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Università degli Studi di Catania Facoltà di Giurisprudenza 2006 Valerio Speziale Il trasferimento d’azienda tra disciplina nazionale ed interpretazioni “vincolanti” della Corte di Giustizia Europea WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT - 46/2006

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Università degli Studi di Catania

Facoltà di Giurisprudenza

2006

Valerio Speziale

Il trasferimento d’azienda tra disciplina nazionale ed interpretazioni “vincolanti” della

Corte di Giustizia Europea

WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT - 46/2006

© Valerio Speziale 2006 Facoltà di Economia – Università di Chieti-Pescara [email protected]

ISSN – 1594-817X Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Massimo D’Antona”

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WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" .IT - 46/2006

Il trasferimento d’azienda tra disciplina nazionale ed interpretazioni “vincolanti” della Corte di Giustizia

Europea*

Valerio Speziale Università degli studi di Chieti-Pescara

1. Introduzione..................................................................... 2

2. La “supremazia” dell’ordinamento comunitario e le disposizioni più favorevoli che possono essere introdotte dagli stati nazionali. 3

3. La nozione di azienda in base alla disciplina comunitaria e nazionale ............................................................................11

4. Segue. Il ramo di azienda .................................................20

5. L’identificazione del ramo di azienda al momento del trasferimento ......................................................................25

6. Segue. La possibilità di selezionare il personale coinvolto nel trasferimento del ramo .........................................................29

7. La rilevanza o meno del consenso del lavoratore...................35

8. Il trasferimento d’azienda e la successione negli appalti .........46

Riferimenti bibliografici .........................................................51

* Questo saggio, con lo stesso testo o con alcune variazioni, verrà pubblicato in DLRI.

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1. Introduzione

La disciplina del trasferimento d'azienda ha vissuto, come è noto, una stagione di intense riforme culminate nelle modifiche dell'art. 2112 c. c. introdotte dai d.lgs. 18/2001 e 276/2003. Le ragioni di questo notevole dinamismo normativo sono varie. In primo luogo vi era la necessità di adeguare l'ordinamento nazionale alle direttive europee in materia, che avevano modificato il contenuto della prima fonte europea di regolamentazione (la 77/187/CEE del 14 febbraio 1977). Le riforme, dunque, sono espressione di quel processo di integrazione giuridica sollecitato dai recenti sviluppi della Unione Europea, che hanno enormemente incrementato l'influenza del diritto comunitario nella regolazione di alcune materie da parte degli Stati nazionali. Inoltre, vi era l'esigenza - anche questa molto sentita sia in Europa sia in Italia – di disciplinare il fenomeno delle esternalizzazioni dei processi produttivi. In questo ambito, infatti, il trasferimento di ramo di azienda assume un valore fondamentale per realizzare quei processi di segmentazione dell'impresa che costituiscono il "cuore" delle strategie di outsourcing.

Gli elementi descritti spiegano le innovazioni ed anche il naturale interesse da esse suscitato in dottrina ed in giurisprudenza. I commenti e le analisi sull'articolo 2112 (ma anche sulla direttive europee precedenti a quella del 2001) sono imponenti nel numero e (spesso) di elevato contenuto scientifico. Le sentenze dei giudici di merito e della Cassazione contribuiscono ad alimentare il dibattito, anche perché le decisioni hanno adottato soluzioni interpretative che tengono in considerazione le direttive anche prima che esse fossero implementate nell'ordinamento italiano. Il quadro complessivo, anche se presenta alcuni elementi di incertezza e varietà di opinioni, sembra essere abbastanza consolidato e non giustificherebbe un’ulteriore analisi del tema.

Tuttavia mi pare che i commenti e gli approfondimenti non abbiano tenuto nella dovuta considerazione i "vincoli interpretativi" derivanti dalle numerose sentenze della Corte di Giustizia Europea (anche se non mancano eccezioni: è questo il caso, ad esempio, di Novella, Vallauri 2005). L'impressione è che le decisioni della Corte - sottoposte in molti casi ad analisi esaurienti e raffinate dal punto di vista scientifico - sono peraltro state considerate come autorevoli precedenti giurisprudenziali, non dissimili dalle sentenze dei giudici nazionali. La realtà è diversa, in quanto il "diritto vivente europeo" che scaturisce dalla giurisprudenza comunitaria ha un rilievo molto più importante che dovrebbe condizionare le opzioni interpretative in misura assai superiore a quanto in generale si ritenga. In questo saggio si cercherà di analizzare la disciplina nazionale alla stregua dei principi enucleati dalla Corte di Giustizia, attribuendole

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quel valore di vera e propria “fonte del diritto” che essa ha acquisito nell’ordinamento nazionale anche grazie ad alcune essenziali pronunce della Corte Costituzionale.

Inoltre l'attenzione verrà concentrata anche su un altro aspetto che non è stato particolarmente considerato. Si tratta di valutare gli effetti che il principio del favor (previsto in tutte le direttive in materia di trasferimento d'azienda) può esercitare sulla interpretazione della disciplina nazionale. Infatti alcune disposizioni dell'art. 2112, se lette come norme che introducono trattamenti di miglior favore rispetto alla regolamentazione europea, possono condurre ad esiti interpretativi molto diversi da quelli comunemente espressi e fornire un punto di vista dal quale partire per una differente ricostruzione della disciplina esistente.

Infine il saggio si propone di studiare alcuni aspetti, come l’identificazione del ramo di azienda da trasferire, la selezione del personale in esso occupato, la successione negli appalti, che sono essenziali nell’ambito delle strategie di esternalizzazione e che sollevano problemi interpretativi molto complessi.

Dopo queste doverose premesse, è possibile passare all'analisi delle varie problematiche connesse al trasferimento di azienda. Non senza avvertire, peraltro, che il saggio non tratterà tutte le questioni legate al tema, ma soltanto quelle che, a mio giudizio, presentano particolari ragioni di interesse alla luce delle linee guida in precedenza delineate.

2. La “supremazia” dell’ordinamento comunitario e le disposizioni più favorevoli che possono essere introdotte dagli stati nazionali

In base alle considerazioni in precedenza espresse e prima di entrare direttamente in argomento, è opportuno soffermarsi su alcune questioni preliminari, connesse ai rapporti tra ordinamento nazionale e quello europeo. La disciplina del trasferimento d’azienda, infatti, è caratterizzata sia da fonti comunitarie (l’ultima è la direttiva 2001/23/CE, che ha consolidato le due precedenti 77/187/CE e 98/50/CE), sia dall’art. 2112 c.c., le cui recenti innovazioni sono conseguenti al recepimento delle normative europee. Ne deriva l’applicazione di una serie di principi di carattere generale che condizionano qualsiasi processo interpretativo e che sono il frutto di un consolidamento giurisprudenziale realizzato dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza italiana e comunitaria. Ovviamente, in questa sede ci si limiterà a sintetizzare gli orientamenti di queste magistrature, senza alcuna pretesa di approfondire tematiche assai complesse, che richiederebbero ben altre analisi critiche.

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In tale ambito è sufficiente ricordare che, in conseguenza della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (CGE) e di quella della Corte Costituzionale italiana (recepita dai giudici di merito e di legittimità nazionali), si è consolidata la prevalenza dell'ordinamento giuridico europeo su quello italiano1. In relazione alle direttive, che come noto richiedono un atto legislativo che le renda obbligatorie negli ordinamenti nazionali e che soltanto a determinate condizioni possono avere efficacia diretta negli Stati membri, tale supremazia si manifesta in via interpretativa. Non vi è dubbio, infatti, che, dopo il recepimento da parte dello stato membro, la legge nazionale che implementa la direttiva deve essere interpretata in modo tale da rispecchiare il contenuto della normativa comunitaria e, nel caso di conflitto tra disposizioni italiane e quelle europee, occorre adottare una lettura delle norme che sia coerente con la fonte comunitaria (“interpretazione adeguatrice”)2.

Qualora la questione non possa essere risolta in via interpretativa, il giudice italiano, nel caso di controversia nella quale sia parte lo stato membro o la pubblica amministrazione, dovrà procedere alla disapplicazione della norma nazionale ed all'applicazione di quell'europea. Se, invece, la controversia é tra privati, secondo alcune interpretazioni prevarrà la disposizione italiana, o vi sarà la possibilità di un'azione di risarcimento danni da parte del cittadino nei confronti dello Stato che ha mal recepito la direttiva. A parte l’azione per i danni – sempre possibile da parte dell’interessato e purché vi siano i requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria3 – sul tema ho una diversa opinione. Ritengo, infatti, che, quando non sia possibile utilizzare l’interpretazione adeguatrice, il giudice sarà obbligato, ai sensi dell'art. 234 della Trattato UE, ad invitare la Corte di Giustizia Europea a valutare la coerenza della

1 C.Cost. 8.6.1984 n. 170; C. Cost. 19.4.1985 n. 113; C. Cost. 11.7.1989 n. 389; C. Cost. 18.4.1991 n. 168; C. Cost. 7.2.2001 n. 41. Cgce 9.3.1978, Simmenthal, causa C - 106/77, Racc., 1978, 629; Cgce 17.12.1980, Commissione Europea c. Belgio, causa C - 149/79, Racc., 1980, 3881; Cgce 10.4.1984, Harz, causa C - 79/83, FI, 1985, IV, 59 ss.; Cgce 22.6.1989, Costanzo, causa C – 103/88, Racc., 1989, 1839; Cgce 12.10.1993, Vanacker, Lesage, causa C – 37/92, Racc., 1993, I, 4947; Cgce 14.7.1994, Faccini Dori, causa C - 91/92, Racc., 1994, I, 3325. Su tali aspetti si rinvia a Santoni 1992, 684 ss.; Foglia 1992, 764 ss.; Id. 2002, 57 ss.; Arrigo 1998, 71 ss.; Ballarino 2004, 147 ss.; Roccella 2004, 4 ss. 2 Cgce 14.9.2000, Collino, Chiappero, causa C – 343/98, punto 21; Cgce 13.11.1990, Marleasing, causa C - 106/89, Racc., 1990, I, 4135; Cgce 12.10.1993, Vanacker, Lesage, causa C – 37/92, Racc., 1993, I, 4947; Cgce 14.7.1994, Faccini Dori, causa C - 91/92, Racc., 1994, I, 3325. V. anche Foglia 1992, 765 ss. ; Id. 2002, 60 ss.; Roccella, 2004, 5 ss.; Novella, Vallauri 2005, 178 ss. 3 A partire dalla famosa sentenza della Cgce 19.11.1991, Francovich, cause C – 6/90 e 9/90.

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normativa nazionale con quella comunitaria, con l'obbligo per il magistrato italiano di applicare la decisione che verrà assunta. Tale effetto, a mio giudizio, scaturisce, in primo luogo, dalla prevalenza dell’ordinamento europeo su quello nazionale. Non va dimenticato, poi, che il rinvio alla Corte ai sensi dell'art. 234 ha la finalità di “(garantire) l'interpretazione e l'applicazione uniformi del diritto comunitario”4 e di offrire ai giudici nazionali strumenti idonei “a superare le difficoltà insite nell'assicurare, nel contesto degli ordinamenti giuridici interni, la piena effettività del diritto comunitario”5. La possibilità per il magistrato italiano, in caso di insanabile contrasto interpretativo, di applicare immediatamente il diritto interno si porrebbe in contrasto con i principi indicati. Va ricordato, infine, che la valutazione della conformità con il diritto europeo dovrà essere effettuata in coerenza con il significato attribuito alle disposizioni comunitarie dalla Corte di Giustizia. Si è già detto, infatti, che queste decisioni non assumono soltanto il valore di un precedente interpretativo autorevole ma non vincolante, ma operano quale elemento “di integrazione del testo (della legge), assumendo una vera e propria natura 'normativa' ”6, con sentenze che estendono i loro effetti al di là del caso oggetto di giudizio e delle parti in lite.

Il contesto descritto può aiutare a risolvere alcuni problemi interpretativi connessi alla nuova disciplina italiana del trasferimento d’azienda, che dovrà essere posta a confronto con la direttiva 2001/23/CE e con la consistente giurisprudenza della CGE in materia7.

4 Cgce 27.3.1980, Ministero Finanze, causa C - 61/79, Racc., 1980, 1205. 5 Cgce 16.1.1974 , Rheinmuhlen Dusseldorf, causa C - 166/73, Racc., 1974, 33. 6 Foglia 2004a, 61; Id. 2004b, 83; Id. 2002, 57 ss.; Novella, Vallauri 2005, 179. Cass. 10.1.2004 n. 206 parla di “valore “normativo” delle pronunce interpretative della Corte comunitaria”. Secondo C. Cost. 11.7.1989 n. 389, la sentenza della Corte di Giustizia (sia quella interpretativa emessa ai sensi dell’art. 234 – già 177 –, sia quella resa in procedure di infrazione degli obblighi comunitari ai sensi dell’art. 226 – già 169 del Trattato) quando “applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbio carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato del diritto, ne precisa autoritativamente il significato con le proprie sentenze e, per tale via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative”. La Corte, in particolare, ha ritenuto che il principio indicato si applichi in presenza di una “norma comunitaria avente “effetti diretti” - vale a dire una norma dalla quale i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni direttamente tutelabili in giudizio “. Situazione questa che è sicuramente rinvenibile nella direttiva sul trasferimento d’azienda. 7 La Corte Costituzionale, con la sentenza 18 aprile 1991 n. 168, in coerenza con l’orientamento espresso dalla CGE, ha affermato che la diretta applicabilità delle disposizioni di una direttiva (che possono essere fatte valere dai singoli sia nel caso di non recepimento della fonte europea, sia nell’ipotesi di recepimento inadeguato) dipende dal fatto che le prescrizioni in essa contenute siano incondizionate (tali cioè da non lasciare margini di

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Prima di rispondere ai vari quesiti, è necessario esaminare un’altra questione di carattere generale, connessa all’art. 8 della direttiva 2001/23/CE, secondo la quale la normativa comunitaria “non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare od introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori….”. Si tratta della tradizionale clausola di favor, che, in coerenza con quanto previsto dall’art. 137, comma 4, del Trattato UE, consente di migliorare la disciplina europea con l’introduzione di normative nazionali “che prevedano una maggiore protezione” (art. 137, comma 4) a favore dei lavoratori, nell’ambito della tecnica, tradizionale nel diritto del lavoro, della deroga migliorativa. Il “vincolo comunitario” per il legislatore italiano deve dunque essere coordinato con la possibilità di modificare in melius la direttiva, ed il problema principale è costituito dall’individuare cosa sia “meglio” o “peggio” nella disciplina nazionale rispetto a quella europea.

In tale ambito, si è affermato che la valutazione della deroga migliorativa dovrebbe operare soltanto in relazione ai “livelli di tutela previsti dalla direttiva, mentre pare di più difficile applicazione se viene riferita alla definizione dell’ambito di applicazione della disciplina protettiva”8. In realtà è possibile replicare che i “livelli di tutela” garantiti dalla direttiva e dalla legislazione nazionale sono strettamente correlati alla fattispecie delineata dalla fonte comunitaria e dall’art. 2112 c.c. Ne consegue che l’ampliamento o la riduzione della nozione di trasferimento di azienda, poiché incidono sulla possibilità di estendere o limitare la disciplina giuridica connessa a questa materia, debbono essere in astratto presi in considerazione per valutare se il legislatore nazionale ha migliorato o peggiorato lo standard di protezione europeo. Si tratta di considerare, ad esempio, se la fattispecie italiana è stata estesa o limitata in relazione alle operazioni economiche regolate, agli strumenti giuridici che possono essere usati, ai soggetti (datori di lavoro e lavoratori) coinvolti e così via. In definitiva il giudizio sul carattere migliorativo o meno della disciplina nazionale deve essere riferito alla definizione di

discrezionalità agli stati membri nella loro attuazione) e sufficientemente precise (cioè determinate nei loro elementi). La giurisprudenza nazionale ha sempre implicitamente affermato che tali requisiti fossero presenti nella direttiva sul trasferimento d’azienda, rispetto alla quale ha sempre ritenuto applicabile il “canone dell’interpretazione adeguatrice” (Cass. 27.04.2004 n. 8054; Cass. 20.09.2003 n. 13949 ed altre). D’altra parte l’obbligo di “interpretazione conforme” (o “adeguatrice”) è stato affermato anche in relazione alle disposizioni di una direttiva che non siano incondizionate o sufficientemente precise. In tal senso Roccella 2004, 5, che cita la opinione dell’Avvocato generale Van Gerven nelle sue conclusioni dinanzi alla Corte di Giustizia nel caso Marleasing (Cgce 13.11.1990, causa C – 106/89). 8 Novella, Vallauri 2005, 184 ss.

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trasferimento di azienda, che può produrre le conseguenze prima descritte, e, in caso di identità tra fattispecie contenuta nella direttiva e quella italiana, in rapporto al regime giuridico regolato dal nostro legislatore (e, quindi, con riferimento al contenuto della normativa introdotta dallo stato membro)9.

