Balducci, Ernesto-Storia Del Pensiero Umano. Volume Primo. 1 3-Cremonese(1986)

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I I

I

l

Ernesto Balducci

Storia del pensiero umano

Volume primo

Edizioni Cremonese

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In dice

Capitola 1

LE ORIGINI, p. 2- 1.1 II fenomeno uomo, p. 2- 1.2 Naturae cultura, p. 4

I SuMERI, p. 7 - 1.3 La prima societa 'civile', p. 7- 1.4 Una mitologia metafisica, p. 9

Gu EGIZI, p. 10- 1.5 Dal caos al cosmo, p. 10- 1.6 II culto del farao­ne, p. 13 - 1.7 Le scuole teologiche, p. 13 - 1.8 La rivoluzione di Ame­nofi, p. 15

L'ETA ASSIALE, p. 16- 1.9 Lo spartiacque nel sec. VI a.C., p. 16- 1.10 Dal mito alia ragione, p. 18.

IL PENSIERO CINESE ALLE SUE ORIGINI, p. 19 - 1.11 L' armonia tra }a men­te e il cosmo, p. 19 - 1.12 II Tao, p. 22 - 1.13 La dialettica cinese, p. 23 - 1.14 II disimpegno taoista, p. 24 - 1.15 Confucio, p. 26 - 1.16 L'ideologia confuciana, p. 27

IL PENSIERO INDIANO ALLE SUE ORIGINI, p. 28 - 1.17 I Veda, p. 28 - 1.18 La dottrina vedica, p. 32 - 1.19 Le Upanishad, p. 34 - 1.20 Una rivolu­zione laica, p. 36 - 1.21 Gotamo Buddha, p. 37 - 1.22 Le quattro veri­ta del buddismo, p. 39 ZARATUSTRA, p. 41 - 1.23 II dualismo iraniano, p. 41 - 1.24 La svolta del messianismo, p. 42

IL PROFETISMO EBRAICO, p. 43 - 1.25 II profeta, p. 43 - 1.26 La missione sociale del profeta, p. 45 ·

LA FILOSOFIA IONICA, p. 47 - 1.27 La nascita della polis, p. 47 - 1.28 La svolta scientifica, p. 48 - 1.29 I filosofi 'fisici', p. 50.

Capitola 2

ORIENTE E OCCIDENTE, p. 56- 2.1 - Jl 'miracolo' greco, p. 56- 2.2 Apol­lo e Dioniso, p. 59

LA SAPIENZA POETICA, p. 60 - 2.3 L'Olimpo america, p. 60 - 2.4 Esiodo, p. 62 - 2.5 Orfeo, p. 63

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VI 0 lndice

PITAGORA, p. 66 - 2.6 La comunita pitagorica, p. 66 - 2.7 La matemati­ca come filosofia, p. 67 - 2.8 L'Uno, il pari e il dispari, p. 68

ERACLITO, p. 69- 2.9 II profeta del Logos, p. 69- 2.10- L'armonia de­gli opposti, p. 71

Gu ELEATICI, p. 72 yl.ll L'Uno e i molti, p. 72- 2.12 Senofane, p. 73-2.13 Parmenide: verita e opinione, p. 74- 2.14 Parmenide: tra metafi­sica e fisica, p. 76 - 2.15 Zenone, p. 77 - 2.16 Melissa, p. 78

EMPEDOCLE, p. 79- 2.17 II mago d'Agrigento, p. 79- 2.18 Aile radici del mondo, p. 81 - 2.19 Il pessimismo etico-religioso, p. 81

ANASSAGORA, p. 83. - 2.20 Tutto e in tutto, p. 83 - 2.21 L'lntelletto, p. 85.

DEMOCRITO, p. 86- 2.22 L'atomismo meccanicistico, p. 86- 2.23 Il ma­terialismo, p. 88 - 2.24 L'universalismo etico-politico, p. 89

IL PENSIERO CINESE NEL V SECOLO A. C., p. 90 - 2.25 L' Atene del Fiume Giallo, p. 90- 2.26 Mo-tse: l'etica statalista, p. 90- 2.27 L'amore uni­versale, p. 91

IsRAELE DOPO L'Esruo, p. 92 - 2.28 La profezia messianica, p. 92 - 2.29 La meditazione sapienziale, p. 94 - 2.30 L'immortalita personale, p. 95

Capitola 3

ATENE, scum.A DELL'ELLADE, p. 99 - 3.1 II governo del popolo, p. 99 -3.2 L'eta di Pericle, p. 100

I SOFISTI, p. 102 - 3.3 Una scuola per la politica, p. 102 - 3.4 Protago­ra: la svolta umanistica, p. 104- 3.5 Gorgia: il trionfo della retorica, p. 104 - 3.6 Natura e istituzioni, p. 105

SocRATE, p. 107- 3.7 Una rivoluzione culturale, p. 107 - 3.8 La verita e dentro l'uomo, p. 108- 3.9 La legge e la coscienza, p. 109- 3.10 II demone interiore, p. 110 - 3.11 La filosofia come ricerca morale, p. 112 - 3.12 Il metodo, p. 113 - 3.13 La scienza e la virtu, p. 115

LE SCUOLE SOCRATICHE, p. 116- 3.14 La fuga dalla citta, p. 116 - 3.15 La scuola megarica,·p. 117- 3.16 La scuola cinica, p. 117- 3.17 La scuola edonistica, p. 119

Capitolo 4

PLATONE: ITINERARIO, p. 121 - 4.1 La filosofia come scelta di vita, p. 121 - 4.2 Tra Siracusa e l'Accademia, p. 123- 4.3 Infedelta e fedelta di un discepolo, p. 124

PLATONE: LA FASE SOCRATICA, p. 127 - 4.4 I dialoghi giovanili, p. 127 -4.5 Il trapasso: la dottrina della reminiscenza, p. 127 - 4.6 Alla con­fluenza delle filosofie, p. 129- 4.7 I miti, p. 131 - 4.8 Il Platone 'cele­ste' e il Platone 'terrestre', p. 133

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lndice 0 VII

lL 'siSTEMA' PLATONICO, p. 135 - 4.9 La 'citta bella', p. 135- 4.10 L'uo­mo e lo Stato, p. 136- 4.11 Lo Stato totalitario, p. 138- 4.12 Lo Sta­to e l'arte, p. 139

PLATONE: LA CONCILIAZIONE IMPOSSIBILE, p. 141 - 4.13 La fase dialettica, p. 141- 4.14 La contraddizione di fonda, p. 142- 4.15 Essere e non­essere, p. 143

L'uLTIMO PLATONE, p. 144- 4.16 La cosmologia, p. 144- 4.17 Le Leggi, p. 146

Capitola 5

lL DESTINO STORICO Dl ARISTOTELE, p. 150 - 5.1 Un pensiero in movi­mento, p. 150 - 5.2 L'enciclopedia aristotelica, p. 152

LA LOGICA ARISTOTELICA, p. 154 - 5.3 Le categorie, p. 154 - 5.4 La dot­trina del concetto, p. 156- 5.5 II giudizio, p. 157 - 5.6 II ragionamen­to, p. 158 - 5.7 Deduzione e induzione, p. 159

LA FISICA ARISTOTELICA, p. 161 - 5.8 Il movimento e le sue cause, p. 161 - 5.9 II finalismo, p. 162- 5.10 La cosmologia, p. 163

LA METAFISICA ARISTOTELICA, p. 165 - 5.11 Dalla fisica all'ontologia, p. 165 - 5.12 Dall'ontologia alla teologia, p. 167

LA PSICOLOGIA ARISTOTELICA, p. 169- 5.13 L'anima e il corpo: una sola cosa, p. 169 - 5.14 La conoscenza, p. 171 - 5.15 Il desiderio e la liber­ta, p. t73

L'ETICA ARISTOTELICA, p. 174 · 5.16 Autonomia della morale, p. 174 -5.17 Il fine morale e la virtu, p. 175- 5.18 Morale e politica, p. 176 -5.19 La contemplazione, p. 177

LA POLITICA ARISTOTELICA, p. 178 · 5.20 Dalla Sapienza alla prudenza, p. 178 - 5.21 La citta aristotelica, p. 179 - 5.22 Le forme di Stato, p. 181 - 5.23 La poetica, p. 182

Capitola 6

L'ELLENISMO, p. 185- 6.1 L'Ecumene, p. 185- 6.2 La scienza alessan­drina, p. 188 - 6.3 Le nuove scuole filosofiche, p. 191

EPICURO (Aldo Bondi), p. 193 - 6.4 Il Giardino, p. 193 - 6.5 La fisica, p. 194- 6.6 La logica, p. 195- 6.7 La teologia, p. 197- 6.8 L'etica, p. 198 - 6.9 La politica, p. 200 - 6.10 La comunita epicurea, p. 201

lL PRIMO STOICISMO (A/do Bondi), p. 203 - 6.11 Il sistema stoico, p. 203 -6.12 La logica, p. 204 - 6.13 La fisica, p. 206 - 6.14 La teologia, p. 208 - 6.15 L'etica, p. 210- 6.16 La politica, p. 213

Lo SCETTICISMO ANTICO (Aldo Bondi), p. 214 - 6.17 Da Pirrone a Timo­ne, p. 214- 6.18 Arcesilao e la Media Accademia, p. 216- 6.19 Car­neade e la Nuova Accademia, p. 218

L'lNDIA NELL'ETA DEI MAURY A, p. 220 - 6.20 L' Arthasastra, p. 220 - 6.21 Il buddismo del re Asoka, p. 221

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VIII 0 Jndice

LA CINA NELL'ETA DELLE 'cENTO scuoLE', p. 222 - 6.22 Mencio, p. 222 -6.23 Chuang-tzu, p. 224 - 6.24 Hsun-tzu, p. 226 - 6.25 Han-fei-tzu, p. 226

Capitola 7

L'IDEOLOGIA IMPERIALE, p. 229 - 7.1 II finalismo della storia, p. 229 -7.2 Polibio e Panezio, p. 230- 7.3 Posidonia, p. 231 - 7.4 Lucrezio Caro, p. 232- 7.5 Marco Tullio Cicerone, p. 233- 7.6 L'eta augustea, p. 235

IL RETROTERRA DEL CRISTIANESIMO, p. 236 - 7.7 La 'verita' cristiana, fi­glia del tempo, p. 236 - 7.8 II giudaismo apocalittico, p. 236 - 7.9 II giudaismo ellenistico. Filone, p. 238 - 7.10 I movimenti religiosi nell' ellenismo: astrologia, religioni misteriche, p. 239 - 7.11 La gno­si, p. 241

IL GEsu sToRrco E IL CRISTo DELLA FEDE, p. 242- 7.12 Le fonti su Gesu, p. 242 - 7.13 Le parole di Gesu, p. 244 - 7.14 «Gesu e il Cristo», p. 246 - 7.15 Il messaggio cristiano: Dio-uomo-mondo, p. 247 - 7.16 Il messaggio cristiano: il male radicale, p. 248 - 7.17 II messaggio cri­stiano: la sal vezza, p. 249 - 7.18 Il messaggio cristiano: la nuova esi­stenza, p. 252

IL CRISTIANESIMO DELLE ORIGIN!, p. 254 - 7.19 I criteri dell' ortodossia, p. 254 - 7.20 Il confronto col pensiero greco, p. 255 - 7.21 Le tenden­ze conciliative. Giustino, p. 256- 7.22 La contaminazione gnostica, p. 258 - 7.23 Gli intransigenti: Marcione e Montano, p. 259 - 7.24 Ter­tulliano, p. 260

L'INDIA NEI PRIM! SECOLI DELL' ERA CRISTIANA, p. 262 - 7.25 II misticismo popolare, p. 262 - 7.26 Le scuole filosofiche induiste, p. 263 - 7.27 I due 'Veicoli' del buddismo, p. 265

Capitola 8

IL NEOPLATONISMO (Aldo Bondi), p. 268 - 8.1 Plotino, tra oriente e occi­dente, p. 268 - 8.2 La dottrina dell'Uno, p. 270 - 8.3 La triade e il mondo, p. 271 - 8.4 L'ascensione dell'anima, p. 273 - 8.5 Porfirio e Giamblico, p. 276- 8.6 La scuola d'Alessandria, p. 278- 8.7 La scuo­la di Atene: Proclo, p. 279

LA PATRISTICA GRECA, p. 281 - 8.8 La polemica contra i cristiani, p. 281 - 8.9 Clemente di Alessandria, p. 284 - 8.10 Origene, p. 286 - 8.11 I tre cappadoci, p. 288- 8.12 Le controversie teologiche, p. 290- 8.13 I dogmi, p. 291 AGOSTINO, p. 294- 8.14 Tra due epoche, p. 294 - 8.15 L'itinerario di Agostino, p. 295 - 8.16 Fede e ragiohe, p. 297 - 8.17 La verita, p. 298 -8.18 II male e la liberta, p. 300- 8.19 La citta di Dio, p. 301.

IN INDIA NEI PRIMI SECOLI DELLA NOSTRA ERA, p. 303 - 8.20 Le scuole brahmaniche: il Samkhya e lo Yoga, p. 303- 8.21 Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e l'idealismo di Asanga, p. 305

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Capitolo 9

LE DUE CRISTIANITA, p. 309- 9.1 Rottura e continuita, p. 309- 9.2 Se· verino Boezio, p. 310. 9.3 I compilatori: Cassiodoro e Isidoro, p. 311 - 9.4 II monachesimo d'occidente, p. 312 - 9.5 L'oriente: lo pseudo­D.ionigi, p. 314 - 9.6 L'oriente: Giovanni Damasceno, p. 316 - 9.7 La riforma carolingia, p. 317- 9.8 Giovanni Scoto Eriugena, p. 319

L'IsLAM ALLE suE ORIGIN!, p. 320 - 9.9 Maometto e il Corano, p. 320 - 9.10 II messaggio dell'Islam, p. 322- 9.11 Le sorgenti del pensiero islamico, p. 324 - 9.12 Il pensiero religioso dell'Islam: le tendenze es­soteriche, p. 326 - 9.13 Il pensiero religioso dell'Islam: le tendenze esoteriche, p. 328

INDIA E CINA DAL VI AL IX SECOLO D.C., p. 329 - 9.14 Le scuole brah­maniche: Vaisesika e Nyaya, p. 329 - 9.15 II culmine del pensiero in­duista: il Vedanta di Shankara, p. 331 - 9.16 Il pensiero buddista: la Tathata, p. 333

Capitolo 10

LA CRISTIANITA LA TINA, p. 336 - 10.1 L' ordine feudale, p. 336 - 10.2 Le Universita, p. 339 - 10.3 Dialettici ·e antidialettici, p. 340 - 10.4 Ansel­mo d'Aosta, p. 341 - 10.5 Il dibattito sugli 'universali', p. 344- 10.6 Abelardo, p. 346 - 10.7 Il contrattacco dei mistici, p. 349- 10.8 I mo­derati di San Vittore, p. 351 - 10.9 La scuola di Chartres, p. 352

LA FILOSOFIA ISLAMICA DAL IX AL XII SECOLO, p. 356 - 10.10 I 'falasifa', p. 356- 10.11 Avicenna, p. 358- 10.12 Da Bagdad a Cordova, p. 360-10.13 Averroe, p. 361 IL PENSIERO INDIANO ATTORNO AL SEC. XI, p. 364 - 10.14 La scuola di Shankara, p. 364 - 10.15 La filosofia delle sette, p. 365 - 10.16 I Vi­shnuiti, p. 367- 10.17 Buddismo: l'Irradiazione del Grande Veicolo. Lo Zen. L' Amidismo, p. 369 IL PENSIERO CINESE ATTORNO AL SEC. XI, p. 370- 10.18 II neoconfucia­nesimo, p. 370

Capitolo 11

LA M,ETAMORFOSI DELLA CRISTIANITA, p. 374 - 11.1 Una societa nuova, p. 37 4 - 11.2 La mediazione arabo-ebraica, p. 378 - 11.3 II trionfo d' Ari· :;;totele. Alberto Magno, p. 381 ToMMASO D' AomNo, p. 384 - 11.4 Fede e ragione, p. 384 - 11.5 La teo­logia naturale, p. 386 - 11.6 L'esistenza di Dio, p. 387 - 11.7 L'antro­pologia, p. 389 - 11.8 Morale e politica, p. 390 LA SCOLASTICA FRANCESCANA, p. 392 - 11.9 Agostino contro Aristotele, p. 392 - 11.10 Bonaventura: fede e ragione, p. 393 - 11.11 Bonaventu­ra: l'itinerario della mente, p. 395 - 11.12 Lo sperimentalismo di Ox­ford, p. 396 - 11.13 Ruggero Bacone, p. 397

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X D Indice

L'IsLAM NEL XIII SECOLO, p. 400 - 11.14 II declino culturale dell'Islam, p. 400 - 11.15 La scienza e i 1 diri tto, p. 402 - 11.16 Il mo­nism a mistico di Ibn 'Arabi, p. 405

I1. PENSIERO INDIANO ATTORNO AL sEc. XIII, p. 406 - 11.17 Le scuole shi­vaite, p. 406

IL PENSIERO CINESE ATTORNO AL SEC. XIII, p~ 409- 11.18 Il neoconfucia­nesimo: le due scuole di Ch' eng Hao e di Ch' eng Yi, p. 409

Capitola 12

FuoRr o coNTRa LA srNTESI, p. 414- 12.1 Il razionalismo di Sigieri, p. 414- 12.2 II misticismo di Meister Eckhart, p. 417- 12.3 La Grande Arte di Raimondo Lullo, p. 419

DuNs ScoTo, p. 421 - 12.4 Una nuova sintesi, p. 421 - 12.5 L'univocita dell'essere, p. 423 - 12.6 La dottrina dell'individuazione, p. 424- 12.7 II primato della volonta, p. 425

GuGLIELMO OccAM, p. 427 - 12.8 La 'logica dei moderni', p. 427- 12.9 La gnoseologia, p. 429 - 12.10 II nominalismo occamista, p. 430 -12.11 La fine della metafisica, p. 430- 12.12 II pensiero politico, p. 432

IL TRAMONTO DEL MEDIOEVO, p. 433 - 12.13 Jl crollo, delle istituzioni universali, p. 433 - 12.14 L'utopia di Dante Alighieri, p. 436 - 12.15 L'intellettuale come operatore ideologico, p. 437 - 12.16 Marsilio da Padova, p. 438

L'IsLAM ALLA FINE DEL MEDIOEVO, p. 441 - 12.17 Dalla storia alla fila­sofia della storia: Ibn Khaldun, p. 441 - 12.18 Suhrawardi e l'avicen­nismo persiano, p. 443

lL BUDDISMO GIAPPONESE A TTORNO AL SEC. XIV, p. 445 - 12.19 Originali­ta del pensiero giapponese, p. 445

CINA: LA SINTESJ CONFUCIANA DEFINITIVA, p. 447 - 12.20 La 'filosofia pe­renne' della Cina: Chu Hsi, p. 447 - 12.21 Chu Hsi: la metafisica, p. 448- 12.22 Chu Hsi: la cosmologia, p. 450- 12.23 Chu Hsi: l'etica, p. 451

Indice analitico

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LEGEND A

0 I rimandi interni al testo sono indicati dai numeri fra parentesi (che non siano quelli cronologici), di cui il primo indica il capitolo del volume, il secondo il paragrafo. Quando il rimando e ad uno degli altri due volumi, sene da indica­zione con il numero romano premesso ai due numeri arabi. Per esempio, l'indi­cazione (II1.2.3) vuol dire: volume terzo, capitulo secondo, paragrafo terzo.

0 L'asterisco apposto ad un termine in neretto indica che ad esso e dedicata una scheda, collocata all'interno dello stesso paragrafo, o, quando il caso lo richie­de, in uno dei paragrafi immediatamente successivi.

0 Nelle indicazioni cronologiche la specificazione a;C. o d.C. e stata spesso trala­sciata, rna solo nei casi in cui l'omissione non potesse ingenerare equivoci.

0 Nella trascrizione dei termini delle lingue non occidentali, per non appesantire il testo, abbiamo seguito il criteria della massima semplificazione, adottando una grafia italianizzata nella misura consentita dall'uso non specialistico. Per i termini cinesi, dato che Ia riforma con cui, nel 1958, la Repubblica Popo­lare Cinese ha introdotto nell'insegnamento e nella stampa l'uso dell'alfabeto Iatino (sistema Pinyin: Mao Zedong, invece che Mao tse-tung) ha avuto in occi­dente scarsa diffusione, ci siamo attenuti generalmente al sistema di trascri­zione detto Wade-Giles, da noi piu noto. E nei casi in cui sia invalsa in occiden­te una grafia difforme (ad esempio, Lao tse), l'abbiamo preferita a quella piu rigorosa (Lao tzu).

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' I. f

Prefazione

Nel titolo di questa manuale c'e, a rigor di logica, una parola in piu: che forse il pensiero puo non essere umano? E proprio nella necessita pratica di questa pleonasmo la ragione prima di questa mio lavoro. Un lavoro immane, condotto per anni e anni, in quasi totale solitudine, per obbedire a un'esigenza nata gia durante la mia lunga pratica di insegnamento e poi maturata nel con­fronto vivo con la cultura dei nostri giorni. Come e possibile, mi andavo do­mandando da tempo, trasmettere nella scuola la porzione piu preziosa dell'eredita culturale del passato, quella filosofica, senza che questa significhi rendere un servizio all'eurocentrismo, che e stato la premessa ideologica di tanti crimini compiuti in nome della civilta? Non esiste, infatti, so !tanto un razzismo etnologico, esiste, come suo risvolto latente, un razzismo intellettua­le, che consiste nella identificazione, teorica o pratica, tra il pensiero occiden­tale e il pensiero senza aggettivi. Si continua ad insegnare Ia filosofia, perfino nelle universita e a pubblicare storie della filosofia col sottinteso che altre fi­losofie non si danno se non quella nata sulle sponde della Ionia e giunta a pie­na maturazione nella spazio euroatlantico. «L'autentica filosofia comincia in occidente. Solo in occidente nasce Ia liberta dell'autocoscienza, Ia coscienza naturale tramonta e quindi lo spirito si approfondisce in se stesso. Nel fasto dell'oriente l'individuo scompare, solo in occidente la luce diviene Iampo del pensiero che penetra in se stesso e ivi si crea il suo mondo». So bene che nes­suno, oggi, se Ia sentirebbe di ripetere questa perentoria sentenza di Georg Hegel. E tuttavia il pregiudizio che fuori dei confini occidentali il pensiero sia rimasto immobilizzato nella 'coscienza naturale', e sia restato percio alle so­glie della filosofia, permane. Per rendersene canto basta sfogliare un qualsiasi manuale, compresi quei rari che gettano qualche benevolo sguardo oltre i con­fini della mappa filosofica disegnata da Hegel. Anzi, basta percorrere i pro­grammi ministeriali, che sono ancora quelli dell'hegeliano Giovanni Gentile.

Se ho voluto precisare che il pensiero di cui ho tentato di scrivere Ia storia e il 'pensiero umano', e appunto per richiamare subito alla mente che il sogget-

. to di tutta la storia e l'uomo pensante, quale che sia la civilta a cui appartiene, purche abbia lasciato documenti del suo pensiero e purche abbia assunto a te­ma delle sue riflessioni le grandi questioni dell'esistenza, quelle che di !oro na­tura appartengono all'ambito della filosofia.

Non che mi sia stato possibile rispondere in pieno a questa intenzione sto-

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XII 0 Prefazione

riografica. A parte i mie(iimiti di competenza, me lo impediva l'obbligo di ri­spettare nella loro sostanza le prescrizioni dei programmi statali. Sono convin­to comunque che, anche se relativa, Ia mia «trasgressione» ha un suo impor­tante valore didattico: puo servire a dare agli alunni Ia percezione che il primo peccato contro la ragione e di ritenere che i diversi da noi non hanno l'uso di ragione e di trascurare il fatto che quella dell'homo sapiens e davvero una sto­ria unitaria, fin dalle sue origini. Le nuove generazioni, che si avviano a vivere la loro esistenza privata e pubblica in una dimensione planetaria, hanno il di­ritto di essere preparate dalla scuola a questo compito, nuovissimo, rna insie­me gia inscritto nella storia della specie, prima che avesse inizio la vicenda delle «egemonie culturali» a base etnocentrica.

Questa apertura, come sara facile constatare, non ha offuscato in nulla la convinzione che l'eredita filosofica dell'occidente e incomparabile per ricchez­za di sviluppi ed e, in ogni caso, il punto di riferimento irrinunciabile della no­stra identita, anche se questa e chiamata a perdere i tratti deplorevoli della presunzione e ad assumere quelli, veramente conformi alia ragione, del con­fronto critico con le altre. E proprio questo confronto a mettere in evidenza che la filosofia occidentale ha preso distacco dalle altre tradizioni di pensiero solo in seguito alla rivoluzione scientifica. E difatti, nel secondo e terzo volu­me, al pensiero non occidentale sono riservati sol~anto i capitoli conclusivi, nei quali e gia delineata Ia possibilita, il cui adempimento e un segreto del fu­turo, di un nuovo tempo del pensiero umano, in cui confluiscano le tradizioni finora rimaste estranee l'una all'altra.

Insieme a questo criterio maggiore, che vorrei chiamare 'planetaria', mi hanno guidato, nella ricostruzione storiografica del cammino dell' homo sa­piens, altri criteri, che d'altrcinde si ritrovano ormai nei manuali piu aggiorna­ti. Uno di essi e il principio critico, libero da ogni presupposto dogmatico (vor­rei chiamarlo il principio della laicita) che mi ha permesso di assumere nella prospettiva dello sviluppo del pensiero anche la storia del giudaismo e del cri­stianesimo primitivo, visti alia stregua di qualsiasi altro fenomeno culturale, senza pregiudizio, per altro, per approcci di altra natura. Grazie a questo cri­terio mi e stato possibile trattare la storia del pensiero islamico in tutta l'am­piezza del suo svolgimento (non solo, come tradizionalmente avveniva, in quel­la linea piu omogenea a noi che ha trovato il suo compimento in Averroe) e proporre, nel terzo volume, un ampio panorama del pensiero teologico con­temporaneo nei suoi rapporti con quello filosofico.

Una volta spezzata Ia rigida impostazione idealistica, secondo la quale le idee- succedono aile idee come per partenogenesi, ho messo costantemente in evidenza il nesso tra storia del pensiero e storia della societa e ho restituito ad alcuni periodi storici, come al settecento illuministico, l'intero quadro proble­matico, fuori da ogni convenzionale semplificazione. Gli effetti di questo supe­ramento di una troppo specifica riduzione del pensiero filosofico, sono visibili soprattutto nel terzo volume, dove ho concesso ampio spazio all'evoluzione e alia crisi del marxismo, alia rivoluzione scientifica e alle scienze umane, dalla psicoanalisi allo strutturalismo e alia sociobiologia.

Piu che la regola del rigore formale dello specialista ha avuto peso in me il proposito di volgarizzare al massimo una materia di per se ardua al punto da

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Prefazione 0 XIII

ingenerare nei giovani l'impressione di estraneita alla vita. Di qui alcuni aspet­ti del mio manuale che potranno sembrare a qualcuno troppo inclini alla sem­plificazione. Mi sono attenuto il piu possibile alle esigenze didattiche proprie di una fase di iniziazione come e quella della scuola media superiore. A queste esigenze vorrebbero rispondere, oltre che le numerose schede biografiche, an­che i 'sommari' premessi a ogni capitola: essi non sono un puro elenco di ar­gomenti, rna anticipano, in forma sintetica, la trama discorsiva che neUe pagi­ne successive avra uno svolgimento necessariamente complesso e frantumato. Oltre che da guida alla lettura dei rispettivi capitoli, essi potranno servire an­che come riassunti, densi e completi, adatti al ripasso della materia.

Ora che ho portato a termine un'impresa cosi impegnativa e cosi rischiosa, mi rendo perfettamente canto dei limiti che non sono riuscito a superare. Mi pesano alcune lacune e, qua e la, certe sproporzioni del disegno. Puo darsi che nel futuro abbia motivo di tomare sulla mia opera per le opportune correzioni e inte­grazioni. Ecco perche faccio assegnamento sulle critiche e sui consigli che mi potranno venire dagli alunni, dai docenti o anche semplicemente da qualche lettore estraneo ai ranghi scolastici. Tra i miei propositi c'e stato, infatti, an­che quello di rendere un servizio a un rinnovamento culturale che e ormai una necessita per tutti.

Ernesto Balducci

Fiesole, 1 Gennaio 1986

P.S. Desidero ringraziare gli esperti che, in vari modi e in diversa misura, mi hanno aiutato nel mio lavoro: Mauro Bergonzi, Leandro Di Giorgi, Francesco Donfrancesco, Nedo Migliorini, Armido Rizzi, Stefano Ruschi, Severino Saccardi, Bianca Maria Sarcia Amoretti, Anna .Viciani.

In particolare ringrazio Aldo Bondi che mi e stato vicino fin dagli inizi e ha steso in modo autonomo, anche se in piena conformita ai miei criteri, le pagine riguardanti le scuole ellenistiche, il neoplatonismo e la filosofia dell'illuminismo. I suoi contributi so­no specificati nell'indice.

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1 - Sommario D 1

Sommario. Le forme storiche del pensiero si rinnovano ogni qualvolta l'uomo, modi­ficandosi l'orizzonte della sua esperienza, e preso dallo stupore che, al dire di Platone, e la vera origine della filosofia. In questo ultimo scorcio del secondo millennia l'uomo si trova dinanzi ad orizzonti fino a ieri impensabili: quello dello spazio, esplorato dalle astronavi e quello del tempo esplorato dall'antropologia scientifica. Proprio in base a quest'ultima esplorazione noi siamo costretti a far risalire l'origine dell'attivita raziona­le a centinaia di migliaia di anni fa, quando avvenne il passaggio dell'antropoide dalla vita istintiva alia riflessione (1.1). La seconda rivoluzione, detta del neolitico, avvenne circa 10.000 anni fa. Allora furono poste le basi di quella razionalita di cui viviamo an­cora oggi e i cui documenti riscopriamo lentamente, man mano che vengono portati alla luce i resti delle primissime civilta (1.2).

Fra queste le meglio conosciute sono Ia sumerica e l'egizia. I Sumeri organizzarono Ia !oro societa nella zona fecondata dai Due Fiumi, il Tigri e l'Eufrate. Le !oro citta-stato erano governate da una burocrazia sacerdota.le che aveva compiti md1st1ntamente c1vili e religiosi e trasmetteva una sapienza i cui tratti distintivi sono una visione tragica e fa­talistica del mondo e un sostanziale materialismo (1.3-4). Gli Egizi si organizzarono anch'essi per meglio sfruttare le possibilita offerte dal Nilo, si dettero anch'essi una struttura burocratica di tipo sacrale, con al vertice il Faraone, rna la loro visione della vita, in ragione di una natura piu mite e piu generosa, contiene aspetti di un piu sereno umanesimo e, insieme, speculazioni teologiche, come quella della scuola di Menfi o quella di Amenofi IV, che possono ritenersi le prime forme di riflessione metafisica sul­le origini del mondo e dell'uomo (1.3-8).

Ma solo attorno al VI secolo a. C. si ha un generale trapasso, nella zona del pianeta a piu alto sviluppo (la fascia dal Mediterraneo all'estremo Oriente), dalle forme di sa­pienza mitologica alia riflessione razionale vera e propria. Da questo periodo (!'eta as­siale) ha inizio la storia del pensiero vero e proprio, e cioe del ritorno dell'uomo a se stesso per cercare nella propria interiorita il senso del tutto (1.9-10).

In Cina, durante una lunga crisi politica, si confrontano tra loro due scuole, quella del Taoismo, con alia base Ia certezza che tutto, nell'universo, e regolato da un princi­pia immutabile che non puo essere nominato. il Tao. a cui bisogna affidarsi con Ia non­azione, la non-cultura, insomma con la pura contemplazione, e quella del Confucianesi­mo, che ripone invece il vero senso del Tao nell'applicazione scrupolosa delle regole so­ciali fissate nei libri sacri (1.11-16).

In India le manitestazioni filosofiche dell'eta assiale derivano da una tradizione alla :ui origine ci sono i libri Vedici, che, all'interno di complesse regole .rituali, contengono il nucleo di tutto il sapere indiano successivo: l'unica realta e quella di un principia on­nipresente nell'universo, il Brahman, nei cui confronti tutto il resto, anche l'io indivi­duale (l'atman), e pura apparenza. Attorno al VI secolo questa dottrina riceve ampio svi­luppo nei libri detti Upanishad. Nel quadro di questa sapienza a carattere prevalente­mente mistico, emerge la figura di Buddha, che insegna le vie della liberazione dal dolo­re del mondo. Esse consistono in un esercizio della ragione che conduca alia soppres­sione di tutte le illusioni, compresa quella dell'esistenza dell'io individuale (1.17-22).

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Presso a poco nello stesso periodo, fra le tribu stanziate nell'Iran, sorge la figura so­litaria di Zaratustra, che, a differenza dei mistici indiani, fa consistere l'obbedienza al Dio Ahura-Mazda in un impegno attivo per trasformare questo mondo in vista di una pienezza finale (1.23-24). Sulla stessa linea, rna partendo da una storia collettiva di tipo politico-religioso, si muovono i profeti di Israele, che traggono dalla fede nel Dio che ha liberato il popolo dall'Egitto un messaggio di responsabilita personale nei confronti dell'uomo, in lotta contro tutti i poteri oppressivi (1.25-26).

Nella sponda asiatica bagnata dal Mare Egeo, la Ionia, questa sapienza primordiale dell'umanita raggiunge la svolta del pensiero scientifico e cioe del pensiero che ricerca le cause del mondo dentro il mondo, che spiega la natura con leggi proprie della natu­ra. La mistica diventa scienza fisica: nasce il pensiero occidentale (1.27-29).

Le origini

1.1 II fenomeno uomo. See vero, come scrisse Platone, un pensatore di cui dovremo presto e ampiamente occuparci, che la disposizione alia meraviglia «e propria della natura del filosofo, e che «la filosofia non si origina da altro che dallo stupore», allora e conveniente dare inizio al nostro itinerario riviven· do a nostro modo, e cioe nell'orizzonte conoscitivo che la scienza ha dischiuso alia nostra generazione, lo stupore dei primissimi filosofi.

L'uomo di oggi che si interroga sui proprio destino, cominciando col collo­carsi nelle due dimensioni - lo spazio e il tempo - in cui la sua esistenza tro­va la misura piu elementare, e preso non dico dallo stupore rna dalla vertigine.

Man mano che si esplorano gli spazi extraterrestri, si fa piu evidente l'irri­levanza del pianeta Terra e piu inesplicabile il suo privilegio di ospitare il fe­nomeno della vita. Il 20 luglio 1969 noi vedemmo proiettata sugli schermi tele­visivi l'immagine della Terra vista dalla Luna: un globo bianco screziato di az­zurro. Ci siamo visti, per cosi dire, dall'esterno, come potrebbero vederci, se mai ci fossero, degli extraterrestri. Siamo, noi equipaggio terrestre di esseri viventi e pensanti, sperduti in uno spazio illimitato. Mentre scrivo, la sonda spaziale Pioneer 10, dopo un viaggio di quattro miliardi di chilometri durato undici anni, ha appena varcato l'ultimo confine del nostro sistema solare. In­contrera la prima stella tra 850 mila anni, continuando a trasmettere i suoi se· gnali ai tecnici della NASA. In qualche angola della nostra galassia (una tra le innumerevoli) incontrera mai un pianeta abitato dove qualcuno possa decifra­re la placca del Pioneer 10, che porta incisi gli emblemi dell'uomo, della don­na, del sistema solare e della terra? In altri tempi il concetto di infinita dello spazio era un concetto esaltante perche astratto, per noi e un dato di esperien­za che incentiva il nostro sentimento di solitudine cosmica.

Per ora infatti dobbiamo attenerci alla constatazione che solo su questa no­stro pianeta si e verificato il miracolo della biosfera, cioe di quel contesto di condizioni - terraferma, acqua, aria - che hanno permesso 1' origine degli es-

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I - Le origini 0 3

seri viventi. Il pensiero, di cui cominciamo a narrare la storia, non e che la forma piu alta della vita, le cui radici si sprofondano nel remota connubio tra il sole e la madre terra- tra l'energia solare e i processi chimici terrestri -di cui favoleggiano i miti egiziani. Noi siamo abituati a classificare gli esseri in minerali, vegetali, animali e razionali, quasi che da sempre la pietra, la ro­sa, il cavallo e l'uomo si siano trovati, nella scala della realta, su gradini diver­si. Ma oggi la scienza ci costringe a prendere atto del cammino- durato mi­liardi di anni - rischioso e casuale, con cui la spinta vitale e ascesa, dalla for­mazione della prima cellula fino al momenta in cui, ripiegandosi su se stessa nell'atto della riflessione, e diventata coscienza umana. E diventata pensiero. Ed eccoci alia dimensione tempo, anch'essa fonte di stupore.

Forse proprio perche in questi ultimi decenni la nostra specie ha raggiunto la certezza sperimentale del proprio indivisibile destino di vita o di morte, la ricerca sulle origini dell'uomo, da impresa riservata agli scienziati, sta diven­tando una nuova dimensione dell'umanesimo e, in particolare, una sfida alle filosofie della storia di marca occidentale.

Non ci dimentichiamo che fino a un secolo fa, e cioe fino a quando, nel 1871, Charles Darwin propose la sua teoria sull'origine della specie umana, prevaleva lo schema cronologico proprio della Bibbia, secondo il quale l'uomo sarebbe comparso sulla Terra circa 4.000 anni a.C. Ormai questa rappresenta­zione della storia della nostra specie e stata abbandonata anche dai settori re­ligiosi piu retrivi. Il pensiero dell'uomo baleno sui nostro pianeta centinaia e forse milioni di anni fa, in un antropoide che era disceso, come un ramo sped­fico, dagli stessi primati da cui era disceso il ramo delle scimmie (tav. 1). Non e possibile qui tracciare una genealogia della specie a cui apparteniamo, an­che perche, pur avendo a disposizione strumenti scientifici di straordinaria precisione, a tutt'oggi tra gli specialisti non si da accordo ne sulle date ne sul­le ramificazioni del processo evolutivo a cui dobbiamo la nostra esistenza. Lo scienziato Linnea nel classificare gli organismi viventi (che per lui erano sem­pre stati quali sono) aveva indicato ciascuno col nome del genere piu il nome della specie. Eventualmente un terzo termine precisava la sottospecie.

Nella prospettiva evoluzionistica, che fa uso della stesso tipo di nomenclatura, noi apparteniamo alla sottospecie homo sapiens sapiens, differenziata, con la ri­petizione del secondo termine, dall'altra sottospecie che e l'homo sapiens di Neanderthal. Ma la specie homo sapiens, insieme alle sue sottospecie, non e, a sua volta, che la ramificazione, avvenuta un milione e mezzo di anni fa, di una specie piu antica, I' homo erectus, la quale none anch'essa che una specie dell' ho­mo habilis, apparso sulla terra due milioni di anni fa (secondo altri, quattro mi­lioni). Mentre ci sono seri dubbi che l' homo habilis fosse capace di un linguaggio articolato, tutto fa pensare che questa capacita ci fosse gia con 1' homo erectus, i cui strumenti di pietra ci offrono indizi di una qualche disposizione alla riflessio­ne. Non ci sono dubbi invece circa l'homo sapiens, che si merita l'appellativo ap­punto perche ha lasciato molti indizi della sua capacita di pensare. L'homo di Neanderthal, ad esempio, diffuso nel nostro continente (sene sono trovati dei re­sti anche nel Circeo) cento mila anni fa, sapeva usare il fuoco, aveva un reperto­rio di strumenti relativamente ricco, usava cerimonie funebri ed era dunque in qualche modo 'religioso'. Esso scomparve circa quarantamila anni fa, sopraffat-

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to da una nuova specie, quella appunto dell'homo sapiens sapiens, molto piu adatta a far fronte alle insidie del clima.

Ormai non c'e piu bisogno del doppio appellativo: l'uomo da cui discendia­mo viene detto semplicemente homo sapiens, l'unico tra gli ominidi che, supe­rato lo stadio della pura lotta per la sopravvivenza ha lasciato documenti in­tenzionali della sua capacita di sovrastare l'incombenza del presente, come i graffiti sulle rupi o nelle grotte. Egli e emerso dal groviglio delle specie preu­mane all'incirca trentamila anni fa. II suo cranio non e in nulla dissimile da quello attuale, e nemmeno, a giudicare dalla scatola, il volume del suo cervello.

Sta di fatto, pero, che noi non siamo in grado, ne forse mai lo saremo, di stabilire dove e quando avvenne, nell'arco di transizione dagli antropoidi a noi, il passaggio del Rubicone, e cioe il passo della riflessione, e nemmeno se

· esso fu compiuto da una sola coppia originaria (monogenismo) o da piu coppie tra loro indipendenti (poligenismo). La prima pagina del volume che narra la storia dell'uomo sulla terra e una pagina smarrita per sempre. Nessun archi­vio geologico potra mai darci i documenti della piu radicale rivoluzione avve­nuta sul pianeta e forse nel cosmo.

1.2 Natura e cultura. Eludendo, per ora, le gravi questioni connesse con l'origine del pensiero (intervento creatore di Dio, rapporti tra materia e spiri­to, ecc.) e restando ai dati di fatto accertati dalla scienza, e giusto sottolineare come la ragione umana sia apparsa non per una intima necessita (come se, da­ta l'evoluzione, lo sbocco dell'attivita del pensiero fosse inevitabile), rna quasi per l'invenzione fortuita di una specie vivente, la piu esposta di tutte allo ster­minio perche di tutte la piu debole. E stata forse la strategia della sopravvi­venza fisica a costringerla a supplire con lo sviluppo delle risorse psichiche e quindi spirituali alla inadeguatezza degli strumenti organici? Nella sua lun­ghissima preistoria, disseminata di ecatombi zoologiche, il genus homo ha gio­cato, pur di sopravvivere, il rischio di un'alternativa, quella del pensiero, che ha finito per fare dei suoi individui, relativamente inermi, i dominatori dell'universo. La sua sorte fu decisa nel momento in cui in un ominide si acce­se l'alba della coscienza di se, della riflessione. «Quando per la prima volta -scrive un appassionato antropologo, Teilhard de Chardin - in un individuo animale l'istinto si e rispecchiato su se stesso, tutto, per un verso, e rimasto uguale, rna tutto e mutato, perche le componenti che in lui si intessono, facen­done un anello della specie, hanno trovato un centro che le unifica. La tenden-

Tav. 1- L'albero dell'evoluzione. Ecco una traduzione grafica delle rami­ficazioni a cui ha dato luogo l'elan vital nell'ordine dei primati. La luce del pensiero si e accesa al termine di numerose biforcazioni, che solo in questi ultimi tempi, sia pure con non poche incertezze, e stato possibile ricostruire. A tutto vantaggio di quello «Stupore» che sta a principia di ogni filosofia. ---

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ERAATIUALE

PLEISTOCENE (1 MIUONE Dl ANNI)

PLIOCENE (10 MILIONI Dl ANNI)

MIOCENE (14 MILIONI Dl ANNI)

OLIGOCENE (15 MILIONI Dl ANNI)

ORANGO GORILLA SCIMPANZE

15 15 z 0 c..

GRUPPO DEL PROCONSUL

SCIMMIE PREANTROPOIDI

BIPEDIA ANIMALE-UOMO

I · L~ origini 0 5

HOMO SAPIENS

CAMPO Dl TRANSIZIONE

(ANTROPOMORFI)

FASE DELL'OMINAZIONE

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za alia riproduzione, l'aggressivita distruttiva, il bisogno di nutrirsi e percio di prendere e di divorare, la tendenza a raggrupparsi secondo i richiami del san­gue: tutto questo sopravvive al punto che e possibile fare una storia della ses­sualita, della guerra, dell'economia, dellavoro, dei modi di sopravvivenza. Ma, sulla spinta evolutiva di queste facce diverse del fenomeno umano, niente ri­mane realmente lo stesso, pur nella continuita, perche muta la 'soglia' della ri­flessione. E in ogni stacco della soglia si apre e prende a realizzarsi l'universo umano che e in ogni individUO>>.

Il passaggio della prima soglia, quella della riflessione, fu il passaggio dell'uomo dalla natura alla storia. In quanto e immerso nei processi materiali come tutti gli altri esseri non razionali, l'uomo e ancora natura, rna in quanto, mediante la riflessione, e soggetto di libere scelte e di progetti di trasforma­zione del mondo, egli none piu natura, e storia, non e solo un prodotto di cau­se esten1e a lui, e anche causa di se stesso e del suo proprio mondo. E. un creatore. La specie umana non e piu un insieme di individui destinati a garan­tirle la continuazione biologica, e il soggetto, unico e inesauribilmente molte­plice, di un processo creativo che lo porta a superare, soglia dopo soglia, le frontiere biologiche, ad allargare il sistema degli scambi vitali, ad accumulare e a trasmettere le sue creazioni, liberando via via i gruppi e gli individui dalle strette delle necessita naturali. Tra l'uomo e la natura si e, cosi, progressiva­mente arricchito il complesso degli strumenti materiali e mentali che volgono a vantaggio ·della specie gli stessi condizionamenti che ieri la minacciavano e allargano e potenziano le forme di convivenza nel cui seno germogliano e frut-' tificano le norme morali, i sentimenti della riconoscenza e dell'amore, il piace­re di esprimere il mondo interiore in forme di bellezza e, piu generalmente, lo strumento che gli antichi ritennero dono degli dei: illinguaggio. Nasce e si svi­luppa, insomma, Ia cultura.

A rigore, la cultura ha inizio con le prime manifestazioni dell' homo sapiens: i graffiti delle grotte di Cro-Magnon nella Francia sudoccidentale sono li a dimo­strarlo. Ma la cultura che rientra nelle nostre possibilita di ricostruzione storica risale alla cosiddetta 'rivoluzione del neolitico', verso la fine dell'ultima glacia­zione, e cioe a diecimila anni fa, quando l'uomo comincio a forgiarsi utensili di ceramica, ad addomesticare animali e a coltivare la terra. Nacquero cosi i primi stanziamenti, le prime citta-stato. Furono poste allora le fondamenta di quella razionalita di cui noi siamo eredi per ininterrotta trasmissione. Questa aurora razionale dell'umanita, almeno a quanto risulta dalle nostre indagini, non illumi­ne l'intero pianeta abitabile, rna solo una sua striscia, quella che a partire dall'Atlantico giunge al Pacifico attraverso !'Europa mediterranea, il Nordafrica, 1' Asia Minore, l'India, la Cina.

In quest'arco - un dodicesimo della circonferenza terrestre - la configu­razione fortuita dei continenti offriva coste ospitali, arcipelaghi dai facili tra­ghetti, steppe pianeggianti, ambienti tutti che facilitavano gli incontri e le me­scolanze delle razze, e soprattutto grandi fiumi che assicuravano facilita di co­municazioni, fecondita della terra, difesa naturale agli insediamenti umani.

Per questo la vera storia dell'uomo in quanto storia della civilta prende le mosse da quattro distinti centri focali di cultura, nati nei bacini di quattro grandi fiumi: i Sumeri, tra il Tigri e l'Eufrate, gli Egizi nella valle del Nilo, gli

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Indi nella valle dell'Indo, i Cinesi nella valle del Fiume Giallo. I resti delle due ultime civilta, quelle dell'Indo e del Fiume Giallo, sono troppo esigui per con­sentircene una vera e propria ricostruzione. Comunque, esse sono di molto po­steriori aile prime due.

La prima pagina della storia culturale dell'uomo l'hanno scritta dunque i Sumeri e gli Egizi, artefici di due civilta tra loro diverse rna anche connesse da non poche reciproche influenze. Schematizzando, potremmo dire che nell'area di civilta che va dal Nilo all'Eufrate sono maturate, a partire dal quinto millennia, le forme culturali che hanno avuto per tutta la storia poste­riore il valore di archetipi. Scendendo al concreto, proprio in quest'area e nata la scrittura, per merito dei Sumeri che, passando dai segni ideografici, non dissimili dai geroglifici egiziani, ai segni cuneiformi, aprirono la strada alia scrittura alfabetica inventata dai Fenici della citta di Byblos, ai quali si deve anche l'invenzione dellibro del XIII secolo a.C. Peri greci la parola byblos voleva dire libro. L'alfabeto e il libro rappresentano un'altra 'soglia' nel divenire dell'homo sapiens: la soglia che immette dalla preistoria alla storia vera e pro­pria. Che sarebbe la memoria dell'umanita senza i documenti scritti? Median­te la scrittura l'homo sapiens e in grado di riflettere con oggettivita sui pro­prio pensiero, anche su quello custodito e trasmesso lungo i secoli. 11 pensiero .cresce pensando se stesso. L'individuo, assumendo nella propria riflessione quanto l'umanita ha consegnato alia scrittura, esce dal suo orizzonte di perce­zioni particolari ed effimere per trasformarsi in uomo universale, superiore al­lo spazio e al tempo.

I Sumeri

1.3 ta prima societa 'civile'. In pochi altri casi come negli esordi della civil­ta sumerica e facile capire il nesso tra storia del lavoro e storia delle idee e cioe, tn{ l' homo faber e l' homo sapiens. Insediati nella regione in cui le acque del Tigri e dell'Eufrate (tav. 2) si mescolavano con le acque del mare (regione alluvionale, dunque, ricca di limo e fitta di foreste), i Sumeri* dovettero far fronte alle avversita di una natura per altri aspetti straordinariamente genera­sa. Per descrivere la loro impresa titanica, ricca di conseguenze culturali, ser­viamoci di una pagina del grande storico inglese Arnold Toynbee: «Per sfrutta· ry il dono della pianura alluvionale dei Due Fiumi, l'Uomo dovette applicare la tecnica gia acquisita dell'irrigazione artificiale, rna in dimensioni che richiese­ro la cooperazione di un numero di esseri umani assai superiore a quello ri­chiesto da ogni altra impresa precedente. Questa differenza nelle dimensioni della cooperazione corrispondeva a una differenza non quantitativa, rna quali­tativa: era cioe una rivoluzione sociale, non tecnologica. La conquista della re­gione alluvionale dev'essere stata programmata da capi dotati di immaginazio­ne, di padronanza di se e capaci di vedere lontano, perche si tratto di un lavo­ro che avrebbe dato i suoi frutti solo alia fine, non subito. I progetti dei capi

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non sarebbero stati altro che sogni se essi non fossero stati capaci di indurre una gran massa di loro seguaci a lottare per obiettivi che molto probabilmente questi non comprendevano. Le masse devono aver avuto fiducia nei capi, e questa fiducia deve aver avuto a fondamento la fede negli dei, la cui potenza e saggezza erano realta e per i capi e per i loro seguaci. Il solo nuovo e indispen­sabile utensile era un alfabeto. I capi ebbero bisogno di questo strumento per­che organizzare gente, acqua e terre in quantita e dimensioni cosi grandi non era pi it possibile affidandosi alla memorizzazione non registrata di ordinamen­ti e istruzioni orali. L'invenzione della scrittura sumerica e un capolavoro di genialita creativa, rna questo sistema, il piu antico conosciuto, era complicato e rozzo e rimase percio esoterico. Esso soddisfece le esigenze della societa nel suo insieme, rna. nello stesso tempo confermo la supremazia dei capi, che sape­vano servirsene, sulla maggioranza analfabeta>>.

Dal racconto traspare gia il modulo della societa sumerica, ispirato all'ideale dell'efficienza al punto che, a dispetto del suo affollatissimo pan­theon religioso, essa puo essere detta sostanzialmente societa materialistica. I Sumeri delle origini vivevano in citta-stato al cui centro incombevano i templi (le ziggurat), vere montagne di terracotta digradanti a terrazze, unici edifici pubblici nei quali si concentrava percio l'intera attivita dei cittadini. Il tempio ospitava gli dei, rna di fatto ospitava i sacerdoti, il cui ruolo era insieme reli­gioso e civile. Oltre che luogo di culto, il tempio era anche tribunale e centro della vita economica. Vi si custodivano i prodotti della terra e le greggi. Vi si vendeva carne macellata e vi si lavoravano le pelli. Non mancavano laboratori di raffinatissimi artigiani del legno e del bronzo. Nel tempio avevano i loro 'uf-

Sumeri. Il gruppo etnico detto poi dei Sumeri scese, nel quinto millen­nia a.C., dall'altipiano dell'lran nelle fertili pianure tra il basso Tigri e l'Eufrate, i 'Due Fiumi', che allora non confluivano ma sboccavano indi­pendenti nel Golfo Persico. Utilizzando un grandioso sistema di irrigazio­ne, si dedicarono all'agricoltura e all'allevamento. Nasce cosi la civilta su­merica, che ebbe il suo culmine nella dinastia di Ur (la citta di Abramo) nel secolo XXIII a.C., ed esercito su tutta !'Asia minore una egemonia che resto determinante anche dopo l'invasione dei semiti prima e poi degli in­doeuropei. I semiti vennero dall'alta valle dell'Eufrate, dove avevano fon­dato, col leggendario re Sargon, la dinastia degli Accadi, attorno alla meta del terzo millennia '

A soppiantare i semiti del nord vennero i semiti dell'ovest, i babilonesi, alla meta dell/ millennia a.C. Il piit famoso dei re babilonesi e Hammura­bi (1728-1686 a.C.), autore del codice che porta il suo nome e promotore di una rinascita culturale che fece di Babilonia la capitale intellettuale e po­litica dell'Asia minore. La fusione tra cultura sumerica e cultura semitica si campi in modo definitivo sotto il suo regno, durante il quale fu compo­sta !'ultima redazione dei poemi sumerici di Enuma Elis e di Gilgamesh L 'impero babilonese ebbe fine con la conquista di Babilonia da parte di Ciro, re dei persiani (539 a.C.).

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fici' gli architetti, i costruttori e i sorveglianti della vasta rete di canali da cui dipendeva in sensa anche fisico la vita del paese. C'era anche una zecca che alimentava il sistema monetario (facevano da moneta anelli di rame e di argen­ta) gestito da una 'banca' centrale che aveva agenzie anche in altri paesi dell' Asia anteriore.

Tutti questi 'funzionari' erano «servi di Dio>> e come tali costituivano una casta nettamente distinta dalla moltitudine, soggetta, quest'ultima, a una spie­tata logica di sfruttamento. Al vertice della piramide burocratica c'era il sacerdote-sovrano, considerate alla stregua di un clio: alla sua morte, infatti, egli entrava nel novero degli dei. I quali, a loro volta, non erano niente di piu che un duplicate invisibile della burocrazia visibile. Ciascuno di loro presiede­va, senza per<'> le prerogative dell'onnipotenza, agli elementi e alle forze della natura fisica. Erano insomma i 'funzionari cosmici', di cui quelli delle ziggurat erano i vicari visibili: gli uni e gli altri presiedevano al retto funzionamento della societa, con questa di proprio (ed ecco il materialismo sumerico) che del­le due societa parallele, quella degli dei e quella degli uomini, era questa la piu importante, anzi l'unica reale.

1.4 Una mitologia metafisica. Fra i popoli dell'Asia anteriore i Sumeri si di­stinguono per la predominanza della logica dell'intelletto su quella del senti­menta e per la predominanza dell'intelletto pratico su quello speculative. L'al­dila sumerico non e propriamente un altro mondo, e una porzione di questa mondo terrestre con in meno la gioia di vivere; l'uno e l'altro, l'aldila e l'aldi­qua, sono interni a un flusso eterno in cui i mondi emergono e scompaiono in modo che la fine dell'uno sia l'inizio dell'altro, incessantemente.

Alle origini del mondo c'e un'acqua primigenia che risulta, per opera di un soffio vitale, dall'incontro, anzi dallo scontro tra un'acqua maschile, principia di fertilita, e un'acqua femminile, principia di sterilita: sono rispettivamente le acque feconde dei Due Fiumi e le acque salate del mare che insidiano le coltu­re. I ritmi cosmici di nascita e fine sovrastano anche gli dei, che dunque sono solo relativamente immortali: durano quanta dura un mondo di cui sono i su­premi funzionari. Tanto meno immortali sono gli uomini: con la morte essi en­trano in una specie di sub-esistenza, fatta di rimpianti e di nostalgic. Inutil­mente l'eroe del poema sumerico, Gilgamesh, tent<'>, attraverso avventure por­tentose, l'immortalita: l'erba dell'eterna giovinezza che era riuscito a procurar­si gli fu rubata dal serpente ed egli dovette accontentarsi di esercitare il pote­re in questa mondo.

Al di la di questa cerchio finito che stringe in una medesima sorte uomini e dei fa da sfondo impenetrabile un principia ignoto che ha la forza onnipotente del fato e a cui soggiacciono, con lievi differenze, uomini e dei. I mondi nasco­no e muoiono, con le lora burocrazie terrene e celesti, sotto lo scettro del Me (cosi i sumeri chiamavano il fato), che non si piega mai a dirimere la latta tra il bene e il male, di cui sono vittime impotenti sia gli uomini che gli dei. Mo­menti collettivi di questa impotenza erano le eclissi di sole, ritenute episodi spettacolari di quella latta eterna.

Alcuni temi del pensiero sumerico - espresso in epopee mitologiche a vol­te rozze rna a volte folgoranti di intuizioni di valore perenne - li ritroveremo

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nelle visioni del mondo sia dell'oriente indiano sia dell'occidente greco, come quello dell'acqua, principio di tutte le cose, o come quello dei cicli cosmici.

Se si tien conto che i sumeri ebbero scambi frequenti con gli egizi e che molto probabilmente appartengono allo stesso ceppo delle popolazioni pre­ariane insediate nella valle dell'Indo, non e esagerato affermare che nella terra bagnata dai Due Fiumi si sono formati i primissimi archetipi della sapienza umana. Con ragione dunque ha scritto Alfred Jeremias, un grande storico del­la cultura orientale, che il problema sumerico e <dl problema piu importante di ogni altro nella storia del pensiero umano».

Gli Egizi

1.5 Dal caos al cosmo. La forza che condusse i minuscoli gruppi preistorici insediati lungo gli ottocento chilometri della valle del Nilo (tav. 2) a superare l'inerzia della mera sopravvivenza in una colossale impresa comune fu la stes­sa che, come abbiamo visto, provoco Ia formazione della civilta sumerica: la risposta alla sfida della natura. In questo caso, si trattava di imbrigliare l'im­mensa rete del delta del Nilo e di assecondarne i ritmi alluvionali in funzione della fecondita della terra. Ma in confronto ai Due Fiumi mesopotamici il Nilo e regalmente munifico. E difatti, nonostante i loro probabili scambi, quale di· versita tra le due prime grandi creazioni culturali della storia! Nelle epopee mesopotamiche si riflette l'impetuosita imprevedibile dei Due Fiumi e la mi­naccia di un cielo attraversato spesso dalle tempeste e di un mare sempre pronto a invadere le colture con la sua salsedine. Dai vertici del fato una spe­cie di impulso sadico scende sulle istituzioni, cosi inclini alla ferocia che nem­meno il codice di Hammurabi, straordinario monumento giuridico, riusd a su­perare Ia Iegge del taglione. Evidentemente, solo un dominio inesorabile pote­va tener compatta la congerie delle citta-stato dei sumeri.

Al contrario, Ia civilta degli egizi* sembra unificata dalla spontaneita di un principia· organico, forse in ragione di un ciclo stagionale senza imprevisti, del cielo sempre sereno, della lunga valle sempre feconda, delle inondazioni per­fettamente prevedibili e mai irruenti. L'acqua del Nilo, 'Padre degli dei', era un"acqua vivente' che saliva dal centro della terra per fecondare la 'Terrane­ra' della fascia coltivata, ai cui lati si stendeva il deserto. L'opera comune de-

Tav. 2 - L' Asia sudoccidentale, I'Egitto e I'Egeo nel secondo millennio a.C. E in questa spazio che, nell'eta neolitica, si creano i presupposti della civilta «Occidentale», proprio mentre, lungo altri due fiumi, !'Indo e il Fiu­me Giallo, nascevano le prime forme di quella «orientale». I mondi sume­rico, egizio e minoico ci forniscono le strutture primordiali della spirito umano nel suo impegno a ordinare e dominare il cosmo. -

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Greci di lingua eolica

MIT ANN I

CASSITI

AMURRU

AMORRITI

0

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gli egizi fin dalla preistoria e stata l'irrigazione della 'Terra nera' e l'argina­mento del deserto. Ecco perche, secondo gli egizi, la creazione e come un'oasi circondata dal caos, le cui forze oscure errano liberamente solo nelle ore not­turne e nei giorni 'intercalari' alla fine di ogni anno (furono gli egizi nel 4241, a stabilire la durata dell'anno in 365 giorni).

L'idea che la creazione sia un ordine emergente su di un caos che la insidia la ritroveremo nella filosofia di Platone, cosi come l'idea che a far emergere l'ordine dal caos sia stato un demiurgo, chiamato dagli egizi con vari nomi, rna soprattutto col nome di ToL Nel papiro Nesi-Amsu il demiurgo racconta:

Aprii la mia bocca, pronunciai il mio proprio nome come parola di po­tenza ... sviluppai me stesso dalla materia primigenia, che aveva attraversato moltitudini di evoluzioni dal principio del tempo. Niente esisteva nel tempo, io creai tu tte le cose ...

L'intuizione che il mondo e stato causato da una parola onnipotente ritorna spesso nella mitologia egizia e potrebbe essere stata trasmessa al popolo ebraico che, dopo essere rimasto schiavo dell'Egitto per molti secoli, espresse la sua esperienza di liberazione forgiando l'immagine di un dio che, come leg-

Cronologia dell'Antico Egitto

VI-IV millennia: Eta neolitica. Verso la meta del quarto millennia, pri­ma unificazione dell'Egitto, dapprima in due regni (Alto Egitto. a sud, e Basso Egitto, nella zona del delta del Nilo), poi in un solo regno, verso il 3000, per opera di Menes. Da allora fino ad Alessandro Magno l'Egitto fu retto da trenta dinastie di faraoni.

2800-2300: Regno Antico. Le dinastie IV, V e VI creano un regno forte­mente centralizzato. Si costruiscono le piramidi.

2300-1700: Regno Medio. Durante la XII dinastia, espansione in Asia Minore fino alla Siria. Poi crollo dell'unitii e invasione degli Hyksos, spin­ti a sud dagli indoeuropei.

1570-1085: Regno Nuovo. Gli Hyksos vengono cacciati. Espansione fino alla Siria e all'Eufrate. Riforma religiosa di Amenofi IV (Akenaton).

1085-332: Eta della decadenza. Occupazione da parte degli Assiri (625), dei Persiani (525) e di Alessandro Magno (332).

332-30: Epoca ellenistica. Re macedoni e poi, dal 304, dinastia dei Tolo­mei. L 'indipendenza dell 'Egitto si conclude con la conquista dei romani e il suicidio di Cleopatra. L 'Egitto provincia dell 'impero romano.

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giamo nella Bibbia, crea tutte le cose con la sua parola. Il pensiero degli egizi, a diversita di quello ebraico, non raggiunge mai con chiarezza il monoteismo. Piu che far derivare l'unita del mondo dall'unita di un creatore, gli egizi la col­locarono in un principio interno al mondo (essi lo chiamavano Maat) che rego­la tanto il huon governo, a cui e affidata la giustizia, quanto l'armonia dell'universo. Potremmo tradurre il termine Maat con 'ordine, giustizia, retti­tudine, verita'. Una cosa e vera (giusta, retta, ordinata) quando occupa nel co­smo il suo proprio posto. Il compito degli dei era appunto quello di farsi vindi­ci della Maat. Il tempio in cui essi dimoravano voleva essere infatti una ripro­duzione del cosmo e insieme il luogo in cui gli dei si facevano garanti ciascuno di un aspetto particolare del cosmo.· Circondati di mura potenti, muniti di iscrizioni che dovevano, per virtu magica, tener lontane le forze avverse, i san­tuari erano provvisti anche di tutto cio che serviva agli dei addetti alla tutela dell'ordine: cibi, bevande, vesti, profumi, ecc.

1.6 II culto del faraone. I due mondi, quello degli dei e quello degli uomini, si unificavano nella persona del faraone, che non era appena, come il sovrano sumero, un vicario del clio, era clio egli stesso, partecipe dell'immortalita e o.g­getto di culto. Figlio di Ra- i1 clio solare, la piu importante divinita egizia­il faraone tratta gli dei da pari a pari: dinanzi a lui i cortigiani non osano par­lare, si prostrano a terra, baciano il suo piede e se ne vanno strisciando ed esplodendo in esclamazioni di lode.

Nel culto del faraone si rivela una peculiarita della cultura egizia: la ten­denza a sostituire al mondo reale il mondo della rappresentazione. Il culto re­so al faraone era una stessa cosa che il culto reso alla Maat: il faraone, chiun­que egli fosse, la rappresentava. Cosl pure, il complicato sistema dei miti egizi non e che una trama di avvenimenti originari ed esemplari dinanzi alla quale la trama degli avvenimenti terreni non e che una ripetizione inesauribile e alla fine priva di significato. Prendiamo ad esempio il mito di Osiride, il piu impor­tante fra quelli egizi. Ucciso da Seth (suo fratello e clio della distruzione), il suo corpo e ricomposto da !side, sorella-amante. Egli raffigura il morire e il risorgere del sole, della luna, della primavera, della benefica inondazione. II culto di Osiride mirava a garantire, anzi a produrre, il trionfo del principio di vita sul principio di morte. Al di la della linea del tramonto, egli era il sole pallido che illuminava le regioni dei morti (il paese dell"occidente', come lo chiamavano gli egizi), all'aurora tornava in vita come sorgente di ordine e di fecondita.

1.7 Le scuole teologiche. A presiedere le articolazioni tra l'universo imma­ginario del mito e quello della realta era, con al vertice il faraone, la casta sa­cerdotale, articolata secondo la varieta delle sue funzioni. Fra queste funzioni c'era la custodia di formule sapienziali, dotate di effetti magici, e l'elaborazio­ne teologica dei miti e dei riti della tradizione. Mentre il popolo veniva lascia­to nelle ingenue credenze e nella pratica dei complicati cerimoniali, la cerchia ristretta dei sacerdoti aveva il monopolio del patrimonio conoscitivo, traman­dato di generazione in generazione, nel quale la fede e le cerimonie della plebe venivano trascritte in un complicato registro di interpretazioni intellettuali. Di

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qui ebbe origine una pluralita di scuole teologiche corrispondenti ai templi piu importanti, come quelli di Eliopoli, di Menfi, di Ermopoli e di Tebe.

Ad Ermopoli, per esempio, nel tempio del dio Tot - chiamato Hermes dai greci - si sviluppo una tradizione sapienziale a sfondo mistico-scientifico che avrebbe avuto una grande influenza nella cultura successiva, da Platone all'umanesimo italiano del quattrocento. A lui, al dio Tot, si attribuivano l'in­venzione dell'alfabeto, delle varie scienze (medicina, astrologia, magia, alchi­mia, teosofia), della coltura dell'olivo e perfino della lira a tre corde. Anche se non possiamo prendere per oro colato il giudizio sulle straordinarie conoscen­ze matematiche degli egizi, e vero che essi introdussero alcune nozioni rudi­mentali di aritmetica e di geometria. Agli inizi del secondo millennia a.C. essi gia conoscevano la circolazione sanguigna, le cure oculistiche, i rimedi contra affezioni ginecologiche, le malattie della pelle e il cancra. Avevano miniere d'oro e di rame. QueUe di rame erano nella penisola del Sinai. Carovane di centinaia di asini mantenevano il contatto tra le miniere e la madre patria. I minatori erano organizzati con criteri di efficienza; divisi in 17 gruppi, ciascu­no con precise mansioni, il loro lavoro era guidato da capi-operai distribuiti gerarchicamente in 11 categorie. Senza questa livello tecnologico non si capi­rebbe d'altronde la costruzione delle piramidi, monumenti insuperati anche dal punta di vista meramente ingegneristico. Per la costruzione della Grande Piramide (2540 a.C.) furono trasportate sei milioni di tonnellate di pietre, le quali furono incastonate le une nelle altre (ce n'erano di due tonnellate e mez­zo) con una precisione al millimetre. Tanta capacita di operare secondo misu­ra e gia di per se uno spiraglio sulle attitudini degli egizi per le scienze astrat­te. Ne sono documento diretto non pochi 'frammenti speculativi' dell'archivio archeologico a nostra disposizione.

Valga per tutti il passo del cosiddetto Papiro Smith riguardante la dottrina della scuola di Menfi sulla creazione. Esso risale agli esordi della storia egizia ed esemplifica bene il modo con cui la casta sacerdotale trasferiva sui piano dei concetti il contenuto dei miti. Secondo un mito, il dio Atum trasse dal pro­prio seme virile tutti gli altri dei, maschi e femmine, che poi provvidero secon­do natura alla procreazione. Secondo un altro mito, Atum era il solo essere: per creare gli altri dei smembro se stesso dando a ogni parte del suo corpo il nome di una divinita. Per i teologi di Menfi (il cui dio era Ptath) tutti gli altri dei, anche Atu)TI derivarono da Ptath, che era il 'cuore' (mente) e la 'lingua' (parola) degli dei:

Egli (il cuore) e la fonte di ogni compiuto (concetto), e la lingua annuncia il pensiero del CJ~,ore. Cosi tutti gli dei sono stati formati. In realta, tutto il divino ordinamento e sorto dal pensiero del cuore e da cio che la lingua ha ordinato. (Cosi e resa giustizia) a chi esegue quel che si desidera e punizione a chi fa quel che non si desidera. Cosi si dona la vita a chi ha in se la pace, e si reca la morte a chi ha in se il peccato. Cosi furono create tutte le opere e tutte le arti, l'azione delle braccia, il movimento delle gambe e l'attivita di ogni membra del corpo secondo il comandamento che il cuore aveva conce­pito, che era uscito attraverso la lingua e che aveva determinato il valore di tutte le cose. Percio avviene che Ptath sia detto: «Colui il quale ha creato ogni cosa e fatto sorgere gli dei». .. Allora Ptath fu soddisfatto, poi che ebbe ordinato ogni cosa e anche il divino ordine ...

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Pur nel suo linguaggio enigmatico e ancora inceppato nelle immagini fisi­che (il «cuore» invece che la mente, la <<lingua» invece che la parola, ecc.), que­sta grandiosa intuizione delle origini del mondo e quanto di piu alto ci sia ri­masto della speculazione degli egizi e precorre di circa due millenni la teolo­gia degli ebrei e la filosofia dei greci. C'e gUt, nel Papiro di Menfi, i1 presenti­mento del dio biblico che resta soddisfatto delle cose che ha create perche so­no molto buone, del Verbo evangelico che e presso Dio e che e Dio, del de­miurgo platonico che da forma al mondo.

1.8 La rivoluzione di Amenofi. E vero pen) che il pensiero egizio non tocche­ra piu queste altezze e in particolare non dara svolgimento all'intuizione mo­noteistica dei teologi di Menfi. A bloccare fin dalle sue origini il potenziale me­tafisico degli egizi contribui probabilmente anche l'assetto politico-religiose del paese. Mentre il potere politico era saldamente in mana al faraone, quello religiose si frantumava nella pluralita dei templi e delle rispettive caste sacer­dotali, che rendevano a volte piu formale che sostanziale l'autorita faraonica e imprimevano alla speculazione religiosa una passione competitiva poco propi­zia aile esigenze contemplative.

Su questo sfondo va letta la grande e fugace 'eresia' del faraone Amenofi IV (1372-1354) che, avendo stabilito la capitale a Tebe, sede del tempio piu ve­nerate e della casta sacerdotale piu potente dell'Egitto, oppose al culto di Am­mane, il dio egemone in quel momenta, il culto del grande Aton, il sole in quanto sorgente di vita, cambiando il proprio nome in quello di Akenaton, 'co­lui che piace ad Aton'. Era un modo di squalificare la casta sacerdotale, anche perche il singolare monoteismo di Akenaton prevedeva dei riti da celebrare non nei penetrali del tempio, rna all'aria aperta, al cospetto del sole, del quale venne proibita ogni rappresentazione sensibile. Il faraone teologo compose un 'inno ad Aton' che e stato trovato scolpito in molte tombe di Tebe: segno che la sua riforma ebbe successo. Si tratta di un documento di alto valore religio­se e filosofico. A dar'cene l'idea bastano alcuni versi:

Quando, pieno di bellezza, ti innalzi all'orizzonte del cielo, o Disco vivente, allora comincia la vita ... Quanto numerose sono le cose che tu compi. Poiche le piante cereali sono in pre~enza del Dio unico, noi ti offriamo i !oro frutti perche per il tuo cuore hai creato la terra. Per gli uomini sei l'unico Dio... . Ogni tempo in te e vissuto e le azioni sono compiute dinanzi alia tua bellezza fino a quando non riposi ...

La rivoluzione di Amenofi duro poco. Dopo la sua morte i sacerdoti riprese­ro il sopravvento e posero fine al culto di Aton. Ma molti elementi della 'pri­mavera solare' restarono nella tradizione egizia. Perfino gli ebrei ne portarono con se una feconda reminiscenza quando lasciarono l'Egitto, come documenta­no i Salmi della Bibbia.

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A dispetto del peso preponderante che ha, almeno a stare al recupero ar­cheologico, l'arte funeraria egizia, il popolo del Nilo fu un popolo solare, tanto amante della vita da considerare la morte non come una completa estinzione rna come l'inizio di un rischioso viaggio verso 'le terre dell'occidente', per af­frontare il quale si munivano i defunti di strumenti di latta e di formule magi­che, come documentano le iscrizioni raccolte nel «Libra dei morti». Perfino nelle lorn tombe essi hanna lasciato tracce del loro ottimismo creativo e di quell' humour sottile e a volte irriverente che ci sembra cogliere nell'indecifra­bile sorriso delle loro statue e dei loro dipinti.

L'eta assiale

1.9 Lo spartiacque nel sec. VI a.C. Le due prime civilta della storia, quella egizia e quella sumerica (le altre due nate nella stesso periodo, nelle valli dell'Indo e del Fiume Giallo, sono, come si e detto, ancora da esplorare), ri­mangono per piu millenni, nella mappa delle terre abitate, come due prodigio­se manifestazioni delle capacita dell'homo sapiens una volta uscito dall'eta della pietra. Esse furono appena lambite dalla grande trasmigrazione di popoli che ebbe inizio attorno al 2000 e che dette un assetto relativamente stabile al­Ia compagine etnica nel cui quadro si sarebbe svolta, nei secoli, anzi nei mil­lenni successivi, la storia del pensiero umano. L'ondata migratoria piu impor­tante fu quella del gruppo indoeuropeo, che dal suo luogo di origine (ancora non bene accertato: o la regione del Caucaso o la grande pianura che dalla Germania del nord va fin verso gli Urali) si irradio a ventaglio nel promonto­rio europeo (i greci, gli italici, i germani, i celti, gli slavi sono indoeuropei), nell' Asia minore e nell'India. La dove giunsero, gli indoeuropei seppero impor­re aile civilta indigene i tratti tipici della propria cultura, come la struttura tripartita della societa (sacerdoti, guerrieri, produttori), il culto degli antenati e di un dio celeste e il proprio modello linguistico.

Tav. 3 - L'eta assiale. In un area di tempo che ha il suo fulcra nel sec. VI a.C. emergono, in ogni parte abitata del pianeta, espressioni culturali che nel lora in.-,ieme sono come le vette di una catena nevosa da cui seen­dono i rivi delle diverse civilta della spirito. La nostra storia riguarda solo le civilta 'letterate'. Ma e bene almena per un momenta ricordare che nel­la stesso periodo, oltre !'Atlantica fiorivano la civilta degli Olmechi, in Messico e quella di Chavin, sulle Ande peruviane, e nella Nigeria setten­trionale, la cultura Nok, le cui sculture di purezza attica stanno ottenendo grande successo in questi anni nelle esposizioni fatte in occidente. Per quanta riguarda la cultura filosofica la «cordigliera» a cui risale la nostra memoria si stende orizzontalmente dall'ltalia meridionale fino al Fium_e Giallo. -

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Si deve certo anche a questo rivolgimento etnico il risveglio che l'umanita conobbe appena varcato il prima millennia e che tocco il suo culmine attorno al VI secolo a.C. Con una contemporaneita che rimane un vera e proprio mi­stero storico emersero, attorno al VI a.C. secolo, indipendenti l'uno dall'altro, alcuni grandi illuminati il cui messaggio domina ancora oggi la coscienza dell'uomo (tav. 3). In Cina, Confucio realizzo Ia sua grande riforma morale e politica; m India, furono composte le Upanishad e Buddha promulgo la sua dottrina della liberazione; nell'Iran, Zaratustra apri Ia prospettiva della storia come di un cammino verso la pienezza; fra gli Ebrei prese forma, con Isaia, la coscienza profetica che segnera il destino di un popolo e, attraverso il cristia­nesimo, del mondo intero; in Grecia, i fisici di Mileto, Eraclito e Pitagora, po­sero le premesse della filosofia occidentale. Nel lora insieme, e distribui ti l'uno accanto all'altro come vette di una catena montuosa, questi sapienti han­no alimentato fino ad oggi l'intera civilta dell'uomo. Ecco perche il secolo VI a.C. e stato chiamato !'eta assiale* della storia: esso e infatti l'asse attorno a cui hanna ruotato e ruotano i moti spirituali dei popoli. II fatto singolare e che, al fonda della loro diversita, questi messaggi religiosi e filosofici rivelano un patrimonio comune che, non potendo essere spiegato se non in misura mi­nima con le reciproche influenze, sembra rinpndare a una struttura spirituale soggiacente, costitutiva del genere umano giO.nto a una certa fase della nuova evoluzione. Potremmo cosl definire alcuni tratti di quella struttura comune.

1.10 Dal mito alla ragione. Il periodo assiale segna il trapasso dal mito, co­me dire dal linguaggio immaginativo, al linguaggio razionale, costruito cioe con concetti di valore universale. Il trapasso non e completo rna e decisivo, rompe in modo netto con la cultura precedente, ed e improvviso, almeno allo stato attuale delle nostro conoscenze.

Prima - lo abbiamo vista nel caso dei sumeri e degli egizi - lo sforzo di comprendere e di esprimere le origini e il senso del mondo e dell'uomo si ar­restava sulla frontiera dell'immaginazione simbolica. L'immaginazione si acco­stava alla realta con approcci emotivi e sentimentali, senza una percezione del rapporto oggettivo tra causa ed effetto, dilatando nell'universo fisico i proces­si fisiologici e psicologici della specie umana. Le interpretazioni mitiche del reale si appoggiavano su tradizioni immemorabili, arricchendole per successi­ve escrescenze, il cui cumulo costituiva un patrimonio diversamente inteso o diversamente vissuto dal popolo e dalle caste di specialisti. Ebbene, i sapienti dell'eta a<;siale si districano, con violenza ispirata, dal groviglio delle tradizio­ni mitiche per cercare e proporre a tutti gli uomini una liberazione il cui orga­na e Ia ragione, intesa sia come principia critico, sia come principia di spiega­zione del mondo e della vita umana. Non che si abbia della ragione una consa­pevolezza di tipo moderno, e nemmeno che i miti muoiano del tutto. Ma in ogni caso, in modo piu o meno inconscio, e la ragione che trionfa e i miti, an­che quando sopravvivono, diventano niente piu che un linguaggio simbolico di contenuti diversi da quelli che essi avevano originariamente.

Nel periodo assiale sembra che l'homo sapiens, prima totalmente immerso nella natura e nel gruppo che lo ha generato e formato, diventi all'improvviso, per un soprassalto della riflessione, oggetto di se stesso, luogo privilegiato

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1 - Il pensiero cinese aile sue origini 0 19

dell'indagine razionale, che non cerca piu la verita al di fuori rna nel profondo della coscienza. E la scoperta dell'interiorita come mondo veramente umano.

Nell'eta assiale il ritorno dell'uomo su se stesso e soltanto il primo passo di un viaggid che conduce, oltre il mondo mutevole, a un Principia eterno, va­riamente denominato rna ritenuto sempre quale vero e unico fondamento del senso del mondo e dell'uomo, perche anteriore all'opposizione tra soggetto e oggetto, tra spirito e natura. E bene sottolineare che questa scoperta none vis­suta, nemmeno nella Jonia ellenica, come puro processo speculativo che, coin­volgendo semplicemente l'intelletto, ha come approdo il supremo principia lo­gico col quale tutto si spiega: essa e insieme un itinerario dell'intelligenza e della volonta, del sentimento e del bisogno radicale dell'uomo, il bisogno della liberazione dalla prigionia del mondo sensibile. Per questa i grandi sapienti di cui stiamo per occuparci sono al centro sia della storia del pensiero, sia della storia delle religioni.

II pensiero cinese aile sue origini

1.11 L'armonia tra la mente e il cosmo. La Cina, e piu precisamente la re­gione bagnata dal Fiume Giallo (Hoang-Ho), fu uno dei piu importanti focolai dell'evoluzione della specie umana (tav. 4). Gli antropoidi vi si erano insediati gia cinquecento o seicentomila anni fa: ne e documento fossile 1' homo pekinen­sis, detto piu comunemente sinanthropus (uomo della Cina). In contemporanei­ta con quella egizia e sumerica, e cioe attorno al terzo millennia, fiori, nella suddetta regione, una civilta di alto livello, a giudicare dai reperti archeologici venuti alia luce di recente. I caratteri di questa civilta preistorica dovevano es­sere gli stessi che danno una precisa fisionomia all a cui tura cinese appena en­trata nell'orizzonte storico: una razionalita di indole pratica e un senso morale centrato piu sui gruppo che sull'individuo. Anche i miti cinesi si distinguono in tal senso dalle coeve mitologie egizie o mesopotamiche. Le origini dell'impe­ro, fatte risalire dalla leggenda al quinto millennia, vengono descritte come un serena eta dell'oro, promossa e tutelata non da divinita ultraterrene rna da im­peratori virtuosi e geniali, come il capostipite Fu-Hsi, che avrebbe inventato l'alfabeto, o come il suo successore Yti, ingegnere idraulico che avrebbe doma­to disastrose inondazioni.

Questa umanesimo tutto terreno, senza inquietudini mistiche, aveya a fon­damento un'idea che possiamo considerare !'idea madre della saggezza cinese: tra le vicende dell'uomo e quelle del cosmo fisico c'e una correlazione cosi stretta che, come i terremoti o le tempeste turbano la societa, cosi i comporta­menti umani, sia buoni che malvagi, si riflettono sui corso stesso della natura. Questa simmetria dinamica tra il mondo mentale del soggetto umano e il man­do esteriore e governata da un principia universale, chiamato Tao (i greci avrebbero detto logos e noi diremmo legge della natura), dotato di una sua energia vitale, chiamata Te.

Non c'e aspetto della civilta classica cinese che non rifletta questa recipro­cita tra il mondo mentale dell'uomo e il cosmo fisic6. L'alfabeto, ad esempio,

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consiste in raffigurazioni stilizzate degli oggetti (se ne contano a migliaia) e nella loro combinazione simbolica per esprimere concetti astratti. II rapporto tra cosa e segno figurativo none appena convenzionale, e vitale, nel senso che al segno si attribuisce la stessa potenza dell'oggetto raffigurato. Su questa cor­rispondenza tra le cose e i loro segni si e sviluppata una tipica tradizione ma­gica e divinatoria, il cui testo sacro per eccellenza e il pili antico libro della Ci­na, /-King. Ma l'unita fondamentale tra le leggi dello spirito e quelle della na­tura aveva la sua piu alta espressione visibile nella persona dell'imperatore, la cui autorita non scendeva dagli dei rna, per cosi dire, saliva dalle armoniose ramificazioni dell'universo. II corrispettivo alfabetico dell'imperatore e un se­gno composto di tre linee orizzontali parallele tagliate da una trasversale: i tre regni, infernale, terreno e celeste, soggetti al potere del «Figlio del cielo>>, in­camazione del Tao. II suo palazzo era quadrato come quadrata era ritenuta la terra, di nove stanze quadrate quante erano le province della Cina, costruite in modo che potessero servire da sala del trono per ciascuno dei dodici mesi dell'anno; il tetto che lo ricopriva e il lago che lo circondava erano rotondi perche rotonda e la volta del cielo. Un complicato calendario, retto dalla legge delle corrispondenze, regolava i movimenti dell'imperatore all'interno del pa-lazzo. /

La convinziohe che ogni cosa e ogni sua modificazione sono interne a un si­stema di corrispondenze ha modellato dalla preistoria ad oggi l'intera cultura cinese, compresa la cultura medica, il cui metodo dell'agopuntura solo di re­cente ha risvegliato fra noi molta curiosita rna che risale addirittura all'eta della pietra.

All'immagine dell'universo come sistema di correlazioni con al centro il Tao va aggiunta la dottrina sulle due forze che agiscono nell'intero organismo cosmico e in ogni sua parte, anche minima: lo Yin (il versante ombroso delle montagne, l'inverno, il freddo, il principia femminino) e lo Yang (il versante assolato delle montagne, l' estate, il caldo, il principia maschile). I due principi toccano il culmine della loro separatezza rispettivamente nell'inverno e nell' estate, rna nella realta non sono mai separati, perche e dal diverso dosag­gio tra la loro contrapposizione e la loro compenetrazione che traggono forma e movimento tutte le cose.

E questo il nucleo essenziale della sapienza cinese, trascritta nei cinque li­bri canonici (King) durante la dinastia Chou (1122-256) e pili precisamente tra l'VIII e il VI secolo. Essi sono:

Tav. 4 · La Cina nell'eta classica. Uno sguardo sommario sulla Cina, durante la dinastia dei Chou (1122 a.C. - 256 d.C.). La struttura della Cina rimase sempre feudale. Si notino, oltre che la cintura della Grande Mura­glia, i confini dei piccoli stati che, quando si faceva debole il controllo im­peri~le, erano sempre in guerra tra lora. Particolarmente importanti, nella stona della cultura, la citta di La Yang sul fiume Giallo, e Lu, la citta di Confucio.

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Hsiung-nu

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«<l libro delle mutazioni» (/-King, l'antico testo di arte divinatoria di cui ab­biamo detto); <<II libro delle storie» (Shu-king); <<Il libro delle canzoni» (Shi­king); <<Canone dei riti» (Li-ki); <<Le primavere e gli autunni» (Chun-tsiu). Secon­do la tradizione, l'ultimo sarebbe opera di Confucio (1.15), a cui si dovrebbe anche il riordinamento definitivo di tutti gli altri.

Attorno ai King si sviluppo una tradizione esegetica rimasta privilegio di una casta di scribi (Confucio era uno di essi), detti «lctterati», che soli cono­scevano la lingua arcaica, ormai incomprensibile al popolo, e che addestrava­no aile future mansioni i giovani nobili destinati a responsabilita direttive. Quando, nel secolo VII a.C., si allento l'unita dell'impero e la societa resto ab­bandonata a un processo di disgregazione anarchica, i letterati si dispersero nelle varie province e dettero vita a scuole vere e proprie, tanto che, nella sto­riografia cinese, questa vien detto il periodo delle <<Cento scuole». Gli orienta­menti culturali dominanti nelle scuole erano il taoismo e il confucianesimo, il primo ispirato a un'esigenza di disimpegno dagli affanni della vita sociale in nome di una ricerca interiore del Tao, l'altro all'esigenza di opporsi al caos so­ciale riportando le tradizioni all' ordine antico, e cioe al rigore morale e al raf­finato senso delle gerarchie familiari e politiche.

1.12 II Tao. La critica storica e presso a poco concorde nel fare di Lao-tse un perso~aggio creato quasi per intero dall'immaginazione dei seguaci di un movimento di origine remota che, nel secolo VI, volse la tradizionale dottrina del Tao a funzioni polemiche anti-confuciane. «Di Lao-tse si puo assicurare soltanto, scrisse uno storico cinese del I secolo, che, avendo amato l'oscurita pili di ogni altra cosa, cancello deliberatamente ogni traccia della sua vita». A fame un contemporaneo di Confucio (Lao-tse sarebbe nato attorno al 570 e morto vecchissimo, addirittura, secondo alcuni, a 200 anni) furono i taoisti del IV secolo, in particolare il pili famoso di loro, Chuang-tzu (6.23), autore di un libra che porta il suo stesso nome e che viene ritenuto il capolavoro letterario della Cina antica. Secondo Chuang-tzu, i due grandi saggi della Cina si sareb­bero incontrati pili volte, sempre per iniziativa di Confucio che puntualmente restava sconfitto dall'enigmatica e scontrosa sapienza del suo avversario. Il nome di Lao-tse e legato a uno dei pili grandi libri dell'umanita, il Tao-te-king: Libra (King) della potenza (Te) del Tao. Lo avrebbe dettato su pressante richie­sta del portinaio della Barriera orientale, Yin-Hsi, mentre, lasciata la corte dove era stato archivista, fuggiva dal paese.

Se, a dispetto delle incertezze sollevate dalla critica storica, diamo inizio alia rassegna dei pensatori cinesi esponendo alcuni principi ci~l Tao-te-king, e perche essi ci consentono di aver subito un'idea dell'altezza speculativa a cui giunse l'umanita nell'eta assiale. L'anima della Cina, e vero, si rispecchia me­glio nell'umanesimo empirico di Confucio, rna essa ha un lato pili recondito che e sempre riuscito a tener vi\'o, nel corso del pensiero cinese, un contrap­punto dialettico nei confronti della cultura egemone.

Gli 81 capitoletti del Tao-te-king condensano in aforismi ed epigrammi quell'atteggiamento del genio cinese che si ispira al sensa della ineluttabilita del Tao, della Iegge suprema che regola Ia natura e gli eventi umani. Il Tao none, come pensano i confuciani, l'armonia che risulta dall'osservanza del riti

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e delle norme di comportamento privatae pubblico, non e insomma prodotta dall'uomo; e l'armonia che e fin da principia e che sta oltre la sfera pubblica

. della vita, oltre il vela delle vicende naturali. Nulla ne sanno gli stolti che, convinti di essere necessari all'andamento

dell 'universo, si affannano alla ricerca di un sapere enciclopedico o nell 'attivi­ta politica: essi mai nulla sapranno del Principia che nessuno puo dominare, anzi nessuno puo nominare:

Vi e qualcosa di indefinibile nata prima del cielo e della terra tanto silenziosa e senza forma assoluta e immutabile gira e non fa danni puo essere la madre del cielo e della terra non so il suo nome sforzandomi lo chiamo Tao.

La conoscenza del Tao puo aversi solo con una intuizione che penetri oltre tutte le rappresentazioni e tutti i concetti e che percio si riconosce in niente di cio che puo essere espresso in parole:

Il Tao di cui si puo parlare non e I 'eterno Tao· il nome che puo essere nominato non e I 'eterno nome il senza nome e il principio del cielo e della terra.

Non si tratta dunque di un principia spirituale che si contrappone al man­do della materia, data che materia e spirito si divaricano proprio da lui. E nemmeno dell'essere supremo a cui tende, pur nella sua impotenza, l'intelletto umano, perche egli sta prima della divisione del soggetto e dell'oggetto, del mondo mentale e del mondo reale.

1.13 La dialettica cinese. Gli antichi commentatori chiamano il Tao, nel suo prima ingresso nella sfera conoscitiva, col nome di Wou, che noi tradurremmo con 'nulla'; e 1 'essere privo di ogni determinazione e che dunque e una stessa cosa col non-essere. Tutte le case sussistono su questa sfondo dell'essere e del non-essere. Nascendo, emergono dal Tao, morendo vi ritornano: vita e morte sono una medesima cosa. Ritmveremo nel pensiero greco, ad esempio in Era­clito (2.9-10) e in Parmenide (2.13-14), questa modalita dialettica del ragiona­mento che oscilla ora verso l'Uno, in cui le case molteplici si risolvono, annul­landosi come molteplici, ora verso la molteplicita dove 1 'Uno si ramifica, an­nullandosi come Uno. «Non c'e ghiaccio separato dall'acqua, scrive un antico commentatore "cinese, ne l'acqua costituente il ghiaccio e separata dal ghiac­cio, ne essa e un'altra entita. Similmente, essendo tutte le case costituite dal Tao, il Tao, necessariamente, non e separato da tutte le case e non esiste come altra entita. Se il Tao trascendesse tutte le case, sarebbe un vuoto, e allora non potrebbe essere chiamato principia cosmico ». Dunque il Tao non esiste al

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di fuori delle case e nemmeno si identifica con le cose molteplici e mutevoli. <<Come e inafferrabile!, leggiamo nel Tao-te-king, sembra esistente ed e elusi­vo! Io non so di chi sia figlio». Forse e pili vicino al vero chi lo considera non un principia reale, ma un principia logico che regola dall'interno le contraddi­zioni della realta, tutte riconducibili all'eterno gioco dell'essere e del non­essere, ambedue necessari all'ordine dell'universo.

Trenta raggi convergono in un mozzo: nel non essere sta l'uso del carro. Si modella l'argilla per fare i vasi: nel non essere sta l'uso del vaso. Si forano porte e finestre per fare una casa. Perci6 l'essere costituisce l'oggetto il non essere costituisce l'utilita.

Ben diverso sara il modo con cui il pensiero occidentale affrontera questa rapporto tra essere e non essere. Da Eraclito a Hegel, il nesso che governa il divenire sara sempre di pili penetrato ed espresso mediante concetti astratti. La logica cinese invece raramente si stacca dalle immagini suggerite dall'os­servazione quotidiana, fedele alla sua inclinazione a non disgiungere mai i mo­ti dell'intelletto dai moti delle case sensibili. Non dimentichiamo che, aile sor­genti del pensiero cinese, c'e la danza cosmica tra i due principi, quello fem­minile e quello maschile, lo Yin e lo Yang (1.11). <<Siccome lo Yin e lo Yang ruotano costantemente, spiega Wieger, niente e stabile, tutto e sottoposto all'alternanza delle due fasi. AI culmine dell'espansione (Yang) fa seguito ne­cessariamente l'inizio della contrazione, e reciprocamente. Nessun estremo si sostiene. Giunta allo zenith, il sole discende. Quando e piena, la luna comincia a calare. Su di una ruota_ che gira, il punta che e salito in alto ridiscende subi­to per poi risalire, giro dopa giro. Il cosmo e in equilibria ma questa equili­bria non e stabile, e un equilibria per compensazioni alterne». Ecco bene espresso il nucleo del taoismo e dell'intera saggezza speculativa della Cina, della quale Confucio rappresenta lo yang, il momenta dell'integrazione del cit­tadino nelle regale della vita associata, e Lao-tse lo vin, il momenta del rifiuto della razionalita sociale in nome di una sapienza radicata nel non-essere dell'essere, nel vuoto del pieno, nel mozzo della ruota. A una medesima crisi, quella delle istituzioni feudali disgregate dall'anarchia politica, le due 'scuole' rispondono in modo diverso, anche se meno contraddittorio di quanta potreb­be sembrare.

1.14 II disimpegno taoista. Nel progetto etico-politico del taoismo c'e il di­simpegno pili assoluto sia dalle cure del governo della cosa pubblica sia dalle occupazioni culturali cosi care ai 'letterati'. Anche nel pensiero occidentale, la questione se la vita politica rappresenti una deviazione o una via necessaria della perfezione umana si e aperta fin dalle origini e non si e pili chiusa. Per il taoismo Ia risposta e netta: la vita politica e una fuga dalla Sapienza del Tao. Le case cominciarono ad andar male nel mondo quando fu dimenticato il Tao, cioe quando ci si discosto dalle leggi di natura.

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Allora, leggiamo nel Tao-te-king, si comincio a parlare di giustizia, appunto perche ci fu l'ingiustizia, a parlare di virtu appunto perche non ci fu pili virtu. Non 1 'azione rna la non-azione e la legge del Tao:

L'eterno Tao non agisce e riesce in tutto se i regnanti potessero osservarlo le case si riformerebbero da se stesse

II disimpegno taoista e basato sulla convinzione che la natura provvede spontaneamente a se stessa: basta non disturbarla. Essa trova voce nei senti­menti spol)tanei del popolo, mentre resta fatalmente corrotta dall'attivita dell'uomo politico incapace, per ignoranza o per presunzione, di lasciare che le case vadano avanti da se stesse:

Quando Ia sua politica fosse inattiva il suo popolo sarebbe semplice quando Ia sua politica fosse attiva il suo popolo sarebbe scaltro

Al funesto attivismo dei politici corrisponde il sapere dei letterati, che tut­to sanno fuori che il Tao. Dinanzi al loro sapere la vera saggezza e il non­sapere:

Quelli che praticavano bene il Tao nell'antichita non illuminavano il popolo rna lo facevano ignorante. Se il popolo e difficile a governare e perche sa troppe cose.

Anche l'etica privata traduce con coerenza la dottrina metafisica del Tao.

Pratica il non agire occupati del non fare gusta quello che non ha gusto ... senza affacciarsi alla finestra si conosce il mondo senza affacciarsi alla finestra si conosce il Tao tanto piu lontano si va meno si conosce il mondo.

