienza nel campo però la banda non riuscì a gestire al
meglio il sequestro e dovette chiedere aiuto ad un altro gruppo criminale,
una piccola banda di Montespaccato. La prima telefonata di richiesta del
riscatto arrivò alla famiglia del Duca un'ora dopo il sequestro: "Preparate
dieci miliardi". La banda era infatti a conoscenza delle disponibilità
monetarie dei Grazioli che, oltre a qualche proprietà, come ad esempio
l’ampia tenuta di Settebagni, solo qualche tempo prima aveva venduto il
quotidiano romano Il Messaggero[12]. Nei giorni successivi le trattative
continuarono frenetiche, con la famiglia che chiedeva continuamente prove
sulle condizioni di salute del rapito. I rapitori inviarono loro una foto
Polaroid nella quale l'ostaggio teneva in mano una copia del giornale
fiorentino La Nazione acquistato appositamente in Toscana per depistare le
indagini.
Le richieste dei sequestratori scesero poi di molto e, il 14 febbraio 1978,
arrivò il messaggio che stabiliva il contatto finale per il pagamento. Il figlio
del Duca, Giulio Grazioli, avrebbe dovuto far pubblicare, sul quotidiano
romano Il Tempo, un annuncio di accettazione delle condizioni dei
sequestratori: «Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo
fisso, lire 1500 (a significare un miliardo e mezzo, ndr)».[3] Il pagamento
avvenne attraverso una modalità simile a quella di una caccia al tesoro e
con tutta una serie di complesse segnalazioni e di messaggi lasciati nei vari
punti di Roma, per evitare che la famiglia potesse essere seguita dalle forze
dell'ordine. Alla fine di un lungo tragitto, il figlio del Duca Grazioli, consegnò
la borsa con il denaro lanciandola da un ponte dell'autostrada
Roma-Civitavecchia dove, a raccoglierla c'erano Danesi, Piconi e
Castelletti.[11]
Il frutto del riscatto venne "steccato" in parti eguali tra i vari gruppi interni
alla banda e poi riciclato in Svizzera tramite Salvatore Mirabella, un
milanese della banda di Francis Turatello ed inserito nel giro delle bische
clandestine.
« La somma del riscatto venne ripartita in ragione del cinquanta per cento a
quelli di Montespaccato, che avevano in custodia l'ostaggio, e del cinquanta
per cento a noi. Ognuno dei due gruppi doveva detrarre dalla propria parte
la "stecca", rispettivamente, per il basista Enrico e per il telefonista. Le
quote spettanti a ciascun gruppo si ridussero del dodici per cento, costo del
cambio delle banconote in franchi svizzeri. Debbo ancora aggiungere che
Enzo Mastropietro, il quale aveva partecipato alla preparazione del
sequestro, non poté partecipare però all'esecuzione in quanto poco prima
era stato arrestato. Ciò nonostante, venne a lui riservata una quota di lire
venti milioni e una quota di lire quindici milioni venne riservata a Enrico De
Pedis, il quale come ho già detto era anch'egli detenuto, in considerazione
dei suoi stretti rapporti con Franco Giuseppucci. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[10])
La famiglia Grazioli attese a lungo ed invano il promesso rilascio
dell'ostaggio. Quello che non potevano allora sapere era che, durante la
prigionia, era avvenuto un imprevisto decisivo: uno dei componenti di
Montespaccato, infatti, si era fatto vedere in faccia dal Duca ed a causa di
questo contrattempo l'ostaggio venne ucciso ed il suo corpo mai fatto
ritrovare[11].
« L'ostaggio non venne mai rilasciato, sebbene al momento del pagamento
del riscatto fosse ancora in vita. Il gruppo di Montespaccato ci informò del
fatto che aveva visto in faccia uno dei carcerieri di tal che ci fu detto che
non si poteva fare a meno di ucciderlo. A questa decisione, la quale non fu
nostra, non ci opponemmo, in quanto l'individuazione dei complici poteva
significare anche la nostra individuazione. Pertanto il Montegrande e
compagni diedero corso all'esecuzione alla quale non partecipammo. Nulla
sono in grado di riferire di preciso circa le modalità esecutive dell'omicidio.
So soltanto che il fatto è avvenuto nel napoletano, dove l'ostaggio era stato
trasferito in una casa di campagna appartenente a familiari di persone del
gruppo di Montespaccato, in quanto anche la seconda 'prigione' di Roma era
diventata insicura per il protrarsi della durata del sequestro. So altresì che il
cadavere venne sepolto, ma non sono in grado di dire dove. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[10])
Nonostante le cose non si fossero svolte tutte come la banda le aveva
previste, anche a causa della morte dell'ostaggio, il sequestro si rivelò un
vero e proprio successo per il neonato gruppo. Aveva contribuito a
cementare ulteriormente i rapporti al suo interno, confermando l'idea che
unire le forze di più batterie non era solo possibile ma che avrebbe portato
loro enormi ed ulteriori vantaggi.
La conquista del potere[modifica | modifica wikitesto]
L'omicidio di Franco Nicolini[modifica | modifica wikitesto]
« "Roma è nelle nostre mani", si dicevano l'un l'altro i nuovi boss, spavaldi
e col sorriso sulle labbra, interessati solo ad allargare il controllo sulla città
e a entrare in nuovi affari, incuranti di chi ci fosse dietro. La droga poteva
arrivare e andare indifferentemente a uomini della mafia, della camorra,
della 'ndrangheta, dell'eversione nera, di organizzazioni mediorientali. Agli
ex rapinatori cresciuti nelle batterie di quartiere, passati al giro più grosso
delle bische e delle scommesse clandestine e diventati in pochi anni
impresari di morte attraverso il traffico di droga, non interessava servire ed
essere serviti da questa o quella banda. »
(da Ragazzi di malavita di Giovanni Bianconi)
La ragione per la quale un gruppo così disomogeneo e numericamente
modesto riuscì a raggiungere per la prima volta il pressoché totale controllo
delle attività criminali in una metropoli come Roma è da ricercarsi
essenzialmente nei metodi utilizzati e, primo tra tutti, quello degli omicidi.
Tale pratica, mai troppo utilizzata in passato da parte della mala romana,
venne utilizzata dalla banda al fine di estendere il suo controllo su tutta la
città, attraverso la sistematica eliminazione fisica degli avversari,
intendendo in questo modo ottenere il risultato ulteriore di intimorire chi
avesse voluto interferire con i suoi progetti di crescita. Questa situazione di
precario equilibrio generava nel sodalizio il timore che qualcuno dei vari
boss potesse prendere il sopravvento rispetto agli altri, per cui esisteva la
regola che ogni azione rilevante dovesse essere approvata dai vari gruppi.
Il debutto di fuoco fu l'uccisione di Franco Nicolini, detto Franchino er
Criminale, all'epoca padrone assoluto di tutte le scommesse clandestine
dell'ippodromo Tor di Valle e le cui attività illegali suscitarono ben presto
l'interesse della nascente banda, anche se il motivo primario del suo
omicidio fu da ricercarsi in un torto fatto subire a Nicolino Selis nel corso di
un periodo di comune detenzione; questo avvenne nel 1974 quando,
durante una rivolta dei detenuti, Nicolini si schierò dalla parte delle guardie
carcerarie per ristabilire l’ordine e, agli insulti di Selis, rispose
schiaffeggiandolo in pieno volto di fronte agli altri detenuti.
« Alla richiesta di meglio precisare il movente dell'omicidio di Franco
Nicolini, ribadisco quanto in proposito ho già dichiarato nei miei precedenti
interrogatori: chi aveva motivi per volere la morte di "Franchino il
Criminale" era Nicolino Selis, il quale ci chiese di aiutarlo nell'impresa per
saggiare la nostra affidabilità nel momento in cui vi era la prospettiva di
realizzare la fusione tra il nostro e il suo gruppo. All'epoca, stante l'interesse
alla integrazione dei due gruppi, non chiedemmo al Selis di spiegarci
puntualmente le ragioni per cui voleva commettere l'omicidio, d'altra parte
il Selis ci disse che si trattava di un suo fatto personale e ci era noto, al
riguardo, che tra il Nicolini e il Selis, vari anni prima, durante una comune
detenzione dei due, vi erano stati dei violenti screzi, nel carcere di Regina
Coeli. Al progetto del Selis di uccidere il Nicolini, non solo non ci
opponemmo, ma lo aiutammo, sia per le ragioni sopra esposte, sia perché
anche il Giuseppucci vi era in qualche modo interessato, essendo disturbato
dalla presenza del Nicolini presso l'ippodromo di Tor di Valle. Per maggior
chiarezza, il Giuseppucci riusciva quasi sempre a condizionare l'andamento
di qualche corsa, il Nicolini, da parte sua, essendo un allibratore di un certo
calibro e avendo un sostanziale controllo dell'ippodromo, spesso intralciava i
programmi del primo »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 11 febbraio 1993[13])
La sera del 25 luglio del 1978, nel momento in cui la gente cominciava a
defluire dall'ippodromo dopo l'ultima corsa, nel parcheggio antistante due
auto attesero l'arrivo di Nicolini: Renzo Danesi e Maurizio Abbatino erano
alla guida rispettivamente, di una Fiat 132 e di una Fiat 131, a bordo delle
quali si trovavano Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi, Edoardo Toscano,
Marcello Colafigli e Nicolino Selis, mentre Franco Giuseppucci rimase in
attesa all'interno dell'ippodromo, allo scopo di farsi notare dalla gente per
costruirsi l'alibi; Nicolini, giunto nel parcheggio nei pressi della sua
Mercedes grigia, venne avvicinato da Toscano e Piconi e freddato all’istante
con nove colpi di pistola.
La decisione di uccidere Nicolini venne presa dalla banda anche in virtù del
beneplacito, ottenuto dal capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele
Cutolo, il quale, appena evaso dall'ospedale psichiatrico di Aversa, nella
primavera del 1978 organizzò un incontro con Selis allo scopo di trovare,
tra i rispettivi gruppi, una strategia compatibile con gli obbiettivi di
entrambi, nominando così Selis suo luogotenente nella piazza romana.
All'incontro, che avvenne in un albergo di Fiuggi dove, secondo la
deposizione del pentito Abbatino, Cutolo disponeva di un intero piano per sé
ed i propri guardaspalle, parteciparono anche Franco Giuseppucci, Marcello
Colafigli e lo stesso Maurizio Abbatino, e questo segnò un momento decisivo
nella storia della banda che, tra le sue varie attività, ebbe modo di attivare
un canale preferenziale con i camorristi per la fornitura delle sostanze
stupefacenti da distribuire poi nella capitale[14].
La sua eliminazione, oltreché a cementare i rapporti all'interno dei vari
gruppi della Banda, si rivelò comunque una tappa fondamentale per la
crescita della stessa che, da quel momento in avanti, ebbe via libera per
poter gestire un'ottima fonte di guadagno[15]. Da quel momento, infatti, i
rapporti di forza all'interno della malavita romana subirono un cambiamento
definitivo che vide la banda in una posizione predominante e che perdurò
negli anni successivi. L'ascesa degli uomini della Magliana, infatti, avvenne
in modo molto rapido ed in poco tempo, dalle semplici rapine, le attività
criminali della stessa si spostarono verso reati più redditizi legati ai
sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse
ippiche, ai colpi ai caveau e soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti. I
vari componenti della banda, comunque, anche quando il loro potere crebbe
fino ad assumere il controllo completo delle attività illecite cittadine,
continuarono, nonostante le ricchezze acquisite e il conseguente salto di
qualità nella scala sociale (da piccoli malavitosi di quartiere ad affaristi del
crimine), a partecipare personalmente alle azioni, rimanendo
sostanzialmente degli operai del crimine.
Il traffico di stupefacenti[modifica | modifica wikitesto]
L'organizzazione dello spaccio della droga e la sua diffusione capillare nelle
varie zone della città avveniva attraverso una rete di spacciatori di medio
livello, denominati cavalli, collegati a loro volta a piccoli spacciatori
denominati formiche. Tale struttura venne spiegata da Antonio Mancini
durante un interrogatorio: «Già nel 1979, c'eravamo estesi su tutta Roma.
L'approvvigionamento della droga non era più un problema.»[2]
Tutti gli spacciatori rispondevano, però, ad un referente della banda che si
incaricava, dopo avere ricevuto la droga dai canali della criminalità
organizzata o dall'estero, di distribuirla al livello inferiore e di ritirare i
proventi della vendita della stessa, imponendo una sorta di monopolio della
droga, attraverso il quale si controllava l'approvvigionamento e lo smercio
su tutta Roma. «Battevamo la piazza, per imporre il nostro prodotto agli
spacciatori» dichiarò poi il pentito Abbatino, interrogato il 25 novembre
1992 «promettendo e garantendo loro la protezione nei confronti dei
precedenti fornitori. In altri termini, mettevamo la concorrenza nelle
condizioni di non poter più operare, se non facendo capo a noi.»[3]
Nell'interrogatorio reso il 23 maggio 1994, lo stesso Mancini, confermò
questo modus operandi dell'organizzazione: «il sistema funzionava in
questo modo: costituito il gruppo e avute le entrature per
l'approvvigionamento della droga, si prendeva contatto con coloro i quali in
qualche modo operavano nel settore; si faceva loro una proposta che non
potevano rifiutare, di prendere la droga da o tramite noi, di tal che,
accettando, entravano automaticamente a far parte del nostro gruppo.
Nessuno si rifiutò mai di accedere alle nostre proposte, in quanto se fosse
accaduto il riluttante era un uomo morto.»[2]
Allo scopo di avere un controllo capillare del territorio si rese necessario una
divisione dello stesso in varie zone presidiate dai vari gruppi della banda.
La zona di Testaccio-Viale Marconi, quartier generale della banda, era di
competenza di Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci e veniva gestita
tramite l'apporto dei fratelli Francesco e Domenico Zumpano.
Le zone di Trastevere, Torpignattara e Centocelle erano controllate da
Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli, Giorgio Paradisi,
Fabiola Moretti e Angelo Cassani.
Le zone della Magliana e di Monteverde erano controllate da uomini di
Maurizio Abbatino, quali Enzo Mastropietro, Roberto Giusti, Massimo
Sabbatini e Giovanni Piconi.
La zona di Ostia era controllata da Nicolino Selis, che si avvaleva di uomini
come Paolo Frau, Ottorino Addis, Antonio Leccese, Fulvio Lucioli e Giovanni
Girlando.