Va rilevato, peraltro, che il giudizio sul carattere migliorativo o peggiorativo della nozione di trasferimento di azienda è, in alcuni casi, tutt’altro che agevole. La questione non pone particolari problemi nel caso di trasferimento dell’intera azienda. In questa situazione, l’estensione della definizione nazionale (per quanto riguarda, ad esempio, gli strumenti giuridici utilizzabili, la nozione di azienda) comporta l’ampliamento della disciplina e quindi la tutela dei lavoratori, mentre una riduzione del campo di applicazione della direttiva (con conseguente esclusione delle regole in materia) costituirebbe sicuramente un trattamento di peggior favore. Il discorso è diverso nell’ipotesi di trasferimento di ramo d’azienda. In questo caso, infatti, la valutazione del carattere migliorativo o peggiorativo muta a seconda della prospettiva in cui ci si colloca. Si potrebbe sostenere, ad esempio, che l’ampliamento della nozione di parte di azienda trasferibile (sia sotto il profilo oggettivo – per quanto riguarda la identificazione della frazione di azienda – sia dal punto di vista soggettivo dei lavoratori coinvolti) consente di ricomprendere nella disciplina nazionale anche ipotesi che altrimenti, rispetto a quella comunitaria, sarebbero escluse. In questo modo si estenderebbe il numero (o la tipologia) dei lavoratori interessati e, di conseguenza, le tutele garantite dalla disciplina protettiva. In senso contrario si può rilevare che, in molti casi, il passaggio da un’azienda ad un’altra a seguito del trasferimento del ramo penalizza i lavoratori, che possono avere interesse a rimanere presso il cedente, perché il cambiamento del datore di lavoro potrebbe peggiorare le tutele normative (con perdita, ad esempio, del regime di stabilità reale per i licenziamenti) od economiche (con l’applicazione di contratti collettivi meno favorevoli)10. Inoltre il trasferimento permette di evitare l’applicazione di discipline garantistiche in tema di licenziamenti individuali e collettivi, consentendo di “liberarsi” dei lavoratori senza i vincoli giuridici previsti da queste normative, con un ulteriore interesse

9 In relazione, ad esempio, alla necessità o meno del consenso del lavoratore, ai trattamenti economici e normativi regolati, alla contrattazione collettiva, alla disciplina dei licenziamenti e così via. 10 Il peggioramento potrebbe essere collegato anche alla minore consistenza economica del cessionario rispetto al cedente, con riduzione delle garanzie in caso di inadempimento degli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro.

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dei dipendenti a non essere inclusi nella cessione. In questo ambito, una fattispecie nazionale che restringe la definizione del ramo di azienda o che ne condiziona in modo più restrittivo l’identificazione al momento della cessione comporterebbe vantaggi per i lavoratori e potrebbe essere considerata come trattamento migliorativo11.

La complessità della questione impone molta cautela nella opzione interpretativa prescelta. Va detto, peraltro, che un primo limite alla possibilità di modificare la nozione legale è dato dalla necessità di conservare, nella parte di azienda che viene trasferita, caratteristiche tali da consentirne l'identificazione come una “frazione” di una “entità economica” o di “una attività economica organizzata”12. Si immagini, ad esempio, che uno Stato membro decida di identificare la “parte di impresa o stabilimento” ceduta con un gruppo di lavoratori scelti “a caso” che non abbiano collegamenti con l'azienda o in assenza di vincoli organizzativi e funzionali che leghino le prestazioni in modo tale da costituire una parte di una “entità economica” organizzata13. In questo caso si potrebbe affermare che la disposizione nazionale amplia le tutele previste dalla direttiva in quanto estende la disciplina ivi prevista anche ad ipotesi non regolate a livello europeo ed è quindi un trattamento di miglior favore14. In realtà, se si potesse operare in questo modo, si arriverebbe ad un vero e proprio “dissolvimento” della fattispecie comunitaria che certamente non è la finalità della normativa europea. Quest'ultima, infatti, protegge i lavoratori nell'ambito di operazioni che riguardano la cessione totale o parziale di un’“entità economica” che ha proprie caratteristiche che non possono essere annullate o modificate in modo talmente radicale da escludere qualsiasi capacità di identificazione della fattispecie.

A parte il limite descritto, va detto che l’estensione illimitata della nozione di “parti di imprese o di stabilimenti”, facilitando il passaggio ad

11 In questi casi, infatti, il lavoratore potrebbe conservare la sua originaria appartenenza alla impresa cedente e non subire un mutamento di datore di lavoro spesso non desiderato (quando si tratta di passare ad altra impresa che garantisce minori tutele economiche, normative o minore solidità economica). Inoltre non dovrebbe “subire” una scelta organizzativa che prescinde dalla sua volontà, in quanto, per l’opinione prevalente, il trasferimento non richiede il suo consenso (ma, sul punto v. infra § 7). E se è vero che la permanenza presso il cedente potrebbe legittimare un licenziamento, in ogni caso vi sarebbe qui la possibilità del sindacato giurisdizionale sulla effettiva sussistenza di una ragione giustificativa del recesso (e, in base al principio della extrema ratio, sulla possibilità di trovare sistemazioni alternative nell’impresa). 12 In coerenza con le definizioni adottate dalla direttiva europea e dall’art. 2112 c.c. 13 Sui legami organizzativi tra lavoratori e frazione di impresa ceduta v. infra § 3, 4, 5 e 6. 14 Infatti questo gruppo di lavoratori, se ceduto, verrebbe ad essere considerato “parte di azienda” e rientrerebbe nella tutela della direttiva.

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altro imprenditore di gruppi di lavoratori, realizzerebbe un vero e proprio paradosso: una disciplina diretta a “proteggere” i lavoratori nel caso di trasferimento si trasformerebbe in un mezzo per… eludere i limiti che nascono dalle normative in materia di licenziamenti.

A me sembra, peraltro, che questi effetti paradossali possano essere evitati. Infatti, in relazione al ramo d’azienda, la valutazione del carattere migliorativo o peggiorativo della disciplina nazionale deve essere effettuata in senso globale, in rapporto agli effetti complessivi – più o meno favorevoli – che la disciplina nazionale è in grado di produrre rispetto al lavoratore. In tale ottica, l'ampliamento della nozione nazionale rispetto a quella comunitaria non costituisce di per sé un trattamento di miglior favore, perché occorre considerare se gli effetti che scaturiscono dalla operazione consentita dalla legge italiana sono realmente positivi o negativi per il lavoratore in relazione alla disciplina di tutela del lavoro subordinato e non solo in considerazione delle norme sul trasferimento di azienda.

Queste conclusioni trovano conferma in una pluralità di elementi. Vi è, in primo luogo, la finalità della direttiva 2001/23/CE che ha lo scopo esclusivo di garantire la protezione dei lavoratori e la tutela dell’occupazione, senza alcuna considerazione degli interessi economici del cedente e del cessionario e senza l’intento di favorire processi di segmentazione ed esternalizzazione di funzioni produttive15. D’altra parte la stessa Corte di Giustizia Europea ha sottolineato che l’obiettivo della direttiva non è soltanto quello di garantire la continuazione del rapporto presso il cessionario mantenendo la stessa posizione contrattuale ed organizzativa avuta in precedenza16, ma anche quella di “impedire che le ristrutturazioni nell’ambito del mercato comune si effettuino a danno dei lavoratori”17. Il che implica una valutazione più ampia delle normative europee e nazionali, per valutare se anche questo obiettivo sia perseguito. La stessa Corte, poi, ha “costruito” in via interpretativa un

15 In effetti i “Considerando” della direttiva 2001/23/CE sono tutti espressivi della finalità di “proteggere i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore” nell’ambito del “miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea”. A tal proposito si è osservato che “in nessuna parte del (vecchio e del nuovo) testo appare alcun richiamo alle esigenze di “flessibilità” o di “competitività” e di rimozione dei vincoli finanziari e giuridici capaci di ostacolare lo sviluppo delle piccole e medie imprese, aspetti a cui pure i Trattati di Maastricht ed Amsterdam dedicano attenzione a più riprese” (Foglia 2004c, 198. In senso analogo Novella, Vallauri, 2005, 182). 16 In tal senso, tra le altre, Cgce 26.05.05, Celtec, causa C – 478/03, punto 26; Cgce 14.9.2000, Collino, Chiappero, causa C – 343/98, punto 37; Cgce 11.7.1985, Danmols, causa C – 105/84, Racc., 1985, 2650 17 Cgce 7.2.1985, Abels, causa C – 135/83, FI, 1986, IV, 126.

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vero e proprio diritto al dissenso del lavoratore (che si può opporre al trasferimento) (v. infra § 7), a dimostrazione di come vi sia consapevolezza della possibilità che il trasferimento automatico del rapporto di lavoro non sia accettato (perché non è produttivo di effetti favorevoli per il dipendente). Inoltre la direttiva stabilisce che il trasferimento non può di per sé giustificare il licenziamento, che deve trovare fondamento in diverse ragioni di carattere economico ed organizzativo. La funzione principale della norma è quella di escludere che la cessione (ed il conseguente mutamento del datore di lavoro) possa giustificare il recesso, con lo scopo di salvaguardare i diritti scaturenti dai contratti di lavoro18. Tuttavia, la norma presuppone, da parte del legislatore europeo, la consapevolezza che il trasferimento d’azienda può essere utilizzato come mezzo per eludere la disciplina dei licenziamenti individuali o collettivi. Dal punto di vista organizzativo, infatti, non vi sarebbero ragioni per vietare ad esempio un recesso che il cedente effettua per rendere possibile l’operazione di trasferimento ed in base alle esigenze espresse dal cessionario19. Si tratterebbe, infatti, di una situazione pienamente legittima sotto il profilo della giustificazione di un licenziamento (la cui mancanza renderebbe impossibile il trasferimento), in quanto costituirebbe una valida ragione di tipo organizzativo. Il divieto assoluto introdotto dalla direttiva dimostra che si è preferito sacrificare anche ipotesi “non fraudolente” di cessazione del rapporto di lavoro nella consapevolezza di una possibile utilizzazione in senso elusivo della disciplina del trasferimento d’azienda.

L’insieme degli elementi descritti dimostra che la direttiva persegue finalità garantistiche assai estese che prendono in considerazione non solo la conservazione del rapporto di lavoro nel trasferimento ma anche la protezione del lavoratore nei confronti di effetti negativi che potrebbero scaturire dall'operazione economica (tra i quali va inclusa anche la non applicazione delle garanzie proprie della disciplina dei licenziamenti). Pertanto la valutazione del miglioramento o peggioramento della disciplina comunitaria da parte di quella nazionale deve essere operata non solo con riferimento alla disciplina del trasferimento d’azienda, ma in un’ottica di tutela più ampia. Ne consegue che il restringimento della

18 Si rinvia, su tale aspetto, alle conclusioni dell’Avvocato generale Maduro del 27.1.2005, (Celtec, causa C – 478/03), punti 29 e 30. Si vedano anche le osservazioni di Romei 2005, 314 ss. (a cui si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche), Scarpelli 2004, 94 ss.; Lambertucci 1999, 59 ss. 19 Licenziamento che, secondo la Cassazione ed in relazione alla vecchia disciplina dell’art. 2112 (prima della riforma del 2001), sarebbe giustificato: v. Cass. 9 settembre 1991 n. 9462.

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nozione comunitaria di cessione di ramo d’azienda o l’introduzione di limiti alla sua effettuazione costituisce sicuramente un trattamento di miglior favore (perché riduce le finalità elusive della disciplina dei licenziamenti). Al contrario l’ampliamento della fattispecie potrebbe costituire una disposizione legislativa peggiorativa, a meno che, a tale estensione, non corrispondessero altre regole che bilanciassero la situazione, come ad esempio l’introduzione di un diritto di opposizione del lavoratore al trasferimento o la possibilità di esercitare, entro un breve periodo, un’opzione che gli consenta di tornare presso l’originario datore di lavoro e così via.

3. La nozione di azienda in base alla disciplina comunitaria e nazionale

Dopo aver definito il quadro generale di riferimento è possibile esaminare, in primo luogo, la fattispecie di azienda contenuta nell’art. 2112 c.c. La definizione nazionale è stata recentemente modificata dal d.lgs. n. 18/2001 (ed, in misura marginale, dal d.lgs. 276/2003), con l’introduzione della nozione di “mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. Si è osservato che la nuova fattispecie “risente fortemente dell’influenza della giurisprudenza comunitaria, e tenta, con un tasso di imprecisione tecnica forse eccessivo, di adeguare il contenuto della norma alla più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte”20. L’osservazione, indubbiamente corretta, può essere estesa anche alla definizione comunitaria di “entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, lettera b) direttiva 2001/23/CE). La direttiva originaria 77/187/CE non conteneva il concetto di entità economica, che è stato per la prima vota introdotto da una sentenza della Corte di Giustizia21 ed indubbiamente la giurisprudenza della Corte ha fortemente influenzato la definizione oggi esistente22. Non è un caso, infatti, che, nella direttiva 2001/23/CE, si dia atto che quella precedente (77/187/CE) è stata modificata “alla luce dell’impatto… della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee…”

20 Romei 2003, 51; Id. 2005, 299. 21 Cgce 18.3.1986, Spijkers, causa C – 24/85, FI, 1989, IV, 11. 22 Le sentenze della CGE non hanno utilizzato la nozione di “mezzi organizzati”, che peraltro è una definizione sintetica degli indici enucleati dalla Corte per individuare il concetto di “entità economica” (v. infra in questo §).

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(“Considerando” n. 7). L’importanza fondamentale delle sentenze della CGE impone una certa prudenza nel valutare la definizione nazionale e quella europea, perché la Corte “non ha mai adottato una tecnica sussuntiva, preferendo, pragmaticamente, elaborare dei test composti da indici presuntivi ciascuno dei quali di per sé non è né sufficiente né necessario”23.

Il dibattito dottrinario si è concentrato particolarmente sulla nuova formulazione dell’art. 2112 c.c. Ci si è chiesti se il riferimento alla “attività economica organizzata” avesse introdotto una cesura con la nozione civilistica di azienda prevista dall’art. 2555 c.c. (con il richiamo all’art. 810 c.c. ed ai “beni”), introducendo una fattispecie valida esclusivamente per il diritto del lavoro. Ci si è interrogati se essa richieda il trasferimento di assets (materiali ed immateriali) insieme ai lavoratori o abbia introdotto una nozione “dematerializzata” di azienda, che includa anche soltanto i dipendenti ed il know how. Si è discusso se, in realtà, l’art. 2112 si riferisca non all’azienda ma all’impresa, in coerenza con quanto previsto dalla definizione comunitaria, ed anche in correlazione alla nozione di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c. Ci si è domandati quale fosse il significato di espressioni quali “preesistenza” e “conservazione dell’identità” e se fosse necessario trasferire un complesso produttivo attivo o soltanto esistente ma non funzionante (l’azienda “inerte”) e così via.

In questa sede, ovviamente, è impossibile analizzare in modo approfondito tutte le questioni descritte. Qui va sottolineato, peraltro, che a mio giudizio la definizione comunitaria, con il riferimento ai “mezzi organizzati” (che è la sintesi di alcuni indici giurisprudenziali della CGE) sembra far riferimento ad un insieme di strutture materiali ed uomini (e, quindi, ad una nozione “pesante” di azienda) piuttosto che ad una definizione “leggera” di organizzazione a forte componente lavorativa o con tecnologie “immateriali”. La fattispecie nazionale sembra riferirsi, invece, alla nozione di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c. e richiama autorevoli interpretazioni della dottrina commercialistica secondo la quale impresa ed azienda sono due realtà inscindibili24. La disposizione, pertanto, dovrebbe consentire di racchiudere in essa tutti i tipi di strutture produttive (ivi inclusa quella caratterizzata dalla preponderante importanza quantitativa e qualitativa del fattore umano).

23 Romei 2003, 54. 24 Esse, infatti, sono la risultante della combinazione del profilo soggettivo dell’esercizio delle attività e di un profilo oggettivo, consistente nel complesso dei beni e rapporti che consentono l’esercizio di tale attività: Oppo 1976, 591 ss.; Id. 1992, 56; Jaeger 1966, 772 ss.

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Va detto, peraltro, che i problemi teorici connessi alla concreta individuazione dell’“attività economica organizzata” possono essere risolti in base agli orientamenti della Corte di Giustizia. In tale ambito, numerose sentenze della CGE hanno affermato che, in linea generale, l’esistenza di un trasferimento di una struttura imprenditoriale o di parte di essa deve essere valutato in base ad una pluralità di indici, quali il tipo di impresa o di stabilimento, la cessione di elementi materiali come gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tale attività. Si è specificato, inoltre, che tali elementi non debbono essere considerati isolatamente ma in modo complessivo e che, soprattutto, l’importanza da attribuire ai singoli criteri varia necessariamente a seconda dell’attività esercitata o dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa (o in parte di essa)25. Si è aggiunto, in tale ambito, che in determinati settori in cui l’attività produttiva si fonda essenzialmente sulla mano d’opera, un gruppo di lavoratori che svolga stabilmente un’attività comune può corrispondere ad un’entità economica e si deve necessariamente ammettere che essa conservi la sua identità qualora il nuovo imprenditore non si limiti a proseguire l’attività stessa, ma riassuma una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificatamente destinato dal predecessore a tali compiti26. Le conclusioni a cui è pervenuta la Corte sono certamente caratterizzate da un certo grado di empiria e di stretto collegamento con i casi pratici analizzati. Tuttavia, gli indici delineati hanno un grado di approssimazione certamente non inferiore a quelli enucleati dalla nostra giurisprudenza in tema di subordinazione e, soprattutto quando si traducono in

25 Cgce 13.11.1997, Suzen, causa C – 13/95, RIDL, 1998, II, 656 ss.; Cgce 20.11.2003, Abler, causa C – 340/01, punti 32, 33 e 34; Cgce 25.1.2001, Likenne, causa C – 172/99, punti 33 ss.; Cgce 10.11.1998, Hidalgo, punti 26, 29, 30, 31, 32; Cgce 10.12.1998, Hernandez Vidal, cause C – 127/96, C – 229/96 e C – 74/97, punti da 26 a 32; Cgce 24.6.2002, Temco, causa C – 51/00, punti da 23 a 25; Cgce 2.12.1999, Allen, causa C – 234/98, punti da 26 a 29 e molte altre. La quantità delle decisioni emesse è tale da consentire di parlare di un indirizzo interpretativo consolidato. E non è un caso che l’Avvocato Generale Maduro, nelle conclusioni del 27.01.05 (Celtec, causa C – 47/03), affermi che si tratta di una “giurisprudenza costante”. 26 Cgce 13.11.1997, Suzen, causa C – 13/95, RIDL, 1998, II, 656 ss.; Cgce 2.12.1999, Allen, causa C – 234/98; Cgce 25.1.2001, Likenne, causa C – 172/99; Cgce 24.6.2002, Temco, causa C – 51/00 ed altre: anche in questo caso si può parlare di giurisprudenza costante.