La verita delle cose e dunque nel punto in cui ogni loro differenza vien me­no. Vuotare se stessi di ogni conoscenza e di ogni desiderio delle cose molte­plici per immergersi, con una specie di estasi sintetica, nell 'unit a originaria del tutto dove una stessa cosa sono il vivere e il morire: ecco il messaggio del Tao-te-king, prima che esso si mescolasse, come avvenne qualche secolo dopa, con l'ignoranza tumultuosa delle plebi anarchiche e con le pratiche magiche degli stregoni.

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1.15 Confucio. Ma questa sprofondamento dell'individuo nella contempla­zione del Tao, se poteva assicurare la serenita dell'animo, non poteva essere la risposta adatta alla crisi della Cina del VI secolo. Sostituendo il non-agire all'agire, il non-sapere al sapere, l'inerzia politica all'attiva partecipazione all'esercizio del potere, si lasciava libero corso all'anarchia del paese. Venuta meno l'autorita centrale della dinastia Chou, la gerarchia feudale si andava di­sarticolando in una moltitudine di poteri locali privi di controllo e incapaci a lora volta di esercitarlo. Nel totale dissesto delle tradizioni su cui si reggeva, da eta immemorabile, l'etica pubblica e privata, le classi sociali perdevano la coscienza del proprio ruolo. Occorreva riprendere in mano il filo delle tradi­zioni per ricostruire il tessuto della razionalita del vivere comune, nella quale fossero ben determinati i ruoli del singolo all'interno degli organismi sociali, dalla famiglia alla corte. Questa ricostruzione della razionalita politica fu ope­ra di Confucio *, che infatti e stato a volta a volta considerato sia un innovato­re che un restauratore. Si potrebbe anche dire che egli rinnovo la societa cine­se recuperando le tradizioni e riempiendole di un nuovo spirito. «Io commen­to, amava dire di se, io chiarisco le opere antiche, rna non invento nulla di nuovo>>. Fu lui a trasfigurare le origini preistoriche dell'Impero Giallo facendo degli imperatori non gia degli dei rna degli uomini di perfetta umanita, da cui scendevano, come da vette nevose, i rivi della saggezza lungo l'intera storia della Cina. Toccava alla nobilta, ormai spogliata di molti suoi privilegi, ridar vita alla virtu che, nei tempi mitici, splendeva alla corte degli imperatori. Poco

Confucio. Kong:fou-tseu (detto Confucio dalla forma latinizzata Confu­cius, introdotta dai gesuiti nel sec. XVI) nacque nel 551 a.c. in w1 villaggio di Lu, uno dei regni in cui si era da piu di un secolo disgregato l'impero cinese. La madre lo educo rigorosamente aile tradizioni. Ebbe fin da gio­vane cariche pubbliche fino a diventare nel 505 governatore della capitale di Lu e successivamente ministro dei lavori pubblici, della giustizia e da ultimo cancelliere del regno. Per sottrarsi aile calunnie e agli intrighi del­la corte (altri dice perche divenuto insopportabile per le sue pedanterie) la­scio la sua citta e, insieme ad alcuni discepoli, peregrina per tredici anni negli altri regni dell'impero, facendosi ovunque banditore della sua rifor­ma morale-politica. Tomato in patria, dedico gli ultimi tre anni della sua vita (mort nel 479) all'insegnamento, con grande successo: i suoi discepoli furono anche tremila. Non ha !asciato nulla di scritto, ma il suo insegna­mento dette vita a una lunga tradizione di discepoli («scuola dei letterati») che fecero del confucianesimo l'ideologia dominante della Cina. Nel sec. VII d.C. un collegia di letterati campi una revisione 'e un riordinamento delle opere confuciane. Da allora, ai cinque libri canonici della Cina si so­no aggiunti i quattro classici confuciani: I Discorsi o Dialoghi di Confucio (da cui sono tratte le citazioni nel tesio), La Grande scienza, La misura e mezzo, e i Discorsi o Dialoghi di Meng-tzu (Mencio), di cui dovremo occu­parci (6-22).

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conta la nobilta di sangue - ecco, in- parole ovvie, l'innovazione confuciana­se non e nobilta d'animo.

Preso da questa ideale pratico-politico, Confucio si tenne alieno dalle ardite speculazioni dei taoisti. Per questi il Tao e una via che non si puo nominare, che non puo esser tradotta da nessuna logica, da nessuna regola di costume; per Confucio invece il Tao e l'insieme ordinato dei nomi e cioe dei ruoli che ogni nome esprime e che si trovano codificati ab antiquo nei 'libri canonici'. Per avere un'idea della dottrina confuciana dei nomi giova ricordare l'apologo di Menenio Agrippa che ai plebei romani ritiratisi sull'Aventino ricordo che, come in un corpo umano ci sono varie membra dal cui funzionamento distinto e concorde dipende la salute del corpo, cosi nella citta vi sono varie classi e Ia citta prospera solo se ciascuna classe fa il compito suo: dal bene comune deri­va il bene dei singoli. <<Quando un principe si comporta da principe, un mini­stro da ministro, un padre da padre, un figlio da figlio, il paese e governatO». Vedremo poi come, partendo anche lui da preoccupazioni politiche, il filosofo greco Platone (4.9) affidera l'ordine del mondo, sia fisico che sociale, alla cor­rispondenza tra le cose e le loro idee eterne. Ma Platone collocava le idee in una sfera sovramondana, esterna ai mutamenti del tempo. Per Confucio le idee normative sono una sola cosa con i nomi, il cui significato e contenuto nella tradizione dei padri. Per questa egli commento con scrupolo i libri cano­nici, per questa divenne egli stesso scrittore di libri storici, come l'ultimo dei cinque libri canonici, Le primavere e gli autunni (Lll). La storia e, per Confu­cio, lo specchio in cui l'umanita puo conoscere se stessa o, pili precisamente, puo comprendere il vero senso dei no mi. La 'rettificazione dei nomi' e la chia­ve di volta della dottrina confuciana:

Se i nomi non vengono rettificati, le parole non sono in accordo con Ia realta delle cose; se le parole non sono in accordo con Ia realta delle cose, gli affari non possono essere portati a compimento, i riti e Ia musica non vengono coltivati; se i riti e la musica non vengono coltivati, le punizioni non vengono assegnate al modo giusto; se le punizioni non vengono assegna­te a! modo giusto, il popolo non sa come muovere le mani e i piedi. Percio il saggio nomina solo cia di cui puo parlare, parla solo di cio che sa fare: nelle parole del saggio non ci puo essere nulla di inesatto.

1.16 L'ideologia confuciana. L'osservanza confuciana delle regale dell'eti­chetta aveva dunque un senso ben pili profondo del puro conformismo sociale, esprimeva la fiducia nella razionalita che deve presiedere al comportamento dell'individuo e che e poi la stessa razionalita del mondo fisico. Osservando il complesso delle prescrizioni (in cinese questa complesso e detto semplicemen­te Li) si assicura il retto andamento e della societa e della natura.

Se per i taoisti l'individuo superava i propri squilibri dimenticando se stes­so per identificarsi col Tao, per Confucio il superamento del disordine si rag­giungeva identificandosi senza residui con le regale della societa. Anche la re­ligione per Confucio in tanto valeva in quanta se ne rispettavano minuziosa­mente i riti, specie quelli che esprimevano il culto degli antenati. Per Confu­cio, molto pili che per qualsiasi altro filosofo, l'uomo e un 'animale sociale'. Solo che la societa esaltata da Confucio immerge le proprie ragioni in un idea-

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le esclusivamente morale, che egli chiama jen, termine difficile a tradurre in concetti occidentali. Potremmo forse rievocare l'ideale Iatino della humanitas o quello greco della kalokagathia (fusione di bellezza e di banta), o chiamare in causa i nostri concetti di benevolenza, decoro, simpatia umana. L'uomo che possiede lo jen << dal desiderio di affermare se stesso e porta to ad affermare gli altri e solo sviluppando gli altri sviluppa se stesso». La premura per gli altri non ha impeti egalitari. attraversa la compagine sociale misurandosi diversa­mente sui diversi ruoli come la luce che illumina le cose e prende da esse colo­ri diversi. La regola d'oro della jen e letteralmente identica a una norma evan­gelica: «non fare agli altri cia che non vuoi sia fatto a te; fa agli altri cia che vuoi che sia fatto a te», rna questa simmetria tra l'io e gli altri si riduce a uno scambio di gentilezza tra persone sagge e benevole, dentro i limiti dell'equili­brio, non comporta affatto lo 'squilibrio' della carita evangelica, che suggeri­sce di rendere bene per male, di amare colora che ci perseguitano. Ogni ecces­so, anche quello della virtu, e in contrasto con Ia norma suprema dell'etica confuciana, quella del tsong-yong, il 'giusto mezzo', che ritroveremo in Aristo­tele (5. 7),

Nella storia cinese, il radicalismo taoista, cosi ostile aile regale sociali, ha fomentato anche movimenti anarchici; !'equilibria confuciano, al contrario, ha alimentato il 'carattere sociale' della Cina, almena fino ai recenti rivolgimenti politici. L'ideologia imperiale della Cina ha sempre mirato ad equiparare lege­rarchie politiche con quelle familiari, le une e le altre dominate dallo jen, da uno spirito di benevolenza che noi diremmo paternalistica. Il principe, diceva Confucio, << se governa secondo lo jen, assomiglia alla stella polare: essa perma­ne nella sua immobilita rna tutte le stelle le girano attorno». Ma il saggio sa bene che l'impero e un vano nome se non si ha premura della radice, la fami­glia. «La pieta filiale e il rispetto verso i superiori sono la radice della jen». Con lo jen, anche la diversita di classe diventa ricchezza dell'insieme. Se la no­bilta - l'unica classe capace di seguire la via della jen, il tao-jen- sapra vive­re secondo il proprio 'nome', ne avra vantaggio anche il popolo, dato che il po­polo <<e come l'erba che si piega a seconda che spira il vento». Dal principe al­Ia nobilta, dalla nobilta al popolo, il vento della jen trapassava con frutti di pace e di armonia. Anche lui, Confucio, aveva ricevuto, a suo dire, la forza del­la sua virtu dalle regale trasmessegli dal Cielo tramite la dinastia dei Chou. Questa fedelta ai 'Figli del cielo' era stata la sua vera e unica religione. A un suo discepolo che, vedendolo vicino a morte, gli aveva chiesto il permesso di compiere dei riti religiosi Confucio rispose: <<La mia preghiera e la mia vita».

II pensiero indiano aile sue origini

1.17 I Veda. Quando gli indoeuropei ( detti anche Arii, dal termine indiana antico Arya: nobili, onorati) occuparono la valle dell'Indo (1.9), vi trovarono una civilta molto piu sviluppata della loro, come capita ai romani quando oc-

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cuparono la Grecia. Le popolazioni indigene, come hanna rivelato gli scavi re­centemente fatti a Harapp e a Mohenio Daro, avevano raggiunto un alto livello di organizzazione sociale, anche di tipo urbana, fin dal terzo millennia, presso a poco in sincronia con gli egizi, i sumeri e i cinesi della. valle del Fiume Giallo (tav. 5). Pare che la convivenza tra le due civilta, quella indigena e quella in­doeuropea, sia stata fin dalle origini abbastanza pacifica, anche se gli occu­panti, arrivati in ondate successive nell'arco di un millem;io (tra il duemila e il mille), si sovrapposero aile popolazioni soggette con la loro rigida gerarchia tripartita, da cui trassero origine le caste*.

La riconciliazione tra le due culture, quella indigena di tipo magico­animistico e quella speculativa indoeuropea, avvenne probabilmente ai livelli alti del rito religioso, al cui centro era il culto della parola rivelata, custodita dai quattro libri Veda*. La gran parte dei libri vedici consiste in dissertazioni riguardanti l'esecuzione del rito sacra che, come la parola rivelata, era dotato di infallibile efficacia, se debitamente eseguito. Questa fiducia nella potenza meccanica dell' esecuzione del rito traeva forse origine da consuetudini magi­che, rna nella trasfigurazione speculativa che le dettero gli indoeuropei diven­ne intuizione metafisica di cio che sta oltre il rito, oltre le parole pronunciate. Non per nulla il medesimo termine Brahman indica sia la parola sacra, sia il Principia invisibile che nessuna parola puo tradurre. Nella foresta vergine dei libri vedici piu antichi si aggiravano, signori incontrastati, soltanto i Brahma­ni, impegnati, con monopolio ereditario, a memorizzare le parole sacre e a tes­sere attorno ad esse commenti e commenti di commenti. Illoro potere di casta

Le caste. I popoli indoeuropei primitivi, come sostiene il piu illustre specialista in materia, Georges Dumezil, riponevano il fondamento tanto della societa come dell'universo nella collaborazione permanente di tre funzioni: 1. quella della sovranita, nel suo doppio aspetto, magico e giuri­dico, religioso e politico; 2. quella della forza fisica e della potenza guer­riera; 3. quella della fecondita degli uomini, degli animali e dei campi. Nella societa indiana le tre funzioni sono svolte da tre classi rigidamente differenziate (la casta e la classe a cui si appartiene per nascita), piu una quarta classe che e una massa indifferenziata al servizio delle altre: forse, in origine, le popolazioni conquistate dagli Arii. Le caste sono:

1. I sacerdoti (brahmana, o brahmani) 2. I nobili (ksatrya, o guerrieri) 3. I produttori, addetti all'agricoltura, al commercia, all'ammini­

strazione (vaisya) 4. La plebe (i sudra).

Tra le due prime caste c'era stretta collaborazione: <<il sacerdozio none nulla senza ['imperio; ['imperio non e nulla senza il sacerdozio», si Iegge nei Veda Nel periodo delle Upanishad incontriamo, invece, fra i pensatori piu fecondi, anche alcuni sudra e perfino delle donne.

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nella societa indiana (un potere che dura ancora oggi, dopo quattromila anni) non era di ordine politico o economico (potevano anche essere poverissimi), rna derivava dal loro ruolo, che li legava per la vita e per la morte, come dice il loro stesso nome, al Brahman, parola sacra, e al Brahman Principia eterno che sta a1 di la di ogni parola. Erano insieme i sacerdoti e i metafisici.

Veda. L'insieme delle scritture sacre dette Veda ("ll sapere', 'La scien­za') e stato composto lungo un periodo che va dal1800 all'800 a.C. Le date che delimitano il periodo sono pen) malta controverse e in ogni caso van­no prese come molto approssimative.

Il corpo degli scritti vedici e stato distribuito, fin dall'antichitii., in quattra sezioni, che per Ia tradizione induista hanno presso a poco il valo­re. che per i cristiani hanno i quattro vangeli (secondo Matteo, secondo Marco, ecc.): redazioni diverse di un unico insegnamento. Ogni sezione porta il nome Veda:

1. Rigveda: il sapere sotto forma di versi 2. Yajurveda: il sapere sotto forma di formule liturgiche 3. Samaveda: il sapere sotto forma di melodie liturgiche 4. Atharvaveda: il sapere sotto forma degli Atharvan (una particola­

re casta di sacerdoti).

Le tre prime forme costituiscono un insieme abbastanza unitario, tanto che venivano designate col nome di 'triplice scienza': la casta sacerdotale doveva conoscerle e praticarle con scrupolo.

Ma nella tradizione scolastica indiana ha avuto valore un'altra distin­zione, basata sui generi letterari di cui fa usa ciascun libra vedico. Ad esempio, tutto cia che nei Veda e composto in versi poetici e stato raccolto nelle Sambita (collezioni poetiche) e cia che e sullo composto in prosa nel­le Upanishad (testi in prosa o in versi ma destinati in ogni caso alla specu­lazione teologica). Quest'ultima raccolta ha, dal punto di vista filosofico, un grande interesse.

Il termine Upanishad significa 'seduta segreta, confidenziale'. Si tratta infatti di 108 resoconti di colloqui tra maestro e discepolo. I piit importan­ti sana stati composti attorno al VI secolo: essi costituiscono il patrinwnio piu ricco della tradizione filosofica indiana. Il lema che vi domina e quel­lo della conoscenza in quanta via di libe razione. Oltre quelle che fan no parte dei Veda abbiamo Upanishad lungo tutto il corso della storia spiri­tuale indiana: perfino Ramakrisna, il mistico marta nel 1886, ha data ori­gine ad Upanishad che portano il suo nome.

NeZ lora insieme, esse costituiscono in sensa preminente il Vedanta, cioe la 'fine dei Veda', sia nel sensa ovvio di ultima parte, sia nel senso qualitativo di 'momenta culmine dei Veda'.

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Per avere un'idea dell'enigmatica profondita in cui si addentrava la specu­lazione brahmanica delle origini e di quali erano i temi costanti del pensiero indiana merita leggere due inni vedici, scritti quando ancora nulla era stato scritto ne della Bibbia ne dei poemi omerici. II prima ci solleva oltre il tempo e lo spazio:

Allora non c'era il non es~el'e, non c'era l'essere; non c'era !'atmosfera ne il cielo che e al di sopra. Che cosa si muoveva? dove? sotto la protezione di chi? Che cos a era l' acqua del mare inscandagliabile, profonda?

Allora non c'era !a morte, ne l'immortalita; non c'era il contrassegno del­la notte e del giorno. Senza produr vento respirava, per propria forza, quell'Uno; oltre di lui non c'era nient'altro.

Tenebra ricoperta da tenebra era in principia; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Que! principia vitale, ch'era serrato dal vuoto, genero se stesso come ]'Uno mediante la potenza del proprio calore.

II desiderio nel principia sopravvenne a lui, il che fu Ia prima manifesta­zionc della mente. I saggi trovarono la connessione dell'essere nel non esse­re cercando con riflessione nel !oro cuore.

Chi veramente sa, chi puo qui spiegare donde e originata, donde questa creazione? Gli dei sono posteriori alla creazione di questo mondo; percio chi sa donde essa e avvenuta?

Donde e avvenuta questa creazione, se l'ha prodotta o se no, colui che di questo mondo e il sorvegliatore nel cielo supremo, egli certo lo sa, oppure non lo sa?

La grande pagina viene qui riportata piu perche se ne accolgano le ricche suggestioni filosofiche che non perche se ne tenti un'accurata spiegazione, che meglio potrebbe esser fatta dopa che avremo esposto gli sviluppi analoghi del pensiero greco, tanto piu affine ai nostri modi di ragionare. Per lo stesso moti­ve (e con la stessa riserva) merita di essere conosciuto l'altro inno vedico, in cui gli interrogativi del precedente assumono un orientamento piu religioso, senza perdere pero di tensione filosofica:

In principia l'embrione d'oro si sviluppo: nato, divenne Signore unico delle cose. Egli mantiene Ia terra e il cielo come sono: a qual dio dobbiamo rendere !a nostra oblazione?

Colui che dona soffio e vigore, agli ordini del quale tutti si conformano, anche gli dei; Ia cui ombra e immortalita e morte: a qual dio dobbiamo ren­dere !a nostra oblazione?

Colui che con Ia sua potenza e divenuto il solo re delle cose animate, di cio che respira e dorme, colui che comanda ai bipedi e ai quadrupedi: a qual dio dobbiamo rendere Ia nostra oblazione?

Colui verso il quale rivolgono lo sguardo per implorare aiuto le due ar­mate, prone al suolo, tremanti nell'anima, colui che illumina i1 sollevante: a qual dio dobbiamo rendere Ia nostra oblazione?

Quando eruppero le grandi acque, generatrici di Agnis (il fuoco sprigio­nato dalle nubi come fulmine) portando l'universo come embrione, allora si sviluppo ]'Uno: qual e questa dio a cui dobbiamo rendere Ia nostra oblazio­ne?

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Colui che con la sua potenza ha abbracciato con lo sguardo le Acque, portatrici di energia, generatrici di sacrificio, colui che fra gli dei e stato il dio unico: a quale dio dobbiamo rendere la nostra oblazione?

1.18 La dottrina vedica. Non in tutte le ]oro parti i libri vedici hanno tale afflato religioso e tale vigore speculativo. Per lo piu essi propongono narrazio­ni mitologiche e discussioni ritualistiche. Ma dall'insieme e possibile estrarre alcune fondamentali certezze:

a) In principia, prima della creazione, non c'era che il non-essere, raffigura­to come infinita voragine di acque, come caos, abisso. Al di la di questo abisso c'e l'Essere, e c'e senza che se ne sappia il perche. Nell'Essere germoglia il de­siderio (e il tema del kama india no, che corrisponde all' eros dei greci, di cui dovremo parlare: noi diremmo amore), e l'essere si spacca in due come un gu­scio d'uovo (a volte infatti l'essere viene raffigurato come un uovo che galleg­gia sulle acque): meta del guscio e il cielo, l'altra meta la terra.

b) II mom en to originario in cui 1 'essere, mosso dal desiderio, pas sa dal suo , stato di immobilita impersonale allo stato di individuo determinato - il pas­

saggio avviene con Ia pronuncia della parola sacra per eccellenza: aham, che vuol dire 'io' o 'mio' - e nel pensiero vedico quel che e nella Bibbia il peccato originale. La salvezza si ottiene ritornando al di la della soglia fatale per im­mergersi nell'assoluto impersonale, Brahman, dove la coscienza individuale si dissolve come una goccia nell 'oceano.

c) L'uomo, nato dopo la scissione dell'unita originaria, e composto di due elementi: l'atman, che e una propaggine del Brahman, e la natura materiale; cioe, diremmo noi, e composto di anima e di corpo. La morte e la fine di que­sta unione.

d) Mentre i primi libri vedici - i Rigveda - sembrano attribuire all'anima individuale il destino di un ritorno al principia impersonale o, in caso di con­dotta indegna, di una distruzione, in seguito la dottrina vedica accoglie la cre­denza della trasmigrazione delle ani me e cioe del passaggio dell 'anima da un corpo all'altro in occasione della morte fisica. Indistruttibile perche emanazio­ne del Brahman, ]'anima, quando si scioglie il suo vincolo con un corpo, si in­carna nuovamente, o in senso ascendente, se la sua vita e stata conforme aile prescrizioni divine, o in senso discendente nel caso opposto: puo anche incar­narsi in un moscerino. Pare che la casta ariana abbia derivato questa dottrina dalle popolazioni indigene. Certo e che il samsara (cosi si chiama in sanscrito

Tav. 5 - L'India delle origini. La parte tratteggiata delinea la regione indiana bagnata dai due fiumi sacri, l'lndo e il Gange, ancora vicini aile sorgenti, nella quale si stanziarono gli indoeuropei (arya) provenienti da nord ovest. In un prima periodo (protovedico, 1500-1000 a.C.), gli Arii muni­ti di carri da guerra trainati da cavalli finiscono di soggiogare gli indigeni (Dravidi) e sviluppano L'agricoltura e l'allevamento. Nel secondo periodo (tardovedico 1000-550) a.C.), penetrano lungo il Gange e nella regione della attuale Delhi.

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Culture protovedica (prima del1000 a.C.)

ff~~.?J Cultura tardo-vedica (ca. 1000-550 a. C.)

(Brahmaputra)

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la trasmigrazione) divenne un caposaldo del pensiero indiana in tutte le sue ramificazioni. I Brahmani trovarono forse una comoda legi ttimazione delle !o­ro qualita di casta superiore e in genere della divisione gerarchica della socie­ta da loro dominata: ognuno si trovava nella casta meritata durante l'esistenza precedente. Ma questa dottrina poteva anche rappresentare un varco aperto nella rigida egemonia della casta brahmanica. Se quel che conta e la condotta della vita, allora l'osservanza morale ha la meglio sull'osservanza rituale, allo­ra anche i membri delle caste inferiori, escluse dal rito, possono percorrere le vie della liberazione. E difatti, fin dai primi secoli dell'ultimo millennia a.C., per opera di Brahmani piu illuminati e di membri di altre caste la speculazio­ne indiana si Iibera dalle maglie delle disquisizioni cultuali per mettere in pri­ma piano lo slancio speculativo ed ascetico che nell'antico vedismo era rima­sto piu o meno occultato. Potremmo anche parlare di una lenta eman.cipazione dei 'laici' nei confronti del chiuso mondo sacerdotale, di una emancipazione della ragione nei confronti dei dogmi inalterabili e delle parole sacre da ripe­tere con fiducia magica. Questa rivoluzione tocco il suo culmine nell'eta assia­le, attorno al VI secolo, ed ebbe le piu alte espressioni, dal punta di vista filo­sofico che e il nostro, con le Upanishad e col buddismo.

1.19 Le Upanishad. Mentre il popolo reagiva al ritualismo dei Brahmani ab­bandonandosi al politeismo superstizioso, gli spiriti piu pensosi delle diverse caste ricercavano un rapporto piu diretto con le fonti vediche nelle quali, co­me negli inni che abbiamo riportato (1.17), tanto piu netta e profonda e l'ispi­razione monoteistica, che richiede piu che la pratica del rito le vie della cono­scenza. In questa, l'insegnamento delle Upanishad si differenzia dal buddismo, che invece parte da un rifiuto deciso della stessa problematica metafisica. Ma per quanta riguarda la critica al culto brahmanico le Upanishad sono molto piu mordaci che non la letteratura buddista. Le formule sacrificali vengono paragonate a barche mal sicure a cui si affidano degli sciocchi gia sopraffatti dalla vecchiaia e dalla morte. Si arriva perfino a insinuare che il vero fonda­menta dei riti e l'avarizia dei sacerdoti. Comunque, anche nelle Upanishad la critica e marginale; il loro vero pregio e lo slancio speculativo da cui, si puo dire, e nata una volta per sempre la filosofia dell'India.

Il tema di fondo delle Upanishad e, come si diceva, quello gia posto dagli inni vedici: in principia che c'era? L'essere o il nulla? II saggio delle Upani­shad supera lo stato di fluttuazione problematica in cui restava l'anonimo au­tore dell'inno vedico:

All'inizio, mio caro, null'altro v'era che l'essere unico e senza secondo. Altri in verita dicono: 'All'inizio v'era il non-essere, uno e senza secondo; da questa non-essere nacque l'essere'. Ma davvero, o caro, come potrebbe esse­re cosi? Come dal non-es sere l' essere potrebbe nascere? In veri ta e l' essere che esisteva al principia delle cose, l'essere solo e senza secondo. Allora l'es­sere penso: possa io diventare molti, possa io generare. E cosi produsse il calore. II calore penso: possa io diventare molti, possa io generare. E pro­dusse le acque.

L' essere che e fin da principia viene detto Brahman· o anche, in forma neu-

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tra, Brahma. La variante grammaticale non e un'inezia: essa indica che l'esse­re delle Upanishad e impersonale. Nulla si puo dire di lui se non che e. Lo si chiama sat, cio che e, o tat, la cosa. «Il suo nome segreto e realta delle realta». Peril resto, di lui sappiamo cio che none e non gia quel che e. «E l'essere an­tico, inaccessibile a tutti i sensi, l'Essere sprofondato nell'ignoto, l'Essere av­volto dall'ombra, abitatore dell'abisso».

Inconoscibile in se, Brahman e pero «Colui in cui sono tessuti il cielo, Ia terra e I' atmosfera, perfino lo spirito e tutti i sensi». « Il mondo intero viene da lui e vibra nel suo soffio». «Si muove ed e immobile, e lontano e tuttavia e Vi­cino, e in tutto e tuttavia e al di fuori di tutto». E. il braciere ed e le scintille che schizzano dal braciere e vi ricadono, e il mare ed e le onde del mare, di­verse e identiche al mare. Siamo nel panteismo, e cioe nella totale identifica­zione tra Dio e il mondo? Parrebbe. Ma il linguaggio filosofico indiana e sfu­mato, poetico, a volte contraddittorio, e dobbiamo guardarci dal chiuderlo in definizioni a sensa unico.

Dove la tendenza panteistica sembra affermarsi in modo non equivoco e nel rapporto tra Brahman, l'essere universale, latente sotto iJ mondo visibile, e J'atman, l'anima cosciente cor; cui l'individuo prende contatto scendendo den­tro di se. Cos'e l'atman? L'onda del mare, la scintilla del braciere? Per meglio comprendere l'insegnamento delle Upanishad a tal riguardo, decidiamo di di­stinguere in ogni individuo l"io', e cioe hi coscienza immediata che lo lega al divenire delle cose, alla casta in cui e nato, agli interessi che lo muovono, e il 'se', e cioe la sua realta piu profonda (noi diremmo Ia sua anima), nucleo per­manente che niente ha ache fare col mondo esterno, con Ia casta o con gli av­venimenti della societa. Ebbene: l"io' e una illusione dovuta all'ignoranza, Reale e solo il 'se', J'atman, che quando dice 'io' commette il peccato della se­parazione di cui parlava l'antico inno vedico, e quando si raccoglie nella sua interiorita scopre di essere una sola cosa con Brahman, come l'onda e una so­la cosa col mare. Uno stesso mare contiene tutte le onde e in ogni onda abita l'intera vita del mare. Nel versante delle cose, gli uomini sono molti (ognuno e un 'io'), nel versante del Brahman l'uomo e un solo Se. L' atman e l'individuo che riconosce in se il tutto (Tat tvam asi: tu sei questa tutto: ecco Ia formula dell'intera sapienza delle Upanishad) e che quindi non puo definirsi se non di­cendo quello che non e. Proprio come si diceva di Brahman. Infatti, J'atman e il Brahman, e viceversa. Ogni individuo ha dunque in se l'universo intero:

Questa mia anima, atman, all'interno del cuore e piu piccola che un gra­nello di riso o un chicco d'orzo ... questa mia anima all'interno del cuore e piu grande della terra, piu grande dell'atmosfera, piu grande del cielo, piu grande di questi mondi ...

... In verita, come il mondo spaziale si estende, cosi si estende lo spazio del cuore. In esso sono contenuti cielo e terra, fuoco e vento, sole e luna, folgore e stelle, cio che si possiede e cio che non si possiede. Ogni cosa e contenuta in esso.

Come si vede, anche il mondo materiale e compenetrato dall'atman, che e dunque, insieme, sia il principia prima, Brahman, sia l'anima dell'individuo,

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sia l'anima dell'universo fisico. Il quale universo e un'illusione (maya) se consi­derato nella molteplicita delle case di cui e composto, viste ciascuna a se, fuo­ri della concatenazione che le lega all'unita del lora unico principia interiore. Ma se il mondo fisico, a partire dal corpo in cui abita l'atman, e vista all'inter­no del principia da cui e derivato, allora non e piu illusorio e non e piu fonte di passioni. Il vera peccato, Secondo le Upanishad, e l'ignoranza e -l'ignoranza consiste nel dare realta all"io' in se considerato e aile cose particolari che, as­sommandosi l'una all'altra, formano la natura. La salvezza invece e nella cono­scenza e cioe nel riconoscere che, se si prescinde dall'atman, l'io e illusorio ed e illusoria anche la natura, con le sue vicende di nascita e di morte. Chi ha la conoscenza non da importanza al proprio nascere o al proprio morire.· E l"io' che muore, non il Se. L'atman e prima della nascita ed e dopa la morte.

Non di rado questa svalutazione della consistenza dell'individuo come real­til fisica giunge a un limite oltre il quale pare che la natura corporea abbia una esistenza meramente mentale, come quella che le cose hanna mentre le so­gniamo. L'universo intero, con tutte le sue vicende comprese le piu drammati­che, diventa allora come una pura e semplice apparizione mentale, totalmente racchiusa nell'unico principia reale, l'atman.

Non nasce e non. muore il Savio, non egli da qualche cosa ebbe origine come una qualche cosa; innato, perpetuo, eterno, questo Antico Q'atman) non viene ucciso quando il corpo e ucciso. Se I 'uccisore pensa di uccidere, se l'ucciso ritiene di essere ucciso, ambedue costoro sono privi di discerni­mento: non costui uccide ne viene ucciso. Piu piccolo del piccolissimo, piu grande del grande, l'atman di ogni essere risiede nella parte piu celata.

1.20 Una rivoluzione laica. Lo spostamento dell 'asse della salvezza dalla sfera rituale dei templi vedici alia sfera conoscitiva da la misura della rivolu­zione operatasi attorno al VI secolo. Nei Veda il ricongiungimento al Brahman avveniva attraverso gli atti (karma) rituali rigorosamente compiuti. Perle Upa­nishad gli atti davvero decisivi sono quelli che scaturiscono dall'uomo come individuo, come 'io', o dall'uomo come 'Se'. I primi derivano dalla non­conoscenza della illusorieta sia dell"io' che della natura. Essi depositano attar­no all 'atman una scoria invisibile che sopravvive anche quando il corpo si scompone nei suoi elementi. A causa della pesantezza del karma, l'atman, ap­pena uscito dal corpo, entrain un nuovo corpo, piu o meno ignobile a seconda del gravame delle scorie accumulate nella vita precedente, restando cosi, fino ache non avra del tutto sgombrato da se !'involucra del karma, nel ciclo delle reincarnazioni (samsara). La trasformazione liberatrice avviene attraverso un assoggettamento dei sensi alia giusta conoscenza. Si tratta della Yoga, che in questi ultimi tempi ha conosciuto una straordinaria diffusione anche in occi­dente. Malo Yoga (il termine significa 'giogo ', soggiogamento dei sensi alia co­noscenza) praticato dai discepoli delle Upanishad non comporta soltanto una tecnica di posizioni corporali e di controllo del respiro. Esso consiste in un contatto intuitivo («la verita e nel lampo »)col 'se' riconosciuto come Brahman. E un contatto che spezza il vela illusorio del tempo (il velo di Maya) per intro­durre nell 'eternita. La quale non e la durata dopo la morte, e una diversa du-

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rata che e gia interna all'uomo rna che l'uomo, prigioniero dei confini dell"io', normalmente non percepisce perche travolto dalla danza delle cose. Nell'intui­zione dell'eterno e la salvezza. Come tutto il pensiero indiana, quello delle Upanishad none mosso da pure esigenze speculative rna da un bisogno globale di uscire dalla prigionia del tempo e della storia per raggiungere il grande oceano del Brahman, dove tutte le acque sono tranquille.

Cosi come quando i vasi sono distrutti lo spazio che era in quei vasi fa una sola cosa con lo spazio totale, cosi l'uomo che spezza i suoi limiti non fa che una sola cosa con !'Alman.

1.21 Gotamo Buddha. Come le Upanishad, anche il buddismo va collocato dentro un processo sociale e culturale di transizione dall'egenio:riia di casta all'autonomia della coscienza dell'uomo, dal primato dei dogmi rivelati da Brahman e custoditi dal clero al primato della ragione 'laica', decisa a restitui­re all'uomo come tale il peso del suo destino e del suo itinerario di salvezza. Solo che il buddismo e, sulla linea della ragione, molto piu radicale che non la filosofia delle Upanishad. La straordinaria singolarita di Gotamo Buddha* fu che egli riusci a rendere universale, valido cioe per ogni uomo, lo sbocco di un suo personale e tormentoso itinerario. Le Upanishad, ad esempio, propongono si una via di liberazione, rna conservando della tradizione vedica la dottrina dell'atman e del Brahman, cioe dell'anima e dell'Essere eterno che tutto riem­pie di se. Buddha rigetta in modo netto ogni questione che tocchi sia l'esisten­za di un Se che sottosta al flusso della vita psicologica, sia l'esistenza di un Essere al di fuori del tempo e dello spazio.

Non pensate, o discepoli, i pensieri che pensa il profano: 'il mondo e etemo oil mondo none etemo; il mondo e finito o il mondo e infinito'. Se davvero volete pensare, 0 discepoli, ecco che dovete pensare: questo e il do­lore, questa e l'origine del dolore; questa e la sensazione del dolore.

II buddismo - almena il buddismo delle origini - e paradossalmente una religione non religiosa, dato che in modo esplicito non ha altra attenzione che per l'uomo e non attribuisce nessuna importanza ai problemi che non riguar­dano l'uomo nella sua esigenza di liberarsi dalla catena del dolore. Tutto il pensiero indiana e concorde su un punto: la vitae un male da cui conviene li­berarsi, rna in nessun'altra tradizione di pensiero questa affermazione, cosi inaccessibile a noi occidentali, e stata svolta con tanto rigore razionale e. con tanta acutezza di scandagli psicologici come nel buddismo. Sappiamo che l'esperienza e la predicazione di Buddha si svolsero in un ambiente culturale dominato, dopo il declino del vedismo, da violente spinte irrazionali che con­ducevano spesso al piu crudele ascetismo.

Buddha stesso lo aveva sperimentato per sei anni, Dopo l'illuminazione, egli divenne la voce della ragione umana che riprende fiducia in se stessa al punto da respingere ogni altro strumento per aprire all'uomo il varco della li­berazione dal male del vivere. Anche per le Upanishad la via della liberazione e la conoscenza, cosi come la fonte del dolore e l'ignoranza. Ma la ragione per

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i maestri delle Upanishad trovava il suo senso nel dissolvere se stessa in una intuizione che aderiva all'immutabile che sta sotto il mutamento fino a negare se stessa in un impeto mistico. La conoscenza buddista e totalmente interna alia logica dell'immanenza, non ha altro spazio di esercizio che la 'catena della causalita', e cioe la concatenazioneper cui gli atti dell'uomo derivano dal desi­derio e il desiderio dall'ignoranza.

Buddha. La vita di Buddha ci e stata tramandata in racconti leggenda­ri, ispirati a un 'ammirazione per il Maestro che spesso raggiunge le forme del culto religioso. E difficile discernere in queste agiografie i dati sicura­mente storici. Adattandoci ai criteri della massima verosimiglianza, pos­siamo dire che Gotamo Siddharta (cosi si chiamava prima della conversio­ne il futuro maestro) nacque nel clan dei Sakya, a Kapilavatsu, una locali­ta del Nepal, verso l 'anna 563. Condusse vita agiata fino all 'eta di 29 anni quando, sposato e con un figlio, per un 'improvvisa intuizione del carattere universale del dolore, lascio la famiglia e intraprese Ia vita della Yogin, che consisteva in dure pratiche ascetiche e nella applicazione delle tecni­che Yoga. Ma dopa sei anni di questa eremitaggio stremante (fu chiamato allora Sakiamuni, l 'asceta della famiglia dei Sakya) si persuase che non era quella Ia via per uscire dal cerchio delle reincarnazioni. Fu aflora che, assiso sotto il fico sacra nei pressi di Bodh Gaya, ebbe l'illuminazione (bo­dhy, da cui Buddha, l'illuminato) che gli chiari le cause del dolore univer­sale e la vera via per uscirne. Preso da zelo missionario annuncio Ia sua scoperta in un discorso - tenuto nel Parco dei Cervi, a Benares - che ha per i buddisti l 'importanza che per i cristiani ha il discorso della monta­gna di Gesu Cristo. Il resto della sua vita lo dedico a predicare le sue 'quattro verita' e ad organizzare la vita monastica dei suoi seguaci. Mori into rna all 'an no 480.

Buddha non lascio nulla di scritto. I suoi discepoli trascrissero e svi­lupparono il suo insegnamento, dando vita a un insieme di scritti sacri a cui dette definitivo ordinamento e sanzione incontestabile il concilio bud­dista di Pataliputra, nel 215 a.C. Secondo questa distribuzione, gli scritti sacri del buddismo si distinguono in tre 'canestri' (pi taka):

1. «Canestro dei sermoni, (SuttapitakCl), che riporta la parola attri­buita al maestro

2. «Canestro della disciplina» (Vinayapitaka), che contiene le regale della vita monastica

3. <(Canestro della dottrina» (Abbidhammapitaka), che raccoglie scritti molto piu recenti.

Anche il buddismo, come l'induismo, e rimasto una tradizione viva che ha prodotto lungo i secoli, come vedremo, un patrimonio immenso di dot­trine.

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1 • II pensiero indiano al/e sue origini D 39

1.22 Le quattro veritit del Buddismo. Su questa spola si muove instancabil­mente, con infinite variazioni, il discorso di Buddha, fin da quando, a Benares, egli proclamo le Quattro auguste verita:

Questa, o monaci, e !'augusta verita circa il dolore: nascita e dolore, vec­chiezza e dolore, malattia e dolore; dolore e l'unione con cio che dispiace, dolore e la separazione da cio che piace, non ottenere cio che si desidera e dolore; in breve, i cinque diversi aggregati che determinano l'attaccamento all'esistenza sono dolore.

Questa, o monaci, e !'augusta verita circa l'origine del dolore: e la sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con Ia gioia e il deside­rio e trova qua e la il suo appagamento, cioe la sete di piaceri sessuali, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.

Questa, o monaci, e !'augusta verita circa l'estinzione del dol6re: l'elimi­nazione di questa sete mediante il totale annientamento della passione; ab­bandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non concederle alcun luogo.

Questa, o monaci, e !'augusta verita circa Ia via che conduce all'estinzicr ne del dolore; e questa Ia santa via composta di otto parti. Essa ha questi nomi: retto modo di pensare, retta decisione, retta parola, retta azione, ret­ta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione.

Il modo pili semplice per render canto del buddismo delle ongm1 e com­mentare una dopa l'altra le quattro tesi del discorso di Benares, da ritenere sostanzialmente storico.

La prima verita e una constatazione che coglie il dolore nelle sue manife­stazioni pili immediate, che rientrano fatalmente nell'esperienza di ogni uomo. Per Buddha esse non sono, come per lo pili vengono ritenute, aspetti negativi di un valore positivo, che sarebbe la vita; sono l'essenza stessa della vita, la quale dunque e di per se un male. La singolare tesi di Buddha e che alla radi­ce di questa male c'e l'illusione che l"io' sia reale, mentre esso non e che un insieme di aggregati di sensazioni. Ricordiamo quanta si dice nelle Upanishad: che nell'uomo l'unico vero soggetto non e l"io' rna il ·se·, l'atman, il quale a sua volta non e reale nelle sue determinazioni individuali rna nella sua identita con Brahman. Buddha rigetta la dottrina dell'atman e conserva invece la dot­trina dell'illusorieta dell'io, che egli riduce a una rappresentazione generata dal flusso delle percezioni degli oggetti, le quali determinano il nostro attacca­mento o le nostre paure. Come, se da un fascia di canne noi togliamo, una do­pa l'altra, ogni canna, non resta nulla, cosl., se da que] fascia di sensazioni che e l'individuo umano noi togliamo una dopa l'altra le sensazioni, non resta nul­la: l'inesistenza dell'io si fa manifesta.

La seconda verita e che la vita di ciascun individuo e il risultato di una bra­rna che sta prima della sua nascita perche e della specie, anzi di tutti gli esseri viventi. Da questa brama originale scaturisce il flusso delle reincarnazioni, il samsara (e qui Buddha si ricollega all'intera tradizione induista): questa brama si fa strada in ogni individuo sotto forma di passione. Buddha non distingue passioni buone o passioni cattive: si tratti dei desideri sensuali o del desiderio di una vita eterna o del desiderio di annientamento, in tutti i casi trionfa l'illu­sione che l'io sia reale. Ogni atto che asseconda questa illusione - come inse-

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gnano anche le Upanishad - lascia nell'individuo una incrostazione impura, Ia cui accumulazione (karman) determina una nuova rinascita. II male dell'uomo non ha sanzwni trascendenti, rna si sconta all'interno della catena delle gene­razioni. Un clio giudice non e dunque necessaria.

La terza verita e che, se la vitae un male e se la vita nasce dal desiderio, la liberazione consiste nella estinzione del desiderio. L'estinzione del desiderio non si ha attraverso pratiche ascetiche, digiuni, macerazioni, rna attraverso la conoscenza del suo fondamento irreale. Chi raggiunge l' oggetto della sua pas­sione si accorge che esso e inconsistente, rna la brama che lo aveva mosso lo sospinge ancora sui seryfiero della ricerca illusoria. II discepolo di Buddha an­ticipa, mediante le pnitiche di contemplazione, il risultato della cognizione della vanita degli oggetti bramati, collocandosi, in beata pace, fuori del cer­.chio delle passioni da cui nasce il dolore.

La quarta verita riguarda la via (marga) da seguire per realizzare l'uscita definitiva dalla catena delle reincarnazioni. Senza entrare nei dettagli delle ot­to norme (gli 'otto sentieri') dettate da Buddha (il monachesimo nato dalla sua predicazione si occupa ancora da venticinque secoli nel commentarle), ci limi­tiamo a trarne un rapido profilo del vero seguace dell'Illuminato. Egli non se­gue le illusioni nel modo di pensare, di decidere e di parlare. Non pensa, ne decide, ne parla, se non a partire dalla certezza che l'io non esiste e che anche gli oggetti sono illusioni. Non ripone fiducia nei riti sacri, nelle pratiche reli­giose, nelle discussioni sui grandi problemi dell'aldila. Le sue parol-e sono giu­ste perche egli non dice mai 'it>' o 'mio'; le sue azioni sono giuste, perche in lui e morto ogni interesse personale; il suo comportamento e ineccepibile perche egli si astiene da ogni traffico di denaro, da ogni uso delle armi, da ogni offe­sa alia vita, fosse pure quella di un moscerino, da ogni bevanda eccitante. E questa astinenza egli la vive nella gioia e non nelle esasperate ascetiche in uso anche allora fra i monad induisti. II suo sforzo e 'retto', lontano dagli eccessi, volto a mantenere costantemente un sereno dominio sulla gioia e sulla paura. La sorgente vera di questo sforzo non e tanto Ia volonta quanto la 'concentra­zione', cioe una contemplazione che esclude da se tutto cio che e illusorio, co­me dire l'intero mondo degli oggetti, per accogliere in se il 'vuoto', vera realta dell'universo: chi vi entra contempla, come dal di fuori, la serie dei mondi e delle incarnazioni che si succedono sulla spinta inesausta della sete di vita.

Il punto alto di questa contemplazione riproduce, nel seguace di Buddha, l'esperienza che questi ebbe sotto il fico di Benares. Libero da ogni schiavitu, Buddha merito di entrare, gia in questa vita e definitivamente con la sua mor­te, nel Nirvana. Per l'induismo la liberazinne si av~va dissolvendosi come goc­ce d'acqua nell'oceano del Brahman; per il buddismo l'approdo della liberazio­ne e una condizione definitiva di estinzione della vita. II nirvana non e ne il puro non-esistere ne il puro esistere: Buddha stesso non voile dire di pili e considero la curiosita a tale riguardo come peccaminosa persistenza della vo­lonta di vivere.

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1 - Zaratustra 0 41

Zaratustra

1.23 II dualismo iraniano. Gli indoeuropei che durante il secondo millennia si erano mescolati, nella penisola indiana, con le popolazioni preesistenti, han­no creato, come abbiamo visto, una sapienza spirituale che ancora oggi resta una delle grandi vie percorse dall'umanita nella sua ricerca del significato dell'esistenza: la via di una conoscenza del mondo che arriva a coincidere col rifiuto del mondo come illusione. Tocco a un altro gruppo di indoeuropei, stanziatisi nell'altipiano dell'Iran, imprimere alla storia del pensiero umano un altro orientamento, del tutto contrario a quello dell'induismo e del buddi­smo: la passione profetica per il destino del mondo. Forse proprio nel periodo in cui i maestri delle Upanishad e l'Illuminato di Benares insegnavano le vie della conoscenza liberatrice dal male del vivere, Zaratustra* un allevatore di bestiame e insieme sacerdote di una tribu dell'Iran orientale aveva intrapreso una rivoluzione spirituale le cui influenze non sono piu venute meno. Gli in­doiraniani non conoscevano ancora la civilta urbana. Da nomadi divenuti se­dentari, vivevano di pastorizia e di agricoltura e si erano organizzati in tribu secondo una struttura gerarchica analoga a quella di tutti i popoli del loro ceppo: mandriani, sacerdoti, guerrieri. La poverta della loro economia e Ia precarieta delle loro strutture difensive li esponevano alle scorrerie di gruppi nomadi (forse di indigeni emarginati durante ]'occupazione indoeuropea) che depredavano le greggi e le coltivazioni. Probabilmente questa condizione socia­le ebbe qualche riflesso nella visione religiosa degli iraniani, improntata a un cupo dualismo.

Le sorti del mondo erano in mano a due principi, nei quali si era sdoppiato il clio supremo, Ahura Mazda: Ormuzd e Ariman, rispettivamente il clio del be­ne e il clio del male. Essi avevano le loro corti, angeliche o diaboliche, e deci­devano con le loro battaglie la sorte degli uomini, · ai quali non restava che conciliarseli con sacrifici cruenti (anche umani) o sottrarsi al cupo destino con libagioni sacre dagli effetti inebrianti.

Zaratustra. Conosciamo la vita di Zaratustra (detto anche Zoroastro) soltanto attraverso la leggenda, rna egli e sicuramente un personaggio sto­rico, vissuto, secondo un 'ipotesi attendibile, tra i primi anni e gli ultimi decenni del secolo VI. C'e chi azzarda anche le date: 599-522 a.C. E c'e chi sostiene, con buoni argomenti, che egli sia vissuto in un periodo molto an­teriore. Nacque in una localita dell'! ran orientale (l 'odierno Afganistan) che Ciro II conquisto attorno alla meta del VI secolo, integrandolo neU 'impero persiano.

Zaratustra non scrisse nulla, rna un suo discepolo, poco dopo la sua morte, trascrisse le sue parole in 17 componimenti poetici, detti Gatha, che entrarono a far parte dell 'Avesta, il libra sacra degli iraniani.

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42 0 I - Zaratustra

1.24 La svolta del messianismo. Fu Zaratustra che oppose a questa religio­ne cosmica e fatalistica la religione della responsabilita. E lo fece con impeto fantasioso, circondato da discepoli che erano anche guerrieri, talmente egli era convinto che l'uomo deve opporsi con tutte le sue forze aile legioni del ma­le. II conflitto tra i due principi non e, per Zaratustra, trascendente, e interno all'uomo:

Ci sono due spiriti irriducibilmenk opposti, nel pensiero, nella parola e nell'azione. L'uno apporta la vita, l'altro la morte. I due spiriti si affrontano in/'gni uomo e in ogni popolo, e si affrontano dalle origini fino alla fine dei ,.tempi. Ascoltino gli uomini e comprendano, perche e dalla scelta che essi fa-

/ ranno che dipendera la !oro sorte nei due mondi: la luce e la notte, la vita e · la rnorte. Come riconoscere l'una e guardarsi dall'altra? Chi castigherai? A

chi darai la felicita? Colui che Dio preferisce e il huon lavoratore della ter­ra degli uomini.

Nella predicazione di Zaratustra il politeismo non e del tutto superato. E nemmeno il dualismo. Ma emerge con forza il primato del clio del bene, Ahura Mazda, che prima o poi riuscira a prevalere sui principia della malvagita, a condizione che gli uomini militino dalla parte del bene. AI principia di tutte le cose non c'e, come nella dottrina indiana, Ia 'caduta' - un processo- imperso­nale di degradazione dall'Uno al molteplice -, rna Ia scelta, e al termine ci sa­ra la definitiva sconfitta del mondo demoniaco. II clio di Zaratustra non e un essere impersonale, estraneo al mondo del mutamento: e un clio che ha creato le cose ed ha compiuto lui stesso la scelta del bene contra le forze del male. E un clio etico, che non chiede tanto estasi e solitarie ascetiche, rna una milizia attiva. A diversita degli dei che «non hanna scelto rettamente» e a diversita de­gli uomini che sulloro esempio si fanno «rampolli della spirito del male», i ve­ri fedeli di Ahura-Mazda combattono contra le forze delle tenebre (della 'non­vita') mediante tre virtu morali: «il pensiero puro», Ia «parola pura», l'«azione pura». Non contano i sacrifici cruenti: il vero sacrificio che clio accetta e quel­lo, interiore ed esteriore, della dedizione alla Iotta contra il male.

Io voglio essere un uomo che parla con la bocca e la parola di un dio. Voglio creare delle opere che fin dall'alba lavorino per la crescita del gior­no, delle opere che rallegrino lo sguardo di un dio alla luce del sole.

Per Ia prima volta, nella storia del pensiero umano, in simultaneita con i profeti di Israele di cui diremo tra poco, Ia vicenda terrena dell'umanita viene vista non come una insignificante successione di mondi, rna come una crescita che volge verso un fine e che ha alla sua origine la decisione di un clio buono:

Quale artista ha creato la luce e le tenebre? Chi ha fatto !'aurora, il mez­zogiorno e !a notte? Alla nascita del mondo, chi ha fatto le acque e le pian­te? Chi ha messo in moto le nubi e i venti? Chi ha messo l'amore nel cuore di un padre quando gli nasce un figlio? 0 Ahura-Mazda, tu che fai la cresci­ta del mondo accordaci i beni del mondo: l'eredita umana dei nostri avi e cio che nasce dalle nostre azioni di oggi ... Dacci la forza, che e la tua, di creare la gioia futura degli uomini.

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I- Jl profetismo ebraico 0 43

La prospettiva zaratustriana sui futuro fa leva dunque sulla libera scelta dell'uomo, da cui dipende in sostanza il corso delle cose venture.

La portata decisiva della liberta umana viene sottolineata dalla dottrina del duplice giudizio, uno individuate, l'altro universale: temi questi che entreran­no, col cristianesimo, nel patrimonio religioso dell' occidenle. Il giudizio finale non sara soltanto Ia sanzione di Ahura-Mazda sui bene e sui male operati dall'uomo, sara anche, vinta per sempre la minaccia del principia di morte, l'instaurazione di un mondo totalmente rinnovato, una specie di resurrezione cos mica:

Nella mia preghiera, con le mani tese, io chiedo questa gioia, di compie­re le tue opere. 0 Mazda, dio della luce. Noi affronteremo con gioia Ia prova del fuoco onnipotente, Ia tua nel giorno della resurrezione. 0 Mazda, il tuo fuoco rapido e forte, quello che irradia Ia gioia, quello che anche punisce e brucia. Fino all'ultima rivoluzione del mondo, fino alia sua resurrezione, il Signore della menzogna non ce Ia fara a far morire il mondo un'altra volta. Tu darai Ia potenza ai giusti, alla fine dei tempi. E io presentero a! tuo fuo­co l'offerta della mia preghiera. Io cammino verso Ia luce con tutta Ia forza del desiderio.

Agli occhi di Zaratustra il tempo che separa il mondo dalla sua fine (o dalla sua resurrezione) e segnato da molteplici presenze luminose, quelle dei Salva­tori, che preparano l'opera ultima del Salvatore per eccellenza: Ahura-Mazda.

E difficile esagerare l'importanza storica di questa improvvisa esplosione profetica sulle soglie tra la preistoria e la storia. Essa segna il crinale tra I' orien­te contemplativo, fondato sui principia chela vita terrena e un male da cui e ne­cessaria liberarsi, e l'occidente creativo, fondato sul principia che il mondo e in se stesso buono e che le sue sorti dipendono dalla scelta degli uomini.

II profetismo ebraico

1.25 Il profeta. Se collocato nel quadro delle grandi civilta di cui ci siamo occupati, il popolo ebraico*, e come un vaso di argilla tra vasi di ferro. Non si distingue per scoperte 0 acquisizioni tecniche, ne per elaborate teologie, ne, a rigore, per ardite speculazioni filosofiche. La sua originalita, che dara un'im­pronta decisiva alla storia del pensiero umano, e di carattere religioso e consi­ste, in questo periodo, nell'esplosione di un fenomeno che sara un tratto esclu­sivo della sua fisionomia: il profetismo. Carattere profetico (lo abbiamo appe­na visto) ebbe anche Ia predicazione di Zaratustra, nella vicina Persia. Ma in Israele il fenomeno del profetismo e, per continuita e fecondita, senza possibi­li confronti. Dall'VIII al V secolo a.C. emergono sul proscenio della sua vita pubblica alcuni personaggi che parlano in nome di Dio, con la pretesa di esse­re stati chiamati e inviati da Lui.

In ogni cultura antica abbiamo trovato uomini legati al ruolo religioso, rap-

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44 . 0 1 • ll profetismo ebraico

presentanti di Dio presso il popolo in quanto con continuita istituzionale ne esprimono e ne custodiscono la Iegge.

II profeta in Israele sorge invece di sorpresa, per una investitura inattesa e per lo pili indesiderata. Egli si sente ghermito da Dio con una forza irresistibi­le, anche se non meccanica, che soggioga Ia sua liberta senza violentarla. Ecco come Geremia* racconta Ia sua vocazione:

Mi fu rivolta la parola del Signore: 'Prima di formarti nel grembo ma­terno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alia luce di avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni'. Risposi: 'Ahime, Signore Dio, ecco io non so parlare, perche sono giovane'. Ma il Signore mi disse: 'Non dire: sono giova­ne, rna va da coloro a cui ti mandero e annuncia cio che io ti ordinero. Non temerli, perche io sono con te per proteggerti'. Oracolo. del Signore. II Si­gnore stese Ia mano, mi tocco la bocca e il Signore mi disse: 'Ecco, ti metto

\ le mie parole sulla bocca. Ecco, io ti costituisco sopra i popoli e sopra i re­·. gni per sradicare e demolire. per distruggere e abbattere, per edificare e • piantare'.

E Amos*: Non ero profeta, ne figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sico­

mori; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: 'Va, profe­tizza al mio popolo Israele'.

Il profeta nasce dunque fuori dei quadri istituzionali: Ia sua vocazione e un carisma, cioe un fatto personale non trasferibile, una iniziativa divina.

Ma la maniera in cui il profeta emerge e solo un anticipo della sua missio­ne, che e di critica spietata deii'assetto religioso e sociale che Israele si e dato in pochi secoli di monarchia. Sui piano religioso, la parola profetica denuncia la contaminazione della fede in J ahve, il Dio di Israele, con i culti dei canapei, gruppi etnici confinanti. Sui piano sociale, essa smaschera il dilagare dell'in­giustizia nei rapporti fra le classi della popolazione e la sua legittimazione da parte di coloro - giudici, sacerdoti e corte regale - che invece di resistere, come dovrebbero, all'ingiustizia se ne fanno complici o addirittura promotori. Le due critiche sono tra loro collegate, perche non fanno che riflettere le due facce di una stessa eclissi dello spirito autenticamente religioso.

Quel Dio di Israele, che non vuol essere confuso con altre divinita, e anche colui che ha istituito nel suo popolo rapporti di stretta eguaglianza e non sop­porta di vederli sovvertiti dalla sete di potere e di ricchezza. Tanto pili quan­do, a copertura del disordine, Israele si illude di poter stendere il velo dei suoi riti liturgici. lmplacabile Ia voce di lsaia*.

Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero? dice il Signore. Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso e un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennita. Anche se moltipli­cate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, puricatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, ren­dete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova.

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1 - Il profetismo ebraico D 45

II popolo ebraico fino all'esilio. lsraele, come collettivita indipendente, compare alla ribalta della storia tra il 1300 e il 1200 a.C., con una migra­zione dall'Egitto e una lenta penetrazione in Palestina. Dopa un periodo di organizzazione confederale (1200-1025 a.C. circa) con unita esclusiva­mente religiosa, inizia con Saul e si consolida con David, attorno al volge­re del millennia, l'unita politica in forma di monarchia, che raggiunge con Salomone (970-931 a.C.) il suo momenta di splendore. Alla morte di Salo­mone l'unita si sfalda, dando origine, al nord, al regno di Israele con capi­tale Samaria, al sud, a[ regno di Giuda con capitate Gerusalemme.

E attorno alia meta del sec. VIII che compaiono i primi profeti: Amos e Osea nel regno del nord, Isaia e Michea al sud. La disfatta che essi mi­nacciano (e che, nella lora interpretazione, e il castigo delle colpe del po­polo e soprattutto dei suoi capi) si verifica prima al nord: in uno scontro tra Egitto e Assiria, il re d'lsraele alleatosi con il prima viene travolto nel­la sua sconfitta; nel 722 a.C. la capitale Samaria viene occupata, e tutto il territorio diventa una provincia assira.

Il regno di Giuda sopravvive per circa un secolo e mezzo, grazie alia maggiore saggezza politica dei suoi governanti e a seri tentativi di riforma religiosa, sollecitati dalla comparsa di altri profeti, il maggiore dei quali e Geremia (seconda meta del sec. VII). Ma atteggiamenti imprudenti nei confronti della dinastia neobabilonese (subentrata agli Assiri nell'egemo­nia sul Media-Oriente) finiscono per rovinare anche questa regno: nel 587 a.C. Gerusalemme e occupata e distrutta, e parte della popolazione viene deportata a Babilonia.

Questa critica non e destinata a restare un fatto interno di Israele: essa rappresenta l'apporto originale del profetismo ebraico alla storia della civilta. Come uomini delloro tempo, i profeti sono convinti che l'assetto sociale, come d'altronde quello della natura, e basato sull'ordine della creazione, istituito dall'Essere divino (o dagli Esseri divini) all'origine dei tempi. Fuori di Israele, quest'ordine divino si realizza in modo automatico nelle istituzioni, fino a identificarsi con esse. Le trasgressioni vanno punite, rna le leggi non vanno toccate perche sono, per principia, giuste, anche se di fatto legittimano le di­suguaglianze. Anche in Israele sta per verificarsi questa giustificazione sacra dell'assetto sociale. I profeti - ecco la loro novita- non lo permettono. Chia­mati direttamente da Dio, essi esprimono il suo giudizio di condanna nei con­fronti delle istituzioni ormai degradate: il tempio, il re, i giudici, le stesse scuole dei profeti ufficiali, troppo compiacenti nei confronti del potere.

1.26 La missione sociale del profeta. Questa dissociazione tra Dio e le isti­tuzioni ha un duplice effetto liberante. Nei confronti della societa, mette in moto quel processo di 'desacralizzazione' che toglie al potere politico ogni au­reola religiosa, ogni garanzia di intoccabilita. Le tentazioni teocratiche - co­me d'altronde avverra nel cristianesimo - riaffioreranno nella storia giudaica,

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rna i profeti getteranno tempestivamente il seme della rivolta contra l'assoluti­smo, preparando la via a una concezione laica dello Stato.

L'altro effetto e sul piano religioso: l'azione profetica libera Dio dai vincoli particolaristici, ne fa emergere Ia sostanza e la figura universale. Finche Dio e legato a una struttura sociale, non puo che essere un Dio nazionale, tribale. Anche Israele e partito cos!: adorando in J ahve l'unico suo Dio, rna ammetten­do che altri popoli possano avere i !oro dei. Con i profeti, il cerchio della reli­gione etnica si spezza: se Jahve e il Dio che vuole la giustizia e smaschera !'or­dine esistente, vuol dire che egli non e legato a nessuna terra, a nessun siste­ma sociale particolare, che egli e Signore di tutta la terra e di tutti gli uomini che in essa abitano. Al di fuori di Lui non ci sono altri dei, rna solo feticci co­struiti da mano d'uomo. La profezia di Israele ha dato origine al monoteismo.

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¢osi dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti: 'Io sono ~~ primo e !'ultimo; fuori dime non vi sono dei. Chi e come me? Si fac­cia avanti e lo proclami, lo riveli di presenza e me lo esponga. Sono io, il Si­gnore, che ho fatto tutto, che ho spiegato i cieli da solo, ho disteso la terra; chi era con me?'.

Quest'unico Dio, Signore di Israele e di tutta l'umanita, e creatore del man­do. Nella parola profetica, pero, l'idea di creazione non sottolinea, come avver­ra piu tardi nel pensiero cristiano, il carattere di 'produzione dal nulla', rna la vittoria assoluta sul disordine, sul male. II contrario della creazione non e il nulla, il non-essere, rna il caos, la forza dell'irrazionale e del non-senso. Per vie diverse rna molto piu radicali di quelle del pensiero greco, il profetismo ebrai­co ha conferito ai fondamenti della realta il senso, l' ordine, la bonta e la bel­lezza.

Abbiamo detto delle due liberazioni promosse dalla predicazione profetica: del potere, dall'ipoteca sacrale, e di Dio, dai limiti etnico-nazionali. Occorre di­re di un terzo valore chiaramente emergente dal messaggio dei profeti: quello dell'individuo come soggetto insopprimibile, come responsabilita indeclinabi­le, insomma come 'coscienza'. Gia per con to suo il profeta e il prototipo dell'uomo che rompe tutti i legami di appartenenza, che anzi si contrappone alla stessa realta da cui proviene. Ma l'autonomia spirituale in cui egli vive none che la punta avanzata di una nuova frontiera dell'umanita: la costituzio­ne del soggetto umano come valore che trascende il gruppo, come centro di decisione che non puo essere sostituito ne soffocato in nome di nessuna soli­darieta. E 4uanto 'nsegna un altro profeta, Ezechiele.

Se uno e giusto e osserva il diritto e Ia giustizia, se non opprime alcu­no, non commette rapina, divide il pane con l'affamato e copre di vesti l'ignudo, se cammina nei miei decreti e osserva le mie leggi agendo con fe­delta, lui e giusto e lui vivra, parola del Signore Dio. Voi dite: Perche il fi­glio non sconta l'iniquita del padre? [secondo l'antica concezione orientale] Perche il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, percio egli vivra. Co­lui che ha peccato, e non altri, deve perire; il figlio non sconta l'iniquita del padre, ne il padre l'iniquita del figlio. Al giusto sara accreditata la sua giu­stizia e al malvagio la sua malvagita.

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1 - La filosofia ionica 0 4 7

Si puo dire che il profeta f!, non diversamente dal filosofo, l'uomo che fa emergere dall'informe le distinzioni. La dove Dio, societa e natura erano impi­gliati in una unita scarsamente differenziata, egli traccia le linee di confine e percio le prospettive di autonoma espansione. Se da una parte, con questo lo­ro insegnamento, i profeti di Israele non creano ex novo, rna sviluppano i ger­mi gia contenuti nelle tradizioni del loro popolo (in particolare quelle legate all' Alleanza del Sinai), dall'altra anche molte loro intuizioni rimangono allo stato germinale. Sara, come vedremo, la storia successiva a svolgere le impli­cazioni e a trasformarle in azione creativa.

La filosofia ionica

1.27 La nascita della polis. Il panorama delle origini del pensiero umano puo ritenersi completo (sia pure nei limiti di una rassegna sommaria come la nostra) solo se, dopo aver percorso, a partire dalla Cina, la grande fascia asia­tica, posiamo lo sguardo sui litorale dell' Anatolia bagnato dal mare Egeo. Do­po il crollo, nell'XI secolo a.C., della civilta micenea (molto simile a queUe d' oriente per la sua organizzazione aristocratica e sacrale), il flusso migratorio ha condotto qui alcuni gruppi di coloni appartenenti alle varie stirpi della Gre­cia. Il pili intraprendente di questi gruppi era venuto dali'Attica, dove Atene (siamo all'inizio del millennia) era appena una roccaforte e non una citta ospi­tale e dove la terra non bastava aile popolazioni che vi avevano cercato rifugio dagli invasori Dori che, primi a far uso della spada di ferro, avevano abbattu­to, in un colpo, lo splendore miceneo. Gli attici trasferitisi sulla costa asiatica furono detti loni* e ionica e'la civilta che, finito il 'medioevo greco' (XI-VII se­colo), clara inizio ad uno dei piu straordinari miracoli culturali della storia.

Gli insediamenti ionici divennero ben presto citta fiorenti al punto che a lo­ro volta fondarono colonie (la sola Mileto pare ne avesse fondate una novanti­na) in molte parti del Mediterraneo occidentale, anzi perfino nel Ponto Eusino, il nostro Mar Nero, e, in Egitto, lungo il Nilo. Fino a tutto il secolo VI, e cioe fino alia sua distruzione per opera dei persiani (498 a.C.), Mileto e la capitale culturale del mondo ellenico, che accoglie, filtra e rielabora innovazioni cultu­rali e tecniche che affluiscono dall'oriente. Gia il fatto che d'ora in poi, nell'esporre gli sviluppi del pensiero umano, saremo costretti a dare importan­za non solo alla vita dei singoli pensatori rna anche alia loro citta e il segno che siamo entrati in un clima spirituale inconsueto. Le citta ioniche non sono, come quelle dell'Egitto e dell'oriente, informi assembramenti di popolazione passivamente soggetta a poteri sacri, sono creazioni organiche nate e cresciute per la legge stessa dell'evoluzione della specie: la lotta per la vita e la selezio­ne naturale. Insediatisi in un paese straniero, gli Ioni avevano dovuto trasfor­mare i campi fortificati in citta cinte di mura, per meglio difendersi dagli indi­geni, ridotti presso a poco a servi della gleba, e dai regni potenti che incombe­vano alle loro spalle. Si ha qui il primo distacco tra citta e natura e la prima

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Gli loni. La penisola della Grecia fu invasa dal popolo indoeuropeo de­gli Achei attorno al 2000. Gli achei subiscono le influenze della civilta mi­noica, if cui centro di irradiazione era l'isola di Creta, e danno vita a una !oro civilta che, dal suo centro piu importante, Micene, viene detta mice­nea (1600-1150). Dopa un periodo di rapida espansione che fece degli achei i domirzatori del mare Egeo (la conquista di Troia risale al XIII secolo), la civilta micenea e abbattuta dall'ondata migratoria dei Dori. L'invasiorze determina una lunga cesura (medioevo ellenico), ma prepara anche un nuovo inizio, i cui primi segni non saranno nella penisola ma nelle colo­nie fondate nel frattempo dalle popolazioni che, per sottrarsi agli invasori e in cerca di nuove possibilita di sviluppo, si erano insediate o nell'ltalia meridionale (Magna Grecia) o nelle isole dell'Egeo e sulle coste dell'Anato­lia. In quest'ultima regione si insediarono i profughi dall'Attica, gli /ani. La piu florida delle citta ioniche e Mileto, che presiede una lega (anfizio­nia) di dodici citta ed e per un certo periodo la vera capitale del mondo el­lenzco.

Gli scavi hanna portato alla luce costruzioni pubbliche grandiose, co­me !'agora (la piazza cittadina), a forma quadrata di 200 metri per lata, e il teatro, prospiciente if mare, con 25.000 posti. Altre citta: Efeso, Focea,

/ Sarno (nell'isola omonima), Clazomene.

organizzazione di una vita CIVICa basata sulla produzione artigianale e sugli scambi commerciali. Gli Ioni adottarono il ferro, usato dai Dori per le loro spade, anche come strumento di produzione, divenendo cosi quasi imbattibili nella concorrenza del mercato mediterraneo, su cui spadroneggiavano da seco­li i fenici. Cominciarono a battere moneta e a creare reti di agenzie commer­ciali non solo sulle coste del mare rna anche nell'entroterra, in cui potevano addentrarsi, lungo il corso dei fiumi costieri, per i loro scambi con la Lidia, la patria dell'oro, ormai in declino, o con le capitali mesopotamiche, ricche di te­sori favolosi. Dai fenici essi derivarono la scrittura alfabetica, che finira col sostituire quella micenea di stampo ideografico e cioe orientale, del resto gia in disuso dopo il crollo dei ceti aristocratici e sacerdotali che ne avevano la privativa.

Diremo piu ampiamente, nel prossimo capitolo, dell'importanza decisiva che ebbe, nella nascita e nello sviluppo del pensiero greco, l'originale creazio­ne della citta-sta.o, la polis, di cui gli Ioni fornirono i primi modelli. Per il mo­mento, ci basta aver delineato appena lo sfondo sociale di uno degli eventi piu decisivi nella storia dello spirito umano: l'emergere, dal grandioso universo dell'eta assiale, della 'novita greca', che e poi, in larghissima misura, la novita stessa della civilta occidentale. In che consiste questa novita?

1.28 La svolta scientifica. II primo tratto singolare della cultura ionica e che essa si sviluppo su due diversi orizzonti: il primo e quello della madre­patria, con cui gli ioni mantennero sempre contatti reciprocamente fecondi, l'altro e quello del mondo orientale, in cui erano geograficamente inseriti e

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che allora era molto piu ricco culturalmente di quello ellenico. Mentre altre popolazioni indoeuropee scese nell'Asia anteriore, come gli Hittiti e i Mitanni, vennero prima o poi assorbite dalla cultura semitica dominante, gli Ioni riu­scirono a preservare Ia propria identita culturale, anzi a ravvivarla, integran­do in essa gli apporti dell'oriente e svolgendola secondo Ia linea della massi­ma differenza. A dar forza aile loro radici furono senza dubbio i contatti con Ia madrepatria, rna furono, in particolare, le forme politiche e sociali che essi seppero dare - anche in ragione della lora economia, che non poteva essere che mercantile - alia citta-stato.

II centro della vita pubblica degli Ioni none il tempio, come in Egitto o co­me a Babilonia, rna e l'agura, la pubblica piazza. La casta dominante non e ne il clero, come in India, ne l'aristocrazia, come nella Cina di Confucio o nella civilta di Micene messa in breccia dai Dori. E il demos, il popolo attivo e pro­duttivo, che ha come fonte e come obiettivo della propria cultura le attivita ar­tigianali e commerciali e che, una volta abbattuta Ia supremazia aristocratica, risponde di se a se stesso e ai propri magistrati liberamente eletti. Di qui l'im­pronta laica e democratica della cultura ionica. Per questa vivacita assicurata dalle strutture economiche e dagli ordinamenti, gli Ioni trasformano tutto cio che importano, le materie prime come le idee. La geometria, che gli Egizi ave­vano empiricamente elaborato come strumento di misurazioni catastali, e tra­sformata dagli ioni in una scienza deduttiva basata su principi universali (si ri­cordino i teoremi attribuiti a Talete); l'astronomia, che i babilonesi coltivano come un aspetto divinatorio della lora visione magico-religiosa del mondo, di­venta, per questa popolo di navigatori, almena embrionalmente, una scienza che permette di prevedere il ritorno periodico delle eclissi (Talete previde quella del 28 maggio 585) e di riferirsi all'Orsa Minore per individuare i punti cardinali. II mondo fisico, insomma, non e piu soltanto un campo di Iotta dove potenze soprannaturali personificate giocano, sulla testa degli uomini, il desti­no del mondo fisico stesso e di quello storico: esso e governato da precise re­gale sulla cui permanenza l'uomo puo contare, Ia cui articolazione segreta la sua intelligenza puo penetrare. La stoffa dell'universo, che gli orientali aveva­no dilatato all'infinito popolandola di infiniti mondi e movimentandola con una infinita serie di cicli di nascite e di morti (il samsara degli induisti), viene ridotta, dai pensatori ionici, ad una concatenata successione di mutamenti a partire da un principia semplice e determinabile dalla ragione. Prima che filo­sofi, essi sono cittadini impegnati a costruire lo Stato, e cioe a trasformare una moltitudine caotica nella organizzata e dunque ordinata convivenza della polis. Il trapasso dal caos all'ordine (kosmos, in greco) essi lo hanna proiettato dal cerchio ristretto delle mura cittadine allo sterminato orizzonte della natura, nella convinzione che i due mondi, quello umano e quello fisico, fossero inter­ni a una medesima razionalita. Anche Lao-tse, come abbiamo vista (1.12), tutto riporta alia Iegge del Tao, rna essa stava oltre i contini della ragione e si intui~ va nel momenta in cui si rinunciava a tradurla in concetti o in nomi. Non per nulla il vera saggio, per i taoisti, nega ogni importanza alia politica. Contra i taoisti, Confucio (1.15) riduce il compito dell'uomo a un ordinato impegno nell'osservanza delle tradizioni sociali, lasciando nel numero dei problemi in­solubili quelli relativi al principia dell'universo e al destino ultimo dell'uomo.

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Il pensatore ionico riconduce il Tao dentro i confini della razionalita umana e fa dell'i_!llpegno politico non un ossequio aile tradizioni rna una Iibera creazio­ne di ordinamenti pubblici. Non si cade nella retorica dunque se si dice che, col pensiero greco, e piu precisamente con quello ionico, ha origine un umane­simo nuovo, nel contesto della sapienza dell'eta assiale, un umanesimo in cui l'uomo si pone dinanzi alia realta con Ia pretesa di conoscerla e di dominarla.

1.29 I filosofi <<fisich>. Fino a qui abbiamo analizzato e anche accentuato la diversita ionica per meglio coglierne gli aspetti differenziali. Nel concreto, i pensatori ionici conservano non pochi tratti della matrice orientale che in qualche misura li ha partoriti. La connessione mitica tra gli elementi e gli eventi di natura sopravvive anche in !oro, intrecciandosi, a volte in modo con­traddittorio, con Ia nuova razionalita che tenta di disvilupparsi, come i Prigio­ni di Michelangelo, dal poderoso rna infqrme massiccio del misticismo d' orien­te. La leggenda che fa di Talete un prodotto di sangui diversi, ionico, cario e fenicio, e quasi emblematica di questa filosofia che mantiene, allo stato di mi­scuglio piu che di sintesi, gli apporti delle tradizioni straniere e le novita em­brionali destinate a crescere.

Oltre ai tre filosofi della cosiddetta scuola di Mileto*, Talete, Anassimandro e Anassimene, al mondo ionico-asiatico appartengono anche Pitagora di Sarno, che visse nella Magna Grecia, Senofane di Colofone, che fu nomade come un ae­do omerico, Eraclito di Efeso, che visse nella sua citta in un aristocrati­co isolamento, e Anassagora di Clazomene, che introdusse la ricerca filosofica in Atene, trapiantando cosi nella madrepatria il virgulto rigoglioso della 'colo­nia' ormai sopraffatta dalla potenza persiana. Se ci tratteniamo, in questo ca­pitola, solo sulla triade dei pensatori milesii, che sono oltrettutto cronologica~· mente i piu antichi, e perche essi svolgono, in concorde discordia, una medesi­ma intuizione scientifico-filosofica che e davvero l'arche (parola greca che si­~ifica 'principia') da cui ha tratto origine la grande galassia del pensiero ellenico.

L'intuizione comune e che sotto Ia varieta dei fenomeni della natura c'e qualcosa di permanente che sta alla loro origine e che governa dall'interno i !oro mutamenti e le loro combinazioni. Come spiega Aristotele (e stato lui a dare la prima lettura, che oggi ci appare peraltro molto riduttiva, della filoso­fia ionica), questi filosofi «affermano che cio di cui tutti gli esseri sono costi­tuiti e cio da cui derivano originariamente e in cui alla fine si risolvono e ele­mento ed e principia degli esseri, come realta che permane identica nel tramu­tarsi delle sue modificazioni».

Per Talete*, questa elemento originario e l'acqua, <<desumendo egli indubbia­mente -. prosegue Aristotele - questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose e umido e che perfino il caldo si genera

Tav. 6 - II mondo dal mito alia scienza. Ecco come gli indiani (a) gli ebrei (b) e il greco Anassimandro (c) si raffiguravano il mondo. Si tratta di tre tappe dal mito alia scienza, dall'oriente all'occidente.

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dall'umido e vive nell'umido. Ora, cio da cui tutte le cose si generano e, ap­punto, il principio di tutto».

L'acqua di Talete non e proprio quella di cui noi ci serviamo, non e l'H20 dei nostri libri di chimica. C'e come una doppia valenza nell'elemento ritenuto da lui~ originario: una materiale, e allora la sua dottrina si presenta come scientifica, nel senso che mira a spiegare, come sempre vuole la scienza, i dati di natura con dati di natura, e una simbolica, e allora quel che conta, nella dottrina di Talete, none l'indicazione ingenua dell'acqua, rna il postulato di un

/~principio universale della natura che non si identifica con nessuno dei singoli elementi, rna tutti li supera. E da questo postulato che nascera ben presto la filosofia metafisica.

Quasi assecondando questo slancio dal fisico al metafisico, Anassimandro* ripone iJ.' principio originario, 1' arche, nell'infinito o meglio nell'indefinito (in greco apeiron), proprio perche non e concepibile che da un elemento determi­nate derivino gli altri elementi determinati, ad esempio la terra dall'acqua. So­lo da un principio indeterminate possono derivare i singoli elementi. Tra la polarita fisica e quella metafisica Anassimandro si sposta nettamente verso questa seconda.

Invece, verso la polarita fisica sembra ritornare Anassimene*. «Come la no­stra anima - cosi dice un suo frammento -, che e aria, domina noi, cosi an­che spirito ed aria dominano tutto il cosmo». Secondo alcune testimonianze, l'aria di Anassimene sarebbe niente piu che il 'vuoto' che si dilata o si restrin­ge nei processi di rarefazione e di condensazione. In questo senso, egli sarebbe all'origine di quella filosofia meccanicistica, di cui presto diremo, secoqgo la quale il mutamento delle cose deriverebbe solo dal fatto meccanico dell'aggre­garsi e del disgregarsi degli elementi semplici. Ma altri sottolinea il termine 'spirito' o 'soffio' (in greco il vocabolo e lo stesso) con cui Anassimene designa l'aria. Ci troveremmo allora agli inizi di quella filosofia, ricca di sviluppi fino al nostro Rinascimento, che pone al centro del cosmo un principio vitale e di­namico, chiamato variamente fuoco, o soffio, o soffio infuocato.

Questa ambivalenza dei milesii e forse dovuta al fatto che non possediamo di loro nessuna opera che ci permetta una diretta interpretazione del loro pen­siero. Ma forse e dovuta anche al fatto, gia sottolineato, che il loro e un pen­siero in formazione, dove il mitico e lo scientifico, il simbolico e il concettuale sono ancora tra loro intricati. Solo in seguito la conoscenza intellettuale come attivita a se stante riuscira a liberarsi, con obiettivi e metodi specifici, dalla totalita delle forze spirituali. Quando, ad esempio, Talete dice che «tutto e pie­no di dei», sembra ancora un discepolo del panteismo cosmico dei sumeri. E quando leggiamo l'unico frammento rimastoci di Anassimandro:

le cose dalle quali viene agli esseri Ia nascita, in quelle avviene anche la !oro dissoluzione secondo necessita, poiche le une aile altre rendono giusti­zia dell'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo

il nostro pensiero corre agli antichissimi testi vedici, nei quali l'esistenza sembra l'effetto di un peccato originario, quello della separazione da Brah­man, e la vita una lunga espiazione che riconduca all'unita. Mail panteismo di

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Talete puo essere anche inteso come una rivendicazione della religiosita intrin­seca al pensiero laico, che non ha bisogno di templi e di simboli sacri, cosi co­me il nesso religioso-morale posto da Anassimandro tra le cose che nascono e quelle che muoiono puo anche valere come affermazione di una razionalita ('necessita') che soggiace a tutto, perfino a! disordine di cui ci da spettacolo il disgregarsi delle case.

Senza dubbio, se Ia caduta di Mileto sotto la dominazione persiana e piu tardi l'invasione della madrepatria da parte di Serse avessero inglobato il mondo ellenico nel grande impero mediorientale, l'episodio culturale di Mileto si sarebbe dissolto nel grande oceano della cultura religiosa dell'oriente. Mala storia ebbe un altro corso, ed e appunto sulla base di quanta da quel germe si e sviluppato che ci e possibile valutare in pieno la svolta dello spirito accaduta nella Ionia. Se siamo esitanti, oggi, nel dire, con Hegel, che allora e non prima nacque Ia filosofia, nessuna esitazione possiamo avere nel dire che allora nac­que, se non proprio la scienza, lo spirito scientifico che ha data forma all'occi­dente, anzi al mondo moderno. Non si puo fare una storia della geografia, del-

La 'scuola di Mileto'. Talete (640-546): fu mercante, uomo di stato, inge­gnere, matematico e astronomo, nel sensa limitato e generico che poteva­no avere a quei tempi simili professioni. Non ha lasciato nulla di scritto e quanta ci hanna tramandato di lui i discepoli e spesso contraddittorio: ora ci viene presentato cosi preso dalle sue astrazioni che un giorno, nel cam­minare osservando le stelle, cadde in un pozzo suscitando le risate di una vecchietta, ora cosi calcolatore e realista da utilizzare le sue previsioni me­tereologiche per prendere in affitto tutti i frantoi di Mileto, accaparrando­si cosi quasi l'intero prodotto delle olive di un'annata ottima. Viaggio mol­to. Conobbe sicuramente l'Egitto, da dove, al dire di Erodoto, porto la geo­metria. Gli viene attribuito anche un viaggio a Babilonia, da dove avrebbe riportato le sue cognizioni sul ritorno periodico delle eclissi e forse il milo del diluvio, che gli avrebbe suggerito il principia piu importante della sua filosofia. In rapporti con Creso, re di Lidia, avrebbe deviato su sua com­missione il fiume Halys. Fu annoverato fra i sette sapienti della Grecia.

Anassimandro (610-545): discepolo e amico di Talete. Scrisse un trattato 'Sulla natura' di cui possediamo solo il frammento che riportiamo nel te­sta. Disegno per prima la carla geografica del mondo conosciuto. Sviluppo alcuni complicati strumenti astronomici inventati dai Caldei. Cosmologo, descrisse la terra come un cilindro sospeso, per la Legge d'inerzia, entro la sfera celeste. Biologo, intui che la vita e venuta dalle cavita marine: gli uo­mini sarebbero derivati da pesci gettati sulla crosta terrestre. Sembra che abbia costruito un orologio e diviso il giorno in dodici parti.

Anassimene (585-528): discepolo di Anassimandro. Ci restano di lui due o tre frammenti. Anche le notizie sulla sua vita sono scarsissime e incerte.

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la cosmologia, della matematica, della biologia senza partire da Mileto. E da allora che l'universo fisico e apparso come uno spazio misurabile e occupato da esseri governati da una medesima legge. E da allora che il pensiero dell'uo­mo ·ha posto a suo fondamento l'osservazione diretta delle cose, scrollandosi di dosso la pesante ipoteca delle tradizioni religiose che rischiano di svuotare· l'individuo di ogni autonomia e di ogni ardimento critico. In confronto alia sa­pienza millenaria custodita dalle caste sacerdotali d'oriente, la vivacita spre­giudicata dei greci doveva dare l'impressione di una specie di infantile traco­tanza, gravida di errori rna anche di forza creativa. Viene a mente quanto dis­sea Solone, secondo un racconto platonico, un sacerdote egizio: «Voialtri gre­ci sieti sempre dei fanciulli: restate tutti giovani nelle vostre anime>>.

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Sommario. Sullo sfondo di una comune sapienza ongmaria, il pensiero ellenico si differenzia da quello orientale svincolandosi dal mito e tentando una spiegazione del mondo di tipo scientifico (1.1). Peraltro questa polarita mondana non annulla mai l'altro polo, quello del senso tragico dell'esistenza che meglio risponde all'esperienza dei ceti subalterni o emarginati. Di qui la tensione, propria del genio greco, tra l'ideale apolli­neo (Apollo e il clio del dominio e dell'armonia razionale imposta alle cose) e l'ansia di una liberazione da una <;!ondizione di vita segnata dall'ingiustizia e dal dolore (Dioniso e Ia divinita attorno alia quale si sviluppano i miti e i riti di liberazione) (2.2). L'ideale apollineo prevale nei poemi omerici nei quali il mondo degli eroi e quello degli dei olimpici si compenetrano, ponendo ai margini Ia minaccia degli dei inferi (2.3), mentre nei poemi di Esiodo hanno voce i ceti emarginati che invocano giustizia (2.4). Ma, al di fuori della tradizione poetica, a dar forma allo spirito ellenico molto hanno contribuito le tradizioni dionisiache i cui riflessi si ritrovano non solo nella grande arte, specie la tragedia, rna anche nel pensiero filosofico (2.5).

Il filosofo che esemplifica la convivenza di questo doppio mondo, quello etico­religioso e quello razionale, e Pitagora, nella cui comunita i prindpi sapienziali si ac­cordano con l'esercizio del calcolo. sia musicale sia astronomico (2.6-8). Ma mentre in Pitagora Ia ragione geometrica resta interna ad una visione religiosa del mondo, in Era­clito e Ia ragione (Logos) che assume e risolve in se la tradizione-religiosa e diventa il priudpiu ui unificazione della realta contradditoria dell'esperienza (2.9-10). Si apre cosi il problema del rapporto tra <<i molti» dell'esperienza e «l'uno» della ragione. A risolver­lo nella pili rigorosa affermazione dell'unita, anzi unicita dell'Essere e dell'identita tra Essere e Ragione furono gli Eleatici (2.11-16).

Ma se solo l'Essere e, come « salvare i fenomeni»? Come dare cioe un fondamento al­Ia realta quale i sensi ce l'offrono? Empedocle, nel quadro di una visione dionisiaca del mondo, ripone le caratteristiche dell'Essere non nell'Uno rna in ciascuno dei quattro elementi, aria, acqua, terra e fuoco, le 'radici del mondo' (2.17 -2.19); Anassagora in un'infinita di semi qualitativamente diversi e tra !oro aggregati dall'Intelletto (2.20..21); Democrito in un'infinita di particelle indivisibili (atomi) dotate di movimento: il mondo non e che un'imrnensa macchina (2.22-23).

ln Cina, l'immobilismo della tradizione confuciana ha prodotto la contrapposizione della 'scuola dei logici' di tendenza scettica. AI di fuori di questo conflitto prende piede l'insegnamento di Mo-tse, ispirato a! rigore ascetico di tipo militaristico e all'amore uni­versale (2.24-26).

In Israele, l'esperienza dell'esilio in Babilonia suscita nel popolo la tensione verso un futuro nuovo, alla quale danno voce i profeti messianici. Dopo il ritorno in patria, alla profezia si sostituisce una riflessione sapienziale sui grandi temi della tradizione,

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Oriente e occidente

2.1 II 'miracolo' greco. Nel chiudere il disegno delle origini del pensiero umano ci siamo soffermati sui gruppo dei filosofi di Mile to ( 1.29) per mettere in evidenza, sullo sfondo della sapienza orientale, la 'novita' ellenica. Non e giusto quanto per lo piu si dice, che solo allora, nella Ionia del VI secolo, la ragione umana si sciolse dall'involucro del mito dando inizio alla grande av­ventura che avrebbe fatto dell'homo sapiens, sottoposto per l'innanzi agli arb!tri di potenze soprannaturali e ai pregiudizi delle tradizioni, un creatore della propria storia. Basterebbe, a suggerire giudizi meno sbrigativi, quanto abbiamo detto del grande illuminato di Benares, Gotamo Buddha (1.21), che, appunto nel VI secolo, avvio un grandioso processo di emancipazione della ra­gione da ogni ingombro superstizioso e perfino da ogni preoccupazione per il problema di Dio e dell'aldila. E vero, invece, che nel buddismo e, piu in gene­re, nel pensiero orientale la ragione obbedisce a esigenze che sono non quelle sue proprie, di ordine conoscitivo, rna di ordine morale. Muovendosi all'inter­no di una intuizione preliminare ch@ identifica la vita col dolore, essa, invece di ricercare le cause fisiche del mondo e i nessi che stringono l'uomo alla na­tura e alla societa, trova il suo compito nel dissolvere, attraverso l'analisi, il tessuto di percezioni da cui emergono, parvenze menzognere, sia l'io che il mondo.

La divaricazione del pensiero greco- gia evidente nei suoi esordi ionici­si da nel superamento, non con piatta mondanita rna con sofferta dialettica, della pregiudiziale pessimistica sul significato della vita e sui compito dell'uo­mo nella citta e nel cosmo. La scelta greca e la scelta della ragione come stru-· mento architettonico che consente di trasformare il caos dell'esperienza sensi­bile in un ordinato sistema di fenomeni, il conflitto degli interessi individuali e di classe nell'organismo unitario della citta, il non-senso di una vita domina­ta dall'incombenza della morte in un progetto di esistenza relativo, si, rna col­mo di significato universale. Una via del genere comporta che l'uomo si liberi dalla paura degli dei- cosa che anche Buddha fece- rna soprattutto dal sen­timento, profondamente radicato nella psiche umana, che la volonta di vivere sia gia di per se un male, fonte di sofferenze .. Senza annullare quel senti men to tragico- che anzi rimane, come vedremo, un suo polo costante- la raziona­lita ellenica ha tentato di umanizzare i cieli e gli inferi ponendo gli uomini co­me misura assoluta di tutte le cose. Anche Zaratustra e i profeti di Israele (1.23-26) rigettarono la via contemplativa indiana, sia quella laica di Buddha sia quella religiosa delle Upanishad, accomunate nell'intento di vanificare l'in­volucro dei fenomeni terreni, e fecero della fede religiosa una passione volta a

Tav. 7 -La Grecia classica. Nei secc. VI-IV a.C. i Greci hanna, come mo­stra Ia cartina, una larga egemonia nel Mediterraneo, le cui coste ospitano numerose colonie elleniche che sono centri di cultura oltre che di com­mercia. La presenza dei Fenici si fa, al confronto, sempre meno importante.

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trasformare il mondo in conformita con i voleri di Dio. Solo che lo zelo dei profeti, capace di svegliare la responsabilita delle coscienze dinanzi ai compiti terreni, non era in grado di fornire la cognizione delle cause che reggono tanto il divenire del mondo quanta l'organizzazione della citta, cause che, nel loro si­stema di correlazioni, sono come la ragione oggettiva del mondo, simmetrica alla ragione soggettiva dell'uomo. I profeti hanna dato i1 sensa ultimo della storia rna non le leggi del suo divenire, ne la dignita morale dei suoi fini inter­ni al tempo.

E. qui il miracolo greco, in questa conciliazione, o almeno in questa pro-/ getto di conciliazione, tra la razionalita interna al cosmo e Ia razionalita

'" umana. Anche i taoisti (1.12), fedeli in questa a uno dei principi costituivi della sapienza cinese, avevano identificato la ragione - il Tao - che governa il mondo con quella che governa l'uomo, rna poi da questa certezza trassero la conclusione che la Iegge naturale va lasciata agire da se stessa, senza distur­barla con l'intraprendenza umana:- il non-agire, il non-pensare valgono piu dell'agire e del pensare. La controffensiva confuciana (1.15-16) per dar sensa alia societa esteriorizzo l'armonia del Tao nel complesso delle regale di com­portamento sociale, cadendo cosi nel conformismo, che giustifica le gerarchie esistenti e scoraggia ogni volonta creativa. Il caso confuciano mostra come in Oriente nemmeno la linea 'mondana' del pensiero trovasse una valida alterna­tiva al senso dell'assoluto che svuota il relativo, dell'infinito che svilisce il fini­to. Per gli orientali l'infinito e assenza di limiti, assenza di qualsiasi determi­nazione. Per i greci, l'infinito e pienezza di determinazioni. La sua vera imma­gine non e uno spazio inerte senza confini, e una sfera (la piu razionale delle figure geometriche) che tende a una illimitata espansione di se.

Anche nell'arte gli orientali ricercano, per lo piu, il grandioso, il colossale, le figure mostruose, dalle molte braccia e dalle molte teste. I greci seguono due regale: la rassomiglianza tra l' opera d' arte e il reale e la conciliazione tra il reale e l'ideale, in modo che la raffigurazione fisica incarni in se l'universali­ta di un'idea. Si pensi aile statue di Prassitele o di Fidia, ai templi di Atene o della Magna Grecia: la materia e come assorbita in un gioco astratto di misure e di corrispondenze nelle quali, senza concessioni all'impulso che cerca l'ab­norme come segno suo proprio, risplende la luce della razionalita. Nella sinte­si dell'arte, la materia e sostituita dall'idea e }'idea e sostituita dalla materia. E. per questa via che i greci hanna creato un mondo di valori che resta uno dei retaggi piu preziosi nella memoria dell'umanita, smarrito il quale anche l'uo­mo di oggi sarebbe mutilato di una parte essenziale di se. Si capisce perche, per venticinque secoli, l'uomo greco sia rimasto, in occidente, una misura as­soluta e come tale artificiosamente idealizzata. L'immagine classicistica del 'miracolo greco' (un'immagine che in questi ultimi tempi e stata sottoposta a severa revisione), nell'intento di esaltare il trionfo della razionalita avvenuto nell'Ellade del VI secolo, (tav. 7) feriva la verita delle cose in due sensi: negan­do validita filosofica al pensiero orientale e isolando astrattamente lo svolgi­mento del pensiero teorico greco dal sentimento tragico della vita in cui inve­ce esso affonda le sue radici. Del primo equivoco e parziale confutazione il ta­glio che abbiamo voluto dare a questa nostra storia del" pensiero: essa abbrac­cia l'intero orizzonte della vicenda spirituale dell'umanita, lasciando aperta la

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questione della differenza tra pensiero in generale e pensiero filosofico in sen­so specifico. Del secondo occorre dire subito, sia pure in modo indiretto, e cioe mediante la narrazione delle origini del pensiero greco.

2.2 Apollo e Dioniso. Non si dimentichi che le stirpi elleniche, discese, in ondate successive, nella penisola greca, nelle isole e lungo le coste bagnate dall'Egeo, nel sovrapporsi a una civilta che era coeva a quella egizia e a quella mesopotamica portavano con se un patrimonio culturale comune agli altri po­poli indoeuropei, come gli indoariani e gli indoiraniani (1.28). La scoperta, re­lativamente recente, della civilta minoica dell'isola di Creta ha aperto uno spi­raglio che ci lascia intravedere qualcosa di quel mondo preellenico che era una propaggine del grande universo delle Civilta primitive. Abbiamo gia visto come alla base di queste civilta ci fosse una intuizione tragica della vita. 11 sentimento che l'esistenza fosse, gia di per se, in quanto separazione dal tutto, una colpa che chiede espiazione, attraversa, con esiti diversi, le profondita del­la coscienza arcaica. Sembra quasi che, uscendo dalla propria preistoria ani­male, l'homo sapiens non abbia trovato una ragione del proprio essere al man­do; in quanto inesplicabile, l'esistenza gli apparve anche illegittima. I conflitti tra la sua istintivita e le norme necessarie anche alia piu elementare forma di convivenza, tra i suoi sentimenti e le meccaniche necessita della natura, diven­nero supremo conflitto trail mondo e il Fato; e il Fato che fa emergere il man­do dal caos e ve lo reimmerge, in una vicenda alterna e senza fine. Perfino gli dei sono sotto, non sopra l'arco del Destino che, cieco e muto, amministra la loro sorte come quella degli uomini, con un arbitrio indecifrabile. Ma se la ra­gione non abita la dove tutto si decide, allora il nonsenso pervade l'intera tra­ma delle cose, allora anche le pulsioni di vitae quelle di morte irrompono sen­za disciplina, riflettendo sulla terra la stessa mostruosita che sta nel recesso piu segreto dei cieli. Unica salvezza e nella fuga mistica dal caos, in una fuga, cioe, che congiunga la memoria oscura di una colpa originaria e l'anelito per un mondo diverso da quello presente, magari dopo una sterminata serie di reincarnazioni.