La zona di Acilia era controllata da Edoardo Toscano, Libero Mancone, i
fratelli Carnovale e Roberto Frabetti.
Le zone della Garbatella e di Tor Marancia erano controllate da Claudio
Sicilia, Gianfranco Sestili e Marcello Colafigli.
E poi, il Trullo era curato da Renzo Danesi, il Portuense da Emilio Castelletti,
il Prenestino e Villa Gordiani dal Pantera Gianfranco Urbani e nelle zone del
Tufello-Alberone la gestione era affidata a Roberto Fittirillo e ai tre fratelli
Giordani (detti i Sandroni).
« Il mercato romano, fermo restando che la droga che si vendeva era
ovunque la stessa, dal momento che le forniture erano comuni a tutti, era
ripartito in zone, controllate ovviamente da persone diverse, a seconda
dell'influenza, maggiore o minore che si aveva sulle singole aree territoriali.
A tal proposito, esisteva un accordo tra tutti, nel senso che ciascuno doveva
curare esclusivamente la distribuzione nel proprio territorio senza invadere
quello assegnato agli altri. Si trattava di regole piuttosto ferree e che tutti si
era tenuti a rispettare. So' questo perché, per quanto riguardava me avevo
assegnato il territorio di Trastevere, che era comunque uno dei più ricchi:
una volta che io sconfinai, effettuando una distribuzione alla Garbatella,
dove il territorio era assegnato a Manlio Vitale e ad altri, Danilo Abbruciati si
arrabbiò molto con me, dal momento che, a suo dire, lo avrei messo in
grosse difficoltà, avendo egli dovuto dare al Vitale, personaggio di notevole
prestigio nell'ambiente malavitoso, spiegazioni circa lo sconfinamento,
faticando a convincerlo che era stata cosa del tutto accidentale e non il
sintomo di una volontà di sottrarci al rispetto delle regole. »
(Interrogatorio di Fabiola Moretti dell'8 giugno 1994[16])
La divisione in zone del territorio rifletteva in pieno la struttura costitutiva
della banda che, nata dall'unione di diversi gruppi o batterie, responsabili
ognuna della propria, a differenza di altre organizzazioni criminali quali la
Camorra o Cosa Nostra, non presentava un'organizzazione piramidale vista
l'assenza di un unico capo in grado di prendere decisioni vincolanti per le
diverse zone[3][17].
« Per quanto concerne le forniture di droga che "lavoravamo" occorre
distinguere tra la cocaina e l'eroina: la cocaina, il mio gruppo la riceveva
tramite Manuel Fuentes Cancino; l'eroina, che commerciavamo, per come
ho detto, unitamente al gruppo Selis e al De Pedis e compagni, la
ricevevamo, solitamente, tramite Koh Bak Kim. Costui, da me conosciuto,
tramite Gianfranco Urbani (detto "il Pantera"), cominciò a rifornirci di eroina
che egli introduceva in Italia, tramite suoi corrieri che venivano dalla
Tailandia, o occultata nelle cornici di quadri, o nei doppi-fondi di valigie. Via
via che la nostra organizzazione si annetteva sempre più vaste fette di
mercato la stessa si allargava, a seguito delle scarcerazioni di Enrico De
Pedis, amico sia mio che del Giuseppucci, e di Raffaele Pernasetti, i quali ne
entravano a far parte a pieno titolo, apportando nuovi canali di
approvigionamento che consentivano di soddisfare le esigenze di
conservazione del mercato acquisito e di ulteriori ampliamenti dell'attività.
Amico del De Pedis era Danilo Abbruciati, il quale consenti' di prendere
contatto con fornitori del calibro di Stefano Bontade e Pippo Calo'. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992[10])
I proventi di questo traffico, così come quelli relativi al gioco d'azzardo, alla
prostituzione, alle scommesse clandestine, al traffico di armi e di tutte le
altre attività criminali in cui la banda era impegnata, oltre ad assicurare un
adeguato livello di corruzione di periti, avvocati, personale sanitario ed
anche di alcuni esponenti delle forze dell’ordine, erano divisi sempre in parti
uguali: tutti i membri ricevevano la cosiddetta stecca para, ossia una sorta
di dividendo indipendente dal lavoro svolto in quel periodo, che anche i
membri detenuti (e i familiari degli stessi) continuavano a ricevere assieme
ad un'adeguata assistenza legale per evitare delazioni; questo insieme di
regole era vincolante per gli appartenenti alla banda e l’inosservanza delle
stesse portava a vendette ed anche all'omicidio.
Il deposito di armi al Ministero della Sanità[modifica | modifica wikitesto]
Il notevole aumento del numero di armi a disposizione della banda che, sino
a quel punto venivano custodite da una serie di favoreggiatori incensurati,
indusse l'organizzazione a valutare l'opportunità di raggrupparle in un unico
deposito. Da un lato, vi era chi avrebbe preferito custodirle in un
appartamento disabitato e, dall'altro chi invece premeva affinché venissero
affidate ad un'unica persona in un ambiente insospettabile.
« Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili,
all'epoca impiegato del Ministero della Sanità, pertanto gli prospetto' la
possibilità di costituire un deposito presso tale Ministero. Alvaro Pompili, a
sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode e
centralinista presso il Ministero della Sanità, il quale si fece convincere
agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di
circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità
economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu così che gran
parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità.
Per quanto poi concerne, in particolare, la riconsegna, questa veniva
effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili: essi si
limitavano a lasciare il borsone all'Alesse, il quale provvedeva
autonomamente all'occultamento. Mentre per quanto concerne il ritiro e la
preparazione delle armi, l'Alesse poteva consentirla soltanto ai due predetti,
a me, a Marcello Colafigli e alle persone che si fossero presentate in nostra
compagnia. Per quanto sono in grado di ricordare e per quel che mi risulta
personalmente, mi recai al Ministero una volta in compagnia di Danilo
Abbruciati e un'altra in compagnia di Massimo Carminati. Ora, mentre
Danilo Abbruciati non era autorizzato a recarsi da solo presso il Ministero, a
Massimo Carminati venne consentito, invece, in un secondo momento, di
accedere liberamente al Ministero. La decisione di consentire l'accesso con
maggiore libertà al Carminati, venne presa da me, nell'ottica di uno
scambio di favori tra la banda e il suo gruppo. Le armi custodite nel
deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda,
rispondeva pertanto unicamente a esigenze di sicurezza limitare alle
persone che ho indicato il libero accesso al Ministero, anche per non creare
dei problemi ulteriori all'Alesse. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992[18])
Il 25 novembre del 1981, nel corso di una perquisizione, la polizia rinvenne
in uno scantinato del Ministero della Sanità, al civico 34 di via Liszt all'Eur,
l'arsenale composto da 19 tra pistole e revolver, una Beretta M12, un mitra
Beretta MAB 38, un mitra sten, altri fucili mitragliatori, oltre a cartucce e
bombe a mano.
Analizzando le armi, gli inquirenti poterono risalire anche ai legami tra la
banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari che, proprio
tramite Massimo Carminati, ebbero modo di utilizzare alcune di quelle armi,
a cominciare dal depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna operato
dai servizi deviati[19].
L'omicidio Giuseppucci e lo scontro col clan Proietti[modifica | modifica
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Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Clan Proietti.
L'omicidio di Franco Giuseppucci, riportato sul Messaggero il 14 settembre
1980
Il primo componente della banda a cadere fu Franco Giuseppucci, ucciso a
Piazza San Cosimato nel cuore del quartiere di Trastevere, il 13 settembre
1980, in un agguato orchestrato da parte di esponenti del clan rivale della
famiglia Proietti, detti i Pesciaroli per via della loro attività commerciale
all'interno del mercato ittico della capitale. Un gruppo criminale molto
numeroso e che si avvaleva di consanguinei, fratelli, cugini e affini e molto
vicino a quel Franco Nicolini, giustiziato dai componenti della Magliana per il
controllo del giro di scommesse clandestine presso l'ippodromo di Tor di
Valle.[17]
Raggiunto da una pallottola al fianco mentre saliva a bordo della sua
Renault 5, Giuseppucci riuscì comunque a mettere in moto l'autovettura e
ad arrivare fino in ospedale morendo mentre i medici si apprestavano ad
intervenire. La morte di Giuseppucci fu il pretesto per scatenare una
sanguinosa guerra contro il clan rivale che segnò però anche un forte
momento di aggregazione della banda. Gli scontri violenti e gli agguati tra i
due gruppi si manifestarono ben presto con una serie impressionante di
omicidi e tentativi di omicidio e con gravissime perdite riportate dai Proietti.
Il primo atto della vendetta nei confronti dei Proietti, relativamente
all'uccisione di Franco Giuseppucci, fu un errore, uno scambio di persona da
parte della banda. La sera del 19 settembre 1980, Maurizio Abbatino, Paolo
Frau, Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, appostati davanti ad una villa
tra Ostia e Castelfusano abitualmente frequentata da Enrico Proietti, detto
er Cane, fecero fuoco contro una macchina a bordo della quale c'erano
Pierluigi Parente, avvocato ventottenne e figlio di un industriale, e la sua
fidanzata Nicoletta Marchesi, completamente estranei al clan Proietti.[3]
« Intorno alle due di notte vedemmo uscire una Fiat Ritmo dalla villa. La
inseguimmo e dopo duecento o trecento metri la superammo: eravamo
muniti di un fucile a pompa, un mitra Mab e una pistola calibro 9 con
silenziatore. Avevamo anche una bomba a mano. Il silenziatore della calibro
9, dopo due o tre colpi, si ruppe. Il conducente della Fiat Ritmo fece una
rapidissima retromarcia, riportandosi davanti al cancello della villa, balzò
fuori dall'auto e si gettò in un burrone, mentre l'altro passeggero, che non
avevamo capito si trattasse di una donna, restò accucciato nella macchina.
Io mi trovavo alla guida della nostra autovettura, gli altri spararono tutti:
Colafigli col fucile a pompa sparò all'interno dell'abitacolo della Fiat Ritmo. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 6 novembre 1992[20])
Il ragazzo fece in tempo a darsi alla fuga, mentre la sua fidanzata rimase
gravemente ferita. La rappresaglia continuò poi il 27 ottobre 1980 quando,
Enrico Proietti detto "Er Cane", venne ferito in un agguato nei suoi confronti
e riuscì a sfuggire miracolosamente ai suoi aggressori. Meno fortunati
furono invece Orazio, figlio di Enrico, che morì di overdose dopo essere
stato comunque ferito anche lui in un agguato della banda, il 31 ottobre
1980 e poi Fernando, detto Il Pugile, giustiziato il 30 giugno del 1982.[3]
L'episodio più significativo, però, avvenne la sera del 16 marzo 1981
quando, Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio Proietti
detto il Pescetto e suo fratello Mario (Palle D'oro), quest'ultimo già sfuggito
miracolosamente ad un agguato qualche tempo prima. I due, in compagnia
delle rispettive famiglie, facevano infatti rientro alle loro abitazioni site in
via di Donna Olimpia nº152, nei pressi del quartiere Monteverde. Nel
furibondo scontro a fuoco che ne seguì, Maurizio fu colpito a morte, mentre
i due criminali della Magliana rimasero lievemente feriti e, nel tentativo di
evitare l’arresto e di aprirsi un varco verso la fuga, iniziarono a sparare sulla
polizia che a sua volta rispose al fuoco. I due killer feriti tentarono
disperatamente la fuga, ma vennero quindi arrestati all'interno di un
appartamento dello stabile nel quale si erano barricati.[21]
Ma la vendetta non si fermò ai soli consanguinei. Per motivi differenti,
infatti, trovarono la morte anche Orazio Benedetti, collaboratore legato ai
pesciaroli e Daniele Raffaello Caruso: il primo freddato in una sala giochi di
via Rubicone, al quartiere Salario, il 23 gennaio del 1981, reo di aver
brindato alla notizia della morte di Giuseppucci; il secondo, invece, fatto
trovare cadavere in una Giulietta il 22 gennaio 1983 perché ritenuto
responsabile della morte di Mariano Proietti (figlio di Enrico), ucciso il 14
dicembre 1982 senza il consenso della banda[22].
Come ebbe poi a rivelare il pentito Abbatino: «Tutte le persone della banda
erano a conoscenza della vendetta, in quanto tutti amici del Giuseppucci,
avevano concorso a programmarla nelle linee generali ed erano disponibili,
nell'ambito di una interna distribuzione dei ruoli, a intervenire
materialmente (o eseguendo gli omicidi, ovvero svolgendo le attività
preparatorie necessarie, ovvero ancora fornendo le strutture logistiche), ai
fini dell'attuazione dei singoli atti omicidiari. Questa guerra impedi' il
dissolversi del sodalizio, rappresentando un forte momento di
aggregazione.»[2]
Maurizio Proietti (detto Il Pescetto) ucciso il 16 marzo 1981.
Mario Proietti (detto Palle D'oro) fratello di Maurizio e Fernando, rimase
ferito in due diversi agguati, il 12 dicembre 1980 e il 16 marzo 1981.
Fernando Proietti (detto Il Pugile) fratello di Maurizio e Mario, ucciso il 30
giugno 1982.
Enrico Proietti (detto Er Cane) cugino di Maurizio, Mario e Fernando, ferito
in un agguato il 27 ottobre 1980.
Orazio Proietti figlio di Enrico, ferito il 31 ottobre 1980 e poi trovato morto
per un'overdose di eroina.
Mariano Proietti figlio di Enrico, ucciso il 14 dicembre 1982 da elementi
estranei alla banda della Magliana
I rapporti con la destra eversiva[modifica | modifica wikitesto]
La concomitanza temporale tra l'ascesa della banda della Magliana ed i
cosiddetti anni di piombo, ossia quel periodo che, dalla metà degli anni
settanta agli inizi degli anni ottanta, segnò in Italia il culmine della lotta
armata politica, con una serie di omicidi, stragi e fatti di sangue, innescò,
tra le altre cose, anche un'insolita convergenza di interessi fra gli uomini
della Magliana ed alcuni ambienti dell'eversione neofascista.