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orientamenti consolidati, possono costituire un valido criterio di identificazione della fattispecie.

Il “vincolo comunitario” in precedenza descritto e la necessità di leggere la normativa nazionale con una interpretazione “adeguatrice” consentono di giungere alle seguenti conclusioni: se l’azienda richiede per la sua attività mezzi produttivi consistenti (macchine, attrezzature ecc.), il trasferimento presuppone il passaggio ad un nuovo imprenditore sia degli apparati, sia del personale addetto. Solo per quelle produzioni dove l’elemento del personale ha rilievo determinante e le strutture materiali sono inesistenti o svolgono un ruolo secondario, il trasferimento di un gruppo di lavoratori che svolgano stabilmente un’attività comune può costituire l’ipotesi normativa prevista dall’art. 2112 c.c. La valutazione, ovviamente, deve essere effettuata caso per caso, in relazione alle caratteristiche dell’attività produttiva, al peso che in essa svolgono gli assets patrimoniali e materiali, i dipendenti, i beni immateriali e così via. E non va dimenticato, tra l’altro, che la giurisprudenza europea che valorizza anche la sola componente dell’organizzazione del lavoro è riferita ad imprese di pulizie o ad altri servizi dove gli apparati e le attrezzature sono assai limitati o non sono messi a disposizione dal cedente ma da un terzo27.

La giurisprudenza nazionale afferma la necessità di operare la lettura dell’art. 2112 in base alla “interpretazione adeguatrice” rispetto alla disciplina comunitaria ed alle sentenze della CGE (qualificate come il “diritto comunitario vivente”: Cass. 30.12. 2003 n. 19842)28. Inoltre, in relazione al ramo di azienda, si è sostenuto che “può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare ‘know how’ (o, comunque, dall’utilizzo di ‘copyright’, brevetti, marchi etc.)…”29. Il principio indicato è, a maggior ragione, estensibile all’intera azienda che abbia caratteristiche labour intensive nel senso già spiegato.

L’art. 2112 c.c. prevede che l’attività economica organizzata deve essere “preesistente al trasferimento” e deve conservare, dopo il

27 In relazione alle imprese di pulizie v. le sentenze Suzen, Hernandez Vidal, citate nella precedente n. 25, e Cgce 14. 4.1994, Schmidt, causa C – 392/92 (tra l’altro riferita alla successione in un appalto di pulizie con un solo dipendente!). Nella sentenza Watson Rask (Cgce 12.11.1992, causa C – 209/91, Racc. 1992, I, 5755) il trasferimento d’azienda riguarda il subentro nella gestione di una mensa, nella quale l’appaltatore utilizza le strutture materiali (locali ed attrezzature) messe a disposizione dal committente. 28 Sull’interpretazione adeguatrice v. le sentenze della Cassazione citate nella precedente n. 7 a cui adde Cass. 30.12.2003 n. 19842. 29 Cass. 10.1.2004 n. 206. Si vedano anche le sentenze citate infra nella n. 46.

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passaggio ad altro titolare, “la propria identità”. La norma, evidentemente, vuole garantire che venga trasferita una struttura già esistente e definita nelle sue caratteristiche principali (tipo di produzione, apparati destinati alla sua realizzazione, lavoratori addetti, organizzazione del lavoro e dell’attività e così via) e senza che il cedente o il cessionario possano modificare l’assetto produttivo, che deve rimanere immutato prima e dopo l’operazione economica30. Le caratteristiche indicate sono coerenti con l’art. 1 della direttiva 2001/23/CE, che richiede che l’entità economica conservi nel trasferimento “la propria identità”. La Corte di Giustizia ha interpretato questa dizione asserendo che la conservazione presuppone che il nuovo titolare dell’impresa prosegua o riprenda l’attività produttiva svolta dal precedente imprenditore e che, quando l’entità economica coincide con un gruppo di lavoratori, il subentrante, come si è già detto, continui l’attività e riassuma il personale prima occupato31. In sostanza queste decisioni lasciano intendere che è essenziale che il complesso aziendale trasferito rimanga inalterato e continui la sua produzione, in modo da garantire la continuità occupazionale dei dipendenti addetti e la conservazione dei loro diritti. In tale ambito, dunque, sembra che l’art. 2112 c.c. sia, in questa parte della disposizione, conforme alla disciplina europea ed impedisca, all’atto del trasferimento, operazioni di segmentazione o il mutamento dell’impresa da trasferire. La disciplina nazionale introduce la nozione di “preesistenza” che non è presente in quella europea. Si è osservato che la conservazione dell’identità logicamente presuppone che ciò che viene “conservato” già esista32, con un’osservazione sicuramente condivisibile. D’altra parte l’interpretazione della CGE prima descritta è coerente con l’idea che il mutamento nella titolarità dell’entità economica riguardi una struttura imprenditoriale già esistente e che continui la sua attività. La “preesistenza” dell’attività economica organizzata, letta anche alla luce della giurisprudenza europea, non è altro che un elemento esplicativo e rafforzativo della “conservazione dell’identità”.

30 Novella, Vallauri 2005, 198 (a cui si rinvia per l’indicazione di numerose sentenze della CGE che ribadiscono tale principio in relazione alla normativa comunitaria. V. anche le decisioni citate nella successiva n. 31). 31 Cgce 26.5.2005, Celtec, causa C- 478/03, punto 34; Cgce 24.1.2002, Temco, causa C – 51/00, FI, 2002, IV, 146 – 147; Cgce 25.1.2001, Liikenne, causa C – 172/99, punto 38; Cgce 26.9.2000, Mayeur, causa C – 175/99, punto 44; Cgce 2.12.1999, Allen, causa C – 234/98, punti 28 e 29; Cgce 10.12.1998, Hernandez Vidal, cause C - 127/96, C - 229/96, C – 747/97, punti 31 e 32; Cgce 10.12.1998, Hidalgo, cause C – 173/96 e C – 247/96, punto 32; Cgce 11.3.1997, Suzen, causa C – 13/95, RIDL, 1998, II, 657 – 658; Cgce 7.3.1996, Merckx, cause C – 171/94 e C – 172/94, punto 16 ed altre ancora. 32 Cester 2004b, 52; Romei 2005, 304.

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La lettura della disciplina nazionale sopra descritta, effettuata alla luce delle interpretazioni espresse dalla CGE, consente di affermare che la disciplina dell'art. 2112 relativa alla definizione di intera azienda trasferibile è coerente con quella europea. In questo caso, in sostanza, la normativa nazionale non introduce deroghe migliorative o peggiorative ma rispecchia il contenuto della direttiva per quanto attiene le caratteristiche della “entità economica” o della “attività economica organizzata”, in relazione alla “conservazione dell'identità” e così via.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia può essere utile anche per risolvere altri problemi. Il primo riguarda la possibilità di costituire un’intera azienda che prima non esisteva per poi procedere (contestualmente o immediatamente dopo) al suo trasferimento ad altro soggetto. La soluzione del problema dipende dal fatto se la preesistenza vada intesa in senso cronologico o funzionale. Se cioè preesista qualsiasi cosa sia in atto immediatamente prima del trasferimento o se, invece, è necessario che l’entità oggetto della cessione abbia una sua “storia” e quindi una sua consistenza imprenditoriale che già esista da tempo. La Corte europea ha affermato che la “conservazione dell’identità” “si desume in particolare dal fatto che la gestione dell’impresa sia stata effettivamente proseguita o ripresa”33. A me sembra che si possa “proseguire” o “riprendere” soltanto qualcosa che aveva una struttura e delle caratteristiche già consolidate e non un’entità che sia stata determinata ad hoc immediatamente prima dell’operazione economica e che di fatto non abbia mai operato (perché in questo caso non si “prosegue” o “riprende” ma si “inizia” un’attività produttiva che prima non esisteva). Pertanto l’operazione sopra indicata non dovrebbe essere consentita.

Altra questione è quella della possibilità di trasferire un’azienda non attiva al momento della cessione (l’azienda “inerte”). La dottrina commercialistica ammette che la nozione di azienda prescinde da una concreta attività imprenditoriale in corso34. Inoltre la definizione comunitaria e quella nazionale fanno riferimento ad elementi strutturali che non necessariamente richiedono un’organizzazione attiva35. Tuttavia

33 Cgce 12.11.1992, Watson Rask, causa C – 209/91, punto 19. Si rinvia alle sentenze Celtec, Allen, Suzen, Merckx, Hernandez Vidal citate nella n. 31, a cui adde Cgce 18.3.1986, Spijkers, causa C – 24/85, Racc., 1986, 1119; Cgce 14.4.1994, Schmidt, causa C – 392/92, Racc., 1994, 1311 (ad altre ancora). 34 Romei 2005, 297 (a cui si rinvia per le indicazioni bibliografiche). 35 Le nozioni utilizzate nella direttiva 2001/23/CE (“entità economica”, “insieme di mezzi organizzati”) e nell’art. 2112 (“attività economica organizzata”) fanno pensare a strutture produttive potenzialmente idonee a svolgere in futuro un’attività (Carabelli, Veneziani 1999, 105; Bavaro 2006, 240 ss; Grandi 1972, 271 ss.) e non ad organizzazioni “attive”.

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vi sono state opinioni diverse da parte dei giuslavoristi36. Anche in questo ambito un contributo fondamentale alla soluzione del problema può essere dato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. La CGE, infatti, nella decisione che per la prima volta ha enucleato il concetto di “entità economica” si è occupata di un caso in cui è stata trasferita un’attività che era completamente cessata, rilevando come tale aspetto non avesse importanza fondamentale, perché era al contrario essenziale “stabilire, in un caso come quello di specie, se sia stata alienata un’entità economica ancora esistente” e cioè se “la sua gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa dal nuovo titolare con le stesse attività economiche o con attività analoghe”37. La giurisprudenza successiva ha ripreso questi concetti38, da cui si può desumere che la cessione dell’entità economica non richiede un’azienda che in quel momento sia attiva, perché “riprendere” un’attività implica che essa non era necessariamente in corso al momento del trasferimento. Le stesse sentenze, peraltro, hanno affermato che tra i vari indici da considerare vi è anche quello della “durata di un’eventuale sospensione di tale attività”39. Secondo la Corte europea, dunque, sembrerebbe che il concreto funzionamento dell’azienda al momento del trasferimento non sia necessario, ma che la durata del periodo di inattività possa avere una sua importanza per valutare se ci si trovi, in effetti, nell’ipotesi prevista dall’art. 1 della direttiva. Va detto, peraltro, che il rilievo della “sospensione” è stato ribadito dalle sentenze in modo automatico e senza che le varie decisioni si trovassero in presenza di casi specifici inerenti alla cessione di un’azienda inerte. Mi sembra, dunque, di poter affermare che l’unico vero precedente che debba essere preso in considerazione è la causa Spijkers e che da essa si debba desumere che l’azienda “inerte” possa rientrare nell’ipotesi del 211240, in coerenza, tra l’altro, con le definizioni contenute nella direttiva e nella disposizione del codice civile, che hanno le caratteristiche in precedenza descritte. In realtà, una soluzione equilibrata che tenga conto dei principi desumibili dalla sentenza Spijkers

36 Ad es. Santoro Passarelli G. 2003, 195. 37 Cgce 18 marzo 1986, Spijkers, causa C - 24/85. 38 Si vedano le sentenze citate nella precedente nota 31. 39 Cfr. le sentenze nella nota 31. 40 Nella sentenza CGE del 1986 vi era stata la riassunzione di tutti i dipendenti in precedenza occupati tranne Spijkers ed un collega e il primo chiedeva di tornare a lavorare con il subentrante. Ovviamente l’applicazione della direttiva (e della legge nazionale) presuppone che, a fronte di un’azienda inattiva, i lavoratori non siano stati tutti licenziati prima del trasferimento e per ragioni diverse dal mutamento nella titolarità dell’attività economica organizzata (come potrebbe accadere nel caso di prolungata inattività dell’azienda).

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e dal successivo orientamento consolidato della Corte di Giustizia potrebbe essere quella secondo la quale l’inattività dell’azienda da trasferire non è di per sé un ostacolo all’applicazione della direttiva e dell’art. 2112 c.c., a condizione, peraltro, che tale inattività non si prolunghi tanto nel tempo da escludere che si sia in presenza di un complesso di beni organizzato e potenzialmente idoneo all’esercizio di un’attività economica. In sostanza occorre che il blocco della produzione non perduri così a lungo da eliminare qualsiasi capacità dell’azienda di svolgere le sue funzioni ordinarie per obsolescenza dei macchinari, delle tecnologie, dei sistemi organizzativi e così via.

Altro problema è quello dei limiti all’iniziativa economica privata che scaturiscono dal requisito della conservazione dell’identità. Quest’ultima, infatti, implica che la struttura produttiva trasferita mantenga inalterate le proprie caratteristiche. In questo modo si conserva il rapporto organizzativo preesistente tra lavoratori ed azienda e si realizza la finalità principale della direttiva (la conservazione dei diritti già goduti ed il divieto di peggiorare, per effetto del trasferimento, le condizioni di lavoro). Tuttavia, un simile limite viene a condizionare il diritto del cedente di modificare o riorganizzare l’impresa e verrebbe a costituire una violazione della libertà di iniziativa economica privata prevista dall’art. 41 Cost., garantita anche a livello comunitario. Va detto, peraltro che l’interpretazione della direttiva da parte della Corte di Giustizia può aiutare a risolvere il problema. Le sentenze, infatti, prevedono che il subentrante potrà esercitare la stessa attività o attività analoghe a quelle del cedente o potrà svolgere soltanto alcune tra quelle effettuate dal precedente titolare dell’impresa41. La giurisprudenza europea, dunque, pone come unico limite la conservazione del tipo di produzione da realizzare, consentendo, tra l’altro, anche in questo caso delle variazioni (perché sarà sufficiente anche effettuare soltanto attività “analoghe” o parte di quelle svolte in precedenza). Non vi è, dunque, alcun limite organizzativo: il cessionario potrà riorganizzare completamente l’impresa, in base alle proprie scelte e convenienze, per proseguire o riprendere le medesime attività o alcune di esse od altre similari42. D’altra parte,

41 Cgce, sentenza Celtec (citata a n. 31), punto 34; Cgce 19.9.1995, Rygaard, causa C- 48/94, punti 15 e 16; Cgce 18.3.1986, Spijkers, causa C 24/85, punto 12; Cgce 2.12.1999, Allen, causa C – 234/98, punti 23 e 26; Cgce 11.3.1997, Suzen, causa C – 13/95, punto 14; Cgce 10.12.1998, Hidalgo, cause C – 173/96 e C – 274/96, punto 29; Cgce 26.9.2000, Mayeur, causa C – 175/99, punti 49 e 52 e molte altre (giurisprudenza costante). 42 In tempi recenti la Cassazione ha confermato il potere del cessionario di riorganizzare l’azienda trasferita, affermando che “può configurarsi come trasferimento d’azienda anche la cessione di singole unità produttive della medesima azienda, purché abbiano una propria autonomia organizzativa e funzionale, anche se una volta inserite nell’impresa cessionaria

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trascorso un ragionevole periodo di tempo dopo il trasferimento (che è ovviamente del tutto indeterminato e che dovrà essere valutato caso per caso), il subentrante sarà libero non solo di modificare l’organizzazione ma di cambiare integralmente e non solo parzialmente l’attività, riconvertendo la sua azienda a produzioni completamente diverse. In caso contrario, infatti, si determinerebbe una lesione del suo diritto di proprietà e di gestione dell’impresa del tutto incompatibile con i principi del libero mercato sanciti a livello europeo e nazionale. Il lavoratore che nei tre mesi successivi al trasferimento subisce una “sostanziale modifica” delle proprie condizioni di lavoro può risolvere il rapporto per giusta causa. La “modifica sostanziale” potrà anche essere connessa a mutamenti organizzativi che si riflettano in modo rilevante sulla sua posizione in azienda (ad es., in relazione alle mansioni, alla posizione gerarchica). Questa disciplina dimostra che la “conservazione dell’identità” non impedisce di incidere sull’organizzazione dell’impresa dopo il trasferimento, lasciando al lavoratore penalizzato dalla riorganizzazione soltanto la possibilità di interrompere il vincolo contrattuale per responsabilità del datore di lavoro.