11 miracolo greco non consiste in uno sradicamento da questo oscuro spes­sore rna nella capacita di emergerne, conquistando senso al vivere terreno me­diante un orientamento della ragione che la renda mondana, legislatrice degli istinti, della societa e della natura. A seconda del diverso campo in cui si eser­cita l'egemonia della ragione, abbiamo la saggezza che si contrappone alla tra­cotanza, la bellezza che si contrappone al deforme, la determinazione concet­tuale che si contrappone alia mutevole opinione, la felicita, riflesso dell'amore per il bene, che si contrappone alla ricerca del piacere. L'articolata connessio­ne di questi valori, che assorbono e trascendono l'immediatezza dell'esperien­za vitale, disegna l'armonia ideale di cui cogliamo i riflessi in tutte le espres­sioni del genio greco, tra le quali la piu importante e, forse, proprio la filoso­fia. E bene pero ricordare che l'armonia greca non stacca mai gli ormeggi dal fondo tragi co dell' esperienza, col quale anzi mantiene un rapporto di tensione, quasi fossero, l'una e l'altro, l'armonia razionale e il senso del tragico, due po­larita egualmente essenziali alla vera fecondita dello spirito. Se, con urra ter­minologia messa in uso, nel secolo scorso, da Friedrich Nietzsche, chiamiamo

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apollineo (da Apollo, il dio della bellezza) il lato armonioso del genio greco e dionisiaco (da Dioniso, il dio dell'ebbrezza, di cui presto diremo) illato tumul- } tuoso, possiamo dire che il genio greco non sostituisce lo splendore apollineo alla notte dionisiaca rna semplicemente assoggetta al dominio della forma chiara e distinta il tumulto tragico delle ebbrezze e delle disperazioni. Ma, pur assoggettato, il regno di Dioniso preserva per se dei larghi margini di rivincita e in ogni caso, tenendo vive le proprie tensioni, contrassegna dall'interno gli stessi risultati delle conquiste razionali.

Sommariamente, e senza troppo calcare la distinzione, potremmo dire che 1'ideale apollineo riflette il vigore e Ia felicita del vivere propri delle classi do­minanti, dalle aristocrazie dell'eta oi:nerica ai ceti borghesi - terrieri o arti­gfanali o commerciali - che dettero vita alla polis greca nel suo massimo splendore, mentre l'esperienza dionisiaca fu tenuta viva dai ceti rurali, sempre pili emarginati, dalle plebi cittadine e dagli schiavi che arrivavano dai mercati del Mediterraneo. A meglio illustrare questa caratterizzazione classistica delle due tendenze (da intendere, come si e detto, in modo niente affatto rigido), ba­stera confrontare i diversi ideali di vita che si esprimono, prima ancora che nell'arte e nella filosofia, nella religione ~greca.

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2.3 L'Olimpo omerico. Durante i secoli IX e VIII la memoria della civilta micenea riemerge negli aedi della Ionia, piu che come evocazione nostalgica, come raffigurazione della volonta di vivere proiettata in una sfera sovratempo­rale, gremita di dei e di eroi. L'IIiade e l'Odissea* mostrano come, a meta cam­mino tra la caduta di Micene e i primi albori del pensiero ionico, Ia coscienza greca fosse gia, quasi per miracolo, pienamente formata, sia pure nell'involu-

L 1liade e lOdissea sono due poemi epici attribuiti ad Omero, fino a quando la critica moderna, a partire dal filosofo italiano G.B. Vico, non ha dimostrato che essi sono non opera individuale rna collettiva. Alla foro origine, forse nel secolo IX, ci sono dei cantori poeti (aedi) che, al suono della cetra, narrano, nelle corti o nelle adunate religiose della Ionia, gli episodi mitici riguardanti piu o meno direttamente Ia guerra degli Achei (i greci dell'eta micenea) contra la citta di Troia, avvenuta nel X// secolo. Tramandate a memoria, le composizioni degli aedi furono successivamen­te racculte per argomento dai rapsodi (cucitori di canti): Omero potrebbe essere stato uno di [oro. Alia fine del secolu V//1 i due poemi avevano rag­giunto Ia consistenza attuale, rna solo nel secolo VI, per iniziativa di Pisi­strato, tiranno di Atene, furono redatti nella forma definitiva.

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cro del mito, e ricca di quella varieta di modelli umani che si dispieghen\ in seguito sia nell'arte che nella filosofia. Diversamente che nelle epopee orientali, pope­late di figure mostruose e di vicende totalmente lontane dal verosimile, nei poemi omerici domina quasi sempre quel sensu del limite e della misura che e il segno apollineo del genio greco. L' lliade ci dispiega dinanzi un mondo solare dove campeggiano dei ed eroi che vivono in una medesima immediatezza, pas­sando dall'impulso all'azione senza le mediazioni dell'inquietudine morale, realizzando, come d'istinto, quell'equilibrio tra bellezza e virtu virile che sara in seguito teorizzato come ideale etico ed estetico dei greci. L'Odissea ci svela, pur dentro una trama avventurosa, un mondo piu crepuscolare, dove hanno predominio le nostalgie domestiche e dove la vita e meglio scandita sui ritmi del vivere quotidiano, dopo che si e chiusa l'ora solenne delle battaglie. Ma nell'uno e nt(ll'altro poema il mondo omerico e un mondo di ideale serenita, come quello raffigurato da Efesto sullo scudo di Achille: il sole, la luna e le stelle splendono su due citta assediate da guerrieri e difese da uomini, donne e bambini; in un ·campo gli aratori tracciano solchi ordinati; in un altro i mie­titori falciano il grano e lo raccolgono in covoni; in un altro si celebra con al­legria una vendemmia. Attorno a questa corale fatica dell'uomo corre, in cer­chio, il gran padre Oceano, limite invalicabile di quell'Olimpo terreno, indizio esplicito del destino di morte che accerchia le opere e i giorni dell'uomo. Il meriggio omerico ha sempre confini notturni, non e mai presuntuoso oblio del limite. Achille ed Ettore si danno luce a vicenda, ed e singolare che il pathos orne rico tocchi il massimo proprio nel dipingere E ttore, 1' eroe nemico. AI di supra degli antagonismi c'e infatti una patria comune: quella della gloria, a cui ha accesso chiunque muoia per la causa per cui combatte. Questa patria ha sede soltanto nella memoria dei vivi. L'idea della morte e dell'oltretomba, dove le anime sono poco piu che larve, entra nell'etica omerica come limite, che umanizza gli eroi distinguendoli dagli dei, e fa trasparire, dietro l'arazzo delle loro gesta, l'ombra di un comune destine, che la tracotanza ignora rna la saggezza richiama, a dar contegno alle passioni. Quell'idea non infrange pen) la corposa volonta di vivere dei guerrieri e lascia intatta l'immagine della loro giovinezza fisica e morale. In questa immagine, costruita dagli aedi, riconobbe se stessa l'aristocrazia guerriera dei secoli IX e VIII, che Ia trasmise ai ceti so­ciali che avrebbero creato la nuova Ellade, frantumata politicamente rna spiri­tualmente unita appunto dalla memoria di quella umanita ideale, un po' come, nell'ideologia di Confucio (1.16), la classe dirigente cinese trovava unita nella memoria degli imperatori delle origini.

Il fatto singolare e che anche la religione, in questo universo di guerrieri, perde il suo carattere di anelito verso la trascendenza e si fa, in qualche modo, mondana. Quali gli uomini, tali gli deL L'Olimpo omerico non e che un rifles­so, in una sfera di immortalita, dello stesso ideale di vita incarnato da Achille, Agamennone, Diomede, Aiace ed Ettore. Le dodici divinita maggiori - tante sono nel Pantheon omerico -, senza piu le genealogie complicate e spesso mo­struose che attribuiva loro la tradizione arcaica, vivono una vita che e, ne piu ne meno, quella degli uomini di alto lignaggio. Non sono piu divinita naturali­stiche, nel senso che non si identificanq con le potenze della natura, sulle qua­li anzi la loro volonta signoreggia, volgertdole a proprio arbitrio. Ma nemmeno

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sono, propriamente parlando, divinita religiose, perche nulla dicono alia co­scienza che avverta il fascino e il terrore del mistero. Nei loro palazzi eterei esse assistono Zeus, il loro monarca, con riunioni di consiglio e con assemblee (alle quali sono ammesse anche le divinita inferiori) e ingannano l'interminabi­le tempo con intrighi, tresche, competizioni, in cui e assente ogni idealita mo­rale. Apollo e !'Achille dell'Empireo: ha del Pelide l'abilita nell'uso delle armi rna non !'aureola umanissima del presagio di morte. Conosce l'arte della cetra con cui rallegra i banchetti celesti e dirige la danza delle Muse. None ancora il dio dell'oracolo di Delfi, che tanta importanza avra nella Grecia classica, rna e gia l'incarnazione dell'ideale di bellezza a cui clara forme marmoree lo seal­pella di Prassitele. E con Apollo, di pari importanza, Atena, la dea della sag­gezza, Ares, il dio della guerra, e Afrodite, la dea dell'amore. Come gli dei dei Sumeri (1.4) gli dei greci solo in apparenza hanno un loro mondo: in realta, il loro vero mondo e quello degli uomini. Ma mentre a Sumer gli dei sovrinten­devano le incontrollabili potenze della natura, delle quali avevano le forme in­determinabili o mostruose, nell'Ellade gli dei esprimono e tutelano l'armonia dell' esistere terre no, al di la del bene e del male, senza vincoli morali, cioe, e al di la della morte, perche le loro coppe sono colme di ambrosia, bevanda dell'immortalita. Gli dei infernali della tradizione, come Posidone, Persefone e Hades, hanno un posto di margine nel consorzio delle divinita omeriche, ap­punto perche ogni presenza del caos e del tormento avrebbe turbato la serena smemoratezza degli olimpici. Unico segno che anche gli dei sono circoscritti da un potere non soggetto alia Iegge dell'armonia e l'intervento del Fato (Moi­ra), i cui decreti nemmeno Zeus puo modificare.

Ecco dunque l'universo omerico: al di sopra degli dei la Moira, al di sotto degli uomini l'Hades: in mezzo, la solidale societa di uomini e di dei, accer­chiata da oscure potenze. Ma proprio perche circoscritta dalla tenebra l'oasi della bellezza ellenica non e un sogno infantile, e una virile e laica contrappo­sizione dell'umana volonta di vivere all'altrettanto umana consapevolezza di un destino ineluttabile e senza ragione. Apollo non sta senza Dioniso.

2.4 Esiodo. Non solo, rna il trionfo di Apollo su Dioniso e sempre precario: esso vive piu nella immaginazione che nelle cose, esprime piu un ideale che non l'esperienza reale della vita. Ci vorra, per renderlo meno instabile, il tra­passo dall'immaginazione alla ragione, nella quale il nesso tra il reale e l'idea­le si fa compito incessante, fatica umana immersa - come attivita artistica, politica e scientifica - nel cuore del divenire della storia. Per adesso, prima che il trapasso abbia inizio - e lo ebbe, come abbiamo vis to ( 1.27 -29), nella Io­nia del VI secolo -, la spiegazione del mondo e della vita dell'uomo avviene per proiezione mitologica, dove la ragione e non gia assente rna inviluppata nella propria matrice. Il mito omerico rispecchia la nostalgia dell'eta eroica quale sopravviveva nelle corti ioniche. Il popolo legato alla fatica dei campi e dei marl. non ritrovava se stesso nella serena accolta degli dei olimpici. In Omero, il ceto popolare e rappresentato appena da Tersite o da Eumeo, che m realta rappresentano, oltre che l'umile gente, la generalita degli abitatori dell'Ellade. I quali, dal punto di vista religioso, hanno u.na memoria radicata piuttosto nelle mostruose teogonie che gli aedi omerici, complici con le aristo-

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Esiodo. Vissuto nella seconda meta del secolo Vlll a.C. ad Ascra, in Beozia, Esiodo, pur dccupandosi di agricoltura e di pastorizia, compose due opere, Ia Teogonia e Le opere e i giorni, la prima dedicata alla genea­logia degli dei, la seconda all'esaltazione della giustizia, di cui e vindice Zeus, e del lavoro, legge imposta dagli dei all'umanitii. Delle due opere possediamo solo frammenti.

crazie, avevano come si e detto, rigettato ai margini, per lasciare spazio alla gagliarda bellezza di Apollo o di Atena.

Il poeta, contadino e pastore, che diede voce alla condizione degli oppressi e piu generalmente alla visione pessimistica della vita fu Esiodo*( sec. VIII a.C.), uno dei due padri, insieme a Omero, della teologia greca, come lo defini Erodoto. Per lui il mondo degli eroi e gia morto, o meglio i veri eroi sono i contadini e i pastori che vivono di onorato lavoro, non gli aristocratici 'divora­tori di doni', ne i perdigiorno, come suo fratello Perse, che dilapidano il frutto delle fatiche altrui. Con Esiodo una nuova classe si fa strada, quella che inur­bandosi dara vita alla polis, nella cui cerchia contendera i1 dominic all'aristo­crazia. Ma per ora la futura borghesia e schiava della fatica della terra. L'op­pressione che la schiaccia ha il suo prologo celeste in una genealogia degli dei fitta di crimini e di capricciosi accoppiamenti e il suo prologo terrestre in un principia originario, che e il Caos. II prologo celeste e per Esiodo una concate­nazione causale (per questa Aristotele lo considero piu filosofo di Omero) che ha come anello di congiunzione con la storia degli uomini la tracotanza di Pro­meteo, il rapitore del fuoco, punito da Zeus con un dono malizioso, quello del­la donna, la peggiore di tutte le sventure. Fu la donna, Pandora, ad aprire il vaso di tutti i mali, che si precipitarono sulla terra. AI fondo resto, per bonta di Zeus, la Speranza. Che resta infatti agli uomini che vivono del proprio sudo­re se non la speranza? Non gia la speranza in un aldila, rna quella che rende tollerabile la fatica in vista dei suoi frutti e che, in un mondo di sopraffazioni, si affida alla giustizia (dike) che gli dei garantiscono. Laboriosita, speranza, giustizia: ecco l'etica di Esiodo, che per un verso bene esprime il genio elleni­co, fatto di operosita e di passione civica, per l'altro verso e destinata a rima­nere senza sviluppi omogenei alle proprie premesse di classe. Tre secoli dopo, anche nella scuola filosofica di Platone si dira che e dalla poverta che nasce la speranza, piu precisamente Ia tensione di amore (eros), rna il vero sbocco di questa tensione non sara piu la feconda fatica delle braccia, sara la contem­plazione teorica, riser-Vata ad uomini del tutto .;Sgravati dalla condanna del su­dore della fronte.

2.5 Orfeo. Questa rapido accenno al teologo delle plebi contadine ci intro­duce, in modo naturale, nei 'sotterranei' della spiritualita greca, dove non giungono le immagini divine che fanno la spola tra le loro dimore celesti e i templi costruiti in loro onore dalle oligarchie dominanti. Non riusciremmo a capire appieno l'universalita del genio greco se non tenessimo conto di questa suo lato recondite in cui esso si svela non diverse da quello dell'Egitto, dell'In-

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dia e della Persia. Se l'uomo greco ha saputo offrirci, in tutte le attivita dello spirito, un'immagine della totalita umana e perche ha saputo far convivere in se, come abbiamo detto, le due polarita, quella apollinea e quella dionisiaca, che disegn(j.llo, nel loro attrarsi e nel loro respingersi, uno spazio ideale in cui si muove per intero l'esperienza della vita. II momento della serena armonia emerge come un miracolo da un'esistenza, per cosi dire, notturna, in cui si trovano confinati, senza speranza di uscirne, le classi e i ceti che fanno da pie­distallo aile fortunate minoranze a cui e concesso di abitare l'olimpo terreno del privilegio. Non dobbiamo dimenticare che ad Atene, nel momento del suo apogeo, i cittadini a pieno titolo erano solo 40.000, contro 150.000 senza diritti (meteci, cioe forestieri, donne e bambini) e 100.000 schiavi: un sesto della po­polazione. L'informe plebe cittadina si trovava naturalmente collegata alla ple­be agricola da un medesi'mo destino di esclusione, estremamente propizio ate­ner vive e a propagare tradizioni religiose le cui origini si confondono con le religioni indigene, anteriori alia discesa dei greci, e con le propaggini delle tra­dizioni egizie, mesopotamiche e indiane. La costante di queste tradizioni e un sentimento della vita e della morte ricalcato sui cicli vegetali della nascita, della morte e della rinasci ta.

Se la polis si identifica con i ceti che fanno la storia, in quanto hanno in mano le attivita economiche, politiche e artistiche, i ceti subalterni sono fuori della storia in cui l'uomo supera se stesso nelle proprie creazioni: essi vivono nel tempo ciclico della natura, affidata aile cure degli dei sotterranei, gli dei dell' A de. Apollo e la personificazione del sole, e cioe della bellezza e del val ore virile (2.2); Dioniso, un dio escluso dall'Olimpo omerico, e la personificazione dell'Ade e, per estensione, di tutto cio che ferve, nel segno della vitae nel se­gno della morte, sotto la superficie solare della ragione. II suo culto ha forse origine nella Tracia, come quello di Orfeo col quale si intreccio sulla base di una affinita ideologica. Dioniso e Orfeo (come pure Demetra, la dea dei cerea­li, che era al centro dei misteri eleusini) furono le divinita della Grecia 'diver­sa', delle moltitudini anonime su cui gravava la fatica del vivere, del mondo femminile totalmente rigettato dalla vita pubblica e frustrato nella propria ca­rica istintiva. Dioniso, detto anche Zagreus, era figlio di Zeus e di Persefone, la dea dell'Ade. Ingannato dai Titani, giganti malvagi, viene da loro sbranato e divorato. Zeus incenerisce con il suo fulmine i Titani e forma con le loro cene­ri l'uomo, che pertanto e composto di un elemento malvagio, il corpo, e di un elemento divino, !'anima, frammento di Dioniso.

Orfeo era cantore e musico. Con la sua cetra trascinava dietro di se anima­li, piante e pietre. Innamorato di Euridice, dopo che questa, per il mon>o di un serpente, muore e discende all' Ade, varca anche lui la soglia sotterranea, am­mansendo col suono del suo strumento i mostri infernali e la stessa Persefone, che gli restituisce l'amata a condizione che nel viaggio di ritorno egli non si volga indietro. Trasgredita, per amore, Ia condizione, Orfeo perde per sempre Euridice e va randagio per le campagne, piangendo la sua donna, finche non e sbranato e divorato dalle Baccanti. Come si vede, si tratta di miti tragici che, nella ripetizione rituale, permettevano anche lo scatenamento degli istinti re­pressi: le donne, nei ri ti orfici, si aggiravano sulle montagne vestite di pelli di animali e con delle torce in mano, sbranavano le helve e si cibavano delle !oro

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carni crude. Il momenta orgiastico, producendo 1' oblio della vita quotidiana, forniva una provvisoria liberazione dal male del vivere.

Ma la vera via per uscire dal male del vivere era un'altra, fondata sull'idea dionisiaca che -l'anima e nel corpo come in una prigione. E la via ascetica, che comporta una dura disciplina degli istinti, in modo che l'anima, sciolta dai vincoli carnali, possa ricongiungersi a Dioniso, di cui e una scintilla perduta nel tempo. Se non le basta una vita, !'anima torna a incarnarsi (1.18) fino ache non avra portato a termine la sua purificazione. «Anch'io sono di stirpe divi­na», si legge in alcune !amine d'oro ritrovate nelle tombe della Magna Grecia, dove il culto orfico era molto diffuse. I seguaci di Orfeo costituiscono una ve­ra e propria setta religiosa, dotata anche di scritture sacre, il cui messaggio e la salvezza eterna da raggiungersi mediante l'ascesi.

La religione pubblica tento di addomesticare questo movimento spirituale. Nella cetra di Orfeo non c'e forse un riflesso di Apollo (anche lui suonatore di cetra), e cioe l'idea che l'armonia ammansisce tutto cio che nell'uomo produce angoscia e disordine? E difatti Dioniso fu ospitato e venerate, piu tardi, nel tempio di Delfi, sacro ad Apollo. Ma c'era nel movimento dionisiaco qualcosa di irriducibile all'ideologia dominante. La ricerca personale di salvezza e la su­bordinazione delle attivita terrene al desiderio di una vita futura estranea a questa mondo segnavano un limite che l'uomo apollineo non poteva varcare senza distruggere se stesso. Eppure la polis greca, su cui batteva la luce rasse­renante dell'Olimpo, custodi sempre, magari nel suo inconscio, la feconda in­quietudine dionisiaca, in cui ebbe le sue radici la grande tragedia di Eschilo e di Sofocle e a cui i maggiori filosofi della Grecia attinsero alcuni temi fonda­mentali (quello, ad esempio, dell'immortalita dell'anima) e l'ispirazione stessa della loro ricerca. Vuol certo dir qualcosa il fatto che Socrate abbia affrontato la morte invitando i suoi a far festa perche per lui stava per finire la 'malattia' della vita (3.7). ·

Quanto abbiamo detto basta a far capire che la contrapposizione tra me­mento apollineo e momenta dionisiaco ha valore solo come confronto di forme astratte della vita dello spirito e come individuazione della dialettica che ha animato dall'interno la storia del mondo greco. Per un verso, questa storia e parte integrante della gi·ande stagione che l'umanita visse, dalla Cina all'Italia meridionale (la Magna Grecia) con singolare comunanza di motivi e di sbocchi, fino al VI secolo (1.9-10); per l'altro, essa ha prodotto uno sviluppo singolare di quella stagione comune, sospingendola oltre il crinale che separa il versante del pessimismo cosmico e quello assolato della conciliazione tra l'uomo e la terra, tra }'anima e il corpo, tra l'eterno e il tempo, il versante insomma che e diventato cosi domestico a noi occidentali. In quest'opera Apollo e Dioniso hanno collaborate; la religione delle classi escluse ha ottenuto la sua rivincita permeando di se anche la religione, anzi la filosofia delle aristocrazie intellet­tuali. E quanta vedremo subito.

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Pitagora

2.6 La comunita pitagorica. Come abbiamo detto (1.27-29), fu nella Ionia che la comprensione del mondo comincio a sciogliersi dalle forme del mito per ricostruire mediante ragione il nesso causale che stringe le case sensibili a un 'principia' permanente e onnipresente. Quel principia non e fuori del man­do rna nel mondo, non si contrappone alia materia rna e in qualche modo, ma­teria anch'esso. Tocco a un altro ionico, Pitagora*, emigrato gUt quarantenne dalla natia Sarno a Crotone, nella Magna Grecia, portare avanti in modo deci­sivo l'intuizione che era rimasta allo stato embrionale nei pensatori di Mileto. In lui la compresenza della sapienza religiosa preellenica e della r:azionalita propria del pensiero greco e evidentissima. I suoi antichi biografi sono concor­di nel fare del giovane Pitagora un instancabile viaggiatore, assetato di una co­noscenza ben diversa da quella dei 'fisici' della vicina Mileto. «Ando lontano dalla patria», racconta Diogene Laerzio, <<e fu iniziato a tutti i misteri greci e barbari. Si reco cosl in Egitto, all'epoca di Policrate, ... imparo la lingua egizia­na ... si reco nella Caldea dai Magi. Inoltre visito a Creta la grotta dell'Ida e in Egitto visito i luoghi sacri e apprese le piu segrete dottrine degli dei». Un altro biografo lo ritiene addirittura discepolo di Zaratustra (1.24). E di fatto, fra tut­ti i pensatori greci, egli e quello che pili rassomiglia ai sapienti dell'Egitto e dell'oriente. Bello come Apollo, ci dice lo stesso Diogene Laerzio, vestito di una tunica e di un mantello bianco di lana, i suoi discepoli lo ritenevano un dio. Fu il prima a chiamarsi filosofo e cioe 'amante della saggezza' e non sag­gio, data che, diceva, «nessun uomo e saggio rna solo Dio». Pili che una scuola, la sua fu una comunita religiosa dalla vita austera, in cui avevano peso alcune regale 'conventuali', come quella dell'astinenza assoluta dalla carne e del riga­rosa silenzio periodico. E suggestivo ricordare che la comunita pitagorica si costitul proprio nel periodo in cui Buddha organizzo, dopa la sua illuminazio­ne, la vita monacale dei suoi discepoli, su regale non dissimili da queUe pita-

Pitagora. Di Pitagora sappiamo con buona sicurezza che nacque, attar­no al 570 a.C., nell'isola di Sarno e che, per dissidi col tiranno Policrate, lascio la patria nel 530, per stabilirsi a Crotone, in Magna Grecia, dove fonda la sua comunita filosofico-religiosa. Politicamente Crotone fu in rna­no ai pitagorici finche, attorno al 500, per una sommossa ispirata dal par­tito popolare, i locali della comunita non furono incendiati. La comunita si disperse. Lo stesso Pitagora si sarebbe ritirato a Metaponto, dove sareb­be morto dopa quaranta giorni di digiuno.

Tra i seguaci di Pitagora vanno ricordati il tiranno di Taranto, Archita, con cui Platone, nel 388 (4.1), ebbe contatti fruttuosi per lo sviluppo del suo pensiero e Filolao, che creo a Tebe una scuola floridissima di orienta­menta matematico.

Di Pitagora non possediamo nessuno scritto.

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goriche, in vista del medesimo scopo, la liberazione dalla vita corporea (1.21-22). Anche Pitagora, come Buddha, aveva memoria delle sue precedenti incar­nazioni e considerava il mondo presente come una fase ciclica di una infinita serie di trasformazioni. Ma gia in questa credenza i pitagorici avevano intro­dotto una variante scientifica, mutuata dai babilonesi: i cicli erano determina­ti a partire dal regolare movimento delle stelle. Unendo le idee religiose e la ricerca scientifica, Pitagora imprime al pensiero greco cio che esso ha di piu peculiare, la combinazione tra la tensione verso l' eterno e il dominio razionale dell'universo fisico. Solo in seguito le due tendenze, quella religiosa e quella scientifica, che Pitagora e i suoi primi discepoli avevano tenuto congiunte, si scinderanno in due. diversi orientamenti: il pitagorismo misterico, che si con­fondera con l'orfismo, e il pitagorismo scientifico, che avra una influenza pro­fonda su Platone e · su tutto il pensiero greco.

Anche se figlio di un tagliapietre e nemico della tirannide tanto da lasciare la patria perche caduta sotto l'autocrazia di Policrate, Pitagora trasfiguro la religiosita popolare dei misteri orfici, dove affondava le sue radici, in una vi­sione aristocratica della vita e della politica, alia cui base c'era il rifiuto dell'idea di progresso, che invece guidava, almeno confusamente, i movimenti democratici delle citta greche della sua epoca. Intanto, per Pitagora, il vero compito dell'uomo e di liberare la propria anima dalla prigionia del corpo: nemmeno la politica deve avere obiettivi diversi. Ne seppero qualcosa le citta della Magna Grecia, in cui i suoi discepoli ebbero responsabilita di governo. Ne seppe qualcosa anche Sibari, la citta corrotta, contro la quale sembra che lo stesso Pit~gora abbia indetto una specie di guerra santa punitiva. Ma poi, a rendere i pitagorici indifferenti, anzi ostili a ogni tentativo di mutamento della societa era la loro stessa dottrina della ciclicita della storia umana. Pare sia stato lo stesso Pitagora ad applicare al mondo fisico il termine kosmos, con cui prima si designava l'ordinata disposizione di un esercito e poi di una citta. Il mondo e retto da un ordine scandito dal movimento delle stelle, che dopo un lungo periodo di anni torna allo stesso punto, riportando a zero la storia. E la dottrina dell'eterno ritorno. Tutto cio che e, gia fu; cio che avviene, gia av­venne. A nulla giova dunque l'inquietudine delle plebi che vorrebbero cambia­re l'immutabile ordine delle cose. E questo un esempio tipico di come in Pita­gora e nei suoi discepoli la scienza, la mistica e la politica fossero ancora in uno stato non di coerenza reciproca rna di confusione. Una confusione, tutta­via, gravida di potenziali sviluppi, che non tarderanno a manifestarsi.

2.7 La matematica come filosofia. Fu la scuola pitagorica a scoprire la clop­pia rotazione del sole, una diurna, da est a ovest, con un cerchio parallelo all'equatore, e una annuale, da ovest a est, secondo un cerchio, l'eclittica, il cui piano e inclinato su quello dell'equatore. Ma non soltanto il sole, anche la terra, la luna, l'antiterra (che ci fosse anche un'antiterra, invisibile, lo richie­deva il valore sacra del numero 10, di cui subito diremo), i cinque pianeti allo­ra conosciuti e il cielo delle stelle fisse girano attorno a un fuoco centrale (che non si vede dalla faccia terrestre su cui noi abitiamo), da cui tutti gli astri nascono e in cui, dopo il 'grande anno', tutti si risolvono per poi rinascere. Da questa astronomia, per tanti versi davvero rivoluzionaria, prese sviluppo la ri-

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cerca matematica che costituisce senza dubbio l'eredita piu preziosa dei pita­gorici. II moto concorde degli astri produce un'armonia celeste che solo gli uo­mini puri sono in grado di ascoltare. Secondo Platone, la dottrina dell'armonia delle sfere ebbe origine dalla corrispondenza, notata dai pitagorici, tra gli in­tervalli delle sette note della gamma musicale e le distanze dei sette pianeti (cinque, piu luna, piu antiterra) dalla terra, distribuite a intervalli alternativa­mente doppi e tripli come quelli della gamma musicale. Furono infatti i pita­gorici a scoprire una relazione costante tra la lunghezza delle corde della lira e gli accordi fondamentali (1:2 per l'ottava, 3:2 per la quinta, 4:3 per la quarta). La somma dei primi quattro numeri delle relazioni (1, 2, 3, 4) clava il numero 10, che gia a Delfi (dove si trovava l'oracolo di Apollo) era rite,nuto nu­mero sacro. Questo nodo tra astronomia, musica e matematica, che desto tan­ta ammirazione negli antichi, e senza dubbio, al di la di ogni utilizzazione mi­stica, la scoperta piu geniale del mondo greco e potrebbe bastare da sola a rendere ragione dello stupore mistico dei pitagorici. I quali posero come prin­cipia del mondo non l'acqua o l'aria o l'apeiron, rna il numero, cadendo cos!, come osservo Aristotele, nell'ingenuita di far derivare le qualita del mondo dalla pura quantita, rna intuendo una Iegge che sara alla base non solo di anti­che scuole filosofiche rna della stessa scienza moderna: quella che fa derivare i mutamenti qualitativi dai mutamenti quantitativi. D'altronde, per i pitagorici il numero non era quello che e nella matematica moderna. Non espressi coni segni arabici che noi usiamo rna con i propri nomi, i numeri erano ricchi di qualita arcane,· magiche, che si aggiungevano alla magia delle loro combinazio­ni e delle loro corrispondenze. Disposti in ordine - i greci semplificavano l'espressione dei numeri servendosi del punto- i numeri danno origine a del­le figure geometriche, le quali dunque sono tutte generate dall'unita. Ad esem­pio, i primi quattro numeri (che sommati fanno 10) danno origine al triangolo:

* 1

* * 2

* * * 3

* * * * 4

Per questo i pitagorici parlavano di numeri triangolari, quadrati, cubici, e per questo, avendo tutte le cose una forma geometrica, essi li considerarono principia generatore delle cose: «tutte le cose s6no numeri». E. difficile stabili­re quanto, nella matematica dei pitagorici, vada attribuito alia generazione del maestro e quanto a quelle successive. Nemmeno la tavola pitagorica oil teore­ma detto di Pitagora (Ia somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo e eguale al quadrato costruito sull'ipotenusa) sono con sicurezza del maestro. Quel che e comunque sicuro, e che, come scrisse Proclo, Pitagora trasformo lo studio della geometria e ne fece un insegnamento liberale, inda­gandone i primi principi e ricercandone i teoremi da un punto di vista asttatto e razionale.

2.8 L'Uno, il pari e il dispari. Ma anche in un altro senso l'intuizione pita­gorica dell'ordine numerico ha lasciato un'impronta indelebile nella tradizione

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filosofica, capovolgendo l'equazione propria della sapienza orientale: perfezio­ne = infinito, nell'equazione tipica del genio greco: perfezione = finito. II nu­mero Uno, da cui tutto deriva, contiene in se sia il limitato che l'illimitato, corrispondendo i numeri pari all'illimitato e i numeri dispari al limitato. L'an­titesi 'pari' e 'dispari' divenne per i pitagorici il principia esplicativo di tutta la realta, come per i cinesi l'antitesi tra yin e yang (1.13), il principia femmini­le e quello maschife. II pari e l'imperfezione, perche manca di intima compat­tezza dato che e divisibile, mentre il dispari, non divisibile, e in se compatto, cioe perfetto. E l'Uno, detto 'parimpari', che aggiungendosi al pari o al dispari li trasforma: come dire che l'Uno e il principia di trasformazione di tutta la realta. Il pari e il male, il dispari e il bene; il pari e femmina, il dispari e ma­schio (il matrimonio era espresso col 5, unione del primo pari, 2, e del primo dispari, 3); il pari e movimento, il dispari e quiete. Potremmo dire che il dispa­ri e l'ordine, in se conchiuso, circoscrivibile dunque dalla ragione, cosi come il pari e il disordine, cio che perennemente sfugge e si dissolve. AI di la dell'uso superstizioso del numero, cio che restera dell'insegnamento pitagorico e l'af­fermazione che l'armonia domina nel mondo con la vittoria del numero sull'in­finito: da qui nasce il kosmos, l'ordine dell'universo basato sul principia che tutte le cose e tutte le idee sono articulate nell'unita. La diversita non si oppo­ne all'unita, anzi trova in essa il suo vero sensu.

Eraclito

2.9 II profeta del Logos. I mutamenti sociali e politici, che avevano fatto di Pitagora un esule dalla sua Ionia, fecero di Eraclito* di Efeso un esule in pa­tria. 11 crollo della fazione aristocratica, di cui per nascita e per convinzione egli faceva parte, lo ridusse in uno sdegnoso isolamento che divenne, nella leg­genda, un vero e proprio eremitaggio sulle montagne a ridosso della citta, sul­la quale - e questo invece e documentabile - riverso una indignazione da profeta di Israele. Gli efesi avevano scacciato Ermodoro, «il migliore di tutti loro»? «Farebbero bene a impiccarsi tutti uno peJ;" uno e a lasciare la citta nel­le mani degli imberbi» (fr. l21). Il potere della nuova classe non dipende dalla sua virtu rna dai suoi quattrini: «Possa la ricchezza non mancarvi mai, o efesi, affinche si veda quanto valete» (fr. 125). L'aristocratico sconfitto guarda la ple­baglia col ribrezzo con cui il nobile francese guardava Parigi in mano ai san-

Eraclito. Nato, di stirpe regale, nel 540, lascio la politica quando gli Efesi si liberano dall'egemonia persiana (479/78) e cacciano il suo amico Ermodoro, di parte aristocratica. Ostile al governo democratico, si rifugio sulle montagne come un eremita. Scrisse un libra composto di brevi e oscure sentenze di stile oracolare. lgnoriamo Ia data della sua morte.

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culotti: « Prendono a maestra la folia poiche non sanno che i molti non valgono niente rna solo i pochi valgono» (fr. 104). L'indignazione di Eraclito non e sol­tanto politica: investe i culti religiosi divenuti volgari, l'antico padre Omero, reo d'aver deplorato le contese, i fisici ionici e perfino illontano Pitagora, «Ca­po di ingannatori» (fr. 81), che ha, si, studiato e investigato, rna ricavandone soltanto «il saper molto, cattiva arte» (fr. 116). Perfino lo stile, che gli merito presso gli antichi l'appellativo di 'oscuro', riflette il suo disprezzo per l'intelli­genza dei piu, che credono di essere svegli rna in realta sono nel sonno: non capiscono anche se ascoltano, simili ai sordi (fr. 34). I suoi modelli sono lana­tura, che «ama nascondersi>> (fr. 123) e l'oracolo di Delfi, che «dice e non na­sconde, rna accenna» (fr. 93).

Ma il linguaggio oracolare di Eraclito non esprime soltanto lo sdegno ari­stocratico per· la massa. A rendere cosi turgide le sue parole e anche la co­scienza di aver scoperto una verita che va gridata con forza a quelli che han­no orecchi per intendere e a quelli che non li hanno, perche il suo destino non si estingue nel presente, sfida il futuro. Ecco perche prima di morire il profeta randagio depose il rotolo di papiro che conteneva il suo scritto nel tempio di Artemide, in sacra eredita per i secoli venturi.

La grande verita di Eraclito e quella dell'unita del molteplice nella ragione (Logos) che tutto governa e tutto risolve in se. E. una verita che unifica, solle­vandole a straordinaria altezza razionale, la tradizione orfi,ca sull'anima dell'uomo, scintilla divina che tende a ricongiungersi alla sua sorgente eterna, e l'intuizione, ereditata dai predecessori ionici, di un universo derivato da un unico principia e retto da un'intima legge di giustizia. Eraclito e il punto di confluenza e insieme di geniale superamento delle tradizioni religiose e filoso­fiche precedenti. In Pitagora, come abbiamo visto, il dominio della ragione ma­tematica sul caos dell'esperienza sensibile si pone a lato, senza disturbarla, di una preoccupazione sostanzialmente religiosa, volta non a comprendere }'ani­ma rna a liberarla dal ciclo delle rinascite. In Eraclito la ricerca religiosa si ri­solve nel pensiero filosofico, finalmente consapevole delle proprie leggi e del proprio itinerario. «Ho indagato me stessO>> (fr. 101), dice un suo frammento. Ma nel suo caso l'indagine di se non e ne psicologica, alia maniera moderna, ne ascetica, alia maniera buddistica. Facendo sua l'intuizione orfica dell'anima come principia divino, egli la dilata in un significato che investe sia l'intimo dell'uomo, sia la Iegge dell'universo, sia Dio. 1 tre anelli - antropologico, co­smologico, teologico - hanno un solo e medesimo centro, il Logos. Ci sono, si, in Eraclito residui che dimostrano come in lui la conoscenza sia un processo insieme logico, morale e religioso, che ha lo stesso obiettivo ultraterreno per­seguito dagli orfici: «Se non spera l'insperabile non lo trovera, perche e intro­vabile e inaccessibile» (fr. 18); «Attendono gli uomini, da morti, cose che non sperano ne immaginano» (fr. 27). Ma il futuro, per Eraclito, non si cerca con l'ascesi, si cerca con l'indagine razionale, che lo scopre gia presente nell'ani­ma, cosi come il contemplativo indiano trova l'infinita del Brahman nella fini­tezza dell'Atman: «Per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell'anima, tanto e profonda la sua vera es­senza» (fr. 43). Le vie dell'anima sono le stesse vie della razionalita, che non ha nessun confine e si identifica con Dio, il quale a sua volta non vive in una tra-

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scendenza da raggiungere attraverso la negazione di cio che e finito e contrad­dittorio, rna, al contrario, si identifica con la legge che stringe tra loro le cose che si succedono nel tempo, come la vita e la morte, il giorno e la notte, e le cose che contrastano tra loro nella simultaneita, come il caldo e il freddo, il bene e il male.

2.10 L'armonia degli opposti. E questa la scoperta di Eraclito. Anche i taoi­sti (1.12) riconoscevano nel caotico muoversi delle cose una ragione latente, il Tao, appunto, rna questa ragione si poteva intuire soltanto mediante la nega­zione mentale di cio che e dicibile, determinabile, sensibile: l'uomo, il mondo fisico, la societa perdevano cosi ogni consistenza. L' operazione di Eraclito va nel senso opposto. Il Logos non e nell'annullamento dei contrari rna nel loro rapporto reciproco, per cui l'uno trapassa nell'altro e l'uno none comprensibi­le se non in rapporto all'altro. Nella coppia «luce-tenebre», la luce non puo es­sere compresa se non e posta in rapporto con la sua negazione, la tenebra (la luce e la non-tenebra), e viceversa, la tenebra non ha razionalmente senso se none posta in rapporto con la sua negazione (la tenebra e la non-luce). L'infi­nito e il finito non si escludono: l'infinito none che l'interminabile movimento con cui la ragione trasmuta nel suo contrario ogni cosa finita, la vita in morte, la morte in vita, la veglia in sonno e il sonno in veglia, e cosi via, all'infinito, appunto.

Eraclito si distingue dai suoi predecessori ionici perche il divenire del mondo non ha per lui un senso lineare, che vada da un elemento semplice ori­ginario agli stati compositi successivi. Certo, anche lui parla di un elemento primordiale, il fuoco - non era stata raggiunta, ai suoi tempi, una chiara di­stinzione tra il corporeo e lo spirituale -, rna il fuoco e stato da lui scelto per­che, fra gli elementi, e quello che e sempre se stesso pur non rimanendo mai se stesso: la fiamma e, rna cessando continuamente di essere quella che e, cosi come il fiume e quello che e proprio perche, scorrendo le sue acque di conti­nuo, none mai lo stesso. Non c'e concordia tra gli interpreti sulla questione se il fuoco di Eraclito sia da intendere come sostanza, alla stregua dell'aria di Anassimene, o come simbolo di un processo. Ma ormai e superata l'interpreta­zione che faceva di Eraclito l'ultimo della serie dei fisici ionici. Sicuramente in lui il fuoco none la sostanza fisica che permane nel mutamento dei suoi de­rivati: e la dinamica razionale che da sempre e per sempre compenetra e muo­ve le molteplicita del cosmo. E cosi non c'e concordia sulla questione se il fuo­co-logos sia una realta spirituale dotata di coscienza di se, alla maniera del Dio di cui parleranno in seguito i filosofi, o se sia una razionalita impersonale. Certo e che per Eraclito la razionalita di Dio si contrappone a quella dell'uo­mo, o almeno dell'uomo che non abbia del tutto superato il gioco dei contrari che lo costringe a dar valore a cio che e relativo. «Per Dio tutto e bello, buono e giusto, gli uomini invece ritengono giusta una cosa, ingiusta l'altra» (fr. 102). Le cose che per noi sono tra loro -opposte, in Dio sono identiche, per una spe­cie di implicazione assoluta che invece ai nostri occhi si esplica necessaria­mente nel molteplice. La verita e nell'implicazione nascosta: «da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le COSe» (fr. 10). «11 Dio e giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazieta-fame. E muta come il fuoco, quando si mischia ai fumi

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odorosi e prende nome dall'aroma di ognuno di essi» (fr. 27). Se Dio e il fuoco, e le cose i profumi che dal fuoco scaturiscono, ci troviamo allora dinanzi a una forma di panteismo, cioe alla identita sostanziale tra Dio e le cose. Ma for­se non ha molto senso chiedere ai pochi frammenti rimastici di questo filosofo 'oscuro' la chiave per sciogliere problemi cos! arditamente metafisici.

E. proprio il fatto che il Logos include in se, in una superiore armonia, il flusso del relativo e l'urto delle contrapposizioni, a dare consistenza all'agire terreno dell'uomo, al suo consociarsi nella polis, alla sua ricerca, attraverso i conflitti, della giustizia. L'aristocratico, che si era fatto eremita in odio alla sua citta, riesce a superare Ia spinta individualistica che gli veniva dalla sua esperienza per farsi banditore di una comunita umana le cui leggi «Si alimen­tano all'unica legge divina» (fr. 114), in cui si segue «cio che e comune», evi­tando lo smarrimento di coloro che «vivono come se avessero un proprio pen­siero per loro» (fr. 2). E non e detto che, basata sulla ragione, Ia polis sia, gia per questo, in pace e tranquillita, come diranno in seguito non pochi utopisti. L'unita assicurata dalla ragione e, come abbiamo visto, un'unita di opposti, che restano tali anche quando su di essi trionfa l'armonia della Iegge: «Si deve sapere che la guerra e comune e che la giustizia e contesa e che tutto avviene secondo contesa e necessita» (fr. 80). Prendersela con le contese, come fecero Omero ed Esiodo, e da gente presa dal sonno: chi e sveglio sa che, «il guerreg­giare e padre di tutte le cose>> (fr. 53). Il destino culturale di questa intuizione sara di eccezionale portata. Basti pensare che Georg Hegel (III.2.3) il pensatore moderno che piu ha influenzato la cultura e la politica (il marxismo stesso, per certi aspetti, dipende da lui) si considerava, proprio a causa della dottrina de­gli opposti, un discepolo di Eraclito.

Gli eleatici

2.11 L'Uno e i molti. La 'via in su', e cioe il passaggio dal molteplice all'Uno, e la 'via in giu', e cioe il passaggio dall'Uno al molteplice, disegnano, sia in oriente che in occidente, l'incessante moto pendolare dello spirito uma­no. La via in su porta i taoisti, Buddha, i maestri delle Upanishad, a relegare il molteplice nella zona dell'illusione, da cui occorre liberarsi; la via in giu porta i filosofi di Mileto a identificare ]'Uno con gli elementi della molteplicita, fa­cendone il loro substrato permanente. La via in su sembrava riservata agli asceti, che obbedivano, piu che agli argomenti della ragione, al bisogno morale di liberarsi dal dolore o dall'intollerabile caos dell'esperienza immediata; la via in giu sembrava riservata ai 'fisici', che invece miravano a porre ordine ra­zionale nel mondo, senza peraltro spezzare i vincoli dell'immaginazione sensi­tiva. Il destino dei greci fu di spingere la ragione, provvista soltanto dei suoi propri argomenti, verso il nodo metafisico (che sta, cioe, oltre la sfera dell'esperienza sensibile) in cui il molteplice e l'Uno coincidono, e coincidono non nel modo inesprimibile di cui parlano i mistici, rna in un modo traducibile nei concetti della ragione. I pitagorici danno unita al molteplice scoprendo in

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esso l'armonia del numero. Un corpo e molteplice (nel senso che ha molte qua­lita e puo scomporsi in molte parti) rna la sua figura geometrica e traducibile in numeri, che sono intelligibili in quanto sono multipli dell'unita (12.8). Ma la soluzione pitagorica lasciava insoluti troppi problemi. Come, ad esempio, i nu­meri, che sono astratti, incorporei, possono dare origine ai corpi? E come i numeri, che sono senza qualita, possono dare origine aile qualita? Nella dire­zione giusta sembra muoversi Eraclito. 11 molteplice e il mutevole, per lui, tro­vano unita nelle relazioni reciproche che stringono tra loro gli opposti, i quali nell'esperienza sensibile sono l'uno contro l'altro, come la notte e il giorno, rna compresi nel Logos non possono essere l'uno senza l'altro. Ma cos'e il Logos? Un principia che e reale solo nella mente dell'uomo? Un principia che e reale indipendentemente dal molteplice? Un principia che ha realta solo nel molte­plice? Oguna di qtieste ipotesi introduce la ragione in un vicolo cieco. Occorre­va, a questo punto dello sviluppo del pensiero greco, districare la ragione dal gioco delle immagini, dall'uso promiscuo di simboli e di concetti, dal comodo alibi delle affermazioni dogmatiche di origine religiosa. Solo cosi la ragione avrebbe potuto insediarsi nella sua propria sfera, che e quella della necessita logica. La necessita logica e quella legge del pensiero per cui si passa da un concetto a un altro concetto che non puo essere che quello, cosi come in mate­matica due piu due non puo che dare quattro. Questa determinazione della legge del conoscere propriamente logico porta con se la distinzione tra la co­noscenza sensitiva, il cui prodotto e l'opinione, e quella razionale, che da ac­cesso alia verita necessaria.

2.12 Senofane. II merito di questa crescita, che ha deciso dell'intero corso della filosofia fino a oggi, e di una famiglia di filosofi detti eleatici* perche il centro della loro attivita fu Elea, colonia di una citta ionica, Focea, occupata e devastata dai persiani. A far da tramite tra la Ionia ed Elea, anzi l'intera Gre­cia, fu il poet a filosofo Senofane* di Colofone (572 ?-565 a. C.) («Son gia sessan­tasette anni, egli disse di se stesso, che trascino le mie pene per l'Ellade»), che molti considerarono, a partire da Aristotele, come il fondatore della scuola eleatica in quanto maestro di Parmenide. L'opinione oggi ha poco credito, rna nessuno puo disconoscere al rapsodo randagio di Colofone il merito di aver preso le distanze, con critica mordace, sia dalla religione mitologica di Omero e di Esiodo, sia dalla fisica ancora grossolana dei milesii per affermare, in mo­do netto, quell'immagine razionale di Dio che sara al centro della filosofia di Parmenide, il vero fondatore della scuola eleatica.

Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto cio che per gli uomini e onta e biasimo: e rubare e fare adulterio e ingannarsi a vicenda (11) ... i mortali si immaginano che gli dei siano nati e che abbian vesti, voce e figu­ra come loro (14)'.

Ma se i bovi, i cavalli e i Ieoni avessero le mani e potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dei, e simili ai bovi il hove ... (15)

Gli etiopi dicono che i loro dei hanno in naso camuso e son neri, i traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi (16).

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Questa critica alla religione antropomorfica si precisa in Senofane come consapevolezza dei limiti del conoscere umano: «vi e solo un sapere apparen­te» (34). Questo senso del limite non impedisce pen) al poeta-filosofo di cimen­tare la ragione con una definizione di Dio in cui lampeggia l' esigenza di coe­renza razionale (di 'necessita logica') di cui sopra si e detto. Solo con Platone e poi con Aristotele si arrivera a una chiara distinzione tra spirito e materia, tra fisica e metafisica, rna la distinzione e gia faticosamente avviata dal teologo Senofane:

Un solo clio, il piu grande fra gli uomini e dei, ne per la figura ne per i pensieri simile ai mortali (23); tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio (24); senza fatica scuote tutto, con Ia forza della mente (25); rimane sempre nello stesso luogo immobile, ne gli si addice spostarsi or qua or la (26).

Senofane e un Esiodo ormai inurbato, divezzato dalle muse agresti, fre­quentatore di conviti in cui il vino si mescola al canto e all'arguto sarcas.mo fi­losofico; e un cittadino che rivendica, in quanto filosofo, considerazione mag­giore di quella riservata agli atleti; e un libero pensatore che antepone la ri­cerca alla fede nei dogmi:

Gli dei non hanno certo svelato ogni cosa ai mortali fin da principia, rna ricercando gli uomini trovano a poco a poco il meglio (18).

Senofane e un uomo nuovo, che conserva ancora i modi e gli accenti poeti­ci dell'antica sapienza omerica, rna gia vive la feconda frattura tra l'immagine creativa, propria dei poeti, e la ricerca razionale propria dei filosofi.

2.13 Parmenide: verita e opinione. E comprensibile che la tradizione ab­bia trasformato Senofane in maestro di Parmenide *, che scrisse anche lui un poema filosofico. Solo che nel poema di Parmenide le immagini potenti e arcane sono come le nubi che nascondono il fulmine (Platone chiamo il filoso­fo di Elea <<venerando e terribile»): la costruzione narrativa gravida di simboli razionali, serve solo a introdurre, pur tra i nimbi della rivelazione religiosa, il trionfo di una ragione totalmente affidata, con fierezza paradossale, aile sue intime capacita intuitive e discorsive.

La critica piu recente riconosce nel poema di Parmenide un'ispirazione re­ligiosa da collocare sullo sfondo dei misteri orfici, molto praticati nella Magna Grecia, e delle comunita pitagoriche, che, secondo una tradizione, Parmenide avrebbe frequentato per un certo tempo. II viaggio dal basso in alto, dalle cali­gini della vita sensibile al cielo dove splende la verita, e narrato, nel proemio, con immagini arcanamente allusive, che nel loro complesso esprimono l'entu­siasmo di chi ha scoperto la verita piu per grazia del cielo che per capacita propria:

Le cavalle, che mi portano fin dove vuole il mio cuore, anche ora mi con­dussero via, dopo che le idee mi ebbero guidato sulla via molto famosa che per ogni citta porta l'uomo che possiede il sapere.

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La venni condotto; Ia mi portarono le moho avvedute cavalle tirando il carro, e le fanciulle additavano il cammino.

L'asse infuocato nei mozzi mandava un suono stridente (poiche da ambo i lati era tratto da due ben curvati cerchi) ogni qual volta le figlie del sole, abbandonate le case della notte, affrettavano il corso a guidarmi verso la lu­ce, liberando il capo dai veli. lvi e la porta che mette ai sentieri della notte e del giorno.

La porta .e sorvegliata dalla giustizia, che ha in mano «le chiavi dall'alterno uso». Su preghiera delle figlie del sole ella apre i battenti e da il benvenuto al filosofo:

Ora devi imparare ogni cosa: e il cuore che non trema della ben rotonda verita e le opinioni dei mortali, in cui non e vera certezza.

La 'via della verita' contrapposta alla 'via dell'opinione', ecco la scoperta che entusiasmo Parmenide e che difatti segna il punto alto di tutta la metafisi­ca occidentale. La via della verita conduce all'essere e disvela, nell'intima struttura dell'essere, alcuni attributi che hanno la stessa necessita logica dell' essere.

Per capir bene quel che vuol dire Parmenide e forse, come suppongono al­cuni suoi recenti esegeti, per ripercorrere la stessa via da lui percorsa, soffer­miamoci sulla peculiarita che ha in ogni caso l'atto conoscitivo cosi come si esprime nel giudizio. Ogni atto di conoscenza e un giudizio, il cui elemento es­senziale e il predicato verbale: il cielo e oscuro; quest'uomo e mio padre; Dio e misericordioso. Tutti i termini del giudizio possono mutare rna il predicato verbale e in ogni caso necessaria. L'idea di essere e dunque onnipresente nei processi conoscitivi: i sensi forniscono, per dir cosi, il materiale del conoscere, che e di per se un materiale mutevole e provvisorio; la ragione ha come ogget­to suo proprio ed esclusivo l'essere. Per Parmenide la necessita logica dell'es­sere diventa necessita oggettiva (ontologica, dal termine greco on, che vuol di­re ente, cia che e): solo l'essere e necessaria, cioe non puo non essere. Solo co­lora che la Dea Madre conduce al di la della distinzione tra notte e giorno, al di la cioe del mondo sensibile, sono in grado di conoscerlo; gli altri, «uomini a due teste», hanno una «mente oscillante» e mettono sullo stesso piano l'essere e il non-essere, basandosi sul dato sensibile che le cose nascono, mutano o muoiono, e cioe passano dal non-es sere all' essere e dall' essere al non-essere. Essi prendono per verita quel che e soltanto opinione. L'essere e 'ingenerato' e 'imperituro': «none mai stato e non mai sara, perche e ora tutto insieme nella sua compiutezza». Esso e dunque fuori del tempo, in un immutabile presente. Difatti, se avesse cominciato a essere, avrebbe dovuto esser generato dal non­essere: rna come puo il nulla gene rare qualcosa? E nemmeno e possibile che si trasformi, perche trasformarsi vuol dire passare da uno stato a un altro stato che prima non-era: rna come puo l'essere generare il nulla? L'essere e dunque senza passato e senza futuro: cosi si estingue la nascita e la morte scompare. E, come esclude da se ogni attributo temporale, cosi esclude ogni idea di divi­sibilita e di diversita: se fosse divisibile in parti, avrebbe in se il non-essere: una parte infatti non-e l'altra. Se avesse in se qualita diverse, avrebbe in se il non-essere: una qualita non-e l'altra.

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Ma immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi, e l'essere, senza principia ne fine ... Ia forza imbattibile della Necessita lo costringe nelle ca­tene del limite che intorno lo avvolge poiche l'essere non puo non esser compiuto ... ... percio non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere, e cambiar di luogo e mutare lo splendente colore.

Ma essendovi un limite estremo, esso e compiuto tutto intorno, simile al­Ia massa di una rotonda sfera che dal centro preme in ogni parte con egual forza.

2.14 Parmenide: tra metafisica e fisica. La purezza metafisica del pensiero parmenideo sembra all'improvviso oscurarsi nel trapasso dall'idea sovrasensi­bile dell'essere all'idea spaziale della sfera. Forse hanna avuto peso, nel susci­tare all'interno di un discorso logico cosi coerente un simbolo geometrico, sia il mito dell'uovo primigenio (presente nelle cosmogonie orfiche) sia l'idea pita­gorica della finitezza (il dispari) come attributo della perfezione. La sfera e la figura geometrica che esclude sia le interruzioni degli spigoli sia ogni variazio­ne di superficie: e davvero l'immagine della compiutezza e della coesione in­terna. Ma la sfera parmenidea ha questa di proprio: che, mentre nella sua fini­tezza esprime la necessita della determinazione logica della ragione (l'essere e pensabile, anzi, l'essere e il pensiero sono la stessa cosa), ha anche in se una tensione dinamica («dal centro preme ... ») che la spinge ad avanzare, senza ostacolo alcuno, verso l'infinito. Insomma, essa esprime la duplice esigenza lo­gica della finitezza, come compiutezza, e dell'infinito, come assenza di ogni li­mite esterno all'essere. Qualcuno ha vista nell'immagine della sfera di Parme­nide - rna si tratta di un raffronto puramente suggestivo - la tesi di Ein­stein, che l'universo e una curva infinita in espansione.

Che cosa pensasse Parmenide del mondo fisico in quanta e il mondo dell'opinione, non ci e data saperlo. La parte del suo poema dedicata alia co­stituzione del cosmo e andata quasi del tutto perduta. Pare certo pen) che, una volta determinata la via della conoscenza razionale che sbocca nella sfera sovrasensibile dell'essere, Parmenide sia disceso nel mondo dell'opinabile per proporre una sua 'opinione' sulle origini e sulle leggi che regolano l'universo fisico, senza venir meno alla consapevolezza che in ogni caso si tratta di un universo privo di verita. Il grande frammento dedicato alia «via della verita» si conclude proprio la dove la dea si accinge a farsi maestra di cosmologia:

Questa disposizione del mondo, puramente apparente, ti espongo in ogni particolare, cosi che non potra mai vincerti qualsiasi opinione dei mortali.

Come dire che anche nel mondo delle opinioni e possibile discernere tra l'improbabile e il verosimile. Dalle esigue testimonianze indirette che posse­diamo, pare che il mondo fisico di Parmenide sia governato da due principi opposti, il caldo e il freddo (il sole e la terra, il giorno e la notte), dai quali tut­to trae generazione e morte, e si configuri come una serie di cerchi concentrici nella cui forma si riflette la stessa sfericita dell'essere. Quel che resta comun­que decisivo, per Parmenide, e che i due cosmi, quello della verita e quello

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dell'opinione, sono senza rapporti tra loro, ciascuno chiuso dentro le proprie leggi.

Anche se a mettere in moto Ia speculazione di Parmenide fu l'entusiasmo dionisiaco, il metodo che essa ha seguito e l'approdo raggiunto costituiscono il trionfo dell'apollineo su tutto cia che e oscuro e informe. La distinzione tra Ia conoscenza sensibile e quella razionale sara d' ora in poi una costante del pen­siero, cosi come Ia certezza che cia che e reale e anche intelligibile. Semmai, questa equivalenza tra realta e intelligibilita ha, in Parmenide e nei suoi disce­poli, una assolutezza che si risolvera a danno sia del mondo sensibile, conside­rato come un coacervo di illusioni, sia dello stesso mondo sovrasensibile, dom­maticamente confinato nei limiti della razionalita, senza margini di mistero. Singolare destino, questo, di un'avventura filosofica che affondava le sue radi­ci, come si e detto, nello slancio religioso verso Ia liberazione. In ogni caso, e da Parmenide che, nella storia del pensiero occidentale, Ia ragione deriva le regole della propria maturita e le leggi che perennemente Ia garantiscono: il rapporto di necessita, che deve reggere i passaggi del ragionamento, e il prin­cipia di identita (A = A) e di non contraddizione (A none non-A) sono parti es­senziali, ancora oggi, del metodo conoscitivo.

2.15 Zenone. I contemporanei di Parmenide furono consapevoli della rivolu­zione da lui apportata, anche perche egli ebbe vicino a se un discepolo che seppe tradurre e · propag:are Ia sua austera 'verita' in arg:omenti paradossali che misero in subbuglio l'esigua repubblica filosofica del tempo. Zenone* di Elea aveva venticinque anni meno del maestro. Platone ce lo descrive «gran­de nella personae bello a vedersi» accanto al maestro «gia molto vecchio, gia tutto bianco, bello e venerando all'aspetto», durante una loro visita ad Atene. In quella circostanza si riuni attorno a Zenone- che aveva portato, per discu­terlo, il suo libro - un cenacolo di intellettuali, fra i quali il giovanissimo So­crate. Egli «parlava, ci attesta Platone, con un'arte tale da fare apparire le stesse cose agli ascoltatori simili e nello stesso tempo dissimili, una e molte, immobili e in moto». Pare che di questi argomenti, detti aporie (noi diremmo 'vicoli ciechi'), volti a dimostrar vera Ia tesi eleatica dell'Essere uno e immobi­le col mettere in imbarazzo gli avversari, Zenone ne abbia escogitati una qua­rantina. Ne ricordiamo alcuni, fra i piu famosi, che danno bene !'idea sia del metodo che degli intenti delle argomentazioni di Zenone. Supponiamo che il pie-veloce Achille debba inseguire una tartaruga, distante da lui uno spazio s. Mentre Achille ricopre lo spazio s, Ia tartaruga ha percorso lo spazio s', e men­tre Achille ricopre lo spazio s' Ia tartaruga percorre lo spazio s", e cosi via all'infinito. E cosi e di qualsiasi altra misura spaziale: dato un segmento AB, esso e divisibile in due segmenti, ciascuno dei quali a sua volta e divisibile in due, e cosi all'infinito. Cia dimostra che qualsiasi porzione di spazio e insieme fini ta e infini ta.

Il che non pua essere. L'errore sta appunto nel dare realta razionale a cia che ha solo Ia consistenza dell'opinione. E come lo spazio, cosi anche il tempo e un'illusione. Supponiamo che una freccia si muova verso il bersaglio. In un momenta infinitesimo del tempo la freccia si trovera a occupare uno spazio eguale a se stessa, sara cioe immobile, dato che, se si movesse, il momento in-

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finitesimo (l'istante) sarebbe divisibile in pili momenti. Essendo ferma in un istante, essa sara ferma anche in infiniti istanti. Ne deriva che una misura di tempo e insieme finita e infinita. L'errore sta, anche questa volta, nel dare realta a cia che e pura parvenza. Le aporie con cui Zenone dimostrava come incontestabili le tesi del maestro sono, dal punta di vista della storia del pen­siero, il prima esempio di argomentazione dialettica. In che consiste la dialet­tica di cui, come riconobbe Aristotele, Zenone fu l'inventore? Nel partire dalla posizione degli avversari (ad esempio, la reale esistenza dello spazio e del tem­po) per arrivare a una conclusione ammessa la quale quella posizione si rivela insostenibile. Gia Aristotele riconosceva la capziosita del procedimento zeno­niano, che fa una medesima cosa dell'infinito potenziale (e cioe della possibili­ta di dividere astrattamente uno spazio finito in infinite parti) e dell'infinito reale (e cioe la reale divisione di cia che e finito in infinite parti). I pitagorici avevano pensato che le astrazioni geometriche (il punta) fossero elementi costi­tutivi della realta. Zenone segue un procedimento opposto: traduce la realta, molteplice e mutevole in quantita astratte, e riduce lo spazio concreto e il tem­po concreto, che l'esperienza ci offre come continui indivisi, in una infinita ad­dizione di parti omogenee. ll merito di Zenone fu straordinario. Si apr! allora la via della razionalita matematica il cui campo e l'astrazione quantitativa, di­versa, in se e per se, tanto dalla metafisica che dalla fisica. Non solo, rna pro­prio perche Zenone lo aveva costretto nella prigionia di inaccettabili contrad­dizioni, il pensiero greco fara tra poco il suo salta di qualita, diventando pen­siero metafisico, munito di strumenti logici proporzionati all'intuizione eleati­ca dell'Essere.

2.16 Melisso. Questa salta di qualita e gia embrionalmente presente nel ter­zo filosofo eleatico, Melisso* di Sarno (sec. V), su cui ha molto gravato, fino a questi ultimi tempi, l'appellativo di 'grossolano' assegnatogli da Aristotele. La dottrina parmenidea dell'essere e portata da Melissa aile sue conseguenze ra­dicali. Intanto, egli respinge ogni compromesso col mondo dell'opinione, a cui il poema di Parmenide dedicava la seconda parte: il mondo del divenire, per Melissa, non esiste, data l'impossibilita di conciliare con 1' essere, immutabile ed uno, la realta sensibile, che e mutevole e molteplice. In secondo luogo, egli rifiuta l'idea di finitezza come attributo dell'essere. L'essere e per Melissa as­solutamente infinito: se cosi non fosse, sarebbe limitato da qualcos'altro, es­sendo il nulla non pensabile. In terzo luogo, l'infinito viene a coincidere, per Melissa, con l'incorporeita, anche se nel suo linguaggio restano residui di im­maginazione spaziale. Di piu: affermando che l'essere gode di perfetta beatitu­dine, la metafisica di Melissa trapassa in teologia e cioe tratteggia l'assoluto con caratteri personali alla maniera delle dottrine mistiche posteriori, sia pla­toniche che aristoteliche.

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Gli Eleatici. Nato a Colofone, nella Ionia, tra il 571 e il 565, Senofane si unisce giovanissimo agli abitanti di Focea, poco distante dalla sua patria, che, lasciata la citta in mana ai Persiani, si recano nella Magna Grecia per fondarvi Elea. Ma egli preferisce la vita del poeta girovago, passando di citta in citta, alla maniera degli antichi aedi, con un messaggio di saggez­za che ha in se i germi della filosofia che sara detta eleatica. Muore dopa 77 anni di vita randagia, nel 475. Ad Elea aveva dedicato un canto per la sua fondazione. Gli si attribuiscono due opere: Sulla natura e i Silli.

Parmenide vive dal 515 al 440 (le date sono approssimative), occupan­dosi anche della vita politica della sua patria, Elea, di cui ha in mana il governo fino alla morte. La tradizione lo vuole discepolo di Senofane e di Pitagora. Verso i 65 anni si reca ad Atene insieme a Zenone e vi incontra tra gli altri, il giovanissimo Socrate. Del suo poema Sulla natura abbiamo solo frammenti.

Zenone nasce ad Elea attorno al 490. Della sua morte non conosciamo la data. Sappiamo solo che muore sotto le torture del tiranno di Elea, Nearco, contra cui ha organizzato una congiura. E lui a propagare ad Ate­ne il messaggio del suo maestro, Parmenide, di cui diviene successore nel governo di Elea fino al colpo di mana di Nearco.

Melisso nasce nel 485 a Sarno ed ha una vita politicamente e militar­mente molto impegnata. I suoi concittadini gli affidano la flotta durante la [oro rivolta contra Atene. Con lo stesso incarico di navarco riporta an­che una vittoria su Pericle. Pare che Ia sua opera si intitolasse Sulla natu­ra o sull'Essere. Ne possediamo frammenti.

Empedocle

2.17 II mago d' Agrigento. Zenone e Melisso, ciascuno per proprio con to, avevano lasciato cadere il tentativo del maestro, che aveva dedicato la seconda parte del suo poema a descrivere, organizzandolo razionalmente, proprio quel mondo dei fenomeni che nella prima parte aveva relegato nella sfera delle illu­sioni ingannevoli. L'Uno esclude il molteplice, il molteplice esclude l'Uno: dal dilemma, secondo Zenone e Melisso, non poteva esserci uscita. E invece il pen­siero greco post-eleatico, senza sottrarsi alla rigorosa lezione di Parmenide, fu animato dall'intento di «salvare i fenomeni>> facendo coincidere tra loro il mol­teplice e l'Uno. Empedocle, Anassagora, Democrito aprono, in questa direzio­ne, tre strade diverse, utilizzando, da una parte, la fisica dei filosofi di Mileto e, dall'altra, tenendosi fermi alla tesi parmenidea che l'essere e immutabile.

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Empedocle* di Agrigento e di qualche anno piu giovane di Anassagora (2.20) rna come noto gH1 Aristotele, sembra moho piu antico. II che si spiega anche col diverse clima che essi hanno respirato: Anassagora visse nell'Atene di Pericle, in un rapporto diretto con le contraddizioni feconde di una citta ormai diven­tata centro spirituale dell'Ellade; Empedocle, pur vivendo anche lui in prima persona le vicende pelitiche di Agrigento, si muove in uno scenario culturale chc non e quello della polis: e lo scenario delle plebi superstiziose, che lo vene­rano come un mago, anzi come un dio, delle comunita orfiche e pitagoriche che chiedono al maestro non le vie dell'intelletto che si limita a cercare Ia comprensione del mondo, rna le vie della liberazione dalla prigionia del mon­do. I dossografi ci hanno lasciato di lui un'immagine pittoresca. Egli e insieme un taumaturgo, un guaritore, un sacerdote, un fisico e un metafisico; ha in se i riflessi di Talete, di Pitagora e di Parmenide. Questi riflessi rimangono su di lui come macchie di colore senza unita di disegno. 0 almeno a noi sfugge il centro unitario sia del personaggio che del suo pensiero. Stando a quello che di lui ci e rimasto, possiamo tuttavia riconoscervi i tratti sapienziali e mitici dell'eta orfica e i tratti piu propriamente razionalistici che avranno, subito do­po di lui, straordinario sviluppo.

Nel suo versante orfico, la dottrina di Empedocle accoglie ed elabora, in un linguaggio oscuro e suggestive, quel senso tragico dell'esistenza terrena e quella tensione verso un mondo superiore che abbiamo gia riconosciuto come una costante nella spiritualita preellenica.

Vi e un grande detto del destino, antico decreto degli dei, eterno, sancito con grandi giuramenti: se qualcuno dei demoni che ebbero in sorte una lun­ga vita sporchi le sue membra di colpe omicide seguendo !a contesa, o pro­nunci un falso giuramento, erri lontano dai beati per tre volte diecimila sta­gioni, cambiando nel corso del tempo le crudeli vie della vita che generano ogni specie di esseri mortali. Infatti la forza dell'etere li spinge nel mare, il mare li sputa sulla polvere della terra, e questa li g:etta nei vortici dell'ete­re: un elemento li riceve dall 'altro e tutti li odiano .. Anch'io sono uno di quelli, fuggiasco da dio ed errabondo, perche mi lasciai persuadere dalla fu­nesta discordia (fr. 115).

Empedocle. Nato ad Agrigento attorno al 492, prende parte alla vita po­litica della sua citta tanto da essere ricordato come l'instauratore della de­mocrazia. Le notizie che abbiamo di lui sono leggendarie. Rifiutato il tro­na in vista di una superiore regalita, egli va in giro vestito di porpora e con in testa un diadema regale. Gli si attribuiscono miracoli i cui racconti periJ lasciano trasparire una sua straordinaria abilita tecnica, che proba­bilmente il popolo leggeva con schemi magici. Solo probabili sono i con­tatti con le comunita pitagoriche e, in un suo viaggio ad Elea, con Parme­nide. Scrisse diverse opere, rna solo di due ci sono rimasti frammenti (complessivamente un migliaio di versi): del poema Sulla natura, d 'argo­menta cosmologico e naturalistico, e del poema Purificazioni, d'argomen­to mistico-religioso. Muore (rna la data e solo un 'ipotesi) nel 432.

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E infatti io gia fui fanciullo, pianta e uccello, e muto pesce che affiora sull'acqua (fr. 117).

Da quale onore e da quale ampiezza di felicita, cosi bandito, qui mi aggi­ro fra i mortali (fr. 119).

Ma il mondo none, per Empedocle, soltanto questa efferata prigionia, e Ull

insieme di forze contra cui e possibile lottare per imprigionarle e volgerle al servizio dell'uomo: e qui, in questa volonta di potenza, che l'impronta greca ha la meglio sulla volonta ascetica di fuggire il mondo. Pili che mago, egli va con­siderato come un iniziatore di tecniche volte a dominare i venti, il mare, le sic­cita, le malattie e la stessa morte. Pili che figlio di Dioniso egli e figlio di Pro­meteo, un Leonardo da Vinci o un Dottor Faust di un'epoca ancora infantile.

2.18 Aile radici del mondo. Come Pitagora, anche Empedocle trova nella ra­gione il fulcra su cui poggiano e si unificano l'ordine soggettivo dell'uomo quale principia spirituale e l'ordine oggettivo che da regolarita all'apparente caos del mondo. Anche per Empedocle, come per Parmenide, l' essere e indivi­sibile e immutabile. Solo che le caratteristiche dell'essere invece di ritrovarsi in una realta unica e sovrasensibile si ritrovano in quattro realta tra lora qua­litativamente distinte, ciascuna delle quali e infinita, eterna, immutabile. L' ac­qua di Talete, l'aria di Anassimene, il fuoco di Eraclito e la terra sono le 'quat­tro radici' del mondo: ingenerate, imperiture, da esse deriva tutto cia che na­sce e perisce. L'intelligibilita dell'essere eleatico si trasferisce nel cuore stesso della natura fisica, la cui molteplicita e il cui mutamento si spiegano a partire dai quattro elementi immutabili, cosi come la chimica moderna spiega i feno­meni a partire dagli elementi della tavola di Mendelejev. Ma Ie quattro radici sono soltanto gli ingredienti materiali dell'universo: sono come i colori- l'im­magine e della stesso Empedocle- sulla tavolozza di un pittore, che sene ser­ve per mescolarli 'secondo un giusto accordo', creando figure di uomini, alberi e animali. I quattro infiniti elementi sono soggetti a due forze tra lora con­trapposte, l'amicizia e la contesa (noi diremmo l'amore e l'odio), la prima in­tenta a mescolare i quattro elementi, la seconda a separarli fino a raccoglierli ciascuno in un suo stato di aggregazione totalmente estraneo, anzi avverso, agli altri. Quando vince l'amicizia, allora gli elementi sono raccolti, per compe­netrazione reciproca, in una sfera che ha i caratteri della sfera eleatica, esclu­so quello dell'assoluta omogeneita. Prima che la contesa si introducesse, per disgregarlo, nel compatto volume,

d'ogni parte era uguale e del tutto illimitato lo sfero circolare, che gode­va in se nella sua solitudine.

Se l'amicizia dominasse senza doversi confrontare con l'avverso principia della contesa, nulla nascerebbe e nulla perirebbe, non avremmo ne molteplici­ta ne mutamento. Se, d'altra parte, fosse assoluto il dominio della contesa, }'immobile eternita terrebbe ognuno dei quattro elementi prigioniero in se stesso.

2.19 II pessimismo etico-religioso. C'e qualcosa di profondo nella tesi scon­certante di Empedocle: senza la contesa, l'amicizia sarebbe eterna immobilita.

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Lo stesso avverrebbe se la contesa non fosse sovrastata dalla forza unificante dell'amicizia. L'amicizia unisce il dissimile col dissimile (l'acqua col fuoco, ad esempio), mentre la contesa unisce solo il simile al simile (l'acqua con se stes­sa). Alle radici dell'esistenza c'e dunque un 'peccato primordiale' di cui gia aveva parlato Anassimandro (1.29): la separazione degli elementi dall'unita del­lo Sfero. Ma in quanto risulta dall'unione di elementi dissimili tra loro, ogni cosa esistente e un parziale trionfo dell'amicizia, che diverra trionfo totale quando, alia chiusura del ciclo cosmico, la perfetta compenetrazione degli ele­menti sara restaurata.

Al principio, e cioe dopo il primo infrangersi dello Sfero per opera della contesa, le aggregazioni degli elementi davano origine a esseri mostruosi:

Spuntarono rnolte teste senza collo; erravano braccia nude prive di spal­le, e occhi solitari vagavano senza fronte (fr. 57).

Nacquero rnolti esseri con due facce e con due petti; stirpi bovine con volti urnani e, all'inverso, stirpi urnane con volti bovini; forme maschili e fernrninili rnescolate insieme (fr. 61 ).

C'e chi ha voluto vedere in Empedocle un presentimento della teoria darwi­niana della evoluzione delle specie. Anche se non si puo negare che Empedocle abbia forse utilizzato, in questa ricostruzione delle origini, la scoperta di qual­che fossile mostruoso o la notizia di nascite deformi (le mitologie, oltretutto, ne sono piene), e piu prudente ritenere che nella sua narrazione egli abbia ob­bedito a criteri puramente deduttivi: la vittoria della discordia produce mo­struosita, cosi come la vittoria dell'amicizia produce armonia. Del resto, anche l'esistenza dell'uomo e in se mostruosa, in quanto, come si e detto, comporta una parziale egemonia della discordia. Semmai, va notato come nella meta­morfosi dell'universo Empedocle veda in azione non gia una ragione che tutto ordina verso un fine, rna una necessita (ananke) che regola daH'interno il mo­to di ciascun elemento e il caso (tyche) che da vita a forme impreviste, pur dentro le maglie della necessita. La funzione direttiva dell'amicizia e della con­tesa sembra restar chiusa nella sfera etico-religiosa, senza reale incidenza nel meccanismo del mondo. A differenza di Eraclito, che vedeva la contraddizione come una compresenza di opposte tensioni mai separabili l'una dall'altra, Em­pedocle pone la contraddizione al di sopra delle cose e ne fa un conflitto tra due entita separate tra loro, al punto che il pieno dominio dell'una esclude to­talmente la presenza dell'altra.

In questa incapacita di ridurre le sue intuizioni a unita sistematica, Empe­docle sconta la doppia ispirazione a cui obbedisce: quella tipicamente ellenica, che mira, come gia avevano fatto gli ionici, a ridurre tutte le cose dentro le misure della ragione, e quella orfico-pitagorica, che considera come un male l'esistenza separata ed esalta l'impeto ascetico-contemplativo come unica forza capace di sollevare l'uomo oltre la vita terrena, la cui ragion d'essere e lo sta­to difettivo dell'amore.

Gli uomini vedono soltanto una piccola parte di una vita che non e vita; condannati a pronta rnorte, sono rapiti e si dileguano come furno. Ognuno

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di essi e persuaso solo di cio in cui a caso s'imbatte; e, sospinto in tutte le direzioni, si vanta di scoprire il tutto. Tanto e difficile che queste case siano viste o udite dagli uomini e abbracciate dalla !oro mente. Tu dunque, poiche sei qui giunto, saprai non piu di quanta Ia mente umana possa (fr. 2).

Anassagora

2.20 Tutto e in tutto. Nonostante i lati ancora oscuri della sua vita e della sua opera, Anassagora* di Clazomene ci appare pienamente interno al tempo nuovo della Grecia, cioe a quella nuova forma di umanita che, iniziata con Pe­ricle, avrebbe trovato compiutezza ai tempi di Alessandro Magno. Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle avevano scandito l'emergere del pensiero ra­zionale dal grembo del medioevo religioso, di cui il loro insegnamento infatti conserva, in varia misura, i toni e le forme. Con Anassagora, il pensiero diven­ta totalmente laico, noncurante dei miti.

La Ionia, da cui egli veniva, gli aveva affidato l'eredita dei fisici di Mileto, iniziatori dell'alleanza tra razionalita naturalistica e ascensione sociale del de­mos, della porzione attiva del popolo, in conflitto con l'aristocrazia. L' Atene di Pericle accoglie, con Anassagora, l'eredita di Mileto. Del resto, accanto a Peri­de c'e la prima donna intellettuale della storia, anch'essa ionica, anzi proprio di Mileto. Si tratta di Aspasia, l'affascinante etera il cui 'sal otto', a dispetto dei suoi denigratori, non e un luogo di vizio rna di spregiudicato dibattito in­tellettuale. AI centro di quel dibattito, che era stato ravvivato dall'innesto elea­tico di Zenone, c'e Anassagora. Questo periodo aureo finira quando gli avver­sari di Pericle potranno sottoporre a processo sia Aspasia che Anassagora. L'accusa contro Anassagora era di empieta, documentata soprattutto con le sue affermazioni cosmologiche, fra le quali la piu grave era che «il sole e pie­tra e la luna e terra». Ridurre gli astri a pura e semplice materia equivaleva a negare brutalmente la loro divinita. Per questo egli ·fu condannato e solo con l'esi­lio si salvo dalla morte. Un caso che per tanti aspetti ricorda quello di Galileo.

In una societa operosa, ravvivata da recenti trionfi e da grandiose prospet-

Anassagora. Nato trail 500 e il496 a Clazomene, nella Ionia, si trasferi­sce nel 462 ad Alene dove vive, per 30 anni, in rapporti di amicizia con Pe­ricle. E maestro di Euripide ed ha contatti col giovanissimo Socrate. Gli oligarchici avversari di Pericle spingono Ia parte popolare a promuovere iniziative giudiziarie contra i suoi amici.

Tra i presi di mira c'e Anassagora, che nel 431 viene accusato di em­pieta. La condanna a morte e commutata nell'esilio, per l'appassionata di­fesa di Pericle. Si rifugia a Lampsaco, nell'Asia minore, dove muore nel 428. Ci restano numerosi frammenti della sua opera Sulla Natura

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tive, non poteva far presa l'insegnamento eleatico, specie negli sviluppi radica­leggianti di Zenone e di Melissa, che riducevano a pura parvenza il mondo dell'esperienza sensibile. D'altra parte, la lezione di Parmenide circa il nodo che stringe il pensare e l'essere, per cui cio che none non puo essere pensato e cio che e pensato e, appariva come una conquista non piu rinunciabile. Per suo conto, Empedocle aveva tentato di superare il conflitto tra mondo dell'es­sre e mondo del divenire attribuendo le qualita dell'essere ai quattro elementi, ciascuno dei quali eterno e immutabile. Ma il sistema di Empedocle era vizia­to dal dualismo tra la meccanica delle aggregazioni e la sfera sovrastante dell'amicizia e della contesa, dualismo che obbediva a due esigenze di diversa natura, quella scientifica e quella etico-religiosa. Ma poi, come si puo render canto di una realta sensibile cosi straordinariamente diversificata facendola derivare dalla commistione di quattro elementi?

Gli elementi, ciascuno dei quali ha i caratteri dell'essere parmenideo, sono, per Anassagora, infiniti e in numero e in qualita. Egli li chiama semi di tutte le cose. A porre questa ipotesi Anassagora e stato condotto da una osservazio­ne molto elementare: nutrendoci di pane e di acqua, e dunque di elementi in apparenza semplicissimi, noi cresciamo in tutte le parti del corpo: carne, ossa, arterie, peli, ecc. Vuol dire che nel pane e nell'acqua ci sono, «non visibili alia mente», i semi di carne, ossa, arterie, peli, ecc. «Come potrebbe il capella na­scere da cio che non e capella o la carne da cio che non e carne?» (fr. 11). Quando il pane si trasforma in carne, in realta non c'e un passaggio dell'esse­re al non-essere (il pane che cessa di esser pane) e dal non-essere all'essere (la carne che comincia ad essere), rna c'e soltanto una trasposizione di semi da un miscuglio (il pane) a un altro (la carne), perche nel pane ci sono infiniti semi, anche quelli della carne, e se il pane e pane e solo perche in quella particolare aggregazione i semi del pane hanna predominanza. Di qui l'assioma di Anassa­gora: tutto, e in tutto. L'assioma vale non solo per le cose sottoposte alia no­stra esperienza (come il pane e la carne del nostro esempio) rna anche per cia­scun seme in se preso: in un seme di oro sono presenti tutti gli altri semi. Non solo in un seme di oro rna in ogni sua particella, dato che ogni seme e divisibi­le all'infinito, come voleva la logica di Zenone. Con questa di diverso: che per Anassagora la divisione all'infinito non conduce al nulla rna all'infinitamente piccolo. Spetta ad Anassagora il merito di avere introdotto il discorso sul dop­pio infinito, quello dell'infinitamente piccolo e quello dell'infinitamente grande.

Non possiamo qui trattenerci sulle questioni nate dalla contradditorieta della tesi di Anassagora sugli elementi semplici, qualitativamente diversi l'uno dall'altro rna tutti compresenti in ciascuno e tuttavia divisibili ciascuno all'in­finito. Come rilevera Aristotele, l'incongruenza di Anassagora e nel non aver distinto la qualita e il suo substrata, la sostanza che sta sotto le qualita. E su questa punto che, come vedremo subito, Democrito vince Anassagora in coe­renza logica.

La riduzione dei semi a misure infinitesimali e la presenza di tutti in cia­scuno permettono ad Anassagora una descrizione della condizione originaria del mondo che ci richiama alia mente la sfera dell'essere parmenideo e lo sfe­ro di Empedocle:

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Tutte le sostanze erano insieme, infinite per numero e per piccolezza: si, anche la loro piccolezza era illimitata. Stando tutte insieme, nessuna era di­stinguibile dalle altre, a causa della loro piccolezza. Su tutte dominavano l'aria e l'etere, anch'essi infiniti: rna nel senso che, nella massa totale, sono grandissimi per quantita e per dimensioni (fr. 1).

2.21 L'Intelletto. In questa miscuglio indifferenziato (si ricordi l'apeiron di Anassimandro, 1.29) si determino un movimento rotatorio che apri un vortice nel cuore della massa, provocando la separazione dei semi a seconda della lo­ro maggiore o minore pesantezza e una loro riaggregazione infinitamente di­versificata e mutevole, di cui le nascite e le morti non sono che episodi appa­renti, dato che nulla nasce e nulla veramente si distrugge. Machi ha svegliato nel cuore del miscuglio originario questa vortice rotatorio? Nella risposta a questa interrogativo e forse il vero momenta geniale del sistema di Anassago­ra, certamente quello a cui piu si e riferita la speculazione successiva. E. stato il nous, l'Intelletto:

Tutte le altre cose partecipano di tutto: l'Intelletto invece e infinito e au­tonomo, e non si mescola a nulla, rna e solo e chiuso in se stesso ... E la piu sottile e Ia piu pura delle cose: ha perfetta conoscenza di tutto e il supremo dominio su tutto, e per quante cose abbiano esistenza, grandi o piccole che siano, su tutte ha potere l'Intelletto. Tale e tanto e questo potere che fu l'In­telletto ad avviare il processo iniziale: ha fatto cominciare il rivolgimento piu piccolo, poi la rivoluzione e diventata piu grande e diventera sempre piu grande. Tutte le cose che si mescolano, si separano e si dividono, la mente le ha conosciute; e qualunque cosa doveva essere o e stata in passato e ora non e piu, e cio che ora esiste e qualsiasi cosa esistera un giorno, tut­to l'Intelletto ha ordinato (fr. 12).

E. pr.essoche tutto quanta conosciamo della dottrina dell'Intelletto di Anas­sagora: troppo poco per dirimere le innumerevoli questioni a cui essa ha dato luogo fin dall'antichita. Platone e Aristotele rimproverarono l'Intelletto di Anassagora di provvedere al movimento delle cose senza ordinarlo a un fine, cioe in modo meramente meccanico. L'assenza di un'intenzione finalistica sem­bra togliere all'Intelletto una delle qualita necessarie perche possa essere chia­mato Dio o anche semplicemente spirito. Forse e piu vicino al vero chi, smi­nuendo di molto la novita dell'intuizione di Anassagora e riferendosi all'aria di Anassimene (secondo la tradizione maestro di Anassagora) e al fuoco di Eracli­to, fa dell'Intelletto un principia vitale intemo al cosmo fisico, separato dalle cose e insieme presente in ciascuna di esse cosi come l'anima in un corpo animale.

Ma la dottrina di Anassagora sull'Intelletto acquista grande rilievo se collo­cata nel suo contesto sociale e nell'inclinazione prammatica, vorremmo dire polemica, che le deriva dal sistema logico di cui fa parte. Anassagora non e un mistico, a dispetto di alcuni antichi aneddoti che ne vorrebbero fare un con­templativo, e non e nemmeno un metafisico, come bene avvertirono sia Plato­ne che Aristotele. Come il suo amico Pericle trasferi il tesoro della lega de­lio-attica da Delfi ad Atene, secolarizzando, con gesto spregiudicato, un patri­monio religioso, cosi Anassagora assunse le tradizioni precedenti, rispettose dei miti anche quando essi esprimevano l'audacia della ragione, in una sintesi

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rigorosamente laica, in cui perfino l'istanza apparentemente religiosa, quella dell'Intelletto 'creatore', in realta serviva a dare razionalita autonoma al co­smo. diventato materiale in ogni sua parte, terrena o celeste. Sia pure in modo embrionale, Anassagora offre perfino il metodo della ricerca razionale che sa­ra approfondito e adottato dalla scienza moderna:

Per debolezza dei sensi non siamo capaci di discernere il vero: rna pos­siamo valerci dell'esperienza, delle memorie e dell'arte (techne) nostre pro­prie: perche cio che appare e un fenomeno di cio che non si vede con gli oc­chi (fr. 21).

Come dire: i dati della conoscenza sensibile vanno organizzati anche con l'uso di strumenti (techne) e dunque di tecniche appropriate e solo allora di­ventano esperienza. La quale, una volta conservata nella memoria, costituisce un retroterra di comparazioni e di ipotesi da cui e possibile partire per una in­terpretazione del nuovo che sia conforme alla ragione. Aristotele ricorda che per Anassagora l'uomo si distingue dagli animali non tanto perche dotato di ragione rna perche possiede le mani, e cioe in grado di adoperare e trasforma­re le cose. Tanto e bastato perche qualche recente critico ne facesse un pre­cursore di Marx! Non si cede invece all'esagerazione se si riconosce in Anassa­gora il prototipo del nuovo intellettuale organico alla democrazia ateniese, che fara della capitale dell'Attica Ia patria universale dell'uomo moderno. ·

Democrito

2.22 L'atomismo meccanicistico. Anassagora pote essere accusato di empie­ta perche aveva Iiberato i cieli e Ia terra dalla presenza degli dei, rna c'era, vi­cino a lui, chi non gli risparmiava pubbliche critiche per una ragione opposta, e cioe perche con Ia sua dottrina dell'Intelletto riconsegnava Ia natura aile in­fluenze di un potere ad essa estraneo. Secondo una testimonianza raccolta da Diogene Laerzio (ritenuta oggi poco attendibile), Anassagora non aveva voluto ammettere nella cerchia dei suoi discepoli un pensatore disceso dalla lan­tana Tracia, Democrito* di Abdera, il quale «faceva dell'ironia sulle dottri­ne di Anassagora concernenti l'ordinamento del mondo e dell'Intelletto>>. E di­fatti, nei confronti di Democrito, Anassagora e ancora un filosofo non del tutto conseguenziale nel suo sforzo di spiegare la natura esclusivamente con gli ele­menti che la compongono. La divisibilita all'infinito dei 'semi', Ia confusione tra le qualita e Ia sostanza che fa loro da substrata e, appunto, l'onnipresenza dell'Intelletto quale principia diverso dalle cose, erano altrettanti punti critici in cui l'intento razionalistico rimaneva bloccato nei vicoli ciechi del dogmati­smo. A far compiere alia ragione !'ultimo passo sulla medesima via percorsa da Anassagora e aperta un secolo prima dai pensatori di Mileto fu proprio De­mocrito. Dotato di un sapere enciclopedico che lo rese celebre fra i contempo-

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ranei, conoscitore dei mondi culturali piu diversi, anche per aver viaggiato in Egitto, in Persia e perfino in India, dedito completamente alla ricerca senza il fastidio di occupazioni politiche, egli era nelle condizioni ideali per condurre a sintesi le tradizioni filosofiche diverse. Ma la sua non fu una sintesi eclettica, fu la trasposizione in un quadro razionale completamente nuovo dei motivi do­minanti nel pensiero che lo aveva preceduto. Nel quadro disegnato con geome­trica coerenza da Democrito non c'e piu posto ne per gli dei ne per l'Intelletto, per non dire degli impeti mistici di Parmenide e di Empedocle. La generazione e la fine delle cose, la formazione dei mondi, le attivita spirituali e morali dell'uorrio, tutto deriva, nel sistema democriteo, da principi chiari e distinti, appartenenti all' ordine fisico, come volevano gli ionici, rna conoscibili per la via della ragione e non dei sensi, come volevano gli eleatici, e capaci di genera­re le qualita piu diverse per via di semplici aggregazioni quantitative, come vo­levano i pitagorici.

I princl.pi semplici sono l'atomo, il movimerzto e il vuoto. L'idea di atomo e al punto d4 incontro e di superamento dell'idea eleatica dell'essere indivisibile e dell'idea di Anassagora dei semi infiniti la cui aggregazione genera le cose. Per meglio comprendere la derivazione eleatica dell'idea di atomo possiamo ri­farci a una delle aporie di Zenone (2.15). Dato un segmento finito, esso e divisi­bile in punti infini ti, perc he ogni pun to, per piccola che sia la sua grandezza, e sempre ulteriormente divisibile. Ebbene, o la grandezza dei singoli punti e uguale a zero, e allora il segmento che essi compongono e uguale a zero, o la loro grandezza e estesa, e allora il segmento e infinito, perchc:! risultante dall'addizione di infiniti punti estesi. Democrito esce dalla morsa del dilemma distinguendo tra divisibilita geometrica e divisibilita fisica. Sul piano matema­tico la divisione dell'estensione puo procedere all'infinito, rna sul piano fisico essa dovra per forza arrestarsi a un limite oltre il quale la resistenza del corpo esteso, infinitamente minuscolo, non consente di procedere. Questo corpo infi­nitesimo non divisibile e l'atomo (atomo vuol dire, in greco, non divisibile). Questa e la prima differenza tra l'atomo e i semi di Anassagora, che erano di­visibili all' infini to.

Democrito. Nato ad Abdera, in Tracia, attomo al 460, vi avrebbe accol­to l'irzsegrzamerzto di Leucippo, corzsiderato come il forzdatore della scuola atomistica. Di Leucippo sappiamo solo che era di Mileto e che, prima di trasferirsi ad Abdera, aveva sostato ad Elea dove ·aveva frequentato Zeno­ne. E Democrito stesso che si vanta di aver viaggiato piu di qualsiasi dei suoi contemporanei. Ad A tene giunge in eta matura, gia famoso peril suo sapere enciclopedico. Vive fin verso il 370. Dopa la sua morte, i suoi scritti furono raccolti e distribuiti in urz corpo organico che abbracciava tutto lo scibile: La morale, Ia fisica, la matematica, Ia musica, le arti e le tecniche. Tale mole di opere fa capire perche Aristotele lo considerasse <<un uomo che aveva riflettuto su tutto». A noi restarzo solo frammerzti.

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In secondo luogo, mentre i semi hanna ciascuno una sua qualita originaria che lo distingue dagli altri, gli atomi hanna la sola qualita di occupare della spazio, sono cioe corporei: a distinguerli l'uno dall'altro sono soltanto i carat­teri geometrici della forma e della grandezza.

In terzo luogo, mentre i semi si aggregano e si disgregano secondo le dispo­sizioni di un Intelletto esterno ad essi, gli atomi sono intrinsecamente dotati di movimento, e si urtano, si aggregano e si disgregano senza alcun intervento esterno. Ciascun atomo ha le caratteristiche dell'essere parmenideo: e eterno, immutabile, indivisibile, conoscibile solo dalla ragione, non dai sensi. Gli ato­mi, infiniti per numero, sono, per dir cosi, la sfera parmenidea ridotta in fran­tumi, con la conseguenza che, mentre dall'Uno eleatico non era possibile trar­re spiegazione del molteplice e del diverso (che sono poi le caratteristiche del­la natura), dal molteplice democriteo trae ragione e senso l'intero universo dei fenomeni. A una condizione, pen): che allo stesso modo con cui si deve distin­guere tra la divisibilita geometrica e quella fisica, si deve distinguere anche tra il non-essere metafisico e il vuoto fisico, che invece per gli eleatici si iden­tificavano. II vuoto non e puro non-essere: e lo spazio entro i1 quale si compie il movimento degli atomi. Nessun intelletto guida le aggregazioni degli atomi infiniti, le quali dunque avvengono senza nessun fine, cioe in modo meccanico. Il che non vuol dire pen) che avvengano a caso, come pensarono tutti gli ari­stotelici, compreso Dante Alighieri, che accuso Democrito di aver posto il mondo 'a caso'. II moto meccanico ha anch'esso una sua razionalita, diversa da quella del moto finalizzato: una palla che rotola compie un movimento mec­canico che a suo modo e razionale, come quello finalistico del gatto che le cor­re dietro. La razionalita del movimento meccanico non presuppone nessuna in­telligenza che lo sovrasti e lo guidi, e intrinseca al rapporto che corre tra un corpo, il vuoto e gli altri corpi. Inutile sottolineare la genialita di una intuizio­ne che nei tempi moderni ha finito per trionfare, offrendo agli scienziati sia lo schema di lettura quantitativa dei fenomeni naturali, sia il postulato di una Iegge unitaria che regoli ogni aspetto della vita dell'universo, anche di quello spiri tuale.