Fatta, però, esclusione per sporadiche simpatie fasciste di alcuni
componenti della Magliana (come ad esempio Giuseppucci, che conservava
in casa alcuni dischi con i discorsi di Mussolini e diversi altri simboli fascisti),
il fine ultimo di tali rapporti era decisamente scevro di qualsiasi orpello
ideologico e politico e, come anche per altre occasioni, può essere
individuato esclusivamente nell'interesse dell'organizzazione allo scambio di
armi, al potenziamento del controllo sul territorio, al riciclaggio di denaro,
ecc. L'obiettivo venne presto raggiunto attraverso la conoscenza di alcuni
uomini cerniera e di raccordo tra la criminalità organizzata, i settori deviati
dei servizi e le organizzazioni eversive neofasciste come Alessandro
D'Ortenzi, Massimo Carminati ed altri ancora.
Con il professor Aldo Semerari[modifica | modifica wikitesto]
Uno dei personaggi attivi nell'area dell'eversione nera che entrò in contatto
con la banda fu il professor Aldo Semerari. Celebre psichiatra forense,
massone e iscritto alla P2, agente dei servizi d’informazione militare e tra i
più autorevoli criminologi italiani, Semerari lavora come consulente per
redigere alcune delle perizie psichiatriche dei casi giudiziari più eclatanti
degli anni settanta come, ad esempio, quella su Giuseppe Pelosi nel caso
dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini.
« L'istituzione di collegamenti tra gruppi eversivi dell'estrema destra e la
malavita organizzata romana rientrava in un disegno strategico comune al
Prof. Aldo Semerari e al Prof. Fabio De Felice, convinti che per il
finanziamento dell'attività eversiva non fosse necessario creare una
struttura finalizzata al reperimento programmatico di fondi, quando, senza
eccessive compromissioni, si poteva svolgere un'attività di supporto di tipo
informativo e logistico rispetto a strutture di criminalità comune già
esistenti e operanti, onde garantirsi, lo storno degli utili derivanti dalle
operazioni rispetto alle quali si forniva un contributo. Il primo collegamento
venne realizzato attraverso Alessandro D'Ortenzi detto "zanzarone", in un
incontro che, se mal non ricordo, si svolse presso la villa del Prof. De Felice.
Per quanto ho potuto constatare di persona, i rapporti che intercorrevano
tra il gruppo criminale denominato Banda della Magliana, o per meglio dire,
tra i suoi esponenti, e il Prof. Semerari, era quello di una sorta di
sudditanza dei primi al secondo, il quale esercitava su di loro una notevole
influenza in forza dei benefici che costoro si aspettavano di conseguire per
effetto delle sue prestazioni professionali. Con il passar del tempo,
probabilmente, in considerazione di aspettative frustrate dai fatti, ho potuto
constatare un progressivo raffreddamento di rapporti degli uni verso l'altro.
»
(Interrogatorio di Paolo Aleandri dell'8 agosto 1990[23])
Leader del gruppo neofascista, Costruiamo l'azione, durante l'estate del
1978 organizzò diversi seminari e incontri politici nella villa del professor
Fabio De Felice sita a Poggio Catino in provincia di Rieti, a cui parteciparono
anche alcuni componenti della banda introdotti da Alessandro D'Ortenzi,
detto Zanzarone, un pregiudicato in rapporti di confidenza con il professore
e che per i suoi trascorsi giudiziari e la sua familiarità con diversi specialisti
in psichiatria, veniva utilizzato per ottenere perizie compiacenti. Semerari
seguì una precisa strategia eversiva basata anche sulla collaborazione
fattiva tra estremismo di destra e malavita comune e, secondo il pentito
Abbatino: «A lui piaceva proprio avere contatti con le bande. E c’è stato un
periodo in cui loro utilizzavano noi, e noi loro per le perizie e per
l’approvvigionamento e l’acquisto di armi. Semerari pensava a un appoggio
di tipo logistico, come un colpo di Stato: loro facevano dei raduni nelle
campagne di Rieti proprio simulando colpi di Stato.»[2]
« Grazie al contatto istituito da D'Ortenzi, si fece una riunione nella villa di
Fabio De Felice, per discutere i possibili scambi di favori tra la nostra banda
e i terroristi di destra che facevano capo al Semerari. All'incontro, per la
banda, partecipammo io, Marcello Colafigli, Giovanni Piconi e Franco
Giuseppucci. Era presente Alessandro D'Ortenzi. Oltre al De Felice ricordo
presenti all'incontro il Prof. Semerari e Paoletto Aleandri. Nell'occasione,
fermo restando il nostro assoluto disinteresse per le prospettazioni
ideologiche di Aldo Semerari - per quanto potei constatare frequentando
Franco Giuseppucci, questi aveva delle spiccate simpatie per il fascismo,
deteneva dischi riproducenti discorsi di Benito Mussolini, medaglie e
gagliardetti, tuttavia questa sua infatuazione non ne condizionava
minimamente l'azione, ne' lo conduceva a perdere di vista gli interessi e gli
scopi della banda che erano tutt'altro che politici - si valuto' la praticabilità
di una collaborazione tra noi e i terroristi neri, finalizzata, per quanto li
riguardava, al finanziamento delle attività di tipo più propriamente politico.
In particolare si raggiunse una sorta di accordo di massima per la
commissione in comune di sequestri di persona a scopo di estorsione e di
rapine. Nell'incontro in questione, tuttavia, non si ando' oltre un accordo di
massima, quel che e' certo non si raggiunse un vero e proprio patto
operativo. A noi comunque interessava mantenere i contatti, in
considerazione dell'influenza del Semerari nel settore giudiziario, essendo
egli un famoso e stimato perito medico-legale psichiatrico. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992[18])
Nonostante il rifiuto ad operare come braccio armato del gruppo politico di
Semerari, da quegli incontri uscì un accordo di massima tra il professore ed
la banda che prevedeva finanziamenti per il gruppo neofascista in cambio di
perizie medico psichiatriche compiacenti e miranti a fare ottenere ai
componenti della Magliana, in caso di arresto, condizioni favorevoli di
detenzione o scarcerazioni a causa di condizioni di salute inidonee al regime
carcerario. Il sodalizio durò fino ai primi mesi del 1982 quando vittima di un
regolamento di conti interno alla camorra, il 25 marzo di quello stesso anno,
il corpo del professor Semerari fu ritrovato decapitato all'interno di
un'automobile nei pressi del Castello mediceo di Ottaviano (NA), non a caso
luogo di nascita e dimora sfarzosa del capo della Nuova Camorra
Organizzata, Raffaele Cutolo. La causa della sua morte fu da ricercarsi in un
episodio avvenuto poco tempo prima: il professore infatti, nella sua qualità
di psichiatra forense, si era adoperato per la scarcerazione di affiliati alla
Nuova Famiglia, per poi accettare l'incarico come consulente anche per la
fazione opposta, una errata mossa strategica che gli costò la vita, il barbaro
omicidio fu commesso da Umberto Ammaturo.[24][25]
Con i Nuclei Armati Rivoluzionari[modifica | modifica wikitesto]
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Nuclei Armati
Rivoluzionari.
Massimo Carminati
Di altra natura, invece, fu il rapporto della Banda con il'universo giovanile
dell'estremismo di destra e, in particolare, con i componenti del nucleo
storico dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Alessandro Alibrandi, Cristiano e
Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e, soprattutto,
Massimo Carminati. Negli anni settanta, infatti, la contiguità sia temporale
che fisica tra gli ambienti dell'eversione politica e del crimine comune
organizzato fece sì che, tra le parti in causa, cominciò a farsi strada la
possibilità di ricercare un terreno di reciproco beneficio comune.
Frequentando i locali del bar Fermi[26] o quelli del bar di via Avicenna
(entrambi nella zona di Ponte Marconi), dove spesso si ritrovavano anche
molti dei componenti della stessa Banda, nell'estate del 1978 Massimo
Carminati entrò in contatto con i boss Danilo Abbruciati e Franco
Giuseppucci che, ben presto, lo presero sotto la loro ala protettiva. A loro
Carminati iniziò ad affidare i proventi delle rapine di autofinanziamento
effettuate con i NAR, in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali
l'usura o lo spaccio di droga. In regime di reciproco scambio di favori, la
Banda, di tanto in tanto commissiona ai giovani fascisti anche di eliminare
alcune persone poco gradite, come nel caso del tabaccaio romano Teodoro
Pugliese, ucciso da Carminati (assieme ad Alibrandi e a Claudio Bracci) con
tre colpi di pistola calibro 7,65, perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti
gestito da Giuseppucci. Durante questo periodo, Carminati ottenne
addirittura il controllo congiunto (per conto dei NAR ed unico autorizzato del
gruppo eversivo) del deposito di armi nascosto negli scantinati del Ministero
della Sanità, all'EUR.
Altre indicazioni circa la relazione tra la Banda e l'eversione di destra ci
vennero fornite dalle dichiarazioni rese dal neofascista (e pentito) Walter
Sordi quando, al giudice di Roma in data 15 ottobre 1982, dichiarò che:
«Alibrandi mi disse che Carminati era il pupillo di Abbruciati e Giuseppucci.
Parlando in particolare degli investimenti di somme di denaro da noi fatti
attraverso la banda Giuseppucci-Abbruciati, posso dire che nel corso dell'80,
Alibrandi affidò alla banda stessa 20 milioni di lire, Bracci Claudio 10 milioni,
Carminati 20 milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi 5 milioni.Ricordo che
Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. I soldi affidati alla banda
Giuseppucci-Abbruciati erano tutti in contanti. Come ho già spiegato,
Giuseppucci e Abbruciati prevalentemente investivano il denaro da noi
ricevuto nel traffico di cocaina e nell'usura, ma c'erano anche altri
investimenti nelle pietre preziose e nel gioco d'azzardo.»[27]
Nel 1998, la Commissione Parlamentare sul Terrorismo nella sua relazione
annuale, scrisse: «All'autofinanziamento furono invece dirette numerose
rapine prima presso negozi di filatelia poi agenzie ippiche e banche, rapine
che frutteranno una disponibilità economica assai superiore a quella
necessaria alla vita dell'organizzazione e connotarono di un tratto di
delinquenza ordinaria sia la condotta e il tenore di vita degli autori, sia
l'ambiente criminale in cui gli stessi si muovevano. L'organizzazione e
l'esecuzione di molti dei colpi avvicinò stabilmente - e per alcuni in modo
irreversibile - i ragazzi dei NAR alla criminalità organizzata del gruppo che
successivamente verrà indicato (sinteticamente e in parte impropriamente)
come Banda della Magliana, attraverso lo stretto legame dei fratelli
Fioravanti e di Alibrandi con personaggi come Massimo Sparti, e di Massimo
Carminati e dello stesso Fioravanti con Franco Giuseppucci e Danilo
Abbruciati. Tali legami verranno a cementarsi, oltre che con la pianificazione
e attuazione di rapine (come presso le filatelie o alla Chase Manhattan
Bank), attraverso le attività di reinvestimento dei proventi delle rapine (per
lo più attraverso il prestito usuraio) che gli estremisti affideranno alla
banda, per conto della quale eseguivano attività di intimidazione e di vero e
proprio killeraggio.»[28]
Anche per diretta ammissione dei pentiti Claudio Sicilia e Maurizio Abbatino
è accertato che, i militanti dei NAR, effettuarono per la banda lavori di
manovalanza criminosa come la riscossione di crediti dell'usura, il trasporto
di quantitativi di droga oltre che alcuni delitti su commissione. A volte, però,
il meccanismo s'inceppò come nel caso della rapina alla Chase Manhattan
Bank di Roma del 27 novembre 1979, da parte di Valerio Fioravanti,
Alessandro Alibrandi, Giuseppe Dimitri e Massimo Carminati.
Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheque, verrà
come sempre affidata nelle mani di Franco Giuseppucci che ne organizzò
l'operazione di riciclaggio ma che gli costarono, nel gennaio del 1980, un
arresto con l'accusa di ricettazione.[3]
L'intreccio con politica e servizi deviati[modifica | modifica wikitesto]
Il coinvolgimento nell'omicidio Pecorelli[modifica | modifica wikitesto]
La sera del 20 marzo 1979 Carmine Pecorelli giornalista, iscritto alla loggia
massonica P2 di Licio Gelli, venne assassinato con quattro colpi di pistola
calibro 7,65 (uno in faccia e tre alla schiena) da un sicario in via Orazio a
Roma, poco lontano dalla redazione del giornale in circostanze ancora oggi
non del tutto chiarite. Egli era direttore di OP-Osservatore Politico,
dapprima agenzia di stampa e poi rivista settimanale specializzata in
scandali politici, tra i quali lo scandalo petroli, il caso Moro, lo scandalo
dell'Italcasse, il crack della Sir o gli affari di Sindona e Andreotti, che,
attraverso delle importanti inchieste, si rivelò anche uno strumento di
ricatto e condizionamento del mondo politico per lanciare messaggi cifrati e
spesso ricattatori[29].
Dei proiettili simili a quelli utilizzati nell'agguato (appartenenti allo stesso
lotto e con lo stesso grado d'usura del punzone che marca la punta), calibro
7,65 e di marca Gevelot, difficilmente reperibili sul mercato, vennero poi
rinvenuti all'interno dell'arsenale della banda nei sotterranei del Ministero
della Sanità. Al processo emerse un chiaro coinvolgimento della banda e di
Massimo Carminati il quale venne imputato di aver commesso
materialmente l'omicidio nell’interesse di Giulio Andreotti, oggetto nella
primavera del 1978 di un violento attacco dalle colonne di OP. Tramite
dell'accordo sarebbe stato il magistrato e intimo amico del senatore Claudio
Vitalone, personaggio molto vicino a esponenti della banda, come ad
esempio De Pedis.
Il 3 marzo 1997, durante l'interrogatorio di fronte alla Corte di assise di
Perugia, il pentito Maurizio Abbatino dichiarò ai giudici di aver saputo da
Franco Giuseppucci che l’omicidio era stato commissionato a loro dai
siciliani, ai quali sarebbe stato richiesto da un importante personaggio
politico, individuato poi in Giulio Andreotti, oggetto di un duro attacco
attraverso gli articoli del settimanale OP.