La disciplina nazionale e quella comunitaria introducono nozioni quali la “preesistenza” o la “conservazione della identità” che presuppongono una valutazione temporale non sempre agevole. Un'azienda é “preesistente” se esiste da tre o sei mesi, un anno? E per quanto tempo dopo il trasferimento essa deve “conservare l'identità”? In mancanza di precisi riferimenti tutto é rimesso alla valutazione dell'interprete, che ovviamente deve essere coerente con le finalità della normativa, ma che comunque non esclude un'evidente discrezionalità che rende ancora più incerto il quadro normativo. Una delle nozioni indicate, tra l’altro, pone un presupposto che condiziona la realtà dell'impresa anche dopo il trasferimento. È questo il caso della “conservazione dell'identità” che, se non rispettata successivamente all'operazione economica, potrebbe renderla illegittima (con tutte le annesse conseguenze sui rapporti di lavoro). Sarebbe stato più semplice identificare l'azienda (o l’impresa) solo in base ad elementi esistenti al momento del trasferimento e senza alcun riferimento alle sue vicende successive. E se la preoccupazione era quella di garantire l'inerenza dei rapporti di lavoro all'organizzazione trasferita (per impedire che si interrompesse il nesso tra essi), questa finalità avrebbe potuto essere realizzata sul piano della disciplina e delle tutele, senza necessità di operare sulla definizione di azienda trasferibile.

restino assorbite, integrate e riorganizzate nella più ampia struttura di quest’ultima (corsivo nostro)….”: Cass. 1.12.2005 n. 26196. Conf. Cass. 10.1.2004 n. 206; Cass. 23.7.2002 n. 10761 ed altre.

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4. Segue. Il ramo di azienda

A questo punto si può passare all’analisi di uno degli elementi più controversi e dibattuti della materia, consistente nel concetto di ramo d’azienda. Su tale nozione si è aperto un vivace dibattito, che non dipende solo dal fatto che la disciplina ha subito due recenti riforme (con i d.lgs. 18/2001 e 276/2003), ma che si spiega soprattutto perché il trasferimento del ramo costituisce uno degli strumenti principali per realizzare le esternalizzazioni. Con questo termine, come è noto, si indica quel fenomeno di segmentazione produttiva con il quale l’impresa, per mezzo di contratti commerciali, decentra ad altri soggetti attività o funzioni produttive più o meno importanti, al fine di concentrasi sul core business. Il trasferimento di una parte dell’azienda costituisce una delle forme tipiche dei processi di outsourcing, con i quali si cedono ad altri imprenditori interi settori aziendali. L’operazione, oltre a consentire all’impresa di riorganizzarsi nel modo ritenuto più efficace, garantisce all’imprenditore, dal punto di vista del diritto lavoro, altri numerosi vantaggi. In primo luogo, infatti, il passaggio dei dipendenti avviene senza necessità del consenso dei lavoratori interessati (ma su tale aspetto v. infra § 7). Inoltre, l’impresa diminuisce l’organico senza essere condizionata dai limiti formali e sostanziali imposti dalla disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi. Questa situazione, anche quando non abbia finalità elusive e corrisponda ad esigenze oggettive delle imprese che si ristrutturano per fronteggiare le pressioni competitive in un mercato globalizzato, ha determinato una vera e propria “eterogenesi dei fini” dell’art. 2112 c.c.43. Una disposizione pensata per tutelare i diritti dei lavoratori nel caso di sostituzione del soggetto titolare dell’organizzazione diventa uno strumento per ridurre le tutele o, comunque, per “aggirare” normative inderogabili. Tale aspetto diventa di particolare rilievo soprattutto se si considera la finalità protettiva che è propria della direttiva comunitaria e deve quindi essere tenuto in considerazione quanto si interpreta la normativa.

Il primo problema da analizzare è quale sia il significato da attribuire alla nozione di “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”, che è formulazione introdotta con il d.lgs. 18/2001 e che non è stata modificata dalla riforma del 2003. In giurisprudenza si sono formati due orientamenti. Secondo il primo l’articolazione trasferita deve costituire una “piccola azienda” composta

43 Perulli 2003, 476; Santoro Passarelli 2005, 16; Id. 2004, 16.

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da attrezzature, macchinari e lavoratori44, con il richiamo, in alcuni casi, della “nozione commercialistica di azienda ai sensi dell’art. 2555 cc”45. Altre decisioni, invece, hanno ritenuto che può “configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how”….”46. In coerenza con l’orientamento ormai consolidato della Corte di Giustizia europea e con il “vincolo interpretativo comunitario” non vi è dubbio che il secondo orientamento è quello che deve essere accolto. Tuttavia, sempre secondo la CGE, il gruppo di lavoratori costituirà un “ramo” soltanto nelle attività labour intensive, dove le attrezzature ed i macchinari o sono inesistenti od hanno un rilievo del tutto secondario rispetto alle competenze dei lavoratori, secondo orientamenti che sono stati fatti propri anche dalla nostra giurisprudenza47. Il che può avere conseguenze di non scarso rilievo soprattutto nelle ipotesi di funzioni o servizi interni (gestione paghe e contributi, servizi amministrativi ecc.) che spesso vengono assunti come ipotesi tipiche di trasferimento di parti dell’azienda composte soltanto da dipendenti. A mio giudizio l’art. 2112 non consente queste operazioni economiche, come si spiegherà in seguito. Tuttavia, anche se non si volesse aderire a questa impostazione, non vi è dubbio che, ad esempio, se il servizio “paghe e contributi” richiede, oltre ai dipendenti, attrezzature di ufficio (mobili, sedie, schedari), strumenti di lavoro (computers) e beni immateriali (software applicativo), il trasferimento implicherà la cessione anche di questi apparati materiali, che costituiscono strutture non secondarie ma essenziali per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Sempre in coerenza con la giurisprudenza europea “requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 c. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili…”48. La necessità del vincolo organizzativo trova, infatti, un suo fondamento nelle decisioni della Corte di Giustizia europea. In esse, quando si prospetta la possibilità di

44 Cass. 17.10.2005 n. 20012; Cass. 25.10.2002 n. 15105; Cass. 23.10.2002 n. 14961. 45 Cass. 17.10.2005 n. 20012. 46 Cass. 17.6.2005 n. 13068; Cass. 10.1.2004 n. 206; Cass. 22.7.2002 n. 10701; Cass. 23.7.2002 n. 10761; Cass. 15.11.2002 n. 16155; Cass. 14.12.2002 n. 17207. 47 Le sentenze, infatti, fanno riferimento ai “settori o aree produttive in cui le strutture materiali assumono scarsa se non nessuna rilevanza”: Cass. 10.1.2004 n. 206; Cass. 15.11.2002 n. 16155; Cass. 14.12.2002 n. 17207. 48 Cass. 10.1.2004 n. 206; Cass. 17.6.2005 n. 13168 ed altre.

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trasferire anche soltanto un gruppo di dipendenti, vi è un preciso riferimento alla continuazione dell’attività espletata in precedenza ed alla necessità di riassumere lavoratori che, per numero e competenze, siano in grado di proseguirla. Si tratta di affermazioni che sottolineano il necessario coordinamento tra produzione di beni e servizi e prestazioni lavorative (perché i lavoratori devono avere professionalità che consentano di svolgere proprio quella attività che viene a continuare). D’altra parte queste affermazioni della giurisprudenza comunitaria sono coerenti con la definizione europea e quella nazionale, che sottolineano come nell’azienda trasferita il vincolo organizzativo abbia carattere determinante (si parla, infatti, di “mezzi organizzati” e di “attività economica organizzata”). Non è possibile, dunque, trasferire dipendenti che non siano tra loro legati da esigenze di organizzazione del lavoro e dell’attività produttiva.

La definizione nazionale ha introdotto il concetto di “articolazione funzionalmente autonoma” che non è presente nella direttiva. Il legislatore italiano ha inteso enfatizzare l’autonomia del ramo da trasferire, nel senso che esso, dal punto di vista funzionale (e cioè dello scopo produttivo perseguito dalla frazione dell’attività economica organizzata) deve essere come una “piccola azienda”, capace di una sua vita autonoma. Si tratta di un elemento che, a mio giudizio, restringe la nozione di parte dell’azienda trasferibile e costituisce, quindi, una disposizione di miglior favore sicuramente legittima, in coerenza con quanto già detto in precedenza (v. retro § 2). Si è affermato che difficilmente un struttura organizzativa può essere totalmente autonoma rispetto all’intera azienda, perché “un segmento produttivo, quand’anche concettualmente autonomo, fa parte di un unico complesso imprenditoriale (e quindi) i nessi di interdipendenza con le altre attività aziendali sono tali da rendere problematica la individuazione di una compiuta (e non solo potenziale) autonomia funzionale”49. L’affermazione è solo parzialmente vera, perché la correlazione tra le varie strutture, indubbiamente esistente, non esclude che una relativa autonomia tra esse sia sempre configurabile50. Va detto, peraltro, che mi sembra

49 De Luca Tamajo 2002, 32. 50 De Luca Tamajo (2002, 32 – 33) ammette che l’autonomia sussiste per i servizi complementari o marginali (ad es. mensa e manutenzione) o per quelli che, pur se più “intrinseci” al ciclo produttivo, presentano una sufficiente separatezza concettuale ed organizzativa (servizi informatici, personale), mentre nega che tale requisito sia presente “quando il segmento ceduto inerisce alla tradizionale attività produttiva dell’impresa cedente, sino ad apparirne parte inscindibile, o da presentare con essa stretti nessi logistici e funzionali”. In realtà, per quanto forti possano essere i rapporti di integrazione, ciascun settore, ufficio o reparto aziendale è caratterizzato da un certo grado di autonomia,

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condivisibile la tesi secondo cui “l’autonomia funzionale” è collegata alla capacità della “frazione” di produrre autonomamente un bene od un servizio, piuttosto che all’assenza di qualsiasi collegamento con le altre parti dell’azienda51. Non vi è dubbio che, inteso nel senso indicato, “l’articolazione” implica una autonomia nella realizzazione del fine produttivo ed una coerenza organizzativa interna dei suoi componenti che deve essere particolarmente accentuata rispetto alla nozione meno “forte” espressa dalla direttiva (che si limita ad enunciare il concetto di “parte di imprese o di stabilimenti”). E tale connotazione deve necessariamente influenzare l’interprete quando valuta le caratteristiche del ramo trasferito.

Altra questione connessa è se la parte dell’organizzazione complessiva che viene ceduta possa coincidere con mere funzioni o servizi interni (quelli informatici, la gestione amministrativa del personale, le attività amministrative o contabili, la manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti, il marketing, il controllo di gestione e così via). Oppure se, al contrario, il ramo coincida con una unità produttiva dell’azienda che sia in grado di esaurire – pro quota – la produzione del bene o del servizio (ad es. un supermercato in una società che ne gestisce quattro identici) o che svolga un’attività strumentale ma essenziale per la realizzazione del prodotto finito (come nel caso di un reparto assemblaggio in un’impresa manifatturiera). La tesi prevalente in dottrina è quella che ritiene che la dizione dell’art. 2112 c.c. consenta il trasferimento anche di servizi interni52. In tale ambito la formulazione letterale della disposizione sembra confermare tale opinione perché, ad esempio, il reparto gestione del personale è una frazione autonoma (nel senso già spiegato) di un’attività economica organizzata capace di realizzare, come prodotto finito, uno specifico servizio. Inoltre questa tesi non trova ostacoli nella giurisprudenza comunitaria. Quest’ultima, infatti, ha sempre riguardato casi di trasferimento di intere aziende o di parti di esse idonee a realizzare, integralmente o parzialmente, il fine produttivo dell’impresa e non si è mai trovata ad affrontare la questione della trasferibilità delle funzioni aziendali in precedenza descritte. Da questo punto di vista, dunque, la giurisprudenza europea non pone “vincoli interpretativi” rispetto alla disciplina nazionale e alla soluzione del problema.

La mia opinione sul punto, tuttavia, è diversa da quella espressa dalla dottrina prevalente. In primo luogo la lettura del ramo di azienda

connessa al carattere peculiare e specialistico delle attività ivi svolte che ne giustifica l’esistenza quale frazione dell’azienda (che altrimenti non sarebbe operativa). 51 Romei 2003, 596; Maresca 2001, 596; Della Rocca 2001, 588. 52 Si vedano, per tutti, Romei 2003, 62 ss.; Cester 2004a, 267; De Luca Tamajo 2002, 29.

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inclusiva dei servizi aziendali, formalmente ineccepibile sul piano letterale, segna una cesura con la nozione di intera azienda. Infatti, se l’attività economica organizzata è il tutto il cui mutamento di titolarità determina l’applicazione dell’art. 2112, “l’articolazione funzionalmente autonoma dell’attività economica organizzata” è qualificata come “parte dell’azienda” dalla norma del codice civile e presuppone, quindi, una relazione funzionale con l’attività imprenditoriale della struttura produttiva complessiva. Le funzioni interne, pur essendo astrattamente definibili come settori capaci di eseguire un servizio, rispetto alla capacità produttiva finale dell’azienda non sono una “parte del tutto”, ma soltanto strutture organizzative che non esauriscono il ciclo produttivo né concretano produzioni parziali ma strumentalmente necessarie alla realizzazione del prodotto finale. Esse, in sostanza, sono “parti dell’azienda” solo dal punto di vista materiale (perché ne costituiscono una frazione) ma non da quello funzionale nel senso spiegato53. Queste considerazioni sono rafforzate da un’ulteriore argomento. Nella direttiva, oltre alla indicazione delle “parti di imprese o di stabilimenti”, si specifica che l’entità economica va intesa come “insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria (corsivo nostro)”. L’inclusione delle attività accessorie consente di ricomprendere nella definizione tutti i settori che non hanno una connessione strumentale diretta con le produzioni dell’impresa e quindi anche i servizi interni in precedenza descritti54. L’art. 2112, al contrario, non contiene alcun riferimento al carattere accessorio dell’attività e, quindi, le mere funzioni aziendali non sono prese in considerazione. La legge italiana, in sostanza, ha inteso restringere la nozione di parte dell’azienda, escludendo le attività interne e consentendo soltanto il trasferimento di una frazione dell’impresa che abbia una connessione diretta con il mercato (con la produzione completa di un bene o di un servizio) o che sia in grado di svolgere attività….non accessorie appunto (come quelle poste in essere da settori dell’azienda che concretano una fase della produzione o che realizzano componenti – cioè produzioni parziali – che vanno ad inglobarsi nel prodotto finale). Ovviamente la

53 In questo caso, in sostanza, la funzionalità deve essere valutata in rapporto al prodotto finito e non in connessione con qualsiasi attività dell’impresa. In tale ambito, il reparto gestione paghe svolge un servizio che è funzionale all’attività dell’impresa in senso generale ma non ha una correlazione diretta e necessaria con il prodotto finale. 54 Si veda, ad es. Cgce 12.11.1992, Watson Rask, causa C – 209/91, che espressamente conferma che è proprio il riferimento alle attività accessorie contenuto nella direttiva che consente di subordinare alla sua disciplina anche il trasferimento di “un servizio dell’impresa, quale una mensa”, e cioè di un servizio “senza rapporto di necessarietà con il suo oggetto sociale”.

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individuazione delle frazioni di azienda che abbiano le caratteristiche indicate deve essere effettuata in relazione alle caratteristiche di ciascuna organizzazione, perché non vi è dubbio che ciò che può essere accessorio in un’impresa non possa essere considerato tale in un’altra. L’art. 2112 è in questa parte difforme dalla norma comunitaria. Tuttavia la disposizione, nel restringere la nozione di ramo d’azienda e nel ridurre le ipotesi di segmentazione dell’impresa, limita le possibilità di trasferire i contratti di lavoro senza il consenso dei dipendenti interessati (v. infra § 7) ed introduce un trattamento di miglior favore sicuramente legittimo per le ragioni già spiegate (v. § 2).

5. L’identificazione del ramo di azienda al momento del trasferimento

Un'altra questione fortemente problematica è quella della identificazione del ramo d’azienda al momento del trasferimento e della sua compatibilità con il diritto comunitario. In tale ambito va ricordato che la riforma del 2003 ha modificato radicalmente la nozione introdotta soltanto due anni prima. Sono stati eliminati i requisiti della ”preesistenza” e della “conservazione dell’identità” della articolazione autonoma di un’attività economica organizzata. Inoltre è stata attribuita al cedente ed al cessionario la possibilità di “identificare” la frazione di azienda “al momento del suo trasferimento”. La volontà del legislatore è quella di agevolare ulteriormente i processi di esternalizzazione e di consentire il mutamento della titolarità non solo di strutture organizzative già esistenti ma anche di quelle create ad hoc, in funzione dell’operazione economica. La riforma è stata effettuata anche tenendo in considerazione alcune decisioni della Cassazione, che si erano occupate di vicende connesse alla costituzione di veri e propri settori aziendali creati allo scopo di procedere al loro trasferimento. In particolare alcune decisioni hanno affermato che era escluso che “un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento in esclusiva funzione di esso, con un'operazione strumentale indirizzata all'espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all'impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di manodopera - sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro,

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ecc.)”55. Il d.lgs. 276/2003 ha inteso consentire quelle operazioni che, in base al precedente testo, la Cassazione non riteneva possibili56.