2.23 II materialismo. Difatti, per Democrito anche l'anima e composta di atomi ed e, dunque, corporea. Solo che gli atomi di cui consta !'anima, non so­lo dell'uomo rna del mondo intero, hanno caratteri particolari: sono, cioe, sfe­rici e mobilissimi, come quelli del fuoco. Nessuna diversita sostanziale tra l'anima e il corpo, dunque: anche le anime, come i corpi, risultano da combi­nazioni meccaniche e si dissolvono quando mutano le combinazioni. E tutta­via, in ragione della sua raffinata complessita, l'anima e in grado di conoscere il mondo, in quanta e in grado di accogliere gli influssi che le vengono dalle cose. Tali influssi sono veri e propri 'effluvi' di atomi, che, attraverso la poro­sita dell'aggregazione corporea, si imprimono nell'anima. La quale reagisce a questa modificazione, passivamente ricevuta, attribuendo agli oggetti che l'hanno provocata qualita che in natura non esistono, come il bianco e il nero, il dolce e I'amaro, il caldo e il freddo. La filosofia moderna chiamera questi caratteri aggiunti dal soggetto all'oggetto 'qualita secondarie', da distinguere dalle qualita primarie, proprie dell'oggetto, che sono, come abbiamo visto, la

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forma e la grandezza. In ogni fenomeno, dunque, occorre distinguere un aspet­to soggettivo, che risulta dall'incontro tra il sentito e il senziente, e un aspetto oggettivo, che consiste nelle qualita spaziali dell'oggetto, conoscibili soltanto col metoda meccanico-matematico.

Ci sono due forme di conoscenza, una autentica e l'altra spuria; a quella spuria appartengono tutte queste cose: vista, udito, odorato, gusto e tatto. L'altra forma, quella autentica, ha per oggello le cose che non appaiono. Quando gli oggetti sono cosl piccoli che la conoscenza spuria non riesce pili a coglierli ne con lavista ne con l'udito, ne con l'odorato, ne col gusto, ne col tatto,-e Ia ricerca deve rivolgersi agli oggetti pili sottili, subentra la conoscen­za autentica, che possiede uno strumento pili fine, adatto allo scopo (fr. 11).

Sia pure in modo ancora informe, c'e gia, qui, la distinzione tra i due mo­menti conoscitivi, quello sensibile e quello razionale, che sara elaborata suc­cessivamente dal pensiero greco e che in Democrito ha un impianto nettamen­te naturalistico, i cui confini sono, da parte dell'oggetto, quell'aggregato cor­poreo dagli infiniti modi che e il mondo e, dalla parte del soggetto, quell'ag­gregato provvisorio che e l'uomo. Nessun varco metafisico, in questa cornice; nessuna possibilita di prendere contatto con realta ultramondane Ia cui stessa ipotesi e, per Democrito, assolutamente impossibile. Anche per Democrito, co­me per Parmenide, l'essere e necessita; solo che Ia necessita democritea none quella della giustizia o del fato che stringe l'essere in saldi vincoli; e la neces­sita causale che connette, anello dopa anello, l'intera serie dei fenomeni della natura.

2.24 L'universalismo etico-politico. Non ci e possibile render canto qui de­gli innumerevoli sviluppi che nella sua vasta enciclopedia Democrito ha tratto da questa sua filosofia della natura. Con curiosa anticipazione sulla moderna paleontologia, Democrito ha descritto l'origine della vita sui pianeta, lo svilup­po delle specie animali e, fra queste, della specie umana, fino al costituirsi del­Ia vita associata e all'invenzione del linguaggio. Nella stesso quadro evolutivo egli spiega l'origine delle leggi e della religione, generata, questa, dal timore dell'uomo primitive di fronte ai grandi fenomeni della natura. Questa nostro mondo e, per Democrito, uno degli infiniti mondi nati dal vortice originario degli atomi: l'uomo, chiuso in una vicenda meccanica che lo precede e lo so­vrasta, non ha altra via di saggezza che quella di sentirsi cittadino del mondo, secondo le misure della ragione e non secondo le pas~wni o l'aggregazione di interessi da cui prende spinta la vita politica. II materialismo si capovolge, in virtu di ragione, in una visione della vita di respiro universale:

Ogni paese della terrae aperto all'uomo saggio: perche la patria dell'ani­mo virtuoso e l'intero universo (fr. 247).

Il disinteresse di Democrito per la vita politica non era frutto di individua­lismo, che anzi egli fu sempre di parte democratica, rna della sua esigenza, ra­zionalmente fondata, di dedicare la vita alia ricerca, senza vincoli di interessi

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pratici (egli spese tutto il suo patrimonio in viaggi) e senza mettere in rischio l'equilibrio interiore, fragile e provvisorio equilibria di atomi, dentro l'eterno alternarsi di nascita e di morte. Spettatore, durante la sua lunga vita, del sor­gere e del disgregarsi dell'ordine democratico ateniese, preferi tenersi in di­sparte per meglio tutelare Ia virtu che egli insegnava, l'euthymia, il buon umo­re, Ia gioia di vivere fatta di moderazione e di benevolenza, rna anche di fer­mezza di carattere e di interiore disciplina. Di questa disciplina faceva parte anche la severa accettazione dei limiti temporali della vita umana, a diversita di coloro <<che non sanno che la natura mortale e destinata a dissolversi e si mettono ir. mente un muc'chio di favole su cia che avviene dopo la morte». Nell'umanesimo di Democrito ogni eco dell'angoscia dionisiaca appare estinta, mentre e gia chiaramente prefigurato l'ideale di vita che diverra comune in Europa a partire dal Rinascimento.

II pensiero cinese nel V secolo a. C.

2.25 L' Atene del Fiume Giallo. La citta di Loyang, dove risiedeva Ia dinastia dei Chou fin dal 771 a.C., se non aveva, nel VI secolo, lo splendore di Atene, era pero anch'essa uno spazio di confronto tra diverse correnti filosofiche, pri­ma fra tutte i1 ju-chia (in cinese chia significa scuola), cioe il confucianesimo, seguito dalla gran parte dei 'letterati'. Ma nell'Atene del Fiume Giallo il dibat­tito filosofico, piu che a ristabilire le tradizioni messe a soqquadro dall'anar­chia dei principi dei vari stati, ormai sottrattisi all'autorita centrale e in Iotta tra loro, serviva a incentivare un virtuosismo logico che ben poco rassomiglia alia robusta maestria dei filosofi greci, nel cui impegno razionale andavano di pari passo la passione dialettica e la volonta di scoprire le leggi che reggono sia il mondo che la citta. La burocrazia filosofica confuciana, per armoniosi che fossero i suoi rapporti interni, non aveva niente a che fare con Ia magi­stratura della polis greca, solcata da conflitti e tuttavia feconda di ordinamen­ti democratici. In contrasto con i confuciani, la «scuola dei logici» tocco i ver­tici di virtuosismo che abbiamo conosciuti in Zenone. Anzi, con curiosa coinci­denza, faceva uso di argomenti zenoniani, come quello della infinita divisibili­ta del segmento: «Prendi_ una bacchetta lunga un piede e dividila in due parti ogni giorno e troverai che questo dimezzare non finira mai, neppure per died­mila generazioni>>. Non per nulla la scuola di questi sofisti si chiamava Tsung­heng-kia, 'filosofi capaci di sostenere qualsiasi tesi'.

2.26 Mo-tse: l'etica statalista. A questa duplice degenerazione, la sclerosi confuciana e lo scetticismo della scuola logica, si oppose con uno zelo non sce­vro di fanatismo Mo-tse, nato nel periodo della morte di Confucio, attorno al 480, e morto attorno al 380 (rna si tratta di date piuttosto incerte). L'opera che porta il suo nome constava di 81 trattati, di cui ce ne restano 53, che solo in minima parte possono considerarsi autentici. Si tratta di divagazioni oratorie

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2- ll pensiero cinese nel V secolo a. C. 0 91

il cui tema ricorrente e la salvezza della nazione e il cui bersaglio principale e la scuola dei letterati e, per semplificare, il loro stesso maestro, Confucio.

Sono due, a giudizio di Mo-tse, i vizi salienti dei confuciani: !'aver ridotto il servizio dello stato a un complicato cerimoniale privo di senso (ad esempio, un figlio rimasto orfano doveva restare in lutto per tre anni, astenendosi fra l'al­tro dalla vita pubblica), e l'indifferenza religiosa. Con vizi del genere, secondo Mo-tse, lo stato va in rovina. Aile raffinatezze cortigiane dei letterati Mo-tse contrappone una visione autoritaria dello stato e all'indifferentismo religioso il ripristino della religiosita tradizionale rinvigorita pero col monoteismo.

Mo-tse ·veniva da una famiglia di guerrieri, cioe da una classe sociale che era stata il nerbo dell'impero rna che, in fase di anarchia, si era disgregata in gruppi di cavalieri erranti pronti a tutte le avventure. Attingendo a questo strato, Mo-tse creo attorno a se una scuola che rassomigliava a una pattuglia militare rigidamente organizzata e cosi devota al maestro che avrebbe accetta­to senza resistenza anche l'ordine di «camminare sul fuoco o su lame di spa­de». La pattuglia di filosofi-soldati era destinata a ristabilire Ia pace tra i prin­cipi e a far valere nella societa lo spirito di disciplina, proponendo, anche con l'esempio, regole di severita spartana: il vestito, appena un riparo dal freddo e dal caldo; la casa, un rifugio; il cibo, il nutrimento indispensabile; la famiglia, un mezzo per procreare e ripopolare la Cina, allora di bassissimo livello demo­grafico. Bando a ogni mollezza: anche la musica, tanto raccomandata dai con­fuciani, era per Mo-tse un mezzo di corruzione.

Solo con una disciplina del genere si poteva costruire lo Stato, che per Mo­tse era un sistema di dipendenze gerarchiche, strette tra loro da un vincolo di obbedienza assoluta. «Cia che il superiore approva, tutti devono approvarlo; cia che il superiore condanna, tutti devono condannarlo». La regola, interioriz­zata attraverso un procedimento che Mo-tse chiamava di 'identificazione col superiore', valeva dagli infimi ai supremi gradi della gerarchia, al cui vertice era l'imperatore, il quale aveva anche lui un superiore, il Cielo, che avrebbe punito le sue disobbedienze con calamita di ogni genere. La necessita di un principia che garantisse la corrispondenza tra autorita e rettitudine spinge Mo-tse a fare appello non solo aile sanzioni del cielo rna anche a queUe degli 'spiriti', edizione popolare del potere celeste. Difatti solo col timore degli spiri­ti era possibile mantenere il popolo nell'ordine. Contro i confuciani, che solle­vavano dubbi sulla loro esistenza, Mo-tse usava argomenti molto prammatici: o gli spiriti esistevano, e allora era giusto celebrare sacrifici in loro onore, o non esistevano, e allora le celebrazioni valevano perche il banchetto sacrificale era una buona occasione per affratellare la gente. t chiaro che anche in Mo­tse si afferma }'indole cinese, che e di porre tutti i valori, anche quelli religio­si, al servizio dell'utilita comune: anche il Dio di Mo-tse (il Cielo, in linguaggio cinese) non e che il supremo principia di legittimita del potere imperiale, dal quale discendono per delega, tutti gli altri poteri.

2.27 L'amore universale. A questa logica non si sottrae nemmeno la dottri­na che ha meritato a Mo-tse fama universale: la dottrina dell'amore. Di recen­te, alcuni nazionalisti cinesi hanno tentato di far passare l'insegnamento di Ge­su di Nazaret come un trapianto tardivo del Kieng-ngai, cioe della dottrina

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dell'amore universale di Mo-tse. Gesu sarebbe il Mo-tse dell'Occidente. Come I

abbiamo visto, Confucio aveva affermato con anticipo di secoli la massima \ evangelica: «Non fare agli altri cio che non vuoi sia fatto a te; fa' agli altri cio che vuoi sia fatto a te», rna l'aveva limitata alla benevolenza reciproca, esclu-dendo il perdono delle offese e, di piu, l'aveva con£inata entro una nozione di prossimo ricalcata sul primato dei rapporti familiari (1.16). Questo amore par-ticolare (pien-ngai) e, sec!i>ndo Mo-tse, fonte di discriminazioni. L'amore, peres-sere universale, deve offrirsi nella stessa misura alla madre e all'uomo piu lontano e sconosciuto, senza alcuna distinzione di persona. Solo per questa via, argomenta Mo-tse toccando di nuovo la corda dell'utilitarismo, e cioe per la via del bene universale, si otterra, di riflesso, il bene particolare. Ma gli uo-mini d'eccezione, a cui si volge di preferenza Mo-tse, saranno liberi anche dal-la premura utilitaristica, sottoponendosi alle piu dure rinunce per amore della giustizia universale.

Uccidere un uomo per salvare il mondo non e agire nell'interesse del mondo. Uccidere se stessi per salvare il mondo, questo si e agire per il bene del mondo!

Solo che, come osservera un secolo dopo il suo avversario Mencio (6.22), un amore cosl generico e indiscriminato, affidato per di piu alle premure coattive del potere, e gia di per se una fonte di disordini e di ingiustizie, perche il suo impeto generoso, non illuminato dalla razionalita e intimamente avverso alla bellezza e alla gioia di vivere, si capovolge paradossalmente (anche la storia del cristianesimo lo dimostra) nel suo opposto, nel fanatismo distruttivo. Nien­te di strano che, dopo un periodo di larga diffusione, il Mochia (la scuola di Mo-tse) sia stata espunto dalla coscienza cinese, che meglio si ritrovava nell'equilibrato umanesimo confuciano.

Israele dopo I' esilio

2.28 La profezia messianica. Fu durante il suo esilio in Babilonia (587-538 a.C.) che il popolo di Israele* sperimento l'efficacia della fede nel suo Dio: se ri­mase un popolo, fu perche la fede nel Dio dell'alleanza, risvegliata dai profeti divenne il suo principia di identita. Ma fu durante le delusioni del dopo-esilio, quando alla voce dei suoi profeti si aggiunse la parola meditata dei suoi saggi, che il pensiero ebraico raggiunse la sua piena maturita. E la raggiunse svilup­pando, a partire dal patrimonio lasciato alla sua coscienza dai profeti piu anti­chi (1.25-26), due linee di riflessione: quella relativa alla speranza messianica, e quella relativa alla responsabilita individuale.

La linea profetico-messianica si svolge. proprio nel periodo in cui le vicende di Israele precipitano nella desolazione dell' esilio e incontrano le tragiche dif­ficolta della ricostruzione materiale e morale dopo il ritorno. I profeti, di cui

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2 - lsraele dopo l'esilio D 93

abbiamo gia messo in luce la funzione critica, assumono come parola centrale quella della promessa. Di quale promessa? L' ordine pienamente umano - ec­co quanta dicevano i profeti -, fallito per infedelta e inadempienza, verra fi­nalmente realizzato da un intervento di Dio, operata in prima persona o per la

lsraele dalJ'esilio in avanti. L'esilio degli ebrei deportati da Gerusalem­me a Babilonia dura una quarantina d'anni (587-538 a.C.). Le grandi figure profetiche che accompagnano questa periodo sono Geremia, il Deutero­lsaia, Ezechiele; il lora messaggio e portatore di Speranza, di prospettive di rimpatrio e di ricostruzione. E soprattutto in questa contesto che fiori­scono le profezie sui tempi messianici.

Nel 538 a.C. il re persian.o Ciro, dopa aver battuto Babilon.ia, restituisce la liberta agli esuli dei vari paesi sottomessi. Gli ebrei tornano in Palestina a diverse ondate e avviano, soprattutto a Gerusalemme, l'opera di ricostru­zione della comun.ita attorno al fulcra religioso, il tempio. Malgrado len­tezze e divisioni, si va a poco a poco formando - sotto la guida degli ulti­mi profeti e di alcuni capi spirituali- la coscienza di essere la comunita superstite di Dio, chiamata a testimoniarlo alle nazion.i (Giudaismo).

Per due secoli (538-333) la storia giudaica trascorre sotto il segno della tollerante dominazione persiana. NeZ 333 la Palestin.a passa ai greci (impe­ro di Alessandro Magno); dal 300 al 200 cade sotto l'egida degli egiziani (di­nastia dei Tolomei), nel 200 sotto quella dei Seleucidi, che fanno opera di progressiva ellenizzazione e repressione delle tradizioni religiose giudai­che, provocando una agguerrita rivolta comandata dalla famiglia dei Mac­cabei. Castoro per quarant'anni e, dopa di lora, gli Asmonei per un'altra settantina restituiscono alla comunita giudaica un periodo di relativa in­dipendenza, attraversato pero da continue lotte fratricide. All'una e alle al­tre mette fine, nel 63 a.C., l'assedio di Pompeo, che conquista Gerusalem­me e fa della Palestina una provincia romana.

E dentro questa cornice di dipendenza politica e di violenti sussulti di emancipazione che vanno inquadrate l'evoluzione religiosa del giudaismo e la letteratura che essa produce. Sul piano del messianismo, le reiterate delusioni storiche portano a differire continuamente l'avvento del tempo buono e felice promesso dai profeti, fino a proiettarlo su un orizzonte che segna la fine stessa della storia. Cosi il messianismo si trasforma, nei seco­li immediatamente prima di Cristo, in apocalisse. Sul piano della riflessio­ne sapienziale, lsraele produce in questa periodo alcune opere di respiro universale, grandi meditazioni sui temi ultimi dell 'esistenza, come il sensa della vita, la morte, la sofferenza degli innocenti. Le piu importanti sono: il libra di Giobbe, la cui datazione oscilla tra il 600 e il 300 a. C.; il Qohelet (tra il IV e il Ill secolo); la Sapienza, ultimo dei Libri dell'Antico Testa­mento (cioe dei libri sacri degli ebrei), scritto nella prima meta del secolo I a. C.; e in fine i Salmi, il libra che raccoglie, nell 'area di diversi secoli, la preghiera di lsraele.

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mediazione di un re da lui inviato e consacrato (= messia), che «giudichera i miseri con giustizia, prendera decisioni eque per gli oppressi del paese» (Isaia). <<Grande sara il suo dominio e la pace non avra fine». Pace universale tra gli uomini, che <<forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» (Isaia); pace con la natura, perche «il lupo dimorera con l'agnello ... e un fan­ciullo li guidera>> (Isaia). In una natura riconciliata non vi sara posto per nes­sun tipo di malattia: i ciechi vedranno, i sordi udiranno, gli zoppi salteranno e i muti grideranno di gioia. A questa integrita umana <da terra rispondera con il grano, il vino nuovo e !'olio>> (Osea). Aridita e siccita saranno bandite perche la terra sara solcata dalle acque che la faranno <<fiorire>> come un giardino (Isaia).

Insieme alia terra fiorira anche il cuore dell'uomo, producendo quelle ope­re di giustizia la cui mancanza ha causato il crollo di Israele. E come puo rina­scere un cuore morto come un deserto arido? Questa possibilita impossibile sara effetto dello spirito di Dio, dono-chiave dei tempi messianici: <<Vi daro un cuore nuovo, mettero dentro di voi uno spirito nuovo, togliero da voi il cuore di pietra e vi daro un cuore di carne. Porro il mio spirito dentro di voi...» (Eze­chiele). Cosi rinnovata, la comunita umana del domani fara esperienza diretta della gloria di Dio e ne cantera all'unisono la magnificenza (Geremia). I tempi messianici saranno dunque tempi di riconciliazione universale: con Dio, con la natura, con gli uomini.

Il senso di un peccato primordiale, che abbiamo rintracciato non solo in oriente rna anche nei pensatori della Grecia, muta radicalmente qualita in Israele. Difatti, mentre gli altri popoli si ripiegano nella memoria di un lonta­no paradiso perduto, eta dell'oro finita per sempre, Israele narra a se stesso l'Eden delle origini, rna solo per dire che esso puo venir ritrovato, anzi non e stato mai realizzato e lo sara solo nel futuro. La nostalgia si converte in spe­ranza. Questa utopia di un'armonia universale da realizzare sulla terra, accesa sulle rive del Tigri, non si e piu spenta nella storia dell'uomo.

2.29 La meditazione sapienziale. Lo sguardo dei profeti si muove nell'oriz­zonte comunit-ario di Israele e spesso in quello dell'umanita intera, chiamata a condividere la pienezza messianica. Ma il seme gettato dai profeti, in partico­lare da Ezechiele* (VII-VI sec. a.C.) con l'intuizione della coscienza individuale produce in questo periodo i frutti di una meditazione sapienziale che ha una certa affinita con alcuni aspetti del discorso filosofico svolto contemporanea­mente dai filosofi greci. I saggi di Israele riprendono la parola dei profeti, con le sue sedimentazioni secolari, e la mettono a confronto con le problematiche della condiziope umana. Mentre i profeti danno risposte perentorie, i saggi esprimono interrogativi, formulano dubbi ed offrono vie di soluzione con pro­fonda aderenza ai moti reali dello spirito umano, come nel libro di Qohelet*, dove si trovano le parole del piu radicale pessimismo e si sfiorano le piu asso­lute negazioni dell'ateismo. Ma il tema piu ricorrente e, ancora una volta, quello della giustizia, condotto pero a un livello di tale radicalita da mettere in questione proprio cio che per i profeti era indiscusso: la giustizia di Dio. Abbiamo gia visto quanto fosse diffusa nelle civilta arcaiche, Grecia compresa, la convinzione che la sorte dell'uomo dipenda dalla sua condotta, che a ogni

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atto umano corrisponda un effetto, positivo o negativo, a secunda della sua qualita morale. Tale corrispondenza appagava il bisogno di bandire dall'uni­verso ogni casualita: tutto vi doveva avvenire secondo un ordine e una misura. Anche il mito della reincarnazione obbediva a questa esigenza di razionalita morale. Israele ha fatto sua questa visione, inserendola nell'alleanza stipulata con Dio sul Sinai. La buona o cattiva sorte di Israele dipendeva dalla fedelta o me no all' alleanza:

Ecco, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poi­che io oggi ti comando di amare il Signore Dio tuo, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi e le sue leggi, perche tu viva e ti moltipli­chi, e il Signore tuo Dio ti benedica ... Ma se il tuo cuore si volge indietro, e se tu non ascolti, io ti dichiaro oggi che certo perirete.

E questa convinzione che da a Israele la chiave per leggere la propria sto­ria. Quando le cose volgono al peggio, vuol dire che la collettivita si e allonta­nata dalla Iegge di Dio. Allora bisogna convertirsi: e il monito dei profeti. Essi traggono dalla constatazione delle trasgressioni di Israele la previsione del suo fallimento e, viceversa, quando il fallimento e avvenuto essi lo spiegano con le trasgressioni passate e ne indicano il superamento nel ritorno alla fedelta all'alleanza, cioe nella conversione. Questa logica comporta che Israele si pen­si come un soggetto indivisibile, come un 'noi' in cui e coinvolta la responsabi­lita di ogni singolo. Ognuno e responsabile di cio che fanno gli altri, ognuno e membro degli altri. La prosperita o la disgregazione provocata da alcuni rica­de su tutti, magari una generazione dopo. I conti, in tal modo, tornano sempre.

2.30 L'immortalita personale. Ma le cose cambiano con l'emergere della re­sponsabilita individuale. Il rapporto tra atto e risultato (moralita/felicita, trasgressione/fallimento) non puo piu essere definito al plurale. Se io faccio il bene, io avro vita e prosperita, se prevarico, attirero su di me la sventura. Ma di pari passo con questa interiorizzazione personale della responsabilita ere­see la severita del giudizio morale sulle situazioni di fatto, le quali mostrano con evidenza che Ia legge dell'alleanza e precisamente invertita: chi si fa beffe della Iegge di Dio (la quale e, come abbiamo visto, soprattutto espressione del­la volonta di giustizia, cioe legge etico-sociale) vive nella prosperita, mentre chi resta fedele al Patto si trova per lo piu in ball.a del sopruso dei disonesti. Nasce spontaneamente il sospetto che il Dio dell' Alleanza sia giusto rna impo­tente, oppure sia potente rna ingiusto. E la crisi della fede di Israele, che esplode con violenza inatidita nella vicenda di Giobbe*, il giusto sofferente, il personaggiu in cui si incarna 1' onesta tradita:

Oh, potessi sapere dove trovare Dio, potessi arrivare fino al suo trona! Ma se vado in avanti, egli non c'e, se vado indietro, non lo sento. A sinistra, lo cerco e non lo scorgo, mi volga a destra e non lo vedo. Poiche egli conosce la mia condotta,

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se mi prova a! crogiuolo, come oro puro ne esco. I malvagi spostano i confini, rubano Ie greggi e le menano al pascolo; portano viad'asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. Spingono i poveri fuori strada, tutti i miseri del paese vanno a nascondersi ... Dalla ciW1 si alza il gemito dei moribondi e !'anima dei feriti grida aiuto: Dio non presta attenzione aile loro preghiere. (Giobbe, 23)

Lo stesso grido di derelizione si incontra in rnolti Salmi*, Ia raccolta delle preghiere di lsraele:

Perche, Signore, stai lontano, nel tempo dell'angoscia ti nascondi? II misero soccombe all'orgoglio dell'empio e cade nelle insidie tramate. L'empio si vanta delle sue brame, l'avaro maledice, disprezza Dio. L'empio insolente disprezza il Signore: 'Dio non se ne cura; Dio non esiste'; questo e il suo pensiero. (Salmo 9-10)

Ecco, questi sono gli empi: sempre tranquilli, ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell'innocenza le mie mani, perche sono colpito tutto il giorno e Ia mia pena si rinnova ogni mattina. (Salmo 73)

I saggi di Israele sono coloro che raccolgono questo larnento e cercano di interpretare il silenzio di Dio. Le loro risposte non sono che tentativi, frarn­rnenti sparsi di.una risposta che la storia non sapra rnai dare interarnente. Al­cuni di loro sottolineano il rnistero della realta e l'impossibilita di sondarlo: la soluzione non e capire, rna credere. Altri contrappongono alia infelicita del giusto non solo la fede nell'ultirna parola che tocca a Dio dire, nel giorno da lui stabilito, rna un'esperienza dell'intirnita con Dio all'ornbra del tempio e nel­la fraternita dei piccoli gruppi. Cosi interiorizzata e spiritualrnente anticipata, l'alleanza e sottratta all'assalto delle srhentite storiche.

Ma la punta piu avanzata della ricerca sapienziale. il cui docurnento piu importante e il Libro della Sapienza*, e quella che perfora il muro stesso della storia. E vero che l'esperienza storica contraddice all'alleanza, dissociando onesta e felicita. Ma questa esperienza non e tutta l'esistenza. Oltre la storia, oltre la morte, c'e un luogo di esistenza dove l'alleanza avra pieno adernpimen­to: la conciliazione tra dovere e felicita:

Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le tocchera. Agli occhi degli stolti parve che morissero;

r )

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la !oro fine fu ritenuta una sciagura, Ia !oro partenza da noi una rovina, rna essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, Ia !oro Speranza e piena d'immortalita.

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Per una breve pena riceveranno grandi benefici. (Libro della Sapienza, 3)

Israele non e stato il primo popolo ad affermare una vita nell'oltretomba. Le Upanishad, Zaratustra, i filosofi greci che come Pitagora han dato voce alle confuse aspirazioni dei culti orfici, hanno affermato, sia pure in modi e con cadenze diverse, che Ia vera vitae altrove, fuori della condizione corporea. Ma que! che contraddistingue Israele e Ia logica di questa affermazione. Mentre per lo pii1 l'immortalita viene fondata sui desiderio da parte dell'uomo di esse­re Iiberato dalla prigione terrena e sulla sua convinzione che una parte di se, !'anima, e di sua natura indistruttibile, Ia sapienza di Israele fonda Ia certezza dell'immortalita sulla giustizia di Dio. Non puo essere che l'ingiustizia sia l'ul~ tima parola della storia: Dio non sarebbe Dio.

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Sommario. II passaggio dall'eta mitica all'eta filosofica presupponeva la nascita del­la citta come spazio di libero scambio economico e di libero confronto razionale. La cit­ta in cui avvenne in modo quasi miracoloso questo trapasso fu Atene dove, abolita la ti­rannide, si sperimento un ordinamento di governo in cui il popolo era sovrano (3.1). Lo splendore creativo della citta tocco il suo culmine con Pericle che, nel rispetto formale della democrazia, ebbe di fatto in mano il governo degli ateniesi, favorendo nuove for­me culturali, come Ia tragedia o come la storiografia, in cui le antiche tradizioni assu­mevano Ia forma laica del conflitto morale e della spiegazione razionale degli avveni­menti (3.2).

In una citta dove era in vigore la mobilita del potere emergevano nuovi ceti che, for­ti della !oro ricchezza, chiedevano anche la cultura intesa come strumento di potere e cioe l'arte del parlare, Ia retorica. E nacquero subito i nuovi maestri, i sofisti (3.3), il cui merito e di aver posto al centro dei problemi quello dell'uomo, misura di tutte le cose (3.4) e proteso al perseguimento dell'utile, nel libero, civile confronto con gli altri per mezzo della parola (3.5). Si faceva strada, cosi, nella coscienza comune, l'esperienza del­lo Stato come creazione dell'uomo e prendeva rilievo, a volte drammatico, la questione del rapporto tra la natura e le istituzioni: il passaggio dall'una aile altre e a danno o a vantaggio dell'uomo? (3.6).

La rivoluzione umanistica dei sofisti trovo una svolta e un completamento in Socra­te (3.7), che anche lui fa del 'discorso' il luogo della verita, rna nel senso che il discorso conduce ad un criteria stabile e unico, quello della ragione (3.8). La ragione di cui parla Socrate e piuttosto la 'coscienza' le cui leggi chiedono obbedienza piu che quelle delle citta (3.9). Piu che un principio razionale la coscienza socratica e un impulso trascen­dente di carattere religioso (3.10). lnvestito da questo imperativo, Socrate si fa maestro di una ricerca diversa da quella dei sofisti: la ricerca morale e cioe del bene come pnn­cipio universale in base al quale l'uomo e uomo (3.11). II metodo di questa ricerca com­porta il momento dell'ironia e quello della maieutica, nel quale l'interlocutore viene aiutato a partorire da se !a verita (3.12). La verita in quanto conosciuta diviene di per se virtu: chi sa il bene e buono, e viceversa (3.13).

Dopo !a morte del maestro, i discepoli, fuggiti dalla citta, ne svilnppano J';nsegna­mento in varii orientamenti (3.14). La scuola megarica recupera lo scetticismo eleatico riguardo alla possibilita di esprimere l'Essere e quindi riguardo alla validita del discor­so logico (3.15). La scuola cinica parte anch'essa dalla inconoscibilita dell'essere per pri­vilegiare il momento della vita morale, identificata nel ritorno alia natura, contro le convenzioni sociali (3.16). La scuola cirenaica punta invece sullo sviluppo della liberta individuale, basata sull'appagamento del desiderio, pur nel dominio delle passioni e nel superamento dei confini della citta (3.17).

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Atene, scuola deii'EIIade

3.1 II governo del popolo. Anche quando nel futuro la coscienza dell'uomo colto avra acquistato dimensioni planetarie e la sua memoria storica abbracce­ra citta e popoli che per lo piu oggi non rientrano ancora nella sua normale rappresentazione del passato, la citta di Atene restera sicuramente per lui un luogo storico-geografico privilegiato. Comunque si tenti di ricostruire la storia spirituale dell'umanita, tutte le strade conducono ad Atene. E un mistero stu­rico, analogo a quello dell'eta assiale (1.9), il fatto che in una citta di quaranta o cinquantamila cittadini abbiano potu to fiorire contemporaneamente, per limi­tarci al secolo V, uomini come Eschilo, Erodoto, Tucidide, Sofocle, Euripide, Fidia, Prassitele, Protagora, Gorgia, Anassagora, Democrito, Sucrate e innume­revoli altri, le cui creazioni sono ancora oggi una misura necessaria per chiun­que voglia portare a pienezza la propria umanita. II mistero si dirada alquanto se si tien conto del singolare concorrere di circostanze che fecero di un mode­sto villaggio attico la citta per eccellenza delle arti e della filosofia.

La circostanza determinante fu che, prima e pili che qualsiasi altra citta dell'antica Grecia, Atene riusci a darsi una forma politica adatta a potenziare e a fare esplodere le capacita dello spirito. II merito primo e di un arcon­te-poeta, Solone, che nel 594, per mezzo di coraggiosi ordinamenti giuridici, sot­trasse Atene al potere di alcune famiglie di possidenti agricoli e ne fece una comun.ita fondata sulla Iegge e animata dalla ricerca del bene comune. Lettore e ammiratore del poeta delle classi oppresse, Esiodo (2.4), egli incremento con accorgimenti doganali 1' esportazione dell' olio, facendo cosi affluire ricchezza nelle mani della plebe rurale, e incentivo con sbocchi di mercato l'attivita arti­gianale. Divise Ia citta, con criteri non di censo rna di territorio, in quattro tri­bu e ne affido il governo a un'assemblea popolare provvista di un organo eletti­vo, il Consiglio (boule), che sostitui nell' Aeropago Ia consorteria aristocratica. In una sua elegia egli poteva dire di se, con legittima fierezza:

Gia serva in passato, ora libera; molti gia venduti, a torto secondo la leg­ge, e molti sospinti dal triste bisogno in esilio, che gia piu non parlavano l'attico, tanto avevano errato fra diversi popoli, io ricondussi ad Atene, pa­tria divina. E liberai quelli che qui sopportavano la dura servitu e tremava­no agli ordini dei padroni (fr. 36).

Dopo quasi un secolo di prosperita economica, Atene fu in grado di com­piere un passo avanti negli ordinamenti democratici. E il passo avanti si ebbe, nel 507, con la riforma di Clistene. II sistema di autogestione popolare da lui introdotto puo considerarsi un modello di democrazia assoluta. Nei limiti, na­turalmente, di una societa che riservava agli schiavi il lavoro manuale: su di una popolazione che si puo calcolare di 200.000 abitanti, avevano i diritti poli­tici solo i maschi nati liberi ad Atene al di sopra dei 18 anni: circa 40.000. Di fatto, l'assemblea popolare, neUe sue adunanze plenarie, raccoglieva 5.000 cit­tadini, troppi comunque per una ordinata attivita legislativa. Clistene provvide alla difficol ta affidando 1' esercizio effettivo del potere a un consiglio elettivo

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di cinquecento membri, cinquanta per tribu (egli aveva elevato a 10 il numero delle tribu). 11 consiglio affidava a sua volta i compiti esecutivi a una giunta (pritania) di cinquanta membri, che durava in carica una decima parte dell'an­no, di modo che in un anna tutte le dieci tribu avessero esercitato a turno il potere. Questa sistema decimale fu applicato anche all'esercito, affidato alla direzione di 10 strateghi (uno per tribu) che, a differenza degli altri magistrati, potevano essere rieletti. Di qui il !oro potere. Pericle fu appunto uno stratega. Gli arconti invece, e cioe i capi delle pritanie (noi diremmo j, capi della stato), duravano in carica un solo giorno. Un capolavoro, come si vede, di partecipa­zione democratica al potere, con tutti i rischi che una mobilita cosi esasperata portava con se. II vera obiettivo di tanta mobilita era di garantirsi contrail ri­sorgere della tirannide. II medesimo intento aveva l'isiituto dell'ostracismo (da 6strakon, il coccio su cui si segnava il voto): l'assemblea poteva decidere, per maggioranza, di espellere chiunque desse sospetto di voler emergere, metten­do in pericolo le istituzioni democratiche.

Le degenerazioni demagogiche di questo complicato meccanismo politico riempirano Ia storia del secolo V e furono oggetto della piu severa critica da parte di Socrate, o quanto meno di Platone. Ma in ogni caso fu ad Atene che lo Stato apparve, in tutto e per tutto, come creazione dell'uomo, non degli dei, e il cittadino, invece di sentirsi esposto aile forze oscure della natura e agli arbitri del fato, si senti protetto e potenziato da una ordinata compagine di vo­lonta convergenti verso il bene comune. E fu ad Atene che, per Ia prima volta, tutte le attivita dello spirito trovarono Ia lora sintesi nell'ideale politico. II poeta, l'artista, lo storiografo, il filosofo sono innanzitutto cittadini che vivo­no, alia pari degli a! tri e senza posizioni di privilegio, Ia comune vicenda. Ecco perche nelle opere di fantasia e di pensiero lasciateci dalla citta piu creativa della storia traspare, senza danno per l'impronta c,iel genio individuale, ]'indo­le comune della passione politica, il fervore e Ia tensione di un dialogo civico capace di ricomporre in equilibria le contraddizioni piu accese.

Ma lo splendore della democrazia ateniese non si riflette soltanto nelle creazioni della spirito. La vittoria dei greci contro lo sterminato esercito di Serse fu soprattutto opera degli ateniesi, che nella battaglia di Salamina (480) dettero una prova decisiva di quanto Ia democrazia, che fa di ogni cittadino un sovrano e del bene comune fa il bene di ciascuno, prevalga, in guerra come in pace, sulle forme di governo che basano Ia lora compattezza sui timore.

3.2 L'eta di Pericle. Tocco a Pericle dare il suo nome a questa eta florida della democrazia ateniese. Con totale rispetto degli ordinamenti stabiliti da Clistene, P.ericle (425-429), in qualita di stratega, domino Ia vita politica della sua citta dal 444 al 429, non con altri mezzi che con la sua capacita di dar vo­ce e forma politica a un popolo che, in que! giro di anni, costruiva sull' Acropo­li il Partenone, si appassionava aile tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripi­de, leggeva le storie fantasiose di Erodoto, assisteva, divertito o irritato, aile esibizioni dialettiche dei nuovi filosofi, come Protagora di Abdera o Gorgia di Lentini. Pericle era lui stesso un signore della parola, il che lo rendeva facile vincitore nelle assemblee. Ma Ia sua abilita politica non si riduceva all'arte re­torica. Per dar vita al suo progetto di una egemonia panellenica di Atene, egli

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uso i classici strumenti dell'astuzia e della forza, avviando cosi il processo di corruzione della vita politica della sua citta. Comunque, la razionalita pram­matica di Pericle contribui anch'essa ad accelerare il trapasso di Atene dall'eta arcaica all'eta moderna, da una visione del mondo dominata dai miti omerici a una visione del mondo laicamente misurata sui primato della ragione.

In questo nuovo dima, i1 posto di Omero (i cui poemi peraltro continuano a essere i testi base della paideia ellenica) e preso da Eschilo (525-456), che po­tremmo chiamare l'Omero dell'eta democratica. E stato Eschilo a tramutare gli antichi miti in figure simboliche (pensiamo all'Orestiade) della condizione umana universale. Minacciato dalle forze interiori della dismisura e dell'acce­camento e, esternamente, dalla onnipotente rappresaglia della giustizia divina, l'uomo non trova altro spazio di salvezza che quello della citta, nella quale le opere di giustizia possono convertire le funeste Erinni in benevole Eumenidi.

Dicono le Eumenidi nella tragedia omonima:

Su questa terra non incrudelisca mai l'infame guerra civile, apportatrice terribile di sventure, ne i cittadini siano spinti dall'ira a uccidersi l'un l'al­tro, macchiando di sangue la terra. Anzi, il reciproco aiuto giovi al bene co­mune, e sian tutti di un animo solo nell'odio contro il nemico: che questa salva gli uomini da mali infiniti. Sia a te salute e ricchezza, o popolo beato.

II 'popolo beato' elaborava il suo nuovo ethos mettendo in armonia le nuo­ve esperienze democratiche, animate dalla ricerca razionale della giustizia, e il senso tragico dell'esistenza, tenuto vivo e segretamente propagato dalle reli­gioni sotterranee di tipo dionisiaco. Non a caso Eschilo veniva da Eleusi, Ia citta dei 'misteri'. Questa sintesi, data Ia straordinaria versatilita del genio greco, non avveniva in un solo senso. Sofocle (497-406) integrava Eschilo esal­tando la Iegge non scritta della coscienza, facendo del martirio di Antigone il preludio scenico del martirio di Socrate, nel quale Ia democrazia calera Ia ma­schera svelando Ia propria natura violenta. Euripide (485-406), gia toccata dal presentimento della fine del 'popolo beato', mette al centro delle sue creazioni il carattere convenzionale delle leggi - di ogni Iegge - e la \oro impotenza di fronte alia ruota inesorabile del destino.

Ma il genio greco ha il suo tratto saliente nella 'misura', e cioe nel ristabili­re gli equilibri col gioco degli opposti. E cosi, gli impeti metafisici dei tragici trovarono riscatto nella commedia di Aristofane (450-385), che muoveva al riso le platee ateniesi non solo col mettere in burla i 'nuovi filosofi' che intaccava­no Ia fedelta al costume trasmesso dai padri, rna col riabilitare quella saggez­za politica che il senso tragico della vita rischiava di avvilire e di distruggere.

Questa pluralita delle forme dello spirito, radicate tutte, pur nei !oro estre­mi contrasti, dentro il medesimo ethos, Ia troviamo splendidamente descritta nel discorso che Tucidide mette sulle labbra di Pericle:

Noi amiamo il bello, rna con equilibria; filosofiamo, rna senza raffinate sottigliezze. Rettamente riflettiamo e apertamente giudichiamo sugli affari privati e pubblici, convinti che i discorsi non nuocciono all'operare, rna ad

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esso nuoce piuttosto passare ai fatti prima di aver chiarito nel discorso le idee. Poiche noi abbiamo questo pregio singolare di essere insieme al som­mo ardimentosi e riflessivi in tutto quanto intraprendiamo; diversi percio dagli altri, nei quali l'ignoranza genera audacia e la ponderatezza lentezza. Per raccogliere il molto in poco, dico insomma: Atene e la scuola della Gre­cia: ogni suo cittadino e pronto a compiere le opere piu diverse con disin­voltura e con grazia.

Il passaggio dall' eta sacrale a quella razionale avvenuto nell' Atene del V se­colo fu dunque opera ·non di isolati ingegni rna dell'ingegno collettivo avvezza­tosi, mediante l'esercizio della democrazia, a comparare i fatti, ad analizzare le possibilita, ad assumersi le responsabilita e a pronunciare giudizi sull'ope­ra to di ciascuno.

Un monumento di questa razionalita critica che considera la politica come il vero spazio della crescita umana e la Storia del Peloponneso di Tucidide (460-390). Mentre Erodoto (485-430) trasfondeva nelle sue storie la stessa curio­sita naturalistica della cultura ionica di cui era figlio (era nato ad Alicarnasso) e mirava, nei suoi resoconti di paesi lontani, a destare meraviglia, un po' come il nostro Marco Polo nel suo Milione, Tucidide riconduce la memoria nei confi­ni della ragione, ricerca le cause dei mali di Atene, coinvolta in una guerra di­sastrosa, e, con gli stessi criteri della medicina di lppocrate allora in formazio­ne, indica una prognosi basata, senza residui teologici, sulle illazioni della ra­gione. Anche la storiografia si fa, cosi, funzionale alla politica.

I sofisti

3.3 Una scuola per Ia politica. Ogni cittadino ateniese, una volta entrato nell'assemblea, era eguale all'altro. Le differenze di sangue e di censo non creavano nessuna disparita di diritti. Ma era inevitabile che, di fatto, gli ari­stocratici, che erano quasi sempre anche i piu facoltosi, avessero la meglio. Pericle, ad esempio, era nobile e ricco: due qualita che, congiunte alle sue ec­cezionali doti umane, contribuirono in modo decisivo ad assicurargli per un tempo assai lungo il potere di guida del popolo. A gareggiare nell'assemblea c' era no anche dei ricchi senza prestigio di stirpe: possidenti agrari diventati industriali come Agnone, proprietari di miniere come Nicia e Callia, fabbri­canti d'armi come Cefalo. Negli ultimi anni di Pericle, e in quelli trail 430 e il 420, accanto a questi rappresentanti dell'alta borghesia prese spicco una nuova classe, di estrazione plebea, che aveva accumulato grossi c'apitali durante la fervida espansione economica della citta. Era l'ala radicale del partito demo­cratico, che contava uomini come il pellicciaio Cleone o come il mercante di bestiame Lisicle o come il venditore di tessuti Eucrate. Nei confronti degli ari­stocratici, eredi di una raffinata cultura familiare, tanto i borghesi come Nicia quanto i popolari come Cleone si sentivano in svantaggio per la mancanza di uno strumento che, nei dibattiti dell'assemblea, finiva con l'essere decisi.vo:

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l'eloquenza. Pur di acquistare un simile strumento, se non per se almena peri propri figli, essi erano pronti a pagare senza risparmio. E i venditori di elo­quenza arrivarono.

,Pare che i primi a farsi pagare peril loro insegnamento siano stati Zenone, il discepolo di Parmenide, e Protagora, il capostipite dei nuovi maestri, che fu­rono detti sofisti*, e cioe professionisti del sapere. II termine ebbe ben presto il sensa spregiativo che ha oggi. Non a caso tutti i sofisti vennero ad Atene da altrove: l'etica dominante - quella a cui Aristofane prestava la sferza della sua ironia- mal consentiva, anche se la tollerava, la pratica dell'insegnamen­to diet:ro retribuzione. Ma a noi riesce facile riconoscere che, in una societa matura come quella di Atene nel V secolo, non poteva non prender forma la funzione che le classi dirigenti di oggi si assicurano con la scuola, dove i pro­fessori vengono pagati: la funzione di preparare le nuove generazioni ad af­frontare le responsabilita politiche con adeguati strumenti culturali. Si e vista (1.16) come anche in Cina i maestri della scuola confuciana fossero retribuiti. D'altra parte, i sofisti erano lucidamente consapevoli che il loro compito non era la pura ricerca filosofica, era l'insegnamento della virtu politica, o piu semplicemente della virtu (in greco arete), dato che prima della rivoluzione di Socrate, di cui presto diremo, non si faceva distinzione tra morale e politica. Come spiega Protagora nell'omonimo dialogo di Platone, la lora

e una dottrina che fornisce a chi Ia coltiva la possibilita di decidere sag­giamente sia le questioni domestiche, amministrando nel modo migliore la propria casa, sia i problemi politici, rendendo piu efficace l'agire e il parla­re politicamente.

Il 'parlare politicamente', e cioe parlare nell'intento e con la capacita di conquistare alle proprie tesi la maggioranza dell'assemblea: ecco la qualita, eminentemente pratica, che la nuova scuola si proponeva di sviluppare nei gio­vani. Quanta al metoda - Protagora lo dichiarava apertamente - la nuova scuola non faceva che dare sviluppo alla forma educativa classica, fondata sull'apprendimento dell'epica di Omero e di Esiodo e sull'uso appropriato di esempi e di citazioni tratte dai due 'teologi' dell'Ellade, come li chiamo Erodo­to. Nella riforma sofistica, l'apprendimento riguarda l'uso di particolari tecni­che del discorso, cioe la retorica, l'arte dell'argomentare e dell'esporre.

Un simile progetto educativo portava con se necessariamente una presa di posizione sui grandi temi dibattuti dalla filosofia precedente, che d'altronde, nei circoli dei sofisti, era rappresentata al vivo da uomini come Anassagora, Zenone e Democrito. E difatti e facile scorgere, sullo sfondo dell'insegnamento di Protagora, la dottrina di Eraclito sull'unita degli opposti e, sullo sfondo dell'insegnamento di Gorgia, la dottrina di Parmenide sui carattere puramente illusorio della conoscenza sensibile. Ma i Sofisti piegavano la lezione dei loro predecessori a far da sostegno ai propri intenti educativi, che erano quelli dell'utilita politica. La febbre del successo, che trovava conferma ed alimento negli splendidi sbocchi dell'imperialismo di Pericle, era il giusto clima per questi maestri nomadi, che non per nulla si dispersero non appena le sorti di Atene volsero al peggio. Tocco a Socrate, che pure sofista non era, pagare con

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la vita il crimine di pubblica corruzione che la parte piu retriva della citta gia da tempo era solita addossare a questi venditori del sapere.

3.4 Protagora: Ia svolta umanistica. Oggi viene riconosciuto alia sofistica e soprattutto a Protagora* di Abdera, il merito di avere impressa al pensiero greco una svolta umanistica. I filosofi anteriori riducevano l'uomo - e il caso degli ionici - a un momenta della natura, o lo dissolvevano, come gli eleati, nell'oggettivita impersonale dell'Essere. Per esprimerci con un noto detto di Protagora, la premessa dell'insegnamento dei sofisti e che «l'uomo e misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». II senso della tesi di Protagora e stato, sin dai suoi tempi, molto controverso. C'e chi intende per 'uomo' l'individuo singolo: nel qual ca­so, ognuno sarebbe misura di tutte le cose, con la conseguenza di un relativi­smo assoluto. C'e chi intende per 'uomo' l'umanita in universale: nel qual caso la misura andrebbe ricercata in cia che accomuna tutti gli uomini, e cioe la ra­gione. C'e finalmente chi intende per 'uomo' il cittadino come soggetto sociale, in quanto membro della polis: nel qual caso la misura sarebbe !'ethos della singola citta-stato, diversa dalle altre non solo nello spazio e nel tempo rna an­che nei criteri di distinzione tra il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto. Protago­ra sarebbe, cosi, il precursore delle moderne teorie sul carattere ideologico, e cioe pratico-politico, di ogni forma culturale. L'interpretazione piu giusta sem­bra quella che assume l'uomo come soggetto relativo, incapace di conoscere la realta come e in se perche necessariamente condizionato dalla particolare con­formazione del suo apparato sensitivo. II miele e dolce per chi e sano, e amaro per chi e malato. Un cibo disgustoso per il malato e gustoso per il sano. Come in questo, cosi in tutti i casi le opinioni dipendono dallo stato organico in cui si trova il soggetto. Non ci sono opinioni vere ne opinioni false: ci sono sultan­to opinioni politicamente utili e politicamente dannose. L'arte del sofista non e di insegnare la verita rna di modificare, come fa il medico col malato, lo sta­tu organico della mente dell'uomo, in modo che essa abbracci le opinioni piu utili alla citta. La costante, nel discernere le opinioni, e dunque l'utile. Mutan­do le circostanze, muta anche l'utile e percio quel che ieri era vero oggi diven­ta falso e viceversa. Su qualsiasi argomento e possibile svolgere due discorsi, opposti tra loro eppure, a secunda delle circostanze, tutti e due veri. Sono di Protagora, appunto, le Antilogie, una raccolta esemplificativa dei discorsi tra ]oro contrari.

3.5 Gorgia: il trionfo della retorica. II relativismo di Protagora diventa gio­co dialettico in Gorgia*. Delle due vie di Parmenide, quella della verita equel­la dell'opinione, egli sceglie la secunda, la quale, come abbiamo visto (2.13), identifica il mondo sensibile col nulla: il non essere non e. Di Gorgia ci raccon­ta Sesto Empirico che

nel suo scritto Su cia che non e o Sulla natura dimostra una dopo l'altra tre tesi fondamentali: primo, che nulla e; Secondo, se anche qualcosa e, e ir­raggiungibi!e per l'uomo; terzo, che se anche qualcosa e raggiungibile, e pe­ro incomunicabile e indescrivibile al prossimo.

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L' originali ta di Gorgia e nella terza tesi: quell a della incomunicabili ta della conoscenza delle cose. Le parole, egli dice, non sono le cose, tant'e vero che l' organo della parola non e quello della conoscenza. Non solo dunque, come aveva. detto Protagora, noi non possiamo conoscere le cose in se, dato che la conoscenza muta col mutare del nostro stato organico, rna non possiamo nem­meno esprimere que! che a noi sembra delle cose, perche la parola e comune a tutti, mentre la percezione sensibile e diversa per ognuno. Che ci resta, a dar fondamento alia nostra convivenza politica? Solo la parola. Non perche essa sia, come per Pitagora, Parmenide ed Empedocle, rivelazione di una verita na­scosta, ma perche, indipendentemente dal suo rapporto con le cose, essa intes­se tra uomo e uomo lo scambio dei sentimenti e delle intenzioni: costruisce, insomma, quasi a! di fuori del mondo delle cose, il mondo propriamente uma­no. Una tesi paradossale, che ha ritrovato attualita nei nostri anni.

3.6 Natura e istituzioni. La posizione di Gorgia porta al limite estremo il principia che accomuna i sofisti, e cioe il trapasso dal linguaggio filosofico, che comunica la verita, al linguaggio retorico, che genera convinzione. Questa teoria linguistica fa gia trasparire un'altra tesi, che sara fondamentale nella sofistica piu tarda (3.16) detta anche 'seconda sofistica': quella del carattere convenzionale, cioe pattizio, non solo della lingua rna di ogni altra Iegge, sia morale ch~ politica. Proprio mentre, come abbiamo vista, la vita della polis di­ventava l'orizzonte totale del cittadino, lo spirito critico dell'intelligenza elleni­ca e riuscita a percepire il problema, oggi attualissimo, del rapporto tra la na­tura e le istituzioni. II passaggio dal mito alla razionalita qui e evidentissimo. Mentre in precedenza si avvertiva il conflitto tra le leggi scritte della citta e una superiore Iegge divina (si pensi ad Eraclito), ora il conflitto e collocato nel nesso tra Ia natura (phvsis) e le leggi del costume e del diritto (nomos). I sofisti si pongono al di tuori della tradizione religiosa che, assegnando l'origine della citta aile divinita etniche, poneva il senso dell'esistenza al di la della natura e della citta. Niente di strano, dunque, che essi apparissero come atei. Protagora fu mandata in esilio per avere affermato l'impossibilita di dimostrare che gli dei esistano. Ma l'ateismo dei sofisti e gia nella sforzo di spiegare non solo i mutamenti della natura, come avevano fatto gli ionici, rna la stessa formazione della citta senza fare alcun riferimento a cause extraumane. I nuovi orizzonti culturali davano sostegno alia loro tesi. Erodoto aveva riversato nella cultura ateniese la conoscenza di costumi e di leggi di popoli lontani e diversi. Pericle aveva perfino incaricato Protagora di preparare una costituzione per Ia citta panellenica di Turi, in Magna Grecia, fondata da lui ex-novo. Restava solo da capire su quali basi, per quale interna necessita gli uomini decidano di asso­ciarsi nella vita comune. Per Protagora, l'uomo si Iibera dalla condizione degli animafi solo perche, in base a un libero patto, decide di vivere con gli altri per mezzo di leggi, che non sono dunque divine rna umane e che pure vanno ri­spettate in nome della convenzione originaria. Sara la posizione di Socrate. Per altri invece, come per Trasimaco* e per Crizia*, la Iegge nasce dal prevale­re dei forti sui deboli, e dunque solo una formalizzazione giuridica della state di natura, in cui vale solo la Iegge della forza.

All'opposto di queste tesi, che in qualche modo legittimano lo stato di fatto

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della convivenza politica, la sofistica ne sviluppo altre, destinate a grande dif­fusione.

lppia* e Antifonte* (nei quali gli anarchici russi dell'Ottocento riconobbe­ro i propri lontani precursori) vedevano nelle leggi dello Stato una deviazione dalla legge suprema, quella della natura, dinanzi alla quale ogni uomo e obbli­gato a riconoscersi arnica dell'altro uomo e a sviluppare se stesso fino all'au­tosufficienza. Rispettando i nobili e disprezzando i non-nobili, noi, dice in un suo frammento Antifonte, «Siamo affetti da barbarie: poiche per natura noi siamo tutti in tutto simili, barbari e greci». Licofrone* ed Alcidamante* arrivaro­no fino ad abbattere (in teoria s'intende) anche l'ultima barriera di discrimina­zione tra gli uomini: quella tra i liberi e gli schiavi.

Questa 'naturalismo' politico e certo uno dei prodotti piu fecondi della sofi­stica. Esso segna il trionfo di quell'ottimismo greco che sospinge l'uomo a far fronte, con la sua intelligenza e con la sua attivita, ai mali del vivere che in oriente suggerivano il disinteresse per la storia. Eppure, nell'astratto universa­lismo delle tesi sofistiche gia proliferano i germi della dissoluzione della polis. Terminata la guerra del Peloponneso, nel 403, un colpo di stato degli oligarchi

I sofisti. Possiamo distinguere due generazioni di sofisti. Il maestro della prima generazione e Protagora. Nasce nel 485 ad Abdera dove e di­scepolo di Democrito. Come maestro di eloquenza e in molte citta ma so­prattutto ad Alene dove, nel 445, lo troviamo accanto a Zenone (!'influenza di Zenone su Protagora e evidente), nella cerchia degli amici di Pericle. Delle sue due opere, Verita, o discorsi demolitori e Antilogie ci restano pochi frammenti. E colpito di ostracismo per aver scritto che non e possi­bile agli uomini dimostrare l'esistenza degli dei. Mentre ad Atene i suoi scritti vengono dati alle fiamme, muore, per naufragio, all'eta di 70 anni. Suo discepolo e Prodico, nato nell'isola di Ceo, tra il 470 e il 460, fiorito ad Atene agli inizi della guerra del Peloponneso. Tra i suoi discepoli Euri­pide e forse anche Socrate. Scrive un'opera intitolata Le Ore, dove discute anche di etimologia e di sinonimia. lppia di Elide, forse il piu stravagante dei sofisti, nasce nel 443. Conferenziere brillante, viaggia in tutta la Grecia e in Magna Grecia. Dei suoi molti scritti non rimane nulla. Come nulla possediamo della copiosa produzione di Trasimaco (459-413: date incerte) di Calcedune, in Bitinia, ma vissuto quasi sempre ad Atene come maestro di aratoria. lniziatore della seconda generazione di sofisti e Gorgia, nato a Lentini, in Sicilia, tra il 485 e il 480, dove sarebbe stato discepolo di Empe­docle. Giunta ad Atene nel 427 come ambasciatore della sua patria per chiedere aiuti contra Siracusa, vi ottiene subito grande successo come ora­tore e maestro di aratoria. Vive, come maestro itinerante, in molte altre citta dell'Eliade. Muore in Tessaglia vecchi.ssimo, pare a 109 anni. La sua opera piu importante: Intorno al non ente o intorno alla natura. Da lui de­rivano Antifonte di Atene, Alcidamante, Licofrone e Crizia, uno dei trenta ti­ranni.

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(cosi gli avversari chiamavano gli aristocratici, che avevano sopportato di ma­lanimo il trionfo della democrazia) mise in atto il diritto del piu forte che uno di lora, Crizia, aveva teorizzato.

Ma gU:t erano esaurite le energie che avevano creato lo splendore politico di Atene. Le generazioni educate dai sofisti avevano assorbito non solo lo scettici­smo filosofico rna anche il relativismo morale e politico che toglieva all'amor di patria ogni motivazione assoluta. E con la storia dell'egemonia ateniese si sarebbe chiusa forse anche la grande stagione del pensiero greco se, proprio all'aprirsi del secolo nuovo, il caso di Socrate, condannato anche lui come un corruttore, non avesse dischiuso la via alternativa a quella della polis, la via che, partendo sempre dall'uomo misura di tutte le case, condurra al grande progetto della Re;JUbblica di Platone.

Socrate

3.7 Una rivoluzione culturale. Racconta Aristosseno di Taranto, discepolo di Aristotele e grande teorico della musica, che «Socrate incontro ad Atene un indiana che gli domando quale filosofia praticasse. Avendogli risposto Socrate che le sue ricerche vertevano sulla vita umana, egli si mise a ridere e disse che non si potevano contemplare le case umane se si ignoravano le case divine». I contemporanei di Socrate (Aristosseno e del IV secolo) si rendevano canto, dunque, della radicale diversita tra la sapienza indiana (la Cina era fuori del lora orizzonte) e quel nuovo umanesimo che, dopa aver preso forma nel circo­lo dei sofisti, trovo in Socrate*, anzi nella morte di Socrate (399), il momenta piu alto della propria consapevolezza. Come quella di Gesu di Nazareth, la morte di Socrate non fu un incidente dovuto a circostanze perverse, fu l'epilo­go coerente di una missione condotta a termine, passo dopa passo, con straor­dinaria lucidita. Proprio perche con Socrate l'uomo oso prendersi in mana il proprio destino, mettendo in second'ordine i problemi della naturae dell'esse­re o della citta o dell'Olimpo e facendo della vita un'opera continua di ricerca della verita, proprio per questa la sua condanna a morte sembro allora, ed e sembrata poi, come il vera atto di na~cita della filosofia, nel sensa che il ter­mine aveva nell'antichita. Come Gesu di Nazareth, egli non ha scritto un riga e ha volutamente risolto la sua dottrina nel suo modo di vivere e nel suo modo di morire. Racconta di lui Senofonte:

Egli andava sempre fra la gente, Ia mattina nei passeggi e nei ginnasi, nelle ore piu frequentate sulla piazza, nel rimanente del giorno in quei luo­ghi in cui piu poteva trovare la gente, e parlava molto e chiunque volesse poteva ascoltarlo ... Non discuteva, come moltissimi altri filosofi, sulla natu­ra dell'universo, ricercando come sia generato quello che essi chiamano co­smo, ne quali siano le cause necessarie di ciascuna cosa celeste; anzi dichia­rava pazzi quelli che si dedicavano a tali ricerche ... Egli invece ragionava soltanto delle cose umane, studiando che cosa sia pieta ...

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Socrate. Socrate nasce ad Atene nel 469 da Sofronisco, scultore, e Fena­rete, levatrice. Non fascia la sua citta natale che per compiere gli obblighi militari (e oplita nella campagna di Potidea, dal 432 al 429; partecipa, nel 424, alia spedizione di Delo, e, nel 422, alia campagna di Anfipoli), distin­guendosi per la sua capacita di sopportazione e per il suo coraggio piu ci­vico che guerriero. Ha gia dei discepoli quando l'oracolo di Delfi lo desi­gna come il piu sapiente degli uomini. Socrale vi legge il segno di una missione divina e si dedica a interrogare, perle vie e perle piazze, cittadi­ni di tutti i ceti, nell'intento di svegliare in lora la coscienza critica. NeZ 399, dopa l'epilogo catastrofico della guerra del Peloponneso e la parenlesi oligarchica dei Trenta Tiranni (sotto il cui governo si rifiuta all'ordine di uccidere un cittadino contrario al regime), gli esponenti della restaurata democrazia vedono in lui un dislruttore delle certezze su cui si basa il consenso civico. Anita, L(cone e Melelo accusano Socrate di introdurre nuove divinita e di corrompere i giovani. Socrale si difende con un'ironia che sembra arroganza. Viene condannato a bere la cicuta. Per ragioni di calendario religioso la pena non viene eseguita subito, il che conse11te ai discepoli di organizzare la sua fuga, e a Sucrate. che rifiuta di sottrarsi al­Ia punizione delle leggi, di intrattenerli in una lunga cm1Versazione che sa­ra riferita da uno di essi, Platone, nel dialogo Il Fedone. Finito !'impedi­menta sacra, Socrate beve Ia cicuta, all'eta di 70 anni.

Eppure, in quest'uomo dalle fattezze plebee (nasa tozzo e occhi bovini), con­tinuamente in giro per la citta a piedi scalzi e avvolto in un mantello lacero, convivevano la multiforme speculazione precedente della Grecia e ]'idea demo­cratica che aveva data vitalita e fecondita alia citta di Atene. Convivevano, rna toccando, per cosi dire, il proprio limite e svelando la propria inadeguatezza in rapporto al problema centrale fra tutti i possibili problemi: quello di che si­gnifichi per l'uomo, come soggetto morale e razionale, vivere in seno alla natu­ra e alia citta, dotate ]'una e l'altra di leggi degne di ogni rispetto rna l'una e l'altra incapaci di circoscriverlo. Nell'oriente indiana l'estraneita dell'uomo al­Ia natura e alia citta si basava sulla convinzione che, nel suo elemento spiri­tuale, l'uomo e propaggine di una realta infinita a cui puo ricongiungersi solo con la fuga :'scetica e mistica; in Socrate l'estraneita non era il riflesso di un'opzione antimondana, era l'esito fatale del suo amore per la vita, sia naturale che civica, e dunque emergeva dal coerente adempimento del compito terreno.

3.8 La verita e dentro l'uomo. Fu cosi che Socrate porto a compimento la 'rivoluzione culturale' dei sofisti. Essi avevano impressa una svolta alia ricer­ca filosofica, facendone, da indagine sulla natura e sull'essere, un'indagine su quel mondo propriamente umano che e i1 'mondo dei discorsi'. Le case ester­ne, filtrate attraverso i sensi, entrano nella sfera intelligibile in cui l'uomo e, come aveva detto Protagora, la lora unica misura. Nell'intimo dell'uomo esse si trasfigurano nel momenta stesso in cui la parola prende il lora posto. Lo

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scambio, e cioe il discorso tra uomo e uomo e tra il singolo e Ia citta, diventa il vero mondo di cui l'uomo vive, il mondo culturale. Peri sofisti, tra i discorsi e le cose non c'era piu alcun rapporto di corrispondenza: i discorsi vivevano di se stessi e su se stessi crescevano, tutti egualmente veri e tutti egualmente fal­si, perc he, dissoltosi l' oggetto di riferimento, potevano discriminarsi so !tanto in base alia !oro efficacia di persuasione. Anche Socrate taglia gli ormeggi tra i discorsi e le cose, rna - ed ecco la sua straordinaria novita - sostituisce all'oggetto fisico, esterno all'uomo, un punta di riferimento molto piu rigoro­so, che e l'interiorita dell'uomo, Ia sua intima capacita di discernere cio che e conforme alla ragione e cio che e difforme.

La verita e dunque soggettiva? No, se si riduce il soggetto alla mutevole co­noscenza sensibile; si, invece, se nel soggetto c'e un criteria superiore, quello della ragione, che non e mutevole e molteplice, rna stabile e unico.

Nel fomentare Ia Iibera critica dei luoghi comuni morali e religiosi sui qua­li poggiava l'ideologia dei ceti conservatori, Socrate pote apparire un sofista come gli altri, anzi, dato il suo successo fra i giovani, piu pericoloso degli al­tri, un corruttore, insomma, come lo definirono i suoi accusatori. Come spesso capita agli svegliatori delle coscienze, capita a Socrate di avere nel novero dei suoi discepoli uomini pronti a rivestire del suo spirito critico la !oro sostanzia­le spregiudicatezza morale, come Crizia, uno dei trenta tiranni, o come Alci­biade, il 'bello', un mestatore di genio che causa alia sua patria irreparabili sventure. L'accusatore principale di Socrate, Anito, convinto che il ristabili­mento della democrazia dopo la disfatta comportava convinzioni pubbliche conformi alla tradizione e al sicuro dallo scetticismo, non poteva non vedere nella famiglia socratica un focolaio di infezione. Non capiva che Socrate era l'opposto del sofista scettico. Egli criticava, si, il costume, rna in vista di una moralita basata sulla coscienza; criticava il diritto vigente, rna in nome di una universale giustizia; criticava le credenze della religione dominante, rna in no­me di una divinita intima all'uomo; criticava le verita dogmatiche in nome del­la verita intesa come orizzonte dell'indagine razionale. Se non mise mai in scritto il suo insegnamento, a differenza di Anassagora e di Protagora, sottopo­sti d'altronde anche Foro a un processo, lo fece, a quanta dice Platone, di pro­posito, perche lo scritto porta le anime a trascurare la memoria viva delle ca­se, ad affidarsi a dei segni morti, esterni a noi, invece che al vitale scambio delle idee. Non voleva' essere un maestro, porta tore di una dottrina, rna un su­scitatore di dialogo. Di conseguenza, come per noi e difficile stabilire, tramite le testimonianze, quale sia stato veramente l'insegnamento di Socrate, cosi an­che per i suoi contemporanei fu difficile distinguere Ia dottrina del maestro dalle rifrazioni diverse che essa aveva nella coscienza dei suoi seguaci. La grandezza di Socrate era, per un altro verso, Ia sua debolezza.

3.9 La Iegge e Ia coscienza. La stessa ambivalenza Ia troviamo nei suoi rap­porti con la sua citta. A differenza di Anassagora e dei sofisti, quasi tutti stra­nieri, Socrate fu in tutto e per tutto ateniese, al punto che, potendo fuggire dal carcere, non lo fece anche perche non riusciva a immaginarsi come maestro mercenario, alia maniera di Gorgia, in altre citta. E lo disse durante il proces­so, chiedendo, con maliziosa provocazione, di essere mantenuto dalla citta, per

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amore della quale era diventato povero, nel Pritaneo, dove si mantenevano i cittadini benemeriti. Ma gli ateniesi avevano paura di un uomo che diffondeva inquietudine quando ci voleva fermezza e sicurezza morale: i giovani che 'so­cratizzavano', come allora si diceva, erano una minaccia peril futuro della cit­ta, ormai spoglia per sempre della splendida sicurezza dell' eta periclea. E be­ne pen:) ricordare che dopo la morte di Socrate la citta fu presa dal tormento e volle che gli accusatori fossero a loro volta condannati.

La verita e che quel conflitto aveva messo in gioco valori che solo in segui­to, anche per l'apporto del cristianesimo, appariranno tra loro distinti eppure drammaticamente connessi: la legge dello Stato, in cui si esprime come norma positiva l'esigenza del bene comune, e Ia Iegge della coscienza, che non esime dall'obbedienza alla Iegge della citta rna costituisce una sfera a se stante, da cui none lecito estraniarsi senza perdere gia per questo la dignita morale. Lo Stato che si concretizzava nella polis, specie la dove, come ad Atene, il popolo era ille­gislatore di se stesso, era davvero una comunita etica, rna cosi totalitaria da non lasciare alcun margine per una Iegge diversa. I sofisti contrapposero alla polis una astratta condizione di natura, in base alla quale la Iegge dello Stato perde­va ogni forza obbligante, a tutto vantaggio del dominio dei forti sui deboli, co­me voleva Trasimaco, o di una generica amicizia universale, come voleva Anti­fonte. Proprio qui emerge, in tutta la sua originalita, la novita socratica. Per Socrate le leggi dello Stato sono sante, tanto che se il cittadino ne e colpito in­giustamente non deve sottrarsi ad esse, anzi deve onorarle accettando serena­mente la punizione, senza tuttavia venir meno alla Iegge interiore, che e costi­tutiva di una diversa patria, quella degli uomini cercatori del vero, destinata a durare (per Socrate e solo un'ipotesi) anche oltre le barriere della morte. La legge che prescrive e anche la legge che punisce: se la coscienza impedisce di osservare la prescrizione, all ora essa comanda di accettare con sereni ta la pu­nizione, anche quella capitale. A meno che la Iegge stessa non venga persuasa, nel ragionevole dibattito, della propria ingiustizia. Nel dialogo platonico Crito­ne, le leggi, personificate nella patria, cosi parlano a Socrate in attesa della morte:

La tua sapienza t'ha fatto dimenticare che piu della madre e piu del pa­dre e di tutti i progenitori presi insieme si deve amare la patriae che essa e piu di quelli venerabile e sacra, posta di quelli piu in alto dagli dei e dagli uomini saggi? E che la patria si deve rispettare, obbedire e venerare piu del padre, anche nelle sue ire, e che o si deve persuaderla o si deve operare cosi com'essa lmpone, soffrire, se ci impone di soffrire, con anima silenziosa e serena?

C'e, nel discorso di Socrate, un afflato che lo distanzia sia da quello scetti­cheggiante dei sofisti, sia da quello, improntato alla pedestre razionalita prati­ca, dei suoi oppositori democratici. E un afflato religioso, in cui la tradizione cristiana ha voluto scoprire piu di quanto non ci fosse e che noi dobbiamo sforzarci di riconsegnare alla sua obiettiva genesi storica.

3.10 II demone interiore. Fra le imputazioni dell'accusa contro Socrate c'era anche quella di 'empieta': «Socrate e colpevole di non riconoscere gli dei

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che la citta riconosce e di introdurre altre nature demoniache». Era la citta di Apollo che aveva paura di Dioniso? Perla verita, Socrate, anche dinanzi ai giu­dici, si faceva forte di una sentenza dell'oracolo di Delfi (la citta di Apollo) che lo aveva dichiarato il piu sapiente degli uomini. Del precetto delfico 'conosci te stesso' egli aveva fatto il tema stesso della sua ricerca filosofica. Ma nello spirito dei sacedoti delfici in questo precetto era condannata la hybris, vale a dire la presunzione con cui l'uomo cerca di sapere cio che e oltre la sua porta­ta. Solo dio e sapiente. E a questo riguardo nessuno piu di Socrate ha mai con­dannato la tracotanza del molto o del troppo sapere. Il senso della sentenza dell'oracolo che lo dichiarava <<il pili sapiente degli uomini» lo spiego lui stes­so ai suoi giudici: era il pili sapiente perche sapeva di non sapere. Questa sua sapienza si dilatava ir. una presa di distanza dinanzi alle forme della religione pubblica. Anche quando egli eseguiva i riti e i sacrifici prescritti, lo faceva, per dir cosi, per ossequio civico alle tradizioni, rna dando chiari segni che il suo orizzonte religioso era diverso. Non era, come hanno voluto certi interpre­ti moderni, l'orizzonte della ragione, fedele ai propri confini e alle proprie nor­me. Era l'orizzonte interno alla coscienza, in cui si fa sentire un impulso di origine 'esterna'. In lui, Ia ragione come facolta conoscitiva e sempre al servi­zio di un imperativo non meramente razionale, in cui si congiungono la sfera umana e quella trascendente e che non puo essere definito in termini di pura psicologia. Egli lo chiama 'demone', termine che, con qualche forzatura, puo essere sostituito con quello di 'dio'. Anche nella sua attivita educativa, pur cosi rigorosamente fedele alle regole del logos, Socrate clava rilevanza a qual­cosa di extralogico che preservava il rapporto dialogico, dal degenerare, come quello dei sofisti, nell'arida dialettica. Ed e con riferimento a un principia ex­tralogico, al demone, appunto, che egli distingue i suoi discepoli in tre classi diverse:

Con alcuni di essi il demone, che e sempre presente in me, mi impedisce di unirmi; con altri invece me lo permette, e questi traggono profitto anco­ra ... , hanno i dolori del parto e giorno e notte sono pieni di inquietudini piu delle donne partorienti. Vi sono altri che non mi sembrano gravidi, e questi allora mi affretto a metterli in un'altra parte.

La discriminazione, che nella vita pitagorica era affidata a un duro e lungo tirocinio, Socrate la operava con una intuizione istintiva o meglio, per restare al suo linguaggio, per consonanza tra i demoni. Platone sviluppera l'insegna­mento del maestro facendo una sola cosa della dottrina del demone e di quella dell'eros, cioe dell'amore: e filosofo colui la cui ragione e mossa dal demone, dall'eros. Socrate senti la voce demonica fin da bambino. Era una voce che si faceva udire all'improvviso, e sempre per via negativa, come un 'no' che a ogni bivio delle scelte morali gli dichiarava non percorribile una via e indiretta­mente indicava la via da percorrere. Socrate non sa spiegare l'origine di que­sta voce, rna e sicurissimo della sua santita e deciso a non mai disobbedire:

Se voi mi assolveste e mi diceste: Socrate, noi non ascolteremo Anita, rna ti assolveremo, a patto che tu non ti occupi piu di tali ricerche e cessi di fi­losofare; pero se ti fai cogliere di nuovo morrai: ebbene, se, come dissi, voi

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mi assolveste a tal patto, io vi risponderei: Ateniesi, io vi voglio un gran be­ne, pen) obbediro piuttosto a Dio che a voi, e fincht:! avro forza e vita non la­scero di filosofare ... Io non mi difendo affa tto, come puo parere, per amor mio; mi difendo per amor vostro, per impedirvi di rifiutare, condannando­mi, il dono che in me vi ha fatto Dio.

Gli avversari di Socrate, dunque, videro giusto quando lo accusarono di trascurare gli dei della citta, quegli dei che, come abbiamo vbto, non abitava­no la sfera morale dell'uomo. Nella citta c' erano pen) anche le forme religiose popolari, compresa la credenza che ogni uomo fosse affidato, nella vita e dopa la vita, a un demone particolare. E c'erano le credenze orfico-pitagoriche, se­condo le quali ogni uomo e insieme corpo e anima, e l'anima e un che di divi­no imprigionato nella carne (2.5). Pur trasfigurando questi apporti in una pura sostanza morale, Socrate si pone, in certa misura, in continuita con le religio­ni di salvezza. In punta di morte egli chiese silenzio, come i pitagorici, e ordi­no che si offrisse un galla a Esculapio, il clio della salute, data che per lui, co­me per gli orfici, morire era come uscire da una lunga malattia.

In qualche modo, Socrate riunisce in se, risolvendole in una sconcertante armonia esistenziale, la disposizione contemplativa (per un giorno e una notte fu veduto, mentre era soldato, seduto e assorto, del tutto estraneo a quanta si faceva attorno a lui) dei maestri vedici, l'intransigenza etico-politica dei profe­ti di Israele, la gioia del vivere nella comunita civica caratteristica della sag­gezza greca. Si capisce perche ai suoi discepoli, anche al piu infedele di lora, Alcibiade, egli apparisse di una affascinante originalita: « Un uomo che sia tan­to originale - lui e i suoi discorsi - come costui, nessuno lo troverebbe, per quanta cercasse fra gli antichi e i moderni».

3.11 La filosofia come ricerca morale. Di nessun filosofo si puo dire come di Socrate che la dottrina e l'uomo, anzi il metoda e l'uomo. Totalmente posse­duto dal suo demone, egli si identifica con la sua missione, e questa a sua vol­ta e una sola cosa col suo libero aggirarsi fra gli uomini, senza nessuna inten­zione di insegnare rna con la pura e semplice volonta di avviare una conversa­zione al livello degli interessi quotidiani.

Se uno ascolta i discorsi di Socrate, dapprima gli sembrano quasi ridico­li ... giacche egli parla di asini da soma, di fabbri, di calzolai, di conciatori, e par che dica sempre con le stesse parole le stesse cose. Ma se qualcuno li vede aperti e vi penetra, trovera ch'essi sono i soli discorsi che posseggano un intimo senso di ragione, discorsi divini ...

Cosi, nel Convito platonico, racconta Alcibiade, il quale confessa che nell'ascoltare gli altri oratori, persino Pericle, riconosce, si, che parlano bene, rna la sua anima «non si scompigliava», il cuore non gli balzava forte in petto, come «agli invasati dal furore coribantico». La forza suggestiva di Socrate non piombava addosso all'interlocutore come l'eloquio dei sofisti, rna si insinuava in lui a partire dalla prima semplice domanda: «che cos'e?>>. Tu conosci, Euti­frone, case sante, tu, Carmide, le case belle: rna che cos'e la santita? Che cos'e la bellezza? A un certo punto l'interlocutore si sentiva scosso da una corrente

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come se avesse posto un piede su di una torpedine (l'immagine e ancora di Al­cibiade): era il momenta in cui, da convinto com'era di sapere, egli si accorge­va di non sapere. Le definizioni nominali dei sofisti affastellavano, magari con forbitezza, gli attributi delle cose sante o delle cose belle, rna non penetravano nella ragione specifica che rende santa Ia cosa santa, bella la cosa bella. In tanta congerie di nozioni non scoccava la scintilla semplicissima che avrebbe potuto accendere nella ragione la luce di una conoscenza definitiva. Socrate ri­pudiava, senza espressa polemica rna con bonarieta sorridente, il molto sapere degli intellettuali mentre apprezzava Ia competenza particolare degli artigiani, ciascuno nel proprio campo. Ma guai se gli artigiani, estendendo la competen­za di la dai confini suoi propri, si ritengono capaci di governare se stessi o ad­dirittura la citta. In questo sensu, e fuor di dubbio che Socrate aveva piu di una riserva sull'organizzazione politica di Atene, che permetteva anche a dei fanfaroni, come il conciatore Cleone, di arrogarsi il compito di stratega o di le­gislatore, e, piu in generale, su una democrazia che affidava le responsabilita politiche senza tener conto delle competenze. Ma per un altro verso, e cioe per Ia sicurezza che infondeva in chiunque di pater trarre da se stesso Ia verita, senza dipendere da alcuno, Socrate era in realta promotore di profonda demo­crazia. Nessuna astuzia dialettica in lui quando si riconosceva sapiente per il solo fatto di sapere di non sapere. E che per Socrate il sapere non ha mai un contenuto dato, da conservare nella memoria e da rievocare nei momenti op­portuni. II vero sapiente rimette continuamente in discussione le conclusioni raggiunte e lo fa non in solitario atteggiamento autocritico rna nel dialogo vi­vente con chiunque sia disposto a liberarsi delle sedimentazioni che il costu­me, con i suoi pregiudizi e i suoi luoghi comuni, accumula nell'intelligenza di ogni uomo. Solo ritornando a se stessa, alia sua semplicita sorgiva, l'intelligen­za acquista la capacita di discernere cio che e veramente utile all'uomo inteso come soggetto spirituale. II sapere filosofico si distingue da ogni altro sapere proprio per la sua universalita, che none una generalizzazione di cio che ci of­fre l'esperienza non vagliata dal giudizio critico, rna e la convenienza di un'azione alia dignita dell'uomo in quanto tale, indipendentemente dunque dalle sue determinazioni empiriche di ordine politico o professionale.

La pedagogia socratica mira al raffinamento dell'intelligenza in quanto principia di decisione morale, e insomma una pedagogia della ricerca che si attua proprio e soltanto nello stesso esercizio della ricerca. Di quale ricerca? Non di quella che si dilata nella sfera delle conoscenze fisiche o filologiche, rna di quella che non puo mai avere approdo consolidate: Ia ricerca morale. Perfino in carcere, quando Critone gli fece Ia proposta di fuggire, Socrate fre­na il suo zelo e lo invito a riflettere («ragioniamo insieme>>) per indagare se fosse o no giusto sottrarsi ai vincoli della Iegge.

3.12 II metodo. L'insegnamento socratico e tutto qui. in quest'arte della ri­cerca. che con parola coniata di recente su di un etimo greco viene detta eu­ristica, arte del ricercare, (da non coniondere con l'eristica, arte del contende­re, che era Ia specialita dei sofisti). Delle tre forme di ricerca- teoretica, tec­nica e morale - Socrate adotto Ia terza proprio perche essa investe anche le altre: la teoretica, in quanto l'uomo che conosce se stesso sa di non poter nul-

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la sapere di quanto e fuori della sua esperienza, poiche solo Dio conosce tutto; la tecnica, perche chiunque esercita un mestiere, se vuol essere autenticamen­te uomo, deve svolgerlo bene. Volendo poi determinare la particolare struttura formale dell'euristica socratica, possiamo distinguervi !'ironia e la maieutica.

L'ironia socratica e uno stile, piu che una regola, ed e uno stile che proma­na, come un'atmosfera, dal personaggio stesso, da questo filosofo girovago, plebeo nel portamento e malmesso negli abiti ('maestro di miseria', lo chiama­vano i sofisti per dileggio), che si accosta ai maestri riconosciuti con linguag­gio umile e ammirativo per poi, domanda dopo domanda, ridurli al silenzio e all'imbarazzo. Poteva sembrare, la sua ironia, una forma di tracotanza amman­tata di umilta. Ma era, come appare dal suo discorso di difesa in tribunale, un modo di guardare gli uomini e Ia vita con un distacco che ne rivelava, quasi per un effetto di controluce, le malformazioni, le menzogne e le meschinita. Il risultato ironico era l'effetto spontaneo dell'incontro tra due universi morali, dotati di due logiche che non avevano punti di contatto. II punto di contatto lo trovava Socrate, che in partenza adottava il punto di vista degli altri, muoven­dosi passo passo nei meandri delle evidenze convenzionali fino a giungere al punto di rottura: dopodiche, ciascuno poteva anche ritornare, come capito al processo, nel suo universo separato. Ma poteva capitare che il punto di rottu­ra diventasse fecondo e cioe, per usare il linguaggio di Socrate, che l'interlocu­tore, Iiberato della sua falsa verita, si rivelasse gravido di una verita che vole­va essere partorita.

Ed eccoci allora alla maieutica (l'arte della levatrice, che era poi quella del­la madre di Socrate). Per suo conto, Socrate non e capace di generare. Cosi ha voluto Dio. Come dire che Socrate non e un maestro che propone ai discepoli una sua verita, e un suscitatore delle verita che gli altri portano in se, non consapevoli, e che vengono faticosamente alia luce man mano che, recise una dopo l' a! tra le bende delle opinioni e delle definizioni nominali (in cui si con­densa il coacervo delle impressioni e delle nozioni apprese dal di fuori), entra in azione il discernimento autonomo, che mette in grado di pronunciare un giudizio tanto evidente da sembrare gia presente nello spirito, come il bimbo che nasce era gia presente nel seno materno. Prima del 'parto', uno credeva di sapere che cosa e il bello, che cosa e il giusto, semplicemente perche era in grado di fare un elenco di cose belle e di cose giuste. Dopo il parto, egli sa per­che .!e cose belle sono belle e le cose giuste sono giuste, e lo sa in base a una evidenza interiore che gli da l'impressione di aver sempre posseduto dentro di se l'idea di bellezza e di giustizia. Che il sapere non sia che un 'ricordare'? Pia­tone dira di si: dira che la conoscenza e solo reminiscenza (4.5), tra:;formando cosi il metodo del maestro (il metodo maieutico) in una dottrina che il mae­stro, 'incapace di generare', sicuramente non aveva mai insegnato. Come pure non appartiene a Socrate il merito che, facendone un proprio precursore, gli attribuisce Aristotele: quello di avere insegnato tanto il metoda induttivo su cui si basa la conoscenza scientifica (l'analisi dei casi particolari per discerne­re que! che in essie costantemente comune) quanto Ia definizione mediante un concetto universale, che della conoscenza scientifica e l'approdo (5.4). II dialo­go socratico non mirava a un approdo, mirava a passare dalla sfera del gia sa­puto, su cui l'intelletto ozioso si adagia, alia sfera di una Iibera ricerca guida-

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ta dall'esigenza di verita. La verita socratica e in questa esigenza, che nel mo­mento stesso in cui si appaga risorge piu forte di prima: «una vita senza ricer­ca non e degna di essere vissuta». Non si dimentichi d'altronde che il campo della ricerca socratica non e quello gia perlustrato dai fisici e dai metafisici, e il campo dell 'esperienza morale.

3.13 La scienza e Ia virtu. Abbiamo gia detto che l'orizzonte della ricerca di Socrate e quello stesso tracciato, con netto stacco nei confronti della tradizio­ne filosofica, dai sofisti: e l 'orizzonte dell 'uomo che fa della vita della polis la propria vita. Ma mentre i sofisti, a dispetto delloro radicalismo critico, accet­tavano il fatto che le sorti della citta fossero affidate a chi era in grado di pre­valere - e difatti essi erano maestri nell'arte di competere mediante lo stru­mento della parola - Socrate si ritiene mandato da Dio alla sua citta perche a dirigere la cosa pubblica siano uomini premurosi del bene comune. Di qui la sua critica alla democrazia ateniese, nella quale, per maggior garanzia dai ri­schi della tirannide, le cariche pubbliche venivano designate a sorte. Come il huon artigiano e colui che ha competenza tecnica nel suo mestiere, cos! il cit­tadino deve avere competenza, nel guidare la citta, di cio che e meglio per tut­ti. Ora, il bene comune non e che una specie del bene in se: l'educazione politi­ca coincide con 1 'educazione al bene, cioe all a virtu. La virtu e insegnabile: ec­co una prima tesi socratica. Non solo, rna la virtu coincide col sapere. E buo­no chi sail bene. Nessuno puo fare il male volontariamente. E preferibile uno che fa il male sapendo che e male a uno che fa il bene senza sapere che e be­ne. Questa serie di 'p~radossi socratici' esprime con forza quella particolare posizione che viene detta intellettualismo etico. A meglio ricondurre nei confi­ni del plausibile le tesi socratiche, non si dimentichi che mancava nella cultu­ra e perfino nel linguaggio dei greci una chiara nozione della volonta quale funzione distinta dall'intelletto e dal sentimento. Ma soprattutto non si dimen­tichi che la conoscenza non era per Socrate un mero processo teorico. Come sopra si e detto, l'itinerario della conoscenza ha inizio dal riconoscimento che il vero sapere e il sapere di non sapere e dalla ricomposizione, mediante la pu­rificazione 'ironica', del giusto rapporto tra la tensione 'erotica' e la ricerca in­tellettuale. L'intelligenza socratica, insomma, non e neutra, e interna all'esi­genza della felicita, il cui compimento non e ultraterreno, rna consiste nell'es­sere perfettamente uomini, nel perseguire cio che e veramente utile a dare realta all 'armonia interiore tra 1 'anima e il corpo e tra 1 'individuo e la citta.

Con questi presupposti, il paradosso dell 'identita tra virtu e scienza si dis­solve, almeno in parte. Perche si dissolva del tutto bastera prendere sul serio quanto sopra si e detto sull'identita tra la personalita di Socrate e la sua dot­trina. E difatti, nella fortuna che la dottrina socratica sulla virtu ha incontrato nel mondo antico ha avuto peso decisivo la testimonianza concreta di chi l'ave­va insegnata con la vita piu che con la parola. La sintesi delle contraddizioni teoriche di Socrate e nello svolgimento stesso nella sua vitae nella sua morte. In quello svolgimento e nel suo epilogo c'e tanta densita di messaggio che i suoi discepoli, prossimi e lontani, hanno potuto riferirvisi per derivarne svi­luppi filosofici i piu diversi, anzi i piu inconciliabili.

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Le scuole socratiche

3.14. La fuga dalla citta. La morte di Socrate ha un significato che va ben al di la della testimonianza di un cittadino intemerato che, per fedelta alla propria coscienza, affronta la severita estrema della legge accettandone Ia san­zione di morte e rifiu tando Ia possibilita di sottrarvisi con Ia fuga.

Io me ne sto alia mia condanna - disse Socrate dei suoi accusatori, do­po Ia sentenza - com'essi alla !oro. Cos! forse bisognava che avvenisse; e ognuno ha avuto, credo, que! che meritava.

Condannando Socrate, Ia classe dirigente svelava l'inconcludenza del suo programma democratico, riesumato senza tener conto dei tempi mutati, che avevano scomposto per sempre l'equilibrio delle classi su cui aveva avuto fon­damento la polis ateniese prima delle bufere della guerra. L'equilibrio delle classi era equilibria degli interessi, il quale ha, si, una sua razionalita, rna a condizione che non sopravvengano fattori nuovi che lo rendano anacronistico e richiedano una razionalita piu vasta, fondata cioe su equilibri piu larghi, i quali pen) non potranno mai coincidere con le pure e semplici esigenze della ragione morale. Pretendere, come voleva Socrate, di educare la citta al bene era come sottoporla a una misura troppo al di sopra della logica degli interes­si che sta alla base non solo delle leggi di Atene rna di ogni,realta politica. La ventata socratica era davvero una ventata eversiva, perche postulava la nasci­ta di uno stato ideale che non ha luogo in questo mondo.

Il senso di questa conflitto tra ragione e politica fu ben avvertito nella cer­chia dei discepoli di Socrate. Dopo la morte del maestro essi ebbero ragione di non sentirsi piu sicuri ad Atene e si rifugiarono a Megara presso uno di loro, Euclide. Caduto i1 progetto iniziale di una rivalsa contro il gruppo democrati­co di Anito, essi si dispersero e diedero vita a diverse correnti che vennero dette, non del tutto propriamente, scuole socratiche. Nel )oro insieme, quelle correnti costituiscono un intreccio di posizioni diverse, di confronti e di dibat­titi in cui e possibile isolare alcune aggregazioni attorno a rispettivi maestri, rna a condizione che si tenga conto che l'intreccio none sezionabile, che esso e piuttosto un movimentato fenomeno culturale che fa da sfondo, e anzi da con­testa provocante, aile due grandi imprese filosofiche che riempiono di se il se­colo e quasi assorbono l'intera eredita ellenica: quella di Platone e quella di Aristotele. Oltretutto, nelle scuole socratiche riaffiorano, accanto a 4uesto o a quell'aspetto dell'insegnamento del maestro, le lezioni della filosofia preceden­te, da quella eraclitea a quella eleatica, da quella pitagorica a quella dei mag­giori sofisti. C'e comunque un orientamento che le accomuna: escluso Platone, che fa mondo a se, nei discepoli di Socrate i1 fallimento del maestro e inteso come dimostrazione dell'impossibilita di cercare la saggezza nell'impegno poli­tico. L'unica via secondo ragione e il rientrare in se per raggiungere l'autosuf­ficienza nei confronti del mondo esterno sia fisico che sociale. La massima del­fica 'conosci te stesso', che era stata i1 programma di Socrate, viene intesa quasi dicesse: «basta a te stesso». In Euclide di Megara, in Antistene e in Ari-

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stippo, tre dei capiscuola, il fervore di partecipazione alla vita sociale vien me­no, con Ia conseguenza che il magistero socratico si frantuma in una varieta di orientarnenti in cui ben poco sernbra restare della lezione di Socrate, cosi uni­taria pur nel suo impianto rneramente critico e rnetodologico.

3.15 La scuola megarica. Quanto si e detto si riscontra con evidenza nella scuola megarica, nata a Megara attorno a Euclide (445-375), l'ospite dei disce­poli di Socrate timorosi di rappresaglie. Prima dell'incontro con Socrate, Eu­clide aveva fatto sue le tesi eleatiche sull'essere e il non-essere. Del rnagistero di Soc rate egli accolse soprattutto il rnornento _ironico, e cioe Ia confutazione delle credenze convenzionali che davano sostanza aile opinioni e, sul piano morale, tenevano per vere le rnolte virtu, mentre Ia virtu e una sola, e si iden­tifica con Ia conoscenza. Una sola cosa - cosi argornenta Euclide. adottando le aporie dell'eleatico Zenone (2.15)- sono Ia virtue Ia conoscenza e una sola Ia conoscenza e l'essere, che solo e. II resto e non-essere. Del non-essere non si da conoscenza, si danno solo opinioni, il cui termine di riferimento non sono le cose rnolteplici (che, appunto perche rnolteplici, non sono), rna i norni con cui si designano le cose. A unire nome a nome, come si fa nel discorso, e Ia con­venzione, non Ia logica. La logica non si da che dell'essere, del quale - e qui Ia lezione di Gorgia subentra a quella di Zenone (3.5) - non si puo dire nulla perche non e conoscibile, e posto che fosse conoscibile non e cornunicabile. Per capire quale fosse il clirna pi questa 'seconda sofistica', come Ia chiamo Platone, bastino due esempi. Un discepolo di Euclide, Eubulide, rnostrava la pura convenzionalita in questo modo: due chicchi di grano non fanno un rnuc­chio. Tre nernrneno. E se aggiungo chicco a chicco, quand'e che avro il muc­chio? E se dal rnucchio togliero un chicco dopo l'altro, quand'e che non avro piu il rnucchio? E il famoso argornento detto sorite. Come non ricordare Zeno­ne? Un megarico piu tardo, Stilpone (370-290 circa), per rnostrare l'irnpossibili­ta di pronunciare un giudizio, e cioe di assegnare un predicate a un soggetto, osservera che per dire che '' l'uorno e buono>> o che « il cavallo corre» bisogne­rebbe afferrnare che l'uorno e la bonta sono la stessa cosa e che la stessa cosa sono il cavallo e il correre.

Il senso pratico della sofistica rnegarica (contro cui polernizzera Platone) e che l'essere e Uno (e come tale non puo esser pensato), rna e costituito di infi­niti aspetti e forme, ciascuna delle quali puo essere espressa con un nome. I nomi stanno accanto ai nomi, senza nessun legame logico, perche per logica essi si identificano con l'essere, del quale soltanto puo dirsi che e. Stando cosi le cose, non e possibile comunicare le idee con il linguaggio, e cioe con il di­scorso, costituito, per sua natura, da giudizi dei quali si e vista l'inconsistenza. Se cosi e, allora non si da educazione, trasmissione di discorsi: gli uomini so­no tra loro incomunicabili. II dialogo politico e impossibile. Che altro ha dimo­strato Ia condanna di Socrate?

3.16 La scuola cinica. Anche per un altro discepolo di Socrate, Antistene (444-365), il processo e la condanna del maestro hanno costituito Ia prova della radicale incomunicabilita tra gli uomini. La fiducia che Socrate aveva nel dia­logo era accompagnata da una puntuale critica delle idee bell'e fatte su cui si

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basa il consenso tra gli uomini. Scalzando con !'ironia questa piattaforma co­mune, il dialogo non puo chiudersi che nel silenzio, come gia diceva Cratilo, il primo maestro di Platone, il quale si era ridotto per coerenza a rinunciare alia parola e a servirsi solo dei gesti. Gia discepolo di Gorgia, Antistene aveva tro­vato in Socrate Ia conferma della tesi .gorgiana sulla inconoscibilita dell'essere e sui carattere meramente convenzionale della parola. Antistene polemizzava col tentativo platonico di superarc i limiti della conoscenza sensitiva - per la quale il molteplice resta molteplice, il mutevole resta mutevole - nella supe­riore conoscenza delle idee (ad esempio, !'idea di cavallo). le quali unificano il molteplice in una essenza immutabile (i cavalli sono diversi e tutti nascono e muoiono, rna Ia 'cavallinita' e una e permanente). Antistene obiettava che lui, per suo conto, conosceva solo i cavalli, non la cavallinita. Di fermo e unico c'e solo il nome di cavallo: i nomi, non le essenze, sono il contenuto ddla cono­scenza. Sfuggendoci pero il nesso tra i nomi immutabili e le cose mutevoli, ogni combinazione tra i nomi pu<'> essere ritenuta·vera o falsa, a seconda del punto di vista.