« La tesi accusatoria nel processo prospettava che il delitto sarebbe stato
deciso dal senatore Andreotti il quale, attraverso l’on. Vitalone, avrebbe
chiesto ai cugini Salvo l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato
Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di
Giuseppe Calò, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci
di organizzare il delitto che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e
da Michelangelo La Barbera. »
(Documento del Senato della Repubblica[30])
Anche Antonio Mancini ebbe a confermare questa circostanza,
nell'interrogatorio al pm di Perugia dell'11 marzo 1994, aggiungendo che fu
«Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo»
(Michelangelo La Barbera, ndr), siciliano. Il delitto era servito alla Banda per
favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari,
finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere."[3]
A parere dei magistrati però «gli elementi probatori (nei confronti di
Vitalone, ndr) non sono univoci» e non permettono «di ritenere riscontrata
la chiamata in correità fatta nei suoi confronti». Insomma, Vitalone avrebbe
avuto rapporti con l'organizzazione criminale ma non ci furono prove
abbastanza evidenti dal punto di vista penale per condannarlo.[31]
Dopo tre gradi di giudizio, nell’ottobre del 2003, la Corte di cassazione di
Perugia emanò una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il
fatto" per Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti e
Giuseppe Calò accusati di essere i mandanti e per Massimo Carminati e
Michelangelo La Barbera da quella di essere gli esecutori materiali
dell'omicidio, bollando le testimonianze dei membri della banda come non
attendibili.[32][33] La morte di Pecorelli resta ancora oggi un caso irrisolto
come anche la provenienza dell’arma utilizzata nel delitto: tutte le armi
dell’arsenale della banda, nel mentre, risultarono misteriosamente
manomesse prima che fosse fatta qualche perizia per verificarne il concreto
utilizzo.
Il legame con il sequestro Moro[modifica | modifica wikitesto]
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Caso Moro.
L'automobile su cui viaggiava il Presidente della DC Aldo Moro, fotografata
dopo il rapimento
Il 16 marzo del 1978, quando il Presidente della DC Aldo Moro venne rapito
da un commando di brigatisti, gran parte della città di Roma era controllata
dagli uomini della banda della Magliana e la stessa ubicazione della prigione
del popolo (e covo dei terroristi) di via Montalcini, dove probabilmente
venne rinchiuso lo statista nei 55 giorni della sua prigionia, era posto tra via
Portuense e via della Magliana, ed in seguito si seppe che tale abitazione
era circondata dalle abitazioni di molti affiliati alla stessa[14].
« Nel quartiere (Magliana, ndr), controllato in modo capillare da questo
particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e
all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle
immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della
banda: a via Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati,
Amleto Fabiani, Antonella Rossi,Antonio Mancini; in via Luparelli 82 (a 230
passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo
del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 (a 150 passi) Ernesto
Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini
1 c'è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra »
(Stefano Grassi, Il Caso Moro[34])
Lo stesso pentito Maurizio Abbatino rivelò poi come la banda fosse stata
addirittura contattata per scoprire il luogo in cui il Presidente era tenuto
prigioniero: «Cutolo ci ha mandato un personaggio politico a parlare per
vedere se sapevamo dov’era il covo di Moro.» disse Abbatino «Abbiamo
avuto un incontro con lui, ma io non ero d'accordo a metterci in mezzo a
questa storia, anche perché rispettavo qualsiasi forma di delinquenza e
criminalità e non vedevo il perché. Poi credo che Franco (Giuseppucci, ndr)
abbia saputo dove era Moro, ma non so a chi l’abbia detto. Non era difficile
saperlo: nell’appartamento c’era gente pregiudicata che conoscevamo»[2].
Il deputato democristiano Flaminio Piccoli, che, secondo Maurizio Abbatino,
contattò la banda allo scopo di scoprire il nascondiglio dove era tenuto
prigioniero Aldo Moro
In un'intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Rinaldi, per la trasmissione
Chi l'ha visto?, Abbatino parlò nuovamente del sequestro Moro rivelando
altri particolari relativi all'incontro con l'uomo politico mandato da
Cutolo:[35].
« Rinaldi: "Dopo il rapimento di Moro chi è che viene a chiedervi qualcosa?"
Abbatino: "È venuto l'onorevole Piccoli, ma non è tanto il fatto che sia
venuto lui, ma chi ce l'ha mandato."
Rinaldi: "Ci racconta come è avvenuto questo incontro, dove eravate…"
Abbatino: "È avvenuto a viale Marconi sul bordo del fiume, insomma."
Rinaldi: "Chi eravate?"
Abbatino: "Eravamo un po' quasi tutti della banda. Comunque c'eravamo io,
Franco Giuseppucci, Nicolino Selis che appunto aveva preso il contatto …
ma vede Flaminio Piccoli era stato mandato da Raffaele Cutolo…" »
Secondo le deposizioni del pentito Tommaso Buscetta, nella Commissione
interprovinciale di Cosa nostra si vennero a formare due distinti e
contrapposti schieramenti e l'iniziativa della banda venne quindi bloccata
dalla fazione dei Corleonesi contraria alla liberazione che, attraverso il suo
referente romano Giuseppe Calò, intervenne dicendo che ai politici della
Democrazia Cristiana, in realtà, interessava Moro morto, dopo che lo
statista prigioniero aveva iniziato a collaborare con le Brigate Rosse e stava
rivelando segreti molto compromettenti per Giulio Andreotti (il cosiddetto
"Memoriale Moro")[36][37].
Altro punto di contatto tra la banda e il sequestro del politico democristiano
era Toni Chichiarelli, falsario vicino agli uomini della Magliana e autore del
finto comunicato n. 7 che, il 18 aprile 1978, annunciava l'uccisione di Moro
e la sua sepoltura nel lago della Duchessa. Quel depistaggio, è oggi
accertato, fu commissionato dai servizi segreti per cercare di smuovere le
acque in quella fase di stallo del sequestro. Inoltre, dalle testimonianze rese
al processo per la morte del falsario, ucciso da un killer indicato prima nella
persona di Antonella Rossi,(scagionata successivamente dalla testimonianza
di una suora.) Il 28 settembre del 1984, emerse che, nel sopralluogo della
sua abitazione, compiuto qualche giorno dopo la morte, vennero rinvenute,
da parte dei Carabinieri, delle foto Polaroid (ritenute autentiche) di Moro
scattate durante la sua prigionia[14].
I depistaggi nella Strage di Bologna[modifica | modifica wikitesto]
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Strage di Bologna.
La probabile convergenza d'interessi tra gli uomini della Magliana gli
ambienti dell'eversione nera e alcuni settori deviati dei servizi e della
politica, trova perfetta esemplificazione nel tentativo di depistaggio legato
alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980, per la
quale vennero riconosciuti esecutori materiali (tra gli altri) alcuni militanti
dei Nuclei Armati Rivoluzionari, di Valerio Fioravanti.
Nel corso delle indagini, infatti, un mitra Mab con numero di matricola
abraso e calcio rifatto artigianalmente, proveniente dal deposito/arsenale
della banda all'interno del Ministero della Sanità, venne ritrovato sul treno
Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, in una valigetta contenente anche due
caricatori, un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di
destra, un francese e un tedesco, e soprattutto del materiale esplosivo T4,
dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna.[38]
Immagine della stazione di Bologna Centrale dopo la strage, cui la banda
della Magliana contribuì al depistaggio delle indagini
Nella sentenza della Corte suprema di cassazione del 23 novembre 1995,
nel processo sulla strage del 2 agosto, risultava infatti che: «Il mitra
rinvenuto nella valigia che era stata collocata il 13.1.1981 sul treno
Taranto-Milano apparteneva alla cosiddetta "banda della Magliana", una
vasta associazione per delinquere, operante a Roma in quegli anni. Maurizio
Abbatino, che di quell'associazione aveva fatto parte, aveva rivelato che
negli scantinati del Ministero della Sanità l'organizzazione disponeva di un
cospicuo deposito di armi e che alcune di esse erano state
temporaneamente cedute a Paolo Aleandri, ma non erano state più
restituite. Per costringere Aleandri a rispettate l'impegno assunto era stato
sequestrato, ma poi era stato liberato, con la mediazione di Massimo
Carminati quando all'associazione, in sostituzione delle armi date in prestito
ad Aleandri, erano state date due bombe a mano e due mitra ed uno di
questi mitra era stato prelevato da Carminati e mai più restituito. Abbatino,
dopo aver descritto le peculiari caratteristiche del mitra finito nelle mani di
Carminati, caratteristiche conseguenti ad un'artigianale modifica del calcio,
riconosceva quell'arma nel M.A.B. che era stato trovato a Bologna la notte
del 13 gennaio 1981, in quella valigia. Infine lo stesso Abbatino aveva
precisato che Carminati faceva parte di un gruppo di giovani che gravitava
nell'area della destra eversiva, gruppo del quale facevano parte i fratelli
Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto
Cavallini. Una volta riconosciuta, sulla base di tale complesso ed articolato
quadro probatorio, piena attendibilità alle dichiarazioni di Abbatino, al
giudice di rinvio è stato agevole rilevare che il percorso del mitra
rappresentava la prova del rapporto di collaborazione tra i soggetti coinvolti
nel processo.»[39]
Al ritrovamento della valigetta seguì la produzione di un dossier,
denominato "Terrore sui treni", in cui venivano riportati gli intenti stragisti
dei due terroristi internazionali (intestatari dei biglietti aerei) in relazione
con altri esponenti dell'eversione neofascista italiana legati allo
spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. I due episodi, si
scoprirà dopo, durante il processo, vennero attribuiti ad alcuni vertici dei
servizi segreti del SISMI come parte di una precisa strategia di depistaggio
organizzata per tentare di indirizzare le indagini in una strada ben precisa e
in cui, Massimo Carminati, uomo di cerniera tra la Banda ed esponenti dei
servizi segreti deviati e dell'eversione nera, ebbe dunque un ruolo attivo,
fornendo il MAB prelevato dall'arsenale della Banda e poi rinvenuto sul
treno Taranto-Milano.[40]
Secondo la Corte di Assise di Roma, il depistaggio è “l’ennesimo episodio di
una pervicace opera di inquinamento delle prove destinate ad impedire che
responsabili della strage di Bologna fossero individuati”.[39] Il 9 giugno del
2000, nel processo di primo grado, Carminati venne condannato (a 9 anni
di reclusione) assieme al generale e al colonnello del Sismi Pietro Musumeci
e Federigo Mannucci Benincasa, al colonnello dei carabinieri Giuseppe
Belmonte e al venerabile Licio Gelli. Dell'episodio vennero infine ritenuti
responsabili, con sentenza definitiva, i soli Musumeci e Belmonte, mentre
Carminati verrà poi assolto in appello.
La crisi[modifica | modifica wikitesto]
Le lotte intestine[modifica | modifica wikitesto]
La morte di Franco Giuseppucci che, almeno all'inizio, aveva rappresentato
un forte momento di aggregazione tra i vari componenti della banda
impegnati nella guerra al clan rivale dei i Proietti, aveva solo
temporaneamente rimandato il progressivo dissolversi del sodalizio in atto
ormai da qualche tempo. Una volta terminata la vendetta nei confronti dei
presunti assassini del Negro, infatti, il livello di tensione e di ostilità tra i
vari gruppi interni alla banda diventò sempre più alto segnando l'inizio della
sua disgregazione.
Con la scomparsa del Negro, boss fondatore e collante tra le varie anime
dell'organizzazione, la banda non riuscì infatti più a trovare la compattezza
che precedentemente le era propria ed i due gruppi prevalenti, i Testaccini
di Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis e quelli della Magliana guidati da
Maurizio Abbatino, iniziarono una guerra fredda, una fase di continua
tensione dovuta a contrasti sempre più ampi e insanabili, gelosie e
rivendicazioni che col passare del tempo si trasformerà in una vera e
propria faida interna, tanti furono i morti ammazzati da entrambe le parti.
Tra le varie cause di questa lotta intestina, prima tra tutte ci fu la presa di
coscienza, da parte di alcuni componenti, della predominanza sul piano
affaristico dei Testaccini che, in contrasto con quanti avrebbero voluto
preservare l'anima genuina della banda, venivano accusati di essere uno
strumento nelle mani di loschi poteri e di aver trasformato di fatto la stessa
Magliana in una sorta di agenzia del crimine, a completa disposizione di
chiunque offrisse denaro o protezione. Una vera e propria holding-criminale,
quindi, che nei piani dei Testaccini, sempre più compromessi con mafiosi
quali Giuseppe Calò, e massoni, come Licio Gelli e Francesco Pazienza,
avrebbe permesso a De Pedis e soci di fare quel salto di qualità ed entrare
così nel racket dell'alta finanza, più in funzione dei tempi e sul modello
imprenditoriale di mafia e camorra, abbandonando così quelle che fino ad
allora erano le prerogative del gruppo originale della banda e relegando
Crispino, e soci, alla semplice gestione delle solite attività illecite quali
prostituzione, stupefacenti, usura, rapine, rapimenti e corse clandestine.
«Testaccio aveva una mentalità più imprenditoriale» racconta Renzo Danesi
«mentre Abbatino commerciava ancora con gli stupefacenti.»
L'omicidio di Nicolino Selis[modifica | modifica wikitesto]
Altro problema interno alla banda, scoppiato dopo l’uccisione del Negro, era
rappresentato dall'irrequietezza di Nicolino Selis, il quale, forte dell’appoggio
dei camorristi di Cutolo, dal manicomio giudiziario dove si trovava detenuto
iniziò sia a mandare messaggi minacciosi che a pretendere di imporre una
sua personale spartizione delle ingenti somme di denaro, provento delle
varie azioni delittuose. In particolare Selis iniziò anche a pretendere la
"stecca" su attività delittuose svolte a titolo individuale e si dimostrò
particolarmente indisposto nei confronti di De Pedis il quale a differenza
degli altri che sperperavano tutti i loro introiti, aveva iniziato ad investire i
suoi guadagni anche in attività legali, tanto da non voler più dividere la
"stecca" con gli altri complici, in quanto essi erano provenienti in larga parte
dalle sue attività private. La goccia che fece traboccare il vaso, però
avvenne in merito alla spartizione di una nuova fornitura di eroina; come
raccontò in seguito il pentito Abbatino ci fu «un errore di valutazione in
ordine a quanto accadeva fuori dal carcere da parte di Nicolino Selis. Questi
era entrato in contatto con dei siciliani, i quali gli avevano assicurato la
fornitura di tre chilogrammi di eroina. Secondo gli accordi, tale fornitura
avrebbe dovuto essere ripartita al 50% tra il suo e il nostro gruppo, ma
Nicolino ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e
di uno per noi e, pertanto, impartì al Toscano istruzioni in tal senso. Si
trattò di un passo falso: Edoardo Toscano non attendeva altro. Mi mostrò
immediatamente la lettera, fornendo così la prova del "tradimento" del
Selis, col quale diventava non più rinviabile il "chiarimento". In altre parole,
Nicolino Selis doveva morire»[2].