Prima di analizzare la nuova disciplina, ci si deve chiedere se le innovazioni introdotte, dirette a facilitare le esternalizzazioni anche di servizi e funzioni interne come quelle di cui si erano occupate le sentenze della Cassazione, escludano la possibilità dell’interpretazione da me proposta, secondo la quale il mutamento della titolarità non può riguardare settori aziendali con queste caratteristiche. In realtà, la riforma, al di là delle intenzioni politiche perseguite, non mi sembra sia tale impedire la tesi da me sostenuta. Infatti, questa ricostruzione si basa sulla nozione di “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”, che è rimasta immutata, e sul riferimento, contenuto nella direttiva ed assente nella disciplina nazionale, alla trasferibilità anche di attività “accessorie”. Si tratta di elementi che non sono stati modificati dalla riforma e che quindi non influenzano quanto si è cercato di argomentare. Questo non significa negare le novità conseguenti al d.lgs 276/2003. Il ramo d’azienda avrà i caratteri in precedenza delineati (una unità organizzativa che realizzi la produzione completa di un bene o di un servizio o che svolga una fase necessaria e strumentale di un ciclo produttivo integrale). Tuttavia, questa articolazione funzionalmente autonoma potrà anche non preesistere ed essere al contrario individuata al momento dell’operazione economica.

Si tratta di una novità di non poco conto che attribuisce notevole spazio all’autonomia individuale dei protagonisti dell’operazione economica. Un’autonomia che, come è evidente, può danneggiare in modo consistente le posizioni dei lavoratori. Per tale ragione, sono state subito affacciate alcune interpretazioni finalizzate a ridurre gli spazi operativi del cedente e del cessionario. Si è detto, ad esempio, che il termine “identificare” non equivale a “costituire” il ramo d’azienda, che deve essere qualcosa di già esistente57 e che l’eliminazione del requisito della preesistenza non ha rilievo, perché “è intrinseco alla nozione legale di articolazione funzionalmente autonoma”58. In realtà il termine

55 Cass. 25.10.2002 n. 15105, FI, 2003, I, 118; conf. Cass. 15.11.2002 n. 16155. 56 In tempi recenti si è riaffermato che, in base alla disciplina anteriore alla riforma del 2003, non era consentito alla “volontà dell’imprenditore” di “unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo d’azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro”: Cass. 17.10.2005 n. 20012. 57 Bavaro 2006, 247; Cester 2004a, 266 (a questi autori si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche). 58 Bavaro, 2006, 250.

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“identificare” ha vari significati e tra questi può essere incluso anche quello di determinare gli elementi costitutivi di un qualcosa di radicalmente nuovo. E questo contenuto semantico è certamente il più coerente con la volontà del legislatore del 2003 di ampliare l’autonomia dei soggetti nel costituire il ramo d’azienda da trasferire. D’altra parte, se è vero che la nozione di “articolazione funzionalmente autonoma” limita il potere delle parti che devono costruire una struttura potenzialmente idonea a svolgere attività produttiva, questo non implica che essa debba necessariamente essere “preesistente”. E’ chiaro, infatti, che cedente e cessionario potranno individuare un segmento dell’impresa che, pur avendo le caratteristiche organizzative necessarie a produrre un bene od un servizio, sia del tutto nuovo e non abbia alcuna relazione con quanto esisteva in precedenza.

In realtà i protagonisti dell’operazione economica vedono notevolmente ampliati i propri margini di manovra. Essi, infatti, potranno creare ex novo una struttura organizzativa che prima non sia mai stata attiva e che presenti “un’attitudine, anche solo potenziale, allo svolgimento di un’attività economica”59, magari utilizzando i servizi logistici ed amministrativi esistenti presso il cessionario o creati ad hoc60. Il ramo potrà essere ricavato dalla azienda esistente mediante la scomposizione di reparti o frazioni dell’organizzazione del cedente e potrà essere destinato anche a svolgere attività diverse da quelle effettuate presso l’impresa a cui appartenevano. Questo “assemblaggio” potrà essere realizzato mediante l’aggregazione di strutture che, nell’azienda cedente, non avevano una vera e propria capacità produttiva, che viene ad essere conquistata soltanto al momento della sua costituzione61. L’“identificazione” trova tuttavia alcuni limiti. In primo luogo occorre che si tratti di una struttura produttiva che abbia legami organizzativi interni tra uomini, attrezzature e macchinari o, nel caso di azienda “dematerializzata”, tra i vari dipendenti e, quindi, in relazione alla organizzazione del lavoro. E’ necessario poi che essa abbia attitudini produttive (sotto il profilo funzionale) che siano tali da renderla idonea allo svolgimento di un'attività economica. L'aggregazione di uomini o mezzi (o di soli lavoratori) privi di questi nessi organizzativi o che non concretino una reale capacità produttiva non potranno essere considerati come “parte dell’azienda”, perché mancherebbe la “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”. Infine, la struttura identificata dalle parti dovrà essere in grado di svolgere un

59 Novella,Vallauri 2005, 194. 60 Novella, Vallauri 2005, 194; Cester 2004b, 57. 61 Maresca 2004, 394 ss.

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intero ciclo produttivo o comunque di realizzare fasi necessarie per la sua attuazione (in relazione, ovviamente, alle esigenze economiche del cessionario) e, per le ragioni già spiegate in precedenza, non potrà coincidere con un mero servizio o funzioni accessorie destinate a svolgere tali compiti presso il subentrante (gestione paghe e contributi; attività informatiche; marketing e così via).

Si tratta, a questo punto, di valutare la coerenza della nuova disciplina con la normativa comunitaria. La prevalenza di quest’ultima, infatti, impone di verificare se il nuovo art. 2112 sia conforme con la direttiva e, in caso di risposta negativa, se sia possibile con “l’interpretazione adeguatrice” sanare l’eventuale contrasto. Va ricordato che il requisito della “preesistenza” non è contenuto nella direttiva e che, quindi, la sua eliminazione, non dovrebbe comportare problemi. Tuttavia, si è già detto che la “conservazione dell’identità” necessariamente richiede la esistenza preventiva di ciò che viene trasferito e che le stesse sentenze della Corte di Giustizia si riferiscono al mutamento nella titolarità di una entità economica che rimanga inalterata nella sua struttura. Per superare il problema si potrebbe tentare di seguire un diverso percorso interpretativo. Si potrebbe affermare che la fonte comunitaria richiede soltanto che la parte di impresa conservi la propria identità dopo il trasferimento: nulla impedirebbe, dunque, che le parti possono individuare immediatamente prima dell'operazione economica la struttura organizzativa da trasferire e che essa, successivamente, mantenga inalterata l'identità. Tuttavia, l'interpretazione che la Corte europea ha fornito del concetto di conservazione dell'identità (che presuppone “che la gestione dell'impresa sia stata effettivamente proseguita o ripresa”)62 non consente di giungere a queste conclusioni. Le sentenze, infatti, lasciano chiaramente intendere che ciò che deve essere trasferito deve preesistere già da tempo, perché fanno riferimento ad una attività che “prosegue” o “ riprende”. Al contrario, ciò che viene costituito ad hoc immediatamente prima dell’operazione economica è un’organizzazione che “inizia ex novo” la produzione di un bene o di un servizio e non “continua” - questo è il senso delle affermazioni della CGE – quanto già realizzato in precedenza.

D’altra parte, la non conformità alla direttiva si manifesta anche nella mancata previsione che il ramo d’azienda conservi l’identità successivamente al trasferimento. Pur non dimenticando i problemi connessi a tale requisito (v. retro § 3), senza dubbio questa omissione determina un ulteriore insanabile conflitto con la fonte europea, anche in considerazione della “centralità” attribuita dalla CGE alla “conservazione

62 Si rinvia alle sentenze citate nelle note 31 e 33.

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dell’identità”, che viene qualificato come elemento fondamentale di identificazione della fattispecie. Non mi sembra, dunque, che il contrasto tra disciplina nazionale e comunitaria possa essere risolto in via interpretativa e che conseguentemente vi sono gli estremi per il rinvio dinanzi alla Corte di Giustizia per far accertare i profili di non corretta attuazione della direttiva63.

La giurisprudenza, in alcune sentenze recenti, non sembra aver preso in considerazione le innovazione introdotte dalla riforma del 2003, riprendendo concetti che erano già stati espressi quando era in vigore la precedente formulazione dell’art. 2112 c.c64. In senso contrario si è affermato che queste decisioni dimostrerebbero che, per la Suprema Corte, le modifiche introdotte dall’art. 32 del d.lgs. 276/2003 sarebbero del tutto irrilevanti65. In realtà, le fattispecie esaminate erano tutte anteriori alla riforma ed in esse, oltretutto, non vi è alcun riferimento alla nuova disciplina del trasferimento di ramo d’azienda. Non è, quindi, possibile attribuire a queste sentenze il valore di una presa di posizione nel senso della “irrilevanza” della nuova disciplina. Tra l’altro, la Cassazione, con la sentenza 22.03.2006 n. 6292, ha deciso un caso nella consapevolezza della riforma introdotta dall’art. 32 ed ha affermato che “il frazionamento di un preesistente ramo d’azienda, destinato a prestare assistenza logistica ad altri rami, ed il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro di parte dei dipendenti ad esso addetti, esperite le necessarie consultazioni sindacali, non sembra in contrasto con le finalità e la lettera dell’art. 2112 c.c.”. In questo caso, dunque, la Corte sembra ammettere la creazione al momento del trasferimento della parte di azienda da trasferire. Mentre non risulta che la Cassazione abbia affrontato il problema della compatibilità della nuova disciplina con la direttiva, nel senso sopra spiegato. Su tali questioni occorrerà verificare i futuri sviluppi della giurisprudenza nazionale.

6. Segue. La possibilità di selezionare il personale coinvolto nel trasferimento del ramo

Un ulteriore problema assai complesso è quello della possibilità di selezionare il personale che viene trasferito con il ramo d’azienda. La illegittimità della disposizione nazionale rispetto a quella comunitaria dovrebbe rendere irrilevante la questione. La selezione dei lavoratori,

63 Novella, Vallauri 2005, 199; Santoro Passarelli G. 2005, 24 – 25. 64 Cass. 17.06. 2005 n. 13068; Cass. 17.10.2005 n. 20012. 65 Meucci 2005, § 2.

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infatti, presuppone che le parti possano identificare la frazione d’impresa da trasferire al momento dell’operazione economica. Se, come io affermo, questa possibilità è preclusa dalla direttiva, è evidente che il problema non sussiste. La necessità di cedere soltanto una struttura che preesiste ed abbia una sua stabilità nel tempo impone di trasferire i lavoratori che sono addetti alla articolazione funzionalmente autonoma che viene ceduta e che abbiano quel legame funzionale tra loro (se composta soltanto o prevalentemente da risorse umane) o con i mezzi e le attrezzature necessari già in precedenza analizzato. In tal caso, inoltre, dovranno essere trasferiti “non solo i dipendenti che prestano la loro attività esclusivamente per la produzione di beni e servizi del ramo, ma anche quelli che prestano un’attività lavorativa prevalente in favore di detto ramo” (Cass. 6.12.2005 n. 26668). Tuttavia la nuova formulazione dell’art. 2112 è tutt’altro che espunta dal nostro ordinamento e, quindi, il problema della scelta dei dipendenti ha una sua attualità.

Anche da questo punto di vista la nuova disciplina incrementa in modo considerevole i poteri delle parti che danno vita all’operazione economica. Se, infatti, il ramo viene creato ex novo, il preesistente legame organizzativo tra lavoratori e parte dell’azienda ceduta non è più un criterio selettivo valido. Il cedente, che prima del trasferimento è titolare del potere direttivo ed organizzativo avrà ampia discrezionalità nello scegliere i lavoratori da adibire al segmento da trasferire66, soprattutto in coerenza con le esigenze manifestate dal cessionario.

Tuttavia questo potere di scelta incontrerà alcuni limiti. Il primo è quello del divieto di discriminazioni, oggi ulteriormente esteso, che vieterà adibizioni dovute a ragioni sessuali, politiche, sindacali e così via67. Inoltre, la selezione dovrà essere effettuata nel rispetto dei criteri di correttezza e buona fede68 e per ragioni di carattere eminentemente produttivo: non sarà possibile, quindi, adibire lavoratori soltanto perché in cassa integrazione o affetti da eccessiva morbilità e così via69. I lavoratori da trasferire, poi, dovranno avere quei legami organizzativi (tra dipendenti, nelle organizzazioni labour intensive, o tra questi e le strutture materiali od immateriali) che consentano di affermare che si sia in presenza di un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività

66 Si rinvia, sul punto, alle situazioni ipotizzate da Novella, Vallauri 2005, 196 e Maresca 2004, 397. 67 Novella, Vallauri 2005, 196; Carabelli, Veneziani 1999, 132; Perulli 2003, 481; Romei 2003, 65; Maresca 2004, 397. 68 Maresca 2004, 397. 69 Perulli 2003, 481.

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economica organizzata70. In questo ambito la Cassazione, dopo aver ribadito il concetto di autonomia del segmento di impresa71, ha specificato che “se per ramo di azienda si intende un complesso di beni e di persone organizzato per la produzione di specifici beni o servizi, nel suo trasferimento non possono non restare coinvolti, in tutto o in parte, anche i beni del personale che prestavano l'indispensabile assistenza alla specifica produzione, anche se nell'organizzazione aziendale facevano parte di una struttura a sé stante” (Cass. 22.3.2006 n. 6292). Un'affermazione che conferma l'inevitabile nesso organizzativo che deve sussistere tra i lavoratori e la struttura che viene trasferita e l’illegittimità della cessione di dipendenti che non sono funzionalmente collegati ad essa.

Una delle manifestazioni di questo rapporto funzionale è costituito dal legame necessario tra professionalità e competenze del personale e ramo da trasferire. In tale ambito l’adibizione di un lavoratore che non abbia le qualità professionali necessarie potrà essere contestata per la mancanza di un rapporto organizzativo tra il dipendente e l'attività oggetto dell’operazione economica (perché egli concretamente non sarebbe in grado di lavorare nel segmento dell'azienda trasferito). Inoltre, il potere direttivo del cedente dovrà essere esercitato nel rispetto del principio della tutela della professionalità previsto dall’art. 2103 c.c. Pertanto, anche se il dipendente fosse astrattamente in grado di svolgere i nuovi compiti, potrebbe non esservi il requisito della equivalenza, soprattutto se questa non viene intesa genericamente come “uguale valore professionale”, ma come necessità di essere adibiti a mansioni che consentano l’”utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto”72. Le nuove mansioni che gli vengono richieste, infatti, non risponderebbero alle caratteristiche indicate.

I limiti descritti, ovviamente, condizionano la selezione del personale ed anche la possibilità per le parti (tramite il potere direttivo del cedente) di includere alcuni dipendenti per ragioni del tutto “personali” (connesse, ad esempio, alla maggiore o minore capacità, diligenza ecc.). Le scelte,

70 Infatti “l’esistenza di un nesso organizzativo all’interno del segmento trasferito… di per sé esclude che possa integrare gli estremi di un trasferimento d’azienda la cessione di un fascio di rapporti di lavoro tra loro poco o nulla collegati, ovvero la cessione di segmenti organizzativi non idonei allo svolgimento di un’attività economica”: Romei 2003, 65. 71 L’autonomia va individuata “nella organizzazione di beni e persone al fine della produzione di determinati beni materiali o particolari servizi per il conseguimento di specifiche finalità produttive dell’impresa”: Cass. 22.3.2006 n. 6292. 72 Cass. 12.4.2005 n. 7453; Cass. 11.4.2005 n. 7351; Cass. 30.7.2004 n. 14666 (giurisprudenza costante).

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infatti, che non siano motivate dalle esigenze organizzative o professionali prime descritte e che troverebbero fondamento soltanto nelle caratteristiche individuali del lavoratore sarebbero certamente illegittime. Inoltre, a parità di condizioni tra più candidati tutti ugualmente idonei, la loro individuazione dovrebbe essere effettuata in base a correttezza e buona fede e con un parametro “oggettivo ed uniforme e, per questo, verificabile”73.

Si pone il problema se, in questi casi, nonostante la mancanza di coerenza organizzativa tra mansioni ed attività produttive o la violazione dell'art. 2103 (o di altre disposizioni inderogabili), tuttavia vi sarebbe ugualmente il passaggio del contratto di lavoro in capo al cessionario o se, al contrario, vi sia soltanto una tutela risarcitoria74. A mio giudizio l'effetto traslativo non si verifica e per ragioni diverse. Nell’ipotesi in cui vengono adibiti lavoratori inidonei, per la propria professionalità, a svolgere i compiti assegnati e necessari per la produzione di beni o servizi, tra i dipendenti e l’articolazione funzionalmente autonoma verrebbero a mancare gli indispensabili nessi organizzativi e, quindi, si sarebbe in presenza della cessione di rapporti di lavoro non coordinati con la struttura produttiva, in violazione dell’art. 2112 c.c.75. Se, invece, il cedente ha selezionato per il segmento da trasferire dei lavoratori che siano con esso coerenti sotto il profilo organizzativo, ma con un’assegnazione effettuata in violazione del principio dell’equivalenza o con atti discriminatori (o con la lesione di altri diritti), il potere direttivo da lui esercitato sarebbe nullo per contrasto con norme inderogabili. Ne deriva, in tutte le situazioni descritte, l’illegittimità dell’adibizione del lavoratore alla frazione di azienda da trasferire e la mancanza dell’effetto traslativo del contratto individuale di lavoro (perché è come se il dipendente non avesse mai concretamente fatto parte dell’articolazione autonoma ceduta).