Cio che decide, allora, non e la dialettica (cioe il dialogare contrapponendo tesi a tesi), rna l'esempio della vita. Antistene spostava dal piano logico a quel­lo morale la grande lezione di Socrate, risolvendola pen) in uno sdegnoso ri­fiuto della cultura dominante (c'e chi ne ha fatto per questo il filosofo del pro­letariato greco) in nome di una rigorosa aderenza alla natura. Dal ginnasio di Cinosarge, nel suburbia di Atene, in cui si era confinato perche bastardo (fi­glio di una schiava trace), Antistene fece dell'emarginazione uno stato di fiera superiorita nei confronti della civilta (cosl chiameremmo noi il nomos contrap­posto alla physis, natura) cittadina. Rimproverato perche frequentava gente di malaffare rispose, anticipando una massima evangelica: «anche i medici stan­no coi malati». Condannava la schiavitu perche contro natura e per la stessa ragione era contrario ad ogni discriminazione sociale ed etnica. Il suo pro­gramma di dominio di se stesso ('autarchia') era cosl radicale da renderlo ne­mico di ogni piacere sessuale: se incontrassi Venere, diceva, la ucciderei.

Questo 'ritorno alia natura' era destinato, in seno a una societa attraversa­ta dal presentimento della propria fine, a un grande successo, anche per le manifestazioni provocatorie che ebbe nei seguaci piu estrosi. Diogene di Sino­pe (nato nel 413 giunse ad Atene nel 340 e vi morl nel 323) e Cratete erano dei veri e propri 'barboni', senza domicilio (Diogene abito in una botte), senza de­coro e senza rispetto per le regole di pubblica decenza. Piu che dal ginnasio di Cinosarge (che in greco significa cane bianco), questi 'cappuccini dell'antichi­ta', come li chiamo lo Zeller, furono detti dnici appunto perche vivevano come cani randagi, dormendo per terra, bevendo solo acqua, cibandosi di erbe e di rifiuti. E difficile ritrovare in !oro anche solo un riflesso dell'armoniosa natu­ralezza di Socrate e soprattutto di quella sua passione pedagogica per la col­lettivita che sta al polo opposto dell'individualismo cinico. Anche se polemica­mente forzata, l'accezione attuale del termine 'cinico', che sottolinea l'atteggia­mento di disprezzo per i valori correnti, coglie nel suo nucleo la sterile conte­stazione di cui offrl i modelli la solitaria comunita del Cinosarge.

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3.17 /La scuola edonistica. I cinici erano stranieri in Atene (anche se vi era­no nati e cresciuti), in quanta, per scelta filosofica, regredivano allo stato di natura che e, o presume di essere, anteriore alia storia. Ma c'e un'altra via per sottrarsi alla prigionia culturale di una citta: quella di abitarvi senza farne la propria citta, sentendosi, allo stesso titolo, cittadino e straniero. Come abbia­mo visto, l'equivoco di Socrate era nel suo voler essere nel contempo un buon cittadino ateniese e un fedele cittadino della 'ragione', e cioe di una citta uni­versale i cui cittadini seguono il 'demone' interiore. Forse fu questa insegna­mento che dalle labbra di Socrate raccolse un assiduo ricercatore di saggezza, Aristippo di Cirene (in realta nato ad Atene nel 435: mori nel 366). «lo non mi lascio soggiogare in uno Stato, rna rimango dappertutto uno straniero»: questa e il programma che gli attribuisce Senofonte, altro viaggiatore 'socratico', ne­gato pen) alle inquietudini della saggezza. Aristippo, anche prima di conoscere Socrate (rna sembra si sia trattato di una conoscenza fuggevole), aveva sostato in molte citta, compresa Siracusa dove fu ospite alla corte di Dionigi. La mor­te di Socrate lo confermo nella sua convinzione che il saggio non puo che vive­re in un sereno distacco dalle cose, dominandole senza essern~ dominato, in un superiore ideale di liberta. Il retroterra di questa saggezza disimpegnata e quel relativismo gnoseologico che abbiamo gia riscontrato nei megarici e in Antistene: la conoscenza consiste soltanto nella sensazione, che e l'incontro fu­gace tra l'oggetto e i sensi. La sensazione e vera solo nell'attimo in cui accade. E vera, naturalmente, solo in quanta e la sensazione che e, e non in rapporto al suo oggetto, che resta per noi inafferrabile. Le sensazioni producono in noi dolore o piacere: e saggezza godersi le sensazioni piacevoli, senza pero affan­narsi nel cercare le sensazioni future e dunque senza lasciarsi possedere dal desiderio. Carpe diem, dira Orazio: cogli il momenta. La dottrina di Aristippo fu detta edonismo appunto per questa centralita che vi occupa l'analisi del piacere (in greco hedone), rna se ne perderebbe il tratto specifico se si dimenti­casse l'insistenza di Aristippo sul dominio che il saggio deve esercitare su di se e sugli oggetti del piacere. Proprio in questa autonomia morale si riconosce la genesi socratica del pensiero di Aristippo: «Posseggo rna non sono possedu­to: poiche il dominare i piaceri e non lasciarsene dominare e ottima cosa>>. A renderlo diverso da Socrate e, potremmo dire, la mancanza del demone, che spingeva il maestro a non curarsi della propria vita pur di provvedere al bene della citta. Aristippo, uomo senza citta, non puo obbedire che alla ricerca del­la propria liberta, garantita da una sostanziale indifferenza per le sorti altrui:

Mi sembra. !!li fa dire Senofonte, che ci sia una via di meno, per la quale io cerco di camminare, cioe nun per la via del comandu ne per quella della servitu, ma per la via della liberta, che piu di ogni altra conduce ad essere felici.

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120 0 4- Sommario

Sommario. Se l'insegnamento socratico era mosso da una finalita politica, allora il discepolo piu fedele a lui fu Platone, il giovane imparentato con alcuni dei Trenta tiran­ni, che si salvo dalla delusione politica proprio frequentando Socrate (4.1). Deciso a dar vita ad una. citta inca pace di uccidere i giusti, egli fonda l' Accademia, una specie di Isti­tuto di ricerca filosofica e si reca per ben tre volte a Siracusa per persuadere i tiranni della citta a ispirare il lora governo ai prindpi della filosofia. Il tentativo pratico falli (4.2) rna Platone continuo ad impegnarsi fino alla morte nel far fruttificare l'eredita so­cratica, non solo, formalmente, utilizzando nei suoi scritti il metoda del dialogo, ma so­stanzialmente, orientando la ricerca filosofica alla costruzione della 'citta bella' (4.3).

Nei dialoghi giovanili, Socrate appare, per un verso, come uno dei sofisti rna, per l'al­tro, come un maestro del tutto diverso da !oro perche proteso alla ricerca della verita intesa come una sola cosa col sapere (4.4). Platone si Iibera dall'embrione socratico n~l momenta in cui, nel Menone, identifica la conoscenza con la reminiscenza: rientrare in se e trovare in se idee preesistenti alia nascita (4.5). Divenendo pienamente se stesso, Platone si pone alla confluenza delle diverse tradizioni filosofiche, integrando nella sua sintesi l'essere eleatico e il divenire di Eraclito (4.6). In questa sforzo di conciliare il mondo eterno delle idee e la realta dell'esperienza terrena Platone utilizza Ia tradizione sapienziale e dionisiaca creando dei grandi miti nei quali, in confronto alloro corrispettivo logico, c'e un di piu di verita (4.7) che si fa accessibile solo a chi obbedisce, come Socra­te, al demone interiore che in Platone diventa !'Eros, l'amore per il bene che e come il vincolo che unisce cielo e terra (4.8).

Solo chi sa contemplare il bene in se e in grado di far discendere l'armonia del mon­do delle idee, sulle quali il Bene si riflette come il sole, nella costruzione della citta umana (4.9). La giustizia di una citta non si fonda su leggi scritte rna sulla comune ten­sione verso il bene, proprio come la giustizia del singolo uomo che e, a sua volta, come un piccolo Stato: e dotato infatti di tre anime, come tre sono i ceti che costituiscono lo Stato (4.10). Proprio a causa del suo finalismo etico-religioso lo Stato platonico e uno Stato totalitario, nel senso che assoggetta a se ogni aspetto della vita del cittadino, dal­la proprieta, alla famiglia, all'educazione (4.11). Anzi, perfino l'arte, la quale, essendo di sua natura niente di piu che imitaziorre delle case e inutile o produce corruzione e in quanto tale va eliminata (4.12).

In tal modo Platone risponde al problema di quale sia Ia condizione prima per una repubblica giusta: i filosofi, in quanta amanti del bene, devono essere i reggitori deJio Stato. Lo Stato diventa cosi come una immensa scuola, in cui si attende alla conoscenza del bene. Una conoscenza che si attua in quattro gradi, !'ultimo dei quali e Ia dialettica (4.13). La dialettica e il procedimento con cui la ragione unifica le idee nell'idea supre­ma del Bene e da questa discende, di idea in idea, fino aile piu semplici, quelle che fan­no da trama del mondo sensibile, per scoprire nelle cose una somiglianza o una parteci­pazione al mondo sovrasensibile (4.14). Per tal via Platone mostra, superando l'alternati­va Parmenide-Eraclito, come nell'Essere si concilino I'Unita e Ia Molteplicita (4.15).

Nell'ultima fase della sua attivita, Platone e dominato dall'esigenza di far discendere nel cuore della materia e della societa concreta, secondo una logica realistica, ~a raz1o-

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4- Platone: itinerario D 121

nalita delle idee. Nel Timeo, mediante il mito del Demiurgo, delinea una grandiosa co­smologia nella quale mostra in che modo il caos diventi cosmo, e in c~e _modo Ia_ neces­sita della materia obbedisca a! finalismo delle idee (4.16), e nelle Leggt nprende Il tema della Repubblica rna adattandolo aile condizioni c~m~re_te dell'uomo _socia_le,. ch~ non puo essere ridotto a ragione se non attraverso Ia d1sciphna ~~lie legg1,_ e_ ~Iscwghendo l'assolutezza della citta ideale nella pluralita delle forme pohtiche poss1b1h nella stona reale dell'uomo (4.17).

Platone: itinerario

4.1 La filosofia come scelta di vita. Nel gruppo dei discepoli di Socrate che cercarono rifugio presso Euclide, a Megara (3.14), c'era anche un giovane ari­stocratico che non era stato presente alla morte del maestro. Per l'ampiezza delle sue spalle era soprannominato Platone. II suo incontro con Socrate era stato casuale, ma di pochi altri incontri si puo dire, come di questo, che rien­trava nelle necessita della storia umana in quanto storia dello spirito. Che sa­rebbe Socrate per noi senza il suo incontro con Platone? E che sarebbe diven­tato l'adolescente Platone, dilettante di poesia tragica, se a 18 anni (era nato nel 427) non avesse deciso di far parte della cerchia dei discepoli di Socrate? Le circostanze lo disponevano ad altro, e cioe a percorrere con successo la carriera politica, come Carmide, suo zio, o come Crizia, cugino di sua madre. La vocazione politica l'aveva nel sangue.

Lo conferma lui stesso, in una memorabile pagina di una sua lunga lettera, la Settima, riconosciuta oggi come autentica. Merita riportarla per larghi stralci, oltretutto perche permette di documentarci subito sulle qualita poeti­che di Platone, che sono fra le ragioni del fascino che il suo pensiero ha eserci­tato nei secoli:

Quand'ero giovane provai cio che provano molti: pensavo, una volta di­ventato padrone di me stesso, di entrare subito nella vita politica. Ora, que­sta fu la situazione politica della mia citta nella quale venni a trovarmi: il governo di 'aiJora, osteggiato da molti, fu rovesciato e passo nelle mani di cinquantun cittadini ... Trenta, a! di sopra di tutti, ebbero potere assoluto. Alcuni fra costoro erano miei familiari e conoscenti, e mi invitarono subito ad entrare nella vita pubblica ... Io avevo allora sentimenti strani: crcJevo che essi col !oro governo avrebbcro Iiberato Ia citta dall'ingiustizia e le avrebbero imposto un giusto sistema di vita; percio stavo bene attento a quello che avrebbero fatto. Ora, mi accorsi che in breve tempo questi uomi­ni facevano apparire oro il governo di prima ... Sdegnato, mi trassi fuori del­le miserie di allora. Non molto tempo dopo caddero i trenta e, con !oro, quella forma di governo. Di nuovo, seppure meno intensamente, mi prese il desiderio di svolgere attivita politica ... Poi pero avvenne che alcuni potenti trascinarono in tribunale que! nostro amico Socrate, accusandolo del delitto piu nefando e insieme piu alieno dal suo animo: lo fecero comparire in tri­bunale come empio, lo condannarono e lo uccisero ... Presi dunque a consi­derare questi fatti e gli uomini che si occupavano delle cose politiche e le

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leggi e i costumi: quanta pili Ji esaminavo ed avanzavo in eta, tanto pili dif­ficile mi sembrava poter amministrare rettamente gli affari dello Stato ... Le leggi scritte e i costumi andavano sempre cosl corrompendosi con straordi­naria rapidita, tanto che io, che da principio sentivo vivo lo stimolo a pren­der parte alia vita pubblica, considerando queste cose e lo scompiglio che regnava dovunque, finii col restare stordito. Non rinunciai a studiare Ia si­tuazione per vedere se ci fossero dei miglioramenti, specie nel governo, rna aspettavo, per agire, le circnstanze opportune. Alla fine mi resi conto che tutte le citta di allora erano mal governate ... e fui costretto a fare l'elogio della retta filosofia, e a dire che solo essa consente -di vedere cio che e giu­sto nelle cose pubbliche e in quelle private; dunque le generazioni umane non si sarebbero mai potute liberare dalle sciagure, finche al potere politico non fossero giunti i veri autentici filosofi, oppure i governanti delle citta non fossero divenuti, per una grazia divina, veri filosofi. (Lettera VII, 323-325).

Se c'e una filosofia che si limita a descrivere il mondo e una filosofia che vuole cambiarlo, allora e chiaro che quella di Platone e di questo secondo tipo, a dispetto dell'opinione tradizionale che fa di lui il capostipite di quegli ideali­sti che si limitano a vivere delle proprie idee come se fossero realta. Il pensie­ro di Platone si e sviluppato all'interno di un progetto e cioe con finalita di or­dine pratico, anche se con pretese di universalita. In nome di questo progetto, appunto, egli si separo dagli altri socratici, nei quali, come abbiamo visto, il fallimento del maestro aveva provocato, diremmo oggi, un riflusso nel privato (3.14). Non si puo negare che i megarici, i cinici e i cirenaici fossero fedeli, cia­scuno a suo modo, a questo o a quell'aspetto dell'insegnamento socratico. Ma se questo insegnamento provoco un processo e una condanna a morte, vuol di­re che l'intenzione unitaria che lo ispirava era politica. ri1wardava cioe il de­stino della citta. Con questa intenzione si era confrontato il ~Ziovane Platone, deluso dalla politica dei Trenta tiranni e dalla successiva democrazia di Anito. E quando il maestro fu messo a morte, 11 senso complessivo del suo insegna­mento gli apparve chiaro: l'uomo giusto non puo non entrare in conflitto con Ia sua citta, se le leggi della citta non sono secondo giustizia. Per Socrate non si clava una giustizia privata e una_ giustizia pubblica: la giustizia e una sola e ad insegnarla non sono i maestri dal molto sapere, e il logos interiore, presen­te in ogni uomo rna chiaro e aperto solo a coloro che, facendosi largo fra le opinioni, ricercano la verita.

La storia del pensiero platonico e gia qui, in germe, in questa passione poli­tica che, invece di restare schiacciata dallo scandalo morale di uno Stato in­giusto, reagisce costruendo dello Stato una raffigurazione secondo ragione. E non si tratto di una sfida vissuta nelle pure sfere dell'astrazione. E vero, si, che Platone parte dalla nozione razionale del bene per dedurne l'immagine di una citta buona, rna non e mai abbandonato dalla volonta di dare corpo e san­gue alla sua citta ideale nel mondo terreno degli uomini. Solo che, mentre l'orizzonte del progetto politico di Socrate era quello di Atene, Platone, anche per la novita dei tempi, scavalca le concretezze, tutto sommato anguste, della sua citta per spaziare nel mondo intero dell'uomo.

La passione per l'universalita distinse Platone dagli altri socratici anche

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sul piano empirico: invece di chiudersi in una ristretta cerchia di discepoli, co­me Euclide o come Antistene, egli prese a viaggiare dislocandosi in alcuni dei grandi crocevia della cultura antica. Fu a Eliopoli, in Egitto, dove prese con­tatto con le tradizioni sacerdotali; a Cirene, dove ebbe contatto col grande rna~ tematico Teodoro, e finalmente a Taranto, dove divenne amico di Archita, un pitagorico che reggeva il governo della citta e che, appunto in quanto filosofo­reggitore, offriva una qualche risposta alia inquieta ricerca del giovane atenie­se (2.6). Di ritorno da Taranto, Platone fece scalo a Siracusa: un nome che vor­ra dire molto nel suo destino.

4.2 Tra Siracusa e l'Accademia. A Siracusa c'era un amico di Platone. Era Dione, cognato del tiranno della citta, Dionigi il vecchio. Doveva essere al cur­rente delle idee politiche di Platone, se lo invito a rimanere pre·sso Dionigi nel­la speranza che potesse essergli di aiuto come consigliere. Ma il filosofo cadde in disgrazia e riusci a stento a raggiungere Atene. Si era nel 387: Platone aveva quarant'anni. In risposta alla propria delusione, egli decise di fondare un Isti­tuto di filosofia che san\ denominato Accademia, investendovi tutti i suoi averi: non essendo riuscito a fare di un re un filosofo, il suo programma fu di preparare dei filosofi a diventare re!

La fondazione dell'Accademia e stata giustamente definita come l'evento piu memorabile nella storia della cultura occidentale. Possiamo anche vedervi il prima, lontanissimo modello della universita medioevale e di quella moder­na. Platone vi riconobbe il vero scopo della sua vita. C'era, in concorrenza col suo, un altro istituto di formazione, quello di Isocrate. Ma la scuola di Isocra­te si moveva sulla linea della sofistica, mirava cioe a fornire capacita retori­che, volte alla persuasione. Era, tanto per intenderci, una scuola di oratori e di pubblicisti. L' Accademia invece aveva un impianto seriamente scientifico, che prevedeva il domicilio fisso e un severo regolamento. Legandosi organica­mente a un college stabile, Platone rifiut6 il modello di Sucrate, che era un maestro ambulante.

Dove invece il modello socratico ha la meglio su quello della comunita pita­gorica (che Platone ,aveva preso a modello) e nel rifiuto dell'ipse dixit, cioe dell'autorita carismatica del maestro. II maestro deve piegarsi alia logica del dialogo, che esalta i momenti del libero confronto delle idee dato che

dalla lunga convivenza e dalla comune trattazione del problema, improv­visamente nasce, come per scintilla, una luce nell'anima e da allora in poi si nutre di se stessa. (Lettera VII, 341)

L'obiettivo ultimo della scuola traduceva l'idea madre dell'insegnamento politico: mettersi in grado di governare, in quanta filosofi, la citta. E difatti non pochi discepoli emigrarono via via in altre parti dell'Ellade, come Ermia ad Atarneo o come Corisco ad Asso, dove ebbero in mana il governo della citta.

L'orientamento alia prassi non abbandono mai Platone. Venti anni dopo il suo prima esperimento siracusano, morto il tiranno Dionigi il vecchio e succe­dutogli il figlio Dionigi II, Dione torn6 alla carica e persuase Platone a recarsi per la seconda volta a Siracusa.

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Se mai si voleva tentare di dare attuazione aile mie idee sulle leggi e sul­lo Stato, allora era il momento di agire: se fossi riuscito a persuadere un so­lo uomo avrei assicurato il compimento di tutto il bene possibile. Con que­sto pensiero e con questa ardita sperar1Za, salpai da Atene ... perche mi ver­gognavo moltissimo di poter apparire di fronte a me stesso come un uomo capace solo di parole e che mai mette mano di sua volonta ad alcuna opera. (Lettera VII, 328)

Ma Dionigi non era fatto per la sapienza. lntelligente rna incostante e domi­nato da basse passioni (pili forte di tutte la gelosia per Dione), deluse ben pre­sto Platone, che a stento riusci a tornarsene in Atene.

Pare impossibile, rna pochi anni dopo, nel 361, in un momento di intesa tra Dione e Dionigi, Platone si decise, sia pure senza troppa convinzione, a tentare un terzo viaggio a Siracusa. A renderlo recidivo questa volta non fu solo l'ami­cizia per Dione o la solita volonta di tradurre le parole nei fatti, fu il suo va­gheggiamento di un disegno che congiungeva il miraggio del re-filosofo ad una considerazione realistica suggerita dalle circostanze. Solo unificando sotto Si­racusa l'intera Sicilia si sarebbe creato un argine alla pressione dei cartagine­si o quantomeno si sarebbe messo un freno alle riottose truppe di osci e sanni­ti che Dionigi aveva assoldate nella penisola italiana. In tal modo la Magna Grecia sarebbe stata assicurata alla civilta ellenica, con conseguenze straordi­narie, aggiungiamo noi, per il futuro dell'Europa. Dionigi

aveva il potere supremo e se Ia filosofia e la potenza politica si fossero congiunte nella stessa persona, sarebbe potuta nascere in tutti gli uomini, greci e barbari, la vera opinione che nessuna citta e nessun uomo possono essere felici se non vivono sotto !'imperio della giustizia congiunta con la ragione. (Lettera VII, 335)

Questa volta Platone arrivo perfino a tratteggiare, insieme a Dionigi, la co­stituzione di una confederazione ellenica attorno a Siracusa. Ma l'incostanza del tiranno e l'ostilita delle truppe mercenarie lo costrinsero ancora una volta a tornare ad Atene. Anche Dione fu mandato in esilio: egli ten to, con truppe assol­date e col contributo dei consigli dell'Accademia, la conquista di Siracusa, rna la sua spedizione ebbe cattivo esitoe ci rimise la vita. Si era nel354. Pochi anni do­po, nel 347, Platone moriva senza aver portato a termine l'ultima sua opera, Le Leggi, i1 cui tema e, naturalmente, quello politico.

4.3 Infedelta e fedelta di un discepolo. Prima ancora che per aver fatto pro­pria la sua dottrina, Platone fu discepolo di Socrate per aver riconosciuto nel suo modo di vivere e soprattutto nel suo modo di morire la risposta al proble­ma che fin dall'adolescenza gli era sembrato pili importante di ogni altro: il problema politico. L'intera ricerca di Platone svolge, si puo dire, un solo te­ma:· la costruzione razionale di una citta in cui non solo il giusto non fosse condannato a here la cicuta rna avesse nelle sue mani il compito di governare. Per questo egli non ha fatto veramente violenza ai fatti quando ha attribuito a Socrate il ruolo di protagonista di tutti i suoi Dialoghi (fuori che dell'ultimo) e gli ha messo sulle labbra insegnamenti che solo in minima parte furono effet-

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tivamente suoi. Se si tien canto non della dottrina inscgnata rna della slancio ideale che la dottrina traduce e rende concettualmente esplicito, Platone e sta­to fedele al maestro pili di altri discepoli che magari ripetevano con maggiore fedelta materiale le sue parole. Ma l'eredita socratica si riscontra anche in al­tre costanti del pensiero platonico.

A diversita del maestro, Platone mette in scritto il suo pensiero, rna anche lui e convinto che la parola scritta e sempre un tradimento dell'autentica co­municazione del proprio pensiero: « Ncssun uomo di senna, leggiamo nella Let­tera VII, osera affidare i suoi pensieri filosofici ai discorsi e per di pili ai di­scorsi immobili, com'e il caso di quelli scritti con lettere''· E infatti sui temi esse.nziali della sua ricerca Platone non scrive nulla: <<Non esiste ne mai ci sa­ra alcun mio trattato, perche questa disciplina non e assolutamente, come le altre, comunicabile». Sappiamo che nelle sue lezioni all'Accademia egli non si serviva di alcun appunto. Le molte opere da lui composte erano destinate al grande pubblico e non hanna mai il carattere di un trattato, come avranno in­vece quelle di Aristotele. Il genere letterario di cui Platone si serve e il pili vi­cino al parlato: il dialogo, e preclsamente il dialogo socratico, nel quale il pen­siero mantiene un andamento problematico e la verita risulta di per se dal confronto tra molteplici punti di vista.

In Socrate, il dialogo, pili che uno strumento di verita, era gia di per se stesso la verita, proprio perche espressione della ricerca in atto. Di qui, come si e vista, l'aspetto 'eversivo' della sua opera in mezzo ai giovani ateniesi, nell'animo dei quali il suo infaticabile interrogare sgretolava i luoghi comuni su cui poggia sempre la cultura dominante. Era naturale che la classe dirigen­te si impaurisse. Sulle ragioni di questa paura dicono molto gli sviluppi anti­sociali che al pensiero del maestro dettero i socratici minori. Ma il vera sensa del Socrate storico non era nel tener sospesa la ragione di interrogativo in in­terrogativo (momenta scettico), era nel tenerla costantemente immersa nella tensione etica verso il bene (momenta universale). In questa tensione verso l'universale si innesta il Socrate platonico, e cioe il Socrate che nei Dialoghi si fa maestro di dottrine che in verita sono da attribuire a! suo grande discepolo. Se, per cosi dire, il Socrate storico e una domanda, il Socrate platonico e la ri­sposta alla domanda. Molti studiosi hanna tentato di discernere nel grande corpus* platonico quel che puo veramente attribuirsi a Socrate da quel che e sicuramente di Platone, raggiungendo le conclusioni pili disparate. Comunque stiano realmente le case (e mai lo sapremo), e certo che la risposta platonica era gia virtualmente contenuta nella domanda socratica almena come una del­le risposte possibili e con ogni probabilita come quella che con pili profondita e con pili ampiezza ha svolto quanta nella domanda era implicito.

E difatti qual era il tema che per solito Socrate dibatteva con i suoi interlo­cutori? Era quello della virtu, dell'arete. E la virtu di cui Socrate amava dibat­tere non era la virtu privata, era la virtu che rendeva i cittadini idonei al go­verna della citta. In una delle sue pagine pili famose, Platone paragona il fila­sofa a un uomo che, trovandosi prigioniero insieme ad altri nel fonda di una caverna, riesce a rompere le proprie catene. Sui fonda della caverna si proiet­tano sfocate immagini che i prigionieri prendono per case vere e proprie. Il fi­losofo che ha spezzato le catene esce dalla caverna e, trovatosi sotto la luce

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del sole dinanzi alle cose reali, capi~ce da dove provengano i riflessi di cui si appagano i prigionieri. Rientra nella caverna e tenta di descrivere ai suoi com­pagni que] che ha visto. Viene trattato come un delirante. Se poi osasse tenta­re di liberarli dalle catene, essi lo ucciderebbero. Ecco la spiegazione della morte di Socrate. Sono due le sue cause, il cui svolgimento teorico e tutta la filosofia di Platone. La prima e la passione per la verita, e cioe la potenza dell'eros, che non si appaga se non nel Somma Bene (e questa la linea metafisi­ca). La seconda e l'impegno a strappare gli uomini dalla loro condizione di pri­gionieri (e Ia linea politica). La seconda ragione e piu importante della prima. E infatti il culmine del pensiero platonico non e, come nel passato per lo piu si riteneva, Ia dottrina delle idee illuminate dal Sommo Bene, e la dottrina del­la Stato come impresa educativa, vera motivo guida di tutti i Dialoghi e tema specifico dei due piu importanti, La Repubblica, opera della maturita, e Le Leggi, il dialogo sul quale 'cadde la stanca mano' del filosofo ottantenne.

Se, a diversita del maestro, Platone non fu un filosofo ambulante, il suo pensiero fu pero davvero un pensiero in cammino, che mai arrivo ad avere pretese sistematiche. Si credeva un tempo che, avendo fin da principia nella sua mente una dottrina compiuta e articolata, egli l'avrebbe distribuita, secon­do un estro letterario ricco di fantasia, nei suoi scritti per il grande pubblico. La critica moderna, ristabilendo con criteri filologici rigorosi la cronologia di quegli scritti, ha dimostrato che in quella cronologia si riflettono i ritmi inter­ni di un pensiero indefesso, che non ascende da un gradino all'altro con conti-

II 'corpus' delle opere di Platone. Nell'ordinamento stabilito da Trasil­lo, nell sec. d.C.. il corpus delle opere platoniche comprendeva 36 titoli, e precisamente: L'Apologia di Socrate, le Lettere (13) e 34 Dialoghi ed era di­viso in 9 tetralogie (gruppi di 4 libri ciascuno). E l'ordinamento ancora se­guito nelle edizioni critiche. Basandosi soprattutto sul criterio stilometri­co e cioe sull'analisi della stile, la critica moderna ha redistribuito il cor­pus secondo le diverse fasi del pensiero platonico, rigettando o mettendo in dubbio l'autenticita di alcune opere, ad esempio delle Lettere, ad ecce­zione della VII e dell'Vlll. In base a questa criteria e possibile distinguere i Dialoghi in 4 gruppi:

- dialoghi giovanili (396-388) detti anche socratici: Apologia di Socra­te, CritGne, Carmide, Lachete, Liside, Protagora, Gorgia, Eutifrone, Ippia minore, lone, Menone, Eutidemo;

- dialoghi della prima maturita (387-368): Menosseno, Tppia maggiore, Cratilo, Convito, Fedone, Repubblica (il prima dei dieci libri e stato compo­sto in precedenza);

- dialoghi della vecchiaia: Sofista, Politico, Timeo, Crizia, Filebo, Leggi. Socrate perde via via il ruolo di protagonista fino a scomparire del tut­

to nell'ultimo dialogo.

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nuita lineare, rna torna su se stesso, riprende temi gia trattati e li dilata o li filtra criticamente, senza mai la pretesa di tentare Ia sintesi conclusiva_

Platone: Ia fase socratica

4.4 I dialoghi giovanili. Questo movimento e gia ben visibile nei dialoghi giovanili_ Essi ci mostrano un Platone ancora inteso a ritrarre, con un predo­minante intento letterario, l'impresa dialettica del maestro nella sua originali­ta formale, tanto che un grande esperto di Platone come il Wilamowitz ha fat­to l'ipotesi che qualcuno di quei dialoghi sia stato scritto prima della morte di Socrate, quando ancora il giovane alunno non aveva ben deciso che indirizzo dare alia propria vita_ Ma gia in questi dialoghi letterari c'e la prima tenue configurazione del mondo ideale platonico che trovera grandioso dispiegamen­to, attorno al 370, nella Repubblica_ Al centro di quel mondo c'e la giustizia, la virtu a cui tutte le altre rimandano di necessita e su cui trovano fondamento stabile sia la vita dell'uomo, sia la vita della citta. Nei dialoghi che narrano le vicende della fine di Socrate, come !'Apologia e il Critone, sono gia plastica­mente raffigurati i valori della giustizia e dell'obbedienza alle leggi, valori che hanno carne e sangue in Socrate, prototipo del cittadino autentico di quella citta necessaria e impossibile che Platone gia vede con l'occhio dell'anima sen­za sapere dove collocarla sulla terra.

Ma anche la dove Socrate e solo il protagonista di una ricerca dialogica, co­me nel Lachete, che tratta della fortezza, o nel Carmide, che tratta della tem­peranza, o nell'Eutifrone, che tratta della pieta, e ben visibile l'intenzionalita politica, che volge gli sviluppi di temi specifici apparentemente estranei a quello della citta- come appunto il tema della pieta- a sboccare come tanti affluenti nel fiume regale dell'idea politica. In questa egemonia della politica su ogni altro interesse conoscitivo, il Socrate di Platone si aggira fra i sofisti come uno di loro, figlio dello stesso tempo e partecipe al dibattito comune. Ma nel ricostruire il panorama culturale di Atene con serena liberta dalle insidie dello spirito polemico, Platone riesce a disegnare lo stacco qualitativo del suo maestro dalla turba dei sofisti, tracciando due linee: quella della ricerca della virtu (3.11) e quella della identita tra virtue sapere (3.13). Invece che 'uno scia­me', le virtu per Socrate sono una sola e questa si risolve nella conoscenza: non nella conoscenza di qualcosa che sarebbe il bene inteso come ordine sog­gettivo da mettere in pratica, rna nella conoscenza intesa come capacita di di­stinguere volta per volta que! che e giusto e quel che e ingiusto, e non in base a criteri appresi dall'esterno, rna in virtu di cio che l'uomo, ogni uomo, ha in se come suo principia costitutivo: il logos, la ragione. Ecco, per cosi dire, l"embrione socratico' di Platone.

A.5 II trapasso: Ia dottrina della remtmscenza. Per semplificare la nostra esposizione potremmo individuare il momento in cui - tanto per restare

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nell'immagine genetica- l'embrione socratico attraversa la mutazione che gli fa perdere i connotati d'origine e diventa embrione platonico, in un passo viva­cissimo del Menone.

II dialogo, fra i primi scritti da Platone, e nella sua prima parte del tutto socratico. Menone, discepolo di Gorgia, si intrattiene con Socrate sul tema del­la virtu, facendo sfoggio, vero discepolo del suo maestro, di grande abilita de­scrittiva, rna Socrate finisce col metterlo in imbarazzo costringendolo, col suo metodo ironico, a confessarsi incapace di dire che cosa sia propriamente ia virtu. Socrate stesso si riconosce, a tal riguardo, ignorante: il suo compito e solo quello di mettere negli altri il dubbio che per conto suo ha nell'animo. Ignora che cosa sia la virtu, rna ora, insieme con Menone, vuol giungerne a ca­po. E proprio qui Menone trae dal repertorio sofistico l'obiezione che fa com-

. pi ere a! dialogo il balzo platonico: e possibile indagare quel che si ignora? Co­me non si puo cercare que! che gia si sa, cosl non si puo cercare quel che non si sa, dato che, anche se si trovasse l'oggetto cercato, non sarebbe possibile ri­conoscerlo. La risposta di Socrate e sconcertante. Merita riportarla per esami­narne i tratti di novita. che gia annunciano lo stacco di Platone dal maestro:

Ho udito uomini e donne sapienti nelle cose divine ... Sacerdoti e sacerdo­tesse a cui sta a cuore il render ragione delle cose di cui si occupano. E lo dice anche Pindaro e molti altri poeti, quanti sono divini. Essi affermano che !'anima umana e immortale e che a volte finisce- e questo lo chiama­no morire -, a volte rinasce, rna non si estingue mai; e che percio conviene vivere il piu santamente possibile ... Per esser dunque !'anima immortale e molte volte nata e per aver vis to ogni cosa e qui e nell' Ade, non c'e nulla che non abbia appreso; sicche non e punto meraviglia che possa ricordare, cosi intorno alia virtu come intorno ad altre cose, cio che prima sapeva. Es­sendo infatti tutta la natura congenita e avendo !'anima appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa - che e poi que! che si dice imparare- trovi da se tutto il resto, ov'abbia coraggio e non si stanchi nel­la ricerca, perche il ricercare e l'apprendere non e che ricordanza. Non si deve percio dar retta a codesto discorso da sofisti, che puo renderci pi[rri e riesce gradito ai fiacchi, mentre quell'altro ci rende alacri e atti alia ricerca.

Osserviamo subito che Platone, quando deve mettere sulle labbra del mae­stro affermazioni che del maestro non sono, ha premura di chiamare in causa autorita diverse da quella di Socrate: in questo caso le tradizioni dionisiache. La novita introdotta qui da Platone riguarda il significato che la massima so­crai.ica del \::onosci te stesso' ha acquistato per lui. In Socrate, il ritorno a se era il procedimento con cui la ragione si liberava dal ciarpame delle opinioni e, poggiando su se stessa e solo su se stessa, intraprendeva l'interminabile ri­cerca. Per Platone, tornando a se la ragione trova, dentro se stessa, le leggi universali del pensiero, le quali, «essendo la natura congenita», e cioe posta in essere tu tta insieme e in un sol momenta, so no anche le leggi della realta. Tu t­to cio che e nell'universo, !'anima e le cose, e imparentato con se stesso, in maniera che, percorrendo le profondita dell'anima, il pensiero trova anche le trame razionali che sono la vera essenza delle case.

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Ma come poteva Platone dimostrare questa 'presupposto' dell'armonia tra il soggetto 'conoscente e gli oggetti conosciuti? Che un medesimo ordine con­giunga tra loro il mondo delle cose e il mondo dei soggetti non e che una 'ipo­tesi', e piu precisamente una condizione senza la quale verrebbe meno ogni possibilita di superare il mondo caotico delle opinioni. Con linguaggio moder­no, questa condizione non dimostrabile rna necessaria (necessaria, naturalmen­te, una volta che si respinga l'alternativa del caos) si chiama postulato. Quan­do si trova a dover porre un postulato, Platone ricorre al mito, e cioe a una narrazione immaginativa derivata, realmente o fittiziamente, dalla sapienza della tradizione misterica. Il mito none una fuga dalla razionalita, e un modo di prolungare la razionalita oltre i limiti suoi propri, nel regno del verosimile.

Questa appare chiaro nel mito della preesistenza delle anime, appena ac­cennato nel Menone, ampiamente sviluppato nel Pedone. Se si rilegge il brano sopra riportato, e facile avvertire che Platone, utilizzando miti di altra origine, vuole introdurre una dottrina tutta sua, la dottrina della reminiscenza, cioe dell'identita tra conoscere e ricordare. Si tratta peraltro di una ricordanza (in greco anamnesis) sui generis, da non confondere col processo psicologico con cui la memoria rintraccia nei propri recessi immagini e concetti gia bell'e fat­ti. Sulla linea della maieutica socratica, 1' anamnesi e un procedimento attivo con cui la mente, rientrando in se stessa, trova un principia a partire dal qua­le, per passaggi logici, le e possibile dipanare la tela dell'ordine ideale che e simmetrico all' ordine delle cose, non cosi come le colgono i sensi rna come la ragione, provocata dai sensi, per forza sua le conosce.

Questa capacita ingenita della mente e dimostrata nel Menone con l'episo­dio pittoresco dello schiavo che faceva da scorta a Menone e che, interrogato da Socrate e quasi incalzato dalla serie delle sue domande, pur essendo del tutto digiuno di geometria, riesce da se a dimostrare il teorema di Pitagora. Qui davvero Socrate appare come la levatrice che fa partorire la verita.

Solo che qui Socrate e gia 'platonico', in quanta la ricerca non e, com'era per Socrate, fine a se stessa, rna sbocca nella cognizione di un ordine preesi­stente all'uomo, che e insieme Ia trama eterna del pensare e la trama del man­do fisico ed e anche l'ordine che, per mezzo dell'azione politica, deve realizzarsi nella ci tta.

4.6 Alia confluenza delle filosofie. Oltrepassando i limiti e interpretando creativamente l'intuizione centrale del suo maestro, Platone si colloca, nella storia del pensiero, al punto di confluenza delle tradizioni filosofiche prece­denti. Non c'e problema lasciato aperto da queste tradizioni che egli non abbia fatto proprio e non abbia risolto, con sovrana liberta, nella trama del proprio discorso. Nei suoi confronti le filosofie precedenti sembrano affluenti di un fiume regale. Secondo uno schema di cui e responsabile Aristotele e che oggi non possiamo piu accettare senza molte riserve, il pensiero presocratico era rimasto prigioniero in due vicoli ciechi: da una parte, percorrendo con gli ele;1tici (2.11-16) e i pitagorici (2.6-8) le vie della ragione, esso aveva rigettato nel mondo illusorio dell'opinione quanta rientra nella sfera della conoscenza sensibile, e cioe del divenire; dall'altra, nell'intento di salvare il divenire, aveva ridotto la ragione ad appiattirsi, con Eraclito (2.9-10), sulla trama discorde e

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concorde dei contrari. L'essere escludeva ogni divenire; il divenire escludeva l'essere. Questo travaglio del pensiero Platone lo aveva conosciuto per i con­tatti, diretti o indiretti, avuti con i suoi rappresentanti.

Sappiamo gia che il pensiero di Parmenide si era innestato con vivacita nel dibattito di Atene per merito di Zenone (2.15). Del resto, i suoi condiscepoli di Megara, raccolti attorno ad Euclide, avevano dato di Socrate una lettura rigo­rosamente eleatica, come abbiamo visto (3.15).

I contatti di Platone con i pitagorici furonu continui. Abbiamo gia ricorda­to il suo viaggio a Taranto e la sua amicizia col tiranno di quella citta, Archita, pitagorico di grande prestigio. Quanto a Eraclito, egli ne pote raccogliere l'eredita attraverso il suo primo maestro, Cratilo, che di Eraclito era stato di­scepolo.

Ricco di tali esperienze, Platone, facendo fulcro sull'insegnamento di So­crate, min) a conciliare le diverse dottrine rimaste chiuse nella loro unilatera­lita. La metafisica platonica e nata da questo sforzo.

Il momenta eleatico di Platone e nella dottrina delle idee, gia formulata, co­me abbiamo visto, nel Menone, sviluppata nel Pedone e finalmente svolta con compiutezza nella Repubblica. Il punto di partenza e socratico e consiste nella costatazione che, se ci si pone dinanzi al problema di che cosa sia la virtu e si scartano le loquaci enumerazioni dei sofisti, troviamo in noi stessi il criterio di discernimento tra cio che e bene e cio che e male. Con linguaggio non plato­nico, potremmo dire che l'idea dei valori, e cioe dei fini per cui vale vivere e morire, e anteriore all'esperienza, ossia e innata in noi. Non sapremmo mai di­stinguere l'azione coraggiosa da quella non coraggiosa se non avessimo in noi l'idea di coraggio; non sapremmo distinguere cio che e giusto da cio che e in­giusto se non avessimo gia in noi !'idea di giustizia. Lo stesso si deve dire -ed ecco il momento pitagorico- delle idee geometriche: l'idea di uguaglianza e di disuguaglianza, di circolo, di quadrato, e cosi via, non possono nascere dall'esperienza, perche noi non potremmo mai riconoscere un oggetto circolare o quadrato se gia non avessimo in noi la forma ideale che ce li fa riconoscere come tali. E finalmente lo stesso si deve dire dell'intero universo delle cose sensibili. Noi non potremmo distinguere un cavallo o un albero dalla congerie delle cose, se non avessimo gia in noi le idee corrispondenti. Le idee, di qualun­que genere siano, costituiscono, nel loro insieme, una trama di essenze, ciascu­na delle quali ha i caratteri dell'essere parmenideo (2.14): e eterna, immutabi­le, indivisibile, inaccessibile ai sensi, accessibile soltanto alla ragione. Ma men­tre per Parmenide il pens are e 1' essere so no una sola cosa, il soggetto pens an­te e l'oggetto pensato si identificano, per Pbtone il ?ensiero dell'uomo e il mondo oggettivo delle idee sono l'uno dinanzi all'altro, come l'occhio e dinanzi al sole e il sole dinanzi all'occhio, irriducibili l'uno all'altro. La radice del ter­mine greco idea (eidos) e la stessa del termine vedere: la conoscenza dell'idea e una visione, non si ha, cioe, per dimostrazione rna per intuizione immediata, non appena la ragione si e liberata dalla coltre delle illusioni sensoriali.

Ma i sensi non ci danno soltanto illusioni. E vero: il loro mondo, quello del­le cose che nascono; crescono e muoiono, sta a quello delle idee come le tene­bre stanno alla luce. Ma, come ben vide Eraclito, il divenire ha una sua razio­nalita, nel senso che le cose e l'intero sistema delle loro relazioni hanno un in-

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4 -Pia tone: Ia fase socratica 0 131

timo rapporto col mondo delle idee. Difatti la conoscenza dei sensi diventa l'occasione perche la ragione, balzando all'indietro verso il mondo delle idee a cui e congenere, 'ricordi' !'idea evocata dall'oggetto e conosca cosi la verita che fa da trama al divenire. L'opinione prodotta dai sensi non e, dunque, del tutto priva di verita, anzi contiene in se un nucleo di verita che tocca alia ra­gione cogliere e restituire al suo vera mondo.

Questa relativa attendibilita dei fenomeni aveva una grande impbrtanza per la soluzione del problema di fonda di Platone: la citta degli uomini, infatti, none la citta delle idee, appartiene anch'essa al mondo della molteplicita e del mutamento. Mentre dall'essere eleatico non si deduce una politica rna a! piu un ideale ascetico, per Platone le case stanno diversamente: per lui tra il man­do delle idee e il mondo fisico-storico non c'e il rapporto che c'e tra l'Essere e il non-essere in Parmenide. Tra l'organismo del mondo conosciuto dai sensi e l'organismo delle idee c'e, come si e detto, una parentela interiore, una con­sanguineita (syngheneia) che consente sia il 'movimento in su', dalle case aile idee, sia il 'movimento in giu', dalle idee aile case. Tra !'idea e la polis dunque e assicurato un rapporto vitale: conoscerlo e realizzarlo tocca appunto ai filosofi-re. In quanta filosofi. i reggitori contemplano le idee. in quanta re, le calano nella realta. Che Ia dottrina delle idee sia nata da una matrice di inte­ressi politici lo dimostra anche il fatto che Platone usa prevalentemente il ter­mine eidos, con cui i medici del tempo indicavano la forma, il genere, direm­rno oggi il 'quadro clinico' (Ia visione d'insieme) della malattia, a partire dal quale andava impostata Ia terapia. L'eidos era peri medici il presupposto co­noscitivo della lora azione curativa. E cosi i politici, curatori della citta, dove­vano possedere il presupposto conoscitivo senza del quale la citta sarebbe ri­masta in preda all'ingiustizia.

4.7 I miti. Nelle contraddizioni tra questa finalita pratica e l'impianto idea­listico che avrebbe dovuto fondarla e governarla sta il dramma che attraversa tanto la vita quanta la creazione filosofica di Platone. Nei momenti nodali del­la sua riflessione. proprio la dove le argomentazioni dovrebbero passare -com'e, secondo noi, nelle leggi della logica - da concetto a concetto, fino a raggiungere il prima anello da cui l'intera catena dell'argomentazione dipende, egli abbandona lo strumento logico e usa, come un poeta o come un mistico, quello immaginativo. E cosi la tela del suo discorso, tessuta con fila robusto, si arricchisce di ricami luminosi, da arazzo, lasciando il lettore nell'incertezza se quegli improvvisi mutamenti indichino l'impotenza della ragione a sostene­re il proprio impegno logico o l'esigenza di una verita pre·gnante che di su<:: na­tura sopravanza le capacita del procedimento discorsivo. L'indicibile puo esser detto solo con immagini. I miti di Platone, questa e certo, non hanna l'ingenui­ta prelogica dei miti primordiali di cui e ricca Ia storia delle culture primitive, sono espedienti consapevoli con cui egli compie la saldatura tra il dicibile e l'indicibile e nella stesso tempo tra il vigore tutto nuovo del pensiero greco e il patrimonio della sapienza sotterranea che unificava le tradizioni orfico­pitagoriche della Grecia con le tradizioni egizie e medio-orientali, perfino ira­niane (nell' Accademia ci fu un vera infatuazione per il pensiero religioso di Za­ratustra, 1.23-2~).

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Riteniamo utile ricordare brevemente i principali miti platonici che, nel !o­ro insieme, ci offrono un discorso sir.1bolico-sapienziale il cui corrispettivo lo­gico non e del tutto equivalente, perch:~ lascia svanire nel nulla quei contenuti di realta che solo le immagini sanno trasmettere.

Abbiamo gia visto come, per dar fondamento alla sua dottrina della remini­scenza, Platone, nel suo dialogo giovanile Menone, avesse riesumato il mito della preesistenza delle anime. Si tratta di un mito orfico (2.5) che era stato in­teriorizzato dai pitagorici, per i quali la libera:.;·ione delle anime dal ciclo delle rinascite si otteneva non con la pratica rituale rna con Ia meditazione e la ri­cerca. Il mito serve a Platone per accentuare ia sua dottrina sui rapporti di ra­dicale inimicizia tra !'anima e il corpo. L'anima che non si e Jiberata dai suoi attaccamenti ai beni terreni sara giudicata, nel suo giungere all'oltretomba, da giudici stabiliti da Zeus che adempiono al loro ufficio in un luogo da cui si di­partono due strade, delle quali l'una conduce al Tartaro, l'altra all'isola dei beati. L'ideale di purificazione da senso alia stessa ricerca filosofica, definita nel Pedone come vera e propria preparazione alla morte.

In che modo lq ragione debba presiedere all'itinerario di purificazione lo esprime il mito della biga, nel Pedro. L'anima, prima della sua caduta nel mon­do di quaggiu, e come una biga tirata da due destrieri, l'uno di buona razza (la volonta), che tende in alto verso il regno delle idee, l'altro di natura indocile (la concupiscenza). A guidare i due destrieri e l'intePetto, che deve dominare il destriero riottoso e stimolare il destriero che tende in alto. La biga corre sulla volta celeste, e dunque in un mondo che sta sopra il cielo (iperuranio, in greco), al seguito degli dei, contemplando le idee. Per il prevalere del cavallo riottoso (e dunque per una culpa originaria) !'anima piomba sulla terra, sepol­ta <<in questa tomba che chiamiamo corpo e che trasciniamo con noi, imprigio­nati in esso come ostriche nel proprio guscio» (Pedro, 250).

Per descrivere la condizione dell'anima nella sua prigionia, Platone, ispi­randosi forse ad Empedocle, crea nella Repubblica il piu celebre dei suoi miti, il milo della caverna, di cui abbiamo gia fatto cenno (4.3). Le anime .sono come uomini che stanno in una caverna sotterranea, «fin da bambini con le catene ai piedi e al collo, cosicche non possono guardare altrove che dinanzi a se ... ai­le !oro spalle brilla la luce di un fuoco acceso lontano su un'altura». Tra il fuoco e la caverna si muovono oggetti dalle forme piu svariate le cui ombre si proiettano sui fondo della caverna. Nati e cresciuti nella caverna, i prigionieri prendono i riflessi del fuoco per vera luce e le ombre degli oggetti per oggetti veri e propri. Se qualcuno riuscisse a liberarsi dai ceppi e, uscito dalla caver­na, riuscisse a contemplare il vero fuoco e i veri oggetti, sarebbe preso prima da stupore e solo dopo comincerebbe ad assueiarsi alia verita delle cose. E se quest'uomo (chiaro simbolo del filosofo che ha 'visto' le idee) tornasse nella prigione per mettere i prigionieri al corrente della sua scoperta, susciterebbe prima il riso e poi l'ostilita. E questa la sorte dei filosofi, che dalla vita sensi­bile si elevano fino a contemplare la vera luce.

II desiderio che spinge il filosofo dalle tenebre alia luce viene chiamato cia Platone Eros, amore. Le origini e le straordinarie avventure di questo amore sono narrati da Platone nel mito di Eros, nel Convito. Gli dei non conoscono Eros perche non hanno nulla da desiderare, e nemmeno gli ignoranti. perche

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non sanno nemmeno che al di la della loro vita sensibile ci sia qualcosa da de­siderare. Solo il filosofo conosce Eros, il quale e figlio di Poros (ricchezza: l'amore presuppone che Ia mente possegga l'idea di cia che merita di essere desiderata) e di Penia (poverta: solo chi avverte Ia mancanza di cia di cui ha bisogno e in grado di desiderarlo). Eros, come un demone, trascina versol'alto colui ch'egli possiede (l'uomo demanico), lungo le forme ascendenti della bel­lezza, come sui gradini di una scala:

da un bel corpo a due, e da due a tutti i bei corpi, e dai bei corpi aile belle istituzioni, e dalle istituzioni aile belle scienze, per finire dalle scienze a quella scienza che non e scienza d'altro se non di quella bellezza appunto; e pervenuto a! termine conosce quel che e bello in se.

Con Ia dialettica di Eros Platone conduce l'impulso della natura umana al­ia piena attuazione di se che si esprime per piu vie, dal bisogno di felicita a quello di immortalita, dalla ricerca filosofica alla creazione poetica. Il Bello in se, in cui sbocca l'amore ascendente, e dunque solo un nome dell'Assoluto che, se rapportato alla volonta morale, potrebbe esser detto il Bene in se e, se rap­portato alla facolta intellettiva, pua esser detto il Vera in se. Siamo qui pro­prio nel cuore della metafisica platonica.

Nel mito di Er, nella Repubblica, Platone affronta un tema arduo, quello della conciliazione tra liberta umana e destino. Un soldato morto in battaglia, Er della Panfilia, quando, dodici giorni dopo la morte, fu messo al rogo, risu­scita e racconta quel che aveva visto nell'aldila. Dopo un ciclo di esistenza, le anime vengono raccolte per essere immesse in un nuovo periodo di vita: <<cia­scuno e responsabile del proprio destino; Iddio e fuori causa>>, dice Ia parca Lachesi all'assemblea delle anime. Vengono gettate le sorti e ciascuna anima, secondo il numero che lee toccata (e quindi secondo Ia necessita), pua sceglie­re le varie forme di vita che le vengono presentate (nei confini della necessita, c'e dunque una liberta di scelta). In base alia scelta fatta, ognuna determina cosi il suo destino individuate.

Per rendere ragione della consanguineita tra il mondo delle idee e il mondo delle cose Platone crea il mito del Demiurgo, nel Timeo. II Demiurgo e un principia creatore che da ordine all'universo imponendo al Caos indeterminato le determinazioni delle forme matematiche, che sono un riflesso delle idee eterne. E lui che ha creato le anime dei singoli uomini e, dopo aver concesso ]oro una visione delle idee, le fa discendere nei carpi, unendole aile due anime inferiori, quella irascibile e quella concupiscibile. Dal momento di questa uriione. nasce nep:li uomini l'oblio delle idee, che produce sia la stoltezza sia l'inquieta nostalgia delle idee dalla quale nasce Eros.

4.8 II Platone 'celeste' e il Platone 'terrestre'. E facile notare come, pur nel­la !oro varieta, questi miti traducano quella profonda religiosita di Platone al­Ia cui sorgente c'e il bisogno di morire a! mondo corporeo per entrare in quel­lo della pura e gioiosa contemplazione della verita eterna. E l'aspetto 'demani­co' di Platone, Ia sua qualita mistica, che non e affatto <<Una goccia straniera nel sangue greco», e l'espressione del suo radicamento nel sottosuolo dionisia­co della grecita.

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Nel Pedone, nel Convito e nel Fedro, Platone, abbandonato al suo demone, sembra lantana dall'intenzione prima con cui aveva intrapreso la ricerca filo­sofica, che fu, come abbiamo vista, una intenzione politica. Ma questa inten­zione non era forse scaturita, o quanta meno non si era fatta piu intensa a causa del suo scandala morale dinanzi alla morte del Giusto? E questi, Socra­te, non aveva fatto fronte alle accuse dei suoi avversari e infine alla suprema severita della Iegge appellandosi proprio a un demone interiore? (3.10). Ecco che cosa vuol dire Platone: c'e un'obbedienza che e costitutiva di un diverso ordine di rapporti umani, di una citta diversa, la cui Iegge e quella del Bene. E Ia Iegge del Bene non si impone per coazione esterna, data che essa e una sola cosa con l'aspirazione radicale dell'anima, cioe con Eros. Platone da cosi al de­mone interiore i1 nome che Socrate non era riuscito a dargli.

Con sottile accorgimento, Platone, nel Convito, mette Ia dottrina dell'Eros sulle labbra non di Socrate rna di Diotima, la sacerdotessa di Mantinea, che, nel momenta culminante del suo discorso, dice a Socrate: «cerca di seguirmi, se ti riesce». Diotima e lo stesso Platone, che esce dal raggio della fedelta al maestro e si fa portavoce di una sapienza piu profonda che Platone attribuisce a un 'demone grande' che sta di mezzo tra gli dei e gli uomini, riempiendo il vuoto, <<Cosi che tutto si trovi collegato in se medesimo». L'armonia che Plato­ne voleva all'interno della citta presupponeva quest'altra armonia, tra la terra e il cielo, tra le leggi della citta e la Iegge eterna della giustizia di cui si resta ignari se non si e contemplato il bene in se. II bene in se none, difatti, un be­ne particolare, esso tende come il sole a illuminare tutte le anime: chi lo ha conosciuto e spinto dallo stesso entusiasmo che prorompe da questa conoscen­za a discendere nella caverna dove gli altri uomini restano prigionieri dell'illu­sione:

Spetta a noi, fondatori della repubblica, di costringere le nature meglio dotate ad elevarsi a quella disciplina che nel discorso precedente abbiamo definito Ia piu alta, e vedere il bene e ascendere quella difficile via; e poi che, ascesi, abbiano visto sufficientemente il bene ... ad essi. .. di rimanervi e non volerne discendere presso quegli incatenati, ne partecipare alle fatiche e alle dignita di laggiu, poco o molto sia il conto che se ne debba fare (Re­pubblica, 519).

E questa il nesso etico-religioso che ricompone in una viswne unitaria il Platone 'celeste' e il Pia tone 'terreno'. Si tratta, e vera, di una visione solo for­malmente unitaria, data che il suo centro di prospettiva, simmetrico all'Eros interiore, e in quella zona dell'immaginazione morale ~he in termini moderni si chiama utopia. Ma per quanta utopica la Repubblica di Platone e !'opera fi­losofica che piu profondamente ha influenzato Ia cultura e quindi le ideologie politiche di tutti i tempi: segno che la sua 'astrattezza' non e poi cosi svincola­ta dalle dinamiche reali con cui, nei secoli, gli uomini hanna perseguito un'or­ganizzazione della Stato secondo giustizia.

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4 -ll 'sistema' platonico D 135

II (sistema' platonico

4.9 La 'citta bella'. Il pensiero platonico e, come si e detto, un pensiero in movimento, ~he non puo ridursi a sistema. E tuttavia Ia Repubblica puo giu­stamente considerarsi come Ia Summa di que! pensiero. Nei suoi 10 libri, nes­suno dei problerni toccati negli altri dialoghi e assente e tutti confluiscono in quello che per Platone fu il problema principe: la costruzione di una citta­stato che fosse, per cosi dire, una Accademia dilatata. Dal 387 al 370 egli svol­se Ia sua meditazione avendo sotto gli occhi Ia sua comunita di re-filosofi, ap- . partata sulla collina di Colona alia. periferia di Atene e aliena dagli intrighi, impegnata insieme a lui a comporre, con l'apporto delle pili svariate specializ­zazioni, l'immagine di una citta ideale di cui avrebbe potuto essere tranquillo reggitore Socrate, a !oro giudizio l'unico vero uomo politico della Grecia.

Nel delineare Ia 'citta bella' (kallipolis). Platone tenne conto sia della situa­zione reale delle citta greche, ormai declinanti, sia del dibattito che, sul tema delle costituzioni politiche, ferveva ancora attorno a lui. Il tempo immaginario del suo Dialogo e quello della guerra peloponnesiaca, nel quale i vizi della de­mocrazia ateniese esplosero con esiti funesti, dando prova di quanta fosse mal riposta la compiaciuta sicurezza di Pericle. Non per caso gli anni della disgre­gazione dell'impero ateniese furono anche gli anni d'oro dei sofisti: la demo­crazia ciarliera dell'assemblea aveva i suoi degni ideologi in Gorgia e in Prota­gora e Ia sua vittima designata in Socrate. Il disprezzo di Platone per la demo­crazia periclea riflette, pili che l'alterigia della classe aristocratica a cui egli apparteneva, la sua profonda convinzione che non si da una citta giusta se le sue sorti non sono affidate a uomini che della giustizia abbiano insieme la co­noscenza e l'amore e se il suo organismo non e tenuto unito non gia da leggi scritte (sulle quali gli interessi particolaristici finiscono sempre col prevalere) rna dalla tensione di un ethos comune. Senza questa ispirazione unitaria la cit­ta cade in mano agli incompetenti e ai profitattori.

Ogni citta in effetti, per piccola che sia, ne comprende per lo meno due, nemiche tra loro: l'una dei poveri, l'altra dei ricchi: e in ciascuna di queste ce ne sono parecchie altre (Repubblica, 422).

Se davvero, come voleva una corrente di sofisti (rappresentata, nella Re­pubblica, da Trasimaco e da Glaucone), e nella natu. a dell'uomo che il pili for­te prevalga sul debole e che dunque le leggi non facciano che tradurre in scrit­to il fatale predominio della forza, allora Ia sorte del giusto e gia segnata (3.6). Ma Platone rigetta un simile concetto di natura, che equipara l'uomo alle bel­ve. Nell'uomo Ia natura e umana in partenza, e cioe, fin dalle sue pili elemen­tari manifestazioni, guidata da una struttura interna nella quale illogos, la ra­gione, esige di sottoporre a se gli impulsi inferiori, che si esprimono nella vo­lonta di potenza esaltata da sofisti come Callicle o Trasimaco. Fin nelle sue forme primordiali la convivenza tra gli uomini lascia trasparire la luce di ra­gione in due modi, tra loro connessi: lo scambio di servizi, nel quale ogni citta-

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dino da e riceve, e la specializzazione dei compiti mediante la divisione della­voro. Le attitudini dei cittadini sono, si, fissate in radice da natura, rna tocca alia 'citta' svilupparle mediante l'educazione, in modo che ne risulti una coo­peraziune il pili possibile proficua al bene di ciascuno.

II punto cardine della costruzione platonica e dunque quello del Bene. L'idea di Bene e Ia cerniera in cui si articolano (e questa articolazione e, ap­punto, la giustizia) la morale individuale, la legge politica e l'aspirazione reli­giosa a una salvezz2' riposta in un ordine sovramondano, che e egualmente il fine sia dell'etica individuale che di quella politica. La citta viene cosi a esse­re, in Platone, se vista, per cosi dire, dal basso in alto, niente altro che l'indivi­duo «scritto in grande», se vista dall'alto in basso. il regno eterno delle idee trascritto sulla terra.

Percio il problema di che cosa sia il buon cittadino, quello di che cosa sia lo Stato buono e quello di che cosa sia Ia salvezza eterna hanno una sola e me­desima risposta nell'idea di Bene. Da questa idea traggono Iuce, e cioe intima necessita razionale, tutte le altre idee, che splendono con purezza nel mondo celeste e hanno il loro corrispettivo in questo mondo terreno, dove la ragione riesce a scoprirle qualora sappia farsi largo tra le nebbie dei sensi. Se mai si potesse parlare di un 'sistema platonico', esso andrebbe riconosciuto in questa grandiosa trama di simmetrie unificate nell'idea del Bene.

4.10 L'uomo e lo Stato. L'uomo e, dunque, come una citta <<Scritta in picco­lo». E proprio in vista della struttura della sua citta Platone descrive la strut­tur dell'anima, utilizzando la dottrina pitagorica della tripartizione:

Essendoci tre parti nell'anima, mi pare che ci siano anche tre specie di piaceri, ciascuno proprio a ciascuna di quelle; cosi parimenti tre classi di desideri e di principi regolatori ... Una parte dell'anima e quella per cui l'uo­mo conosce, un'altra quella per cui si adira; mentre alla terza, perche multi­forme, non abbiamo potuto attribuire un nome che le fosse proprio, rna l'abbiamo denominata da cio che c'e in essa 'di pili caratteristico e di preva­lente e l'abbiamo chiamata concupiscibile, stante Ia violenza dei suoi desi­deri per i cibi, per le bevande, per i piaceri amorosi e per tutti gli altri dello stesso genere; e l'abbiamo detta pure arnante della ricchezza, tenuto conto che e per mezzo della ricchezza soprattutto che e possibile soddisfare questi desideri (Repubblica, 580).

Nel contesto del suo discorso politico, Platone parla dell'anima in funzione del disegno che sta svolgend6, quello della Stato: di qui la distinzione alquanto schematica delle tre anime, che andranno intese piuttosto come tendenze, sen­za che risulti chiaro se e come scaturiscano da un principio unitario. L'anima raziorzale (situata nella testa) ha di per se una funzione egemonica nei confron­ti degli impuJsi inferiori: la virtu che le assicura questa egemonia e la Sapien­za. L'anima irascibile (che noi potremmo rassomigliare, rna con cautela, alla volonta) e l'emotivita aggressiva che, se accetta le regole della ragione, diventa coraggio. La sua sede e nel petto. L'anima concupiscibile - nella quale, come abbiamo visto, Platone condensa gli appetiti dell' homo oeconomicus - e la multiforme tendenza al piacere istjntivo: se accetta la disciplina della ragione

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4- Il 'sistema' platonico D 137

(e a tale scopo occorre che !'anima irascibile si faccia alleata con quella razio­nale: si ricordi il mito della biga, 4.7), essa realizza il bene suo proprio, che e la temperanza. La sua sede e al di sotto del diaframma.

La giustizia non e una virtu specifica: e la risultante delle singole virtu -sapienza, coraggio, temperanza - ed e insieme la disposizione generale dell'anima per cui ogni tendenza realizza il bene nell'ordine suo proprio e tut­te insieme realizzano, vincendo ogni conflitto reciproco, il bene dell'uomo, che e anche la sua eudaimonia, la sua felicita.

Lo schema dello Statu platonico e gia implicito in questo disegno antropo­logico chiaro e distinto. Diversamente che per Pericle o per Machiavelli, lo Stato di Platone non e una creazione rimessa all'iniziativa arbitraria di un ca­po 0 di un'assemblea, e invece una deduzione di tipo geometrico dell'uomo ra­zionale che, specchiandosi nelle linee ferme della propria natura e nelle idee eterne che in essa si riflettono, modella una convivenza umana che non potra essere che quella, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Anche lo Stato ha, per cosi dire, 'tre anime', e cioe tre funzioni affidate a tre diversi ceti sociali, selezionati in base aile !oro attitudini native. Agli occhi di Platone la democra­zia, intesa come il tipo di governo in cui ogni cittadino, solo perche cittadino, e ritenuto idoneo a reggere Ia cosa pubblica (ad Atene, come si e visto, le cari­che venivano estratte a sorte) ~ una degenerazione dello Stato. A reggere lo Stato non puo essere che la verita (o il Bene, che e lo stesso), e la verita ha la sua sede terrena nella mente del filosofo, e cioe dell'uomo che, sviluppando se­veramente Ia sua attitudine alla contemplazione, si e liberato dalla prigionia delle passioni e delle opinioni e ha confrontato la propria vita con la legge eterna del bene. Non dirnentichiamo che il filosofo platonico somiglia pili. al monaco medioevale che all'intellettuale o allo scienziato dei nostri tempi. II suo modello di vita e quello delle comunita pitagoriche tornate in vita nell' Ac­cademia. I filosofi (Platone prevede come normale che il potere politico sia af­fidato a un collegio) vengono selezionati nella classe immediatamente inferio­re, quella dei guerrieri, dei quali devono possedere tutte le qualita con in pili la disposizione alia ricerca razionale. Questa disposizione dovra essere messa alla prova mediante un tirocinio minutamente descritto, dove hanno illoro po­sto la ginnastica, la musica e la geometria, oltre che, naturalmente, Ia logica. I filosofi reggitori vivranno vita austera, senza proprieta e senza mescolarsi al resto della citta, in perpetuo ritiro. Impropriamente dunque si direbbero una casta (alla casta si appartiene per nascita) o una classe (alia classe si appartie­ne per censo): per quanto improbabile, l'ingresso nel collegio dei reggitori e aperto a chiunque riveli idonee disposizioni.

Platone non si abbandono mai all'ideale della pace perpetua: la guerra gli apparve una necessita ineliminabile, anche se a scopi soltanto difensivi. Ad Atene tutti i cittadini dovevano addestrarsi per due anni nell'arte militare; a Sparta, Ia vita militare era uno stato permanente riservato all'aristocrazia. Platone sceglie una via eli mezzo: i soldati sono un corpo permanente, rna il po­tere non e nelle loro mani. Essi devono tenersi a disposizione del collegia dei filosofi, i cui membri d'altronde non sono ignari della loro arte, visto che per lo pili. sono stati scelti proprio dal ceto dei guerrieri. Platone - e in questo egli non supera l'orgoglio etnico del suo popolo - prevede normale la guerra

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contra i barbari, mentre ritiene possibile la pace tra le citta-stato del mondo ellenico. Come abbiamo visto, il suo tentativo di trasformare Dionigi in un re­filosofo mirava a fare di Siracusa un pilastro dell'unita ellenica contro i bar­bari cartaginesi e i talici.

I filosofi e i guerrieri sono, a diverso titolo, 'custodi' della citta, in quanto esercitano, i primi, il potere legislativo e gli altri quello esecutivo. Il resto del­la popolazione (nella Repubblica pare che Platone non preveda. la schiavitu) aveva il compito delle attivita produttive e commerciali. Niente di simile, co­munque, al moderno proletariato. Siccome alle due prime classi era assoluta­mente proibita ogni proprieta (avevano diritto solo al sostentamento), tutto il capitale era nelle mani della terza classe, della quale dunque facevano parte sia i lavora tori che i da tori di lavoro, noi diremmo: sia i lavora tori che le asso­ciazioni industriali. Ma mentre i produttori (i 'demiurghi') hanno il monopolio della ricchezza, non hanno alcun diritto politico. Sono poco piu che spettatori della vita politica vera e propria, dato che <<e impossibile che la massa abbia un pensiero filosofico e scientifico». Solo seguendo la guida dei filosofi, e cioe conducendo una vita rispondente ai precetti morali, essi partecipano alla eu­daimonia (felicita) del corpo sociale.

E facile avvertire che il principia generatore della geometria politica di Platone non e l'individuo come soggetto di diritti, rna lo Stato come unita ar­moniosa e differenziata, inserendosi nella quale l'individuo puo realizzare il suo fine eterno. La giustizia di questo Stato consiste nel fatto che a ciascuno sia dato il suo, che ciascuno sia trattato per quello che e, in base alle attitudi­ni e ai ruoli a cui, se bene sviluppate, le attitudini destinano i cittadini. Data la finalita etico-religiosa dello Stato, Platone, fedele in questo alia tradizione ellenica, non fa nessuna distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. L'uo­moe il cittadino coincidono perche coincidono il fine del singolo e il fine dello Stato.

4.11 Lo Stato totalitario. Lo Stato platonico e totalitario, nel senso che as­sorbe in se la totalita degli interessi e dei valori dell'uomo. Un aspetto di que­sto totalitarismo e il cosiddetto comunismo platonico. Si tratta evidentemente di un comunismo che poco ha a che fare con quello perseguito e variamente realizzato nell'epoca moderna: basterebbe, a persuadercene, il confronto tra il fine spiritualistico e ultramondano dello Stato platonico e quello rigidamente intramondano delle societa comuniste che noi conosciamo. E tuttavia Platone, nella Repuhblica (in seguito egli modifichera notevolmente le sue idee), attri­buisce al suo State ideale alcune caratteristiche che hanno un qualche riscon­tro nell'ideologia comunista dei nostri tempi.

La prima di queste caratteristiche e l' abolizione della proprieta privata per i due ceti dirigenti, i filosofi e i guerrieri. Senza casa, senza terra e senza de­naro, essi dovevano vivere in apposite caserme e servirsi di una mensa comu­ne: uno stile di vita che ha fatto pensare agli ordini monastici militari del me­dioevo. In tal modo Platone intendeva mettere il potere politico al riparo da ogni influenza finanziaria. Il terzo Stato, quello dei demiurghi (si trattava, in genere, di contadini), godeva della proprieta privata secondo il regime domi­nante nella Grecia del tempo.

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Ma per spezzare il nesso corruttore tra ricchezza e potere politico Platone arriva fino a eliminare que! centro dell'istinto di proprieta che e la famiglia. II rifiuto della famiglia non e, in Platone, conseguenza della sua concezione pes­simistica del sesso, e una conseguenza logica del suo concetto della Stato, i cui dirigenti devono essere sgombri dagli inciampi sia economici che affettivi propri della vita familiare. Manca, si, in Platone (rna questa limite e comune a tutta la cultura greca) la percezione dell'importanza che ha la sessualita - e con Ia sessualita la ricca gamma affettiva ad essa congiunta - nel processo della formazione dell'uomo. Il sesso non conta, e se conta, e a svantaggio dell'equilibrio razionale della vita. La sottovalutazione del sesso ha in Platone un risvolto positivo e, dati i tempi, estremamente audace: la donna e cittadino a pieno titolo, tanto che puo far parte delle classi dirigenti, anche di quella dei guerrieri. L'idea di donna-soldato non era affatto contradditoria per Platone, che infatti prevede la partecipazione della donna all'intero processo educativo dei futuri guerrieri e dei futuri filosofi. Donne e uomini vivono in comune, rna come celibi e con tutale_ rinuncia all'esercizio della sessualita. La procreazione non e faccenda !oro, e problema della Stato, che infatti, in periodi stabiliti, vi provvede disponendo gli accoppiamenti, mediante estrazione a sorte, con crite­ri di selezione razziale, in modo da assicurare il rinnovo dei 'custodi' della cit­ta, cioe dei filosofi e dei guerrieri. Non che Platone ritenga meccanicamente tr<:.smissibili i caratteri dei genitori: dalle classi supcriori possono nascere fi­gli da destinare al terzo stato e viceversa. Con una certa amarezza, Platone prende atto dei giochi con cui la sortc puo compromettere la sua chiara gee­metria politica. Comunque, a correggere, fin dove possibile, e a sviluppare i ri­sultati genetici della sorte pensa lo Stato mediante l'allevamento e l'educazio­ne comuni della prole. Tutti sono figli della Stato, il quale provvede, mediante un severo tirocinio e scrutini distribuiti nel tempo, a destinare le nuove reclu­te (la destinazione avveniva all'eta di 17 anni) alla classe meglio adatta aile !o­ro capacita naturali e acquisite. Lo Stato diventa cosi un vero e proprio orga­nismo pedagogico (un' Accademia in grande) che ha come suo piedistallo Ia ter­za classe, quella dei demiurghi (a cui e concessa Ia proprieta e Ia famiglia), e che al suo interno si articola attorno a un'idea architettonica, quella della giu­stizia, il cui paradigma e quello delle virtu delle tre anime tra ]oro armonizza­te. Tutto cio che distrae dalla ricerca della Stato giusto viene severamente bandito: non solo Ia proprieta privata e gli affetti privati, rna anche Ia poesia.

4.12 Lo Stato e l'arte. E paradossale che il piu poeta fra tutti i filosofi sia anche il filosofo che pili recisamente ha bandito Ia pcesia dalla vita della Sta­to: « volentieri - cosi egli dice del poeta - noi, dopo aver sparso profumi e averlo corona to, lo allontaneremo in direzione di un'altra citta». Ma il para­dosso si attenua se noi teniamo canto che nel mondo greco la poesia e l'arte in genere non appartenevano, come per noi moderni appartengono, a una sfera autonoma dell'attivita della Spirito. L'opera d'arte per noi e prodotto e oggetto della facolta estetica, la fantasia, il cui valore specifico non e ne il bene ne il vero, rna esclusivamente il bello. La dottrina dell'autonomia dell'arte (del resto tutt'altro che pacifica anche oggi) pero non fu mai accettata dall'antichita gre­ca. Omero, Esiodo, Eschilo' non furono mai, per i greci, so !tanto dei poeti: essi

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erano ritenuti i veri educatori, portatori di messaggi validi anche sui piano re­ligioso, morale e civico. Una citazione di Omero era argomento probante per'fi­no nei dibattiti di tribunale. Per la societa greca il patrimonio poetico traman­dato dagli antichi era quel che per i cristiani e Ia Bibbia. Ma che Ia democra­zia ateniese, nel suo momento piu splendido, quello di Pericle. rendesse un ve­ro culto agli artisti e ai poeti voleva dir poco per Platone, anzi era una riprova della sua tesi, dato che per lui la democrazia periclea non era stata che il trionfo dell'incompetenza e della corruzione della citta. La popolarita che vi godevano la poesia epica e quella tragica si spiegava col fatto che l'immagine che esse offrivano della vita degli uomini e degli dei era del tutto rispondente alia vita del popolo, dominata non dalla ragione ma dalle passioni. Una volta che la citta abbia posto al centro di se l'ideale della giustizia e che la giustizia. sia intesa come un riflesso dell'idea eterna del bene in ogni momento della vi­ta dei cittadini, allora non c'e piu posto per i poeti e gli artisti del passato, a meno che essi non siano adeguatamente purgati. Un'idea, questa, che attraver­so i Padri della chiesa avra successo fino ai nostri tempi.

Platone sorregge la sua dottrina con argomentazioni del tutto coerenti, che possono essere ricondotte a due fondamentali.

La primae basata sulla definizione dell'arte come imitazione (mimesis) del­la realta. Poniamo, dice Platone, che un pittore dipinga una sedia o un letto. Egli imita oggetti fabbricati da un falegname. Ma il falegname a sua volta nel costruire i due mobili non ha fatto che imitare !'idea di sedia o di letto, che e un'idea eterna, immutabile, unica per tutte le sedie e i letti di questo mondo. II pittore imita l'imitazione della verita: a dir poco, Ia sua e una fatica inutile. Poco meno inutile sara Ia sua fatica se invece che un oggetto artificiale egli di­pingera un oggetto naturale, poniamo un albero. L'albero da lui dipinto none che l'imitazione dell'idea di albero.

L'altra argomentazione si adatta soprattutto ai poeti, in particolar modo a Esiodo, le cui teogonie sono per Platone delle mostruose parodie della santita di Dio. Gli dei descritti dai poeti non solo hanno gli stessi vizi degli uomini, amplificati sulla loro misura, rna si servono della loro potenza per guidare a proprio arbitrio la vita degli uomini. Sia giusto o ingiusto, l'uomo e alia merce del capriccio degli dei, e cosi e svuotato di ogni capacita di costruire da se la propria vita. Un cieco fato, la moira, sovrasta la convivenza degli uomini: se il cielo e abitato dall'arbitrio, come si potra costruire una citta fondata sulla ra­gione? A prescindere dalle sue conclusioni. non si puo qui non riconoscere la nobilta dell'esigenza etico-politica di Platone, nella quale dominano sia il prin­cipia teologico dell'identita tra divinita e santita morale, sia il principia antro­pologico della responsabilita che ha l'uomo nel dare alla propria vita l'impron­ta della bonta e della verita.

Potremmo dire che la polemica di Platone non e contro l'arte in assoluto: e, per riprendere la sua immagine, contro l'arte prodotta dentro la caverna, e cioe dentro la prigionia dell'errore e della passione. L'arte del passato, insom­ma. Ma egli auspica un'arte nuova, che sia riflesso della verita e della bonta. Nella sua dottrina metafisica il bello coincide con il vero··e con il bene, e una loro spontanea irradiazione. L'Eros ha nella bellezza in se il suo supremo ap­prodo, e chi ne e posseduto- fra gli altri, il vero poeta - e come posseduto

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da un clio. Questa aveva insegnato Platone nel Fedro. La Repuhhlica sembra non tener canto di questo valore positivo dell'arte. Eppure la stessa Repubbli­ca si chiude col mito di Er (4.7), di una potenza poetica che potremmo dire dantesca. In questa caso il mito e una creazione della fantasia che insegna una verita altrimenti noH insegnabile. Platone, mentre condanna in nome delle sue idee politiche l'arte del passato, offre il modello di un'arte nuova contra la quale niente, forse, avrebbero avuto da dire i piu antichi filosofi, anch'essi se­veri contra la poesia epica, come Eraclito e Senofane.

Platone: Ia conciliazione impossibile

4.13 La fase dialettica. Con Ia Repubblica, Platone ha dato teorico adempi­mento alia sua tesi che filosofia e potere politico devono coincidere nella stes­sa persona: ogni indulgenza ad altre forme dello spirito che non si risolvano in sapere filosofico - come la ricerca empirica o l'imitazione artistica - non si concilia con la rigorosa missione del reggitore dello stato. A trent'anni, il citta­dino destinato al governo politico dovr[l dedicarsi esclusivamente alla filoso­fia, per un quinquennio. Dopo di che, dovra 'rientrarc nella caverna' per assu­mersi il peso delle cariche pubblichc, diventando, per cosi dire, pedagogo della citta.

La parte centrale della Repubblica e dedicata alia ill us trazione di che sia propriamente il sapere filosofico. Non e un sapere speciaiistico, come quello del medico o dell'artigiano, ma un sapere assoluto, in quanto riconduce tutta la realta sotto la luce del Bene in se, che e poi una sola cosa col Vera in se, col Bello in se, essendo Bene, Vero e Bello aspetti diversi dell'Essere in se.

Nel privilegiare l'identita tra l'Essere in see il Bene in se, Platone portava a un esito coerente !a lezione di SoCl·ate (3.13), che faceva una sola cosa di sape­re e virtu (il Bene infatti non e che il principio supremo della virtu morale), e nella stesso tempo liberava Ia grande eredita di Parmenide (solo l'Essere e) dalle degradazioni scettiche in cui l'aveva trascinata la sofistica. II filosofo di Elea aveva relegatq nel puro non-essere il mondo dei sensi: la via dell'opinione e quella della verita erano alternative !'una all'altra, senza nessun sentiero di raccordo (2.13). La novita di Platone (una novita che ha prodotto un mutamen­to definitivo nella storia del pensiero) e nell'aver articolato ui1 trapasso cono­scitivo che, per tappe diverse, conduce dalle ombre della conoscenza sensibile alia piena luce della visione diretta dell'Essere (come si e detto, 'idea' vuol di­re visione). Questo itinerario prevede quattro tappe, due appartenenti alia sfe­ra sensibile e due alla sfera razionale. A ogni tappa del conoscere corrisponde, con perfetta simmetria, un livello della realta in quella sua parte che emerge da un sottofondo oscuro, la materia, teatro dei mutamenti caotici che sono in se inconoscibili.

II prima grado del conoscere e la sensazione, che ci da le pure e semplici immagini delle cose, immagini diverse a seconda dei sensi (ii tatto, la vista, ecc.).

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Il secondo grado e I'opinione, (doxa), con Ia quale un oggetto e conosciuto in quella sua particolarita per cui esso c~ quello che e.

II terzo grado e quello della c011oscenza discorsiva. Con esso si entra gia nella sfera della ragione, senza perc abbandonare del tutto le parvenze sensibi­li. Gli oggetti non sono piu considerati nella loro particolarita, rna nei rapporti che intercorrono tra !oro: cosl ha inizio la riflessione. Ad esempio: perche giu­dichiamo il dito indice piu grande del pollice e piu piccolo del media? Piu che le cose in se, la conoscenza discorsiva ha per oggetto quelle essenze interme­diarie che sono i numeri, le misure, insomma il 'lato matematico' della realta. La matematica ha una grande importanza nell'itinerario conoscitivo di Plato­ne: essa <<tira ]'anima da cio che diviene a cio che e». Per questa sul frontone dell' Accademia c'era la scritta: <<Nessuno entri se non e geometra». Degli og­getti la matematica rivela non Ia particolarita sensibile rna la pura essenza mi­surabile: della cosa triangolare coglie, per cosi dire, la triangolarita; di due ca­valli, la duita, di un albero, l'unita. Siamo gia nel versante delle idee.

Il quarto grado e quello del pensiero puro, che penetra direttamente nel mondo delle idee, in cui tutta la realta conosciuta nelle altre tappe e presente, non pen) nella sua materialita, sibbene nella sua intelligibilita: non i cavalli, rna Ia cavallinita, non le cose belle rna Ia bellezza in se. A questa punta il fila­sofa e veramente filosofo. <<'0 Platone, obiettava Antistene (3.16) io vedo i ca­valli rna non Ia cavallinita'. 'Tu non Ia vedi perche non hai gli occhi adatti, ri­spondeva Platone, e cioe: perche non sei filosofo'>>. Quest'ultima fase del cono­scere Platone Ia chiama dialettica, e cioe l'arte della ricerca associata, dialogi­ca, portata avanti per domanda e risposta, come aveva insegnato Socrate e co­me Platone stesso Ia raffigura letterariamente nei suoi dialoghi.

4.14 La contraddizione di fondo. Proprio su questa culmine della sua ricer­ca Platone si dibatte, con straordinaria potenza speculativa, contra le difficol­ta emergenti dal cuore stesso delle risposte con le quali tentava di superarle. E gia in questa Platone si differenzia in modo netto dal suo grande discepolo Aristotele, pensatore sistematico per eccellenza. Platone non solo non e riusci­to a condurre la sua ricerca alia compiutezza di un sistema, rna non lo ha mai tentato. I1 suo e un pensiero aperto, in continuo movimento, un pensiero che torna su se stesso per correggersi e per completarsi, restando sempre domina­to dalla consapevolezza che il termine della ricerca e oltre le possibilita della ragione discorsiva, in una contemplazione del Bene Ia quale e al di sopra dei concetti e percio e impotente a esprimersi in parole.

E il caso qui di ricordare che Platone aveva gia dato, ncl Convito (4.7), un'altra definizione della filosofia, identificandola con Eros, figlio di Penia (poverta, e cioe ignoranza) e di Poros (ricchezza, e cioe conoscenza). II filosofo sta in mezzo, e passa dal mondo della doxa a quello della Bellezza in se in vir­tu dell'amore, che lo solleva dalle realta sensibili a quelle intelligibili. Filoso­fia non e sapere, e amore di sapere. II filosofo non e colui che sa (solo Dio sa) ne colui che non sa: sta a mezza strada tra !'uno e l'altro. Ma, in quanta ama, non sta, si muove con ardimento verso la regione del puro intelligibile, che nel Pedro viene descritta come un mondo al di sopra della volta celeste (l'Iperura­nio) dove il filosofo, o meglio la sua anima, fu gia, prima di incarnarsi nel cor-

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po. Una volta incarnata, l'anima del filosofo entra in contatto con le cose e ri­corda i loro esemplari eterni contemplati nell'Iperuranio. La loro bellezza sve­glia in lui l'eros che lo sospinge senza sosta dal mondo sensibile a quello ultra­sensibile, dal mondo del non-essere a quello dell'essere. E questa la versione mitica di un dibattito interiore che Platone tenta di impostare anche in termi­ni razionali: il dibattito circa i rapporti tra il mondo dell' essere e quello del non-essere.

Negli anni successivi alia composizione della Repubblica, Platone sviluppa Ia dottrina della filosofia come dialettica. Nel Sofista e nel Polzllco, egli preci~ sa che il retto ragionamento procede mettendo in relazione le idee tra loro, in modo che siano non pili le une accanto alle altre, rna unificate secondo criteri di affinita e finalmente tutte risolte nell'idea delle idee, il Sommo Bene. E que­sta la fase ascendente, sintetica della dialettica. Dal Sommo Bene, punto di partenza di ogni cosa, e possibile poi discendere, di distinzione in distinzione, fino a raggiungere le idee pili semplici. Ascendendo e discendendo, la ragione percorre l'intera trama dell'intelligibile. E siccome il principio primo dell'in­telligibilita e anche il principia che ha causato l'insieme delle case sensibili, tra la trama delle idee e la trama delle cose c'e perfetta corrispondenza. Pro­prio sulla base di questa corrispondenza il filosofo, conoscitore delle idee, puo divenire politico, puo scendere cioe nell'ordine pratico con la competenza a governarlo.

Di quali case si danno le idee? Mentre per quanto riguarda i valori morali (come giustizia, pieta, ecc.) e le 'essenze matematiche' (quadrato, rettangolo, unita, molteplicita) Platone none preso da dubbio alcuno, per quanto riguarda invece gli oggetti naturali (cavallo, albero) e soprattutto quelli artificiali (letto, sedia) egli, portando avanti la sua autocritica, arriva a posizioni di perplessita, anche se nel Parmenide sembra attribuire idee corrispettive persino al fango e al capella, cioe a realta informi o non dotate di precisa struttura.

La stessa oscillazione problematica, in questa fase critica del suo pensiero, egli mostra riguardo a un problema centrale della dottrina delle idee: in che modo cioe esse siano presenti negli individui corrispondenti. In che modo, ad esempio, l'idea del cavallo e presente nei singoli cavalli? Forse in quanto !'idea e il modello Secondo 'il quale, per imitazione (mimesis), sono stati fatti i Caval­li? 0 in quanto i singoli cavalli hanno in se qualcosa dell'idea di cavallo, e cioe per partecipazione (methexis)? Ognuna di queste soluzioni lascia insoddisfatto Platone, che probabilmente in questo periodo doveva trovarsi in un serrato di­battito con i suoi discepoli (fra i quali sicuramente Aristotele), non del tutto appagati dalla dottrina del maestro. Nel mantenere aperte le contraddizioni egli scontava l'inadeguata analisi della materia, che, pur riconosciuta come substrata degli individui, conserva ai suoi occhi l'inconsistenza del non-essere.

4.15 Essere e non-essere. Dove invece Platone si sottrae, con geniale profon­dita, alla morsa delle contraddizioni eleatiche tra l'essere e il non-essere e nel­la confutazione della tesi centrale di Parmenide che solo l'essere e e che di conseguenza il molteplice non e (2.14).

Di fronte all'essere, dice Platone, non c'e solo il non-essere, c'e il diverso. Comparando due case (un cavallo e un albero, ad esempio) si dovra dire che

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... ambedue sono rna che !'una non e l'altra. Lo stesso si puo dire di una stessa cosa osservata in due momenti diversi del suo divenire: un momento non e l'altro. Ma la cosa e in ambedue i momenti. Questa rivalutazione del moltepli­ce e del mutevole avrebbe potuto portare Platone a far proprie le posizioni di Eraclito e quelle piu radicali di Prot~gora (3.4): che cioe tutto e divenire, nien­te e identico a se stesso e che unica misura delle case e l'uomo inteso come soggetto sensibile le cui sensazioni sono tutte vere o- che e Jo. stesso- tutte false. A Protagora - nel Teeteto - Platone opporra che l'uomo non conosce solo per la via dei sensi rna anche per la via della ragione, imparentata con l'Essere; e ad Eraclito (o meglio a Cratilo, seguace di Eraclito e primo maestro di Platone) opporra che il divenire e il molteplice sono anch' essi imparentati con l'Essere unico e immutabile.

Queste posizioni avranno nel Sofista due approfondimenti importanti. Il primo riguarda la definizione dell' essere. Di per se, l' essere e cio che e nella piena identita con se stesso. Ma si puo chiamare essere anche tutto cio che e nella possibilita di agire o di subire modificazioni da qualche altra cosa. L' es­sere e possibilita. Lasciamo per ora in sospeso la spiegazione di questa tesi, che ritroveremo con ben altra ricchezza di sviluppi in Aristotele. L'altro ap­profondimento riguarda i procedimenti con cui la ragione, applicando il meta­do della divisione (diairesis) dialettica di cui si e detto, arriva alia definizione di una cosa o di un'arte o di un concetto. Platone prende ad esempio, non sen­za arguzia, la 'pesca alia lenza'. Essa e un'arte. Le arti sono di fabbricare o di acquistare. La pesca e della seconda specie. Si acquista per consenso o per cattura. La pesca alia lenza e della seconda specie. E cosi via, fino alia conclu­sione: la pesca alia lenza e l'arte di acquistare con cattura furtiva creature che abitano nelle acque e che vengono catturate di giorno con un colpo che parte dal basso.

Cos'i Platone esce dal dilemma, posto dalla filosofia precedente, tra essere e non-essere. La logica eleatica era quelia dell'identita, a = a; quella di Platone non la nega, ma l'arricchisce col connettere all'identita la relazione. La verita di una cosa non e soltanto nella sua identita con se stessa ma anche nel siste­ma di relazioni chela rapportano a tutto cio che e diverso da essa. L'errore si diversifica dalla verita appunto perche istituisce relazioni sbagliate. Anche qui si afferma !'idea base di Platone, che tra l'ordine delle cose e l'ordine delle idee esiste una simmetria, Iegge inflessibile della ragione contra cui inutilmen­te vaneggia il relativismo dei sofisti.

L'ultimo Platone

4.16 La cosmologia. Ma la simmetria none la coincidenza. Nell'ordine eter­no delle idee, l'unita e Ia molteplicita, il non-essere e l'essere si conciliano sen­za scarti: iJ non-essere e, come abbiamo vista, nella reciproca diversita delle

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idee tra di loro, per cui !'una non e l'altra. Ma nel lora insieme tutte le idee, in quanta ognuna di esse e, si risolvono nell'Essere, che solo veramente e. Nell'ordine delle case, il non-essere ha anche un altro sensa che quello della diversita tra cosa e cosa. Sebbene riproduca in se l'armonia intelligibile delle idee. l'ordine delle case si immerge nella materia, i cui comportamenti sono dominati dal caso e cioe da una regola che rimane impenetrabile per Ia ragione.

Per saldare questa abisso tra l'ordine delle idee e l'ordine delle case, Plato­ne riversa tutte le sue energie di pensiero e di fantasia in un impegno che oc­cupa per intero !'ultima parte della sua vita. Lasciandosi aile spalle l'Iperura­nio - rna insieme all'Iperuranio anche le fallimentari illusioni siracusane -, Platone fissa gli occhi nel caos che soggiace tanto alia realta cosmologica quanta alla realta politica. Il Timeo e Le Leggi (gli altri dialoghi di questa pe­riodo sono tutti riconducibili a questi due maggiori) sono due diversi trattati (sia pure alla maniera platonica) di cosmologia e di economia politica che van­no intesi non come sommesse ritrattazioni della grande utopia della Repubbli­ca rna come tentativi di rimisurare ]'utopia sulle concrete possibilita offerte dalla societa del tempo.

Tant'e vero che il Timeu, nei suoi prirni cinque libri, non e che un riassunto della Repubhlica, anzi il dialogo irnmaginario si svolge il giorno dopa di quel­lo, svoltosi in casa di Polemarco, con cui la Repuhblica esordiva. La dottrina delle idee, esposta nella Repubhlica e approfondita nei dialoghi successivi, spe­cie nel Sofista, lasciava aperto un problema capitale: in che modo le idee, eter­ne e immutabili, sono causa degli individui, che nascono, crescono e muoiono? E perche esiste nel mondo visibile questa duplica to del mondo invisibile? Pia­tone risponde mettendo sulle labbra di Timeo, un cittadino di Locri con un passato di politico e di scienziato, il mito del Demiurgo (l'Artefice). Il mondo c'e perche lo ha prodotto un aneficc sommamente !mono il quale, proprio per­che Ia bonta di sua natura tende a produrre qualcosa che le rassomigli, aven­do dinanzi a se il chaos lo trasformo in kosmos, cioe in un ordine: l'ordine e 'piu buono' del caos. Non solo, rna siccorne l'ordine none possibile senza una mente, il demiurgo pose nel cosmo una mente. E siccome una mente puo esi­stere solo come funzione di un'anima, il Demiurgo infuse nel cosmo un'anima. II cosmo perlanto non e che un grande organismo vivente, di cui gli individui sono soltanto parti mutevoli. Anche le stelle sono viventi, anzi sono dei, creati anch'essi, a differenza del Demiurgo, che invece e eterno e increato.

Come non va confuso con gli dei, il Demiurgo non va confuso con le idee: esse stanno al suo cospetto come modelli eterni, a imitazione dei quali egli ha formato il mondo. Ecco perche le cose del mondo 'partecipano' delle idee. Non ha senso domandarsi che cosa ci fosse prima che il Demiurgo formasse il mon­do, perche il tempo e cominciato proprio allora, quando sono cominciate le co­se. In questo senso si puo dire che il mondo c'e sempre stato: a causa di que­sto 'sempre', Platone chiama il tempo 'immagine dell'eternita'.

La stoffa di cui il Demiurgo si e servito per creare le cose e la materia. L'idea filosofica di materia non e quella fisica che noi abbiamo. La materia, o meglio la 'matrice' da cui le cose provengono, non sono i quattro elementi di Empedocle, perche anch'essi sono in qualche modo determinati e si tramutano l'uno nell'altro. Potremmo rifarci all'apeiron di Anassimandro (1.2), a cio che

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resta del mondo fisico una volta che ne abbiamo scartato tutte le determina­zioni possibili. In questa sensa esso e non-essere, perch§ non e nulla di cia che possiamo dire e pensare. Ma anche questa non-essere in qualche modo e, nel sensa che, substrata di tutte le cose, resiste alla determinazione della ragione, e cia che sta al di la di quel versante in cui le cose rassomigliano aile idee. Ne scopriamo il peso nel moto stesso delle cose, che non obbediscono ai disegni della ra~ione rna procedono a casaccio, secondo una dinamica che e quella del­la necessita, dell'ananke. Ma, anche qui, non si tratta di quella necessita mec­canica di cui parlava, ad esempio, l'avversario di Platone, Uemocrito (2.22), e che anch'essa a suo modo e razionale (accanto alia razionalita finalistica c'e una razionalita meccanicistica): si tratta di una assoluta indeterminazione che provoca disordine nell'ordine e che pertanto sta ostinatamente fuori del cer­chio di luce tracciato dalla ragione, senza peraltro essere pura negativita o male assoluto, come diranno in seguito i seguaci di Platone.