Quando, il 3 febbraio del 1981, Selis uscì dal manicomio giudiziario per un
breve permesso, venne organizzato un appuntamento davanti alla Fiera di
Roma (all'EUR) con il pretesto di una riappacificazione e per tentare di
trovare un accordo d'insieme ma quello che il Sardo non sapeva è che la
banda aveva già deciso la sua morte. Selis, accompagnato dal suo cognato
e guardaspalle Antonio Leccese, giunse all'EUR a bordo della sua A112 e
trovò ad attenderlo Marcello Colafigli, Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano,
Raffaele Pernasetti, Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati. L'intenzione del
gruppo era di condurli alla villa di Libero Mancone ad Acilia, ma Leccese,
che era in libertà vigilata e ad una ora fissa doveva recarsi presso il
commissariato di Polizia a firmare, non venne trattenuto per non dare
nell'occhio[3].
Arrivati sul posto il Sardo venne agguantato con la scusa dell'abbraccio di
riappacificazione dando le spalle a Crispino che ebbe il tempo di estrarre la
pistola nascosta dentro una scatola di cioccolatini e sparare contro Selis due
proiettili, seguiti da altri due di Toscano. Il suo corpo venne poi sepolto in
una buca vicino all’argine del Tevere e ricoperto con della calce per
affrettare la decomposizione e a tutt'oggi non è stato ancora ritrovato.
L'ultimo atto era quello di uccidere Leccese, unico testimone ad aver visto
l'ultima volta il Sardo partire con Abbatino e gli altri, che venne ucciso da
Abbruciati, De Pedis e Mancini.
L'omicidio Balducci[modifica | modifica wikitesto]
Le tensioni tra i due gruppi si fecero sempre più forti, soprattutto a causa
della spegiudicatezza e dell'intraprendenza dei Testaccini che, sempre più
slegati dal resto della banda, oramai operavano quasi in un regime di
completa indipendenza ed attraverso decisioni prese all'insaputa degli altri,
quale l'omicidio, avvenuto la sera del 16 ottobre 1981 ad opera di
Abbruciati e De Pedis, di Domenico Memmo Balducci, colpito a morte
mentre stava rincasando in motorino, davanti al grande cancello della sua
lussuosa villa situata in via di villa Pepoli, all'Aventino, per conto del
mafioso Pippo Calò.
Domenico Balducci, meglio noto come Memmo il cravattaro, era un usuraio
e proprietario di un piccolo negozietto di elettrodomestici in una stradina
adiacente a Campo de' Fiori, ove era esposto in vetrina l'eloquente cartello
"Qui si vendono soldi". Attraverso solidi legami con la mafia, i servizi
segreti, faccendieri e politici, Memmo gestiva il racket dell'usura per conto
dello stesso Calò, il boss palermitano che aveva conosciuto in carcere nel
1954. Il suo errore fu quello di trattenere per sé, nell'estate del 1981, una
parte del denaro (150 milioni) destinato a Calò e proveniente dalla
cosiddetta "Operazione Siracusa" che avrebbe dovuto garantire alla mafia
enormi proventi da una gigantesca speculazione edilizia, firmando così la
sua condanna a morte. «Apprendemmo che l’omicidio era stato commesso
da Abbruciati, unitamente a Renatino De Pedis e Raffaele Pernasetti per fare
un favore ai siciliani: Balducci doveva dei soldi a Pippo Calò» racconterà poi
Maurizio Abbatino. «Appresi che l’omicidio era stato commesso nei pressi,
mi sembra, di una villa, da Renato e Raffaele, mentre Danilo li attendeva in
auto e che i primi due si erano dovuti calare da un muro con una corda per
raggiungere l’auto stessa.»[2]
Ne seguì un litigio acceso tra Abbruciati e Abbatino, il quale rinfacciò al
testaccino di perseguire propri scopi personali al di fuori dell'interesse
comune della banda. In pratica, ai testaccini veniva rivolta l'accusa di
essere dei traditori che mettevano in pericolo i compagni unicamente per
proteggere gli affari dei Corleonesi.
La morte di Abbruciati[modifica | modifica wikitesto]
L'intreccio di comuni interessi criminali tra l'anima testaccina della banda,
sia con ambienti corrotti dell'economia che della politica e con la mafia di
Cosa nostra, emersero chiaramente in un altro delitto sporco, ossia il
tentato omicidio del vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone.
Nel corso del 1981 Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, che in
quel momento versava in gravi difficoltà economiche, si era messo in affari,
per tentare di coprire i conti in rosso del Banco e salvarsi dal processo in
corso a suo carico, con il faccendiere Flavio Carboni ed il mafioso Pippo
Calò, i quali, intenzionati poi a recuperare i soldi affidati a Calvi, vennero
osteggiati dall'allora vicepresidente dell'istituto di credito Roberto Rosone, il
quale aveva assunto la guida della banca dopo il fallimento finanziario ed
aveva vietato ulteriori prestiti senza garanzia concessi dal Banco
Ambrosiano ad alcune società legate proprio a Flavio Carboni[41].
Secondo la ricostruzione accusatoria, Carboni informò Calò dell'accaduto e
questi, nell'aprile del 1982, tramite Ernesto Diotallevi, affiliato della banda,
incaricò Danilo Abbruciati di eseguire un atto di intimidazione a danno di
Roberto Rosone[42].
Giunti in treno a Milano il 26 aprile, la mattina seguente Abbruciati ed il suo
complice Bruno Nieddu attesero la vittima sotto casa, in via Ercole
Oldofredi, nei pressi della Stazione Centrale ed, intorno alle ore otto,
mentre Rosone si dirigeva verso la sua macchina, viene avvicinato da
Abbruciati (con il viso coperto) che tentò di sparagli, ma la sua pistola si
inceppò, favorendo così la fuga del banchiere che si allontanò
precipitosamente. Egli però ebbe il tempo di ricaricare la pistola ed a
sparare nuovamente, ferendo Rosone alle gambe, prima di fuggire in sella
alla moto guidata dal suo complice. Nel frattempo una guardia giurata
posizionata nei pressi di una filiale del Banco Ambrosiano, poco distante dal
luogo dell'agguato, uscì e sparò a sua volta un colpo di 357 magnum
colpendo a morte l’attentatore mentre cercava di scappare a bordo della
moto[14].
La notizia colse di sorpresa i suoi amici della Magliana (e la stessa Polizia)
che, tenuti all'oscuro di tutto, ritennero molto strano il fatto che Abbruciati
si riducesse al ruolo di semplice killer su commissione ed accettasse un
compito così rischioso anche se ben remunerato. Quello che infastidì
maggiormente Abbatino e soci fu il fatto che Abbruciati avesse operato
seguendo unicamente il suo tornaconto personale con conseguenze assai
pericolose per la stessa banda. Arrivati a questo punto il livello di ostilità tra
i due gruppi della banda era ormai diventato sempre più acceso, una
divisione troppo grande e senza possibilità di ritorno.
I primi pentiti[modifica | modifica wikitesto]
Il primo componente della banda a scegliere la via del pentimento fu Fulvio
Lucioli. Il Sorcio venne arrestato il 6 maggio del 1983 e tradotto nel carcere
romano di Regina Coeli dove, dopo alcuni mesi di travaglio interiore, il 14
ottobre di quello stesso anno scrisse una lunga lettera al direttore
dell'istituto di pena dicendosi disposto ad iniziare un programma di
collaborazione con la giustizia. E così, il giorno successivo, davanti al
sostituto procuratore Nitto Palma e ad un funzionario della Squadra
Narcotici, Lucioli iniziò il suo raccontò riempiendo i verbali e confessando di
omicidi, rapine, traffici di stupefacenti e di armi, oltre che dei legami della
banda con politici, cardinali, massoni, mafiosi, camorristi, ndranghetisti,
servizi segreti deviati ed eversione nera. Il suo primo atto, però, fu quello di
revocare i suoi difensori di fiducia e richiedere un legale d'ufficio: un chiaro
segnale mandato verso l'esterno riguardo alle sue intenzioni di pentimento.
Grazie alle sue testimonianze, il 15 dicembre 1983, le forze dell'ordine
arrestarono sessantaquattro persone tra boss, seconde linee e
fiancheggiatori decapitando, di fatto, gran parte dell'organizzazione. Il 23
giugno 1986, a tre anni e tre mesi dal blitz, con la sentenza del processo di
primo grado, trentasette dei sessantaquattro imputati alla sbarra furono
condannati ma, solamente, per traffico di sostanze stupefacenti.
Confermate nel processo d'appello (il 20 giugno 1987), le condanne furono
poi annullate e le assoluzioni per insufficienza di prove trasformate in
formula piena dalla Cassazione, il 14 giugno 1988.
Infine, la nuova Corte d'assise d'appello, il 14 marzo 1989, derubricò di
fatto l'addebito di associazione per delinquere, screditando la figura del
Sorcio definendolo un mitomane e: «una abnormità psichica aggravata da
nefaste influenze ambientali a cui sottende un deficit intellettivo meglio
definibile come debolezza mentale indice di coscienza non lucida, di stato
delirante, di confusione dissociata».[43]
La cosiddetta banda della Magliana, quindi, secondo i magistrati non
esisteva ed i vari reati erano stati perlopiù compiuti sulla base di
estemporanei accordi e senza un vincolo associativo tra i componenti che
andasse al di là dello specifico crimine. Questo era indice del fatto che la
banda era ormai penetrata in pieno all'interno dei tribunali ed era quindi
capace di corrompere giudici ed avvocati. Dopo il pentimento di Lucioli,
Claudio Sicilia continuò a gestire le attività del gruppo lasciate dai compagni
detenuti fino a quando, arrestato per l'ennesima volta per spaccio
nell'autunno del 1986, decise anch'egli di iniziare a collaborare con i
magistrati.
Dopo quattro mesi di interrogatori quasi quotidiani, condotti dal sostituto
procuratore Andrea De Gasperis, il 17 marzo del 1987, la Procura di Roma,
spiccò novantuno ordini di cattura contro le persone chiamate in causa da
Sicilia, tra membri della banda, avvocati e professionisti vari. Il 28 marzo e
il 1º aprile successivi, però, il Tribunale della libertà di Roma, revocò
l’ordine di cattura emesso dal Pubblico Ministero sulla scorta delle chiamate
in correità di Sicilia scarcerò circa la metà degli arrestati, una decisione
clamorosa dovuta al fatto che il pentito: "altro non era che una persona
soggettivamente poco attendibile per i suoi precedenti, la sua posizione
giudiziaria, la sua personalità e i suoi presunti moventi."
Nel dicembre del 1990 lo stesso pentito abbandonò il carcere per passare
agli arresti domiciliari ed infine tornare libero durante l'estate successiva.
Tornato in libertà, ma senza alcuna protezione da parte dello Stato, il
Vesuviano trovò la morte la sera del 17 novembre 1991 quando, in via
Andrea Mantegna nella zona popolare di Tor Marancia a Roma, due uomini a
bordo di una moto di grossa cilindrata lo intercettarono e lo freddarono
all'interno di un negozio di scarpe dove aveva cercato riparo.
Il declino[modifica | modifica wikitesto]
La faida interna[modifica | modifica wikitesto]
Quando i componenti della banda tornarono in libertà, caduto l'impianto
accusatorio costruito sulle dichiarazioni dei pentiti Lucioli e Sicilia, dopo un
brevissimo periodo di riadattamento alcuni di loro tentarono di riorganizzare
le file del sodalizio criminoso e di ripristinare le vecchie gerarchie in un
contesto che, però, vedeva l'organizzazione sempre più divisa da molteplici
contrasti interni. Il mancato adempimento degli obblighi di fratellanza
riguardanti l'assistenza ai detenuti e ai familiari degli stessi e la generale
riottosità del gruppo dei testaccini, capeggiati da De Pedis, nel condividere
con gli altri gli introiti delle loro attività criminali, incontrò la feroce
opposizione di Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, i quali, assieme al loro
gruppo di fidati sodali (Vittorio Carnovale, i fratelli Fittirillo, Libero Mancone
ed altri ancora), ritennero opportuno mettere un freno alle ambizioni di
Renatino e soci.
Come ebbe poi a raccontare la pentita Fabiola Moretti, nell'interrogatorio
tenuto l'8 giugno 1994: «Marcello Colafigli ed Edoardo Toscano erano
intenzionati, già durante il processo che seguì gli arresti, ad ammazzare
Enrico De Pedis. La cosa, parlando con me, mentre eravamo entrambi
detenuti, se la lasciò sfuggire Antonio Mancini, al quale chiesi di impedire
che a Renatino accadesse qualcosa. Contemporaneamente, all'insaputa di
Mancini avvertii, scrivendogli, anche Enrico De Pedis. Di fatto, proprio per
l'intervento di Mancini a Renatino, durante il processo non accadde nulla,
anzi, almeno in apparenza sembrava si fosse trovato un punto di accordo
tra tutti.»[44]
Ma nessun accordo arriverà a pacificare la situazione: il 13 febbraio 1989,
uscito di prigione in libertà vigilata, Toscano si mise immediatamente alla
ricerca di De Pedis deciso ad ucciderlo per poi fuggire all'estero, subito dopo
l'omicidio. Messo al corrente delle intenzioni vendicative dell'Operaietto e
giocando d'anticipo sul tempo rispetto all'ex amico e ora rivale, De Pedis
escogitò a sua volta una trappola, sapendo che Toscano aveva affidato in
custodia una somma di denaro ad un fiancheggiatore della banda di Ostia,
Bruno Tosoni.
«Renatino venne a sapere che Edoardo (Toscano, ndr) lo cercava» racconta
ancora la Moretti, interrogata nell’estate del 1994 «e ritenne di doverlo
uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Tosoni
reggeva i soldi di Edoardo, circa 50 milioni di lire, offrì a costui una somma
di altri 50 milioni perché attirasse Toscano in un'imboscata. L’incarico di
uccidere Toscano venne dato da Renatino a Ciletto e a Rufetto. Ciletto, cioè
Angelo Cassani era entrato a far parte della banda in occasione dell’omicidio
di Roberto Faina. Rufetto anche in altre occasioni era stato usato come killer
dei Testaccini come in occasione dell’attentato a Raffaele Garofalo, detto
Ciambellone, in piazza Piscinula, dove però il Ciambellone venne mancato.