I limiti analizzati operano anche nel caso di esclusione di uno o più lavoratori dal ramo di azienda da trasferire. Il cedente, infatti, potrà spostare un lavoratore dalla frazione di impresa identificata dalle parti per mantenerlo nella propria struttura produttiva. Anche in questo caso l’esercizio del potere direttivo sarà soggetto al divieto di dequalificazione o di comportamenti discriminatori, e non potrà svolgersi in contrasto con

73 Maresca 2004, 398. 74 Quest’ultima è la tesi sostenuta da Novella, Vallauri 2005, 197, per violazione dell’art. 2103 c.c. 75 In questo caso, in sostanza, mancherebbe la fattispecie prevista dall’art. 2112 c.c. e il potere direttivo, anche se esercitato legittimamente, non escluderebbe che si sarebbe al di fuori dell’ipotesi prevista dalla disposizione.

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norme a tutela del lavoratore (ad es. imponendo una riduzione della retribuzione, una modifica in pejus delle condizioni contrattuali ecc.). Inoltre, se comporterà il passaggio ad altra unità produttiva, dovrà essere coerente con quanto previsto dall’art. 2103 cod. civ. in tema di trasferimento76.

L'inclusione o l'esclusione dei lavoratori potrà determinare una modifica dell'assetto del ramo da trasferire che incide sulla sua funzionalità. In questo caso è necessario che, nonostante le modifiche nella composizione del personale, il segmento dell'impresa conservi quei nessi organizzativi interni che ne fanno una vera e propria articolazione autonoma. Se così non fosse, infatti, non vi sarebbe la fattispecie prevista dall'art. 2112 e l'operazione economica sarebbe illegittima, anche se l'esercizio del potere direttivo del cedente avesse rispettato le condizioni in precedenza descritte. In sostanza, il potere di selezione dei lavoratori da inserire o da rimuovere dal ramo e l'influenza che esso esercita sull'assetto organizzativo della parte di azienda da trasferire operano su piani diversi (anche se spesso l'uno condizionato dall'altro) e devono essere considerati separatamente in relazione anche alle discipline giuridiche di riferimento in base alle quali valutare la loro legittimità.

A parte il problema dell’eventuale dissenso dei lavoratori, che sarà successivamente esaminato (v. infra § 7), resta da comprendere quale sia lo spazio per eventuali accordi individuali tra il cedente e singoli lavoratori per essere esclusi dal ramo d’azienda e quale sia il ruolo dell’autonomia collettiva in materia. Si immagini, ad esempio, che, dopo l’individuazione della articolazione autonoma e prima del trasferimento, il cedente concordi con uno (o più) dipendenti l’esclusione dalla frazione dell’azienda coinvolta nell’operazione economica. Oppure che una tale esclusione sia conseguente ad un accordo collettivo raggiunto nel corso della procedura di consultazione sindacale prevista dall'art. 47 della legge 428/1990.

Per valutare la legittimità di queste pattuizioni é necessario verificare se la continuazione del rapporto di lavoro presso il cessionario è un effetto automatico ed indisponibile derivante dall'inderogabilità dell'art. 2112 c.c. O se, al contrario, si tratta di una indisponibilità “unilaterale“, che opera soltanto nei confronti del subentrante nella titolarità dell'azienda o del ramo. Quest'ultima tesi mi sembra più fondata. Essa trova sostegno, in primo luogo, nella formulazione letterale del comma 1 dell'art. 2112, secondo il quale “in caso di trasferimento d'azienda”, e

76 Su tali aspetti si rinvia a Cass. 24.1.1991, n. 671, RIDL, 1991, II, 678 ss. (ed a Lambertucci 1991, 678 ss.); Piccininno 2000, 669 ss.; Carabelli 1995, 50 – 51; Lepore 2006, 1204.

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cioè quando esso si verifica, “il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”. Dunque la continuazione del contratto e il mantenimento delle posizioni giuridiche da un lato presuppongono l'effettuazione dell'operazione economica (e non hanno effetto vincolante prima del trasferimento), dall'altro operano soltanto nei confronti del subentrante. A ben vedere, inoltre, questa é la finalità specifica della normativa nazionale ed europea, che intendono garantire la continuità dell'occupazione e la conservazione dei diritti e degli obblighi dopo il trasferimento - quando concretamente vi possono essere i pregiudizi per i lavoratori - senza prendere in considerazione, per tali aspetti, le vicende antecedenti all'operazione economica. D'altra parte, se l'effetto della continuità del rapporto fosse indisponibile anche per il cedente si potrebbe arrivare ad un paradosso: dopo aver individuato con il cessionario il ramo da trasferire e prima della cessione, l’imprenditore ancora titolare dei rapporti di lavoro non potrebbe, con il proprio potere direttivo, spostare alcuni dipendenti inclusi nella articolazione autonoma, perché altrimenti si verrebbe ad incidere sulla continuità giuridica dei rapporti presso il cessionario. Inoltre, si dovrebbe ritenere che anche il potere di licenziamento per ragioni diverse dal trasferimento (espressamente previsto dal comma 4 dell'art. 2112) non potrebbe essere più esercitato nei confronti dei lavoratori inseriti nel ramo, in evidente contrasto con la disposizione di legge e con la stessa disciplina della direttiva 2001/23/CE (art. 4).

L'insieme delle considerazioni descritte consente di affermare che la continuità del rapporto e la conservazione dei diritti sono effetti indisponibili che scaturiscono soltanto dopo il trasferimento ed unicamente nei confronti del cessionario. Pertanto, gli accordi individuali e collettivi stipulati prima dell'operazione economica con i quali si prevede la esclusione di alcuni lavoratori sono certamente legittimi. I contratti collettivi, a cui la giurisprudenza riconosce il potere di escludere alcuni lavoratori dal ramo di azienda da trasferire77, non possono essere considerati come accordi gestionali, perché non incidono su diritti individuali indisponibili dei lavoratori coinvolti78. Essi, inoltre, hanno un'efficacia generalizzata, che si estende anche ai non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti. In questo caso, infatti, analogamente a

77 Si veda, sul punto, Cass. 30.8.2000 n. 11422, ADL, 2000, 789 ss.; Piccininno 2000, 669 ss. 78 In tal senso anche Lepore 2006, 1204, ma in base alla diversa considerazione che il contratto collettivo non dispone dei diritti, ma fissa, alla stessa stregua dell’accordo stipulato ai sensi dell’art. 5 l. 223/1991, i criteri per la scelta dei lavoratori da trasferire.

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quanto accade per i criteri di scelta dei licenziamenti per riduzione del personale, il contratto collettivo condiziona il potere direttivo del cedente nella adibizione o meno di determinati lavoratori all'interno del ramo da trasferire. L'accordo, dunque, che non svolge alcuna funzione normativa in senso tradizionale, condiziona l'esercizio di un potere unilaterale del cedente che é efficace nei confronti di tutti i lavoratori dell'impresa e quindi, per tale ragione, si applica necessariamente a tutti i dipendenti coinvolti, a prescindere dalla loro appartenenza o meno alle organizzazioni sindacali.

Ovviamente, gli accordi individuali o collettivi potrebbero modificare l'assetto organizzativo del ramo di azienda da trasferire e renderlo, di fatto, tale da non poter essere considerato come un articolazione funzionalmente autonoma. In questo caso, peraltro, si è già spiegato che l'operazione sarebbe illegittima per violazione dell'art. 2112 ed a prescindere dalla piena legittimità delle pattuizioni contrattuali stipulate.

7. La rilevanza o meno del consenso del lavoratore

La necessità o meno del consenso del lavoratore nel caso di trasferimento ha dato vita ad un consistente dibattito dottrinario ed a numerosi interventi della giurisprudenza. La questione non aveva in passato sollevato problemi particolari, perché si riteneva che il passaggio del lavoratore dall’azienda del cedente a quella del cessionario fosse un effetto automatico scaturente dall’art. 2112 c.c. Il trasferimento del contratto trovava giustificazione nell’inerenza del rapporto all’organizzazione trasferita e nel fatto che in tal modo si garantiva la possibilità di cessione dell’azienda, assicurando al titolare originario ed al subentrante il mantenimento del valore del complesso aziendale, costituito, appunto, da uomini e mezzi. Inoltre, si manteneva la conservazione dei diritti dei lavoratori presso il nuovo imprenditore, in una situazione che lasciava inalterata la posizione giuridica e sostanziale dei dipendenti interessati79. La vicenda è molto diversa nelle esternalizzazioni di parti dell’azienda realizzate tramite l’art. 2112, che, in sede di individuazione del ramo, consente di aggregare strutture che modificano il precedente assetto organizzativo (con facoltà, quindi, di mutare la posizione dei lavoratori). Inoltre, nel caso di cessione di meri

79 La cessione dell’intera azienda o di un ramo di essa – inteso in senso tradizionale di stabilimento od unità produttiva – non alterava “significativamente (non più di quanto potesse avvenire in forza di evoluzioni degli assetti organizzativi presso il cedente) le condizioni di inserimento professionale, le prospettive di stabilità occupazionale, gli equilibri di potere collettivo, l'area di applicazione dei trattamenti contrattuali”: Scarpelli 2004, 97.

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servizi interni, vi sarà la possibilità di trasferire automaticamente il rapporto di lavoro ad imprenditori specializzati, con i possibili effetti negativi sulle posizioni dei singoli lavoratori interessati che sono stati già analizzati80. L’insieme di questi elementi ha portato al tentativo di rivalutare il consenso del lavoratore quale condizione di operatività del trasferimento del contratto individuale di lavoro, per impedire od ostacolare i processi di frammentazione dell’impresa descritti. D’altra parte, la questione ha assunto una sua rilevanza anche in altre realtà europee, come dimostra la disciplina esistente in Germania, dove si sancisce espressamente il diritto del lavoratore di opporsi al trasferimento81. Il problema, certamente complesso, deve essere risolto in base sia alla disciplina nazionale che a quella comunitaria, così come interpretata dalla Corte di Giustizia.

Per quanto attiene alle norme del codice civile, non vi è dubbio che l’art. 2112 cc. regola un’ipotesi speciale di successione legale nella titolarità del rapporto di lavoro che deroga al principio, previsto dall’art. 1406 ss. c.c., secondo cui la cessione del contratto richiede il consenso del contraente ceduto82. Anche se, a seguito del trasferimento, il contratto passa al cessionario, e si realizza, dunque, un effetto simile a quello previsto dall’art. 1406, si è in presenza di istituti diversi. In quest’ultimo caso le parti intendono cedere l’accordo negoziale (ed è questa la finalità specifica dell’operazione)83, mentre nell’altra ipotesi vogliono trasferire una organizzazione a cui ineriscono determinati contratti che seguono la sorte della azienda e senza che il contraente ceduto possa opporsi. La diversità nelle funzioni delle due operazioni economiche spiega la peculiarità della disciplina dell’art. 2112 ed anche di quella dell’art. 2558 c.c., che rispecchia, in generale e per l’intera azienda, la medesima finalità. Quest’ultima disposizione, infatti, per unanime orientamento dottrinario e giurisprudenziale, determina una successione ope legis nei contratti d’impresa a seguito del trasferimento di azienda con una deroga all’art. 1406 c.c. In questo caso “la

80 V. retro § 4. Su tali aspetti si rinvia, per tutti, a Scarpelli 1999, 491 ss.; Id. 2004, 92 ss.; Perulli 2003, 474 ss.; Romei 2005, 294 ss., Cester 2004b, 48 ss. (a cui si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche); De Angelis 2005, 126 ss. 81 Perulli 2003, 485. In tal caso il lavoratore rimane presso il cedente e potrà essere licenziato “solo in presenza di una giustificazione diversa dal trasferimento” (Perulli 2003, 485). 82 Su tali aspetti si rimanda, per tutti, a Romei 1993, 20, 73 ss.; Grandi 2005, 429 ss. 83 L’art. 1406 c.c. regola un negozio di cessione (Cass. 15.3.2004 n. 5244) che ha “ad oggetto la trasmissione di quel complesso unitario di situazioni giuridiche attive e passive che derivano per ciascuna delle parti dalla conclusione del contratto” (Cass. 2.6.2000 n. 7319).

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successione nei contratti si attua, a norma dell’art. 2558, indipendentemente dal consenso del terzo contraente”84. Il confronto tra le due disposizioni dimostra che l’art. 2112 è norma speciale rispetto all’art. 255885. Le due norme, infatti, disciplinano entrambe la medesima fattispecie, perché la prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario (art. 2112, comma 1) implica necessariamente che quest’ultimo subentri nella titolarità del rapporto di lavoro e realizza quindi la successione “nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda” che è prevista dall’art. 2558. Il rapporto di specialità, inoltre, è rinvenibile anche nel raffronto tra il comma 2 di quest’ultima disposizione ed il secondo periodo del comma 4 dell’art. 2112. Entrambi, infatti, regolano la possibilità del recesso del terzo contraente per giusta causa, con un semplice adattamento della regola dettata dal 2558 alla disciplina lavoristica, sia sotto il profilo delle condizioni che legittimano il recesso (il mutamento sostanziale di posizione del dipendente), sia per il riferimento all’art. 2119 c.c. Il carattere di specialità della norma lavoristica comporta l’applicazione della medesima regola prevista in generale per i contratti d’impresa. Il cessionario subentrerà automaticamente nei rapporti di lavoro di lavoro, senza che abbia rilevanza se essi, come richiede l’art. 2558, siano o meno intuitus personae86. Inoltre, vi sarà un effetto automatico di successione legale che, come nel caso della disciplina generale, prescinde dal consenso del contraente ceduto.

Il quadro normativo delineato, che in relazione alla disciplina lavoristica non ha subito innovazioni per effetto delle riforme introdotte nel 2001 e nelle 2003, è stato contrastato sotto diversi profili, tutti finalizzati a cercare di valorizzare la volontà dei lavoratori nei processi di esternalizzazione. Una prima tesi è quella che si fonda su una certa lettura della direttiva europea da parte della CGE (su cui si tornerà in seguito) e sulla mancanza di una disciplina nazionale coerente con le prescrizioni della Corte di Giustizia. In questo contesto, si è affermato che

84 Galgano 2004, 98. 85 La tesi, oltre che da Grandi 2005, 427 – 428 (che peraltro sottolinea l’autonomia dell’art. 2558 rispetto all’art. 2112) è sostenuta da vari autori (si rinvia, per le indicazioni bibliografiche, a Romei 1993, 76). In generale sul concetto di norma speciale v., per tutti, Quadri 1974, 304; Guastini 1998, 236 ss. 86 L’art. 2558, infatti, non si applica in caso di successione di contratti di carattere prevalentemente personale. Si potrebbe discutere se il lavoro subordinato sia tra quelli con tali caratteristiche, perché la giurisprudenza lo ha escluso in relazione alle attività di un avvocato (Cass. 25.7.1978 n. 3728) e di un agente di commercio (Cass. 16.5.2000 n. 6351), che sono, ovviamente, contratti con prestazioni strettamente legate alla persona del contraente. L’art. 2112 non prevede il limite dell’intuitus personae ed elimina ogni dubbio sul punto.

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in via interpretativa si potrebbe sostenere che il consenso del lavoratore non sarebbe necessario soltanto nel caso di trasferimento dell'intera azienda, mentre tale requisito sarebbe indispensabile nella cessione del ramo (a meno che l’operazione non produca effetti positivi per il lavoratore interessato)87. Questa tesi, in realtà, è confutata dalla formulazione letterale dell'art. 2112, che, in relazione a questo aspetto, non fa nessuna distinzione tra trasferimento dell'intera azienda o di una sua articolazione funzionalmente autonoma88. Tra l'altro, anche la direttiva europea contiene una disciplina unitaria sia per il trasferimento dell'intera impresa che di parti di essa, e la particolare interpretazione della direttiva che è stata assunta dalla CGE in tema di opposizione del lavoratore all’operazione (v. infra) non prevede alcuna distinzione a seconda che sia coinvolta l'intera azienda o una sua frazione. Vi sono dunque elementi letterali e sistematici che impediscono di accogliere questa opinione.

Un altro autore ha cercato di individuare il fondamento della necessità del consenso del lavoratore al trasferimento in alcune norme costituzionali (art. 4, commi 1 e 2, art. 35, comma 1, art. 41, comma 2), che garantirebbero la libertà contrattuale “e il rifiuto della mercificazione del lavoro”89.

In realtà, le norme della Costituzione indicate non sembrano poter essere utilizzate per negare la legittimità dell'art. 2112 c.c. Il primo comma dell'art. 4 Cost. è disposizione rivolta ai pubblici poteri, che non crea posizioni di tutela diretta a favore dei privati e non incide sul regolamento normativo dei rapporti di lavoro. Infatti, anche se il diritto al lavoro è un “fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa”, tale diritto impone all’ordinamento giuridico di non introdurre condizioni che restringano irragionevolmente l’accesso al lavoro (salva la necessità di tutela di interessi generali), ed obbliga le istituzioni a promuovere condizioni di piena occupazione90. D’altra parte, anche in una lettura della disposizione quale fonte di posizioni giuridiche soggettive a favore del

87 Perulli 2003, 487. 88 De Angelis 2005, 131. 89 Scarpelli 1999, 501. L’a. non ha più riaffermato successivamente questa tesi. 90 C. Cost. 9.6.1965 n. 45, FI, 1965, I, 1118. Il principio secondo cui l’art. 4 Cost. non crea situazioni giuridiche azionabili dal singolo e determina obblighi solo in capo ai pubblici poteri è affermato da costante giurisprudenza (C. Cost. 26.1.1957 n. 3, FI, 1957, I, 206; C. Cost. 30.12.1987 n. 622, G cost., 1987, I, 3734; C. Cost. 23.5.1985 n. 158, FI, 1986, I, 361; C. Cost. 28.11.1986 n. 248, FI, 1987, I, 336 e molte altre) e dalla dottrina (Mazziotti 1973, 340; Mancini 1975, 199 ss.; Scognamiglio 1990, 4 ss., a cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche).