Per sollevare la materia fino a conformarsi al modello delle idee, il Demiur­go le imprime una struttura geometrica (Deus geometrizat, diranno piu tardi i platonici): come nell'ordine delle idee, cosi anche nell'ordine delle cose la geo­metria e il momenta preliminare alla metafisica. Le figure di cui l' Artefice si serve sono i cinque solidi che, secondo quanto gia avevano scoperto i pitagori­ci, sono inscrivibili in una sfera. Fra le figure piane di cui constano i cinque solidi la piu perfetta e il triangolo isoscele (il 'semiquadrato'), che dunque e la Misura aurea di cui si serve il supremo architetto.

4.17 Le Leggi. Lo sforzo speculativo di Platone per inserire anche la mate­ria nella sfera dell'intelligibile trova il suo vero sbocco, potremmo dire anche i1 suo coronamento, nel poderoso dialogo Le Leggi che, se pure porta i segni della vecchiaia (fu pubblicato postumo da un discepolo), e da considerarsi, in simmetria con la Repubblica, una sintesi, questa volta definitiva, del pensiero di Platone attorno a quella che e stata l'idea guida di tutta Ia sua vita: come fondare uno Stato secondo giustizia.

Molti hanno voluto vedere nelle Leggi, se non una ritrattazione, almeno una correzione del progetto utopico della Repubblica. Meglio forse e vedervi un di­verso modo di affrontare lo stesso problema, a distanza di anni. Nella Repub­blica, lo State viene descritto secondo le pure esigenze della ragione, come 'Stato in se', con la piena consapevolezza che si tratta di un'utopia difficile, e forse impossibile, da realizzare. Nelle Leggi, come dice lo stesso titolo, lo Sta­to e descritto a partire dalla costatazione che sul piano concreto gli uomini se non avessero le leggi sarebbero peggiori delle bestie. Nel primo Stato, le leggi non sono necessarie perche vera legge e la volonta dei reggitori, che none mai arbitrio, e riflesso della giustizia di cui essi, in quanta filosofi, sono gli impec­cabili geometri; nel secondo State, che Platone chiama di 'secondo ordine', la giustizia viene affidata, nelle misure del possibile, al primate della Iegge, a cui tutti sono sottoposti, anche i suoi custodi. Insomma, il primo e lo Stato come riflesso del mondo delle idee, il secondo e lo Stato secondo quella che Machia­velli chiamera la 'verita effettuale'. None infondato supporre che il dialogo Le Leggi sia nato quasi in risposta a qualche richiesta di un progetto di costitu­zione. Richieste del genere erano in uso in quei tempi: si ricordi l'incarico da-

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to da Pericle a Protagora di una costituzione per la colonia di Turi. Si spieghe­rebbe cosi Ia finzione su cui si muove il dialogo: la fondazione ex-novo di una citta nell'isola di Creta.

Questa approccio realistico al problema si riflette anche nella spazio che Platone concede alia ricostruzione, sia pure mitologica, della storia della civil­la umana nelle sue alterne vicende di fioritura e di decadenza, e alia conside­razione analitica dei fattori fisici, come il clima e la collocazione geografica della citta (meglio l'entroterra, dice Platone, che la costa: i commerci infatti procurano ricchezza e rovinano lo Stato), il numero degli abitanti (precisamen­te 5040) e l'attivita produttiva da preferire (quella agricola). Platone prende at­to, a malincuore, che l'intelligenza dell'uomo, cosi com'e, non e in grado di realizzare 'il modello fissato nei cieli' e descritto nella Repubblica, dato che es­sa attinge le sue convinzioni piu dalle consuetudini che dalla verita in se. Nel­la Repubblica Platone aveva considerato le forme di governo diverse da quella razionale del filosofo-re come pure e semplici degenerazioni: la timocrazia (go­verna militare) e una degenerazione dello Stato ideale; essa decade nella oli­garchia (governo dei pochi, come dire dei ricchi), la quale a sua volta decade nella democrazia (governo della plebe), che si corrompe nella tirannide. Invece in quest'ultima fase del suo pensiexo (il tema e trattato nel dialogo Il Politico) le tre forme di governo diventano legittime e comportano ciascuna una sua de­generazione. Il governo di uno solo 0 e monarchia 0 e tirannide; il governo di pochi 0 e aristocrazia 0 e oligarchia; il governo del popolo 0 e democrazia mo­derata o e democrazia estremistica. La scelta dell'una o dell'altra forma di go­verna non e dedotta dallo Stato ideale rna e rimessa a una saggia conformita ai costumi e aile consuetudini. A imprimere il sigillo della ragione sulle diver­se forme di Stato e la Iegge, 'filo d'oro' a cui l'uomo deve aggrapparsi se non vuol diventare preda delle forze oscure che da ogni parte lo minacciano. Gli uomini sono, si legge in un passo famoso delle Leggi, come burattini che gli dei, o per gioco o con propositi seri, hanno creato e guidano dall'alto. I fili che ci governano sono molti e molti sono gli impulsi che ci trascinano, spesso in senso contrario. Per neutralizzare le scosse degli altri fili c'e un fila aureo e sacro, 'piu mite che violento': la pubblica legge della Stato. Platone riteneva di appligliarsi al filo d'oro proponendo una forma di Stato che contemperasse le opposte tendenze tra l'oligarchia spartana e la democrazia sfrenata di Atene.

Lo stesso spirito di equilibria razionale ritroviamo nel progetto platonico di ordinamento interno dello Stato. Intanto, sono ritenuti legittimi sia la pro­prieta privata che il matrimonio monogamico e stabile. Ma la proprieta e sot­toposta a severe restrizioni e Io' spazio privata della famiglia e molto ridotto: i pasti, nella citta platonica, devono essere consumati a una mensa comune. Il territorio va diviso in tanti Iotti quanti sono i cittadini: non e lecito dividerli ne venderli. All'arricchimento e posto un calmiere: nessuno puo possedere dei beni il cui valore ammonti a quattro volte il valore del lotto terriero. I cittadi­ni si occupano solo della Stato: le attivita lavorative sono affidate agli stranie­ri e agli schiavi: agli stranieri !'industria e il commercia; agli schiavi l'agricol­tura. I cittadini liberi riempiono il loro tempo con le attivita pubbliche e so­prattutto con la partecipazione alia gestione collegiale della repubblica. Gli or­gani di questa gestione sono elettivi, rna il diritto di voto e condizioilato da tali

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meccanismi che in ultima istanza il potere non puo che finire in mano ai piu abbienti. Il potere supremo e in mano a un consiglio di 'custodi della Iegge' (non semplicemente 'custodi' come nella Repubblica) di 37 membri. Il potere legislativo e invece di un'assemblea di 360 delegati.

Come si vede anche da questi brevi cenni, siamo lontani qui dall'architettu­ra della citta ideale della Repubblica, in cui la legittimita del potere era la vir­tu fondata sulla conoscenza e il rl:<pporto tra governanti e sudditi era il rap­porto tra filosofi e ignoranti. Lo Siato non e piu una istituzione educativa.

E tuttavia le finalita etico-religiose della Stato sono rimaste per Platone cosi essenziali che anche nell'ordinamento della citta basato sul primato delle leggi trovano il modo di riaffermarsi. La religione (Le Leggi contengono un in­tero capitola dedicato alia teologia naturale) e come !'anima della Stato, che deve tutelarla stabilendo un credo e sanzionandolo contra ogni minaccia di eresia. A tale scopo egli prevede un 'consiglio notturno', composto di custodi delle leggi e di sacerdoti. col compito di vigilare sulla ortodossia religiosa dei fedeli: una specie di Sacra Inquisizione, che prende il posto del filosofo-re. A questa compito di supersorveglianza fa riscontro un compito educativo che lo Stato assolve con l'istituzione di scuole obbligatorie per tutti, anche per le donne, con insegnanti pagati e con un curriculum che riproduce quello della Repubblica. A sovrintendere a questa funzione della Stato e uno dei 37 magi­strati che, anche per le procedure della sua elezione, diventa in pratica il su­premo magistrato della Stato. Potremmo dire che in qualche modo egli incar­na in se l'ideale del re-filosofo che era germogliato nella mente di Platone su­bito dopa il martirio del suo maestro. E cosi lo sviluppo del suo pensiero si chiude come in un cerchio. Ma si chiude annullando l'ispirazione che lo aveva generato: <dl consiglio notturno» che vigila sulla ortodossia rassomiglia troppo al tribunale che aveva condannato a morte l'uomo giusto, Socrate!

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5- Sommario D 149

Sommario. Il maggiore dei discepoli di Platone, il macedone Aristotele, non fu, come volle Ia leggenda, un avversario del maestro, ma ne svolse l'eredita in un contesto stori­co totalmente nuovo, con un'esigenza sistematica ed enciclopedica che lo porto a pene­trare, lasciandovi un segno per sempre, in tutti i rami dello scibile (5.1-2).

Fu lui a fondare la 'logica' mediante l'analisi dei meccanismi con cui il pensiero pro­cede. Esaminando la struttura grammaticale del discorso egli individu6 le regole del pensiero, a cominciare dal modo con cui al soggetto si applicano i predicati (categoric) (5.3). Cosi nasce il concetto, che si esprime nella definizione, in cui il nesso tra soggetto e predicato e necessaria, e che riflette l'essenza oggettiva delle cose, costituite da mate­ria (genere prossimo) e da forma (differenza specifica) (5.4). Sulla scia di Platone, Aristo­tele dimostra che la sfera dell'Essere si estende anche al molteplice e che il molteplice ha in se un ordine che si riflette nei giudizi dell'intelletto (5.5). Comparando tra loro giudizi diversi, l'intelletto giunge, in base a! nesso che li stringe, ad un nuovo giudizio, sia per via deduttiva che per via induttiva (sillogismo) (5.6-7).

Forte di questo strumento, Aristotele tenta que! che ancora non era stato tentato: una spiegazione scientifica della natura, in base alle quattro cause - efficiente, mate­riale, formale e finale - che governano il rapporto tra materia e forma, tra potenza e atto, in un dinamismo il cui fine e l' Atto puro (5.8-9). Ma il regno delle quattro cause e il mondo al di sotto della luna: al di la si succedono le sfere celesti che si muovono per impulso del Motore immobile e che costituiscono, nel !oro insieme, un'unica sfera co­smica con a! centro la terra (5.10).

II Motore immobile, che e causa dei movimenti del cosmo, e anche il fine verso cui tende ogni movimento sostanziale e insieme il Pensiero che pensa se stesso e nel pensa­re se stesso pensa le forme di cui e tessuto l'universo, eterne e immutabili come lui. E come muove tutte le cose, in quanto Atto nel quale approda Ia tensione gerarchica delle sostanze finite, cosi esso muove ogni intelletto in quanto in lui tutto il pensabile e pen­sato. E cosi che in Aristotele si intrecciano la fisica, la metafisica e Ia teologia (5.11-12).

Que! che Dio e per l'universo, l'uomo e per il mondo sublunare: tutte le cose tendo­no a lui in quanto anima razionale. L'anima non e una sostanza a se, come in Platone, rna l'atto del corpo e come tale incapace di sussistere senza il corpo (5.13). 0•1esta unita sostanziale tra anima e corpo si esprime anche nel procedimento conoscitivo: l'intelligi­bile, implicito nell'immagine sensibile, diventa atto nell'intelletto. II quale viene distinto da Aristotele in attivo e passivo: distinzione destinata ad appassionare i secoli (5.14). Nel determinare cio che e desiderabile, l'intelletto diventa pratico, da fondamento cioe all'attivita morale (5.15).

La sfera morale, in Aristotele, si distingue da quella politica, in cui invece Platone l'aveva riassorbita (5.16). L'autonomia della morale si basa sull'autonomia del fine dell'uomo, che e il. raggiungimento del Vero mediante la ragione. Raggiungendo il suo fine, l'uomo e virtuoso. La virtu e !a realizzazione secondo ragione degli appetiti sensiti­vi, mediante la regola del 'giusto mezzo' (5.17). Essa non e piu l'appannaggio dell'elite filosofica, e una possibilita aperta a tutti i cittadini liberi, prende insomma le misure

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150 D s- Jl destino storico di A ristote/e

dell'uomo comune (5.18), mentre rimane aperta la possibilita di una vita 'superiore alia natura dell'uomo', quella dedita alia contemplazione del divino (5.19).

La citta aristotelica si diversifica da quella platonica anche perche il suo governo e affidato non ai filosofi rna ai cittadini dotati di prudenza (5.20). Il fulcra della citta e la propriet~1 privata a dimensioni familiari e il suo nerbo e la classe mediamente ricca (5.21 ). Tra le costituzioni politiche che la ciWt puo darsi, la migliore e infatti quella ba­sata non sui molti ne sui pochi, rna su que! ceto che e pill dotato di equilibria (5.22). Lo Stato none piu una 'scuola', come in Platone, rna deve avere a cuore l'educazione del cittadino. In questo quadro ritrova la sua funzione positiva la poesia, che con le sue crcazioni rivela e trasmette al popolo l'universale, lo stesso universale che il filosofo cerca per le vie della ragione (5.23).

II destino storico di Aristotele

5.1 Un pensiero in movimento. Quando Aristotele* entro nell'Accademia, Platone aveva gia dato inizio alla fase dialettica (4.13) del suo pensiero. Quale fosse l'idea motrice di questa fase lo abbiamo detto: Ia frattura tra i due mon­di (quello indefinibile del divenire e quello immutabile delle idee) poneva pro­blemi che andavano risolti. Potremmo dire, schematizzando, che dal versante socratico del suo pensiero Platone stava passando proprio al versante 'aristo­telico'. Lo schema serve anche per introdurci nella questione dei rapporti tra Platone e Aristotele, che gia nell'antichita alimento l'immaginazione dei doxo­grafi. La leggenda di un Aristotele « riottoso come un puledro» contro il mae­stro e del piu famoso di !oro, Diogene Laerzio. Ma in antitesi a questa ce ne sono altre che mettono invece in evidenza la profonda amicizia tra maestro e discepolo. E c'e soprattutto un'elegia del discepolo in morte del maestro nella quale l'ammirazione sconfina nell'entusiasmo religioso.

Gli studi piu recenti (fondamentali quelli condotti dallo storico tedesco Werner Jaeger), cosi come hanno disciolto il maestoso blocco delle opere pla­toniche distribuendole in una successione cronologica che scandisce anche la metamorfosi del suo pensiero, hanno anche disarticolato il 'sistema' aristoteli­co, che sembrava nato d'un sol colpo tutto compatto e del tutto privo di storia interna, distribuendone le parti in periodi ·liversi. Tale distribuzione, in larga misura ancora problematica, ci consente di attribuire anche al pensiero di Ari­stotele un movimento interno che lo riconnette, da una parte, alle profonde in­fluenze del maestro (secondo lo Jaeger Ia produzione di Aristotele e, per la sua meta, platonica) e, dall'altra, alle ricerche naturalistiche che occuparono !'ulti­mo periodo della sua vita. Perfino nelle sue opere piu importanti come la Me­tafisica e Ia Politica, Ia critica filologica ha svelato la dimensione tempo: scritti di diversi periodi, e quindi non sempre tra !oro coerenti, sono stati accorpati dai discepoli o dagli editori in trattati dall'apparenza unitaria in base al crite­ria dell'affinita dei contenuti. E caduta insomma l'immagine tramandataci dal-

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le Universita medioevali, di un Aristotele 'filosofo' per eccellenza, incarnazio­ne assoluta della ragione, e delle sue opere come Bibbia dell'umana intelligen­za sulla quale sarebbe stato irriverente affondare il bisturi della critica filolo­gica. Uscito dal mito e ricondotto alle comuni misure umane, Aristotele non perde di grandezza. Anzi suscita ancora piu meraviglia per la sua capacita di

Aristotele nasce nel 387 a Stagira, in Macedonia, da Nicomaco, medico del re Aminta, padre di Filippo II e quindi nonno di Alessandro Magno. A 17 anni si reca ad A tene ed entra a far parte dell'Accademia. Ad Atene e un meteco, uno straniero, senza diritti di cittadino, di continuo esposto al­le rappresaglie del partito anrimacedone.

Proprio per questa, a quanta pare, non puo avere, alla morte di Platone, la direzione dell'Accademia. Tra i discepoli egli si e distinto con due ope­re, l'Eudemo, o dell'anima, e il Protreptico, o della filosofia, scritti attorno

, al 354-53. I contenuti e il linguaggio sono ancora platonici. Lasciata Atene, nel 347, si reca in Asia Minore, prima ad Atarneo e poi

ad Asso in Bolide, ospite di Ermia, gia suo condiscepolo e ora tirarmo. Qui scrive tre libri Sulla filosofia nei quali gia si afferma l'indipendenza dal maestro e la convinzione di aver trovato la propria strada. Quando Ermia, di cui aveva sposato la figlia adottiva, viene ucciso dai Persiani, egli si ri­fugia a Mitilene, dove si dedica alle ricerche naturali.

NeZ 342 Filippo lo chiama a corte per affidargli l'educazione del tredi­cenne Alessandro. In due anni di insegnamenw Aristotele inculca al disce­polo l'amore per l'Iliade e per Ia ricerca scientifica. Divenuto due anni do­pa successore del padre, Alessandro smette di seguire le lezioni di Aristote­le, il quale pero rimane a corte per altri sei anni. Dopa la battaglia di Che­ronea, che segna l'egemonia macedone in Grecia, Aristotele rientra ad Ale­ne e vi fonda il Licea, dove insegna per tredici anni. All'inizio da lezioni passeggiando nel giardino. Di qui il nome di peripatetici, passeggiatori, data ai suoi discepoli che pero, diventati numerosi, prendono ad ascoltare seduti le lezioni. Fanno vita monastica e consumano i pasti in comune, co­me si faceva all'Accademia. Ma il Maestro aveva introdotto tra i discepoli Ia divisione del lavoro intellettuale. Il sistema consente al Licea di accu­mulare un immenso materiale di ricerca, anche per l'aiuto economico di Alessandro. La dipendenza economica dal grande discepolo non impedisce ad Aristotele una notevole autonomia di giudizio politico. Quando suo ni­pote Callistene e messo a morte da Alessandro solo perch(; il giovane lo aveva rimproverato del suo amore per il fasto orientale e della sua man­canza di riguardo per la civilta greca (erano le idee della zio). il sodalizio tra il filosofo e il condottiero si guasta. ll che peraltro non salva Aristotele dai risentimenti del partito antimacedone. Per impedire agli ateniesi «di commettere un nuovo delitto contra la filosofia», nel 323, poco prima del­la morte di Alessandro, si rifugia a Calcide, nell'Eubea, patria di sua ma­dre, dove muore poco dopa, nel 322. Nel suo Testamento lascia la bihliote­ca e il Liceo al discepolo Teofrasto.

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conciliare fedelta e infedelta al maestro; di filtrare il pensiero che lo aveva preceduto per inserirlo nel proprio sistema come nel suo naturale sbocco; di anticipare nella vasta orchestrazione dei temi trattati tutto il futuro del pen­siero filosofico, e di ordinare in una coerente enciclopedia tutto lo scibile del suo tempo. E tutto questa egli lo ha compiuto in condizioni di vita non sempre favorevoli alla contemplazione e alia tranquilla ricerca.

5.2 L'enciclopedia aristotelica. Nell'esporre il pensiero di Aristotele segui­remo un ordine didatticamente pili adatto a far penetrare dentro lo straordi­nario universo che sembro, nei secoli passati, come l'ordinamento definitivo posto dalla ragione in tutti gli ambiti dell'esperienza umana. Mae utile, in via preliminare, dare uno sguardo d'insieme alla mappa di questa universo nelle sue varie ripartizioni.

La prima ripartizione comprende le aiscipline che Aristotele chiama poieti­che e che noi potremmo dire tecniche, come sono quelle degli artigiani: esse tendono alia produzione di oggetti artificiali. In un certo sensa esse implicano una qualche conoscenza, rna si tratta di conoscenza volta semplicemente ai modi con cui si producono gli oggetti materiali. Per questa non rientrano nella sfera del sapere vera e proprio.' In termini socio-culturali questa significava un declassamento di tutti i ceti che vivono del lora lavoro.

La seconda ripartizione riguarda le discipline pratiche. Nella lingua greca il termine poiesis indica l'attivita umana che produce oggetti esteriori, mentre il termine praxis indica le attivita che restano nella sfera del soggetto, ad esempio le attivita morali. Nemmeno queste hanna la piena dignita del sapere, perche non mirano alla pura contemplazione del vera rna piuttosto a stabilire le regale morali del comportamento o le regale del procedimento conoscitivo. La logica che studieremo per prima rientra in questa gruppo.

E finalmente abbiamo le scienze propriamente teoriche che si distinguono, negativamente, per illoro assoluto disinteresse e, positivamente, per illoro og­getto che e la verita cosi com'e in se, nella limpida trama delle essenze, dispo­. ste come in una pi rami de: in basso, le essenze come si trovano nel mondo del mutamento e cioe della natura (fisica); piu in alto, il mondo dei numeri e delle figure che esistono solo in quanta astrazioni (matematiche), e finalmente l'es­sere in se considerate (metafisica), o in quanta realta che unifica l'intera trama degli esseri, diversificati secondo le varie specie (ontologia), o in quanta costi­tuisce una realta a se, assoluta, non afferrabile dai concetti umani, divina (teo­logia). Possiamo riassumere il tutto in questa specchietto:

(

metafisica { teololgi~ . onto og1a

teorzche matematica fisica

le forme del sapere: j logica

prauche etica

politica

poietiche

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5 -I/ destino storico di Aristotele 0 153

Non possiamo non ammirare la straordinaria capacita di Aristotele di ri­durre a sistema quanta prima di lui era stato pensato. E sara proprio questa il suo destino storico; di emergere come «il maestro di color che sanno» su ogni altro filosofo dell'antichita fino a diventare, nell'eta medievale, l'incarnazione stessa della ragione nel suo sforzo di dominare tutte le case mediante l'eleva­zione dal sensibile all'intelligibile e mediante l'unificazione dell'intelligibile in un principia sommo che sia la spiegazione del tutto. Ma oggi, liberi come sia­mo dal fascino dei sistemi enciclopedici e resi dall'esperiehza storica piu at­tenti alla tensione etico-politica che sta sempre alia base delle attivita dell'in-

Le opere di Aristotele. Si distinguono in essoteriche (destinate cioe al grande pubblico) ed esoteriche o acroamatiche (destinate agli scolari: ak­roa in greco vuol dire ascolto). Le prime, che avevano un andamento piu letterario, sono andate perdute dopa aver avuto una larga circolazione nei secoli appena successivi alla morte del filosofo, mentre quelle esoteriche erano ignorate. lnfatti l'erede di Aristotele porto con se in Asia Minore l'insieme delle opere, patrimonio della scuola, e, per timore che cadessero in mana al re di Pergamo, le nascose in una cantina. Solo nell secolo a.C. furono ritrovare e portate a Roma da Silla, che ne affido la cura ad An­dronico di Rodi, undicesirno scolarca del Licea. Fu Andronico a dare alle opere esoteriche la sistemazione ancora oggi in uso. La diffusione di que­ste opere mise lentamente fuori circolazione quelle essoteriche, ormai per noi totalmente sconosciute, salvo alcuni frammenti delle opere giovanili, di tenore ancora platonico, come l'Eudemo e il Protreptico. Il corpus ari­stotelico comprende quattro gruppi di opere:

1. Scritti di Logica (detti anche, nel lora insieme, Organon, strumento): Categorie, Interpretazioni, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Con­futazioni sofistiche.

2. Scritti di Fisica, e cioe di filosofia della natura: Fisica (in 8 libri di cui quattro dedicati ai principi generali della natura, gli altri al movimen­to), Il cielo, Nascita e morte, Metereologia, Storia degli animali, Locomo­zione degli animali, L' anima, Il sensa, La Memoria.

3. Scritti di Metafisica, cosi denominati perche Andronico li colloco do­pa (in greco meta) quelli di fisica. Essi, per quanto non omogenei e di epo­che diverse, furono raccolti in un 'opera di 14 libri, chiamata appunto Me­tafisica.

4. Scritti di Etica, Politica, Estetica (e cioc pratici e poietici). Vi rientra­no: l'Etica nicomachea, l'Etica eudemea, la Grande etica, la Politica, la Costituzione di Atene, la Retorica, la Poetica.

Fino alle soglie del 1700 si puo dire che l'attivita principale di tutte le scuole filosofiche occidentali altro non sia stata che lo studio e il com­menta del corpus aristotelico.

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telletto, anche quando esso si presume puro e immune da condizionamenti, ci e pili facile cogliere il limite intrinseco dell'ads.totelismo. In Platone il pensie­ro e mosso da un impulso ideale che sdegna le conclusioni definitive perche la sua intenzionalita e la realizzazione della citta giusta: a dispetto delle apparen­ze, egli e tra i filosofi che, non rassegnati a descrivere il mondo, miravano a cambiarlo. La sistematicita di Platone non e formale e sostanziale.

Aristotele, non dimentichiamolo, appartiene alla generazione che dovette assistere impotente al declino·della citta come organismo autosufficiente, co­me soggetto produttivo di ideali storici. D'altronde egli era in Grecia come uno straniero: veniva da una corte ed era approdato ad una scuola. Tra lui e la citta c'era estraneita reciproca. E cosi egli fu il primo dei grandi intellettuali che si limitano a contempla.n; il mondo o a descriverlo attraverso la ricerca empirica. Tra le qualita metafisiche e le qualita empiriche Platone aveva posto la mediazione dei rapporti matematici, intuendo cosi quanto il pensiero mo­derno da Galileo in poi ha dimostrato: l'intelligibilita quantitativa delle qualita e la conseguente possibilita di una operazione tecnica sul mondo delle cose. Almeno per questo lato Aristotele non ha rappresentato un superamento del maestro rna piuttosto un distacco riduttivo in cui penetra gia l'ombra della crisi, il preludio di quella segregazione tra intellettuali e mondo politico che e uno degli aspetti pili drammatici, forse, dell'eta antica e non solo dell'eta anti­ca.

La logica aristotelica

5.3 Le categorie. Si puo dire con fondatezza che Aristotele e il vero fonda­tore della logica cosl. come Euclide (6.2), posteriore a lui di mezzo secolo, e il fondatore della geometria. Non che prima di Aristotele i pensatori non abbia­no fatto uso della logica (la logica e nata con l'uomo razionale), rna nessuno aveva tentato un'analisi dei meccanismi stessi con cui il pensiero procede. Con Aristotele il pensiero diventa oggetto di se stesso, in una indagine che mira a stabilire le regole rispettando le quali esso resta, nei suoi procedimenti, fedele a se stesso. Se ad esempio io dico che Socrate e un uomo, posso porre sul sen­so di questa frase diversi interrogativi. Che significa applicare ad un soggetto (Socrate) un predicato (uomo) mediante la copula e? Questa stessa proposizio­ne perde di senso se io la capovolgo in quest'altra: l'uomo e Socrate. Quali so­no insomma, le leggi interne del pensiero (le forme) da cui non ci e possibile derogare senza cadere nell'errore? Posso anche domandarmi se l'albero e verde perche sono io che lo dico o io lo dico perche e verde. Tra le cose (in greco onta) e il pensiero (logos), o, in parole pili tecniche, tra l'ontologia e la logica che rapper­to corre? La copulae, con cui dico che l'albero e verde esprime solo un modo di procedere del pensiero oppure ha un valore reale, esistenziale, che riguarda in­summa la concretezza del mondo esterno?

Aristotele parte da un presupposto realistico, conforme al senso comune:

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s- La logica aristotelica 0 155

l'ordine del pensiero corrisponde all'ordine delle case e viceversa. E il presup­posto che solo nei tempi moderni, e in modo decisivo con Immanuel Kant, sa­ra messo radicalmente in discussione.

E proprio in base a questa presupposto che l'analisi grammaticale del di­scorso equivale all'analisi dei rapporti che corrono tra le case. Presi uno per uno, i nomi che noi usiamo nel parlare non sono che parole in liberta (Socrate, uomo, e, giusto, filosofo, e cos} via) rna nella connessione che poniamo tra di esse, quando parliamo secondo ragione, noi obbediamo a delle regale del pen­siero che sono, da una parte, le regale della grammatica (la quale infatti tratta dei sostantivi, dei predicati, ecc.) e dall'altra sono le regale che, fuori di noi, danno alla realta una struttura coerente. Gia Platone aveva rimproverato agli eleatici di non avvertire come Ia copula e si puo applicare in piu sensi. Aristo­tele procede su questa strada. Quando noi diciamo ad esempio: Socrate e uo­mo; Socrate e giusto, Socrate e alto tre cubiti, Socrate e piu anziano di Cori­sco, ecc., nel prima caso il verbo «e» significa l'essenza, nel secondo Ia qualita, nel terzo la quantita, nel quarto Ia relazione, ecc. Questi diversi sensi dell'esse­re Aristotele li chiama 'categorie'. Le categorie (in greco categoria vuol dire at­tribuzione) possono dunque definirsi come i diversi modi con cui la copula e lega il predicato al soggetto di una proposizione. Esse sono dieci:

Sostanza (p. e. uomo) Quantita (p. e. alto due cubiti) Qualita (p. e. bianco) Relazione (p. e. doppio) Luogo (p. e. nel Licea) Tempo (p. e. ieri) Posizione (p. e. siede) Possesso (p. e. ha un paio di scarpe) Azione (p. e. taglia) Passivita (p. e. e tagliato)

Le piu importanti sono le prime quattro; le altre sei riguardano sotto i vari aspetti la posizione di spazio e di tempo in cui una cosa e situata e i suoi mu­tamenti. Qualche chiarimento sulle quattro categorie piu importanti:

La sostanza e cio che puo fungere da soggetto in una proposizione. Aristo­tele distingue la sostanza prima; che e la cosa nella sua individualita (ad esem­pio, Pietro, questa albero, questa cane) e che dunque non puo mai essere attri­buita ad altra cosa; e la sostanza seconda, che e la qualificazione universale del soggetto: l'uomo, l'albero, il cane. La sostanza seconda non puo mai sussi­stere (e lo vedremo meglio) in se, come invece pensava Platone che ne faceva un'idea eterna, separata dal mondo delle case; come pure nessuna sostanza prima, nessun individuo puo darsi che non sia una determinazione particolare della sostanza seconda. Anticipando, diciamo che la sostanza prima e l'indivi­duo e la sostanza seconda e la specie a cui l'individuo appartiene.

La quantita. E un attributo a cui Aristotele riconduce una fitta serie di sot-

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toattributi, come uguaglianza o inuguaglianza; il continuo e il discontinuo; il finito e l'infinito.

La qualita. Abbraccia tutto cio che, in un individuo, non appartiene alia quantita e, proprio per questo, non puo essere diviso in parti: la virtu, il sape­re, la mala ttia, il freddo e il cal do, ecc.

La relazione. L'insieme degli attributi che non riguardano il soggetto in se considerato rna il soggetto in quanto riferito ad altri, come se di un uomo dico che e servo, che e straniero e cosi via.

La categoria fondamentale e quella della sostanza: le altre comprendono gli attributi che si aggiungono (infatti vengon dette accidenti, dal latina accedere, aggiungere) al soggetto. Tutte le proposizioni sono degli enunciati con cui vie­ne qualificata una sostanza.

5.4 La dottrina del concetto. Tra questi enunciati e fondamentale quello che della sostanza non mi da gli accidenti rna l'essenza, cio per cui essa e quel che e. Se io dico che l'uomo e un essere che ride, dico certo qualcosa che e propria dell'uomo rna non cia per cui egli e quel che e, come quando dico, in­vece, che l'uomo e un animale razionale: la capacita di ridere e un derivato della razi onali ta.

La dottrina del concetto e un punto cardine del sistema aristotelico, un punto nel quale si opera quella saldatura tra il mondo del pensiero e il mondo delle cose, che il vecchio Platone aveva tentato senza raggiungerla. Il concetto aristotelico si esprime in quella definizione nella quale il nesso tra soggetto e predicato e necessaria al punto che i due termini, il soggetto e il predicato, possono anche scambiarsi. Dire che l'uomo e un animale razionale e come dire che l'animale razionale e l'uomo. Questa necessita logica non fa che esprimere il nesso reale, fisico, che stringe le cose ciascuna in se stessa e tutte tra di lo­ro. Per capire questo momenta delicato della logica aristotelica, siamo costretti ad anticipare alcune nozioni della sua Fisica, della quale parleremo ampia­men te tra poco ( 5. 8-1 0).

Si diceva sopra che, in rapporto al nostro modo di conoscere, la sostanza primae l'individuo in quanta tale, la sostanza seconda e l'individuo colto nella qualificazione universale, cioe nella sua specie, platonicamente diremmo nell'idea che esso realizza nella materia. L'idea di uomo per Aristotele non e separata dall'individuo umano, e la 'forma' dell'individuo e l'individuo a sua volta e la materia della forma. Per materia non dobbiamo intendere quel che intendiamo nel linguaggio comune. Essa e, in Aristotele, i1 substrata della for­ma, Cio che ia forma richiede per essere concreta. Ad esempio la forma e · nell'uomo la razionalita rna la razionalita presuppone, per essere la razionalita di un uomo, la vita animale. Ebbene, la vita animale e, nell'uomo, la materia della forma. Ma a sua volta l'animalita in un bruto e la sua forma che, per es­sere concreta, presuppone la vita vegetativa: la vita vegetativa e in un animale la materia della forma. Si potrebbe discendere fino ad arrivare ad un limite: la materia prima, il substrata universale delle cose. Essa none conoscibile, dato che si da conoscenza solo della forma e la materia prima si dice tale appunto perche priva di ogni forma. Come tale essa non esiste: e piuttosto un limite lo­gico. Di fatto essa esiste sempre in unione con qualche forma, fosse pure quel-

Giancarlo
Il concetto aristotelico si esprime in quella definizione nella quale il nesso tra soggetto e predicato è necessario al punto che i due termini, il soggetto e il predicato, possono anche scambiarsi.
Giancarlo
Il concetto
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il substrato
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un limite : la materia prima,
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la degli elementi primi, l'acqua, !'aria, la terra e il fuoco. Ma se un elemento si trasforma in un altro e perche Ia materia e potenzialmente ogni forma, tende cioe ad unirsi a tutte le forme, dal basso verso !'alto, cioe fino alla Forma pu­ra, Dio, che e assolutamente privo di materia. Ma di questa dinamica dell'uni­verso diremo in seguito (5.11-12). La distinzione tra materia e forma, unite con­cretamente nell'individuo (sinolo, cioe un tutt'uno) ci era necessaria per capire la dottrina aristotelica del concetto. La forma e detta da Aristotele anche spe­cie. La ragione e, ad esempio, la forma della specie umana. E si dice anche ge­nere quando e la base comune di diverse specie. Ad esempio la forma dell'ani­malita e comune a molte specie, tra le quali quella umana, che si distingue dalle altre per una differenza specifica, la ragione. Ma gli animali a loro volta sono una specie delle sostanze vegetali. E cosl via, verso il basso, cioe verso la materia prima, e verso !'alto, cioe verso la Forma pura: la materia prima none un individuo (un sinolo) perche e senza forma, cosl come none un individuo la Forma pura perche e senza materia.

Abbiamo ora tutti i termini per capire Ia dottrina aristotelica del concetto: il concetto e quella conoscenza di una cosa che si esprime enunciando il suo genere prossimo (l'uomo e un animale) e la sua differenza specifica (razionale). Il genere prossimo e il substrata della specie, e cioe la sua materia. Allora pos­siamo dire che il concetto e la rappresentazione, nell'intelletto, della materia e della forma di una cosa. Ma la materia, come abbiamo vista, none a sua volta che la forma soggiacente (nell:uomo, l'animalita) alia differenza specifica della cosa che conosciamo. Come dire insomma che dell'individuo concreto (sostan­za prima) noi conosciamo soltanto la qualificazione di genere (materia) e di specie (forma), la sostanza seconda. Si da vera conoscenza di un individuo (di Pietro, Luigi, ecc.) solo in quanta specie e non in quanta individuo che nasce, cresce e muore, insomma non in quanta e un insieme di <<accidenti» riconduci­bile aile dieci categorie di cui si e detto sopra. Ed e qui che Aristotele si im­batte nella stesso dilemma che ai suoi occhi costituiva il grave limite della dottrina del suo maestro: Ia scienza e possibile solo riguardo all'universale (ai­le forme, aile specie); la realta e fatta di individui particolari. Dunque Ia realta non e oggetto di scienza! Anche Aristotele fugge, per dir cosl, lungo la vertica­le: il dilemma si risolve in Dio che, da una parte, in quanta forma senza mate­ria, e perfettamente conoscibile e, dall'altra, in quanta Uno, e in qualche modo l'Individuo perfetto. Ma anche di questa diremo.

5.5 II giudizio. La definizione concettuale e un giudizio vero e proprio in quanto attribuisce ad un soggetto un prcdicato. Ma la conoscenza non consiste soltanto nella definizione concettuale in cui il nesso tra soggetto e predicato e necessaria. Essa comporta, per lo pili, giudizi in cui il nesso e accidentale, co­me quando dico 'quest'animale e bianco' o 'quest'uomo e un musicista'. Come sappiamo, gli eleatici, che avevano avuto molta influenza in socratici come Eu­clide o Antistene, erano arrivati alia conclusione che l'unico giudizio vero e questa: «l'Essere e», simmetrico all'altro: «il non-essere non e». E siccome il molteplice implica il non-essere, (es.: le rose sono molte perche l'una non e l'altra), tutti i giudizi sono ugualmente veri o ugualmente falsi. Ogni concetto, cosi argomentava Antistene (3.17), e uguale a se stesso e a niente altro. Se io

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dico 'l'albero e verde' io presumo di risolvere nell'unita dell't::> due concetti di­versi, quello di albero e quello di verde. II verde e il verde, l'albero e l'albero. Unificare i due concetti nell'unita del giudizio e un abuso: potrei dire altret­tanto bene (o altrettanto male): l'albero e rosso. Gia Platone (4.15) nel Parmeni­de aveva sostituito alla dottrina dell'Essere-Uno quella dell'Essere Molteplice, che implicava anche l'essere di cio che e altro. Aristotele sviluppa con profon­dita Ia dottrina di Platone. Il nucleo essenziale della sua tesi consiste nella di­stinzione tra i giudizi contradditori e i giudizi contrari.

Due giudizi sono contradditorf quando se l'uno e vero l'altro e assolutamen­te falso: <<egli e sedutO>> 0 «egli non e sedutO>>.

Due giudizi sono contrari quando enunciano due differenze estreme all'in­terno dello stesso genere, come i concetti di Essere e Non-Essere, di Bene e di Male, di Bianco e di Nero. Ma mentre nei 'contradditori' tra i due giudizi non ci sono intermediari, tra i contrari ci sono giudizi intermediari che sfuggono alia secca contrapposizione tra i due estremi. Ad esempio, tra l'Essere e il Non-Essere ci sono le 'sostanze seconde' che non sono ne l'Essere ne il Non­Essere. II concetto di 'essere' non va preso sempre nella medesima accezione. Quando esso funge da predicato, nella copula e, esso significa una cosa se il predicato e nell'ordine della sostanza, un'altra cosa se nell'ordine della quali­ta, altra cosa se nell'ordine della quantita e cosi via, per le singole categoric. Cio permette di capire come una cosa e, insieme, una e molteplice: l'uomo e sempre lo stesso in quanto e animale razionale rna e molteplice in quanto di lui posso dire che e alto, cammina, ride, soffre, ecc.

Una volta sfuggito al sofisma eleatico, Aristotele ripone il criterio di distin­zione tra giudizi falsi e giudizi veri nel rapporto che corre tra l'e come copula del giudizio e l'e esistenziale: illegame che io affermo o nego tra un soggetto e un predicato deve corrispondere al legame o al non legame tra le cose esterne all'intelletto. Pensare e affermare o negare un predicato riguardo ad un sog­getto; pensare con verita e adeguarsi al fatto che quel predicato sia o no unito a que] soggetto nell' ordine delle cose.

5.6 II ragionamento. Questa analisi della struttura logica del giudizio serve ad Aristotele da premessa per distinguere la conoscenza scientifica vera e pro­pria e la dialettica. Nella dialettica non si supera il confine della semplice de­scrizione delle cose, ci si muove insomma nella verosimiglianza, non si arriva a mostrare perche una cosa e quella che e e non puo essere diversamente. E l'arte del discorrere con cui si distingue l'opinione falsa da quella verosimile. La scienza geuera certezza, la dialettica soltanto probabilita, la quale pero e pur sempre una approssimazione alia certezza. Su questa base Aristotele re­spinge lo scetticismo dei sofisti che mettevano alia pari tutte le opinioni, di­stinguendole soltanto col criterio della utilita pratica o politica. E compito della dialettica aprire la strada alla scienza vera e propria: mettendo a con­fronto due opinioni tra !oro contraddittorie (ad es.: l'uomo e mortale; l'uomo e immortale) essa provoca il passaggio ad una superiore forma di conoscenza, quella razionale, il cui oggetto proprio non sono le apparenze sensibili rna le forme immanenti ad esse, non sono gli individui mutevoli rna la loro specie immutabile, non sono Pietro, Luigi, Paolo rna il loro essere individuazioni nu-

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meriche dell'unica specie umana. Penetrando al di la delle sostanze individua­li, che sono il mondo dell' opinabile, la ragione coglie di queUe sostanze la tra­ma delle forme che costituiscono, nelloro insieme, l'ordine delle cose, nel qua­le i rapporti hanno il carattere della necessita: sono quelli che sono e non pos­sono essere altri.

Appunto questo e il compito del ragionamento: esso mette a confronto tra loro giudizi diversi e, in base al nesso che li stringe l'uno all'altro, conduce ad un nuovo giudizio che ha la stessa necessita di quel nesso. Io dico ad esempio: gli uomini sono mortali; Socrate e uomo. Sono due proposizioni che hanno un termine in comune (il termine uomo) che fa da nesso tra di esse. E proprio in base a questo nesso che io posso concludere: Socrate e mortale. Mentre gli al­tri filosofi avevano presentato il prodotto del loro ragionare cosi come un tes­sitore offre al cliente il tessuto bell'e fatto, Aristotele ha insegnato la tecnica del ragionare come un tessitore che addestrasse un apprendista nella sua tecnica.

Non ci e possibile qui trattenerci a lungo sulla complessa 'tecnica' aristote­lica del ragionamento che ha dominato, si puo dire, fino alle soglie dell'eta moderna. Limitiamoci ad illustrare lo strumento per eccellenza di quella tecni­ca, che Aristotele denomino 'sillogismo'.

Riprendiamo in mano le tre proposizioni:

Tutti gli uomini sono mortali Soe1·ate e un uomo

Dunque (ergo) Socrate e mortale.

Le due prime proposizioni si dicono premesse, e pili specificamente la mag­giore, la prima, e la minore, la seconda. La terza si dice conclusione: il dunque (in Iatino ergo) e la congiunzione che enuncia il nesso di necessita con le prime due. Il termine 'uorno' che fa da soggetto alla maggiore e da predicato alia mi­nore si dice termine media. E difatti se noi prendiamo i tre termini 'mortale', 'uomo', 'Socrate' e li raffiguriamo come cerchi di maggiore o minore circonfe­renza, a seconda della quantita di individui cui si possono attribuire, abbiamo un cerchio pili grande, quello che comprende gli esseri mortali, un cerchio in­scritto nel primo che comprende tutti gli uomini, e finalmente un cerchio pili piccolo, anzi un punto che e l'individuo Socrate. Il concetto di uomo sta in mezzo, e media, in rapporto agli altri. Come diciamo con linguaggio moderno, li media. E facile ora capire la definizione che Aristotele dette del sillogismo: « Un discorso (cioe un ragionamento) in cui, posti alcuni dati (le premesse), ne segue necessariamente qualcosa (la conclusione) per il semplice fatto che quei dati sono 5'tati posti».

5.7 Deduzione e induzione. Le 'figure' del sillogismo, e cioe i modi di rap­portare tra loro le premesse, sono numerosi, rna il principale resta quello da noi esemplificato, nel quale la maggiore e universale e la minore e particolare. E il sillogismo deduttivo. II limite di questo tipo di sillogismo e evidente: esso non conduce a nessuna conoscenza nuova. Quando abbiamo detto che tutti gli uomini sono mortali, abbiamo gia detto che Socrate e mortale. II vantaggio e formale, consiste cioe nel portare ad esplicita formulazione Ia verita implicita,

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a sollevare nella luce della consapevolezza l'ordine altrimenti coperto dalle nebbie dell'opinione.

Per arrivare a conoscenze nuove si dovrebbe partire dall'esperienza, che perC> ci mette davanti soltanto cose particolari: questi uomini, non l'uomo; questi alberi, non gli alberi. Aristotele tratta anche del sillogismo induttivo, quello. appunto, che parte dal particolare per risalire all'universale: Platone, Socrate, Diogene, ecc. sono morti; Platone, Socrate, Diogene, ecc. sono uomini, dunque gli uomini sono mortali. Il rischio di questa procedimento e anch'esso evidente. Per poter applicare un predicato ad un'intera categoria di esseri bi­sognerebbe averli conosciuti tutti, allora si che il dunque della conclusione da­rebbe ·certezza. Le conclusioni generali basate sull'esperienza (ad esempio, l'uomo e un animale bipede) non potranno mai essere veramente universali, come dire logicamente necessarie. Aristotele avverte questa limite del sillogi­smo induttivo e tenta di uscire dalle conseguenze scettiche asserendo che la verita di certe conclusioni generali appare evidente per intuizione, come appa­re evidente che un triangolo ha tre lati. Ma la geometria e una cosa, le altre scienze, in quanta empiriche, sono altra cosa: il loro fondamento e l'esperien­za. Tocchera ai moderni, specie a Galileo, arricchire l'esperienza mediante l'esperimento. Anche come scienziato Aristotele, che fu uno straordinario ri­cercatore in ogni campo dello scibile, non riusci a superare il limite delle ar­gomentazioni induttive che di loro natura non toccano mai l'universalita degli assiomi geometrici. Il limite e grave, se si pensa che anche nel sillogismo de­duttivo la premessa maggiore (gli uomini sono mortali), altro none che la con­clusione di un sillogismo induttivo, e cioe non e veramente universale, e una generalizzazione basata sul senso comune. La filosofia moderna si fara strada battendo in breccia questa circolo vizioso aristotelico.

Dove invece Aristotele resta un maestro per sempre e nella sua analisi dei meccanismi dell'intelletto nella loro esigenza di congegnarsi in una unita for­male che non lasci spiragli al mito o alla fuga retorica. A presiedere la grande macchina della ragione ci sono per Aristotele tre principi primi:

il principia di identita: ogni essere e uguale a se stesso (A e uguale ad A); il principia di non contraddizione: una cosa non puC>, sotto il medesimo

aspetto, essere uguale e non essere uguale ad un'altra cosa: se di questa ogget­to dico che e un albero, non posso dire simultaneamente che non e un albero. A non e Non-A;

il principia del terzo escluso: ad una cosa si puC> attribuire un predicato o non si puo: una terza possibilita non si cia: o A e B o e Non-B, tertium non datur.

Questi prindpi si dicono primi perche non si dimostrano: appaiono eviden­ti alla ragione nel momenta stesso in cui si enunciano. Rifiutarli e perdere 'il lume della ragione'.

Per Aristotele la logica, piu che una scienza, e lo strumento della scienza. In greco strumento si dice organon, ed Organon si chiama l'insieme degli scrit­ti logici: si tenga presente che il termine logica, nel senso attuale, sara usato per la prima volta dagli stoici (6.12). Se abbiamo preferito trattare della Logi­ca prima di ogni altro aspetto della dottrina aristotelica e perche essa e da considerarsi appunto lo strumento necessaria per introdursi nell'universo del­la scibile cosi come Aristotele lo ha disegnato.

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La fisica aristotelica

5.8 II movimento e le sue cause. E stato proprio Aristotele, considerato a pieno titolo il primo storico della filosofia, a insegnarci che il pensiero filosofi­co ebbe inizio con i 'fisici' di Mileto. Talete, Anassimandro, Anassimene vengo­no detti fisici appunto perche, come dice lo stesso titolo delle loro opere, si oc­cuparono «della natura», e cioe del principio che spiega l'origine e il movimen~ to del mondo quale appare ai nostri sensi. A esclusione degli eleatici (i quali negavano addirittura, almeno in linea di principio, l'esistenza della natura), i pensatori presocratici vengono detti da Aristotele 'filosofi naturali'. Nessuno di essi pen) a suo giudizio seppe veramente dar ragione della natura -perche nessuno seppe superare il limite dell'ignoranza delle cause da cui dipende il movimento. Ed e proprio nella dottrina delle quattro cause la straordinaria no­vita della fisica aristotelica, destinata a rimanere senza validi contrasti fino all' eta galileiana.

Abbiamo gia avuto modo di anticipare per brevi cenni (5.4) la dottrina ari­stotelica sui 'sinolo': ogni cosa risulta dall'unione tra materia e forma. Dicen­do che l'uomo e un animale razionale noi indichiamo la differenza specifica (razionale) e la materia (animale) dal cui seno la differenza emerge. L'animalita razionale e l'essenza di ogni individuo umano, e l'essenza stessa non esiste, co­me per Platone, in un mondo separato, esiste nell'individuo, sebbene essa sia unica e sia eterna mentre gli individui sono molti e nascono, crescono e muoiono. Ecco dunque il problema: come possono stare insieme l'unita e la molteplicita? L'immutabilita e il mutamento? Platone aveva risolto il proble­ma ponendo i due termini in due mondi separati, per poi sforzarsi, senza riu­scirci, di legarli in qualche modo tra di loro (4.14). Aristotele tenta l'impossibi­le: l'unificazione dei due mondi. E lo fa appunto con la dottrina delle quattro cause. Vediamo come.

Prendiamo ad esempio una trasformazione nel mondo delle cose artificiali. Un falegname costruisce un letto. Possiamo distinguere nel processo di costru­zione quattro diversi elementi: una materia (il legno); una forma (l'idea di letto che il falegname ha in mente); un fine (che e il letto realizzato) e un artefice o principia efficiente (il falegname). Chiunque puo capire che le cause, in questo caso, sono quattro.

E nelle trasformazioni delle cose di natura? Ad esempio nella nascita e cre­scita di un albero? La materia e l'insieme degli elementi in cui consiste e di cui si nutre il seme (causa materia/e); la forma e la specie a cui il seme appar­tiene (causa forma/e); il fine e l'albero nel suo stato di compiutezza, con i frutti appesi ai rami (causa finale). E la causa efficiente? Essa e la specie propria del seme. Se si riflette bene, nelle trasformazioni delle cose di natura, a parte Ia causa materiale, le altre si distinguono solo logicamente, rna nella realta sono una sola cosa. Sono Ia specie, che funge e da causa formale e da causa finale e da causa efficiente. Da questa analisi derivano conseguenze importanti.

II movimento delle cose, in quanto e modificazione sostanziale, e cioe nasci­ta, crescita e morte, non e meccanico, e teleologico, cioe finalistico (in greco telos vuol dire 'fine'): la sua vera causa e nella forza motrice della forma. II se-

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me si fa germoglio e poi albero perche Ia forma, ad esempio di melo, e anche il fine a cui il processo tende e, in quanto fine, e anteriore all'intero processo. E cosl. se un fale~name costruisce un letto, il fine. e cioe Ia forma ideale di letto che egli ha in mente, e anteriore all'intero processo di costruzione. Diversa­mente che nel movimento meccanico, in cui Ia causae antecedente all'effetto, nel movimento finalistico e l'effetto che e anteriore. II melo e prima del suo seme, in quanto e causa motrice della crescita. Lo si verifica anche nel senso empiri­co: per avere un seme di melo ci vuole ~n altro melo. Come si vede, Ia specie passa immutata di seme in seme, di albero in albero: essa e, insieme, una e molteplice, mutevole ed eterna.'

5.9 II finalismo. Nel mondo sublunare non ci sono individui senza materia. Le trasformazioni avvengon6 sempre in qualcosa che sta sotto di esse (di qui il termine soggetto): il passaggio dal freddo al caldo avviene sempre in qualcosa che da freddo diventa caldo, e viceversa. Alla nostra esperienza la materia si presenta insieme come indeterminata e determinata: ad esempio, il legno e de­terminato nei confronti di ogni altro m;;1teriale, rna nelle mani del falegname e indeterminato, in quanto potrebbe diventare una sedia, un letto o un tavolo, e cosl. via. Si pua dire, dunque, che la materia e, nella scala degli esseri, cia che e inferiore di un grado alia forma che di volta in volta prendiamo in conside­razione. In quanto e determinata, la materia ha gia una forma; in quanto e in­determinata ha la possibilita di averne un'altra, e potenza di prendere una for­ma. Potenza e la possibilita preesistente di assumere una certa forma. II seme, ad esempio, e in potenza albero, anche se come seme e gia la forma di una ma­teria ancora piu indeterminata. Se scendiamo nel senso della indeterminazio­ne, arriviamo a una materia prima che e pura e semplice possibilita di riceve­re tutte le forme. Ne viene una prospettiva grandiosa: quella di un universo che, di grado in grado, e una immensa aspirazione a passare dall'indetermina­to al piu determinato, dalla materia alla forma: il limite di partenza e Ia pura materia o pura possibilita, il limite di arrivo e Ia forma pura.

In quanto una materia indeterminata prende forma, essa passa dalla possi­bilita all'attuazione o, come dice Aristotele, dalla potenza all'atto. L'atto e Ia condizione di perfetta unita tra Ia causa formale, quella efficiente e quella fi­nale. In un individuo si possono dunque distinguere; dal punto di vista della struttura, la materia e Ia forma, dal punto di vista del movimento, la potenza e l'atto. La forma pura e quella che ha realizzato totalmente le aspirazioni della materia, e percia, essendo la materia una sola cosa con l'aspirazione, Ia forma pura e senza rriateria. Che e come dire che l'atto puro e senza potenza, nel sen­so che in esso tutte le possibilita si sono attuate. Come polo supremo di tutte le possibilita, l'Atto puro e anche causa motrice di tutto l'universo, e il motore universale; e poiche non vie in esso alcuna potenza a diventare altro da se, es­so e anche immobile: Motore immobile.

Qui Ia fisica confina - e lo vedremo fra poco - con la metafisica. In rap­porto al moderno concetto di fisica, anzi, questa di Aristotele e piuttosto una metafisica, nel senso che ogni fenomeno viene spiegato a partire da principi qualitativi (mentre la fisica moderna e quantitativa) che restano estranei alia nostra esperienza sensibile. E natura, per Aristotele, tutto cia che si muove

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per un principia interno a se, che non ha niente a che fare con i sensi: e ogget­to della pura ragione. La causa finale spiega ogni tipo di movimento: quello quantitativa, di crescita o di diminuzione; quello locativo, e cioe di traslazione da un luogo a un altro. Anche quest'ultimo, il piu evidentemente meccanico, e per Aristotele finalistico, perche governato dalla tendenza dei quattro elementi a ricomporsi ciascuno nel suo luogo naturale: la terra sotto l'acqua, l'acqua sotto l'aria e l'aria sotto il fuoco. L'universo e, cosi, una immensa compagine animata, articolata in sistemi gerarchicamente disposti, e tutta chiusa nella propria circolare finitezza. D'accordo in questo con la tradizione greca, Aristo­tele considera l'universo come finito, dato che l'infinita e segno di imperfezio­ne, di assenza di forma. L'infinito in atto non esiste. Zenone sbagliava quando, per dimostrare che Achille non puo raggiungere la tartaruga, divideva lo spa­zio in infinite parti (2.15). E vero che anche una piccola misura di spazio puo essere divisa all'infinito: puo essere, rna non e. In potenza e infinite parti, rna non in atto. Con straordinaria acutezza Aristotele ha spazzato via le tradizioni sofistiche della cultura greca e ha costruito un'immagine del mondo che e ri­masta, per quasi duemila anni, patrimonio dell'occidente.

5.10 La cosmologia. Quanto si e detto finora riguarda i mutamenti che av­vengono sulla terra. Ma la terra non e il cosmo. Nel cosmo ci sono altri muta­menti (il moto degli astri, ad esempio) che non possono essere spiegati come quelli delle cose che nascono, crescono e muoiono. Nel tracciare la sua rappre­sentazione del cosmo, Aristotele non fece che ridurre in ordine quanto le scuo­le filosofiche, specie quella pitagorica e quella accademica di cui era stato di­scepolo, e le scuole scientifiche (basti ricordare il nome di Eudosso di Cnido) avevano teorizzato. La sintesi aristotelica, aggiornata secoli dopo da Tolomeo (di qui l'appellativo di tolemaica con cui passo alla storia) era in grado di spie­gare tutti i fenomeni celesti e terrestri che allora rientravano nell'osservazione comune. Ci voleva il cannocchiale di Galileo per farla crollare. F:cco i tratti sa­lienti di questa sintesi.

L'universo e una estensione sferica, finita (come si e detto, la finitezza e un tratto essenziale della perfezione), che non e in nessun luogo, dato che ogni luogo e interno ad essa e dato che, contrariamente a Democrito, Aristotele ne­ga l'esistenza del vuoto. Limitata nello spazio, la sfera cosmica e pero eterna: none mai cominciata ne mai finira. Ed e in movimento, non per virtu propria rna perche mossa dal Motore immobile- atto senza potenza, forma senza ma­teria - che la sovrasta.

La sfera cos mica ha un centro che e la terra, anch' essa sferica, ed e inter­namente divisa in due parti: una al di sopra del cielo della luna, l'altra al di sotto, il mondo celeste e il mondo terrestre o sublunare. Mentre per Democri­to la materia che compone l'universo e dappertutto la stessa (gli atomi sono dovunque eguali), per Aristotele la materia di cui e composto il cielo non ha nulla a che fare con quella che fa da stoffa al mondo sublunare e che e costi­tuita dai quattro elementi. La materia celeste (quinta in rapporto aile quattro sublunari, in seguito si chiamera percio 'quintessenza') e l'etere, una sostanza corporea incorruttibile, non soggetta dunque a mutamento, fuori che quello lo­cativo, eterna e quindi perfetta, che si muove soltanto in senso circolare. I cie-

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li infatti sono in movimento attorno a due poli estremi (in ,qualche modo, un polo nord e un polo sud) in virtu dell'impulso che ricevono da Dio, Motore im­mobile. La sfera celeste e composta, in realta, di molte sfere, Ia prima delle quali e quella delle ~Helle fisse, che altro non sono che nuclei di etere resi in­candescenti dal moto circolare. Lo stesso si dica degli astri da cui prendono nome le altre sfere: il sole, la luna e i pianeti. Tra una sfera e l'altra ci sono. delle sfere compensatrici che, muovendosi in senso contrario, attenuano, ar­monizzandola, la spinta che scende dal primo cielo verso il piu basso, quello della luna. Nell'insieme, le sfere celesti sono 55. Ciascuna di esse e un 'indivi­duo' composto di etere e di un principia motore che e come !'anima del corpo, immortale anch'esso come l'etere e quindi simile al supremo motore, se si ec­cettua il fatto che il primo motore e del tutto privo di corporeita. Man mano che si scende di sfera in sfera, l'impulso trasmesso dal Motore immobile si at­tenua, fino a lambire il cielo della luna: qui finisce il moto circolare. AI di sot­to, il residuo di forza motrice che riesce a discendere imprime agli elementi su­blunari un movimento imperfetto e cioe rettilineo, dall'alto in basso e viceversa.

Gli elementi primi da cui tutte le cose sono composte hanno anch'essi in qualche modo una propria sfera: il fuoco in alto, sotto il fuoco l'aria, sotto !'aria l'acqua, sotto l'acqua Ia terra. La sfera del fuoco gira insieme a quella della luna e provoca evaporazioni, sia dalla terra che dall'acqua: i fenomeni celesti, come le meteore, sono prodotti da queste evaporazioni. Tutte le combi­nazioni del mondo sublunare nascono per l'azione di due coppie di contrari: il caldo e il freddo, il secco e l'umido. Ecco perche nella sfera sublunare gli indi­vidui sono un miscuglio di necessita razionale, a somiglianza degli individui celesti (ognuno dei quali e specie a se) e di casualita, di indeterminatezza. La materia prima, infatti, che e il limite infimo dell'universo e che prende forma nei quattro elementi, non si adegua mai alla trama razionale delle forme, trat­tenuta com'e dalla sua inerzia. Nel mondo abbiamo l'ordine intelligibile e il caos del fortuito: insomma, Ia necessita finalistica e il caso: come chi, dice Ari­stotele, arriva in piazza perche aveva intenzione di andarvi e vi incontra un de­bitore che non pensava di incontrare, o come chi scava un pozzo per cercare l'acqua e trova un tesoro.

Dall'inerzia della materia prima alla luce della razionalita umana corre una scala di esseri - minerali, vegetali, animali, uomini - che e in realta una ininterrotta ascensione verso il mondo intelligibile, un'ascensione i cui gradini sono innumerevoli (ci sono minerali che sono quasi vegetali e vegetali che so­no quasi animali). nella quale, se si osserva dall'alto in basso. si distende, con gradazioni da crepuscolo, Ia frangia estrema del 'Pensiero del Pensiero'. La do­ve ha in se il principia del proprio movimento (non si dimentichi che le sostan­ze viventi si muovono in virtu della forma) il mondo sub lunare e finalistico (e que­sta la natura, Ia physis, vera e propria); Ia dove questo principia immanente viene meno, il movimento e possibile solo per cause esterne, alla maniera meccanica.

II merito di Aristotele e di aver dedicato, specie negli ultimi tempi della sua vita, Ia maggior parte del suo tempo allo studio del mondo sublunare, mo­bilitando i suoi discepoli del Liceo in ricerche chimiche, botaniche, zoologiche, anatomiche. I suoi erano intenti di classificazione piu che di indagine speri-

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mentale di tipo scientifico. Ma non gli si puo certo fare un torto di non avere inventato lui il metodo galileiano!

Il concetto di fisica a cui oggi ci riferiamo ha avuto origine nel rinascimen­to e compiutezza di definizione nell'eta galileiana. Esso implica due condizioni fondamentali, che erano estranee ad Aristotele: il metodo induttivo e Ia tradu­zione di qualsiasi movimento in termini quantitativi. In Aristotele, nemmeno il movimento locativo, che e l'oggetto della sua fisica, e univoco. Esso e qualita­tivamente diverso: dall'alto in basso per la terra e l'acqua; dal basso in alto per !'aria e il fuoco; circolare per i cieli. Insomma, Ia fisica di Aristotele e qua­litativa, nel senso che riduce tutti i fenomeni dell'esperienza a cause che sono tra !oro diverse e che si unificano soltanto in un principio non interno alia na­tura. Lo studio di questo principio e la 'filosofia prima', perc he nell' ordine lo­gico sta prima della filosofia della natura, che difatti Aristotele chiama 'filoso­fia seconda'.

La metafisica aristotelica

5.11 Dalla fisica all'ontologia. Che il termine 'metafisica' non sia mai stato usato da Aristotele non e solo una notizia curiosa. Come abbiamo gia detto, quando, nel J, secolo a.C., Andronico di Rodi compose il catalogo delle opere aristoteliche, colloco la sillog:e deg:li scritti dedicati alia 'filosofia prima' subito dopo i libri di fisica: in greco, meta ta phvsica, dopo i libri fisici. E siccome que­sta designazione redazionale coincideva in qualche modo con l'oggetto studia­to dalla 'filosofia prima', il termine 'metafisica' sembro in seguito molto adat­to per indicare la disciplina filosofica che studia Ia realta che sta fuori dell'esperienza fisica, anche se del mondo fisico rappresenta !a causa prima e il fine ultimo. E cosi Aristotele e diventato il 'metafisico' per eccellenza. In realta, eg:li non ha mai pensato di comporre un trattato esclusivamente dedica­to alle questioni metafisiche. I 14 libri che compongono il suo capolavoro sono stati messi assieme senza tener conto della !oro eta di composizione (che va dal periodo platonico agli ultimi anni di attivita del Liceo) ne della !oro diversa desti­nazione. Nee venuta fuori un'opera non solo di livello diseguale ma anche non esente da contraddizioni interne, che saranno poi all'origine delle diverse forme di aristotelismo di cui e ricca la storia del pensiero.

Senza entrare nel fitto della selva oscura dei problemi affrontati in quest'opera, cominciamo con l'indicare subito il carattere, per dir cosi, 'bi­fronte' del pensiero metafisico aristotelico. Da una parte, la sua 'filosofia pri­ma' non e che lo sviluppo estremo della sua cosmologia: in base al suo princi­pio che «niente si muove se non e mosso da qualcos'altro», egli doveva di ne­cessita collegare il suo cosmo, incorniciato dal primo cielo, a un principio roo­tore esterno e insieme connesso al cosmo_ Per metafisico che sia, Aristotele ri­mane insomma un naturalista, un 'fisico'. Dall'altra parte, una volta che ne viene affermata l'esistenza, questo principio trascendente appare come l'Esse-

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re che e in virtu di se stesso, punto di connessione tra l'ordine delle cose intel­ligibili e 1' ordine dei concetti con cui il pensiero pensa le cose: Essere pensato e Pensiero che pensa l'Essere. E cosi la 'filosofia prima', spezzando gli ormeg­gi che la legavano alla fisica, diventa ontologia (che vuol dire, dal greco, di­scorso sull' essere).

Ma l'Essere che e in se e per se e da se non e forse quel Sommo Bene nella cui contemplazione l'intelletto trova l'appagamento del suo desiderio di sape­re? Non e forse Dio? E cosi l'ontologia si sdoppia in teologia, che vuol dire ap­punto discorso su Dio. Ma il Dio di Aristotele, proprio perche raggiunto, per necessita logica, lungo la catena delle cause in cui si articola la natura, e un Dio naturalistico. Mentre Platone partiva dal Sommo Bene per dedurne, di­scendendo verso la materia, un mondo di idee separato dal mondo delle cose, Aristotele arriva a Dio per induzione, a partire dall'analisi delle sostanze e del­la loro concatenazione ascendente. Tra Dio e Ia natura Platone pone le idee, i numeri e il demiurgo che plasma l'universo; Aristotele elimina ogni interme­diario: le idee, come abbiamo visto, sono immanenti alle cose e il demiurgo non e necessaria perche il mondo, essendo eterno come Dio e come il moto dei cieli, non ha bisogno di un ordinatore. E i numeri? Se essi, argomenta Aristo­tele, sono numeri ideali diversi da quelli che noi conosciamo, allora non posso­no essere i principi di intelligibilWt del mondo reale; se poi sono gli stessi di quelli della nostra matematica, allora si tratta di pure astrazioni del nostro in­telletto che non hanno nessun corrispettivo nella realta: rientrano nella cate­goria non della sostanza rna della quantita. Tra il primo mobile e il primo rna­tore, dunque, non c'e nulla.

La continuW:t tra fisica e metafisica riappare di continuo se ci rifacciamo alla dottrina del movimento. Ogni movimento richiede un motore che imprima il moto all'oggetto in movimento. Se l'oggetto e artificiale (ad esempio, una freccia), il motore e esterno all'oggetto. Ma se e naturale? Se si tratta di una pietra che cade, di un albero che cresce, di un gatto che corre, di un uomo che cammina? Anche in tutti questi casi il motore e esterno, non pero come causa efficiente rna come causa finale: per la pietra e il suo luogo naturale, la terra; per il gatto e il cibo, per l'albero e il frutto, per l'uomo e la meta del suo viag­gio. In ognuno di questi casi la causa finale e anche causa formale, immanente alla cosa in movimento: nella pietra e la sua omogeneita con la terra, per il gatto e la sua vita vegetativa, e cosi via. Negli esseri di natura la causa finale e quella formale sono una sola cosa, e proprio per questa sono anche causa efficiente.

Abbiamo gia visto come nella sostanza sia la forma a unificare in se i principi del movimento, meiitre la materia resta del movimento il puro sub­strata (5.8). La materia, che e potenza, giunge all'atto in una determinata for­ma. Il movimento sostanziale e passaggio dalla potenza all'atto. Questa passag­gio e impossibile senza qualcosa che e gia in atto: se nasce un uomo, e perche un uomo lo ha generato e questa a sua volta e stato generato da un altro uo­mo. Non si puo andare all'infinito, perche per una serie infinita dobbiamo sup­porre un tempo infinito, e un tempo infinito non rende ragione del perche ci siano cose che ancora non sono passate dalla potenza all'atto. Bisognera per forza fermarsi a un essere che sia in atto da sempre, senza mai essere stato in potenza. Se chiamiamo mobile cia che puo passare dalla potenza all'atto e se .

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chiamiamo motore cio che determina questa passaggio, allora l'essere che e ab aeterno in atto e come tale determina in tutte le sostanze, quale primo anello della catena, il passaggio dalla potenza all'atto, possiamo si chiamarlo motore, rna motore immobile. Immobile appunto perche esclude da se ogni potenza, in quanto e gia in atto riguardo a tutte le possibilita. Per questa si chiama anche Atto puro: puro perche sgombro da ogni residua potenzialita. Per la stessa ra­gione potra essere detto Forma pura, nel senso che, essendo la potenza una stessa cosa con la materia, la dove ogni potenza e attuata ogni materia scorn­pare. Forma pura vuol dire anche puro Spirito. Come l'apice della piramide e il punto in cui tutte le facce scompaiono unificandosi, cosi nel Motore immobi­le le diverse prospettive del cosmo (dal mosso al vivente, dalla potenza all'atto, dalla materia alla forma) si unificano se si va in sensa ascendente, e si origina­no se si va in senso d1scendente.

Il motore immobile e la causa prima non solo nell' ordine oggettivo delle co­se, rna anche nell'ordine soggettivo dell'intelletto e della volonta, che in Aristo­tele hanno una medesima radice (<<Tutti gli uomini desiderano naturalmente di sapere>>, e il famoso avvio della metafisica). Se la suprema verita e la causa prima di tutte le cose, e proprio in quanto causa prima le rende intelligibili, allora il Motore immobile muove l'intelletto in quanto e il Primo intelligibile. E se la suprema verita e anche il bene sommo a cui si volge il desiderio, allora il motore immobile muove tutto in quanto e il Primo desiderabile o, per dir meglio, il Primo amabile: <<muove tutto in quanto e amatO>>. E questo l'aspetto platonico del pensiero aristotelico.

5.12 Dall'ontologia alla teologia. Potremmo dire che quello di Motore im­mobile non e che i\ nome cosmologico dell'Essere eleatico. Da Parmenide in poi la questione metafisica per eccellenza e questa: che cosa e l'ente in se con­siderato? Abbiamo gia visto che secondo Aristotele si puo parlare dell'ente in dieci modi, tanti quante sono le categorie. Ma questi modi non sono essi stessi enti, come voleva Platone, che ne faceva delle sostanze eterne. Se dico 'il foglio e bianco', non posso considerare enti in se sia il foglio chela bianchezza, come faceva Platone. Solo il foglio e, la bianchezza none se non in quanto inerisce a una sostanza. Ma di questo abbiamo gia detto. E abbiamo gia detto che secon­do Aristotele la dottrina dell'essere si identifica con la dottrina della sostanza, la quale soltanto e, dato che la materia in se considerata, e cioe priva della forma, e, si, rna solo come pura possibilita e quindi solo come idea limite. In che senso la sostanza e? In quanto la sua condizione e il mutamento, cioe il di­venire, la sostanza e e none: e, in quanto atto che realizza una potenza, none, in quanto e ancora in potenza riguardo alla piena attuazione della sua forma e riguardo alle forme superiori. Per arrivare all'Essere che esclude da se ogni non-essere dobbiamo risalire all' Atto puro, che «e immobile assolutamente e tutto in atto ne puo essere in alcun modo diversamente da que! che e>>. Per questo egli e l'Essere necessaria.

Che rapporto c'e tra l'Essere necessaria e gli esseri contingenti, cioe le so­stanze? In che senso noi chiamiamo essere sia 1' Atto puro sia le cose in diveni­re, le quali per un verso sono e per un verso non sono? Sono stati i discepoli di Aristotele a spiegare questo rapporto col concetto di 'analogia dell'essere',

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per cui ogni sostanza partecipa all'Essere secondo il grado della sua perfezio­ne e dunque l'Essere e diffuso nell'universo con una gradazione di partecipa­zione che giunge fino al deserto innominabile della materia prima. Ma questa sviluppo non e di Aristotele, che si limita a dire che il concetto di essere puo predicarsi in diversi modi e non, come per gli eleatici, in un solo modo.

Ma l'Essere - che finora abbiamo considerato o come causa prima del mondo fisico o come categoria suprema del pensiero, in ambedue i casi come supremo vertice del mondo in quanta mondo intelligibile - ha in se un ambi­to autonomo che va contemplato in se e per se, e allora il nome che gli compe­te e quello di Dio. Del resto, lo stesso Aristotele chiama teologia quella che noi, da Andronico in poi, chiamiamo metafisica. Non possiamo certo dire che il Dio di Aristotele sia un Dio personale, come nel pensiero di deriyazione bi­blica, ebraico, islamico e cristiano, rna non possiamo nemmeno dire che egli sia, come la sfera eleatica, immobile in se stesso, un supremo Oggetto privo di vita. Ma che si puo dire di questa Dio al quale non possono essere applicate nove delle dieci categorie (egli non ha ne qualita ne quantita, ne relazione ne azione ne passione, e cosi via) e che puo essere definito con Ia prima di esse, la sostanza, con una riserva fondamentale, che, a differenza di ogni sostanza, si­nolo di materia e forma, egli e solo forma?

Ecco alcuni elementi di un discorso aristotelico su Dio che pero e rimasto senza veri sviluppi. Lo stesso termine Dio e usato da Aristotele nella Metafisi­ca solo in una parte del cap. XII, che alcuni fanno risalire alla fase platonica del suo autore.

Dio e 'Pensiero del pensiero': in quanto e atto puro, non solo e al vertice della gerarchia delle cose intelligibili rna e anche al vertice dell'attivita intel­lettiva che nell'uomo e continuo passaggio dalla potenza all'atto. Egli e dun­que I'Intelligibile, oggetto del pensiero, e l'Jntelletto, soggetto dell'intelligibile:

Se non pensa nulla, in che e tanto eccellente? La sua condizione sarebbe quella di uno che donne. E se pensa rna il suo pensare dipende da altro, al­lora in quanto Ia sua sostanza non e il pensiero in atto rna Ia potenza, essa non e Ia piu perfetta delle sostanze: che Ia dignita le viene dal pensare.

Infatti, spiega Aristotele, se dovesse pensare altro da se, il pensiero di Dio sarebbe pensiero in potenza, condizionato da altro. E siccome ogni altro ogget­to e inferiore a lui, se Dio lo pensasse porterebbe pregiudizio alla propria per­fezione.

Esso dunque, se e cio che v'ha di piu perfetto, pensa se stesso ed e pen­siero del pensiero ... Non essendo dunque diverso il pensato dal pensare per quante cose non hanno materia, essi saranno lo stesso e il pensiero sara tutt'uno col pensato.

Straordinaria esaltazione di Dio oppure, come qualcuno ha sospettato, ma­niera retorica per relegare Dio molto al di la del mondo proprio dell'uomo, in cui il pensiero e faticosa conquista, e quindi per garantire la ricerca umana da ogni intrusione di potenze estranee? Comunque sia, e senza indulgere a una lettura di Aristotele ispirata a quanta da lui trarranno creativamente i neopla-

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tonici, Ia fisionomia del Dio-pensiero-di-se e del Dio-amore-di-se (che l'amore segue il pensiero e viceversa) non puo essere confusa ne con quella del pensie­ro orientale ne tantomeno con quella della tradizione biblica. Infatti:

- il Dio aristotelico non e un Dio creatore, in quanto creare e passare dalla potenza all'atto, passaggio assolutamente inconcepibile nell'Atto puro. II mon­do e eterno come Dio;

- e nemmeno e provvidenza, per il semplice fatto che Dio ignora gli indivi­dui e J'intero mondo della contingenza. Anche se supponiamo, con i neoplato­nici (8.2), che pensando se stesso Dio pensa tutto cio che nell'universo e intelli­gibile e dunque anche i generi e Ie specie, il suo orizzonte visivo resterebbe sbarrato aile soglie della contingenza oltre le quali corre Ia storia umana.

A questo punto non sarebbe necessaria ricordare che Dio non e in grado di amare il rnondo, per Ia: stessa ragione per cui non lo conosce. Amare e passare dalla potenza all'atto e, nel caso di Dio, e amare cio che e perfetto. Ma chi, fuori di Dio, e perfetto? Dunque Dio e amore di se stesso e di niente altro. Egli e piuttosto il supremo oggetto dell'amore, in quanto l'intera gerarchia delle so­stanze, intimamente mosse dalla tensione verso l'atto e verso cio a cui l'atto e potenza, va ve"'"so Dio come l'amante va verso l'amato. Possiamo chiudere quc­sto paragrafo con un passo famoso della Metafisica (forse, come si e detto, del pe­riodo platonico di Aristotele) a cui nei secoli successivi ci si riferira per annettere anche Aristotele al f!rande pantheon dei filosofi relig:iosi:

Dio si trova in quello stato di felicita, nel quale noi possiamo trovarci di quando in quando. Ma se !a condizione di lui e ancor piu grande della no­stra, tanto piu sara !a sua felicita. E Dio e appunto tale. Siccome d'altra parte l'intendere presuppone Ia vita, Dio e vivente; e poiche suo e l'atto che non e per altro rna per se stesso, coincide in lui con !a vita perfetta ed eter­na. In lui e una vita continua e un'esistenza eterna. Tale e Dio.

La psicologia aristotelica

5.13 L'anima e il corpo: una sola cosa. Que! che e Dio per l'universo intero e l'uomo per il mondo sublunare. L'universo e pensiero che non pensa, tutto sospeso a Dio in quanto Pensiero che pensa se stesso. Nel mondo sublunare il pensiero a cui tutto e sospeso e quello dell'uomo, vertice a cui tendono, come a !oro atto supremo, tutte le cose, a partire dalla materia prima su su fino aile piante, agli animali, per finire in quell'atto in cui l'animalita, in quanto poten­za determinata, realizza se stessa, cioe !'anima razionale. Questo concatena­mento tra l'uomo e le sostanze inferiori non e piu, per l' Aristotele maturo, que! che era per I'Aristotele platonico, autore dell'Eudemo, dove il corpo veni­va paragonato al cadavere a cui gli etruschi legavano con efferatezza il corpo vivo di un condannato. II corpo none piu la 'tomba dell'anima', che anzi !'ani­mae l'atto del corpo, cio per cui il corpo umano e un corpo umano, cosi come

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l'atto del vedere e cio per cui un occhio e un occhio. Se un occhio perdesse la vista non potrebbe piu dirsi occhio se non per omonimia, come quello dipinto da un pittore o scolpito da uno scultore. Questo cambiamento nella conce- J zione dell'anima da Ia misura della rivoluzione vissuta e prodotta da Aristote-le. Tale rivoluzione non e stata compiuta per un semplice moto dialettico del pensiero. Vi hanno certamente avuto peso le ricerche empiriche condotte con l'aiuto di discepoli come Teofrasto, e i cui risultati fanno di Aristotele il vero creatore della zoologia scientifica, dell'anatomia comparata e della storia na-turale nel senso piu moderno del termine. Darwin, il padre dell'evoluzionismo, pote scrivere: «Linneo e Cuvier sono stati ambedue i miei dei, anche sea titoli diversi, rna essi non erano che degli scolari in confronto al vecchio Aristotele». Nella teoria evoluzionistica, l'uomo e il punto di arrivo di una catena di, tra­sformazioni che in miliardi di anni, a partire dalle prime modificazioni chimi-che della materia, han dato luogo alle forme piu complesse di vita fino a quel-la che si distingue da tutte per Ia sua attivita di pensiero: I' homo sapiens. Per Aristotele le specie, distribuite in una scala dagli innumerevoli gradini, erano invece eterne, come il Motore immobile. Il nascere e il morire riguardano gli individui, non le specie. Ma per quanto si riferisce al nesso che !ega l'una all'altra le sostanze, egli e straordinariamente moderno, lontano dal mistico dualismo tra !'anima e il corpo e in polemica contro il puro meccanicismo di Democrito, che appiattiva Ia. diversa qualita delle sostanze nel movimento e nelle aggregazioni casuali delle quantit~ indivisibili.

La sua dottrina dell'individuo come unita tra materia e forma e come pas­saggio dalla potenza all'atto, una volta applicata alia sterminata congerie delle cose che costituiscono il mondo, gli permette di far luce sulla razionalita che sottosta all'apparente caos. A suo giudizio, !'errore commesso dai platonici ri­guardo alia costituzione ontologica dell'uomo e di aver considerate il corpo come Ia materia in cui !'anima e, una materia indeterminata e intrinsecamente eterogenea all'anima. La verita e diversa. L'anima (e non solo dell'uomo rna di ogni sostanza vivente) e Ia forma di una materia predisposta proprio a quella forma e non ad altra: e, insomma, l'atto di una potenza, Ia quale a sua volta, rapportata a cio che nella scala degli esseri Ia precede, e a.tto di altra potenza. L'anima si puo dunque definire come «l'atto primo di un corpo organizzato che ha la vita in potenza». Dire vita e dire anima e la stessa cosa. Solo che Ia vita si presenta a noi estremamente diversificata: vivono egualmente Ia pianta, l'animale e l'uomo. I diversi livelli di vita si distinguono precisando quale sia propriamente !'anima di ciascuna sostanza.

1. L' anima vegetativa e pr"opria delle pi ante. Le piante infatti «racchiudono in se una potenza e un principio siffatto per cui crescono e decrescono in dire­zioni opposte ... Tale funzione vegetativa puo sussistere separatamente dalle al­tre rna le altre non possono disgiungersi da questa negli esseri mortali>>. La funzione vegetativa, che e !'anima delle piante e che comporta il nascere, il crescere, il morire e il riprodursi, e a sua volta potenza in rapporto a una fun­zione superiore, quella sensitiva.

2. L' anima sensitiva e propria degli animali e assume in se, come Ia forma assume Ia materia, ]'anima vegetativa. Gli animali sentono. Ma Ia dove c'e il senso «c'e anche la funzione appetitiva, giacche l'appetire e desiderio, ira, voli-

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zione e tutti quanti gli animali hanno almeno uno dei sensi, cioe il tatto; e quando c'e senso, ci sono piacere e dolore, cose piacevoli e cose dolorose, e per conseguenza anche il desiderio, che e appunto la tendenza verso le cose piacevoli». L'anima sensitiva e potenza a quella razionale.

3. L' anima razionale porta a compimento la gerarchia degli esseri viventi nel mondo sublunare. Attuando la potenza sensitiva, l'anima intellettiva assu­me in se, e quindi unifica, sia la vita vegetativa che quella animale. Non ci so­no dunque nell'uomo tre anime, come voleva Platone, rna una sola che assolve tutte e tre le funzioni, le quali dunque vanno distinte, sl, rna non separate. A prescindere dalla funzione vegetativa (a cui si collega quella della riproduzio­ne), competono all'anima dell'uomo due funzioni fondamentali: quella intellet-tuale e quella appetitiva. ·

5.14 La conoscenza. Diversamente che nella psicologia platonica, i sensi non sono per Aristotele un ostacolo alla conoscenza razionale, ne sono il veico­lo necessaria. Nulla infatti puo giungere all'intelletto che prima non sia stato nei sensi. Anche per capire la complessa analisi aristotelica del processo cono­scitivo bisogna usare la sua nozione di potenza-atto: essa ci permette di distri­buire in una gerarchia ascendente i momenti attraverso i quali l'oggetto ester· no diventa concetto universale.

l. La sensazione. La sensazione sembra essere una modificazione del sog­getto in uno o piu dei suoi cinque sensi. La realta e diversa: nella sensazione passano dalla potenza all'atto sia il soggetto sensitivo che l'oggetto sensibile. I sensibili sono le qualita delle cose che hanno rapporto con i sensi e che diven­tano sentite non appena entrano in sintesi col soggetto sensitivo, il quale a sua volta in quel momenta diventa senziente. Il russo di questa vino e il suo profu­mo sono colore e odore solo in quanta, mediante la vista e l'olfatto, diventano sentiti dal soggetto. Se si prescinde dal soggetto, il russo e russo solo in poten­za e cosi pure quel profumo e quel profumo soltanto in potenza. Essi passano all'atto, sono cioe quel che sono nella nostra normale percezione, solo quando il sensibile passa all'atto. E qui la radice del 'realismo' aristotelico, in questa assegnare alle cose esterne il compito di dare avvio al processo conoscitivo. In questa sensu non e vero che l'uomo e misura di tutte le cose: sono le cose che misurano l'uomo. Senza quell'avvio l'intelletto umano resterebbe totalmente vuoto. Non che Aristotele faccia del soggetto un ricettore passivo delle modifi­cazioni esterne: in occasione della modificazione, come si e detto, esso, in quanto soggetto senziente, passa all'atto, assumendo in se, dell'oggetto, sultan­to l'impronta, come. Ia cera riceve del sigillo soltanto la forma e non il metallo di cui e fatto. I sensibili (cl;e Aristotele distingue in propri, come il colore per l'occhio o la durezza per il tatto, e comuni, come il movimento, che riguarda sia la vista che il tatto) nel divenire sentiti vengono unificati da un sensu o sen­soria comune che compara tra loro le differenti sensazioni (ad esempio, il colo­re e il profumo del vino) e da la consapevolezza di sentire. Il senziente non so­lo sente, rna sente di sentire, e in tal modo unifica in se gli apporti molteplici dei sensi: l'unita dell'oggetto si trasforma in una sensazione unitaria.

2. lmmaginazione e memoria. L'atto col quale il sensibile modifica i nostri sensi non scompare con lo scomparire del sensibile (la sensazione del bicchie-

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re di vino non scompare se per caso il bicchiere e sottratto ai nostri sensi) rna permane nel sensoria comune quasi fosse uno schema interiore delle case as­senti. Le immagini (i 'fantasmi', dice Aristotele) delle case restano anche quan­do le case non ci sono piu. Esse sono come un duplicate plastico e duttile dell'oggetto di cui sono l'impronta e, nel lora associarsi, in virtu della ripeti­zione, e nel loro confrontarsi, preparano Ia materia alia 'forma' intellettuale, sono insomma l'intelligibile, sono l'oggetto in quanto e immediatamente in po­tenza a essere inteso dalla ragione. Sono l'atto del sensibile e la potenza dell'atto intellettivo, sono la fase di passaggio dal particolare all'universale.

La memoria e un aspetto dell'immaginazione in quanta essa possiede im­magini passate ed e capace di evocarle nell'anamnesi, nel ricordo. Anche gli c;~nimali, ad esempio le api, hanna immagini-ricordo, rna solo nell'uomo l'ana­mnesi e un procedimento deliberative, in quanta e operata dall'intelletto che, nel pensare l'universale dentro le immagini, le richiama alia memoria e le or­dina in una dimensione di cui solo esso, l'intelletto, e capace: la dimensione tempo. Senza le immagini l'intelletto non puo pensare, nemmeno quando pen­sa per astrazioni matematiche: per pensare un triangolo bisogna immaginarlo. E. dunque nell'immaginazione che Ia materia sensibile acquista tutte le deter­minazioni necessarie per diventare oggetto dell'intelletto. La memoria immagi­nativa infatti e il momenta alto dell'attivita sensitiva, alla frontiera tra !'ani­male e l'uomo, tra l'uomo in quanta animale e l'uomo in quanta razionalita.

3. L'intelletto. La funzione specifica dell'uomo (le altre funzioni conoscitive sono comuni a tutti gli animali) e quella dell'intelletto. La potenza analitica di Aristotele tocca qui il massimo della raffinatezza rna anche i limiti delle pro­prie capacita dimostrative. Da una parte egli doveva tener fede al suo princi­pia che niente passa dalla potenza all'atto se non per qualcosa che e gia in at­to (e dunque l'intelligibile non diventa intellezione se non in virtu di un princi­pia che e gia in atto riguardo a tutti gli intelligibili), dall'altra doveva restar fedele alla sua tesi realistica che non si da conoscenza universale se non aUra­verso i sensi. Dov'e, insomma, l'universale? Dentro l'immagine che il processo sensitivo ha elaborate? 0 nell'intelletto che assume in se l'immagine? In ambe­due i luoghi, dira Aristotele. Ma dovra allora sdoppiare l'intelletto in due: in un intelletto passivo e in un intelletto attivo. Per diventare intelligibile l'imma­gine deve entrare nella sfera spirituale dell'intelletto: e difatti essa modifica l'intelletto passivo che e gia in atto in rapporto a cio che vi e di universale nel­le immagini, perche contiene in se tutte le forme. Ma queste forme pensabili non sono pensate: sono degli intelligibili che attendono di diventare intellezio--ne per l'intervento dell'intelletto attivo, alia maniera che in una stanza c+ sono gia tutti gli oggetti visibili, rna essi non sono veramente visti se non quando si accende la luce: la luce e l'intelletto attivo.

Aristotele si rese canto che a questa punto la dottrina platonica delle idee innate, cacciata dalla porta, rientrava dalla finestra. E che sono infatti le for­me gia presenti nell'intelletto passivo? «E vera, come sostengono alcuni -cosi risponde Aristotele -, che !'anima e luogo delle idee, solo che non biso­gna riferirsi a tutta !'anima, rna alia noetica, e alle idee non in atto perfetto, rna in potenza>>. Nell'anima noetica, cioe nell'intelletto passivo, le idee non ci sono gia, ci sono in potenza, cosi come su una 'tabula rasa', su una lavagna

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cancellata, non c'e niente di scritto rna tutto pua esservi scritto. Ma chi scri­ve? Chi fa passare all'atto l'intelletto possibile? L'intelletto agente o attivo, il quale cosi e detto perche ha gia in atto tutte le idee! Da Scilla a Cariddi. Riget­tato dal prima intelletto, il platonismo ricompare nel secondo. Solo che in Ari­stotele questo intelletto supremo none natura, non nasce con l'embrione uma­no, nel quale invece e gia presente l'intelletto passivo. L'intelletto attivo entra nell'embrione umano 'dal di fuori' e non si mescola mai col corpo ne con le at­tivita sensitive. Diventa forma dell'intelletto passivo, il quale a sua volta e for­ma del corpo, che col corpo nasce e col corpo muore.

Si aprono qui, intrecciate tra !oro, due questioni che resteranno cruciali in tutta Ia linea storica dell'aristotelismo islamico e cristiano. Questa intelletto attivo che viene dal di fuori, che none dunque un elemento della sostanza uo­mo, e personale o universale? E see universale, unico cioe per tutti gli uomi­ni, e perennemente in atto, tanto vale dire che e Dio, il Pensiero del pensiero. Altra questione, subalterna a questa: ha ancora senso parlare dell'immortalita dell'anima? In quanta forma del corpo, !'anima intellettiva (cioe l'intelletto passivo) scompare con lo scomporsi del sinolo, cioe con la morte. Che resta dell'uomo? Nel caso che l'intelletto attivo sia universale, non dunque unico per ogni singolo uomo, si pua dire che nulla resta dell'individuo come tale. E cosi l'appassionato autore dell'Eudemo diventa, procedendo negli anni e nella coerenza con la sua scelta realistica, a dir poco problematico proprio dinanzi aile massime certezze del suo maestro: spiritualita e immortalita dell'anima individuale.

5.15 II desiderio e Ia libertit. L'anima, si e detto, ha due funzioni: quella in­tellettiva e quella appetitiva e cioe motrice. II movimento di cui qui si parla e accidentalmente locativo (come quello della mano con cui scrivo), rna e sostan­zialmente la tendenza (appetito, da adpetere, tendere a) dell'essere umano a un fine indicato dall'intelletto e rappresentato dall'immaginazione. «Ho bisogno di bere, dice l'appetito; ecco la bevanda, dice il senso o l'intelletto; e subito l'animale beve». Nel linguaggio aristotelico: il desiderabile (l'acqua per l'asse­tato) e il motore immobile che muove per attrazione il desiderio. II desiderio e un motore mosso, che a sua volta muove il corpo che e un semplice mobile. Quando il desiderio raggiunge il suo fine si ha il piacere, il quale dunque, non pua mai essere di per se un fine poiche e l'irradiazione dell'atto che realizza il fine: ad esempio, l'assetato che beve realizza un fine e ne ha anche piacere. II piacere e un di piu che potrebbe anche non accompagnare il fine raggiunto. Solo il desiderabile in quanto fine pua essere il motore che muove il desiderio, e lo fa in quanto entra in gioco l'immaginazione che lo propone al desiderio. Il desiderio nell'animale e tutto, rna nell'uomo la determinazione del fine conve­niente alia sua natura e opera dell'intelletto, che in questa sua funzione di in­dicazione si dice pratico. Veramente desiderabile e per l'uomo solo cio che l'intelletto indica come tale. Ma pua darsi che tra cia che indica l'intelletto e cia che l'immaginazione propane come desiderabile ci sia uno scarto: in que­sta scarto si gioca la dignita morale dell'uomo. Nell'intemperante, l'oggetto presentato come desiderabile dall'immaginazione e come non desiderabile dall'intelletto riesce a muovere il desiderio e a dominarlo: il motore dell'in-

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temperante, e quindi il suo tiranno assoluto, e l'oggetto proposto dall'immagi­nazione in contrasto con l'intelletto.

Lo scarto tra il desiderio irrazionale e il desiderio razionale e lo spazio del­la Iibera scelta: noi diremmo della volonta. Ma ad Aristotele, come d'altronde a tutto il pensiero greco, manca Ia nozione di volonta come principia di auto­determinazione dell'uomo, come 'Iibera arbitrio'. La determinazione della scel­ta parte, si, dall'uomo rna a seconda che egli sia mosso dal motorc immaginati­vo o dal motore intellettivo. Saggio e solo chi si lascia determinare dall'intel­letto, dal logos. Siamo qui aile soglie dell'altra disciplina di Aristotele, che ap­partiene non aile scienze teoretiche rna a quelle pratiche.

L' etica aristotelica

5.16 Autonomia della morale. I venti anni vissuti nell'Accademia avevano coinvolto Aristotele nell'impresa che accomunava maestro e discepoli: il dise­gno di una citta ideale che fosse, da una parte, un progetto da rendere reale ovunque possibile e, dall'altra, la proiezione in grande di quell'armonia morale che l'individuo doveva per canto suo costruire in se stesso. La gerarchia delle tre classi sociali e quella delle tre anime dell'uomo erano, nell'insegnamento dell' Accademia, perfettamente simmetriche. Ma Aristotele, non dimentichia­molo, ad Atene era uno 'straniero'. L'ideale della polis doveva essegli piuttosto estraneo. Quando poi, morto Pia tone, egli lasciC> l' Accademia, prese a vivere in luoghi diversi e fu spettatore e in qualche modo ispiratore proprio di quella sconvolgente politica di Alessandro che avrebbe posto fine per sempre aile am­bizioni della polis greca di costituirsi come mondo a se, come unita autosuffi­ciente. Quando rientro ad Atene, la sua estraneita alia citta non era piu soltan­to anagrafica. La spada di Alessandro aveva tagliato per sempre il fila della continuita della storia greca, rendendo anacronistico ormai ogni ideale mera­mente cittadino. Fu dunque anche Ia forza delle cose a fare di Aristotele il pro­totipo dell'intellettuale che tende a rispecchiare in se il mondo, non piu a tra­sformarlo.

Egli conserva, si, Ia convinzione platonica (rna potremmo dire semplice­mente ellenica) che la morale personale e parte integrante della politica, data che la citta e per natura anteriore sia alia famiglia che all'individuo, rna sara ;sua premura circoscrivere Ia sfera autonoma che alia morale compete, ·nella convinzione che, in fin dei conti, dalla virtu dell'individuo dipende il bene del­la citta. Procedendo negli anni, egli arrivera a fare dell'ideale morale un asso­luto a cui anche lo Stato deve farsi subalterno. Le apparenti oscillazioni dell'etica di Aristotele prendono sensa se si tien canto delle ricerche compiute da Werner Jaeger, che ha dimostrato come anche !'opera redatta dal figlio Ni­comaco, e detta percio Etica nicomachea, comprenda lezioni tenute dal filoso­fo nella sua fase platonica e lezioni dell'ultimo periodo della sua permanenza al Licea: un area di anni, percio, che copre per intero Ia sua evoluzione di fila­sofa. II distacco da Platone e gia nella tesi centrale del suo insegnamento:

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]'idea di Bene, che Platone assumeva nella sua universalita, includendovi tutii i beni quasi fossero tutti delle specie di un unico genere, va diversificata in una pluralita di beni, analoghi certo l'uno all'altro rna dotato ciascuno di una sua autonomia formale: Platone poneva il Bene al di sopra dell'Essere; Aristotele fa del Bene una norma che scaturisce dall'essere stesso, sia nella sua sussi­stenza di fine ultimo, sia nella molteplicita con cui si presenta nella gerarchia delle sostanze di cui e tessuta la natura. Ogni cosa ha il suo proprio fine nel proprio essere, e cioe nella propria forma. Solo che negli esseri inferiori all'uomo la tensione tra materia e forma non da luogo a nessuna morale, in quanta non apre spazio a nessuna scelta. Del resto, anche nell'uomo in quanta e vita vegetativa (ad esempio nel sonno) non si da morale. L'esistenza morale nasce nel rapporto tra l'animalita e la differenza specifica che e la ragione: e qui che il fine si pone all'uomo come uno scopo possibile, che puo diventare reale e puo non diventarlo. Nasce insomma la dimensione morale.