Rufetto faceva il killer già all’epoca di Abbruciati»[3]
Ignaro di ciò che stava per accadere, la mattina del 16 marzo 1989,
Toscano si incontrò con Tosoni e rimase del tutto spiazzato quando, alle sue
spalle, una moto di grossa cilindrata, con a bordo due uomini con i volti
coperti da caschi integrali, fece fuoco su di lui con armi semiautomatiche,
colpendolo tre volte e lasciandolo morire sul colpo[45].
La morte di De Pedis[modifica | modifica wikitesto]
Enrico De Pedis
La vendetta dei sodali di Toscano, tuttavia, non si fece attendere ed, il 2
febbraio del 1990, anche De Pedis rimase sull'asfalto, colpito a morte
davanti al civico 65 di Via Del Pellegrino, mentre, in pieno giorno e a bordo
del suo motorino, attraversava il mercato romano di Campo de' Fiori[46].
Il suo intuito per gli affari ed un fiuto imprenditoriale decisamente più
oculato rispetto ai suoi compagni aveva portato De Pedis ad intensificare i
suoi rapporti con politici e faccendieri, tanto da divenire «un punto di
riferimento per i più spregiudicati operatori del mondo
finanziario-criminale»[47]. Invece di sperperare il denaro accumulato, come
tutti gli altri componenti della banda usavano fare, iniziò ad investire gran
parte dei proventi delle sue attività illegali in attività legali, costruendo un
vero e proprio impero finanziario i cui introiti, secondo i suoi intendimenti,
proprio perché frutto di attività proprie, non sarebbero più stati divisibili con
gli altri sodali: latitanti, carcerati e familiari degli stessi. «Artefice di
quell’impero finanziario, Enrico De Pedis iniziò a essere chiamato,
nell’ambiente, il “Presidente” della malavita. Era l’ultimo scorcio degli anni
Ottanta, ormai Renatino non si faceva più vedere al bar di via Chiabrera e
neppure a Testaccio. Piuttosto, parlava di affari sulla scintillante via Della
Vite, nella boutique di Enrico Coveri o anche al Jackie ’O. Renato era
diventato snob, a come la vedevano Abbatino e gli altri»[48]
Con quei soldi, tra le altre cose, De Pedis sistemò anche alcuni suoi familiari
comprando loro un paio di esercizi commerciali a Trastevere (la pizzeria
Popi Popi 56 e L’Antica Pesa), un supermercato a Ponte Marconi, vari
appartamenti in centro e alcune quote di società immobiliari. Naturalmente,
il resto della banda, interpretò questa sua emancipazione finanziaria come
uno smacco da far pagare a caro prezzo. Un sentimento che ben presto
assunse i toni della vendetta vera e propria nel momento in cui De Pedis,
anticipando i suoi propositi omicidi, fece uccidere Edoardo Toscano dai suoi
uomini (Angelo Cassani detto Ciletto e Libero Angelico, detto Rufetto),
scatenando quei propositi di rivalsa da parte della fazione avversa che non
si fecero attendere molto. Dopo vari abboccamenti finiti male, infatti, la
mattina del 2 febbraio 1990, il gruppo dei maglianesi capeggiati da Marcello
Colafigli, riuscì finalmente ad attirare De Pedis (che nell'ultimo periodo
girava sempre assieme a dei guardaspalle) in un'imboscata con la
complicità di Angelo Angelotti che lo convinse a recarsi presso la sua
bottega di antiquario di via del Pellegrino, nei pressi di Campo dei Fiori.
Terminato l'incontro, De Pedis, salì a bordo del suo motorino Honda Vision e
si avviò verso casa ma venne subito affiancato da una potente moto con a
bordo due killer assoldati per l'occasione (Dante Del Santo detto "il
cinghiale" e Antonio D’Inzillo), che lo centrarono con un solo colpo alle
spalle.
Tumulato inizialmente all'interno del Cimitero del Verano, per volere della
famiglia e soprattutto grazie al nulla osta dell'allora vicario di Roma,
cardinal Poletti, la sua salma venne poi traslata in grande riservatezza, il
successivo 24 aprile, nella Basilica di Sant'Apollinare, a Roma, dove De
Pedis si era sposato nel 1988. Negli anni a seguire, la vicenda della
sepoltura del boss della Magliana all'interno della chiesa romana, venne
legata anche a quella della scomparsa di Emanuela Orlandi, cittadina
vaticana e figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia,
sparita in circostanze misteriose all'età di 15 anni il 22 giugno 1983, a
Roma. Nel luglio 2005, infatti, nel corso della trasmissione televisiva Chi
l'ha visto? (in onda su Rai Tre) venne mandata in diretta una telefonata
anonima che sembrava collegare i due accadimenti: «Riguardo al caso di
Emanuela Orlandi per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è
sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare e del favore che
Renatino (Enrico De Pedis) fece al cardinal Poletti e chiedete alla figlia del
barista di via Montebello che anche la figlia stava con lei [...] con l'altra
Emanuela»[49].
Nel 2008, la magistratura romana, registra delle dichiarazioni (mai
riscontrate e spesso confutate) della pentita ed ex amante di Renatino,
Sabrina Minardi intervistata da Raffaella Notariale e poi interrogata dalla
Procura stessa, secondo cui De Pedis avrebbe eseguito materialmente il
sequestro per ordine dell'allora capo dell'Istituto per le Opere di Religione
(IOR), monsignor Paul Marcinkus.
Il 14 maggio 2012, su disposizione dell'Autorità giudiziaria, si è proceduto
all'apertura della bara di De Pedis. La salma corrispondeva a quella del
boss: indossava un completo blu scuro, cravatta nera, camicia bianca e
scarpe, come descritto nei verbali dell’epoca.[50][51]
Il pentimento di Abbatino[modifica | modifica wikitesto]
Con le prime spaccature all'interno della banda, che vide gli ex sodali
trasformarsi in sempre più acerrimi nemici divisi da questioni di denaro e
rivendicazioni di potere, il 20 dicembre del 1986, Maurizio Abbatino è
protagonista di una rocambolesca evasione dalla clinica romana Villa Gina
(nei pressi dell'EUR) dove, grazie a una perizia medica compiacente, si era
fatto ricoverare per un tumore osseo avanzato, diagnosticatogli dai medici
del carcere. Gli arresti ospedalieri senza piantonamento (vista la presunta
impossibilità del detenuto alla deambulazione, costretto su una sedia a
rotelle) durarono molto poco e, con l'aiuto del fratello Roberto, Abbatino
riuscì a calarsi da una finestra del primo piano ed a scomparire nel
nulla.[52]
« Già dall'epoca del mio ricovero agli arresti domiciliari presso Villa Gina,
avevo constatato il totale raffreddamento dei rapporti con gli altri
componenti della banda; raffreddamento che si era tradotto nella
cessazione dell'assistenza economica sia a me che alla famiglia subito dopo
il nuovo provvedimento di cattura. In conseguenza del fatto che non potevo
avere contatti con l'esterno mi trovai completamente isolato dal resto della
banda e quindi impossibilitato a spiegare le ragioni per le quali era
opportuno che io restassi in clinica sino a che non fosse intervenuto un
provvedimento di scarcerazione, chiarendo l'equivoco per il quale sarebbe
stata una soluzione opportunistica quella di non evadere. Ovviamente,
attesa la gravità dei reati dei quali dovevo rispondere e per i quali mi
trovavo detenuto, era impensabile che potessi restare a Roma una volta
fuggito. Pertanto non ritenni di riprendere contatti con i componenti della
banda che in quel momento si trovavano in libertà, ma preferii farmi aiutare
da mio fratello Roberto, il quale avrebbe dovuto, per come fece, trovarsi nei
pressi della clinica con un'autovettura. Il personale addetto alla sorveglianza
non fu da me corrotto. Mi limitai ad approfittare della loro buona fede, in
quanto, convinti che io fossi veramente malato e paralizzato come davo a
credere, durante la notte si limitavano a controllare che io fossi a letto e
non stazionavano nella stanza. Alle quattro di notte, dopo aver messo nel
letto un cestino e un cuscino che dessero l'impressione che qualcuno vi
dormisse, scavalcai la finestra della mia camera posta al primo piano, e con
un lenzuolo mi calai nel cortile, scavalcai la bassa inferriata di recinzione e
con una certa difficoltà, considerato il lungo periodo di degenza, durante il
quale ero stato sempre attento a non fare movimenti con le gambe,
affinché non venisse scoperta la mia simulazione, raggiunsi l'auto nella
quale mi aspettava mio fratello. Voglio aggiungere che della paralisi dei miei
arti si erano convinti anche i componenti della banda, i quali anche per
questo, ritenendomi ormai finito, avevano smesso di darmi assistenza
economica »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992[18])
L'arresto di Maurizio Abbatino
Un mese dopo l'evasione dalla clinica Abbatino decise che Roma era
diventata troppo pericolosa per lui, stretto tra la morsa della polizia e dei
suoi ex amici della banda scelse allora di fuggire in Sud America, dove gli
uomini della squadra mobile romana e della Criminalpol riuscirono a
scovarlo solo sei anni dopo, il 24 gennaio del 1992, in un elegante residence
alla periferia di Caracas. Gli investigatori che gli davano la caccia
intercettarono infatti una sua telefonata, la sera di capodanno del 1991, che
permise loro di individuarlo: «Noi ogni anno a Natale e Capodanno eravamo
lì ad ascoltare se arrivava una telefonata di auguri alla famiglia e per sei
anni non è mai arrivata.» racconta il vicequestore della Mobile Nicolò
D’Angelo «Ma il sesto anno è arrivata e questo ci ha permesso di
arrestarlo.»[53]
Le autorità italiane avviarono immediatamente le pratiche per il
trasferimento del boss in Italia e, il 4 ottobre dello stesso anno, Abbatino fu
espulso dal Venezuela e preso in consegna dagli uomini della Mobile e
riportato in patria dove decise subito di intraprendere un percorso di
collaborazione con la magistratura, spinto da un grosso sentimento di
rivalsa nei confronti dei suoi ex amici, aumentato anche dal fatto che,
durante la sua latitanza, si erano resi protagonisti dell'omicidio del fratello
Roberto, torturato a morte per cercare di scoprire il rifugio di Crispino. Il
suo corpo, completamente massacrato e con il petto squarciato da una
coltellata finale, riaffiorò alcuni giorni dopo dal fiume Tevere, all'altezza di
Vitinia. «Potevo evadere tranquillamente e non sono stato aiutato.»
racconta Abbatino «Poi c’è stata la morte di mio fratello e credo che i
responsabili siano stati loro, se non materialmente moralmente perché c’era
da parte della banda un sodalizio per cui andavano protetti anche i familiari.
Ormai ero rimasto solo e non sapevo più da che parte stare. Non mi fidavo
più di nessuno.»[54]
Le sue confessioni, che in gran parte confermarono quelle dei precedenti
collaboratori Fulvio Lucioli e Claudio Sicilia (a cui però gli investigatori non
concessero allora il credito necessario), si andarono a sommare quelle di
Vittorio Carnovale, Antonio Mancini e della sua donna Fabiola Moretti.
Nell'interrogatorio reso il 25 aprile 1994, l'Accattone, spiegò così le ragioni
della sua scelta di collaborazione:
« Immediatamente dopo la mia cattura, avuta contezza delle dichiarazioni
di Maurizio Abbatino e del livello elevato delle conoscenze al quale erano
giunti gli organismi investigativi, ho trovato la necessaria determinazione
per rompere in maniera definitiva con l’ambiente criminale nel quale sono
vissuto sin dai primi anni settanta. Verso questo ambiente - a seguito di
mie vicissitudini personali legate, da un lato alla mia lunga carcerazione e
dall'altro all'aver constatato che, progressivamente, erano state
ammazzate, in circostanze che oggi reputo “strane”, persone come Franco
Giuseppucci, Danilo Abbruciati, Nicolino Selis, Angelo De Angelis, Edoardo
Toscano, Gianni Girlando e lo stesso Renato De Pedis, con le quali avevo
intrattenuto fraterni rapporti - avevo maturato un profondo senso di
delusione che non esito a definire di schifo »
(Interrogatorio di Antonio Mancini del 25 aprile 1994[55])
Grazie alle rivelazioni dei pentiti, la mattina del 16 aprile 1993, con la
mobilitazione di 500 agenti della Squadra Mobile, scattò una gigantesca
operazione di polizia denominata "Operazione Colosseo": un fascicolo di
cinquecento pagine pieno zeppo di date, nomi e prove che consentì di
ridisegnare la mappa dell'organizzazione malavitosa romana e di stabilire
con precisione ruoli e responsabilità dei vari componenti, dal quale
scaturirono sessantanove ordini di cattura firmati dal giudice istruttore
Otello Lupacchini, di cui una decina vennero consegnati in carcere ad
altrettanti detenuti.[56]
I processi[modifica | modifica wikitesto]
Il primo processo istruito sulla base delle dichiarazioni di Abbatino fu quello
per il sequestro e l'omicidio del duca Massimiliano Grazioli. Il 20 gennaio del
1995, davanti alla Seconda Corte d'assise presieduta da Salvatore
Giangreco, si diede inizio al procedimento nei confronti dei dieci imputati,
sei dei quali appartenenti alla Banda della Magliana (Emilio Castelletti,
Renzo Danesi, Giorgio Paradisi, Giovanni Piconi, Marcello Colafigli, oltre al
pentito Maurizio Abbatino) e tre a quella di Montespaccato (Franco
Catracchi, Antonio Montegrande e Stefano Tobia). Decimo imputato: il
basista Enrico Mariotti, all'epoca del processo ancora latitante[57].
Per tutti, il pubblico ministero Andrea De Gasperis, chiese la condanna
all'ergastolo, con la sola eccezione del pentito Abbatino per il quale la pena
richiesta fu di otto anni e sei mesi, anche in relazione alla sua
collaborazione offerta ai magistrati in fase di istruttoria e dibattimentale. Il
29 luglio del 1995, dopo appena due ore di camera di consiglio, la corte
condannò tutti gli imputati della Magliana, per il solo reato di sequestro di
persona, a vent'anni anni di reclusione e a otto anni il pentito Abbatino. Al
carcere a vita vennero invece condannati quelli di Montespaccato (ad
esclusione di Tobia che venne invece assolto) perché ritenuti responsabili
anche di omicidio (del duca) e occultamento di cadavere[58].