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lavoratore91, la “scelta e (il) modo di esercizio dell’attività lavorativa” attengono al contenuto del lavoro e non alla selezione del contraente (il datore di lavoro)92. Il comma 2 dell’art. 4 Cost., secondo l’opinione assolutamente prevalente, non pone una vera e propria norma giuridica ma un mero “dovere morale”93 e comunque esprime una libertà di scelta del lavoro secondo il significato sopra delineato. Anche l’art. 35, comma 1, Cost., ritenuto uno sviluppo dell’art. 4, comma 194 e con la finalità di garantire forme di tutela che rimuovano gli ostacoli che impediscono l’eguaglianza sostanziale dei lavoratori (art. 3, comma 2, Cost.)95, è una “norma di principio che non apporta una specifica tutela del lavoratore, ma demanda al legislatore, in concreto, la disciplina per la protezione delle varie forme di attività lavorative”96. Da essa “non si possono trarre immediati criteri di risoluzione di singoli problemi concernenti i rapporti di lavoro”97. La disposizione, dunque, ha il valore di mero “criterio ispiratore”98 della attività del legislatore e non attribuisce diritti immediatamente azionabili dai lavoratori. La diversa interpretazione che legge l’art. 35 Cost. come giustificativo di un vero e proprio diritto alla formazione che inerisce al contratto di lavoro99 non influenza comunque la tesi qui sostenuta. In questo caso, infatti, la norma costituzionale attribuirebbe un diritto che, ancora una volta, riguarda il contenuto del contratto e non la libertà di scelta del contraente – datore di lavoro.

L’art. 41 Cost., infine, secondo un’orientamento interpretativo (anche della Corte Costituzionale) tutela la libertà contrattuale100, che certamente implica anche quella di selezionare la controparte. Questa tutela, peraltro, non opera in via generale, ma soltanto in rapporto a situazioni soggettive espressamente previste dalla Costituzione, come

91 Cariola 2006, 115 ss.; Alessi 2004, 1 ss., 20. 92 C. Cost. 9.6.1965, cit.; C. Cost. 28.4.1976 n. 84, GC, 1976, III, 259. Dunque, anche se si volessero accogliere le diverse opinioni sull’art. 4 Cost., secondo le quali questa disposizione attribuirebbe al lavoratore un diritto soggettivo perfetto, queste interpretazioni non conducono a conclusioni diverse da quelle indicate nel testo. 93 Mazziotti 1973, 342; Scognamiglio 1990, 5; Cariola 2006, 127; contra Mancini 1975, 259, che parla di obbligo giuridico, peraltro incoercibile, di svolgere un’attività utile. 94 C. Cost. 9.3.1967 n. 22, G cost., 1967, I, 165; C. Cost. 27.6.1973 n. 98, FI, 1973, I, 2355; C. Cost. 15.2.1980 n. 16, G cost., 1980, I, 137. In tal senso anche Napoli 1979, 21. 95 Treu 1979, 5; Bifulco 2006, 722. 96 C. Cost. 14.1.1986 n. 1, FI, 1986, I, 2392. 97 C. Cost. 5.5.1987 n. 72, FI, 1987, I, 1680. 98 C. Cost. 1.2.1983 n. 15, G cost., 1983, I, 53. 99 Alessi 2004, 12; Napoli 1997, 270. 100 Galgano 1982, 3 ss.; C. Cost. 20.4.1965 n. 30, FI, 1965, I, 737. Contra Gentili 1989, 9 ss.

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l’iniziativa economica privata o la proprietà101. Il che esclude che il contratto di lavoro, che non è espressione dei due diritti indicati, possa dirsi “protetto” da questa disposizione costituzionale. D’altra parte, anche se si volesse ritenere che l’autonomia contrattuale goda di una tutela costituzionale generalizzata estesa anche al rapporto di lavoro102, la libertà di scelta del contraente da parte del lavoratore può essere garantita, oltre che dal consenso dell’interessato alla cessione del contratto di lavoro, anche dalla possibilità di sottrarsi agli effetti del trasferimento ed al mutamento nella titolarità del rapporto. Questa libertà è assicurata in ogni caso dalle dimissioni che il lavoratore può rassegnare anche se non vi é una modifica sostanziale delle sue condizioni contrattuali (che legittimerebbe la giusta causa di recesso). Tale possibilità, oltre a garantire al lavoratore la scelta della controparte nel contratto, realizza anche un positivo equilibrio tra libertà contrattuale del dipendente e le esigenze economiche connesse al trasferimento della organizzazione aziendale (inclusi i contratti di lavoro), in piena coerenza con i limiti all’iniziativa economica privata previsti dal comma 2 dell’art. 41.

Mi sembra, dunque, che nelle norme costituzionali invocate dalla interpretazione qui criticata non sia possibile rinvenire un diritto del lavoratore ad esprimere il proprio consenso al trasferimento del contratto di lavoro. Inoltre la cessione automatica del rapporto di lavoro prevista dall'art. 2112 é coerente con i limiti costituzionali alla discrezionalità del legislatore nell'attuazione della disciplina protettiva del lavoratore. Infatti, la continuazione del rapporto di lavoro, la conservazione del medesimo status giuridico (salvo le modifiche derivanti dalla successione dei contratti collettivi), la responsabilità solidale per i crediti, il divieto di licenziamento motivato esclusivamente dal trasferimento, le dimissioni per giusta causa nel caso di mutamento sostanziale della propria posizione, la stessa procedura preventiva di consultazione sindacale delineano discipline individuali e collettive che sembrano del tutto coerenti con le finalità di tutela imposte dalla Costituzione. E questo anche in considerazione del necessario bilanciamento tra il diritto di iniziativa economica privata (di cui il trasferimento di azienda costituisce momento essenziale) e la protezione dei lavoratori garantita dal comma 2

101 Galgano 1982, 4; Niro 2006, 852 (con ulteriori riferimenti bibliografici). 102 Mazziotti 1956, 151, che riconosce nell’art. 41 Cost. il fondamento costituzionale dell’autonomia contrattuale in relazione ad ogni attività da cui possa derivare un vantaggio economico a chi la svolge. Ne consegue, quindi, che anche il contratto di lavoro potrebbe essere incluso tra quelli riconducibili a questa disposizione (che, per questo a., tutela anche il lavoro subordinato: Mazziotti 1973, 342).

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dell'art. 41 e dalle altre disposizioni della Costituzione in materia di lavoro. In tale ambito, va rilevato che la Cassazione ha recentemente negato la illegittimità costituzionale dell’art. 2112 in quanto non prevederebbe l’assenso del dipendente coinvolto nell’operazione economica. La Corte, infatti, ha ritenuto che la disposizione realizza un positivo contemperamento tra esigenze aziendali e tutela del lavoratore senza che sia configurabile una violazione della Costituzione103.

Un’ulteriore tentativo di costruire un diritto di opposizione del lavoratore al trasferimento è quello che fa scaturire questa situazione soggettiva dall’art. 1372 cod. civ. Si afferma, infatti, che la cessione dell’azienda sulla base di un contratto tra due imprenditori non potrebbe, in base alla disposizione del codice civile, avere effetti nei confronti dei terzi lavoratori104. Qui è facile replicare che il principio non potrebbe trovare innanzitutto applicazione in tutti i trasferimenti di azienda non effettuati con contratto ma con provvedimenti amministrativi o di natura non negoziale. Inoltre, l’art. 1372 introduce una regola generale, che può essere derogata in casi particolari, come quelli appunto disciplinati dagli artt. 2112 (per i rapporti di lavoro) e 2558 c.c. in relazione ai contratti di impresa.

La disciplina nazionale del trasferimento di azienda non consente, dunque, di legittimare la necessità del consenso del lavoratore perché si perfezioni la cessione del contratto di lavoro105. Questo principio, tra l’altro, è stato confermato dalla giurisprudenza106, anche se, come si vedrà, vi è un indirizzo minoritario che giunge a conclusioni diverse.

Tuttavia, si è già parlato della prevalenza della disciplina comunitaria in questa materia. Si tratta di verificare adesso se, anche in base al

103 Cass. 30.7.2004 n. 14670, per la quale deve “ritenersi manifestatamene infondata la q.l.c. dell’art. 2112 in quanto esso da un lato tutela il diritto del lavoratore all'esercizio della propria professionalità, nonostante le vicende traslative che possano involgere beni in cui la stessa è connessa, e dall'altro è coerente con le esigenze di ristrutturazione aziendale, rispetto alle quali gli adempimenti normalmente richiesti dall'art. 1406 c.c. in caso di cessione del contratto e la necessità del consenso del contraente ceduto concretizzano una serie di disposizioni che, per la loro rigidità, sarebbero incompatibili con le esigenze dei processi di ristrutturazione aziendale, di riconversione industriale e di delocalizzazione delle imprese, ai quali è finalizzata la normativa contenuta nell'art. 2112 c.c.”. 104 Scarpelli 1999, 501; Mazziotti 2004, 622. 105 La maggior parte della dottrina, con varie argomentazioni, nega la rilevanza del consenso del lavoratore (anche con riferimento alle recenti riforme introdotte con i d.lgs. 18/2001 e 276/2003). Per un riepilogo delle varie posizioni si rinvia a Romei 2005, 317 ss.; De Angelis 2005, 130 ss.; Lepore 2001, 181 ss. 106 Cass. 6 dicembre 2005, n. 26668; Cass. 17 ottobre 2005, n. 20012; Cass. 12 maggio 2004, n. 9031; Cass. 10 gennaio 2004 n. 206 e le altre citate da De Angelis 2005, 129, nota 14.

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diritto europeo, si possa affermare l’irrilevanza della eventuale opposizione del lavoratore al trasferimento.

La direttiva 2001/23/CE prevede, all’art. 3, il passaggio automatico dal

cedente al cessionario dei diritti e dei doveri connessi ai contratti di lavoro e sembra stabilire, quindi, la traslazione dei rapporti di lavoro in capo al subentrante, senza necessità del consenso preventivo del lavoratore e senza possibilità di manifestare la sua opposizione. La Corte di Giustizia europea, peraltro, con alcune sentenze, ha interpretato in modo “creativo” la direttiva, enucleando una nuova “norma”, assai diversa da quella scritta. Questo orientamento, in considerazione della natura “normativa” delle decisioni della CGE e dei vincoli interpretativi che ne derivano, condiziona in modo rilevante la soluzione del problema. Le sentenze della Corte di Giustizia hanno affermato i seguenti principi: a) l'art. 3, paragrafo 1, della direttiva impone che, nel caso di trasferimento di azienda o di parti di azienda, il contratto di lavoro si trasferisce al subentrante senza necessità del consenso del dipendente, dei rappresentanti sindacali del lavoratore, o del cedente o del cessionario e con regola imperativa che non può essere derogata in senso sfavorevole ai lavoratori; b) la disposizione, tuttavia, consente al dipendente di rifiutare che il suo contratto di lavoro sia trasferito al cessionario; c) “in questo caso, la situazione del lavoratore dipende dalla normativa di ogni Stato membro: o il contratto può essere considerato risolto, nell'impresa cedente, su domanda del datore di lavoro o su domanda del dipendente, o il contratto può continuare con tale impresa”107. A me sembra che, in base ai principi che regolano i rapporti tra ordinamento comunitario e quello nazionale, si possa giungere alle seguenti conclusioni. La legge italiana, nella misura in cui non disciplina gli effetti derivanti dalla possibile opposizione del lavoratore al trasferimento, non ha esercitato la facoltà regolativa che gli é stata attribuita dalle sentenze della Corte di Giustizia. Non vi è dubbio, infatti, che né nell'art. 2112, né in altra disposizione è rinvenibile una norma relativa alla possibilità di opporsi all’operazione ed alla regolazione del contratto di lavoro dopo che la volontà contraria è stata manifestata. Si è quindi in presenza di un vuoto normativo, in quanto la legge italiana non

107 Cgce 24 gennaio 2002, Temco, causa C – 51/00, FI, 2002, IV, 148 ss.; conf. Cgce 16 dicembre 1992, Katsikas, cause riunite C – 132/91, C – 138/91, C – 139/91, punti 31 ss.; Cgce 7 marzo 1996, Merckx, cause riunite C – 171/94, C – 172/94, punti 33 ss.; Cgce 12 novembre 1998, Europièces, causa C – 399/96, punti 37 ss.

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regola il diritto di opposizione, che, in base alla funzione creatrice svolta dalla giurisprudenza comunitaria, è oggi un principio immediatamente vincolante. Non va dimenticato, infatti, che la “paralisi “ dell'effetto traslativo del contratto di lavoro a seguito della manifestazione di volontà del lavoratore è una conseguenza immediata e diretta delle sentenze che scaturisce dal “valore normativo” proprio delle decisioni della CGE, che in tale ambito non lasciano alcuna discrezionalità agli Stati membri. A questi ultimi, infatti, viene consentita soltanto la possibilità di regolare gli effetti conseguenti al mancato consenso del lavoratore al trasferimento e non di escludere il diritto di opposizione e quel che ne consegue. La disciplina italiana in questa parte è meno favorevole di quella europea ed è quindi illegittima. Essa, tuttavia, può essere corretta, con “l’interpretazione adeguatrice”, in modo da renderla coerente con quella comunitaria. In particolare, a seguito di questa “lettura correttiva”, sarà possibile sostenere che il lavoratore potrà opporsi al trasferimento. In conseguenza dell’opposizione, ed in mancanza di una disciplina espressa delle conseguenze di tale volontà, il contratto di lavoro continuerà con il cedente e non si trasferirà al cessionario108. Ovviamente, il rapporto di lavoro, a questo punto, potrà anche essere risolto per effetto di un licenziamento. Tuttavia, il recesso non potrà essere motivato esclusivamente dall’esercizio del diritto di opposizione. Se così fosse, infatti, la libertà del lavoratore di esprimere o meno il proprio consenso sarebbe condizionata in modo tale da renderla del tutto ineffettiva (in contrasto con i principi enucleati dalla CGE). D’altra parte, se, per normativa nazionale e comunitaria, il trasferimento di per sé non può giustificare il licenziamento, mi sembra ragionevole affermare che analoga conclusione debba essere raggiunta per la mancanza del consenso del lavoratore, che è sempre vicenda che trova nel trasferimento la sua origine. In questo caso, in sostanza, il ricorso all’analogia, dovrebbe consentire questa interpretazione109. In realtà il

108 Contra Scarpelli 2004, 98, secondo il quale la mancata attuazione del diritto comunitario da parte dello Stato italiano potrebbe determinare soltanto una tutela risarcitoria. Mi sembra, tuttavia, che questa conclusione sia contraddetta dalla natura “normativa” delle sentenze della Corte di Giustizia europea (v. retro, testo e n. 6) e dalla precettività del principio secondo cui l’opposizione del lavoratore impedisce l’effetto traslativo del contratto dal cedente al cessionario. 109 In questa ipotesi, infatti, c’è una “lacuna” che può essere colmata con l’applicazione di altre disposizioni – l’art. 2112, comma 4, c.c. e l’art. 4, comma 1, della direttiva 2001/23/CE - che hanno la medesima ratio (impedire che il trasferimento determini di per sé il licenziamento) ed in coerenza con i principi in tema di interpretazione analogica (Cass. 24.7.1990 n. 7494; Cass. 6.7.2002 n. 9852; Cass. 23. 11.1965 n. 2404, Si vedano, sul punto, Guastini 1998, 267 ss.; Bobbio 1968, 603 ss.).

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licenziamento sarà motivato soltanto qualora sussista un giustificato motivo oggettivo diverso dalla sola opposizione al trasferimento, come nel caso in cui, in conseguenza della scelta del lavoratore e del mutato assetto aziendale connesso alla vicenda traslativa, non vi siano possibilità di mantenere il dipendente nell’organico dell’impresa cedente per ragioni economiche od organizzative, né vi sia possibilità di occuparlo altrove in applicazione del principio dell’extrema ratio del recesso. La possibilità di opporsi alla operazione economica, quindi, non necessariamente si potrà tradurre in un vantaggio per il lavoratore, perché la prosecuzione del rapporto con il cedente può essere preclusa dalle nuove condizioni organizzative che si realizzano presso il datore di lavoro originario. Non vi è dubbio, peraltro, che l’opzione a disposizione del dipendente amplia le sue possibilità di scelta e, se viene accolta l’interpretazione proposta sulla necessità di una ragione economica giustificativa del licenziamento diversa dall’opposizione, può rafforzare la sua posizione. L'interpretazione sopra descritta si fonda sul presupposto che nell'ordinamento italiano esista un vuoto normativo, perché il legislatore non ha seguito le prescrizioni imposte dalla CGE e non ha quindi regolato gli effetti sul contratto di lavoro derivanti dall'esercizio del diritto di opposizione del lavoratore. Questa tesi peraltro è stata contestata. Si è affermato, infatti, che l'art. 2112, comma 4, disciplina l'ipotesi delle dimissioni per giusta causa nei confronti del cessionario e per effetto della modifica sostanziale del rapporto di lavoro. In questo modo, quindi, il legislatore avrebbe implicitamente regolato la materia e di fatto avrebbe escluso la possibilità di opposizione del lavoratore110. L’interpretazione descritta può essere contestata sotto diversi profili. In primo luogo, le dimissioni per giusta causa previste dall'art. 2112 altro non sono che il recepimento di un'altra disposizione della direttiva (l'art. 4, paragrafo 2), dove espressamente si prevede che la risoluzione del rapporto ad iniziativa del lavoratore e per effetto del mutamento sostanziale della sua posizione deve essere ascritta alla responsabilità del datore di lavoro. La disciplina delle dimissioni, dunque, non può essere considerata come l'attuazione dell’art. 3, paragrafo 1, della direttiva stessa, che è la disposizione sulla quale, a giudizio della Corte europea, si fonda il diritto di opposizione del lavoratore e che impone una regolamentazione nazionale della sorte del contratto dopo che tale volontà è stata manifestata111. Inoltre la giusta causa di recesso del dipendente è

110 In tal senso Cester 2003, 91; Maresca 2001, 591; Vallauri 2002, 642; De Angelis 2005, 133 ss. (a cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche). 111 Perulli 2003, 487.