5.17 II fine morale e Ia virtu. L'idea di fine e la chiave di volta dell'edificio etico di Aristotele. Chiunque agisce, agisce per un fine: il medico, l'architetto, lo stratega. Ci sono azioni che hanna fini esterni all'uomo, come quelle tecni­che, e allora esse sono buone se e in quanta realizzano il loro fine: la guarigio­ne del malato, la costruzione della casa, la vittoria militare. Ma ognuno di que­sti fini esterni e sempre mezzo per qualche altro fine. Ci sono invece azioni che hanna un fine che puo considerarsi autosufficiente, non volta ad altri fini, e desiderabile di per se, non in vista di qualcos'altro. Questa fine e la felicita, in greco eudaimonia: di qui il termine eudemonismo per indicare la caratteri­stica della morale aristotelica, in contrapposizione all' edonismo di chi, come Aristippo, fa consistere il bene nel piacere dei sensi (3.17). Abbiamo vista come il piacere non sia che l'irradiazione dell'atto con cui l'appetito raggiunge il suo oggetto (5.15). Ebbene, la felicita e l'irradiazione dell'atto con cui l'uomo in quanta uomo (e non in quanta medico, o architetto, o stratega) realizza la sua natura propria, che e l'attivita razionale. L'uomo sara felice quando esercitera la sua funzione razionale nel migliore dei modi possibili, e cioe secondo la vir­tu. La virtu dell'occhio e vedere, la virtu del cavallo e correre, la virtu dell'uo­mo e vivere e operare secondo ragione.

Nell'anima, dice Aristotele, ci sono due parti, una razionale e l'altra irrazio­nale. In corrispondenza, ci sono delle virti:l dell'anima razionale in quanta tale, e delle virti1 dell'anima irrazionale in quanta docile alla regola della ragione: virtu etiche. Le prime si dicono virtu dianoetiche perchc:~ nascono dal retto fun­zionamento dell'intelligen:z.a (in greco dianoia), come la sapienza, il discerni­mento e la prudenza (in greco phronesis). Quest'ultima virtu fa da cerniera tra la sfera dell'intelletto e quella delle virtu etiche. Infatti, da una parte, la pruden­za e la capacita di deliberare sulle case contingenti, che potrebbero essere di­verse da quelle che sono (e come tali non rientrano in quell'ambito della neces­sita che e !'ambito proprio dell'intelletto); dall'altra, essa presuppone un uomo che abbia una stabile disposizione al bene, che sia cioe virtuoso.

Quando parla di virtu, Aristotele non parla semplicemente degli 'atti buoni', parla delle abitudini acquisite attraverso Ia ripetizione degli atti, delle disposizioni permanenti al bene, e non al bene generico rna a quello proprio di

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ciascuna passione dell'anima e cioe di ogni tendenza che miri a un proprio og­getto di appagamento. La natura non ci da la virtu, ci da la tendenza: e la deli­berazione guidata dall'intelletto, con la mediazione della prudenza, a imprime­re aile tendenze un orientamento spontaneo verso un fine conforme a ragione. Anche nella sfera etica Aristotele si distacca dal dualismo di Platone, in quan­ta l'orientamento verso il bene corrisponde, in lui, aile articolazioni in cui il bene in se si fa molteplice senza peraltro menomare se stesso. Gli appetiti sen­sitivi non sono le tenebre contra la luce della ragione, sono anch' essi accessi­bili alia luce della razionalita. Guidati e animati da questa luce, essi raggiun­gono lo stato di virtu non gia nel negare rna nel realizzare se stessi. E qual e il modo con cui la ragione entra nel tumulto degli appetiti sensibili, imprimen­dovi il proprio ordine? E la regola del 'giusto mezzo', della mesmes. La virtu della temperanza e al giusto mezzo tra la rinuncia al piacere e la smodatezza, la virtu della fortezza sta al giusto mezzo tra vilta e temerarieta. Non si da dunque una definizione generale della moralita, si da un criteria per stabilirla volta per volta nel contesto delle circostanze, che non sono mai le stesse per due uomini. Non esiste percio un giusto mezzo valido per tutti: iJ troppo cibo dato al bambino sarebbe troppo poco se dato a un giovane atleta. E la pruden­za che prepara Ia deliberazione. Il giusto mezzo infatti none una specie di me­dia aritmetica da calcolare con criteri impersonali, e un 'mezzo' relativo a noi, che dunque puo variare a secunda delle circostanze esterne e del carattere del soggetto. Lo sforzo per avvicinare i criteri della deliberazione morale alla con­cretezza della situazione fu probabilmente suggerito ad Aristotele dalla medi­cina ippocratica, che metteva in primo piano il criteria del kairos, dell'oppor­tunita.

Ricordiamo a questa punto che manca in Aristotele (5.15), come d'altronde in tutta l'antropologia ellenica, la nozione di liberta morale intesa come princi­pia di autodeterminazione. La volontarieta degli atti e semplicemente la loro spontaneita, il loro nascere dalle determinazioni della ragione senza coazione esterna rna anche senza necessita interiore: ne la necessita che concatena tra loro i concetti nel discorso logico (ecco perche il Pensiero del pensiero, Dio, non puo chiamarsi virtuoso), ne la necessita degli appetiti, che passano all'atto non appena l'immaginazione offre loro l'oggetto desiderata (ecco perche gli animali non possono dirsi virtuosi). Il crocevia tra il razionale e il sensitivo e proprieta dell'uomo: la prudenza ritaglia in quel crocevia, sempre mutevole, cio che di volta in volta e giusto deliberare: l'atto virtuoso e l'atto che rispon­de aile indicazioni della prudenza. Non basta dunque conoscere il vero per es­sere virtuosi, come voleva Sucrate, sia perche nell'ordine morale la verita si nasconde nel groviglio della contingenza, sia perche nulla vieta che, una volta conosciuto cio che deve esser fatto, gli impulsi sensibili prendano la mano e siano loro a determinare l'azione.

5.18 Morale e politica. Con Aristotele il compito morale diviene accessibile alla generalita dei cittadini: none pili, come in Platone, l'appannag:gio esclusi­vo delle elites filosofiche. Al posto del philosophos entra il phronimos, l'uomo pru­dente, che diventa la misura viva, il testimone persuasivo della virtu. Egli non e pili l'aristocratico dello spirito, com' era il prototipo morale prima di Aristo-

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tele, da Pitaf!ora a Platone, e il cittadino comune che partecipa alla vita della citta con pieni diritti. Non puo essere phronimos ne Ia donna, ne lo schiavo, ne il lavoratore manuale: per questi l'unica virtu e l'obbedienza. Ritroviamo qui la confusione tra l'ordine politico e l'ordine morale, tra la responsabilita di cui gode il cittadino libero e la responsabilita di cui, se la coerenza filosofica non avesse trovato ostacolo nei pregiudizi di classe, dovrebbe godere ogni uo­mo per il solo fatto di appartenere alia specie umana. La confusione, comun­que, esiste per noi, assuefatti ormai a considerare Ia sfera morale come a se stante rispetto a quella politica, non per gli uomini dell'eta di Aristotele, fermi nell'idea che la morale fosse l'arte di costruire un costume (in greco ethos) so­ciale e che dunque fosse ne piu ne meno che una ripartizione della politica.

Il bene perfetto sembra essere autosufficiente: noi intendiamo per auto­sufficienza non il bastare a se solo di un singolo, che conduca una vita soli­taria, ma anche il basiare ai suoi parenti, ai figli, alla moglie, e infine agli amici e ai concittadini, perche nella sua natura l'uomo e un essere politico.

E per questo che in Aristotele, come del resto in Platone (4.10), le Yirtu di­verse trovano la loro sintesi nella giustizia, la quale pen) in Aristotele non e solo l'armonia interna tra le diverse facolta dell'anima, e anche armonia con­creta nei rapporti umani, diventando cosi giustizia distributiva nella spartizio­ne delle ricchezze conforme ai meriti e commutativa nel pareggiare il dare e l'avere nei contratti.

5.19 La contemplazione. Ma proprio a causa di questa intrinseca 'mondani­ta' dcll'etica rimane, per dir cosi, senza un suo proprio orizzonte quella funzio­ne dell'anima razionale che e la contemplazione della verita. E non della verita quale si distribuisce nella ramificazione degli esseri relativi, rna della verita in se, che e poi l'Essere considerato in se e per se, nella sua trascendenza. Poche pagine hanno avuto tanta influenza nella storia dello spirito umano come quel­le che Aristotele ha dedicato alla contemplazione e che ora si trovano nel capi­tulo X dell'Etica nicomachea. Esse hanno la stessa vibrazione estatica delle pa­gine pili tipicamente platoniche (pensiamo a quelle dedicate, nel Convito, alia bellezza in se), rna sono piu contenute dentro le maglie del procedimento di­scorsivo, senza cedimenti alle suggestioni del mito. Alia contemplazione l'uo­mo aristotelico arriva non per la divina follia dell'Eros, ma per lo sviluppo stesso della sua vita razionale. L'uomo infatti e aperto a cio che e superiore al­Ia sua stessa natura, dato che la sua razionalita, che e atto in r·apporto alia scala degli esseri che lo precedono, e a sua volta potenza rispetto a ci(J che lo sovrasta. La vita contemplativa e apertura al divino.

Una tale vita sara superiore alia natura dell'uomo: infatti non in quanto uomo egli vivra in tal maniera, bensi in quanto in lui vi e qualcosa eli divi­no; e di quanto esso eccelle sulla struttura composta dell'uomo, di tanto ec­celle anche la sua attivita su quella conforme aile altre virtu. Se dunque in confronto alia natura dell'uomo l'intelletto e qualcosa Ji divino, anche la vi­ta conforme ad esso sara divina in confronto alia vita umana.

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Ma qui siamo, a ben pensare, gia al di fuori dell' etica, al confine tra cio che e umano e cio che e sovrumano. La contemplazione solitaria protesa verso la somiglianza col 'divino' e al di sopra della condizione umana. Essa mira a ren­dere l'uomo «per quanto e possibile» (la riserva e di Aristotele) 'immortale'.

Ma non e forse senza significate che a un'esperienza come questa, che si puo considerare in astratto come vero e proprio coronamento delle possibilita umane, Aristotele abbia dedicato solo alcune pagine, sottolineando il fatto che essa <<e superiore alla natura dell'uomo». E come se egli avesse reso un tributo di ossequio ai postulati morali della sua metafisica, che poneva il Pensiero del pensiero al vertice dell'universo. Ma il suo vero mondo, una volta fatto pro­prio lo scacco del platonismo, resta quello del limite dell'uomo, quello in cui, nel cerchio del provvisorio, l'uomo nasce uomo e muore uomo, cosi come l'ape nasce ape e muore ape. Questo era stato, d'altronde, il primo messaggio etiCo della Grecia, come fa osservare Pierre Aubenque: «Umanesimo tragico, che iri­vita l'uomo a rinunciare alle ambizioni immoderate e insieme, secondo il verso di Pindaro, a 'sfruttare il campo del possibile'».

La politica aristotelica

5.20 Dalla sapienza alia prudenza. Nei venti anni di convivenza con Platone, Aristotele aveva seguito (e chi sa? forse anche provocato) il passaggio del mae­stro dal sogno filosofico della Repubblica al moderato realismo delle Leggi. Abbandonata l' Accademia, egli continua a mettere in primo piano, almeno for­malmente, l'ideale di una citta costruita secondo giustizia, e lo fa proseguendo per ~uo conto quella discesa verso il reale che e il senso complessivo della sua 'infedelta' di discepolo.

Questo rnovimento verso' il realismo la critica moderna lo ha riscontrato anche all'interno dei suoi scritti politici, composti in periodi diversi e poi col­lazionati - forse dal suo discepolo Teofrasto - in un unico corpus col titolo di Politica. Difatti, nel grande trattato ci sono capitoli in cui il pensiero non si e ancora disciolto dall'involucro idealistico e capitoli dove il realismo tocca quasi i toni spregiudicati del Principe di Machiavelli. Sarebbe troppo compli­cate documentare qui questa evoluzione, rna e bene tenerne conto per colloca­re sulla linea mossa di un processo posizioni di pensiero che altrimenti appari­rebbero stranamente contradditorie. D'altra parte, a differenza di Platone, Ari­stotele si trovo a meditare sul tema politico proprio nella fase in cui la citta greca (che anche per lui era l'unica immagine possibile dello Stato) andava svuotandosi di energia creativa e di interiore consistenza, sopraffatta ormai dalle nuove dimensioni impresse alla storia da Alessandro Magno. Semmai e motivo di stupore che Aristotele non abbia saputo cogliere la portata dei mu­tamenti operati dal suo discepolo, oltre che con la spada, anche con i nuovi as­setti politici che seppe dare ai popoli conquistati. Col suo empirismo piuttosto retrospettivo, Aristotele, insieme ai suoi collaboratori, si occup<) nel collezio-

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nare le costituzioni piu importanti delle citta greche (ne raccolse 158), senza avvertire che il futuro della politica si stava preparando altrove, per opera proprio di un suo discepolo fuori serie di cui quasi certamente gli sfuggiva il ruolo universale. Per un filosofo che si opponeva all'idealismo platonico in no­me della 'verita effettuale', lo scacco non e certo di poco significato.

In che consiste il realismo politico di Aristotele? Ricollegandoci a quanta abbiamo appena detto trattando dell'Etica, il progetto aristotelico si diversifi­ca da quello platonico per aver messo al posto della sapienza (sophia) la prudenza (phr6nesis).

Nella citta platonica il potere era nelle mani dei filosofi, allo stesso modo che, nell'individuo ~mana, tutto e soggetto al dominio dell'anima razionale (4.10). La contemplazione delle idee eterme, compito proprio dei filosofi, non era pen) fine a se stessa. Contemplato il sole della verita, il filosofo ridiscende­va nella caverna per persuadere i suoi compagni di prigionia a liberarsi dei va­ni riflessi e a cercare, come lui, la luce del sole. La vocazione della citta, inte­sa c:ome un insieme organico delle classi, e una sola: quella di riprodurre in se le forme della citta ideale contemplata dal filosofo. Impossibile, qui, distingue­re l'etica dalla politica, la contemplazione dall'azione, la sapienza dalla pru­denza. I fini specifici delle classi inferiori non sono autosufficienti: in tanto valgono in quanta sottostanno alla conoscenza della verita, prerogativa dei fi­losofi (4.9).

La citta di Aristotele, invece, e sotto il dominio della prudenza, che non e virtu esclusiva del filosofo rna di ogni cittadino. Il filosofo fa parte della citta, rna non puo chiederle altro che la liberta di attendere per suo canto alla ricer­ca del vera. Ricordiamo la conclusione dell' etica nicomachea (5.19): la contem­plazione e al di sopra della vita etica, in una sfera autonoma in cui non entra il rumore della citta, la quale e, invece, il campo proprio della vita morale e percio della virtu dianoetica che alla vita morale presiede: la prudenza. Siamo, qui, aile origini di quella scissione tra vita intellettuale e vita politica che sara un tratto distintivo della storia dell'occidente.

Una scissione peraltro ancora latente, perche Aristotele insiste nel sottoli­neare il carattere totalizzante della politica. La vita morale e la vita politica hanna un medesimo fine, il bene. Ma mentre la vita morale persegue il bene secondo una pluralita di determinazioni in nessuna delle quali si adempie la natura dell'uomo, la politica realizza il bene massimo di cui l'uomo e capace. Come «il tutto e necessariamente condizione della parte, poiche tolto il tutto non si ha ne piede ne mana se non di nome», cos! la condizione per cui un uo­mo e un uomo, una famiglia e una famiglia, e lo Stato. Il quale dunque dal punta di vista logico e anteriore all'uomo come singolo e all'uomo nelle sue varie forme di associazione, cosi come il tutto organico ai singoli organi. Ecco perche la politica e la scienza prima, e architettonica, di cui l'etica non e che una parte o una forma derivata.

5.21 La citta aristotelica. Chi non vive in societa o e piu che uomo o e meno che uomo, o e Dio o e una bestia. L'uomo si distingue dagli animali a lui infe­riori perche per rispondere agli immediati bisogni della sua natura si costitui­sce in societa domestica. Aristotele rifiuta la tesi del maestro che, in nome del

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bene della citta, annullava il fine proprio della societa domestica per tutto as­sorbire nella disciplina dello Stato, anche la procreazione (4.10). La famiglia di Aristotele ha un suo corrispettivo economico e cioe la proprieta privata, fon­damento dell'economia familiare e di quella dello Stato. Nel comunismo utopi­stico di Platone trionfava un' esigenza rivoluzionaria; nel realismo di Aristotele si rispecchia invece l'esigenza di legittimare come Iegge di natura l'assetto so­dale esistente, fondato sullo schema servo-padrone. Il marito e 'signore' della moglie, che in quanto donna non ha diritti politici. La donna infatti e un 'ma­schio mancato', frutto di una generazione difettosa. La sua subordinazione al maschio, insomma, e voluta da natura.

Dell'economia familiare e parte integrante lo schiavo, strumento di produ­zione predisposto anch'esso da natura .. Non e la violenza a creare gli schiavi, anche se l'occasione di procurarseli e normalmente la guerra, e la natura, che produce uomini incapaci di attuare se stessi senza la dipendenza da un padro­ne. Si tenga presente, ...::omunque, che per Aristotele gli schiavi di norma do­vrebbero essere 'barbari', dato che i greci, unici fra gli uomini, hanno avuto da natura le qualita proprie dell'uomo perfetto: il coraggio e l'intelligenza. I popoli dell'Europa settentrionale, soggiunge curiosamente Aristotele, mancano d'intelligenza, mentre quelli dell'Asia mancano di coraggio!

Questa struttura gerarchica, con a capo il cittadino proprietario, si ripro­duce dilatandosi quando dalla famiglia si passa al villaggio, seconda tappa del­la realizzazione della natura sociale dell'uomo, e poi dal villaggio alia citta. Nel farsi pili larga, la societa si fa anche piu complessa, secondo Ia legge della divisione del lavoro. Nel divenire citta, Ia societa umana si da un ordinamento giuridico, una costituzione, nella quale si traduce in Iegge la differenza, stabi­lita da natura, tra gli uomini veri e propri e, per cosi dire, i sub-uomini, gli ul­timi dei quali sono, come si e detto, gli schiavi, «strumenti dotati di anima», penultimi gli esseri umani di sesso femminile e infine, immediatamente al di sotto dei cittadini, tutti coloro che si danno ad attivita manuali e commerciali. Gli artigiani, i commercianti, gli agricoltori non dovrebbero godere dei diritti del cittadino. Particolarmente severo e Aristotele con chiunque ha a che fare col salario o col commercio lucrativo. A suo giudizio infatti l'economia confor­me alle leggi di natura e quella elementare, volta a soddisfare i bisogni prima­ri dell'uomo. lnvece quella basata sul danaro, misura di scambio stabilita dal­la convenzione sociale, e fonte di corruzione. Il danaro e legittimo quando fa da mediazione tra merce e merce; quando invece e la merce a diventare stru­mento di accumulazione del denaro, allora la ricchezza, fatta fine a se stessa, e innaturale, come dimostra, per Aristotele; il costume nefasto del prestito a in­teresse, nel quale si vorrebbe far credere questa mostruosita: che il danaro ge­nera altro danaro! Platone aveva trovato un rimedio all'incontrollabile potere della ricchezza nel comunismo dei beni, Aristotele esalta la proprieta privata rna vorrebbe che fosse contenuta molto vicino ai limiti dell'economia familiare e agricola. Perche questo ideale rustico sia pili realizzabile la sua citta dovreb­be essere lontana dal mare, tanto piccola da essere «abbracciata con uno sguardo» e con un territorio diviso tra un ristretto numero di produttori indi­pendenti. E in questa classe di piccoli proprietari il fulcro della vita politica. Infatti <dn ogni citta vi sono tre classi, quella dei molto ricchi, quella dei mol-

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to poveri e la terza formata da quelli che hanno fortune medic», i quali sono piu docili ai dettami della ragione e percio piu idonei a governare. E la classe che, secondo un detto di Euripide, salva gli Stati, dato che a causa della sua plasticita e del suo equilibria economico puo tenere al riparo il bene comune dagli opposti estremismi dei troppo ricchi e dei troppo poveri.

5.22 Le forme di Stato. Come si vede, mentre per Platone la citta giusta non poteva essere che quella dedotta dall'idea di bene, Aristotele si limita a proporre un ordine razionale nella realta politica esistente. Lo spettacolo che gli offrivano le citta greche, ciascuna con una sua propria storia costituziona­le, era abbastanza vario per consentirgli una ricca tipologia di forme di gover­no e una proposta fondata insieme sulla ragione e sull'esperienza. Per quanta le vicende della societa siano tutte nella zona irrazionale della contingenza, do­ve regna il fortuito e non la ragione, tuttavia non e impossibile scorgere in es­se una qualche Iegge su cui fondare un progetto politico non utopistico. II sen­so del progetto e quello dettato da ragione: lo Stato e, secondo ragione, un'as­sociazione di uomini liberi in vista di una forma di vita Ia piu perfetta possibi­le. Platone, nell'osservare che i fatti non rispondevano alle esigenze ideali, po­teva dire: tanto peggio per i fatti! Non cosi Aristotele, incline a riconoscere in cio che normalmente avviene un fondamento di ragione. Di qui il suo possibili­smo per quanta riguarda le forme di governo, un possibilismo che col passare degli anni si avvicina alla pura e semplice acquiescenza allo stato delle cose. Non c'e, per Aristotele, una forma di governo da considerare perfetta e come tale da suggerire a tutte le citta. Ogni citta ha circostanze storiche ed econo­.miche diverse. Sulla scia del Politico di Platone, sono tre per Aristotele le for­me costituzionali fondamentali: la monarchia, la aristocrazia e quella propria del ceto medio, che egli chiama politeia, <<costituzione per antonomasia». Le tre degenerazioni simmetriche sono la tirannide, l'oligarchia e la democrazia (noi diremmo demagogia).

Le preferenze di Aristotele vanno alla politeia, che e poi il governo, sopra descritto, della classe media. Sua caratteristica e che la sovranita non e dei pochi che opprimono i molti ne dei molti che fanno del numero la loro forza, rna della legge, che come tale si impone a tutti, ai padroni e ai sudditi, a chi comanda e a chi obbedisce. Naturalmente, questa forma di governo e auspica­bile la dove « la classe media e piu numerosa delle due estreme o almena di una di esse». In ogni caso essa comporta un severo impegno pedagogico da parte della citta. Lo Stato di Platone era un vero e proprio cantiere di educa­zione permanente. Quello di Aristotele, sgravato, come abbiamo visto, di quei compiti che riguardano i1 ceto dei filosofi, e volto invece a finalita morali, in­dicate e controllate dalla prudenza. L'autorita e affidata alla Iegge e non al magistero vivo dei governanti-filosofi.

Insomma la sua citta non e una scuola. E tuttavia anche per lui l'educazio­ne e indispensabile ad una citta che voglia darsi leggi buone e cittadini pronti a rispettarle. E deve essere un'educazione impartita dallo Stato, non dai privati.

Poiche uno solo e il fine che la citta si propone, e evidente che unica ed identica deve essere l'educazione per tutti i cittadini e che essa dovra essere

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impartita a cura della comunita e non privatamente, come avviene ora, quando ognuno si occupa da se dei suoi figli ime!!nando !oro quello che crede.

5.23 La poetica. Nella citta di Platone solo il Logos aveva diritto di parola. L'arte, in quanto imitazione (mimesi) non aveva diritto di cittadinanza perche avrebbe duplicato con le sue proprie riproduzioni l'attrattiva dei fenomeni sensibili, a tutto svantaggio della luce delle idee delle quali, a loro volta, i fe­nomeni sono imitazione (4.12). Nella citta di Aristotele, invece, l'arte ha un suo posto. E non solo perche e venuta meno l'identificazione platonica tra il citta­dino e il filosofo, per cui le attivita umane, scioltesi dalla presa dell'assoluti­smo contemplativo, si dispiegano ciascuna secondo i propri fini, con l'unica condizione di sottostare alla disciplina della prudenza. L'arte e a suo modo un'attivita conoscitiva, che dischiude, attraverso l'eccitazione delle passioni, il significato universale che si nasconde nella trama della contingenza.

Nel trattare dell'educazione, nell'VIII capitolo della Politica, Aristotele da rilievo all'educazione musicale, rna lo fa in un quadro moralistico ed edonisti­co: la musica e una forma di educazione che procura agli uomini «una inno­cente gioia» e purifica }'anima dalle passioni (catarsi). Siamo ancora nella tra­dizione orfico-pitagorica. Ma nel sottolineare l'effetto della catarsi, gia traspa­re l'intuizione che sara al centro del trattato dedicato all'arte, la Poetica. E. in quest' opera che, per la prima volta nella storia del pensiero, viene posta chia­ramente la differenza specifica dell'arte: <<Non lo stesso e il criterio valutativo della politica e quello della poetica e tanto meno quello della poetica e quello di ogni altra disciplina». Come abbiamo detto, Ia 'poiesis', in quanto attivita che produce oggetti esteriori, abbraccia l'insieme delle operazioni tecniche, produttive di cose, si tratti di una sedia o dell'Iliade. Ma nell'approfondire la natura dell'arte Aristotele si Iibera da questo schematismo classificatorio e porta alla luce il carattere creativo dell'attivita artistica, che non si limita a ri­produrre la realta esterna rna, a partire da questa, ne crea una tutta sua, nella quale si riflette la verita universale. La questione se l'arte appartenga alla sfe­ra delle attivita pratiche o a quella delle attivita conoscitive e tutta moderna, rna gia in Aristotele ha avuto una risposta embrionale. La poesia e, si, imita­zione, non pero nel senso di un calco della realta. Essa e una ricreazione dell'atto che costituisce la vita. La tragedia (e di questo genere poetico che so­prattutto Aristotele si occupa) trae si Ia sua materia dalla storia, rna solo in quanto la storia garantisce Ia verosimiglianza dei fatti presentati. Lo storico racconta i fatti come sono accaduti, Ia poesia presenta i fatti come potrebbero accadere:

II compito del poeta consiste nel descrivere le cose non come sono real­mente accadute, rna come potrebbero accadere. Infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di parlare in versi o in prosa (per esempio si potrebbe mettere in versi la storia di Erodoto, e, in vero, non sarebbe meno storia che in prosa). Ma differiscono in questo: che l'uno narra le cose come sono accadute, l'altro come potrebbero accadere. Percio Ia poesia e filosofia piu della storia ed ha un tono piu elevato; la poesia esprime piuttosto l'uni­versale, la storia invece il particolare.

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Applicando questa nozione alia tragedia Aristotele si libera del tutto della valutazione pedagogico-edonistica dell'arte. «La tragedia e Ia mimesi di un'azione seria e in se compiuta ... che attraverso i1 terrore e Ia pieta effettua Ia catarsi di tali passioni». E doe: il mito creato dal drammaturgo e un mondo umano esistente in se e per se, con un proprio inizio ed un proprio epilogo, nel quale una passione si svolge fino al suo sbocco catastrofico. Proprio come il mondo della natura, questo mondo umano ha in se una sua razionalita. Lo spettatore, attraverso il terrore e Ia pieta, entra in quella razionalita, 'conosce' che cosa sia una passione nel suo svolgimento e, nel conoscerla, se ne Iibera. Questo sembra il senso piu probabile della dottrina aristotelica della catarsi, della quale peraltro si dettero e si danno anche altre spiegazioni. Tra di esse merita ricordare quella, di tipo prosaicamente psicologico, secondo la quale la 'purificazione' si ha per il fatto che Ia tragedia consente allo spettatore di ap­pagare, per via immaginaria, le sue passioni rna contenendole nella giusta misura.

Grande importanza ebbe, a partire dal Rinascimento (fu in questo periodo che venne tradotta e diffusa Ia Poetica), Ia questione delle tre unita, di azione, di tempo e di luogo, affrontata da Aristotele. Solo l'unita di azione (l'episodio narrato non ammette deviazioni in episodi collaterali con altri protagonisti: Ia trama deve svolgersi unitaria da principio alia fine) e, per Aristotele, un prin­cipia da rispettare. Per le altre due unita egli si limita a constatazioni di fatto. La tragedia greca cercava «il piu possibile di contenersi in un sol giro di sole o di uscirne di poco» e non ammetteva molti luoghi di azione rna solo «quella parte che ha luogo sulla scena». Di fatto i precettisti del Rinascimento fecero delle tre unita regole inderogabili che mortificarono un poco, fino al Romanti­cismo (Alessandro Manzoni scrisse pagine memorabili per giustificare la pro­pria disobbedienza), il genere letterario della tragedia.

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Sommario. Alessandro Magno aveva diffuso la cuitura greca fino all'India e aveva introdotto quella orientale nella citta greca: di qui una cultura nuova, detta ellenismo, che conobbe due fasi: la prima con i suoi centri nei rcgni dei successori di Alessandro, l'altra, a partire dal 156 a.C., con il suo centro a Roma (6.1).

Ad Atene si sostituisce, come centro del sapere, Alessandria, che con la sua Bibliote­ca e il suo Museo e soprattutto col mecenatismo dei Tolomei offre stimoli e strutture ad una straordinaria generazione di scienziati, tra i quali primeggia Archimede (6.2). Si discostano dall'insegnamento di Platone e di Aristotele le nuove scuole filosofiche, come l'epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo, che, in risposta al sentimento della crisi della citta, assumono forme e finalita terapeutiche (6.3).

In aperta polemica con le grandi scuole del passato Epicuro fa del suo Giardino uno spazio di amicizia alieno dalle inquietudini politiche, volto ad apprendere l'arte della vi­ta (6.4). L'arte della vita presuppone una conoscenza della natura cos\ come essa e, fuo­ri da ogni mito: essa e formata da aggregazioni meccaniche di atomi, provocate da una deviazione (clinamen) non meccanica (6.5). La conoscenza della natura si ha per sensa­zione, che e l'azione degli atomi sui nostri sensi, e per 'anticipazione' (6.6). L'empirismo di Epicuro e finalizzato alla serenita dell'anima: !'anima e anch'essa un aggregato di atomi cosl come sono aggregati gli stessi dei, che abitano impassibili gli 'intermondi' (6.7). A loro rassomigliera l'uomo che cerca il piacere inteso come stabile sicurezza e come liberta da ogni perturbazione psichica (atarassia) (6.8). A tutela di questa atarassia il saggio si astiene dalla partecipazione alla vita politica (6.9), dato che la salvezza si at­tua nella comunita !a cui legge suprema e l'amicizia (6.10).

Anche per i seguaci di Zenone, gli stoici, la vera filosofia si riduce ad un'arte del vi­vere (6.11 ), rna essi basano la serenita sulla conoscenza logic a, e fanno della logica un momento essenziale della filosofia. L'analisi del linguaggio, che fa di !oro i fondatori della g:rammatica, anticipa in modo sorprendente la logica contemporanea (6.12). II logos che e legge del discorso e anche legge fisica dell'universo: la 'ragione' e insieme spiri­tuale e materiale, come il fuoco (6.13). Essa si identifica con Dio, ora visto come una so­la cosa col mondo, come suo principio attivo, ora come trascendenza. Il politeismo vie­ne recuperato come pluralita di manifestazioni dello stesso Dio, che agisce come provvi­denza in tutte le cose (6.14). L'uomo, che ha in se Ull<l scintilla del logos, e saggio quando con la ragione esercita un pieno dominio sulle sue passioni (apatheia) raggiungendo cosi la piena autosufficienza (autarcheia) (6.15). Su questo concetto di ragione si basa il cosmopo­litismo degli stoici (6.16).

Secondo gli scettici, seguaci di Pirrone e di Timone. alla tranquillita dello spirito si giunge non con i dogmi degli epicurei e degli stoici, rna mediante la sospensione di giu­dizio di fronte ai fatti o di fronte aile convinzioni altrui (6.17). A questa tesi della so­spensione di giudizio approda anche l' Accademia platonica sotto lo scolarcato di Arcesi­lao (6.18) e sotto Carneade, che sviluppa Ia critica di Arcesilao contro gli stoici (6.19).

L'India a cui si era affacciato Alessandro Magno diviene uno stato indipendente con la dinastia dei Maurya, alla cui corte vive Kautiiya, autore di un trattato, l'Arthasastra, sull'arte della politica (6.20). Il massimo esponen.te della dinastia Maurya e il re Asoka,

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che, convertitosi alia dottrina di Buddha diventa per il buddismo que! che Costantino sara peril cristianesimo (6.21).

II periodo che per l'occidente vien detto ellenistico, e per la Cina il periodo delle 'Cento scuolc'. Tra i maestri, hanno grande seguito il confuciano Mencio (che insegna Ia bonta della natura ed esalta come virtu somma Ia benevolenza) (6.22) e il taoista Chuang-tzu che intende il ritorno alia natura, al Tao, come una forma di spiritualismo anarchico (6.23). A lui si oppone il confuciano 'eretico' Hsun-tzu per il qualc la natura e cattiva e la bonta nasce dall'artificio: tesi che servira a giustificare l'autoritarismo poli­tico (6.24).

L' ellenismo

6.1 L'Ecumene. Con la morte di Aristotele e di Alessandro Magno ha inizio, nella storia della cultura, una nuova fase dai confini cronologici e geografici non molto precisi, ma con caratteri fortemente originali. E la fase chc si e so­liti chiamare ellenismo a partire dal filologo tedesco J.G. Droysen. autore di una famosa Storia dell'ellenismo (1978).

L'ellenismo vero e proprio si chiude con la caduta della Grecia sotto il do­minio di Roma, nel 146 a.C. Ma, come gia riconosceva Orazio, la Grecia con­quistata conquisto a sua volta il suo feroce vincitorc: Roma fece sua la cultura greca. Nel 155 a.C. una ambasceria ateniese di tre filosofi (tra i quali Carnea­de) soggiorno a lungo a Roma. Tanto basto perche la tradizione culturale gre­ca gettasse un suo seme vitale in suolo romano. Trasformata in humanitas, la paideia ellcnica si diffuse fino ai confini dell'impero e visse, con lenta deca­denza, fino all' epoca delle invasioni barbaric he, nel V secolo della nostra era. Quella romana e la seconda fase dell'ellenismo.

Prima che Roma, secondo l'enfatica affermazione di un altro suo poeta, fa­cesse del mondo una sola citta (dell'orbe aveva fatto un'urbe), Alessandro Ma­gno, con un'avventura politico-militare ritenuta opera di un clio, aveva propa­gato la cultura greca fino all'India {qualcuno disse: fino aile soglie del paradi­so) e aveva portato la cultura orientale nelle citta greche, facendo cosi della terra abitata (in greco oikunu?ne) una sola patria.

In verita Alessandro fece appena a tempo ad avviare questa rivoluzione cul­turale. II suo grande impero, bagnato dai fiumi sacri della cultura umana, il Nilo, l'Eufrate e l'Indo, si scompose, subito dopo la sua morte, in molte mo­narchic in mano ai suoi generali (diadochi) ben presto in latta tra loro. Dopo la battaglia di Ipso (301) le monarchic si ridussero a tre: la Macedonia con An­tigono, a cui era soggetta anche la Grecia; l' Asia con Seleuco, nella quale ebbe funzione preminente la Siria con la capitale Antiochia; l'Egitto, con Tolomeo, che scelse per capitale la citta fondata dallo stesso imperatore, Alessandria. Per quanta diversi tra loro, i regni ellenistici si rassomigliavano per 1' organiz-

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zazione del potere che aveva tre strutture essenziali: il monarca, la burocrazia amministrativa, l'esercito.

La figura del re e avvolta in un nimbo religioso, com'era nella tradizione orientale, a cominciare da quella cinese (1.23). Anche nella Grecia razionalisti­ca il culto del principe prende piede. Gli dei cittadini avevano fallito mentre i monarchi si presentano con potenza, come 'salvatori' e 'benefattori'. Racconta Plutarco che Demetrio Poliorcete ebbe, ad Atene, insieme al padre Antigono, onori divini, tanto da poter prendere alloggio nel Partenone, accanto ad Atena. Gli fu dedicato un inno, divenuto popolarissimo, nel quale cosi veniva invocato:

Sii salutato, figlio del potente clio Posidone e di Afrodite. Gli altri dei so­no cosi lontani da noi che non ci porgono orecchio. Forse anche non esisto­no e non badano a noi. Te noi vediamo presente, non di legno ne di pietra, rna effettivo e vivo. Percio noi ti preghiamo: anzitutto dacci Ia pace, o predi­letto, tu che ne sei signore.

In altre parti dell'inno gli dei sono descritti come stelle attorno a lui. De­metrio doveva aver preso sui serio l'elogio astrale se era solito avvolgersi in un mantello con sopra ricamato lo zodiaco: il 'mantello cosmico' che indosse­ranno anche gli imperatori medioevali. Se questo accadeva ad Atene, e facile immaginare quel che dove sse accadere in Egi tto o in Asia, dove da sempre i re venivano dal cielo.

Attorno al monarca c'e la corte e dalla corte si ramifica la burocrazia am­ministrativa, necessaria per mettere in contatto il monarca con la popolazione dispersa nell'immenso territorio. Tra le altre funzioni la burocrazia ha quella fiscale, supporto indispensabile alle iniziative di guerra. La societa si arricchi­sce (o si corrompe, secondo i punti di vista) con una classe nuova, per lo piu servile e rapace, che pesa sui cittadino diventato ormai suddito, alia merce di un potere di cui gli sfuggono le meccaniche e gli obiettivi.

Com'e nella natura degli stati assoluti, i regni ellenistici vivono in perpetuo stato di guerra. L'esercito diventa cosi un apparato necessaria e permanente. Formato quasi sempre di mercenari, per lo piu macedoni o greci rna con cospi­cue componenti orientali, l'esercito e uno dei fattori piu rilevanti di quella me­scolanza delle razze e delle culture che Alessandro aveva perseguito, con delu­sione del suo maestro Aristotele, facendo uso perfino della politica dei matri­moni misti, messa in pratica anche personalmente. E diventa anche una pro­fessione che non ha piu nulla a che fare con la milizia civica della polis.

Le classi sociali si modificano. Le aristocrazie cittadine traggono ben poco vantaggio dalla crisi della democrazia, sia perche la casta burocratico-militare le spoglia di potere, sia perche si introducono nei loro ranghi i favoriti del mo­menta, i commercianti, dalle facili fortune rna senza nessun retroterra di pre­stigio sociale e culturale. Le conquiste di Alessandro avevano messo in circola­zione ingenti quantita di argento (l'oro non fu in uso tra gli antichi come me­tallo per la monetazione) con la conseguenza dell'incremento degli scambi, dei prestiti bancari, della mobilita del capitale. Il risvolto negativo di questa mobi­lita della ricchezza fu il declassamento dei 'demiurghi', cioe degli artigiani e

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degli imprenditori che avevano fatto la fortuna di citta come Atene o Siracusa. Chiusi nei confini delle mura, i demiurghi restano tagliati fuori dalle grandi li­nee del commercia e indeboli ti dalla concorrenza massiccia di una nuova forza-lavoro a basso costa, gli schiavi, che arrivano copiosi dall'oriente (parti­colarmente pregiati erano gli schiavi babilonesi e negri) e che sono dotati non di rado di grandi abilita tecniche. La migrazione di schiavi verso la Grecia e poi verso Roma fu ingente anche peril fatto che la schiavitu divenne la condi-' zione normale dei prigionieri di guerra. Ma l'afflusso ha anche altre sorgenti, quelle ·del mercato vero e proprio, le cui regale abbattono ogni limite di uma­'lita: si narra di genitori che vendono i bambini, di capi locali che vendono i sudditi piu molesti.

Un innesto etnico cos! cospicuo (si calcolano a parecchi milioni gli schiavi trapiantati in Grecia e in Italia) dice molto anche sulle modificazioni culturali di questa periodo. C'e chi trova qui la spiegazione del perche le molte scoperte scientifiche di questi secoli non abbiano prodotto che scarsissime applicazioni tecniche: la disponibilita della forza lavoro degli schiavi toglieva ogni stimolo all'invenzione della macchina. E solo un'ipotesi. E certo invece, che, stretto co­me in una morsa tra un'aristocrazia rinsanguata dal capitale mercantile che tende a diventare capitale latifondistico e la massa degli schiavi immigrati, l'antico demos delle citta greche si trova disperse, senza piu la coesione civica dell'eta d'oro, e impoverito. Si spiega cosi il continuo flusso di popolazione greca verso !'oriente, dove la fondazione di grandi metropoli offre nuove possi­bilita di vita. II caso di Alessandria e tipico: la citta egiziana, fondata ex novo da Alessandro, acquista caratteri culturali spiccatamente greci. Questa rime­scolamento delle razze e delle culture finisce col dare predominio ad un uomo diverse, l'uomo ellenistico, appunto.

Si ricordi quanta importanza aveva, ancora per Aristotele, la distinzione tra greci e barbari. La rigidezza della distinzione era un presupposto della pre­cisa identita dell'uomo greco. L'uomo ellenistico ha perduto il sensa di quella distinzione e percio ha perduto anche il sensa della propria identita culturale. La polis none piu per lui una realta significativa: il potere e in mani lontane e arriva a lui come arbitrio insondabile; l' agora, la piazza pubblica, non e piu il luogo degli animati dibattiti politici e culturali. Egli e un uomo senza centro, o meglio con un centro che puo essere dovunque.

Nemmeno la lingua dei padri gli appartiene in esclusiva: il greco si parla dovunque. Perfino gli ebrei di Alessandria, perduto l'uso della lingua d'origine, parlano in greco e sentono il bisogno di far tradurre in greco (e la traduzione dei cosiddetti Settanta) i loro libri sacri (7.9). II piu antico storico di Roma, Fa­bio PittQre, scrive in greco e perfino Catone e costretto ad apprendere Ia lin­gua del popolo che ha in odio. Dall'India alla Spagna c'e ormai una lingua co­mune (il greco koine) con cui e possibile intendersi.

Privo di un proprio spazio, l'uomo ellenistico diventa libero anche in rap­porto al passato, che non lo chiude piu in ben determinate tradizioni. Dei pas­sate egii sceglie ci6 che piu gli giova, noncurante delle autorita culturali. Que­sta sua indeterminatezza di fronte al passato potrebbe passare per liberta, rna non lo e. Anzi, Ia mancanza di precisi confini spazio-temporali aumenta in lui l'insicurezza: per questa, quando la cultura lo aiuta, si afferra ai libri con una

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sete di sapere che prima era privilegio di pochi. Il libro diventa lo strumento per entrare, al di sopra dello spazio e del tempo, in una conversazione ideale dove ciascuno si ritaglia i punti di sostegno della sua labile identita. E di mo­da la figura dell'intellettuale che in nessun posto si trova a casa sua come in una biblioteca.

Ma a questa cultura libresca che, tramite i nuovi intellettuali, discende dall'alto verso il basso, fa riscontro un nuovo tipo di cultura che sale, per cosi dire, dal basso ve1·so l'alto, filtrando i succhi delle tradizioni orientali, diventa­te domestiche ovunque si verifichi il rimescolamento etnico di cui si e detto. E una cultura irrazionale, comodo rifugio all'intelligenza impaurita. Ad esempio, l'astrologia, inventata a Babilonia, passata in Egitto e di qui in tutto il mondo ellenis tico, per mezzo di tes ti sacri che si dicono scoperti nei templi dell' orien­te. Insieme all'astrologia si diffondono, provenendo sia dall'oriente che dagli strati popolari indigeni, superstizioni d' ogni genere, spes so a carattere demo­niaco, con l'inevitabile corredo di amuleti e di scongiuri. E. la rivincita di Dio­niso contra Apollo? Dell'irrazionale contra la disciplina del logos? Certo e che i Misteri che nell'eta classica, come abbiamo visto (2.5) erano l'espressione ri­tuale dei culti dionisiaci, ora si moltiplicano con chiare caratteristiche magi­che, e spesso addirittura attorno a maghi veri e propri, depositari di arcane ri­cette, come quella 'dell'immortalita' ritrovata in un papiro. Del resto anche le scuole filosofiche dell'epoca hanno un carattere terapeutico: l'aula delle sue conferenze e per il filosofo epicureo o stoico una specie di ambulatorio per ani me malate.

Come sempre avviene quando si sfaldano le sicurezze collettive su cui pog­gia il fervore storico, la liberta piu che un dono da custodire appare un rischio non tollerabile e che si preferisce eludere cercando la salvezza fuori del cer­chio della ragione.

6.2 La scienza alessandrina. A tene, ormai soggetta, pur nelle parvenze dell'autonomia, al dominio macedone e al peso di una grandezza passata che la porta a piegarsi su se stessa, non puo piu essere che, per dir cosi, la capita­le ad honorem di un mondo culturale che va dalle colonne d'Ercole all'Indo. Nel momenta in cui si organizza, la cultura ha bisogno (lo abbiamo visto per l'Accademia e peril Liceo) di un capitale economico e nella nuova situazione il capitale non puo piu essere quello di un privata, per quanta facoltoso. Ecco perche durante l'ellenismo i centri culturali sono all'ombra del potere.

Il centro per eccellenza e quello di Alessandria, nato da un felice incontro tra la munificenza del diadoco Tolomeo (capostipite della dinastia dei Tolomei) e un prestigioso nucleo di peripatetici. Demetrio Falereo, perduto il governo di Atene per opera di un altro Demetrio (il Poliorcete, che si addobbava, come si e detto, del 'mantello cosmico') decide, nel 307, di trasferirsi ad Alessandria. Egli appartiene al Liceo di cui, nel momenta, e scolarca Stratone di Lampsaco. Demetrio e Tolomeo erano riusciti a persuadere Stratone a trasferire ad Ales­sandria se non proprio il Liceo almeno gran parte del suo apparato scientifico, come la biblioteca e il materiale di ricerca. Nascono cosi ad Alessandria due strutture la cui importanza per il futuro della cultura e difficile esagerare:

- la biblioteca, nella quale vengono raccolte, con spese ingenti, tutte le

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opere allora conosciute. Trascritte in rotoli (volumi) di papiro, per la prima volta vengono corredate di titolo e del nome dell'autore (nasce cosi la forma moderna del libro) e, se il caso, ristabilite nelloro testo autentico. Il che com­porta la determinazione precisa delle regale di grafia e di grammatica: vi prov­vedono esperti filologi e grammatici. Per far fronte all'opera viene proibita l'esportazione del papiro (a Pergamo, dov'era un ~entro culturale minore, si para il colpo usando in sostituzione la pelle degli animali, e cioe le pergarnene) e viene organizzata una vera e propria burocrazia bibliotecaria. Pare che si sia riusciti a raccogliere ben 700.000 volumi. Il libro entra cosl. nel costume intel­lettuale, con la conseguenza che da allora l'esercizio preferito dell'intelligenza diviene il commento delle opere altrui.

- il Museo, che comprende sale per conferenze, un osservatorio astronomi­co, sale di lettura, sale di anatomia, giardini botanici e giardino zoologico. E naturale che gli scienziati di ogni parte del mondo ellenizzato corrano ad Ales· sandria, dove oltretutto Tolomeo assicura una tranquilla sistemazione a chi mostra talento letterario o scientifico. Anche se per numero i letterati hanno la meglio sugli scienziati, sono questi ad imprimere alla cultura alessandrina, in coerenza con le sue origini peripatetiche, l'orientamento dominante.

Si tratta di una scienza divenuta fine a se stessa. L'utopia platonica che fi. nalizzava il sapere alla gestione del potere e ormai spenta del tutto nei nuovi intellettuali, che, portando al limite le tesi della Politica di Aristotele, lascianc ad altri le inquietudini del governo per dedicarsi totalmente alla ricerca. La separazione tra cultura e politica, anzi, in ultima istanza, il patto tra gli uomi­ni del sapere e quelli del potere, e cosi ristabilito, dopo la parentesi della Gre­cia classica. Praticamente al soldo dei Tolomei, gli scienziati alessandrini pos­sono avere anche le loro idee filosofiche. rna nel comune apprezzamento esse non hanno importanza; importanza ha invece la ricerca specialistica, i cui ri· sultati non minacciano il potere, anzi lo adornano di prestigio. Separato dalla filosofia, il sapere scientifico mantiene le distanze anche dalla tecnica, eccetto che, in piccola misura, dalla tecnica militare, troppo necessaria al potere. L'ar­tigiano, rna anche il medico praticante, non traggono lumi dalle conquiste scientifiche e continuano la !oro arte in modo empirico, con in piu le conse­guenze del declassamento sociale, connesso, lo abbiamo visto, col prevalcre di altre attivita come il commercia.

E tuttavia e proprio dall'epoca alessandrina che prende inizio la scienza moderna vera e propria. Limitiamoci a ricordare:

Euclide (330-260 circa), ateniese di formazione, pubblico ad Alessandria gli Elementi di geornetria, che ebbero subito un grande ·successo. In essi trovano sistematicita le numerose conquiste della matematica precedente, rna soprat­tutto vengono posti i principi elementari - 'definizioni', 'postulati', 'assiomi' - in base ai quali la geometria si costituisce come scienza totalmente autono­ma, di carattere deduttivo e dotata, in virtu dei postulati intuitivamente evi­denti, di un'assoluta necessita logica. Quella euclidea e stata considerata come la geometria tout court fino a che, nel secolo scorso, non sono state elaborate le geometrie non-euclidee (III 13.4).

Aristarco di Sarno, detto 'il Copernico dell'antichita'. formulo la tesi che

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la terra giri intorno al sole (attiraridosi accuse di empieta) e fece misurazioni di tipo scientifico sulla distanza della luna e del sole dalla terra.

Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Chio, suo discepolo, praticarono la dissezione pubblica del corpo umano con particolari risultati sullo studio del cervello e del sistema nervoso.

Archimede di Siracusa (287-212) non visse ad Alessandria, anche se vi tra­scorse un breve periodo, rna resto sempre in contatto con l'ambiente scientifi­co alessandrino. E. il piu grande genio matematico dell'antichita. Sono univer­salmente note le sue teorie sul peso specifico e sulla leva. In lui la ricerca teo­rica e l'applicazione pratica si congiunsero con risultati sbalorditivi che ne in­gigantirono l'immagine nell'opinione pubblica dell'antichita. Con una leva re­lativamente piccola, sollevo una nave carica; facendo riflettere in un grande. specchio concavo (lo specchio ustorio) i raggi del sole, incendio la flotta roma­na che assediava Siracusa.

L' eredita di Archimede fu molto feconda ad Alessandria con Apollonio, con Eratostene e finalmente con Claudio Tolomeo (II sec. d.C.) che nella sua opera principale, Sintassi matematica (conosciuta col titolo, di derivazione araba, di Almagesto) porto a definitiva sistemazione le concezioni astronomiche prece­denti, dovute soprattutto ad Aristotele. II 'sistema tolemaico' dominera incon­trastato fino a Galileo (1!.4.3). Macon Tolomeo siamo gia nel tardo periodo alessan­drino, di cui dovremo occuparci in seguito. Basti qui sottolineare come l'idea e la pratica della ricerca scientifica modernamente intesa siano nate ad Ales­sandria che, sotto questo profilo, appare molto piu vicina a noi che non le cit­ta universitarie del medioevo.

Ma idealmente la capitale del mondo ellenico restava Atene, di cui, come abbiamo visto, anche Alessandria puo dirsi una propaggine. Perduta ormai per sempre la sovranita politica, dissoltosi il tessuto sociologico che aveva fatto da humus aile sue piu singolari esperienze democratiche, Atene sembrava desti­nata a vivere del culto del proprio passato. Solo in parte fu cosi. L' Accademia e il Liceo vivevano dell'eredita dei rispettivi fondatori, rna non affatto in modo pedissequo.

I platonici dell'Accademia del tempo di Speusippo e poi di Senocrate (i due scolarchi successi a Platone) sviluppano il pensiero del maestro in quegli aspetti che, nella nostra valutazione rna anche in quella dei neoplatonici di quattro o cinque secoli dopo, sono in lui del tutto secondari. L'innesto che si era determinato nell'Accademia attorno al 367 (l'anno in cui vi arrivo Aristote­le), quando ne- divenne discepolo Eudosso di Cnido, un pitagorico di grande prestigio, non solo arricchi di nuove prospettive il pensiero di Platone rna vi introdusse una tendenza complessiva che, morto il maestro, restera dominante nei discepoli. E. la tendenza matematico-astronomica. Sappiamo gia dell'impor­tanza che Platone attribuiva ai numeri nella sfera sovrassensibile delle idee. La concezione pitagorica dei numeri come realta metafisiche ebbe sviluppo in Senocrate che ne fece addirittura delle divinita generatrici del tutto (l'unita e la dualita). E cosi l'astronomia ebbe (diversamente dai contemporanei indirizzi alessandrini) uno sviluppo dominato dalle influenze egiziane e assiro­babilonesi, i cui sintomi sono gia ben visibili nell'ultima opera di Platone, Le Leggi. La tesi che gli astri siano soltanto sassi e pietre aveva scandalizzato i

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contemporanei di Anassagora rna scandalizzava anche i seguaci di Platone che, recuperando l'antica sapienza sacerdotale, facevano degli astri vere e proprie divinita visibili nei cui ritmi era possibile divinare il futuro. Di qui alle cre­denze astrologiche di cui sopra si e detto, il passo e breve.

Nell'Atene del primo ellenismo l'Accademia non era dunque un'isola chiusa agli influssi del nuovo clima. E nemmeno il Liceo, come abbiamo vis to. L' Ari­stotele che noi conosciamo, per paradossale che sembri la cosa, non era cono­sciuto dai suoi contemporanei, se si eccettua la stretta cerchia dei discepoli . che custodivano i suoi scritti gelosamente. L'Aristotele che ebbe decisivo in­flusso nella cultura successiva alla sua morte e quello della ricerca sperimen­tale, cui Teofrasto dette un incisivo contributo. La Biblioteca e il Museo di Alessandria non furono che la ripedzione in grande della Biblioteca e del Mu­seo che facevano del Liceo ateniese una vera e propria facolta scientifica. La grandiosa costruzione metafisica, che e per noi il nucleo essenziale del sistema aristotelico, non ebbe affatto gran peso nei primi peripatetici, che inclinarono tutti (se si eccettua Eudemo, rimasto fedele all' Aristotele platonico) verso con­cezioni materialistiche, neUe quali il finalismo del maestro si accoppiava al de-· terminismo di tipo democriteo.

In conclusione, le grandi risposte sul senso dell'esistenza che sono il patri­monio perenne del platonismo e dell'aristotelismo, non erano queUe che cerca­va l'inquieta coscienza ellenistica. Gli ateniesi, del resto, non avevano mai ces­sato di mostrarsi curiosi degli insegnamenti propagati da filosofi direttamente contrari a quanto andavano insegnando Platone prima e Aristotele poi.

Ad Atene non ci sono ora sol tanto 1' Accademia e il Liceo. Nell' area in cui avevano avuto peso gli insegnamenti dei 'socratici minori', prosperano altre scuole che, in questa fase di crisi, sgombre come sono di pesanti eredita, arri­vano ad avere la meglio nel fornire al cittadino ellenistico modelli e dottrine di vita.

6.3 Le nuove scuole filosofiche. Le nuove scuole filosofiche, nate e fiorite durante il periodo ellenistico - scetticismo, epicureismo e stoicismo - pre­sentano, nonostante le loro diverse prospettive e la loro accanita rivalita, alcu­ni tratti comuni.

C'e, innanzitutto, un'evidente accentuazione delle tendenze individualistiche della filosofia precedente, un interesse marcato per la vita del singolo e per le sue difficolta, una riflessione che tende a delineare la figura del saggio pre­scindendo sempre piu dai suoi legami con la polis. Il fenomeno coinvolge an­che la contemporanea produzione letteraria. Ai grandi poemi e aile emozioni collettive dell' epica e della tragedia di Eschilo e di Sofocle subentrano i poe­metti brevi, l'erudizione, il gusto dell'originalita e la ricerca di una raffinata perfezione formale. Scene della vita quotidiana, quadretti bucolici e pazienti analisi psicologiche dei sentimenti (e non quelli dell'eroe, rna quelli dell'uomo comune, sulla scia di Euripide) caratterizzano le elegie di Filita, i poemi di Callimaco, gli epigrammi di Asclepiade, gli idilli di Teocrito, i mimi di Eronda o le diatribe di Bione e di Cercida. Nella 'novita' della commedia di Menandro - amico e coetaneo di Epicuro, rna discepolo di Teofrasto (di cui e celebre lo studio sui Caratteri) -, cosi lontana dalla comicita e dalla satira politica di

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Aristofane, si coglie veramente la misura e la profondita del processo di ripie­gamento individualistico che percorre la riflessione di epicurei, scettici e stoi­ci, portandoH a teorizzare, sia pure con differenti sfumature, la necessita del disimpegno dalla vita politica attiva.

Sulla scia della stretta connessione che spesso poniamo tra la vitalita filo­sofica dei Greci e la loro liherta politica, saremmo tentati di ricercare, proprio nella crisi irreversibile della polis e nella fine imminente della liberta politica greca, la causa e il contesto sia di questo restringimcnto dell'orizzonte filosofi­co - alla ricerca di una salda sicurezza intcriore - sia del divorzio, anche geografico, tra scienza positiva, ormai autonoma (Alessandria), e filosofia (Ate­ne) a cui abbiamo sopra accennato. Per quanta oggettivamente motivata, que­sta spiegazione richiedc alcuni correttivi, che potremo precisare nel corso dell'esposizione delle singole scuole. Stando ai testi in nostro possesso, ne i politici attivi formati alla scuola dei filosofi, come Demetrio Falereo, ne i filo­sofi del primo ellenismo dimostrano di avere una chiara visione dei termini entro cui si va scandendo Ia grave crisi politic a della Grecia e dei regni elleni­stici. Solo moho piu tardi, sotto il dominio piu diretto e brutale dei Romani, si arrivera alla piena consapevolezza della fine della citta greca. E ancora: !'invi­to ad una pratica rinunciataria sui piano dell'intervento politico non si puo considerare una svolta radicale dei filosofi ellenisti. Risale, a ben guardare, al­Ia rottura determinatasi con la guerra del Peloponneso quando, finita la poli­tica di Pericle, i filosoti non si erano trattenuti dal denunciare Ia crisi della polis. Basterebbe ricordare il disimpegno di Democrito, alcune pagine della stessa Repubblica platonica, l'atteggiamento dei socratici minori e in partico­lare dei cinici e, su altro versante, la superiorita della vita contemplativa pro­clamata da Aristotele (5.19). Quel che tuttavia appare nuovo in Epicuro, negli stoici e negli scettici e l'approfondimento e lo sviluppo di questa posizione. Gli eventi politici, militari e sociali del primo ellenismo sono talmente instabili e rapidi che, se ai Peripatetici viene naturale, pur continuando a battere sulla missione politica del filosofo, accettare la concezione della Tyche (sorte) - a volte deificata - negli altri si radicalizza Ia convinzione del rifiuto e del di­simpegno.

II secondo carattere comune alle filosofie ellenistiche e la coerenza sistema­tica delle dottrine elaborate. Eredi in questo dell' Accademia, sia Epicuro che Zenone propongono un sistema articolato in tre parti: fisica, canonica (o logi­ca) ed etica. La preoccupazione principale e di soddisfare l'esigenza di totalita e di rispondere aile domande dell'individuo in crisi («La terra intera - scrive Epicuro - vive nella soffe1enza, per la sofferenza essa ha la maggiore capaci­ta») con filosofie dogmatiche e rigide che si concretizzano talvolta in veri e propri catechismi. Anche Pirrone e i suoi si collocano, tutto sommato, su que­sta linea. Sempre piu diffuso e il bisogno di filosofia; frequentare queste: scuo­le diventa una moda e. piu tardi, soprattutto per Ia classe dirigente romana, una necessita; i contrasti e le polemiche che dividono le scuole tendono a raf­forzarne il carattere dogmatico, sia quando la dottrina subisce variazioni o ag­giustamenti, come succede per lo stoicismo, sia quando rimane inalterata e fe­dele al verbo del maestro fondatore, com'e il caso dell'epicureismo.

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Epicuro

6.4 Il Giardino. La dottrina impartita da Epicuro* ai discepoli delle sue cornu­nita e, prima che una filosofia, anche un sistema di vita. I discepoli sana anzitutto «amici"; anche quando le necessita impongono una lunga separazione, resta vi­tale tra lora il vincolo profondo dell'amicizia. Ne sana testimonianza i viaggi di Epicuro, rna soprattutto il suo fitto scambio epistolare con singoli discepoli e con intere comunita, di cui ci sana pervenuti numerosi frammenti. In questa sollecitudine catechetica verso le proprie comunita, che per tanti aspetti ricor­da !'interesse dell'apostolo Paolo perle sue chiese, troviamo un tratto distinti­vo della personalita e del pensiero di Epicuro. Alia rapida fortuna e all'altret­tanto rapido declino dei condottieri e dei capi politico-militari, all' opera insta­bile e capricciosa della T_vche che governa Ia vita politica e sociale del prima ellenismo, si contrappongono Ia spirito comunitario e la scienza della natura proposti da Epicuro come '' bonaccia» e porto tranquillo, a riparo dalla «tem­pesta>> degli eventi.

Il paragone tra filosofia e medicina non e, allora, soltanto la ripresa di un motivo gia caro a Socrate, rna si arricchisce di una intensita nuova, quasi drammatica, e apre la via al piu ampio concetto di filosofia come ars vitae ela­borato dagli Stoici. In un mondo qual e quello sui finire del IV secolo, con la progressiva dissoluzione delle sicurezze e dei punti di riferimento civili, socia­li e religiosi, Epicuro colloca se stesso, il suo stile di vita e la sua dottrina, in una prospettiva di liberazione dell'uomo da ogni dolore e superstizione. Il pri­ma passo di questa processo di liberazione consiste nello sgombrare il terreno

Epicuro nasce nel 341 nell'isola di Sarno, ma la sua formazione avviene nell'isola di Theos, dove insegna Nausifane, discepolo di Democrito. A 18 an­nisi reca ad Atene dove frequenta l'Accademia, diretta da Senocrate, maben presto se ne torna nella Ionia dove a Mitilene fonda la sua prima scuola nel 310. Da Mitilene passa a Lampsaco, nell'Ellesponto e finalme-nte nel 306 si stabilisce ad Atene, liberata l'anno prima dal dominio di Demetrio Falereo per opera del 'dio' Demetrio Poliorcete. Vi acquista una modesta casa con un giardino dove installa Ia sua scuola, della appunto il 'Giardino'.

Nei confronti dell'Aq.cademia e del Licea if Giardino e una scuola demo­cratica: vi hanna accesso tutti, senza distinzione, donne comprese, anche se etere o schiave. E tuttavia Epicuro mostra disprezzo perle masse e disdegna ogni gesto atto a guadagnarne i favori, mentre coltiva in maniera rimasta esemplare l'amicizia. Muore nel 270.

Secondo Diogene Laerzio Epicw-o ha composto tanti scritti da formare 300 volumi. Tutto e andato perduto, salvo un certo numero di frammenti e tre lettere (indirizzate a Erodoto, Pitocle e Meneceo) che sono delle sintesi della dottrina epicurea di fisica, di astronomia e di etica.

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della riflessione da ogni legame con le altre filosofie, con la cultura e con la stessa ricerca scientifica (geometria, matematica, astronomia) del passato e del presente.

Nei suoi numerosi scritti («circa trecento rotoli»), Epicure non riporta mai citazioni di altri autori; piu volte sconfessa di aver avuto per maestro il de­mocriteo Nausifane («mollusca ... uomo da pocO>>); lo stesso approdo alla filoso­fia sarebbe avvenuto, secondo una notizia conservata da Diogene Laerzio, «per disprezzo dei maestri di scuola, poiche questi non erano riusciti a spiegargli che cosa significasse in Esiodo il caos>>. Egli ama presentarsi ai suoi discepoli e ai suoi avversari come uno che si e creato da solo, senza maestri, insomma, come si legge in un frammento dell'Epistola a Euriloco, «Scolaro di se stesso>>:

Salpa l'ancora, ragazzo, e fuggi da ogni forma di cultura. Ti dichiaro beato, o Apelle, perche sei venuto alla filosofia puro da ogni

cultura.

La dialettica e la retorica non servono al filosofo, sono, caso mai, utili nei tribunali e neUe assemblee pelitiche; la poesia (Omero compreso) e la musica non devono essere oggetto di insegnamen to ne di discussione; anche nei mo­menti distesi dei ham·hetti e me~lio parlare, attesta Plutarco, di «COSe milita­ri» o di «grossolane scurrilita>>. L'accusa di «incolto», rivoltagli da tanti avver­sari, trova formale giustificazione in queste posizioni di netto rifiuto che, co­me vedremo, corrispondono solo in parte alia complessa elaborazione della dottrina epicurea. Epicure e convinto che all'uomo importi soltanto conoscere «quale sia la natura dell'universo>> e smettere di vivere «in sospettoso timore delle cose che ci raccontano i miti».

6.5 La fisica. Rifacendosi alla dottrina democritea, in alternativa alia conce­zione aristotelica della continuita della materia fisica, Epicure concepisce «il tutto>>, l'universo, come un discontinue formate dai corpi (attestati dai sensi) e dal vuoto in cui i corpi si muovono (se il vuoto non esistesse i corpi non po­trebbero muoversi). «Dei corpi, alcuni sono composti, altri sono gli elementi che danno origine ai composti>>; questi ultimi sono «indivisibili e immutabili», altrimenti «il tutto>> si dissolverebbe nel «nulla>>, nel non-essere. Queste parti­celle indivisibili (atomi) sono «i principi costitutivi dei corpi» e differiscono fra di loro per grandezza, forma e peso: le proprieta qualitative dei corpi (calo­re, gusto, colore ... ) derivano da differenze in queste proprieta primarie. Indefi­-nita e la varieta delle forme degli atomi, eterno il loro movimer.to, infiuito il loro numero, infinite il vuoto in cui essi si muovono e si aggregano, infiniti i mondi originati dal loro moto, «sia quelli uguali al nostro, sia quelli diversi>>; un mondo puo sparire, un altro ne puo sorgere.

Fin qui la posizione di Epicure coincide sostanzialmente con quella degli atomisti precedenti e di Democrito in particolare (2.22-24), dal quale pero si differenzia a proposito della indivisibilita matematica e fisica degli atomi (cri­ticata da Aristotele). Mentre cioe Democrito aveva trattato l'ato"mismo strin­gendo in unita il punto di vista matematico e il punto di vista fisico, Epicure pone una netta distinzione fra i due aspetti della questione con la sua dottrina

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dei 'minimi'. Gli atomi sono i minimi fisici, rna l'atomo ha in se, per quanto esigua, un'estensione ed e quindi teoricamente divisibile in parti indivisibili, minimi assoluti di carattere matematico.

Nettamente diversa e anche Ia funzione attribuita al peso per spiegare il moto degli atomi e le loro aggregazioni. In Democrito il peso ha un valore se­condario, e una proprieta acquisita quando gli atomi si sono gia uniti per for­mare un mondo, per Epicuro invece gli atomi sono trascinati proprio dal peso verso il basso, in senso perpendicolare. Procederebbero quindi su rette paral­lele e non si incontrerebbero mai se non si ammettesse una !oro possibile de­viazione (il clinamen, come Ia chiamera Lucrezio), tale da produrre fra !oro gli urti necessari alia formazione degli aggregati. II vario intrecciarsi degli atomi, come dire la nascita e la morte delle cose e dei mondi, sono dovuti appunto a questa minima deviazione, non causata da alcunche, rna assolutamente sponta­nea e arbi traria.

Alla teoria del clinamen i testi di Epicuro non accennano esplicitamente; noi la troviamo esposta in scritti posteriori, in particolare in Lucrezio (7.4) e in Cicerone (7.5), che ne fanno il fondamento della liberta di contro alia necessa­ria connessione causale teorizzata dagli stoici.

Questa rilevanza etica e ben presente anche nei testi di Epicuro, la dove si contrappone la vera scienza della natura al 'fato' dei 'fisici', e al determinismo di Democrito, come ad esempio in questo brano significativo della Epistola a Meneceo:

E in verita sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dei che non render­si schiavi di que! fato che predicano i fisici: que! mito, infatti, offre una spe­ranza con Ia possibilita di placare gli dei con onori, mentre nel fato vie una necessita implacabile.

6.6 La logica. Come Democrito, anche Epicuro spiega la sensazione median­te la teoria degli effluvi o simulacri, o idoli (greco: eidola). Impercettibili per la loro piccolezza, queste particelle di natura atomica hanno la stessa forma degli oggetti reali, si staccano costantemente dalla superficie dei corpi senza che noi ce ne accorgiamo (i corpi infatti non diminuiscono perche «il flusso>> dei simulacri «Viene immediatamente reintegrato per sostituzione di rpateria») e colpiscono gli organi sensori del soggetto senziente. La validita della sensa­zione e garantita dal fatto che, muovendosi «Con Ia velocita del pensiero», i si­mulacri <<danno Ia visione dell'oggetto nella sua unita e nella sua contiguita, e conservano Ia corrispondenza con l'oggetto da cui provengono». Solo i sensi, dunque, ci mettono in ccintatto con Ia realta e i sensi non sbagliano mai: <<l'in­ganno e !'errore» non stanno nel dato della sensazione, rna «consistono sempre nel nostro aggiunger alcunche, con l'opinione».

La sensazione e vera, rna sarebbe muta e insignificante se non si manife­stasse in un suono, in una voce, se non divenisse nome. Riguardo all' origine del linguaggio, si Iegge nell'Epistola ad Erodoto:

( ... ) anche i nomi all'inizio non si formarono per convenzione, rna le di­verse nature degli uomini, in quanto erano soggette ad affezioni particolari

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secondo la diversita delle stirpi e concepivano rappresentazioni diverse, ed emettevano anche l'aria in una maniera propria ( ... )

Illinguaggio nasce per natura, rna si sviluppa poi nel tempo per convenzio­ne, per cui i nomi racchiudono in se uno spessore di realta storica che e diver­so, anche per natura, da popolo a popolo. Inserendosi nel lungo dibattito che oltre ai sofisti aveva impegnato Democrito, Antistene, rna anche Platone ed Aristotele, Epicuro rifiuta di discutere in astratto se illinguaggio derivi dana­tura o da convenzione, rna sceglie il terreno delle concrete determinazioni na­turali e storiche, impostando in modo nuovo i termini del problema.

Sulla teoria fisica degli idoli Epicuro fonda la sua gnoseologia a base empi­ristica. In un'opera per noi perduta, Il Canone, dedicata espressamente all'ar­gomento, Epicuro fissava in tre 'criteri', dice Diogene Laerzio, gli elementi co­stitutivi del giudizio conoscitivo: le sensazioni, le 'anticipazioni' e le 'affezioni'. Queste ultime, in pratica i sentimenti del piacere e del dolore, sono criteria di verita in quanta ci guidano con assoluta sicurezza nell'indicarci le case che bi­sogna scegliere e queUe che bisogna fuggire.

Le anticipazioni o prolessi (prolepseis) vanno intese come i risultati dell'esperienza sensibile passata, che ci rendono capaci di anticipare l'espe­rienza futura. Prendiamo ad esempio il giudizio «questa tal cosa e un uomo»: quando diciamo 'uomo' «Subito, grazie all'anticipazione, ci si forma nel pensie­ro uno schema generale di questa realta, per il fatto che in precedenza le sen­sazioni ce l'hanno mostrata». Le anticipazioni sono «conoscenze evidenti» e, come le sensazioni e le affezioni, non commettono errori; grazie a lora si arri­va all'opinione che invece puo essere vera o falsa. Nel passare dalle anticipa­zioni all'opinione, o supposizione, compiamo una inferenza da cio che e imme­diatamente presente a cio che non lo e; il passaggio richiede quindi un atteg­giamento di attesa: se l'opinione sara confermata, e vera, se sara smentita, e falsa. Una torre quadrata, vista da lantana, ci appare rotonda: l'errore non e nell'occhio, a cui di fatto giunge l'immagine di una torre rotonda, rna nell'opi­nione che pretende di attribuire alla torre in se la rotondita. La posizione cor­retta e invece quella di « sospendere il giudizio nell'attesa, e in tanto avvicinarsi alla torre, e apprendere come essa sia realmente da vicino>>.

Un altro elemento caratterizza, infine, il processo conoscitivo: l'apprensione intuitiva, l'atto con cui la mente «afferra>> l'oggetto, una specie di colpo d'oc­chio dell'intelletto che non e pero in contrasto con quanta attestano i sensi.

La gnoseologia epicurea e un interessante miscuglio di empirismo e di apriorismo. Dell'esistenza degli atomi e del vuoto non si puo a':ere espcrienza sensibile: su che cosa sono fondate allora queste certezze prime? Epicuro, si e vista, le ottiene compiendo una sorta d'inferenza: i nostri sensi avvertono, ad esempio, il movimento dei carpi, da questa inferiamo l'esistenza del vuoto sen­za il quale i carpi non potrebbero muoversi. Nel pervenire alla 'dottrina dei minimi' il procedimento e simile, rna ancor piu aprioristico: e un passaggio per analogia dal piano dell'evidenza sensibile al piano dell'evidenza intellettua­le. L'analogia e proprio questa passaggio dal chiaro all'oscuro, dall'evidente che e sotto i sensi, a cio che ai sensi sfugge: «cio che appare e uno spiraglio che si apre su cio che e inafferrabile>>. 1?: il principia logico che aveva guidato i primi passi della filosofia e della scienza greca, in particolare la medicina,

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l'arte che per eccellenza e costretta ad argomentare per indizi, i semeia dei te­sti ippocratici. Nelle indagini che riguardano l'infinitamente piccolo (gli atomi, i minimi) e l'immensamente distante (i fenomeni celesti), due campi di ricerca comunque inafferrabili per la via dell'esperienza sensibile, e indispensabile va­lersi dei procedimenti dell'inferenza e dell'analogia per cercare spiegazioni plausibili per i nostri sensi lirriitati.

Lo scopo da conseguire e la «imperturbabilita dell'anima e la sicura fidu­cia». Coloro che «si danno con zelo alia vana astronomia» (questa «cosa da fol­li e fuori di ogni retto procedere» che si addice «soltanto a coloro che vogliono sbalordire il volgo ignorante>>) e coloro che, per altro verso, spiegano i fenome­ni celesti chiamando in causa qualche «sostanza divina» (che va invece lascia­ta, come vedremo, «esente da qualsiasi funzione e in piena beatitudine») mi­nacciano alla radice la liberta e la tranquillita dell'uomo conducendolo alla rassegnazione e lasciandolo timoroso in ball.a di un destino ineluttabile.

6.7 La teologia. L'empirismo di Epicuro non e dunque lo sperimentalismo che sta alia base della scienza moderna; la sua finalizzazione etica e in esplici­ta polemica sia contro la religione astrale sia contro }'inutile e dannosa ricer­ca dell"unica spiegazione', di quella che si chiamera pili tardi la legge scienti­fica e che tra tante difficolta andavano allora cercando gli scienziati del Mu­seo di Alessandria.

Un'ulteriore conferma ci viene dalla 'teologia' di Epicuro. «Gli dei esisto­no»: ce lo dice la comune opinione dell'umanita; apparentemente la loro esisten­za non cade sotto i nostri sensi, eppure di essi abbiamo «COnoscenza evidente».

Come ogni altro essere corporeo, anche gli dei sono composti di atomi, estremamente sottili, hanno forma e funzioni umane, vivono in infinita lonta­nanza da noi, negli spazi vuoti tra mondo e mondo (intermundia). I loro simu­lacri varcano un'immensa distanza per giungere fino a noi, ana nostra mente: leggeri e sottili, attraversano i sensi senza impressionarli, rna noi ne afferria­mo comunque l'esistenza con l"apprensione intuitiva'. La loro esistenza si puo stabilire anche in altro modo, per inferenza: ai tanti uomini che vivono negli innumerevoli mondi devono corrispondere tanti dei negli infiniti spazi tra mondo e mondo.

A differenza dei composti umani, gli dei sono immortali: le perdite di mate­ria che essi subiscono, emanando, ad esempio, i simulacri, sono continuamen­te «risarcite» da una forza interna che fa continuamente affluire nuovi atomi di ricambio. Questi esseri, beati perche immuni dal timore della morte, sono eternamente felici e sereni, non hanno disposto ne dispongono nulla riguardo ai movimenti dei corpi celesti, sono indifferenti nei confronti dei dolori e dei mali che affliggono gli uomini. Essi sono il modello ideale a cui il saggio deve uniformare la sua vita. E giusto rendere loro onore anche esternamente e par­tecipare agli atti di culto e aile feste tradizionali (Epicuro stesso vi partecipa e raccomanda di fare lo stesso ai discepoli): sono gesti di amicizia nei loro ri­guardi e atti comunitari che rasserenano e recano gioia a chili compie; e, in un certo modo, come partecipare all'eterna e costante felicita degli dei. Plutarco e altri accuseranno Epicuro di 'ateismo'; in realta, questi invita ad una reli­gione purificata dal terrore che tiene in schiavitu gli uomini, polemizzando

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con la fede negli dei civici dell'Olimpo coltivata dal 'volgo' e, soprattutto, con la nuova religione astrale che, sulla scorta del Timeo e delle Leggi (rna anche di Aristotele e Teofrasto), va conquistando le classi dirigenti e colte.

Come gli dei anche !'anima e formata da particelle sottili, e «un corpo sot­tile, sparso per tutto il composto, assai simile ad un soffio e avente in se una certa misura di calore». Nell'anima «risiede la causa della sensazione» rna, co­me gia per Democrito, l'anima e «Senziente» grazie a questo complesso di ani­ma e corpo dotato di determinati moti che e l'organismo umano; una volta che «il corpo si dissolve, l'anima si disperde e non possiede piu le stesse capacita ne il movimento, per cui perde anche la capacita di sentire». L'anima, infine, non puo essere «incorporea», spirituale .

. · Se lo fosse non potrebbe ne agire ne patire, mentre noi possiamo coglie­re chiaramente nell'anima questi due accidenti .

Sono dunque inutili e insensate tutte le dispute intorno all'immortalita dell'anima~

Rispetto a Democrito, Epicuro introduce, tuttavia, dietro a suggestioni ari­stoteliche, la distinzione fra una parte dell'anima che e puro soffio vitale, sparso per tutte le membra (!'anima di Lucrezio) e una parte adatta esclusiva­mente a produrre moti psichici (Lucrezio la chiamera animus). Esse non sono pero da intendersi come due parti fisicamente distinte e diversamente localiz­zate nel corpo (come appunto in Lucrezio), rna come un modo di spiegare la complessa composizione e la varieta. delle funzioni dell' anima che resta conce­pita unitariamente.

6.8 L'etica. Siamo cosi giunti all'etica, al cuore della dottrina di Epicuro, a quella parte del suo pensiero che, insieme alla teologia, e stata la piu fraintesa e sulla quale, non a caso, si e piu esercitata la vis polemica degli avversari seri e !'infamia dei calunniatori.

I capisaldi dell' etica epicurea si possono sintetizzare in tre posizioni: - Il bene e identificato col piacere, che e definito «fine secondo natura».

Lontana dalla risonanza metafisica che ha in Aristotele e negli stoici, l'espres­sione «Secondo natura» si riferisce in Epicuro alla sola natura dell'uomo, alla sua intrinseca razionalita che deve «sobriamente>> ispirare le norme dell'azio­ne. E opportuno ricordare che l'unico modello di vita sono gli dei.

- Il piacere e UnO Stato di Stabile Sicurezza ed e identificatO COn }'aS!'Pnza del dolore. Si contrappone pertanto alla concezione piu elementare e dina~ica del piacere propria, ad esempio, della scuola cirenaica (3.17) (<<non alludiamo __: specifica Epicuro- affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapu­le, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male>>).

- L'assenza di dolore e intesa come rimozione del dolore fisico (gr. aponia), rna soprattutto come liberazione dell'anima dalla perturbazioni psichiche e dai timori (gr. ataraxia). L'azione e etica nella misura in cui e capace di sopprimere sofferenze e perturbazioni e si volge ad ottenere l'autosufficienza (gr. autarcheia) e la liberta dell'individuo, rendendolo cosi in tutto simile agli dei.

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6 - Epicuro 0 199

A chi voglia raggiungere una vita felice Epicuro propane un catechismo pratico condensato in quattro formule (il tetrafarmaco lo chiameranno i disce­poli) cosi sintetizzate da Filodemo di Gadara (I sec. a.C.):

(1) Gli dei non sono da temere, (2) non c'e rischio da correre nella morte, (3) il bene e facile a procurarsi, (4) il male e facile a sopportare con corag­gio.

Della prima formula abbiamo gia detto a proposito della teologia; per la se­conda vale la pena leggere questo brano dell'Epistola a Meneceo:

Il piu orribile dei mali, la morte, non e nulla per noi; poiche quando noi siamo, la morte non c'e, e quando la morte c'e, allora noi non siamo piu. E cosi essa nulla importa, ne ai vivi ne ai morti, perche in quelli non c'e, que­sti non sono piu. Invece, la maggior parte ora fuggono la morte come il maggiore dei mali, ora la desiderano come requie dei mali della vita; rna il saggio ne ricusa la vita, ne accusa la morte; perche la vita none per lui un male, ne crede un male non piu vivere. Ma come dei cibi non preferisce senz'altro i piu abbondevoli, rna i piu gradevoli; cosi non il tempo piu dure­vole, rna il piu piacevole, gli e dolce frutto.

Il realismo e la forza demistificatrice del pensiero epicureo emergono con evidenza anche maggiore dalle lunghe analisi e dalle massime che, nel disegna­re il prototipo del saggio, approfondiscono il significato delle ultime due for­mule del tetrafarmaco.

Soddisfare i nostri desideri non significa seguire i desideri «vani>>, come la gloria, l'ambizione, il lusso e la ricchezza, ne quelli «solo naturali>> (i piaceri sessuali, ad esempio, non hanno <<mai giovato a nessuno, e. gia molto se non nuocciono>>), rna quelli <<naturali e necessari>>.

Ci grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo. Chi ot­tenga questo e possa sperare di continuare a ottenerlo, potrebbe gareggiare in felicita con lo stesso Zeus.

Il piacere e un bene, rna non si deve ricercare qualsiasi piacere, anche a prezzo di dolore; spesso anzi occorre rifiutare <<molti piaceri, quando ne segui­rebbe per noi un dolore maggiore>> e preferire al piacere immediato <<molti do­lori per il piacere maggiore che in seguito deriva dall'averli lungamente sop­portati>>.

L'autosufficienza, il cui «maggiore frutto e la liberta>>, e un <<bene grande>>, rna <<non perche in ogni caso dobbiamo attenerci al poco, rna perche, se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del pocO>>. L'abitudine ai «cibi frugali», una focaccia e un sorso d'acqua («Mandami una pentolina di formag­gio perche io possa, quando ne ho voglia, gozzovigliare>>) e raccomandata non come ascesi di mortificazione, rna come prassi che «ci rende intrepidi dinanzi alia sorte».

Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte, ne il godersi fanciulli e donne, ne il mangiare pesci· e tutto il resto che una ricca mensa puo offrire

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e fonte di vita felice: rna que! sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via del­le quali grande turbamento s'impadronisce dell'anima.

La virtu non ha validita in se stessa, rna solo in quanta serve ad eliminare le perturbazioni; per questa «i! massimo bene e Ia prudenza (fronesis) che ci insegna che non e possibile vivere f-Jiacevolmente se non vivendo saggiamente e bene e giustamente, e di contra che none possibile vivere saggiamente e be­ne e giustamente se non anche piacevolmente».

Sulla stessa falsariga, la giustizia non esiste di per se, ne l'ingiustizia e di per se un male.

In senso generale il giusto e uguale per tutti, in quanto e un accordo di utilita reciproca nella vita sociale; rna a seconda della particolarita dei luo­ghi e delle condizioni risulta che non per tutti il giusto e lo stesso.

Fra le cose che Ia Iegge prescrive come giuste, quella che e comprovata come utile dalle necessita dei rapporti sociali reciproci deve essere conside­rata come avente il requisito del giusto, sia essa la stessa per tutti o no; rna se si ponga una Iegge che non risulti coerente all'utilita nei rapporti reci­proci, essa non possiede Ia natura del giusto. Se poi cio che era utile secon­do giustizia viene a decadere, pur avendo per un certo tempo corrisposto al­Ia prenozione del giusto, cio non vuol dire che non lo fosse durante que! tempo, se non ci si vuol turbare per vane chiacchiere rna guardare sostan­zialmente ai fatti.

Questi cenni sui primigenio contratto che sta all'origine delle societa uma­ne e sulla relativita utilitaristica delle leggi, si ricollegano, indubbiamente, al pensiero politico dei sofisti, rna sono svolti in una direzione diversa. A Epicuro non interessa tanto un'analisi spregiudicata dei meccanismi politici in vista della formazione di un retore piu capace e persuasivo, quanto il ribadire che i valori autentici sono quelli etici e che l'uomo puo e deve riappropriarsene. Se il sapiente vuole conservare 1' atarassia, deve tenersi rigorosamente lontano dalla vita politica: «Liberiamoci una buona volta dal carcere delle occupazioni quotidiane e dalla politica».

6.9 La politica. L'uomo e padrone del suo destino: «e stolto chiedere agJi dei quello che possiamo procurarci da noi stessi». «ll tuturo- scrive Epicuro a Meneceo- non e del tutto nostro ne del tutto fuori della nostra portata». AI contrario, i moti dell'anima, leggiarr~ in un 1ungo frammento del Sulla natura, dipendono in gran parte· «dalla nostra volonta», dal nostro «libero volere», dal­le possibilita della nostra ragione e non dalla «cieca necessita».

Stabilire, come fa Epicuro, che la societa e le leggi hanno una validita o meglio un'utilita storicamente determinate e che, a sostegno del !oro presunto valore assoluto, non c'e la garanzia degli dei ne l'impalcatura della religione, significa porre il sapiente al di fuori o, comunque, al di sopra delle leggi, vali­de invece per <<i molti», peril <<volga». Con questo, pero, Epicuro non vagheg­gia affatto, come i cinici, un ritorno improbabile alla societa primitiva. Come nell'evoluzione del linguaggio, tracciata nell'Epistola a Erodoto, cosi anche nelle altre articolazioni del vivere in societa, l'uomo e cresciuto in razionalita

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6- Epicuro D 201

gradualmente e progressivamente, affinando, nel corso della sua storia, le tee­niche e gli strumenti necessari per soddisfare i suoi bisogni. Anche Democrito (2.24) aveva esaltato l'autosufficienza del sapiente al di fuori della polis e delle sue leggi, rna il suo ideale etico non escludeva, a quanto sappiamo, la parteci­pazione alla vita politica. Del resto Nausifane aveva sviluppato la posizione de­mocritea appunto in senso politico: chi conosce la vera natura delle cose e an­che capace di esercitare meglio di altri l'arte retorica. Questo sviluppo e espli­citamente rifiutato dal «Vivi nascosto» (lathe biosas) degli epicurei. Non a caso il fedelissimo Metrodoro, che avrebbe ereditato la guida del Giardino se non fosse premorto ad Epicuro, dedico ben due opere (per noi praticamente perdu­te) all'argomento: Contra chi dice che la scienza della natura fa diventare buoni oratori e Che presso di noi c'e maggiore ragione di essere felici che non parteci­pando atla vita pubblica.

Non si tratta della solita esaltazione della vita di studio che troviamo in tanta parte della letteratura greca dal.V sec. a.C. in poi, ne del primato della vita contemplativa sulla vita attiwa. Epicuro e alla ricerca di un tipo di vita che non vuole essere di pura contemplazione (che vale la ricerca non finalizza­ta, non subordinata ai bisogni etici dell'uomo?) rna che, d'altra parte, non puo piu trovare un suo naturale prolungamento nella vita politica. Con questo, pe­ro, il saggio epicureo non e ne un isolato ne un anarchico, non ha nulla in co­mune con il filosofo cinico, mendicante e errabondo. L'alternativa proposta da Epicuro e la vita delle sue comunita; la risposta ai turbolenti eventi politici sta nel modo di vivere dei saggi, nella loro chiara conoscenza della natura del­le cose e nel profondo legarne dell'amicizia che accornuna quanti si stringono attorno alla figura esemplare del maestro. Il Giardino, la scuola, puo riuscire la dove la societa politica si e dimostrata impotente, vuole essere un modello di societa riuscita. Tuttavia anche nel ripudio della partecipazione attiva alla vita politica Epicuro evita di assumere una posizione rigida e massimalista. Se lo ritiene opportuno, il saggio i•1~aeterminate circostanze, sapra anche servire il principe: la cui protezione puo essere garanzia di sicurezza, puo contribuire al mantenimento dell' atarassia. B comunque fondamentale che il saggio ricor­di sempre che l' opera di salvezza nei confronti della societa non si situa sul piano politico rna su quello etico e comunitario: «non c'e da salvare gli Elleni» si Iegge in un frammento di lettera a Metrodoro.

6.10 La comunita epicurea. Nei confronti delle scuole filosofiche precedenti quella di Epicuro rappresenta una singolare novita. L'Accademia platonica (4.2), ad esempio, almeno nei primi tempi, intendeva preparare alla vita attiva del politico e, anche se forse non escludeva per principia le donne, aveva cer­tamente una struttura abbastanza chiusa; l'amicizia coltivata dai suoi membri era intesa come mezzo di reciproco sostegno in vista della contemplazione dell'Essere Supremo e del raggiungimento della dialettica. Il Giardino, invece, e aperto agli schiavi e alle donne, non solo alle spose legittime rna alle etere (a una di esse, Leonzio, fu affidata anche la presidenza temporanea della scuola), suscitando non poco scandalo presso i benpensanti, e persegue l'obiettivo dell'amicizia coltivata come fine in se. L'amicizia (philia) non e piu solo una in­termediaria verso la sapienza, e qualcosa di piu della stessa sapienza.

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L'uomo onesto coltiva soprattutto sapienza e amicizia; e di questi l'uno e bene mortale, l'altro immortale.

L'acquisto dell'amicizia e «il bene pili grande» ed e «desiderabile di per se, anche se ha avuto il suo inizio dall'utile».

Non sa esercitare l'amicizia chi cerca sempre in ogni occasione l'utile, rna nemmeno chi non sa mai umre l'amicizia all'utilita; l'uno col pretesto dell'affetto mercanteggia il cambio, rna l'altro si taglia via ogni buona spe­ranza per il futuro.

II Giardino non e fondato sui principio, caro a Pitagora e a Platone, della rigorosa comunanza dei beni, rna su una reciproca solidarieta morale e mate­riale che si esercita soprattutto nei momenti di pili stringente necessita. 11 mantenimento dei discepoli essendo a carico della scuola, Epicuro tassa ognu­no dei suoi amici per una certa quota, chiedendo di pili a chi, come Idomeneo, per la sua importante posizione politica puo offrire un aiuto pili generoso.

11 saggio non soffre di piu se e messo alla tortura che se e messo alla tortura un amico; e sapra morire per lui; se mai tradisse l'amico, la sua vita per questa infedelta sara sowertita e sconvolta.

Nel parlare della philia, a volte con grande finezza psicologica, Epicuro ri­corre anche ad espressioni del linguaggio religioso, dei misteri.

Bellissima e la vista del prossimo se subito nasca accordo al primo in­contra, o almena una seria disposizione a cia.

Non sono da apprezzarsi i troppo facili all'amici:da, rna neanche i troppo esitanti; per amore dell'amicizia bisogna infatti atrischiarsi nell'amore.

L'amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l'un l'altro.

Con la prassi del mutuo soccorso e con questa concezione gioiosa e rassicu­rante dell'amicizia, il Giardino ci offre, senza dubbio, il modello pili alto di un ideale comunitario a cui il mondo occidentale sia pervenuto prima delle cornu­nita cristiane.

La comunita epicurea si differenzia dalle altre scuole per alcuni suoi aspet­ti religiosi. Numerosi frammenti di lettere conservateci da Filodemo di Gadara ci rivelano Epicuro e Metrodoro nc:le vesti di solleciti e attenti direttori spiri­tuali. Mentre sono ancora in vita, vengono istituite delle feste in loro onore. Ha inizio cos! quel culto di Epicuro e dei primi epicurei che si accentuera nei secoli successivi. D'altra parte Epicuro non paragonava forse il saggio a un dio in mezzo agli uomini? La vita che egli conduceva, il carattere sicuro e dog­matico della sua dottrina, la sua immutabile fermezza di fronte a tutti i colpi del destino, il modo stesso, paradigmatico, con cui affronto la morte, confer­mavano agli occhi dei discepoli ch' egli fosse pili che un uomo. 11 so brio bigliet­to inviato in punto di morte ai discepoli lontani da la misura della sua perso­nalita e della sua profonda umanita.

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6 - Il primo stoicismo 0 203

Ti scrivo mentre sto vivendo il felice ultimo giorno della mia vita. Mi so­no sopravvenuti dolori tali alla vescica e aile viscere che non ce ne possono essere di maggiori; rna a tutti resiste e contrasta la serenita dell'anima, nel ricordo dei nostri ragionamenti filosofici di un tempo. Tu ora, come si con­viene a quella buona disposizione verso di me e verso la filosofia che hai avuto fin da fanciullo, abbi cura dei figli di Metrodoro.

Mentre 1' Accademia e il Liceo non hanno mai conosciuto forme di culto per il loro fondatore, la figura di Epicuro resta nel Giardino quella del 'salvatore', che ha dissipate le nebbie delle superstizioni e ha liberato gli uomini dal dolo­re. Come appunto cantera, molto tempo dopo, Lucrezio.

Un clio, un clio, o Memmio, dovremo noi dire, fu egli che discoperse per primo siffatta scienza di vita che di saggezza ha ora il nome; e, per primo, da tanto selvaggio infuriare di flutti, da tante tenebre folte, in cosi placido porto e sereno fulgore di luce, la nostra vita guido.

II primo stoicismo

6.11 II sistema stoico. A sei anni di distanza dalla fondazione del Giardino, nell'anno 300 a.C., un ex mercante di origine fenicia, Zenone di Cizio, (332-264) apri ad Atene un nuova scuola, che dalluogo prescelto per tenervi le lezioni, il portico (stoa) del mercato affrescato da Polignoto, prese il nome di stoicismo. In contrasto con l'immutabilita dell'epicureismo, al quale consapevolmente si contrappose, con puntiglio, in un autentico corpo a corpo filosofico, lo stoici­smo conobbe u~ continua evoluzione.

La sua lunga storia e di solito suddivisa in tre diverse fasi: il prima stoici­smo (dal semita Zenone al semita Crisippo), lo stoicismo di mezzo (Panezio e Posidonia) e lo stoicismo dell'eta imperiale (Seneca, Epitteto, Marc' Aurelio). Il fatto che si abbia una documentazione diretta solo per la terza fase e che per le precedenti, se si accettua l'lnno a Zeus di Cleante, si debba ricorrere a fonti tarde (dal I sec. a.C. in poi) non sempre sicure e coerenti, rende difficile una ricostruzione puntuale delle singole posizioni.

Cia nonostante, gia nel primo stoicismo si puo distinguere il primitive inse­gnamento zenoniano dall'interpretazione fisico-teologica del suo successore Cleante e dall'opera di sistemazione e di rifondazione compiuta da Crisippo di Soli (281/77-208/4).

Limitandoci comunque a presentare per grandi linee il 'sistema' stoico, prendiamo l'avvio dalle importanti definizioni di arte (techne: noi diremmo 'ar­te del vivere') e filosofia, dove ritroviamo la finalizzazione etica dell'indagine gia incontrata in Epicuro.

Gli stoici dicono che la sapienza (sophia) e una scienza di cose divine e umane; che la filosofia e esercizio di un'arte conveniente; che conveniente e

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204 D 6 - II prima stoicismo

soprattutto Ia virtu, e che vi sono tre virtu generalissime, una fisica, una etica, una logica, per cui anche la filosofia si divide in tre parti, fisica, etica, logica.

( ... ) rna Ia virtu e insieme pratica e teoretica. Contiene un elemento teori­co quanto alia filosofia, ch'e Ia via per pervenire ad essa, divisa nelle sue tre parti, logica, etica, fisica; e possiede un elemento pratico: Ia virtu e in­fatti arte dell'intera vita, quella vita nella quale tutte le azioni sono compre­se. Ma allora, posscdendo un elem~:nto teorico e uno pratico, supera per ec­cellenza Ia teoria e Ia pratica.

Per indicare la compenetrazione delle tre parti gli stoici indugiano su di­versi esempi, paragonando la filosofia ora ad un frutteto, ora ad un uovo, ora ad un organismo animale. La logica e invariabilmente la cinta di muro del frutteto, il guscio dell'uovo, le ossa e i muscoli dell'animale. Pili controverso il rapporto g-erarchico tra fisica ed etica. ln Posidonio e l'etica !'anima dell'ani­male (i frutti del frutteto, oil tuorlo dell'uovo), mentre Ia filosofia nee il san­gue e la carne (gli alberi del frutteto, o la chiara). Le parti sono invece inverti­te in Crisippo che, secondo Diogene Laerzio, poneva, con una progressione pia­tonica verso l'alto, la fisica come ultima <<perche e pili divina e abbisogna di pii:1 profondo studio». L'oscillazione su questo punto trova, come vedremo (6.15), una sua giustificazione nella peculiare trattazione stoica dell'etica e del­la fisica: l'ordine naturale e cosmico non e diverso dall'ordine degli atti uma­ni, che sono morali nella misura in cui si collegano all'ordine razionale dell'universo.