Il 3 ottobre del 1995, nell'aula bunker allestita appositamente nell'ex
palestra olimpionica del Foro Italico di Roma, iniziò invece il
maxiprocesso[59] che vide alla sbarra l'intera Banda della Magliana. I capi
d'imputazione portati davanti alla Corte d'Assise romana presieduta da
Francesco Amato, nei confronti dei novantacinque imputati, facevano
riferimento a reati quali il traffico di sostanze stupefacenti, le estorsioni, il
riciclaggio del denaro sporco, le speculazioni edilizie e commerciali,
omicidio, rapina e soprattutto l'associazione a delinquere di stampo
mafioso[60]
Il dibattimento finirà inevitabilmente per toccare anche i legami del gruppo
con le altre organizzazioni mafiose (cosa nostra, camorra e 'ndrangheta) e
con le organizzazioni legate all'eversione nera, in riferimento al
coinvolgimento della banda in molti dei misteri italiani, dal caso Moro, al
delitto Pecorelli, alla strage di Bologna.
Il 20 giugno 1996, al termine di una lunghissima istruttoria, il pubblico
ministero Andrea De Gasperis richiese per i 69 imputati (mentre altri 19
avevano invece optato per il rito abbreviato) condanne per un totale di
quasi cinque secoli di carcere: sei ergastoli, pene variabili tra i due e i 30
anni di reclusione, più 17 assoluzioni[61].
Il 23 luglio 1996, dopo quasi due giorni di camera di consiglio, la Corte
lesse la sentenza che complessivamente confermava in gran parte le
richieste del pubblico ministero e dichiarava l'attendibilità dei vari pentiti, a
cui vennero quindi applicati i vari sconti di pena[62].
Raffaele Pernasetti - condannato a 4 ergastoli
Marcello Colafigli - condannato all'ergastolo
Giorgio Paradisi - condannato a 2 ergastoli
Enzo Mastropietro - condannato a 30 anni
Renzo Danesi - condannato a 25 anni
Maurizio Abbatino - condannato a 12 anni
Vittorio Carnovale - condannato a 10 anni
Massimo Carminati - condannato a 10 anni
Giovanni Piconi - condannato a 6 anni
Enrico Nicoletti - condannato a 6 anni
Antonio Mancini - condannato a 1 anno
Fabiola Moretti - condannata a 10 mesi
Tra gli assolti, per non aver commesso il fatto, ci furono Claudio Bracci,
Ernesto Diotallevi, Alessandro D'Ortenzi, Paolo Frau, Antonella Rossi,
Giovanni Tigani, Emilio Salomone Giovanni Scioscia, Massimo Sabatini e
Salvatore Nicitra.
Nel processo di secondo grado, la Prima corte di Assise di Appello, il 27
febbraio del 1998 confermò sostanzialmente le condanne applicando solo
alcune lievi riduzioni di pena e tramutando anche alcuni ergastoli in
condanne varianti da 21 a 30 anni di reclusione (Paradisi a 22 anni e 6 mesi
e Marcello Colafigli a 30 anni)[63].
Negli anni che seguirono, in diverse occasioni esponenti della banda
vennero implicati in vario modo anche in altri processi, come quello per
l'omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, del presidente del Banco
Ambrosiano Roberto Calvi, per il tentato omicidio del direttore generale del
Banco Roberto Rosone o per il coinvolgimento nella strage alla stazione
ferroviaria di Bologna.
Colpita al cuore dal lavoro della magistratura nei processi e dalle varie
condanne che ne scaturirono, oltre che dagli omicidi legati alla sanguinosa
faida interna, la Banda della Magliana si avviò così verso il suo declino
completo.
Gli anni 2000[modifica | modifica wikitesto]
« Sono anni che dico che la Banda è viva. I magistrati mi danno retta a
intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A
domanda rispondo e se non so, sto zitto »
(Intervista ad Antonio Mancini[64])
Anche se il nucleo storico della banda della Magliana, decimato da arresti,
omicidi, pentimenti e condanne passate in giudicato ha probabilmente del
crimine romano, molti segnali, tra i quali le parole del boss pentito Antonio
Mancini ed alcuni fatti di cronaca, sembrerebbero avvalorare la tesi secondo
la quale l'organizzazione criminale sia ancora attiva.[65]
« Roma è ancora in mano alla banda della Magliana. Adesso non spara più
ma fa affari importanti. Ha usato e continua a usare i soldi di chi è morto e
di chi è finito in galera. E non ha più bisogno di sparare. O almeno, di
sparare troppo spesso. La banda ha conquistato la piazza e ha incrementato
di nuovo i guadagni. Adesso ci sta la manovalanza e quelli che hanno
usufruito delle nostre azioni. La cassa, i soldi, li hanno quelli che sono stati
solo sfiorati dalle indagini e ne sono venuti fuori alla grande, potendo
tranquillamente continuare a fare i loro affari. Io mi chiedo che fine abbiano
fatto tutti i soldi, i palazzi, centro commerciali, night club e le attività in
mano ai personaggi legati alla banda? Qualcuno è riuscito a sequestrarli?
Assistiamo a dei sequestri a tutte le associazioni criminali, alla Mafia, alla
‘Ndrangheta e la Camorra ma non alla banda della Magliana. Come mai? »
(Intervista ad Antonio Mancini[66])
L'omicidio Frau[modifica | modifica wikitesto]
Il 18 ottobre del 2002 veniva ucciso colpi di arma da fuoco Paolo Frau, 53
anni ed ex luogotenente di "Renatino" De Pedis e poi a capo di
un'organizzazione criminale operante sul litorale romano, freddato mentre
saliva a bordo della sua auto nei pressi della sua abitazione, in via
Francesco Grenet ad Ostia Lido. Uno dei due killer in moto, con il volto
coperto da caschi integrali, dopo aver fatto scattare l'antifurto della sua
BMW, attese Frau in strada e lo colpì con tre pallottole a bruciapelo. Assolto
in appello nel maxi-processo alla banda, era diventato il luogotenente di
Emidio Salomone nella piazza di Ostia, dove assunse il controllo delle nuove
attività sul litorale, del racket delle estorsioni e del gioco clandestino. Il suo
delitto è, ad oggi, ancora irrisolto[67].
L'omicidio Mozzilli[modifica | modifica wikitesto]
Il 29 febbraio 2008, nel quartiere romano di Centocelle, viene assassinato
con un colpo di pistola alla testa Umberto Morzilli, 51 anni, colpito da due
sicari in moto che lo bloccano in piazza delle Camelie mentre, a bordo della
sua Mercedes, aveva cercato di aprire la portiera nel tentativo di sottrarsi
all'agguato. Un passato da carrozziere e poi, affiliato alla banda, prima
come spacciatore e successivamente come grosso trafficante di droga. Nel
2002, cominciò a fare affari con Danilo Coppola e, nel 2003, venne
arrestato per estorsione assieme a Antonio "Tony" Nicoletti (figlio di Enrico
Nicoletti, cassiere della Banda)[68][69].
I rapporti con la politica[modifica | modifica wikitesto]
Maurizio Lattarulo, chiamato “Provolino”, nel luglio del 2008 ha ricevuto un
incarico da esterno per le Politiche Sociali al comune di Roma da parte di
Gianni Alemanno. Lattarulo, coinvolto e prosciolto in una indagine sui Nar,
da luglio a dicembre 2008 avrebbe ricevuto dal Comune poco più di 13mila
euro e nei due anni successivi quasi 31 mila euro. Nel luglio del 2012 era
segretario particolare dell’attuale presidente della Commissione politiche
sociali, Giordano Tredicine[70].
Il 23 febbraio 2010, nell'ambito di una inchiesta sul riciclaggio di capitali
legati alla 'Ndrangheta, il senatore del PDL Nicola Di Girolamo, viene
accusato di aver partecipato ad un sodalizio criminale che, assieme a
Gennaro Mokbel, personaggio collegato in passato ad ambienti della destra
eversiva, avrebbe riciclato oltre 2 miliardi di euro e favorito l'elezione del
senatore nel collegio estero di Stoccarda, ad opera dalla famiglia Arena,
'ndrina di Isola di Capo Rizzuto[71]. Gennaro Mokbel è, tra l'altro, un uomo
legato ad Antonio D’Inzillo che, considerato uno dei killer del boss della
Magliana Enrico De Pedis, fu arrestato dalla polizia il 22 maggio del 1992
proprio nell'abitazione dello stesso Mokbel, che per questo motivo venne
anche denunciato. Nel 1993, D'Inzillo riuscì comunque a fuggire all'estero,
schivando il mandato di cattura a suo carico (proprio per l'omicidio di
Renatino) all'interno della famosa Operazione Colosseo che, grazie alle
dichiarazioni del pentito Maurizio Abbatino, diede il via al maxiprocesso che
decapitò l'intera banda della Magliana. Una latitanza la sua che, l'ordinanza
del gip Aldo Morgioni, sostiene sia stata finanziata proprio da Mokbel e che
ha termine il 26 giugno 2008 quando viene resa pubblica la notizia della sua
morte in un ospedale di Nairobi, in Kenia. Il suo corpo, frettolosamente
cremato, non venne mai messo a disposizione della magistratura
italiana[72].
La recrudescenza[modifica | modifica wikitesto]
Il 4 giugno 2009 viene assassinato Emidio Salomone, 55 anni ed un passato
nella banda; viene freddato da due killer in moto che gli sparano due colpi
di pistola al volto, davanti a una sala giochi di via Cesare Maccari ad Acilia,
nella periferia di Roma[73]. Sfuggito nel novembre del 2004 al blitz contro
gli eredi della banda, nel quale finirono in manette 18 persone, Salomone
venne poi arrestato in Danimarca nel 2005 ma, rimesso in libertà prima
ancora di essere estradato dopo una decisione del Tribunale del Riesame di
Roma, era rientrato in Italia dove aveva ripreso a lavorare nel racket delle
estorsioni, dell'usura e del traffico di droga ad Ostia. Il 12 settembre del
2011 per omicidio premeditato aggravato dal metodo mafioso e in concorso
con altre due persone, finisce in manette Massimo Longo con l'accusa di
essere il mandante del delitto Salomone il cui movente sarebbe stato lo
spaccio di eroina nella piazza di Acilia[74].
Il 21 settembre del 2010, nell'ambito di una grossa operazione
antiriciclaggio disposta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e
condotta dalla Polizia di Stato che mette fine ad una organizzazione
criminale dedita all'usura, al riciclaggio di denaro, al millantato credito, alle
estorsioni e alle truffe, porta all'arresto di 11 persone e a numerosissime
perquisizioni. Le persone coinvolte sono esponenti della criminalità
organizzata romana e napoletana, tra i quali spicca il nome di Enrico
Nicoletti, il cosiddetto cassiere della Banda della Magliana. L'indagine era
partita dall'omicidio di Umberto Morzilli del febbraio 2008, personaggio
legato all'immobiliarista Danilo Coppola[75].
Il 2 ottobre del 2010 le Squadre Mobili di Roma e Caserta sventano una
rapina al caveau di un istituto di credito sito in pieno centro della cittadina
campana e arrestano 7 persone tra cui il pluripregiudicato Manlio Vitale, 61
anni e detto Er Gnappa, ex esponente della banda ed amico fraterno di
Enrico De Pedis. I sette, sorpresi al lavoro mentre effettuavano il carotaggio
di una parete in cemento armato, furono bloccati quando oramai erano a
pochi centimetri dal caveau. Arrestato già nel ’78, ’80 e nel 1985, Vitale fu
anche coinvolto nell’omicidio di un altro componente della Magliana, Amleto
Fabiani e, infine, nel 2000, venne accusato di essere uno dei mandanti del
furto di 147 cassette di sicurezza sottratte al caveau della Banca di Roma di
piazzale Clodio[76].
Il 5 luglio 2011, il trentatrenne Flavio Simmi viene ucciso con 9 proiettili
esplosi a distanza ravvicinata in un agguato in pieno giorno in via Grazioli
Lante, nel quartiere Prati, nel centro di Roma. L'uomo che, era già stato
gambizzato solo pochi mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, è figlio di
Roberto Simmi e nipote di Tiberio, accusati in passato di usura e
ricettazione e arrestati (ma poi prosciolti da ogni accusa), nel 1993,
nell'ambito dell'Operazione Colosseo perché ritenuti legati al nucleo storico
della banda della Magliana. Un’informativa della polizia li descrive in questo
modo: «Roberto Simmi è il fratello del più noto Tiberio, più volte visto in
compagnia di Enrico De Pedis. Tiberio, con il figlio Alessio, gestisce un
negozio di oreficeria assiduamente frequentato da Maurizio Lattarulo.
Presso il negozio di piazza del Monte, invece, è stata rilevata anche la
presenza di Antonio Mancini e di Raffaele Pernasetti. Inoltre
dall’intercettazione telefonica ancora in corso si è potuto stabilire che il
negozio è stato, per un periodo di tempo, frequentato dal famoso
faccendiere Ernesto Diotallevi inquisito unitamente ai noti Francesco
Pazienza, Flavio Carboni e altri pregiudicati della vecchia Banda della
Magliana per le vicende del crack del banco Ambrosiano e per l’attentato al
vice direttore Roberto Rosone, durante il quale viene ucciso uno degli
attentatori, Danilo Abbruciati. Nelle attività dei fratelli Simmi investiva
Franco Giuseppucci il quale ricettava titoli di credito e polizze e, per conto
terzi, riciclava denaro sporco presso gli ippodromi e le sale corse.»[77][78]
Il 6 luglio 2011, viene nuovamente arrestato Enrico Nicoletti con l'accusa di
"associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito,
truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione" nell'ambito di una operazione
anti-usura e anti-riciclaggio nei confronti di un gruppo criminale dedito alle
truffe nel settore immobiliare legato alle aste giudiziarie e di cui Nicoletti
sarebbe stato a capo. Dopo poco lascerà il carcere per scontare la pena in
regime di arresti domiciliari.[79][80] Il 27 febbraio 2012 è tornato di nuovo
tra le sbarre del carcere romano di Rebibbia per scontare un residuo di pena
di sei anni e mezzo, con sentenza definitiva della Cassazione per
associazione a delinquere finalizzata all'usura.[81]
Il 12 luglio 2011, la squadra mobile romana, arresta Giuseppe De Tomasi e
altre 11 persone accusate di aver messo in piedi una vera e propria
organizzazione criminale dedita alla gestione di sale da gioco, all'estorsione,
ricettazione, riciclaggio e usura nei confronti di imprenditori e personaggi
del mondo dello spettacolo. Tra gli altri arrestati ci sono molti componenti
della sua famiglia: i figli Arianna e Carlo Alberto, la moglie Anna Maria
Rossi, il genero Roberto Roberti e la consuocera Celestina Adriana Carletti.