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connessa al mutamento sostanziale della posizione del lavoratore nei tre mesi successivi al trasferimento di azienda. In questo caso, dunque, si regolano vicende che riguardano la dinamica dei rapporti contrattuali tra lavoratore e cessionario dopo il trasferimento112, in conseguenza, evidentemente, delle modifiche organizzative concretamente introdotte dal subentrante dopo l'acquisizione dell'azienda. Al contrario, il diritto di opposizione (secondo la ricostruzione effettuata dalla CGE) si esercita nei confronti del cedente ed a prescindere dalle modifiche che i rapporti di lavoro subiscono per effetto delle decisioni assunte dal cessionario quando il mutamento nella titolarità dell’azienda o del ramo si è ormai verificato. In assenza, dunque, di un nuovo intervento legislativo, mi sembra si possa concludere che, in caso di opposizione del lavoratore, le conseguenze saranno quelle descritte in precedenza (mancanza del passaggio automatico del contratto dal cedente al cessionario, possibilità del licenziamento per giustificato motivo nel senso spiegato ecc.). Questo assetto della disciplina può ovviamente ridurre in modo drastico le possibilità di trasferire parti dell’azienda. Il che renderebbe opportuno una riforma della materia che regoli anche questo aspetto e che trovi un punto di equilibrio tra esigenze economiche di segmentazione dell’impresa e tutela dei lavoratori coinvolti. La influenza della disciplina comunitaria e della interpretazione della CGE sul problema è stata presa in considerazione da alcune sentenze. Tra queste, oltre ad una decisione del Pretore di Milano del 14 maggio 1999113, va segnalata Cass. 28 settembre 2004 n. 19379. Questa sentenza, in base all'interpretazione della direttiva e ad una delle più recenti decisioni in materia della Corte di Giustizia europea114, afferma la possibilità di opposizione del lavoratore al trasferimento e, in questo caso, la permanenza del contratto in capo al cessionario. La pronuncia, peraltro smentita da altre statuizioni successive della Suprema Corte115, non è caratterizzata da una motivazione molto lineare e non può certo essere definita come una ricostruzione puntuale e completa dell'intera problematica in coerenza con i principi espressi dalla giurisprudenza della CGE116. La questione dunque è ancora aperta e sarà necessario verificare

112 Scarpelli 2004, 99; De Marchis 2001, 123. 113 La sentenza (pubblicata in RCDP, 1999, 561) afferma la necessità del consenso del lavoratore proprio in coerenza con l’interpretazione della normativa comunitaria effettuata dalla CGE. 114 Cgce 24.1. 2002, Temco, causa C – 51/00, FI, 2002, IV, 148 ss. 115 V. le sentenze citate retro nella n. 106. 116 Si vedano, sul punto, le osservazioni di De Angelis 2005, 130 (che peraltro sembra sottovalutare quanto affermato – seppur confusamente – dalla Cassazione).

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se questa sentenza della Cassazione avrà ulteriori sviluppi e se l'influenza della disciplina comunitaria sul diritto di opposizione del lavoratore al trasferimento troverà effettivo accoglimento nel nostro sistema.

8. Il trasferimento d’azienda e la successione negli appalti

L’art. 29, comma 3, del d.lgs. 276/2003 ha escluso l’applicabilità della disciplina del trasferimento di azienda nel caso di successione in un contratto di appalto.

La norma si riferisce alle ipotesi, assai diffuse, di appalti di opere e di servizi effettuati a favore dello Stato o di altri soggetti pubblici (regioni, enti locali), nei quali l'affidamento dell'incarico avviene in genere per mezzo di procedure ad evidenza pubblica (appalto - concorso, licitazione ecc.). In queste ipotesi può accadere che, scaduto un contratto di appalto, ne venga assegnato un altro ad un differente imprenditore. Tuttavia, per favorire la continuità occupazionale dei dipendenti in precedenza utilizzati, spesso il capitolato di appalto o le clausole dei contratti collettivi prevedono che l'appaltatore che subentri debba necessariamente assumere questi lavoratori. In altri casi, riferiti ad alcuni specifici settori, é la legge stessa che impone l'obbligo di utilizzare il personale già occupato dal precedente imprenditore117. L'art. 29 stabilisce che in tutte le ipotesi di successione di un appaltatore ad un altro l'acquisizione dei lavoratori da parte del subentrante in base alle fonti legali e contrattuali prima descritte non comporta l'applicazione della disciplina prevista dall'art. 2112 c.c. Ne consegue l’eliminazione delle tutele previste da questa norma in relazione, ad esempio, alla conservazione dei diritti maturati presso il precedente datore di lavoro, alla responsabilità solidale, al divieto di licenziamento per effetto del trasferimento e così via. Si tratta, ancora una volta, di una disposizione che può penalizzare i dipendenti coinvolti nell’operazione, i quali, anche se si vedono assicurato il lavoro, tuttavia potrebbero avere, presso il nuovo appaltatore, standard inferiori di tutela (a meno che essi non vengono garantiti, come spesso accade, dai contratti collettivi o dai capitolati di appalto, che, oltre alle assunzioni, impongono anche il mantenimento dei diritti già acquisiti in precedenza).

117 E’ questa la situazione, ad esempio, dei dipendenti dei concessionari del servizio della riscossione delle imposte, per i quali l’art. 122 del dpr n. 43/1988 e l’art. 63 del d.lgs. n. 112/99 prevedono, in caso di subentro di altro soggetto nel rapporto di concessione amministrativa per la realizzazione del servizio, il mantenimento dei contratti di lavoro alle dipendenze del subentrante.

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In linea generale, può accadere che il successivo appaltatore subentri nella realizzazione di un'opera o di un servizio e, invece di mettere a disposizione una propria struttura organizzativa, utilizzi quella precedente già esistente, che può consistere in un insieme di uomini e mezzi o soltanto in un gruppo di lavoratori organizzati, nella versione dematerializzata di azienda che è stata già analizzata. In questi casi potrebbe in astratto realizzarsi il mutamento della titolarità di una attività economica organizzata che configura un trasferimento di azienda (o di parte di essa) ai sensi dell'art. 2112 c.c.118. L’art. 29, dunque, intende escludere invece la disciplina del codice civile, in coerenza con un orientamento della giurisprudenza nazionale che, in passato, aveva confermato tale esclusione119.

Si è sostenuta, invece, una diversa interpretazione. Si è detto, infatti, che l’art. 2112 c.c. si applica soltanto quando il mutamento nella titolarità dell’azienda sia conseguenza di un accordo diretto tra cedente e cessionario120 ed indipendentemente dalla tipologia negoziale utilizzata. Nel caso di successione di due diversi appaltatori non esiste questa relazione diretta, in quanto il titolo giuridico che legittima il subentrante va rinvenuto nel diverso ed autonomo rapporto negoziale fra l’appaltante ed il secondo appaltatore121. Pertanto l’art. 2112 c.c. non avrebbe mai potuto applicarsi alle ipotesi di successione negli appalti e quindi l’art. 29, comma 3, costituirebbe una norma superflua e foriera di equivoci interpretativi122.

In realtà la situazione è del tutto diversa, in quanto l’art. 2112 c.c. si applica indipendentemente da una relazione contrattuale diretta tra cedente e cessionario123. Depone, in tal senso l’attuale formulazione della norma italiana, che include “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata… a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato”. Il riferimento a qualsiasi tipologia negoziale consente di affermare che vi è ricompreso anche un contratto ad evidenza pubblica (o di altro tipo) tra

118 Romei 2005, 313; Cester 2004a, 251. 119 Cass. 20.11.1997 n. 11575; C. Stato, sez. VI, 21.11.2002 n. 6415. 120 Cester, 2004a, 248 – 249; Gragnoli, 2005, 205 ss. (a cui si rinvia per una ricostruzione delle varie opinioni favorevoli e contrarie alla tesi della necessità del rapporto negoziale diretto: 201 ss.). 121 Cester 2004a, 250; Gragnoli 2005, 202. 122 Gragnoli 2005, 202. 123 In tal senso anche Romei 2004, 583 ss; Maresca 2004, 390; Lambertucci 2004, 465 (con argomentazioni simili a quelle espresse nel testo); Bavaro 2006, 229 ss. (seppure in modo indiretto).

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l’appaltante ed il successivo appaltatore, purché quest’ultimo subentri nella azienda utilizzata dal precedente titolare del contratto e si avvalga dei suoi uomini e mezzi (o del solo personale). Inoltre, un’ulteriore conferma di questa tesi è rinvenibile nell’uso della locuzione “provvedimento” che intende contrastare quella giurisprudenza italiana che negava l’applicazione dell’art. 2112 c.c. nelle ipotesi di successione di azienda a seguito di concessione amministrativa124 e che lascia chiaramente intendere come la disciplina del codice si applica a prescindere dal titolo giuridico (contratto, provvedimento amministrativo) e purché vi sia di fatto il trasferimento dell’azienda. D’altra parte, la direttiva europea (2001/23/CE), pur facendo riferimento alla sola “cessione contrattuale o fusione”, è stata applicata dalla Corte di Giustizia in senso molto ampio. Si è affermato, infatti, che ai fini della sua applicazione “non è necessaria l’esistenza di rapporti contrattuali diretti tra il cedente ed il cessionario, atteso che la cessione può essere effettuata anche in due fasi per effetto dell’intermediazione di un terzo, quale il proprietario o il locatore”125, o in conseguenza della successione in diversi contratti di appalto (v. infra). Se si tiene conto dell’importanza, in via interpretativa, delle decisioni della Corte, è evidente che la normativa europea è tale da includere nella nozione di trasferimento d’azienda anche il subentro di un nuovo appaltatore in un contratto avente ad oggetto l’esecuzione di un opera o di un servizio che prima era svolto da un altro imprenditore, in una logica di tutela oggettiva dei lavoratori coinvolti ed indipendentemente dal mezzo giuridico con cui si verifichi il passaggio della struttura aziendale.

Se questa è la situazione, è chiaro che l’art. 29, comma 3, è tutt’altro che una disposizione superflua. In base alla ampia nozione adottata dall’art. 2112 c.c. e dal diritto comunitario, la successione di diversi soggetti in contratti di appalto potrebbe, in molti casi (anche se non sempre) costituire un trasferimento di azienda. Per tale ragione il legislatore italiano ha voluto escludere l’applicazione della disciplina del codice civile. Tale esclusione è avvenuta in modo categorico. In primo luogo si è parlato di “acquisizione del personale già impiegato a seguito di subentro di un nuovo appaltatore”. Il termine “subentro” è molto ampio e

124 Cass. 26.2.2003 n. 2936; Cass. 15.7.2002 n. 10262; Cass. 19.1.2002 n. 572 e molte altre. 125 Cgce 10.12.1998, Hidalgo, cause C - 173/96 e C - 247/96; Cgce 11.3.1997, Suzen, causa C - 13/95, RIDL, II, 656; Cgce 7.3.1996, Merckx, cause C-171/94 e C – 172/94, punti 28 - 30; Cgce 24.1.2002, Temco, causa C - 51/00, FI, 2003, IV, 147; Cgce 20.11.2003, Abler, causa C – 340/01, punto 39 ed altre ancora. In tal senso, in tempi recenti, anche Cass. 13.1.2005 n. 493.

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ricomprende tutte le ipotesi di sostituzione giuridica di un precedente imprenditore con un nuovo soggetto (rinnovo del contratto di appalto estinto con un nuovo appaltatore; cessione del contratto di appalto ecc.)126. Inoltre la legge regola una duplice ipotesi: la prima è quella in cui il subentrante dispone di una propria organizzazione di uomini o mezzi (o di solo personale) ed è tenuto ad assumere quelli del precedente appaltatore in forza di una legge speciale diversa dall'art. 2112 c.c. ed emanata per regolare una specifica ipotesi di settore, o per effetto del contratto collettivo o di quello di appalto. In questo caso l'art. 29 ribadisce che l’art. 2112 c. non si applica e conferma ciò che scaturirebbe dalla interpretazione della norma del codice civile, che non potrebbe in ogni caso regolare una situazione nella quale non vi è mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata. La seconda ipotesi è quella nella quale il nuovo appaltatore utilizza la stessa struttura organizzativa del precedente titolare del contratto di appalto e sarebbe quindi obbligato dalla legge (in questo caso l'art. 2112 c.c.) o dalle fonti contrattuali prima descritte ad acquisire il personale già impiegato in precedenza. In questa situazione la norma del d.lgs. 276/2003 esercita una funzione derogatoria ed esclude l'applicazione della disciplina del codice civile sul trasferimento di azienda.

In quest'ultima ipotesi, peraltro, la norma si pone in evidente contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea. Essa, infatti, da un lato ha più volte stabilito che la successione in diversi contratti di appalto costituisce trasferimento d’azienda ai sensi della direttiva127, e che tale fenomeno si verifica anche se la successione coinvolga non solo tre soggetti (appaltante, appaltatore e nuovo soggetto subentrante al primo), ma anche più imprenditori in forza di eventuali contratti di sub appalto128. Inoltre essa ha affermato che la direttiva si applica anche quando “l’operazione non è accompagnata da alcuna cessione di elementi dell’attivo, materiali ed immateriali, tra il primo imprenditore o il subappaltatore e il nuovo imprenditore ma il nuovo imprenditore riassume, in forza di un contratto collettivo di lavoro (corsivo nostro), una parte del personale del subappaltatore…”129. E’ evidente, dunque, che vi è un contrasto assoluto e radicale tra norma

126 In senso contrario Bavaro 2006, 232 che ritiene che l’art. 29, comma 3, del d.lgs. 276/2003 sia riferito alla successione di contratti di appalto “senza che si ipotizzi una cessione di contratto”: una tesi che mi sembra smentita dalla formulazione letterale della disposizione. 127 Si vedano le sentenze Suzen, Hidalgo e Temco citate nella precedente n. 125. 128 Cgce 24.1.2002, Temco, causa C - 51/00, FI, 2003, IV, 146 ss. 129 Cgce 24.1.2002, Temco, cit. nella n. precedente, 148.

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italiana e diritto europeo, perché l’art. 29 esclude dalla disciplina dell’art. 2112 c.c. operazioni economiche che la disposizione comunitaria ritiene invece debbano essere qualificate come trasferimento d’azienda. Tale contrasto non consente armonizzazioni con la interpretazione adeguatrice e comporterà le conseguenze prima descritte (invio, da parte del giudice nazionale, della questione dinanzi alla Corte di Giustizia europea, che dovrà concretamente risolvere la questione)130.

Si è affermato che il riferimento alla contrattazione collettiva nazionale non sarebbe vincolante, perché la ratio della disposizione sarebbe la stessa se l’acquisizione del personale avvenisse con un contratto collettivo locale o aziendale131. In realtà, la formulazione della norma non lascia dubbi132, anche perché il d.lgs. 276/2003, quando ha voluto delegare poteri alla contrattazione diversa da quella nazionale, lo ha detto espressamente (si vedano, ad esempio, gli artt. 37, comma 2 e 41, comma 3, in relazione al lavoro intermittente ed a quello ripartito). Il carattere vincolante delle formulazioni utilizzate dal legislatore consente anche di risolvere il problema di come regolare i casi in cui, quando subentra un nuovo appaltatore, l’obbligo di assunzione dei precedenti lavoratori scaturisca da un accordo collettivo aziendale o da un patto individuale tra precedente e nuovo imprenditore (con ipotesi, dunque, diverse da quelle tassativamente previste dall’art. 29). Queste situazioni saranno regolate dall'art. 2112, che, come si è detto, opera “a prescindere dalla tipologia negoziale utilizzata”, soltanto se vi sono i requisiti previsti dalla disciplina del codice civile133. In questo caso, infatti, vi sarebbe un mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata e l'art, 29, comma 3, che esclude le regole sul trasferimento di azienda, non potrebbe essere applicato, perché si è al di fuori della sua sfera di azione.

130Contra Bavaro 2006, 233, il quale, pur affermando l’esistenza del contrasto tra giurisprudenza della CGE e art. 29, comma 3, ritiene che esso sia sanabile con un’interpretazione che limiti l’applicazione della disposizione del d.lgs. 276/2003 al caso di subentro in un appalto con acquisizione di lavoratori che da soli non configurerebbero una articolazione funzionalmente autonoma (e, quindi, quando non sarebbe applicabile l’art. 2112). A me sembra, al contrario, che la formulazione letterale dell’art. 29 non consenta tali conclusioni e che l’intento del legislatore sia quello spiegato nel testo. 131 Gragnoli 2005, 211 ss.. 132 Maresca 2004, 392. 133 Maresca 2004, 392.

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