Sequestrati anche ventuno conti correnti, dieci immobili, nove società
alcune autovetture, per oltre cinque milioni di euro.
Il 28 aprile 2012, durante un tentativo di rapina nei confronti di due fratelli
commercianti di gioielli, nel nuovo quartiere di Mezzocammino (Spinaceto)
sito alla periferia sud-ovest della capitale, uno dei malviventi viene ucciso,
colpito al petto dopo un violento conflitto a fuoco. Si tratta di Angelo
Angelotti, 61 anni e componente storico della Magliana che, nel 1995, era
già finito sotto processo per l'omicidio di De Pedis perché ritenuto tra coloro
che lo attirarono nella trappola in via del Pellegrino vicino a Campo di Fiori,
dove poi fu ucciso[82].
Il 6 ottobre 2014 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la
Corte di appello di Roma Otello Lupacchini ottiene la riapertura del caso
riguardante secondo la sentenza di primo grado, della rapina finita male in
cui Angelo Angelotti ha perso la vita per mano del gioielliere Andrea
Polimadei poi assolto per legittima difesa, a questa vicenda
corrisponderebbero gli atti intimidatori e pedinamenti emersi nell'ordinanza
Nuova Alba che ha decapitato la mafia ad Ostia verso Cinzia Pugliese, ex
compagna di Angelotti. Intimidazioni culminate poi nella gambizzazione
della donna avvenuta il 26 luglio 2013, presumibilmente da parte di
Riccardo Sibio, appartenente al clan locale dei Fasciani e spesso al servizio
anche dei componenti della Banda facendo immaginare così ad un vero e
proprio regolamento di conti risalente ad oltre vent'anni fa in seguito
all'omicidio di Enrico De Pedis[83].
Sempre nel 2014 l'ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari e vicino alla
Banda, Massimo Carminati e alcuni complici vengono arrestati nell'ambito
dell'operazione Mafia Capitale; chiamata come Cupola Romana o ancora
Clan Carminati, questa organizzazione operava a Roma già a partire circa
dal 2000[84], affondando le sue radici a partire dalle rapine dei NAR negli
anni ottanta e successivamente nella stessa banda della Magliana.[85]
Personalità e vittime[modifica | modifica wikitesto]
Maurizio Abbatino - Arrestato il 24 gennaio 1992 a Caracas, pochi giorni
dopo la sua estradizione in Italia, decise di intraprendere un percorso di
collaborazione con la giustizia.[86] Attualmente sta scontando la detenzione
in regime di arresti domiciliari, in una località protetta.
Danilo Abbruciati - Ucciso il 27 aprile 1982, a Milano, da una guardia giurata
mentre, a bordo di una moto guidata da un complice, tentava la fuga dopo
un fallito attentato ai danni del vice presidente del Banco Ambrosiano,
Roberto Rosone.[87]
Ottorino Addis - Ucciso l'8 marzo 1996 a Ostia, poco prima della
mezzanotte, con quattro colpi di pistola da un killer appostato nel
parcheggio del ristorante nel quale aveva poco prima cenato assieme alla
sua convivente.[88]
Angelo Angelotti - Ucciso il 28 aprile 2012, a Spinaceto, durante un
tentativo di rapina organizzato assieme ad altri due complici ai danni di un
furgone portavalori. Durante il conflitto a fuoco venne freddato da un colpo
di pistola da parte di uno dei gioiellieri.[89]
Claudiana Bernacchia - Casco d'oro, com'era soprannominata la storica
compagna di Claudio Sicilia (e poi moglie di Giorgio Paradisi), dopo essere
sfuggita per un soffio alla maxi retata (Operazione Colosseo) che nel 1992
decapitò l'intera organizzazione malavitosa romana, venne arrestata il 9
agosto del 1993.[90] Attualmente è libera e da qualche anno lavora come
coordinatrice in un'associazione romana che si occupa di reinserimento di
donne e minori nella società.[91]
Giuseppe Carnovale - Deceduto nel 1992 per cause naturali.
Vittorio Carnovale - Dopo l'arresto, avvenuto nel 1993, decise di diventare
collaboratore di giustizia. Nel maxiprocesso che vide alla sbarra l'intera
banda venne accusato di 7 omicidi e condannato a 10 anni di reclusione.
Attualmente è libero.[92]
Angelo Cassani - Indagato nell'ambito dell'inchiesta della scomparsa di
Emanuela Orlandi. Attualmente è libero.[93]
Gianfranco Cerboni - Chiamato in causa dalle dichiarazioni della
supertestimone Sabrina Minardi, è indagato nell'ambito dell'inchiesta della
scomparsa di Emanuela Orlandi. Attualmente è libero.[94]
Marcello Colafigli - Condannato all’ergastolo per tre omicidi, è attualmente
detenuto in un maicomio criminale.[95]
Renzo Danesi - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di
semilibertà. Da qualche anno fa parte della compagnia teatrale Stabile
Assai, composta da detenuti-attori del carcere romano di Rebibbia con cui si
è esibito nei maggiori teatri italiani. Fine pena 2015.
Angelo De Angelis - Ucciso il 10 febbraio 1983.
Enrico De Pedis - Ucciso il 2 febbraio 1990 a Campo De'Fiori a Roma.
Giuseppe De Tomasi - Arrestato nuovamente il 12 luglio 2011 per usura,
attualmente è in attesa di giudizio.
Ernesto Diotallevi - Attualmente libero, l'ultima assoluzione risale al giugno
2007 dall'accusa di concorso in omicidio del banchiere Roberto Calvi.
Roberto Fittirillo - Attualmente libero, l'ultima assoluzione risale al 12
ottobre 2007 per prescrizione e comportamento irreprensibile.
Paolo Frau - Ucciso il 18 ottobre 2002 in via Francesco Grenet ad Ostia Lido.
Giovanni Girlando - Ucciso nel maggio 1990 nella Pineta di Castel Porziano.
Franco Giuseppucci - Ucciso il 13 settembre 1980 in Piazza San Cosimato a
Trastevere a Roma da i fratelli "Palle d'oro"
Antonio Leccese - Ucciso il 3 febbraio 1981 a Roma.
Fulvio Lucioli - Collaboratore di giustizia, attualmente libero.
Antonio Mancini - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di
arresti domiciliari. Da qualche anno presta servizio volontario di assistenza
a ragazzi disabili.
Giuseppe Magliolo - Ucciso il 24 novembre 1981 a Ostia.
Libero Mancone - Deceduto nel 1993 in un incidente stradale con la sua
moto.
Enzo Mastropietro - Arrestato a Ibiza, il 14 luglio 1999, è attualmente
detenuto.
Alessio Monselles - Arrestato nuovamente il 6 luglio 2011 accusato di
associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito,
truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione. In attesa di giudizio.
Fabiola Moretti - Arrestata nuovamente il 19 maggio 2012 a Santa Palomba
durante un controllo antidroga, attualmente sta scontando la detenzione in
regime di arresti domiciliari.
Umberto Morzilli - Ucciso il 29 febbraio 2008 in piazza delle Camelie a
Roma.
Enrico Nicoletti- Arrestato nuovamente il 27 febbraio 2012, attualmente è
detenuto nel carcere di Rebibbia per scontare una condanna a sei anni e sei
mesi di reclusione per associazione a delinquere finalizzata ad usura,
estorsione e rapina. * Antonella Rossi deceduta nel 2003 cause naturali.
Giorgio Paradisi - Deceduto a Napoli il 28 novembre 2006 a causa di un
tumore.
Raffaele Pernasetti - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di
semilibertà per decisione dei giudici di sorveglianza di Firenze, che nel
novembre 2012 hanno concluso per la sua non pericolosità e concesso un
graduale reinserimento sociale. Lavora di giorno come cuoco nel ristorante
di proprietà del fratello a Testaccio.
Emidio Salomone - Ucciso il 4 giugno 2009 ad Acilia.
Nicolino Selis - Ucciso il 3 febbraio 1981, il suo corpo non fu mai ritrovato.
Claudio Sicilia - Ucciso il 18 novembre 1991 in via Andrea Mantegna a
Roma.
Edoardo Toscano - Ucciso il 16 marzo 1989 a Ostia.
Gianfranco Urbani - Deceduto il 18 maggio 2014 in una clinica di Latina,
dove era ricoverato allo stadio terminale di una grave malattia.
Claudio Vannicola - Ucciso il 23 febbraio 1982.
Manlio Vitale - Arrestato nuovamente il 4 ottobre 2010 per tentata rapina
ad una banca di Caserta, attualmente è detenuto.
Sergio Virtù - Arrestato nuovamente il 9 marzo 2010 per reati di truffa e
indagato nell'ambito dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Attualmente è detenuto nel carcere di Regina Coeli.
Domenico Zumpano - Deceduto il 4 febbraio 1997 cadendo dalle scale di
casa durante una crisi epilettica.
Filmografia[modifica | modifica wikitesto]
Cinema[modifica | modifica wikitesto]
I banchieri di Dio - Il caso Calvi, regia di Giuseppe Ferrara (2002)
Fatti della banda della Magliana, regia di Daniele Costantini (2004)
Romanzo criminale, regia di Michele Placido (2005)
5 (Cinque), regia di Francesco Maria Dominedò (2011)
Televisione[modifica | modifica wikitesto]
Blu notte - Misteri italiani. La Banda della Magliana, una trasmissione
televisiva di Rai 3 condotta da Carlo Lucarelli (2004)
Vite a perdere, regia di Paolo Bianchini - miniserie TV (2004)
Romanzo criminale - La serie, regia di Stefano Sollima - serie TV
(2008-2010)
La "Banda della Magliana" - La vera storia - Documentario di History
Channel (2012)
Note[modifica | modifica wikitesto]
^
« Sono anni che dico che la Banda è viva. I magistrati mi danno retta a
intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A
domanda rispondo e se non so, sto zitto »
(Intervista ad Antonio Mancini Caso Orlandi: per il pentito Mancini la banda
della Magliana è viva in Roma Online, 15 maggio 2012. URL consultato il 3
luglio 2012.)
^ a b c d e f g h Ordinanza di rinvio a giudizio, nottecriminale.it.
^ a b c d e f g h i j Bianconi
^ a b c d e Storia criminale del figlio di un fornaio, Misteri d'Italia. URL
consultato il 4 luglio 2012.
^ a b c Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992
^ Esclusivo: Tra Abbattino e il Freddo. La vera storia della Banda della
Magliana/1, Notte Criminale. URL consultato il 4 luglio 2012.
^ a b Cristiano Armati, Italia criminale, Newton Compton Editori, 2012, pp.
258–, ISBN 978-88-541-4175-9. URL consultato il 3 luglio 2012.
^ Interrogatorio di Antonio Mancini del 29 aprile 1994
^ Esclusivo: Tra Abbattino e il Freddo. La vera storia della Banda della
Magliana/2, Notte Criminale. URL consultato il 4 luglio 2012.
^ a b c d Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992
^ a b c Masia Antonio, Così fu ucciso il duca Grazioli in Corriere della Sera,
5 ottobre 1993. URL consultato il 3 luglio 2012.
^ La banda della magliana, Archivio '900, 5 ottobre 2006. URL consultato il
4 luglio 2012.
^ Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 11 febbraio 1993
^ a b c d Di Giovacchino
^ Bianconi Giovanni, Le faide dopo gli affari della Banda Così finisce un mito
(sbagliato) in Corriere della Sera, 29 aprile 2012. URL consultato il 3 luglio
2012.
^ Interrogatorio di Fabiola Moretti dell'8 giugno 1994
^ a b Flamini
^ a b c Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992
^ Masia Antonio, L'uomo dei mille segreti in Corriere della sera, 22 marzo
1994. URL consultato il 3 luglio 2012.
^ Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 6 novembre 1992
^ Filmato audio Via di Donna Olimpia 152, La Repubblica, 4 febbraio 2010.
URL consultato il 4 luglio 2012.
^ Martirano Dino, I misteri della Magliana in Corriere della Sera, 23 luglio
1996. URL consultato il 3 luglio 2012.
^ Interrogatorio di Paolo Aleandri dell'8 agosto 1990
^ Elio Scribani, Tagliai io la testa a Semerari aveva tradito un nostro
accordo, la Repubblica, 25 maggio 2010. URL consultato il 3 settembre
2015.
^ Filmato audio Aldo Semerari assassinato dalla camorra, Rai Storia, 1
aprile 1982. URL consultato il 4 luglio 2012.
^ Filmato audio Bar di via Fermi, La Repubblica, 4 febbraio 2010. URL
consultato il 4 luglio 2012.
^ Massimo Carminati, militante politico - Italia, Archivio '900. URL
consultato il 4 luglio 2012.
^ L'eversione di destra dopo il 1974, Archivio '900, 24 febbraio 2006. URL
consultato il 4 luglio 2012.
^ Un giornalista che sapeva troppo - L'assassinio di Mino Pecorelli, Misteri
d'Italia. URL consultato il 5 luglio 2012.
^ Senato della Repubblica XIV LEGISLATURA Documenti.
^ La Magliana, uno schizzo di fango su Vitalone in La Repubblica, 1º agosto
2000. URL consultato il 4 luglio 2012.
^ Omicidio Pecorelli: nessuna prova contro Andreotti in La Repubblica, 1º
agosto 2000. URL consultato il 4 luglio 2012.
^ Corte di cassazione, Sentenza 24 novembre 2003, n. 45276, eius.it. URL
consultato il 5 luglio 2012.
^ Stefano Grassi, Il caso Moro: un dizionario italiano, Mondadori, 2008,
ISBN 978-88-04-56851-3. URL consultato il 3 luglio 2012.
^ Giuseppe Rinaldi, Intervista a Maurizio Abbatino, Archivio '900. URL
consultato il 4 luglio 2012.
^ Di Giovacchino, pag. 43
^ la Repubblica/dossier: 'Imputato Andreotti lei e Cosa Nostra…'
^ Bologna 2 agosto 1980, La Storia Siamo Noi
^ a b Sentenza della Corte Suprema di Cassazione, 23 novembre 1995.
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^ Il caso Calvi, un mistero italiano
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