La filosofia e comunque per gli stoici una scienza sistematica, organizzata e articolata, che non si esaurisce affatto in una gene rica saggezza etica. L' ars vivendi, l'arte del vivere, di cui parlano gli stoici, e in effetti una capacita di procedimento razionale che deriva da un organico complesso di conoscenze.

6.12 La logica. La parola chiave della stoicismo e logos. Nella sua duplice accezione di linguaggio e di ragione, il logos distingue l'uomo dalle fiere e lo unisce quasi in un unico organismo con gli dei: il logos infatti e anche il prin­cipia reggitore dell'universo. Per questa la logica non e piu, per gli stoici, un puro strumento della conoscenza, secondo la tradizione dell'Organon aristote­lico, rna una parte costitutiva della filosofia. Come non e corretto dire che la medicina si serve della chirurgia perche la chirurgia non e una scienza indi­pendente dalla medicina, allo stesso modo non si puo dire che la filosofia si serve della logica, che non e strumento di cui si valgano altre arti, rna e filoso­fia, senz'altre specificazioni. Le indagini lc.6 iche degli stoici, dovute soprattut­to a Crisippo, sono state a lungo misconosciute: e stata la logica moderna, da Jan Lukasiewicz (1935) a Benson Mates (1953), che ne ha rivelato l'originale modernita.

Le premesse della gnoseologia degli stoici sono in accordo con la lora fisica materialista: le idee si formano a partire da rappresentazioni particolari. II fatto primae la rappresentazione (phantasia), definita in termini pili o meno ma­teriali come 'impressione' o 'alterazione' dell'anima. A differenza dei fantasmi prodotti dall'immaginazione, la rappresentazione testimonia l'oggetto esterno che la produce. Quando si presenta come l'effetto certo e l'immagine esatta di questa oggetto, si ha la rappresentazione comprensiva.

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Mala rappresentazione none che l'inizio di un processo nel corso del quale essa e assunta da un atto di libero 'assenso'. Questo assenso si chiama com­prensione quando si rivolge ad una rappresentazione comprensiva.

Zenone ( ... ) presentando innanzi Ia mano aperta, con le dita stese: «ecco (diceva\ cosl e la rappresentazione,. Poi. contraendo un po' le dita: «e cosi e J'assenso». E quando le aveva strette del tutto e fatto il pugno, quella diceva ess~l:e la comprensione: dalla qual similitudine le pose anche il nome, non prima usato, di comprensione. Quando poi aveva accostato la mano sinistra (alla destra a pugno), e compresso quel pugno ad arte e con gran forza, cosi diceva essere la scienza, della quale nessuno ha il possesso, fuor che il sa­piente.

L'errore consiste dunque nel dare il proprio assenso ad una rappresentazio­ne che non abbia in se tanta evidenza da presentarsi appunto come comprensiva.

Daile rappresentazioni sensibili nasce, grazie alla memoria, l' esperienza, che implica la formazione di nozioni comuni o prolessi. Queste sono universali perche sono nomi collettivi e non perche in gra-do di designare le essenze delle cose; non sono propriamente innate, preesistenti cioe nella nostra mente, rna in qualche modo connaturate all'uomo, visto che tutti gli uomini arrivano a formarsele. Reali, per gli stoici, sono soltanto i carpi e gli individui; l'universa­le esiste come funzione del discorso. Solo in questa accezione si puo continua­re a parlare di categorie che, rispetto aile dieci aristoteliche, gli stoici riduco­no a quattro (soggetto, qualita, stato, relazione) pili un genere sommo, il quid, 1' alcunche indefini to.

La logic a vera e propria comprende la dialettica ( << scienza del discutere ret­tamente nei discorsi a domanda e risposta ... scienza delle cose vere e false e di quelle ne vere ne false») e la retorica («scienza del bene esprimersi nei ragiona­menti a mo' di dissertazione»). Di gran lunga pili importante, la dialettica stu­dia il linguaggio sotto tutti i suoi aspetti: << essa verte, come dice Crisippo, sui segni e sulle cose significate». Tre elementi sono connessi tra di loro: il signifi­cante o segno, il significato e la cosa esistente. Il significante e il suono (per esempio Dione) a cui s' oppone la cosa esistente fuori di noi (l'uomo Dione): en­trambi sono oggetti fisici, carpi. Il significato invece non e corpo, sussiste solo come fatto puramente intellettivo, tanto e vero che i barbari, pur afferrando il suono, non capiscono il significato di parole pronunciate in greco. Il giudizio di vero e falso non riguarda ovviamente ne il significante ne l'evento-oggetto, che sono corpi, rna esclusivamer.te i sigilificati.

Elaborando la teoria dei significanti, gli stoici divennero i fondatori della grammatica occidentale: le loro classificazioni, un po' pedanti rna preziose, hanno permesso di distinguere le 'parti del discorso' e le flessioni morfologi­che; i nomi che ancor oggi diamo ai diversi casi della declinazione (nominati­vo, accusativo ... ) e l'analisi dei tempi e dei modi dei verbi derivano dalle loro analisi e distinzioni.

~ La teoria dei sig11ificati parte dallo studio dei \significati incompleti' sog-getto e predicato; la loro unione forma un 'significato completo', una frase. Quando questa asserisce qualcosa ed e quindi suscettibile di essere vera o fal-

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sa, si ha una proposizione. Una proposizione puo essere semplice (<<e giorno», <<Socrate cammina») o complessa («se e giorno c'e luce>>, <<0 e giorno o e notte» ). Le proposizioni semplici hanno sempre per oggetto un individuo ed esprimono non l'inerenza del predicato a una sostanza, o l'inclusione del sog­getto in una classe, rna un'azione o un avvenimento (<<Socrate muore»). Le pro­posizioni universali del tipo «l'uomo e un animale razionale mortale>>, tanto care ad Aristotele, non sono semplici, per gli stoici, rna complesse. Dalle com­binazioni di proposizioni semplici si hanno infatti le proposizioni complesse, che gli stoici studiano astraendo totalmente dal contenuto delle proposizioni semplici che le compongono; ricercano infatti le condizioni della loro validita e non della loro verita. Con questa operazione gli stoici fanno della logica una teoria di schemi di inferenza e non piu una teoria di matrici logicamente vere, come quella aristotelica. La logica stoica e proposizionale (l'enunciabile mini­roo e la proposizione) e si basa su una relazione di fatti enunciati per mezzo di proposizioni; viceversa quella aristotelica considerando come elementi primi i concetti (e non le proposizioni) si fondava sulla relazione di inclusione che hanno fra loro i concetti. Gli stoici concentrano l'attenzione sulle funzioni dei connettori -proposizionali come «Se>> (condizionale), <<e» (congiunzione), <<O» (di­sgiunzione) ... Il valore logico (non la verita) di un'argomentazione come «Se e giorno c'e luce, rna e giorno dunque c'e luce>>, non dipende affatto dalla dimo­strazione delle premesse, ne dai fatti enunciati nelle proposizioni, rna dal nes­so logico degli enunciati. L'argomentazione ha validita perche, posto il nesso tra antecedente (<<See giorno») e conseguente («c'e luce») non puo aversi l'ante­cedente senza che si abbia il conseguente; una conclusione diversa significhe­rebbe cadere in contraddizione.

Su questa base gli stoici edificano una teoria del rigore formale e dimostra­tivo che distin!!ue con chiarezza le condizioni di validita (quando e che un di­scorso e o non e corretto) dalle condizioni di verita, come appare dai 'cinque SGhemi' proposti da Crisippo.

PRIMA PREMESSA

1. Se e giorno c'e luce (implicazione)

2. See giorno c'e luce (implicazione)

3. None giorno ed e notte (negazione di una co1tgiunzion.:j

4. 0 e giorno 0 e notte ( disgiunzione)

5. 0 e giorno 0 e notte ( disgiunzione)

SECONDA PREMESSA

E giorno (antecedente dell'implicazione)

Non c'e luce (contrario del conseguente dell'implica­zione)

E giorno (uno dei congiunti)

E giorno (uno dei disgiunti)

None notte (il contrario di uno dei disgiunti)

CONCLUSION£

Perci<'> c'e luce (conseguente dell'imp!icazione) None giorno (contrario dell'an­tecedente dell'imp!icazione)

Percio non e notte (il contrario dell'altro dei congiunti)

Percio non e notte (i! contrario dell'altro dei disgiunti)

Percio e giorno (l'altro disgiunto)

6.13 La fisica. Il mondo e, per gli stoici, totalmente dominato dalla ragione, senza alcuna concessione all'irrazionalismo, al caso e al disordine. Il movimen­to, il divenire, il tempo non sono indice di imperfezione; in polemica chiara con Aristotele, gli stoici affermano che <<il movimento e in ogni istante un atto e non un passaggio all'atto>>. La razionalita del mondo non consiste piu

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6- ll prima stoicismo 0 207

nell'immagine di un ordine immutabile, rna nell'attivita di una ragione, il lo­gos, che tutto sottomette al suo potere e che e insieme attivita fisica e corpo­rea. Il mondo e un pieno: al suo interno non c'e il vuoto, come ipotizzava Epi­curo; il vuoto infinito e per gli stoici al di fuori del mondo. Tutto quel che e reale e un corpo, con la propria individualita distinta dalle altre; esiste infatti solo cia che e capace di agire e di patire e soltanto i corpi hanno questa capa­cita. E corpo la ragione che agisce, come e corpo cia che subisce la sua azione, la materia. Corporei sono dunque <d due principi di tutte quante le cose, l'atti­vo e il passiVO>>. Il passivo e «}a SOStanza spoglia di qualita, cioe la materia>>, l'attivo e «la ragione che e in quella, ossia Dio, il quale, essendo eterno, in tut­ta quanta quella crea tutti i singoli esseri». Ambedue questi <<principi>> sono in­generati e indistruttibili e stanno tra di loro in una relazione cosi stretta da potersi dire compenetrazione totale, che comunque non fa perdere ai due prin­cipi niente delle loro proprieta; come nell'unione del vino e dell'acqua, la ra­gione si compenetra nella materia, l'anima nel corpo. L'ammissione della divi­sibilita all'infinito della materia - di contro alla teoria epicurea delle unita indivisibili - permette agli stoici di interpretare in termini fisici la compene­trazione dei due principi.

Il principia attivo e di volta in volta identificato come causa, Dio, ragione, pneuma (respiro o soffio vitale), anima e fato. Proprio nella definizione di prin­cipia attivo si coglie il carattere particolarissimo del <<materialismO>> stoico.

Tutto cio che vive, sia animale, sia pianta sorgente da terra, vive per il calore in esso racchiuso. Dal che si deve intendere che quella natura del ca-lore ha in se una forza vitale, diffondentesi per tutto il mondo ... Tutte dun-que le parti del mondo ... si mantengono sostenute dal calore ... ; e il mondo stesso da una simile e ugual natura e conservato in tanta lunga durata, e si deve intendere che quel calore e que! fuoco e cosi compenetrato con tutta Ia natura che in esso sta Ia forza di ogni procreazione e la causa d'ogni nascita.

Un materialismo dinamico, quasi spiritualizzato, che si rifa ad Eraclito (2.9) per riproporre l'immagine significativa del fuoco cosmico, che penetra fino al­le parti piu vili della materia. Gia in Zenone il pneuma divino costituisce l'ani­ma del cosmo come 'fuoco tecnico', fuoco che opera con arte.

Gli stoici dicono che la natura e un fuoco che opera con arte, proceden­te, con metodo, alia generazione.

( ... ) definiscono natura ora la forza che tiene insieme l'universo, ora quel­la che fa nascere i prodotti del suolo. Naturae capacita di muoversi sponta­neamente Secondo Je ragioni seminali, compiendo e tenendo insieme le COSe che sono di suo dominio in tempi definiti ed effettuando risultati simili a cio da cui derivano. Essa si sforza di raggiungere !'utile e il piacere, com'e chiaro da queUe arti che sono proprie dell'uomo.

Questa concezione rifiuta sia il procedimento causale-teleologico di Aristo­tele sia il demiurgo platonico. La demiurgia e, per gli stoici, forza interna im­manente al cosmo, non e opera di agente esterno.

«Giove fabbrica al modo di un artigiano, rna foggia tutte ·le cose scorrendo

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tutto all'interno della materia»; non c'e piu il motore immobile ne l'artigiano al di fuori della natura, rna la natura stessa ha ereditato i caratteri dell'azione di quell'artigiano esterno.

6.14 La teologia. Di'qui gli altri attributi con cui gli stoici amana di volta in volta qualificare il pneuma divino: Dio intelligente e provvidente, logos e men­te reggitrice (l'egemonico). ragione seminale. (logos spermatikos) di tutte le ca­se. neccssita e costrizione (animke). Lo splendido lnno a Zeus scritto da Cleante (304-233 a.C.), successore di Zenone alia guida della Stoa, presenta il Dio stoico a un pubblico piu ampio usando gli epiteti e gli attributi della Zeus omerico. II destino, la ragione del mondo e lo Zeus della tradizione vi sono identificati in un nesso indissolubile. Mentre pen), secondo il rigoroso pantei­smo di Zenone, «Dio opera anche il male nel mondo; ed e presente pure nei ri­fiuti, nei lombrichi, nei criminali>>, in Cleante il sentimento religioso ha la me­glio sulla coerenza razionale. L'origine del male non va cercata nella divinita rna nella natura umana, Zeus ha soltanto il potere di utilizzare anche la malva­gita per governare il mondo, di volgere in diritto lo storto.

Zeus, supremo degli immortali, signore dell'universo dai molti norni, ori­gine della natura, che ogni cosa con Iegge .e regola governi, salute! A tutti i mortali s'addice invocarti, poiche provengono dalla tua stirpe. Ma solo all'uomo hai dato !a favella tra quanto vive e s'agita sulla terra. Sia gloria a te. II mio canto celebri sempre Ia tua potenza. Volentieri ti ubbidisce il mondo che gira intorno alia terra, ti segue ovunque tu lo conduca, sotto­messo alia tua potente volonta ...

Lo spirito che anima l'Jnno di Cleante caratterizza anche il proemio con cui Arato (III sec. a.C.) apre i suoi Fenomeni, il poema commissionatogli da Antigono Gonata, re di Macedonia, per illustrare il meraviglioso ordine dei fe­nomeni celesti.

Da Zeus si incominci! Che mai il suo nome sia taciuto da noi, uomini! Poiche di lui sono piene tutte le strade, tutti i mercati degli uomini, di lui sono pieni il mare e i golfi e i porti del mare. Noi tutti abbiamo bisogno di Zeus, che siamo della sua stirpe. E lui che benigno mostra agli uomini quel che !oro serve; lui li sveglia a! lavoro e richiama alia memoria cio che oc­corre !oro nella vita. Lui indica il momento rnigliore in cui la zolla e pronta per l'aratro e per la zappa, lui dice il momenta giusto per scalzare gli alberi e g~ttare ogni seme. Egli ha ordinato le stelle e posto cosi in cielo segni per noi, che indicano all'uomo nel modo migliore que! che sia da fare durante il corso dell'anno e in ogni stagione, affinche tutto prosperi secondo leggi in­violabili.

II poema di Arata conobbe una straordinaria fortuna: lo ~;ito anche San Paolo nel suo discorso all'Aeropago. Fu tradotto in latina da Varrone Atacino, da Cicerone, da Germanico ed Avieno. E. una precisa conferma della grande popolarita e della comprensibilita generale della religiosita stoica. D'altronde per gli stoici il monoteismo filosofico non ripudiava la religione tradizionale, ne permetteva anzi il salvataggio offrendo uno spazio anche per gli dei antro-

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pomorfici. Come attestano il MaHuale di teologia greca di Cornuto (I sec. d.C.) e numerose altre testimonianze che risalgono anche a Zenone, gli stoici adotta­rono infattj_ un metodo di interpretazione allegorica, discutibile e talvolta inge­nuo, in base al quale gli dei dell'Olimpo sono recuperati come personificazione dei diversi modi di agire, in parte fisici in parte spirituali e morali, della ra­gione del mondo.

Lo chiaman Giove (Dia) in quanto tutto e per (dia) esso, Zeus in quanto causa del vivere (zen) o penetrante in ogni vita, Atena in quanto diffonde il suo governo sull'etere. Era in quanto sull'aria, Efesto in quanto sui fuoco artefice, Posidone in quanta sull'acqua, Demetra in quanto sulla terra, e si­milmente gli altri nomi attribuivano seguendo altre proprieta.

L'universo non e eterno, ha una sua nascita e una sua dissoluzione: come dal fuoco tutto deriva, cosl, ciclicamente, tutto nel fuoco si consuma (ekpyro­szs conflagrazione universale).

Dicono gli stoici che quando nel !oro moto gli astri sian tornati allo stes­so segno e alia longitudine e latitudine proprio dov'era ognuno al principio, quando da prima l'universo si costitul. nci detti cicli dei tempi si compie una conflagrazione e distruzione degli esseri; e di nuovo dal principio si tor­na allo stesso ordine cosmico; e di nuovo movendosi ugualmente gli astri, ogni avvenimento accaduto nel precedente ciclo senza alcuna differenza tor­na a compiersi. Vi sara infatti di nuovo Socrate, vi sara Platone e ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; e le stesse cose saran credu­te e gli stessi argomenti discussi, ed ogni citta e villaggio e carnpagna ugual­mente ritornera; e questo ritorno universale non una sola, rna molte volte si compira; anzi all'infinito e senza termine mai torneranno le stesse cose.

Proprio perche il principia attivo si compenetra intimamente con tutta la materia, l'universo e unita; il principio attivo crea al suo interno una <<tensio­ne» (tonos) che, differenziandosi per gradi, produce tutti gli esseri particolari, da quelli inanimati che hanno un minimo di tensione a quelli razionali. Si sta­bilisce cosi un profondo legame di sympatheia fra tutte le parti che compongono il cosmo: tutto confluisce in un'unica vita, il cosmo e un essere vivente ammato.

Sulla terra, pasta al centro di questo universo - Cleante condanno come empia la nuova teoria eliocentrica di Aristarco (6.2) - e sul destino degli uo­mini influiscono necessariamente i moti dei corpi celesti guidati dall'anima del mondo. Se, come dimostravano i Fenomeni di Arato, tutto e volto alla rea­lizzazione di un piano perfettarrie'nte razionale, sono possibili la divinazione del futuro, la mantica, le previsioni per mezzo dei sogni e l'astrologia.

Anche il problema della teodicea, nonostante le divergenze fra Zenone e Cleante, nella sistemazione successiva, operata dal secondo fondatore della Stoa, Crisippo, appare risolto: all'interno del tutto, provvidenzialmente orga­nizzato secondo un fine, non possono esistere mali reali, rna solo apparenti.

Il male( ... ) ha una ragione sua propria: perche anch'esso nasce in un cer­to modo secondo la ragione della natura e, per cosl dire, non nasce senza utilita per il tutto: che altrimenti non ci sarebbero i beni.

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Nulla infatti esiste ne accade senza causa nel mondo, perche non v'e nul­la in esso di sciolto e separato da tutti i precedenti. Si dividerebbe infatti e si spezzerebbe e non resterebbe mai uno il mondo, che e sempre governato da un solo ordine e disegno, se insorgesse un movimento senza causa ( ... ) E fa to e natura e ragione, secondo cui tutto si governa, dicon es~ere Dio, pre­sente nelle cose e nei fatti tutti e cosi adoperante tutte le cos"'e per propria natura alla economia del tutto.

La distanza dalla fisica e dalla teologia di Epicuro non potrebbe essere piu netta. In ambedue le posizioni si riconoscono tuttavia i tratti di una preoccu­pazione comune: trovare, anche nell'indagine sulla natura, el~menti di riferi­mento tali da rassicurare l'individuo e da fargli superare, con l'aiuto di una si­stemazione razionale e organica, le gravi difficolta che ormai incontra nel comprendere il mondo e, nel mondo, se stesso.

6.15 L'etica. In questo universo l'uomo occupa il posto di unico essere ad un tempo mortale e razionale, e in quanta tale egli e un microcosmo, riprodu­ce cioe la struttura del mondo. L'anima e un corpo, una particella staccata del logos universale che, diffusa nell'intero organismo, gli conferisce sensibilita e movimento. Gli stoici tendono a trattare l'uomo come una totalita psicosoma­tica; il problema del destino dell'anima dopo la morte li interessa moderata­mente; in generale' ammettono una sopravv~venza relativa, variabile secondo il grado di saggezza e, di forza dell'anima, m;' che non supera la prima <<confla­grazione» posteriore alla morte. Un'altra tendenza rilevante della psicologia stoica e di evitare il piu possibile di ipostatizzare i diversi poteri e atti dell'anima in altrettante parti separate; se vi si distinguono delle parti e solo per sottolineare meglio il ruolo capitale direzionale dell' egemonico, localizzato nel cuore, che e il centro di una sorta di diffusione tentacolare le cui manife­stazioni sono le funzioni vitali, sensoriali, motrici, affettive e intellettuali.

Ma l'uomo ha ancora qualcosa da fare o da dire in un univers.o governato dall'immutabile destino? L'uomo deve innanzi tutto comprendere se stesso in rapporto col Tutto, riconoscere la propria identita col logos universale e accet­tarlo nell'assenso. Scopo della vita e, anche per gli stoici l'eudaimonia, la feli­cita: per raggiungerla, i1 saggio stoico deve farsi dominare dal logos, la sua vi­ta deve ricevere una forma fondamentalmente unitaria.

Il fine Zenone cosi determino: l'armonia della vita; cioe vivere secondo una ragione unica e armonica, in quanta e da infelici vivere in modo incoe­rente ... Cleante ... aggiunse le parole: con la natura, e cosi defini: il fine e di vivere in armonia con la natura. Il che Crisippo, volendolo rendere piu chia­ro, espresse in questo modo: vivere in modo conforme all'esperienza degli accadimenti naturali.

Pur riconoscendo che l'amore di se e certamente un impulso primordiale dell'animale e dell'uomo, Zenone stabilisce che i primi sforzi del fanciullo non si dirigono verso i1 piacere, rna verso la conversazione e lo sviluppo della pro­pria natura, che risiede nel logos: solo in un secondo momento si accompagna una sensazione di piacere.

Di contro alia posizione epicurea che contestava ogni valore autonomo del-

r !

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la virtu, la Stoa vede proprio nella vita morale, nel dominio della sensualita e delle passioni, l'esplidtazione piena della 'natura' umana. «Per gli esseri razio­nali, cui e data la ragione per una vita pili perfetta, il vivere secondo natura diventa un vivere secondo ragione» e vita secondo ragione significa regola de­gli impulsi, dominio su di loro, interiore liberta, attivita e non passivita. L'uo­mo conquista la liberta allorche riconos'ce che le cose di cui nn puo disporre rimangono al di fuori della sua scelta, della sua decisione e devono quindi es­sere considerate come «estranee» (allotria). E di che cosa puo disporre l'uo­mo? Solo della vita intima, di cia che comprendiamo, desideriamo e vogliamo; tutto il resto, cio che puo L-apitarci dall'esterno, compreso il nostro corpo, non dipende affatto da noi. II saggio stpico deve rendersi libero dai giudizi conven­zionali sul bene e sul male. Bene e cio che promuove la liberta interiore (la virtu), male cia che la fa perdere (il vizio). Quanto si trova in mezzo tra questi due termini, tutti i beni terreni, sono «indifferenti» (adiafora).

Pare ad essi che nulla ci sia di mezzo tra virtu e vizio, mentre i Peripate­tici dicono che di mezzo tra virtu e vizio c'e il progresso: giacche, dicon es­si, come un legno bisogna che sia o diritto o curvo, cosi (l'uomo) bisogna che sia o giusto o ingiusto e non piu giusto o piu ingiusto, e analogamente per il resto.

Vie intermedie e sfumature non esistono. None ammesso un passaggio dal bene al male, un abisso separa la luce dalle tenebre. La virtu e una per dei e mortali, per uomini e donne; chi l'ha raggiunta non pua assolutamente perder­la, perche e divenuta per lui un abito strutturale. Questa unita della virtu non vieta tuttavia di ammettere distinzioni a seconda del campo cui essa si rivolge: abbiamo cosi le quattro virtu prime (le nostre 'cardinali'), prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, ognuna delle quali si suddivide in pili aspetti, attenta­mente studiati da Crisippo e dai suoi successori. Altro punto importante e che la virtu, essendo un' arte, puo come ogni arte essere insegnata, partendo dai se­mi razionali che la natura ha posto in ognuno e arrivando alia vera scienza (episteme).

Le passioni - quattro sono le fondamentali (piacere, dolore, desiderio e paura) - vogliono legare l'uomo alle cose «estranee». Considerate come feno­meni patologici della psiche, capaci di turbare l'autodeterminazione del logos, e non come forze da canalizzare, le passioni devono essere estirpate alia radi­ce; il saggio deve togliere anzitutto credito ai giudizi errati, aile <<Opinioni per­verse» che sempre le accompagnano. Liberatosi da tutte le passioni (apatheia}, da queUe comunemente condannate (ira, paura, avidita ... ) come da quelle di solito giudicate impulsi lodevoli (pieta, affetti individuali...), il saggio raggiunge l'au­tosufficienza (autarcheia) 'e impara a sapersi astenere e a saper sopportare. Viene cosi a prender forma per la prima volta il concetto di dovere su cui tan­to si affatichera la filosofia posteriore: dovere e cio che la ragione esige che sia fatto e implica un superamento degli impulsi e degli istinti passionali.

Salute e malattia, ricchezza e poverta, cariche pubbliche e disprezzo, di per se, si e visto, sono cose indifferenti: il saggio non le considera altro che mate­ria per mettere alla prova la propria forza morale. Egli si ritira in se stesso, nella sua liberta interiore, e riconosce la divina legge cosmica che egli peral-

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212 0 6 - II prjmo stoicismo --------------------------------------------------------tro non puo mutare. Nell'accettarne anche le conseguenze piu crude e nel con­templare il grandioso spettacolo del governo divino del mondo, il saggio rag­giunge la pace e la gioia.

Conducimi, o Zeus, e tu, o destino, alla meta che mi avete prescritto. Io obbediro senza esitare. Anche se fossi un pazzo e non lo volessi, pure dovrei obbedire.

L'etica si riduce dunque ad una filosofia dell'accettazione? E la liberta che promette non e altro che una schiavitu interiorizzata? Anche in questa caso l'elaborazione stoica appare un singolare quanta importante tentativo di conci­liazione tra opposti. La concatenazione degli eventi e deterministicamente in­fallibile, eppure la legittimita del giudizio e dell'azione morale e salvaguardata perche e in nostro polere cooperare o meno, con l'assenso, all'ordine razionale del mondo, identificare o meno il nostro volere a auello del l6J2.DS.

La figura del saggio stoico e un ideale sublime, inesorabilmente lontano dallo stolto che vive in preda agli affetti o ai falsi beni. Una figura quasi fanto­matica - Crisippo dichiara di non essere un saggio, ne lo sono stati i suoi maestri -; un modello cosi perfetto da prestarsi alle frecciate ironiche di un Orazio: il saggio e l'unico sano «a meno che non abbia il raffreddore»! Rimane il valore paradigmatico del saggio, sull'esempio di Zenone che una volta ebbe a dire che avrebbe preferito vedere un solo santone indiana che si fa bruciare vivo di sua volonta, piuttosto che leggere mille trattati intorno alia virtu. Un ideale su cui l' etica stoica innesta la sua ferrea disciplina. La virtu si impone al di sopra di tutto, persino della vita: il suicidio e infatti moralmente legitti­mo quando le circostanze esterne rendono impossibile l'adempimento del do­vere. Lo attestano le scelte esemplari di Zenone, di Cleante e di tanti altri stoi­ci, fino ai romani Catone e Seneca. Una qualche compensazione al suo isola­menta puo venire al saggio dalla consapevolezza, tutta interiore, di appartene­re alla comunita che affratella i saggi di tutto il mondo, indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla condizione sociale e dalla nazione di appartenenza. Una solidarieta ideale che Crisippo formula in modo volutamente paradossale: «Se un sag:g:io, non importa dove, tende i1 dito con saggezza, tutti i saggi della terrane trarranno profitto». Siamo lontani dalla philia praticata nelle comunita epicuree. L'universo in cui lo stoico si sente inserito non hale dimensioni limi­tate rna concrete e rassicuranti del Giardino, si presenta piuttosto come la tra­duzione filosofica e religiosa del cosmopolitismo politico che siva preparando e che, ereditato dai Romani, i veri diadochi di Alessandro, si concretizzera nel progetto dell'impero universale (7 .1). In generale si puo dire che il sistema stoico si differenzia da quello epicureo per la capacita di elaborare una dottri­na persuasiva attraverso una serie di 'compromessi' che, comprendendo la tra­dizione filosofica e relig:iosa, cercano di abbracciare le nuove esigenze dei vari popoli dell'ecumene, balzati sulla scena della storia. Che l'operazione compiu­ta dagli stoici appartenga, piu compiutamente dell'epicureismo, al contesto po­litico e culturale dell'ellenismo e dimostrato dal successo incontrato nell'am­biente romano, dall'ininterrotta permanenza della scuola fino al IV sec. d.C., nonostante l'accanimento polemico degli avversari, e infine dall'eredita lascia-

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ta in seno al cristianesimo e, attraverso il cristianesimo, alla q.tltura europea, fino alle soglie dell' eta mode rna.

6.16 La politica. RiconducencYo tutto ad un unico criteria di valutazione, quello del comportamento morale, gli stoici pervengono consapevolmente al nuovo concetto della liberta interiore. Scrivera Epitteto: «lo sono libero, per­che in cio che penso e sen to nessun padrone, nessun impera tore puo in alcun modo interferire». Interiorizzandosi, la liberta non e piu il privilegio del citta­dino della polis, rna il diritto primario di ogni uomo, un bene che ciascuno puo conquistare con le proprie forze. Gli uomini si suddividono in saggi e in pazzi, non piu in elleni e barbari, ne in liberi e schiavi.

Al posto della distinzione, ancora mantenuta da Aristotele, tra elleni e bar­bari, subentra la sanzione dell'universalismo implicito nella nuova realta poli­tica e sociale.

Non dobbiamo vivere qui - si legge in un frammento della Politeia di Zenone- divisi in citta e in demi, e separarci gli uni dagli altri usando, cia­scuno, un proprio diritto, rna dobbiamo stimare tutti gli uomini come com­pagni di demi e nostri concittadini; unico sia il genere di vita come unico il mondo, alla maniera di un gregge che si nutre insieme di un medesimo pa­scola, retto da una stessa legge.

Alia dilatazione cosmopolita devono corrispondere nuovi compiti per i pa­stori del gregge: i monarchi ispireranno la loro azione alla filantropia, elevan­do quella che un tempo era semplice virtu privata (gentilezza, benevolenza amichevole) a dignita di virtu pubblica ed estendendola a tutti gli uomini. Il semita Zenone era dunque, e non a caso, dello stesso avviso del re Asoka (6.21) che, quasi negli stessi anni, rna al di Ia dell'Indo ed in nome dell'universalismo della dottrina predicata da Buddha, adottava la filantropia come prassi di go­verna e realizzava per la prima volta un'ecumene buddista oltre i confini dell' India.

Che lo stoicismo, a differenza dell'epicureismo, mirasse a coinvolgere nei suoi programmi anche i monarchi ellenistici, o che comunque questi fossero incuriositi dalla dottrina stoica, e dimostrato dall'interesse di un sovrano co­me Antigono Gonata (267-239 a.C.), che non solo seguiva le lezioni di Zenone ogni volta che si trovava ad Atene, rna cerco anche di condurre alla sua corte il maestro: dinanzi al suo rifiuto, si accontento di uno dei suoi migliori allievi, Perseo di Citio, al quale affido incarichi militari e commissiono anche un'ope­ra sull'Arte del governo. Analogamente, Sfero di Boristene, altro allievo di Ze­none, si reco alla corte di Cleomene, re di Sparta e ne assecondo le riforme che miravano a far tornare Sparta all'antico rigore della costituzione di Licurgo.

Ma se la societa si regge sulla razionalita del mondo e a questa devono ispi­rare la loro azione i reggitori dei popoli, e anche vero che per gli stoici i diver­si popoli o le leggi particolari hanno validita solo nella misura in cui sono il riflesso della legge naturale. A questa soltanto il saggio, in quanto cittadino del mondo, deve obbedire.

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E una posizione quanto mai stolta- riferisce Cicerone- stimare giusto tutto cio che e sancito negli istituti e nelle leggi dei popoli. E uno solo il di­ritto cui e legata la societa umana e che una sola legge stabilisce; la qual Iegge e la retta ragione del comandare e del proibire. E chi la ignora e in­giusto, sia che essa sia mai stata scritta oppure no ( ... ) La Iegge e perci<) Ia retta ragione, conforme a natura, diffusa in tutti, costante, eterna, che chia­ma al dovere comandando e distoglie dal delitto con il divieto.

La liberal interiore esaltata dagli stoici conduce anche ad una nuova impo­stazione del problema della schiavitu. Ad Aristotele la Stoa puo opporre il principia che «la liberta e il diritto di autodeterminarsi e nessun uomo e schiavo per natura». Anche lo schiavo, a differenza dell'animale, e un essere razionale e nei suoi riguardi, in base all'universale legge di natura, abbiamo delle obbligazioni. E se Crisippo definisce lo schiavo un « salariato a vita», e in Seneca che troviamo la denuncia chiara dell'arrogante superbia dei padroni e la consapevolezza altrettanto chiara della dignita umana che lega in una stessa condizione padrone e schiavo.

Pensa che costui che tu chiami schiavo -e della tua stessa natura, gode dello stesso cielo e, come te, respira, vive, muore. Come puoi vedere lui libe­ro, cosi lui puo vedere te schiavo.

Sarebbe tuttavia errata credere che gli stoici mettano in discussione l'isti­tuzione della schiavitu; l'accettano cosi come l'accettavano Platone e Aristote­le. Il loro disinteresse per la natura delle istituzioni umane e la focalizzazione dell'indagine sul solo piano etico (libero e il virtuoso, schiavo e il vizioso), fan­no perdere a queste enunciazioni egualitarie la loro incidenza positiva e rifor­matrice sulle strutture politiche e sociali.

Lo scetticismo antico

6.17 Da Pirrone a Timone. «Scettico» (dal gr. skepsis, ricerca, dubbio) e il termine usato, a partire dal I sec. a.C., per indicare l'indirizzo filosofico che, iniziato da Pirrone di Elide e da Timone di Fliunte, sara fatto proprio dalla Media (Arcesilao) e Nuova (Carneade) Accademia che si precisera meglio come scuola filosofica con i neo-pirroniani Enesidemo di Cnosso (I sec. a.C.) ed Agrippa (I sec. d.C.), fino a trovare in Sesto Empirico (tra il II e il III sec. d.C.) il suo sistematore e testimone piu autorevole.

Piuttosto incerte sono le notizie riguardanti la figura storica e la formazio­ne di Pirrone, (365-275 a.C.) pervenuteci in gran parte tramite Diogene Laerzio. Non e sicuro, ad esempio, se Pirrone sia stato iniziato in Elide alla dialettica della scuola megarica, mentre sembrano piu certi i rapporti col democriteo Annassarco di Abdera, insieme al quale avrebbe seguito la spedizione di Ales­sandro in Asia (dal 334 al 324), venendo cosi in diretto contatto con l'ideale dell'assoluta rinunzia e con l'impassibilita degli asceti indiani che allora veni-

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vano detti gimnosofisti... Se poi questa influenza indiana si debba qualificare genericamente come buddistica, o se si sia trattato piu specificatamente della syadvada, una dottrina scettica del giainismo certamente diffusa intorno al 330, e difficile stabilire. L'aneddotica biografica e ricca di contrasti. C'e un Pirrone solitario, silenzioso e indifferente a tutto, («nulla scansando ne guar­dando, affrontando tutto: carri, se ne incontrava, e precipizi e cani e cosi via, non avendo fiducia nei sensi») modellato secondo il canone cinico (3.16). Ma c'e anche un Pirrone modesto e prudente che non cerca affatto di scandalizza­re il prossimo e passa le giornate aiutando la sorella, levatrice, nelle faccende di casa e badando ai polli e al maiale; un uomo distaccato dalle consuetudini, rna pubblicamente onorato dalla sua citta natale che lo elesse «sommo sacerdo­te» e dalla stessa Atene. Altrettanto difficile e definire in che misura il patri­monio dottrinario dello scetticismo posteriore risalga a Pirrone che, socratica­mente, non voile mai mettere niente per iscritto, anche se e certo che tenne scuola e vi svolse un suo insegnamento. Un insegnamento rivolto forse piu a motivare l'indifferenza e l'imperturbabilita che caratterizzavano il suo stile di vita, che non a costruire vere e proprie formulazioni teoriche (come epicurei e stoici) o a confutare i filosofi dogmatici (come fara il suo successore Timone).

La sintesi piu ampia della «dottrina» di Pirrone ci e stata conservata nell'interpretazione di Timone:

( ... ) chi vuol essere felice deve guardare a tre cose: 1) quale sia Ia natura delle cose; 2) che atteggiarnento dobbiarno assurnere rispetto ad esse; 3) infi­ne che cosa ci risultera da tale atteggiarnento. Pirrone ha dichiarato che, quanto aile cose, esse sono del pari indifferenti, incerte e dubbie; per questo ne le nostre sensazioni, ne le opinioni sono veraci o fallaci; per questo dun­que bisogna non prestar fede ad esse, rna essere senza opinione, senza incli­nazione e senza agitazione, dicendo intorno ad ogni cosa che non pili essa e di quanto non 'sia, 0 che e e anche che non e, 0 che ne e ne non e; chi si rnantiene in questa atteggiarnento, Tirnone afferrna che anzitutto conseguira Ia afasia e poi J'irnperturbabilita.

Convinto che le sensazioni e le opinioni non sono mai degne di credito, Pir­rone invita a liberarsi dalle 'inclinazioni' che seguono alle 'opinioni' e dall"agi­tazione', che sempre accompagna l'inclinazione, e 11a barricarsi entro un'area di autosufficienza che solo il silenzio (afasia) puo garantire. Il saggio, dunque, an­che per Pirrone, ha per obiettivo !'ataraxia, rna questa non e ottenuta, come vuole Epicuro, col superamenlo dell'ignoranza superstiziosa mediante la vera scienza della natura o impeg:nando Ia comunita deg:li amici in una costante opera di liberazione dalle paure e dagli atfanni della quotidianita. Ail'ataraxia si perviene, .. secondo Pirrone, erigendo un rigoroso mutismo sia contro l'insta­bilita degli eventi esterni (la tyche) sia contro le preoccupazioni teoretiche e contro le perturbazioni causate da un uso improprio del linguaggio che e, co­me ogni gesto della vita quotidiana, convenzione e non puo cogliere la verita delle cose.

Nulla infatti Pirrone diceva bello ne brutto, ne giusto ne ingiusto; e si­milrnente in tutte le cose nulla e secondo verita, rna per convenzione e per abitudine gli uornini fan tutto, giacche ciascuna cosa none piuttosto questa che quello.

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Il solo uso corretto del linguaggio consiste nell'evidenziare l' «indifferenza>> (l'assenza di distinzioni) e l'incertezza delle cose e nel rendere piu cauta e riga­rosa la comunicazione tra individui introducendo formule limitative e negative (una cosa non e pili di quanta sia; e e non e; ne e ne non e). Al di fuori di que­sta funzione Pirrone, di cui i contemporanei apprezzavano «l'abilita nel parla­re sia col metoda espositivo, sia col metoda delle interrogazioni», pone la sola alternativa dell'afasia, la rinuncia totale a formulare qualsiasi giudizio. Se questi sono i termini entro cui si colloca il suo insegnamento, si puo afferma­re che Pirrone, nell'adottare in qualche modo la lezione dei gimnosofisti india­ni, prosegue anche e radicalizza il metoda instaurato dagli eleatici, quel proce­dere con argomentazioni deduttive non-contraddittorie sulla base delle quali Zenone aveva criticato la molteplicita e il divenire. Non per nulla Timone sce­gliera un elea te, Senofane (2.12), come guida nella sua discesa agli Inferi, rae­cantata secondo il modello america nel II libra dei suo Silloi, e proprio a Se­nofane fara pronunciare questa lode del maestro:

0 vecchio- dice Senofane a Pirrone- come, per quali vie sei riuscito a sottrarti alla schiavittt delle opinioni e delle vane elucubrazioni dei dotti? A te nulla importava di sapere quali venti soffiano sull'Ellade, ne quale sia l'origine e la fine di ogni cosa.

La decisione quindi di non lasciare nessuno scritto deriva in Pirrone da un preciso rifiuto delle dispute filosofiche, da una indifferenza per la cultura e la politica che, se ricorda analoghi atteggiamenti incontrati in Epicuro, si risolve in tutt'altra direzione, nella negazione cioe di ogni possibilita per il discorso in positivo sulla natura delle case e nell'invito ad uscire dalla crisi attraverso l'afasia.

Molti sono i tratti che differenziano Timone (320 ca-230 ca a.C.) da Pirrone. Nato a Fliunte, nel Peloponneso, intorno al 320, Timone conosce una giovinez­za avventurosa, si forma a lungo alla scuola megarica, non si rassegna come il maestro alla poverta, tiene scuola alla maniera dei sofisti e, attratto dalla fa­ma letteraria, scrive molte opere, tra cui poemi epici, tragedie e drammi sati­reschi. Dei frammenti a noi pervenuti quelli di interesse filosofico sono soprat­tutto i 140 versi che ci sono rimasti del poema Silloi (poesie irrisorie e satiri­che in tre libri), da cui emerge la costante polemica nei confronti dei filosofi dogmatici (soltanto Senofane e risparmiato) e delle contemporanee scuole epi­curea e s toica.

Con Timone lo scetticismo si evolve: da messaggio di ·salvezza individuale rivolto a una cerchia ristretta di discepoli si trasforma in posizione teorica e in discorso culturale che si confronta con i filosofi del passato e del presente; da metoda di vita diventa una dottrina che si avvale esplicitamente della dia­lettica megarica e di molti spunti di eleatismo.

6.18. Arcesilao e la Media Accademia. Nel 268- Pirrone e morto da pochi anni - diviene scolarca dell'Accademia Arcesilao (315 ca-241 ca a.C.), greco d'Asia. Sotto la sua direzione la vecchia scuola platonica subisce una profonda svolta che si protrarra fino quasi al I sec. a.C. ed e generalmente indicata, sul-

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la scia di Sesto Empirico, come «Media» Accademia, mentre «Nuova» Accade­mia viene detta quella di Carneade e Clitomaco. Nato a Pitane, in Asia Minore, intorno al 315, Arcesilao era stato discepolo molto stimato di Teofrasto, nel Li­cea. II suo scolarcato nell' Accademia fu condotto all'insegna di un consapevole ritorno all'ironia socratica, agli aspetti problematici e ai motivi dialettici dell'opera di Platone. Come Socrate e come Pirrone, Arcesilao non voile scrive­re nulla; come Pirrone ed Epicuro «rifuggiva dall'attivita politica e trascorre­va tutto il tempo all'Accademia». Cicerone e Diogene Laerzio (le nostre fonti principali, insieme a Sesto Empirico, per ricostruire il suo pensiero) evidenzia­no la novita del suo insegnamento rispetto al metodo di Senocrate. Arcesilao rifiutava esplicitamente il dogmatismo e il principio di autorita, esponeva una dottrina filosofica e Ia esaminava criticamente, provocando gli scolari con do­mande e richieste di pareri; gli scolari erano poi sollecitati a seguire le lezioni degli altri maestri che operavano in Atene.

Svolgendo una critica puntuale e approfondita delle dottrine altrui, in par­ticolare di quella stoica, Arcesilao approda ad una posizione scettica e si avvi­cina di fatto aile posizioni nel frattempo elaborate dal contemporaneo Timone. Stringenti le obiezioni rivolte da Arcesilao alla teoria di Zenone e Cleante della rappresentazione comprensiva. Servendosi di numerosi esempi (noi vediamo come spezzato il remo immerso nell'acqua, mente non lo e; il sole ci appare della stessa misura di un piede. quando i matematici ci dicono che e 18 volte piu grande della terra ... ), Arcesilao dimostra che nulla esiste di incontestabil­mente evidente, che non si puo distinguere una rappresentazione 'vera' da una 'falsa', la coerenza ci chiede dunque una sospensione dell'assenso (epoch~) non soltanto sulle rappresentazioni, e non soltanto momentaneamente, in prima approssimazione, come suggerisce Epicuro, rna sempre ed in ogni circostanza. Contestando la veridicita della sensazione, Arcesilao liquidava infatti le pre­messe della gnoseologia stoica ed epicurea.

Non essendoci rappresentazione comprensiva, neppure ci sara com­prensione: poKhe questa e l'assenso alla rappresentazione cornprensiva. E non essendoci comprensione, tutte le cose saranno non comprese; ed essen­do tutte non comprese dovrebbe seguirne anche per gli stoici, che il saggio sospendera il suo assenso.

Arcesilao «fu il primo a sospendere i giudizi, ammettendo la contraddizione degli argomenti>> e «fu il primo ad impostare la valutazione delle cause da en­trambi i punti di vista, affermativo e negativo>>. Se le strutture della realta non corrispondono aile stn1tture della ragione e non e lecito quindi sostenere che un'aHermazione sia vera nella misura in cui si adegui alla verita, non si puo neppure dire che una azione e retta se si conforma alia rettitudine del logos universale: all'uomo resta soltanto la dimensione del ragionevole (eulogon). So­spendere rigorosamente l'assenso sul piano teoretico comporta anche che la virtue la felicita non spettano pili sol tanto al sapiente, a co lui che sa la verita, implica il riconoscimento che tutti ne sono potenziali fruitori, purche si sap­pia di volta in volta agire ragionevolmente, a prescindere da ogni contenuto predeterminato.

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6.19 Carneade e Ia Nuova Accademia. Anche di Carneade di Cirene (219-129 a.C.) che, come Arcesilao, non lascio niente di scritto, poco o niente cono­sceremmo se non ci fossero le testimonianze 'interessate' di Cicerone e Sesto Empirico. Abile dialettico e ora tore affascinante (6.1), questa greco d' Africa, no to anche per la cultura eccezionale, era alla guida dell' Accademia gia nel 155 e vi resto fino almena al 137.

A differenza di Arcesilao, Carneade non risparmio dalla sua critica radicale l'epicureismo, anche se il bersaglio principale rimase lo stoicismo nella siste­mazione dogmatico-culturale operata da Crisippo («Se Crisippo non fosse sta­to, neppure io sarei»). Le argomentazioni di Carneade affrontavano tutte le parti della dottrina stoica. Anche se piu approfondita ed ampia, la sua critica alla fantasia catalettica, alla conoscenza sensibile, alla dialettica e all'assenso degll stoici ripercorre la via aperta da Arcesilao. Per dimostrare l'impossibili- . ta delle rappresentazioni 'vere' o 'comprensive', Carneade rilevava, fra l'altro, che in sogno o da svegli abbiamo le stesse rappresentazioni «evidenti e capaci d'impressionarci» (colui che, essendo assetato, sogna di bere, prova un sensa di piacere analogo a quello che proverebbe se potesse bere da sveglio), tanto e vera che mentre sogniamo scambiamo il sogno con la realta.

La dialettica stoica non e, per Carneade, in grado di aiutarci nel distingue­re una proposizione vera da una falsa, come ben dimostra l'impaccio di Crisip­po dinanzi all'argomento, elaborato gia dai megarici, detto 'del mentitore' (uno che dice di mentire e dice la verita, enuncia una proposizione vera o falsa?). Non si puo, sostiene Carneade, porre il sillogismo del mentitore tra le eccezio­ni inesplicabili, senza annullare con cio stesso il valore della dialettica stoica.

Particolarmente efficace la confutazione della teologia. Carneade sottopone a critica serrata le 'prove' addotte dagli stoici per dimostrare l'esistenza di Dio, il modo con cui ne determinano in positivo la natura (attribuendole non solo l'animazione, l'incorporeita e l'infinitezza, rna anche tutte le virtu che pre­suppongono la sensibilita) e le lora soluzioni alle questioni della provvidenza (come si concilia con l'esistenza del male nel mondo?) della divinazione e della pre des tinazione.

La vostra famosa provvidenza e da considerare colpevole se ha concesso la ragione a chi sapeva che ne m rebbe fatto cattivo uso; a meno che non si dica che la divinita non ne sape\'a niente.

Se tutto avviene fatalmente, Ia Jivinazione non ci puo insegnare alcuna cautela, perche, comunque ci si conduva, avverra quello che deve avvenire; se invece il destino si puo piegare, non ,·'(.- pili destino e percio neppure pos­sibilita di predire il futuro.

Famosi i soriti elaborati da Carneade per distruggere la pretesa stoica (in particolare di Crisippo) di combinare insieme il monoteismo della lora teolo­gia filosofica e il politeismo della religione popolare. Uno dei modi seguiti da­gli stoici per realizzare questa compromesso consisteva, si e vista, nel conside­rare le molteplici divinita olimpiche come attributi dell'unico Dio supremo. Carneade obiettava, secondo Cicerone:

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6 • Lo scetticismo antico 0 219

Se Zeus e Posidone sono dei, sara Dio anche Hade, loro fratello; rna Ha­de e il re degli inferi; se dunque il re degli inferi e Dio, saranno dei anche Acheronte, Cocito, Caronte e Cerbero; se invece si respinge questa conclu­sione, secondo quanto pretendevano gli stoici, bisognera negare la stessa di­vinita di Zeus.

Assumendo cioe, come fanno gli stoici, i passaggi da una divinita all'altra come passaggi da un attributo all'altro dell'unica divinita, none piu possibile fissare un limite fra cio che e Dio e cio che non lo e e si deve concludere che o tutto e Dio o nulla e Dio, come conferma questa altro gruppo di soriti riferito da Sesto Empirico:

Se Demetra e dea, lo sara anche la terra di cui Demetra e madre; rna se Ia terra e dea, saranno divinita anche le montagne e le pietre.

Con questa, osserva Cicerone, Carneade si riprometteva non di combattere il sentimento religioso, ma di evidenziare le gravi difficolta di una teologia ra­zionale.

Contra altri capisaldi della grande sintesi stoica Carneade appunta la sua polemica: contra il tentativo (per certi versi anche epicureo) di conciliare de­terminismo universale e libero arbitrio dell'uomo e contra la teoria del diritto universale. Nel suo famoso discorso romano sulla giustizia, parafrasato nel III libra della Repubblica di Cicerone, Carneade evidenzio (riecheggiando Epicu­ro) la diversita storica del diritto, anche nell'ambito di una stessa societa, e sottolineo il nesso giustizia-utilita, mostrandone l'inconciliabilita con un esem­pio lacerante per gli attenti giovani romani e per la preoccupata reazione del vecchio Catone.

Come ci insegna lo stesso popolo romano che, sempre desiderando l'al­trui e strappandone il possesso, si impadronl. di tutto il mondo; ora se voles­se esser giusto, cioe restituire l'altrui, dovrebbe tornare a casa e rimanere in poverta e miseria.

Cicerone, al solito, si preoccupa di precisare che «Carneade confuto la giu­stizia, non gia perche pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per di­mostrare che i suoi difensori discutevano intorno alia giustizia, senza avere al­cun fondamento certo e solido>>.

Se dunque la sistemazione stoica e, per molte delle stesse considerazioni, anche la liberazione epicurea vanno incontro a difficolta insormontabili, al saggio non resta altro che l'indifferenza totale di Pirrone;> Passando attraverso 1' Accademia platonica, lo scetticismo di Pirrone e di Timone si e senza dubbio evoluto. Come Arcesilao aveva parlato in positivo del 'ragionevole', Carneade · svolge alcune considerazioni sul 'persuasivo' (pithanon). Come attesta Sesto Empirico, i criteri da seguire per l'acquisto della felicita sono indicati da Car­neade in questa progressione. Occorre attenersi, anzitutto, alle rappresentazio­ni 'persuasive', che ci appaiono vere (se lo siano in realta, si e vis to, non si puo definire); un grado di maggiore certezza si ha quando la rappresentazione per­suasiva sara anche «non contraddetta>> da altre rappresentazioni; un passo ul­teriore si ha infine quando la rappresentazione persuasiva e non contraddetta

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e anche «esaminata in ogni parte>>. L'invito di Arcesilao e di Carneade ad assu­mere una rigorosa consapevolezza critica (epoche) di fronte ad ogni rappresen­tazione e ad ogni opinione non si traduce in una positiva sfiducia nelle possibi­lita della ragione.

Lo scetticismo rappresenta sul piano teologico ed etico una prosecuzione e radicalizzazione di quella posizione demistificante, gia intravista in Epicuro, che tende a restituire all'uomo quella fiducia nelle sue reali possibilita di indi­viduo storico e raziocinante che lo salvaguardi dalle insidie dei dogmatici e dalla presunzione di attingere le supreme verita.

Lungi dal segnare un qualche ·successo per l'onnipresente tentazione irra­zionalistica (Dioniso), lo scetticismo viene ad inquadrarsi coerentemente nel grande tentative razionalistico che accompagna la ricerca delle scuole elleni­stiche fino a tutto il II secolo a.C. Con la Nuova Accademia lo scetticismo si avvia a diventare, da metodo di disciplina morale, una disciplina dello spirito scientifico. Ribadendo la necessita del permanente controllo critico, di con­trollo all'intolleranza dogmatica delle altre sistemazioni dottrinarie, ed obbli­gando l'elaborazione scientifica al rispetto rigoroso dei procedimenti tecnici, lo scetticismo incomincia a compiere quello sforzo audace per rendere autono­ma la scienza che compiutamente si esprimera nella sistemazione di Sesto Em­pirico.

L'India nell'eta dei Maurya

6.20 L' Arthasastra. Quando Serse si avventuro nella sua spedizione contro la Grecia, contava nel suo esercito anche degli arcieri indiani, che furono cosi al fianco dei Persiani nella sconfitta di Platea (479 a.C.).

Essi provenivano dalla ventesima satrapia dell'impero che sotto Dario I si era esteso fino oltre l'Indo. L'ultima volta che gli indiani combatterono accan­to ai Persiani fu nella battaglia di Gaugamela (331 a.C.) in cui Alessandro Ma­gno sconfisse Dario III. I centri dell'impero degli Achemenidi caddero in mano al grande conquistatore, che pero dovette lottare non poco per annettersi an­che le satrapie orientali, quelle della Sogdiana e della Battriana: il nord-est dell'attuale Afghanistan. La sua ambizione era di far sue anche le terre attor­no alla foce dell'Indo. Non .;;i puo dire che avesse molto successo: al di la dell'Indo c'era un mosaico di piccoli regni che, frantumando lo sfprzo dell'in­vincibile esercito, gli impedirono la battaglia decisiva. Alessandro se ne torno indietro con la dichiarazione presuntuosa di aver toccato i confini del mondo. Due anni dopo, nel 323, morl a Babilonia. Durante la lotta tra i suoi generali, l'India divenne uno stato indipendente per opera di Candragupta, capostipite della dinastia dei Maurya che durera fino al 185 a.C. e che avra il suo massi­mo esponente nel re Asoka.

Ministro dei Candragupta fu Kautilya (o Canakya) al quale si attribuisce il trattato politico pii.I antico dell'India e uno dei piu importanti della letteratura mondiale, dal titolo Arthasastra, scoperto e pubblicato nel1909.

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L'Arthasastra richiama alla mente il 'Principe' di Machiavelli almena per gli scopi che si propane: insegnare al 'principe' come si organizza lo Stato e come si difende dai nemici sia interni che esterni. Ma mentre Machiavelli co­struisce i suoi precetti a partire dall'analisi di fatti storici esemplari, Kautilya disegna con arida tecnica una specie di geometria politica, il cui principia e non la giustizia (dharma) ne l'amore (kama) rna l'utile (artha). Se una decisione viene a trovarsi in contrasto con l'amore o con la giustizia, quando pero sia utile al potere centrale, essa va presa senza scrupoli. Nel descrivere i metodi da seguire, compreso quello della tortura, Kautilya abbonda in particolari con fredda spietatezza, rna soprattutto con sconcertante capacita di tradurre in calcoli precisi la qualita di fonda dell'uomo che, anche per lui, e la malvagita. Tanto per dare un esempio della 'spirito geometrico' di Kautilya, ricordiamo la sua teo ria degli Stati concentrici. teoria che e a fonda men to della sua poli ti­ca estera. Siccome per legge naturale lo Stato confinante e sempre nemico, il principe deve allearsi con lo Stato che confina con quello confinante, mentre puo considerare con certa tranquillita gli Stati che confinano con il suo e insieme con quello nemico. L'immagine che Kautilya ci da della Stato e quella di un monolite senza fratture e senza pieta: al confronto, come scrisse Max Weber, lo Stato di Machiavelli e innocuo!

6.21. II buddismo del re Asoka. Proprio durante la dinastia dei Maurya ca­de il periodo d'oro della diffusione del buddismo. Dopo la morte del Maestro i discepoli furono presi, per piu secoli, da gravi problemi di interpretazione del suo messaggio. Se si fossero attenuti strettamente alla consegna dell'Illumina­to non avremmo motivo di occuparci del buddismo, perche esso sarebbe rima­stu rigidamente chiuso nella dottrina delle 'quattro verita' (1.22), estraneo per­cio ad ogni speculazione filosofica. Era nella memoria di tutti che Buddha ave­va messo in guardia da ogni ricerca sui tre temi che sono per l'appunto i temi perenni del discorso filosofico, Dio, l'anima e il mondo, sia perche essi si aggi­rano attorno all'inesistente, sia perche di sua natura l'interrogativo metafisico promana da un desiderio che, come ogni desiderio, e effetto e causa di illusio­ne. Ma Buddha non aveva lasciato nulla di scritto e gia questa, come capito per Socrate, rimetteva le sorti del suo insegnamento ai rischi di una memoria diversificata. Se ne rese canto la prima generazione dei discepoli (tra i quali primeggiava Ananda, che aveva servito il Maestro per 25 anni e ne aveva rac­colto le ultime parole) che, a pochi anni dal Nirvana di Buddha, si raccolsero in un Concilio (il primo della serie di concili buddistici) per stabilire, secondo la tradizione orale, la dottrina e le parole del Maestro.

Ma il buddismo si trovo costretto a spezzare i limiti dei primi testi canonici quando comincio a diffondersi dalla regione del Gange in ogni parte dell'India. Scavalcando i confini della regione d'origine, anche le interpretazioni della dottrina si diversificavano. Artefice sommo e della diffusione e della organiz­zazione della comunita buddista (sangha, che potremmo anche tradurre chie­sa) fu il re Asoka, della dinastia dei Maurya, che regno per circa quarant'anni fino al 231 a.C. Convertitosi al buddismo dopo una guerra efferata, in cui si era macchiato di orribili stragi, ne divenne, oltre che un protettore, un missio­nario: sotto di lui i monaci si spinsero fino alla Macedonia e all'Epiro. Sara

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I

suo figlio, Mahinda, a trapiantare il buddismo nell'isola di Ceylon, che resta ancora oggi il paese piu fedele alle tradizioni del buddismo arcaico.

L'importanza del regno di Asoka e stata, negli ultimi tempi, messa in luce nella sua verita storica dalla decifrazione degli editti rupestri, alcuni piuttosto estesi, in cui egli faceva conoscere ai popoli la sua volonta. Ce ne sono anche in lingua aramaica e in lingua greca: segno di quali fossero le genti che abita­vane o transitavano nei suoi territori. Senza questo suo Costantino, difficile di­re che cosa oggi sarebbe il buddismo. Difficile dire, ad esempio, quanto il pro­getto di conciliare buddismo ed esercizio del potere abbia influenzato lo svi­luppo della riflessione buddista.

Un altro evento pol"itico-culturale di grande importanza per il buddismo fu la formazione, in terra indiana, dopo lo sfacelo dell'impero dei Maurya, di un regno indogreco. Durante la guerra tra i successori di Alessandro, tin monarca greco della Battriana, Demetrio, era riuscito, sentendosi tranquillo alle spalle (i diadochi erano in Iotta tra loro) a crearsi un impero in India, utilizzando il risentimento dei buddisti, ancora nostalgici dell'eta di Maurya, contro le mi­nuscole monarchie locali. Con la sua morte (175 a.C.) la fragile costruzione crolla, rna resta in piedi, come regno indipendente, il Panjab, sotto l'abile go­verne di un suo collaboratore, Menandro. E lui il protagonista dei Dialoghi di Re Melinda (= Menandro), un capolavoro della letteratura indiana. 11 tema dell' opera e un dialogo tra il re e il monaco buddista Nagasena circa la non esistenza dell'anima. Sullo sfondo, la vita pacifica della capitale, Sakala, dove si incontrano maestri di ogni fede, seguaci di ogni setta, come nell' Atene di So­crate. Siamo nel tempo in cui dalle citta ellenistiche affluiscono nella regione di Gandhara, nell'India occidentale, artisti e scienziati che sembrano avviare una fusione tra le tre grandi tradizioni spirituali, la greca, l'iranica e l'indiana. Stagione effimera, che merita comunque di essere ricordata come una delle piu allettanti possibilita nate nella storia e subito sommerse dal volgere infau­sto delle vicende. Anche il regno di Menandro rimase ben presto devastate dall'irruzione di orde centroasiatiche, gli Sciti, terribili per i loro cavalli veloci e i loro archi infallibili. Se le sculture hanno conservato, per merito della pie­tra, sicuri segni della simbiosi indogreca, non e infondato supporre che l'inne­sto labile della problematica ellenistica nella cultura indiana, specie in quella buddista allora dominante, sia servito almeno da stimolo alle scuole filosofi­che sia induiste che buddiste perche si liberassero della loro scolastica e si aprissero ai problemi di fondo dell' esistenza. Ne diremo qua leo sa nel prossi­mo capitolo.

La Cina nell'eta delle 'cento scuole'

6.22. Mencio. Col V secolo inizia in Cina il periodo che si suol dire dei "Re­gni combattenti» (481-206) perche, venuta meno la coesione politica attorno al­Ia dinastia dei Chou (1027-256 a.C.), gli stati feudali caddero in un permanente stato di guerra fra di loro.

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6- La Cina nell'eta delle 'cento scuole' 0 223

Perduto il lora impiego, numerosi burocrati si dedicarono ad organizzare scuole e cosi, come spesso succede (si pensi all'Italia del Rinascimento), al de­clino politico si accompagnp un generale risveglio culturale. E questa l'eta classica della Cina, che nella iitoria della sua cultura e ricordata come il perio­do delle 'Cento scuole'. Ce n'erano di ogni tendenza, da quelle piu classiche dei taoisti, dei confuciani e dei seguaci di Mo-tse a quelle, piu spregiudicate, dei sofisti e dei naturalisti (tra i quali ultimi merita ricordare quella 'degli agricol­tori' che, lasciati i libri, mettevano al centro la coltivazione dei campi), a quel­le piu rigidamente conformistiche dei legalisti. Dobbiamo limitarci a render canto appena dei rappresentanti maggiori delle scuole che d'altronde sono og­gettivamente le figure di maggior rilievo di questa periodo. Essi avevano un comune punta di riferimento nell'Istituto costruito con munificenza dal re Siuan nel 318 a.C. nella capitale del suo Stato: una vera e propria Accademia (siamo nel periodo dell' Accademia platonica, del Licea aristotelico e della Stoa di Zenone), dove trovavano libera accoglienza, ospitalita e mezzi per vivere, letterati di tutte le tendenze, tra i quali il confuciano Meng-tzu e il taoista Chuang-tzu, due vivaci polemisti che- finezze cinesi- si combattono a vicenda nei lora scritti senza nemmeno nominarsi.

Furono i gesuiti a latinizzare in Mencius il nome di Meng-tzu il piu nato tra i confuciani. Mencio (371-288 a.C.) visse peregrinando da una corte all'altra fi­no a che, deluso della scarsa udienza ottenuta dai principi, non si decise a fan­dare una sua propria scuola dove rimase per gli ultimi venti anni della sua vi­ta. I suoi avversari erano i taoisti e i seguaci di Mo-tse: ai primi rimproverava il disimpegno politico, ai secondi la lora dottrina dell'amore che col pretesto dell'universalita appiattiva in un innaturale egalitarismo le relazioni sociali. In realta fu proprio con l'assimilazione di alcuni prindpi dei suoi avversari che egli corresse in modo originale il suo confucianesimo, ravvivando il formali­smo legalistico (Li) del maestro con l'esaltazione della spontaneita della natura (il Tao) e dilatando il suo umanesimo (la dottrina della jen) a dimensioni piu universali. Memorabile e infatti, in Mencio, la dottrina sulla banta della natu­ra, le cui deviazioni, a suo giudizio, sono tutte imputabili alla violenza che su­bisce: una tesi, questa che anticipa di millenni le teorie moderne di J. Jacques Rousseau e di Sigmund Freud. Nella sua opera i Colloqui, scritta ad imitazio­ne dei Dialoghi di Confucio, rna con uno stile piu vivo e piu estroso, leggiamo:

La natura dell'uomo e portata al bene, come l'acqua scorre verso il bas­so. Non vie uomo che non sia naturalmente retto, come non vie acqua che non scorra naturalmente verso il basso. Tuttavia, se comprimi l'acqua per farla zampillare, potrai fal'la salire al di sopra della testa; se arresti il suo corso, potrai fare in modo che si fermi sulla montagna; rna e questa la sua natura? E un effetto della violenza. Ora, che l'uomo possa arrivare a fare del male, e una cosa analoga. Per sua natura l'uomo tende al bene; ecco per­che chiamo buona la natura; quanto al commettere il male, la colpa non e della natura.

La dimostrazione che la naturae buona Mencio la ritrova nella spontaneita con cui immancabilmente si manifestano nell'uomo alcuni sentimenti fonda­mentali, tutti riconducibili a quattro prind.pi innati (tuan): la simpatia (jen)

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che nasce dalla compassione; l'equita che nasce dalla sensibilita al rimorso e alla vergogna; il sensa delle regale' di comportamento che ha per radice la mo­destia; la saggezza che deriva dal discemimento del bene e del male.

Se gli uomini deviano da questi principi car·dinali e perche subiscono vio­lenza dal di fuori o anche da quella parte istintiva dell'uomo che lo accomuna agli animali e che in qualche modo gli e estranea. Nell'uomo infatti c'e una parte inferiore (' la parte piccola', dice Mencio) di carattere passionale, e una parte superiore ('la grande parte') che ha sede nella Mente (Hsin, che vuol dire anche Spirito o Cuore) e da cui spontaneamente germogliano i quattro tuan.

Ma in Mencio l'esaltazione della natura non sfocia nell'individualismo esta­tico a cui approdava il taoismo. La natura non puo realizzare se stessa se non nella vita associata: anche per lui, come per il suo contemporaneo Aristotele, l'uomo e un essere sociale. Se ciascuno di noi, dice Mencio, dovesse provvede­re da solo ai propri bisogni la nostra vita sarebbe una corsa affannosa e incon­cludente. Del resto uno dei quattro tuan, la benevolezza (jen), porta l'uomo ad uscire dall'isolamento e ad amare gli altri con un amore pen'> non indiscrimina­to, come quello insegnato da Mo-tse, rna rispettoso delle relazioni che danno ordine ad una societa: sarebbe contra natura «amare i figli del vicino come quelli del proprio fratello». Ecco perche l'uomo saggio da somma importanza alia costruzione della Stato. Sono tre, per Mencio, gli elementi che costituisco­no lo Stato: il popolo, senza il cui consenso non si da sovranita; « gli spiriti del­la terra e delle messi», senza dei quali non si da vita; il sovrano. Il sovrano di Mencio, circondato da consiglieri saggi, fa pensare alla casta platonica dei filo­sofi. Certo la sua autorita viene dal cielo (anche Mencio aveva il culto degli an­tichi imperatori, figli del Cielo) rna essa presuppone due cose: che il popolo lo accetti e che egli sia saggio al massimo. Se degenerasse, potrebbe essere depo­sto o ucciso senza colpa. Questa principia, detto della «revoca del mandata ce­leste>> e stato pili volte chiamato in causa nella storia politica della Cina: ]'ulti­ma volta nella rivoluzione del. 1911. Mencio clava dunque pieno sensa alia sua massima: «Il cielo non parla ... Egli vede come il popolo vede e intende come il popolo intende>>.

ll piglio illuministico del pensiero di Mencio trova una singolare conferma nei consigli che egli da circa l'organizzazione economica dello Stato. Non solo egli consiglia un'agricoltura diversificata sccondo criteri di complementarieta rna arriva a indican~ quale deve essere la distribuzione della terra: ogni qua­drato di terreno (500 m. per lato) doveva essere diviso in nove parti, otto delle quali da distribuire ad altrettante famiglie, una invece a ciascuna delle otto fa­miglie, a rotazione, con l'obbligo di devolvere il ricavato all'erario pubblico.

6.23 Chuang·tzu. In uno dei pili esoterici aforismi del Tao-te-king (1.14) si legge: «ll Tao dette nascita all'Uno. L'Uno dette nascita ai Due. I due dettero nascita ai Tre. I Tre dettero nacita a Diecimila cose>>. Si potrebbe dire che la riflessione taoista si sia mossa tra due poli opposti: quello del Tao, di cui nul­la si puo dire, e al quale si ritorna dopo che ci si e Iiberati dalle diecimila cose (e questa il taoismo classico) e quello che preferisce aggirarsi tra <<diecimila cose>>, rna solo per mostrare quanto sia incoerente la logica di chi le prende sul serio. Potremmo chiamarlo il taoismo estroverso. Documento eccezionale

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di questo taoismo e il Chuang-tzu forse il capolavoro assoluto della letteratura cinese, scritto, almeno nel suo nucleo essenziale, dall'omonimo Chuang-tzu (369-286 a.C.) contemporaneo ed avversario di Mencio. Gia vedemmo (1.12) co­me il Tao-te-King venga oggi attribuito dalla critica ad un autore anonimo (o a pili autori) dello stesso periodo di Chuang-tzu, anche se la sua dottrina vien fatta risalire all'eta confuciana. II Tao-te-King ha lo stile dei grandi libri sacri: conciso, enigmatico, severo. Lo scritto di Chuang-tzu (che sicuramente contie­ne anche contributi di discepoli) e invece una geniale mescolanza di lirismo e di ironia, di sentenziosita e di verve narrativa, di abilita dialettica e di esoteri­smo iniziatico.

In confronto al fervore politico di Mencio, Chuang-tzu rappresenta !'anima libertaria e anarchica della Cina, che usa la logica per distruggere la logica, svela le contraddizioni delle intelligenze integrate senza offrire riessuna sag­gezza alternativa fuori che il ritorno alla natura, intesa taoisticamente come principia indeterminato, che tesse Ia tela del mondo empirico e, come Penelo­pe, Ia disfa incessantemente. II grande Tessitore e il Tao, Ia cui efficacia e det­ta Te. Le Diecimila cose prendono forma dal Te. Se invece di proiettarsi nelle attivita, l'uomo ritorna in se, si ricongiunge alia sua propria forma e cioe alla sua essenza individualizzata e, al di Ia di essa, al Te e, al di la del Te, al Tao. II mondo nel suo insieme non e che un'organica ramificazione delle Forme. Men­tre Lao-tze tagliava d'un colpo solo il nodo che stringe il Tao al Te e per suo mezzo al molteplice, Chuang-tzu non ama questa via mistica, preferisce ritova­re il principia originario ripercorrendo a ritroso le ramificazioni delle Forme. Per far questo bisogna non affidarsi all'intelligenza (a! Hsin) perche essa pro­cede per concetti ed e percio fatalmente soggiogata al dualismo tra soggetto ed oggetto. Bisogna sorpassare l'intelligenza schiava della molteplicita median­te un tirocinio che comporta un'ascetica (lo «stare seduti in dimenticanza») e conduce a quella pace del cuore, che si ha quando si comprende, per intuizio­ne, che nascere e morire, successo ed insuccesso e cosi via sono Ia stessa cosa. II momento dialettico in cui si costringe l'intelligenza a prendere atto delle sue contraddizioni e utile come pars destruens, come fase distruttiva della pre­sunzione. Negare un'affermazione e poi negare questa negazione e cosi via fino all'infinito e un modo per gettare in discredito una conoscenza in se stessa ste­rile. I contrari si unificano solo nel Tao. II libro di Chuang-tzu e ricco di aned­doti i cui protagonisti-letterati, primo fra tutti Confucio, politici, tecnici, di­ventano ridicole maschere di una comune stoltezza: quella di chi presume di cercare Ia felicita nella civilta invece che nella natura:

Quando vivevano ingenui e schietti, puri nel cuore e mondi di conoscen­za, gli uomini avevano semplici desideri. Si nutrivano finche erano sazi, pas­seggiavano finche si sentivano stanchi, senza una meta. Questo facevano, finche vissero secondo !a !oro natura. Ma vennero i sapienti a rompere !a spontaneita con la musica e i sacri riti, ad offuscare !a limpida natura con una morale sofisticata e convenzionale. Allora gli uomini impararono a desi­derare la ricchezza e gli onori e a superarsi l'un l'altro, presi dalla febbre di una gara invjdiosa. Fu colpa dei sapienti se gli uomini si allontanarono dal­la natura del Tao.

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Inutile sottolineare la parentela tra questa naturalismo mistico e alcune correnti del buddismo. Quando il buddismo arrivera in Cina trovera il terreno gia preparato: numerosi saranno i commentatori buddisti che additeranno nel­la Chuang-tzu la stessa illuminazione di cui era stato primordiale testimone e maestro Gotamo Sakhyamuni.

6.24 Hsun-tzu. Nella tradizione confuciana Mencio rappresenta lo sviluppo ortodosso del Maestro, Hsun-tzu, (Siun-tse) (293 ca.-238 ca.), sebbene ammira­tissimo dai contemporanei, venne invece ritenuto eterodosso e, forse proprio per questa, rimesso recentemente in auge dalla Cina maoista. L' eresia di Hsun-tzu appare chiara da questa sua massima: «La natura umana e cattiva, la banta nasce dall'artificio», massima che si trova all'estremo opposto del sere­no ottimismo di Mencio. Ma in Hsun- tzu il pessimismo della ragione fa da pre­messa all'ottimismo della volonta, nel sensa che quel che la natura non puo of­frire l'uomo puo produrlo partecipando attivamente all' «artificio» della vita sociale: ed e qui che 1' eretico torn a ad essere un confucian a ortodosso. I senti­menti spontanei sono disordinati rna l'uomo puo discernere tra di essi quelli che Vanna estirpati e quelli che vanno coltivati. La civilta rende buono l'uomo, che per naturae cattivo. Il bersaglio preferito di Hsun-tzu sana i taoisti a cau­sa del loro rigetto delle convenzioni sociali e dell'impegno politico:

Voi glorificate la naturae meditate su di essa, perche non domarla e non regolarla? Voi obbedite alla naturae cantate le sue lodi, perche non control­larla e regolarne il corso? ... io dico: dimenticare l'uomo e meditare sulla na­tura significa non capire i fatti dell'universo.

Il naturalismo di Hsun-tzu rassomiglia dunque a quello del nostro Machia­velli: e la 'virtu', intesa come disciplina razionale, che piega la natura volgen­dola al bene comune. La 'virtu' non e solo l'abito morale acquisito attraverso l'esercizio, e il rispetto delle regale sociali, tramandate dai Santi Imperatori dell'eta c;lell'oro, che non devono restare arida etichetta, devono al contrario animarsi del fascino della bellezza soprattutto mediante la danza e la musica. Questa considerazione del momenta estetico non deve ingannare: come dal suo ottimismo antropologico Mencio derivava una visione democratica della socie­ta, cosi Hsun-tzu deriva dal suo pessimismo - come fara nell'Occidente rna­demo Thomas Hobbes- una visione autocratica e gerarchica dei rapporti so­ciali. Stando cosi le case, non meraviglia che fosse suo discepolo il piu grande dei filosofi legalisti, Han-fei-tzu.

6.25. Han-fei-tzu. Mentre i confuciani riponevano la solidita della Stato nel­la fedelta alle regale della convivenza piu che nella compattezza dell'apparato legislativo (non era ancora nato, d'altronde, un impero veramente centralizza­to), i legalisti davano importanza decisiva alle leggi, come norme oggettive ob­bliganti e munite di sanzioni. Tocco a Han-fei-tzu portare al massimo di elabo­razione questa tendenza. Condiscepolo di Li Ssu (il potente ministro del re Chin, che avrebbe inaugurato l'impero unitario della Cina), proprio per le me­ne di costui venne chiuso in prigione dove mori, pare suicida, nel 233, venti

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anni prima che le sue idee politiche raggiungessero, come vedremo tra poco, una rigorosa applicazione.

Come il maestro, Han-fei-tzu ha una visione pessimistica della natura uma­na: l'uomo non si muove che sulla spinta dell'interesse individuate. II compito dello Stato e l'organizzazione rigorosamente razionale degli interessi egoistici attraverso il giusto dosaggio tra punizione e ricompensa. Lo Stato ha il suo fulcro nel principe che deve prendere esempio dal Cielo:

che egli veda senza essere visto, che ascolti senza essere sollecitato, che conosca tutto senza essere conosciuto ... che nasconda. le sue tracce e dissi­muli le sue iniziative.

Nessuno dei suoi ministri deve conoscere i suoi desideri e le sue preferen­ze: potrebbero trascinarlo neUe loro trame. Il principe deve essere come l'in­carnazione del Diritto nella sua imparzialita e impersonalita. Su questo punto Han-fei-tzu recupera il principio taoista del non-intervento: emanate le leggi, il principe 'non deve far nulla', le leggi devono funzionare per la propria forza mediante i suoi intermediari, impersonali come lui. Lo Stato appare cosi come una grande macchina che funziona con un ordine a cui anche il principe e sot­toposto. L'ordine di Han-fei-tzu e una sola cosa con la tirannide? Si e no: sl., perche la legittimita del principe non deriva, come voleva Mencio, dal consen­so del popolo: il suo arbitrio e senza appelli; no, perche l'autorita none, alme­no astrattamente, in una persona, e neUe leggi. Che le leggi siano impassibili e una condizione della loro efficacia. Nessun provvedimento per i poveri: i pove­ri diventano tali perche oziosi e sperperatori! Garantendo la libera concorren­za, le leggi garantiscono da sole il benessere dello Stato. L'importante e affi­darle a funzionari inflessibili: sono loro i veri maestri della societa, non i lette­rati e i loquaci maestri delle scuole, che seminano solo dubbi e dissensi.

Fu proprio in conformita a questo autoritarismo anticulturale di Han-fei­tzu che il suo condiscepolo ed avversario Li Ssu ordinera, nel 213, « l'incendio dei libri». Cos! in coerenza col suo stesso sviluppo, la grande eta classica della Cina distruggeva se stessa con le proprie mani. Questo autodafe ordinato dagli imperatori della dinastia dei Chin (256-206) segna come una cesura profonda nella storia culturale cinese. Quando l'impero passo nelle mani degli Han (che lo terranno per quattro secoli) l'onnipotenza dei legalisti venne meno rna le .. 'cento scuole' non rinacquero. Solo le due maggiori tradizioni, quella confucia,· na e quella taoista, ripresero vigore, rna senza piu una vera e propria creativi­ta, in forme pedanti che ricordano un po' l' eta alessandrina success iva al pe­riodo dassico della Grecia:· Fu comunque durante l'impero degli Han che il confucianesimo divento ideologia di stato e, quel che piu conta, il cemento cul­turale in cui si fusero popoli prima d'allora politicamente e spiritualmente estranei l'uno all'altro. Si formo insomma la civilta cinese in cio che ha di pe­culiare e di invicibile, tanto da assorbire e modificare secondo il proprio genio anche gli apporti esterni, come il buddismo e come- sono molti a pensarlo­il marxismo occidentale.

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Sommario. Dopo aver conquistato Atene, Roma se ne lascia conquistare cultural­mente, mettendo la sua forza al servizio degli ideali universalistici del pensiero greco (7.1). Questa operazione ebbe il suo primo focolare nel Circolo degli Scipioni, dove svol­sero la loro influenza uomini come Polibio, artefice dell'ideologia imperialista romana e Panezio che, recuperando Ia lezione morale di Socrate, congiunse l'ideale contemplativo dei greci con quello pratico dei romani (7 .2). Lo stesso spirito conciliativo, aperto a! grande patrimonio della sapienza orientale, ebbe Posidonia, che pen) resto fedele al pri­mato della vita pratica, proprio dell' indole romana (7 .3). In contrasto con questi atteg­giamenti conciliativi e dunque ideologici del pensiero fu Lucrezio, che volse la lezione di Epicuro ad esiti di solitario e Iucido razionalismo (7.4), proprio all'opposto del piu noto pensatore romano, Cicerone, che completo la sutura tra grecita e romanita nell'ideale dell"oratore', dell'uomo che domina Ia parola e la mette al servizio della giu­stizia di cui e maestra Ia natura (7.5). Il poeta Virgilio mise il sigillo della pietas su que­sta etica umanistica che fece da cemento ideale dell'eta augustea (7.6).

Nel quadro della pace augustea emerge, come d'improvviso, l'evento cristiano (7.7), che in realta e il punto di confluenza di processi culturali piu o meno largamente diffu­si, come, in area giudaica, Ia tendenza apocalittica (7.8) o l'integrazione fra tradizione ebraica ed ellenismo operata soprattutto da Filone (7.9) o come, in area greco-romana, l'esplodere di religioni di salvezza di tipo astrologico e misterico (7.10) e il fascino eser­citato dalla 'gnosi', una vera e propria filosofia di salvezza (7.11).

Alle origine dell'evento cristiano c'e la predicazione di Gesu di Nazareth, la cui real­ta storica e stata trasmessa da testimoni che dopo averlo visto crocefisso e sepolto, di­chiarano di averlo contempla to nella gloria della Resurrezione. Non e possibile discer­nere, nei testi che ci parlano di lui, il Gesl.t storico e il Cristo della fede (7.12-7.14). Nel messaggio attorno al quale si sono raccolte le prime comunita di 'cristiani', il rapporto tra Dio, l'uomo e il mondo e del tutto originale nei confronti della tradizione greca (7.15): la creazione si trova in uno stato di male radicale, dovuto ad una disobbedienza a Dio (7.16); da questo male Dio ha salvato il mondo inviando il suo Figlio, Gesu, che nell'obbedienza fino alia morte in Croce, ristabilisce Ia riconciliazione tra le creature e iL Creatore (7 .17). Nella sequela di Gesu prende forma una nuova esistenza, i cui principi di fondo sono la fede in Dio e l'amore per l'uomo, e che ha la sua espressione collettiva in una nuova societa chiamata 'chiesa' (7.18).

Nata dal ceppo giudaico Ia chiesa cristiana se ne andO lentamente distaccando fino ad acquistare, nel II secolo, una fisionomia totalmente autonoma (7.19). La nuova fede si trovo a doversi confrontare anche con la tradizione spirituale del mondo ellenistico. Non si tratto di un incontro pacifico (7.20). Accanto alle tendenze conciliative rappre­sentate da Giustino (7.21) ebbero successo alcune forme di 'contaminazione' tra fede cristiana e teorie gnostiche, a sfondo elitario (7.22). Mentre la chiesa favoriva con crite­ri prammatici una lenta compenetrazione tra la fede evangelica e le tradizioni culturali in cui il popolo trovava la propria identita, alcune frange piu intransigenti, come queUe che si raccolsero attomo a Marcione e attorno a Montano, ripudiavano ogni indulgenza verso le tradizioni sia giudaiche che greco-rornane, con risultati di rigorismo morale

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esasperato (7.23). Questa fase drammatica e decisiva del cristianesimo si riflette, con tutte le sue oscillazioni, nella figura emergente di Tertulliano (7 .24).

Nei secoli che precedono e immediatamente seguono l'evento cristiano si ha in India una straordinaria fioritura epica, a sfondo religioso, il cui capolavoro, destinato ad ave­re nella coscienza induista il peso che in quella cristiana hanno avuto i Vangeli, e Ia Bhagavad Gila (7 .25).

Nello stesso lungo periodo prendono forma, anche in seguito alia provocazione dell"eresia' buddista, i sistemi filosofici che saranno in seguito riconosciuti come cano­nici (7.26). Agli inizi del II secolo, all'interno della tradizione buddista, Ia pluralita delle scuole si unifico attorno a due tendenze fondamentali, dette del Piccolo e del Grande Veicolo (7.27).

L'ideologia imperiale

7.1 II finalismo della storia. L'ambasceria che nel 155 a.C. Atene invio a Roma, e di cui faceva parte anche Carneade (6.19), aveva il compito di far so­spendere l'esecuzione di un decreto del Senato che espelleva dalla citta tutti gli insegnanti di retorica e di filosofia. Tra i colpiti c'erano naturalmente molti greci. I difensori degli austeri costumi tradizionali, primo fra tutti Catone (234-149 a.C.) detto il Censore, mal tolleravano che la Grecia (quella «nazione di chiacchieroni»!) diffondesse il suo contagia nella repubblica, che oltretutto era in stato di allarme per la minaccia militare dei cartaginesi. L'ambasceria fece colpo.

«Si sparse la voce, racconta Plutarco, che un greco meraviglioso e straordi­nario, in grado di incantare e soggiogare chiunque, aveva ispirato ai giovani una violenta passione, per cui essi rinunciavano ad ogni piacere e divertimen­to nel totale entusiasmo per la filosofia». Il greco «meraviglioso e straordina­rio» era Carneade. Catone si mosse al contrattacco e chiese al Senato che «prendesse al piu presto una decisione votando sulla richiesta degli Ateniesi, affinche essi se ne tornassero alle loro scuole ed i giovani romani potessero in­vece tornare ad ascoltare le leggi ed i magistrati». Catone ebbe la meglio: i tre ambasciatori dovettero prendere la via del ritorno. Ma davanti alla storia Ca­tone aveva torto. Proprio in quegli anni, sulla spinta degli eventi, negli spiriti piu pensosi della Repubblica si andava operando una saldatura tra le ragioni della politica e quelle universali dell'uomo. L'ideale pedagogico di Catone, in­centrato sul primato della vita agricola sia nella produzione che nel costume, non era in grado di far fronte alle nuove responsabilita di una Repubblica che ormai aveva dilatato i suoi confini fino ai paesi dell'oriente e, con la sconfitta e la distruzione di Cartagine, fino all' Africa mediterranea. Paradossalmente, mentre ripeteva fino all'ossessione il suo delenda Carthago, Catone perorava la sconfitta della propria ideologia contadina: la distruzione di Cartagine voleva dire infatti il trapasso di Roma a potenza commerciale e dunque a istituti legi­slativi e a provvedimenti di politica culturale, che non potevano non tener con­to, se non altro per opportunismo, della pluralita delle tradizioni di cui Roma finiva col diventare il centro di coesione. Catone non era certo un uomo incol-

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to: leggeva e parlava in greco anche se dinanzi ai greci usava solo della sua lingua. Gli sfuggiva che il destino di Roma non era quello di una polis, legata ad un retroterra agricola (egli aveva scritto un De re rustica che rimane nel suo genere, un singolare capolavoro), era ormai quello della capitale di popoli diversi.

L'intuizione di questa destino della repubblica romana era invece al centro del dibattito culturale che si svolgeva nella casa degli Scipioni e pili precisa­mente nel 'circolo' degli amici di Scipione l'Emiliano, il vincitore di Cartagine, che morira assassinato nel 129 a.C .. Se Catone rappresenta (se pure in modo originale) l'ideologia conservatrice della Repubblica, ormai alle soglie delle sue scelte decisive, l'Emiliano rappresenta l'ideologia universalistica, che avrebbe finito col prevalere proprio per merito dei grandi pensatori greci di cui si era circondato. In questa ambito prende avvio il travaso dell'umanesimo greco negli stampi della tradizione romana, della paideia ellenica nella humani­tas latina. Si puo dire che da Polibio, !'arnica di Scipione, fino a Cicerone e poi a Virgilio e alla cultura dell'eta augustea, l'operazione culturale destinata a dare unita ideale prima alla repubblica e poi all'impero si e svolta senza vere rotture di continuita. Essa obbediva non propriamente alle regale astratte del Logos rna a quelle della Praxis, della fatale necessita di un ordine politico da tutelare e da promuovere all'interno di un organismo i cui confini coincidevano, secondo }'at­tica del tempo, con i confini del mondo. Quella romana infatti fu, si, una cultura di dominio, rna nobilitata sempre dalla ricerca di ragioni universali, radicate nel­la natura dell'uomo in quanta tale e, nei momenti pili alti, nelle disposizioni di una Provvidenza divina in cui diventa intelligibile, anzi venerabile, l'oscuro Fato dei greci.

7.2 Polibio e Panezio. Prima ostaggio e poi intima arnica di Scipione fu Po­libio (205-123 a.C.) che, accanto al condottiero, fu testimone e dell'assedio e della distruzione di Cartagine, con cui si concluse la terza guerra punica. «A cominciare da questa momenta, cosl. egli scrive nelle sue Storie (in 40 libri: ce ne restano 5), la storia dell'Italia e dell' Africa si unisce in modo organico a quella dell' Asia e della Grecia e tutto il lora intreccio si volge ad un fine uni­CO». Il fine unico e !'imperium dei romani, che abbraccia tutto il mondo abita­to, l'ecumene. L'idea di 'fine' sottrae la storia al f!ioco della tvche, del caso, che invece dominava la visione degli eventi del grande storico anteriore a Polibio, Tucidide. La tyche, latinamente fortuna, none il 'caso', e il modo imprevedibi­le con cui la provvidenza regola le vicende degli uomini. I popoli fortunati so­no in realta popoli eletti, come lo e il popolo·romano, il cui dominio sui man­do none questione di pura forza, e i1 risultato di una superiorita che si scorge perfino nella costituzione che esso ha saputo darsi. L'ordinamento politico di Roma e infatti l'ideale combinazione dei tre tipi di costituzione conosciuti: la monarchia (rappresentata dai consoli), l'oligarchia (il senato) e la democrazia (le elezioni popolari nei comizi). Si avvertono nel grande storico, greco di origi­ne e romano di elezione, gli influssi del pensiero politico aristotelico e di quel­lo morale degli stoici.

D'altronde Polibio ebbe la fortuna di attingere la sapienza stoica ad una sorgente non contaminata: insieme a lui, infatti, davanti alle mura di Cartagi-

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ne assediata c'era Panezio di Rodi (180-110 a.C.) divenuto in seguito consiglie­re private dell'Emiliano, e piu tardi, nel 129 a.C. (proprio nell'anno dell'assas­sinio di Scipione), capo riconosciuto della scuola stoica.

La vocazione di Panezio fu la conciliazione delle tradizioni diverse in nome di una universale humanitas che era ormai il risvolto ideologico indispensabi­le all'universalismo politico di Roma. Morto nel. 129 a.C. anche Carneade, Pa­nezio tende a ricondurre le due scuole, la stoica e l'accademica, ad una mede­sima sorgente, quella socratica. Ammiratore di Platone («l'Omero dei filosofi») egli pen) ne rifiuta le visioni ultraterrene per ricondurlo alla saggezza morale del maestro, Socrate. Respinta, nel nome di Socrate, la suggestione dei grandi sistemi, gli riesce facile conciliare la paideia greca con l' humanitas latina, e cioe l'ideale contemplative con le virtu pratiche della tradizione romana. Co­me ci informa Cicerone nel suo De officiis (che nei primi due libri riassume quanta Panezio aveva scritto nella sua opera Del dovere, per noi perduta) l'ideale della humanitas paneziana comprendeva proprio quei tratti che costi­tuirono il nucleo perenne dell'umanesimo classico di cui si e nutrita fino ad oggi la nostra civilta. Eccone alcuni: l'uomo si distingue dall'animale anche nella guerra perche, mediante la ragione, egli discerne tra guerra ingiusta e guerra giusta, la quale deve essere sempre dichiarata dopa un ultimatum, e comporta il rispetto dei giuramenti e dei trattati; i legami che stringono l'uo­mo in societa non sono soltanto istintivi, sono soprattutto la ragione e il lin­guaggio (ratio et oralio) che portano gli uomini a comunicare tra lora anche al di la dei confini etnici, idealmente fino all'unita del genere umano. Abbando­nando le astrattezze degli stoici, ivi compreso l' ide ale dell' apatia, Panezio sot­tolinea la dipendenza reciproca degli uomini tra di lora, conciliando i valori morali con quelli dell'utilita, la contemplazione con l'azione politica, e perfino esaltando il lavoro manuale: <<E chiaro, egli dice, che il profitto e l'utilita che noi traiamo dalle case inanimate non avrebbero potuto essere raggiunti se non per mezzo delle braccia e del lavoro degli uomini». Se a questi aspetti dell'umanesimo di Panezio si aggiunge la sua negazione dell'immortalita dell'anima, si ha la misura di quanta egli abbia piegato la tradizione stoica al temperamento prammatico del mondo romano: giustamente la sua fu detta 'fi. losofia operativa'.

7.3 Posidonio. Per quanta discepolo di Panezio e anche lui legato all'ideolo­gia polibiana dell'imperium romano, Posidonio (135-51) appare un pen sa tore di piu largo respire e intanto piu indipendente dai circoli dei magnati romani.

Nato ad Apamea, in Siria, visse pen) a Rodi dove divenne magistrate e da dove a piu riprese si reco a Roma come ambasciatore. Ben presto divenne un polo di attrazione per gli spiriti del suo tempo, un maestro ricercato dalle fa­miglie piu illustri di Roma che mandavano a Rodi i propri figli. Anche Cicero­ne fu suo discepolo, e Pompeo nei suoi viaggi militari in Asia faceva sosta a Rodi per ascoltarlo. Scrisse di storia (continuo tra l'altro le Storie di Polibio) e di geografia (in un suo libra sostenne che navigando verso ovest si sarebbe raggiunta l'India). Alla dottrina stoica della 'simpatia universale delle case' egli impresse una svolta scientifica a partire, cosi si racconta, dalla sua sco­perta, fatta sulle coste di Gades, che il movimento delle maree dipende dagli

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influssi della luna. Le cose, infatti sono tutte tra !oro concatenate e intima­mente animate da un medesimo spirito onnisciente. Combinando tra !oro il rea­lismo romano e il misticismo orientale, Posidonia non solo affermava (a diver­sita di Panezio) l'immortalita dell'anima, non solo popolava i cieli e Ia terra di spiriti e demoni, rna clava grande importanza alia 'mantica' cioe all'arte della divinazione, che secondo lui avviene in tre modi: per ispirazione di Dio, per os­servazione astrologica e mediante il sogno. La rigorosa logica degli stoici si immerge cosi nelle profondita dell'irrazionale, mescolandosi a superstizioni e ad ingenue credenze. Se, per un verso, questa passione tutta orientale per l'in­finito e per l'ineffabile apparenta Posidonia aile grandi tradizioni religiose dell'antichita (egli fu, tra l'altro, un profondo filosofo della religione, conside­rata come un impulso innato nell'uomo a causa della sua parentela con la clivi­nita), per l'altro verso riesce a convivere con l'apprezzamento della ricerca scientifica, dell'arte del legislatore e in genere dell'attivita politica e perfino di quella tecnica: anche la sua insomma e, in conformita all'indole romana, una 'filosofia operativa'.

E fu soprattutto come filosofo operativo che egli veniva seguito dai suoi di­scepoli romani, non molto disponibili aile esuberanze mistiche. Preoccupati principalmente di conciliare le tradizioni religiose popolari, cemento indispen­sabile della repubblica, con la nuova razionalita introdotta dalle scuole filoso­fiche, tanto i pensatori che gli uomini politici di Roma cercarono di eludere le dispute teologiche perorando, sia sui piano teorico, come Varrone (116-27 a.C.) autore delle Antichita umane e divine, sia sul piano legislativo, come il ponte­fice Quinto Mucio Scevola, una 'teologia tripartita', come Ia chiamera sant'Agosti­no, che comprendesse e mettesse in accordo tra loro Ia religione mitologica, adatta al temperamento emotivo del popolo, Ia religione culturale, propria dei filosofi che trasformano i miti in concetti razionali e gli dei in antichi eroi umani, e infine la religione civile, la religio societatis, affidata alle cure dei magistrati, il cui senso e di rendere sacre alia coscienza di tutti le leggi e le istituzioni della repubblica. Questa duttilita, aliena da ogni fanatismo, e forse il tratto piu significativo del genio pratico di Roma, che solo per questa via pa­te ridurre all'obbedienza popoli tra !oro diversi e classi sociali sempre piu dif­ferenziate e percio sempre piu esposte al conflitto civile.

7.4 Lucrezio Caro. Ma non tutti erano d'accordo su questa via di concilia­zione. Contra questa 'teologia politica', lando la sua stupenda invettiva il poe­ta Lucrezio Caro (98 ca-53 a.C.), col poema filosofico De Rerum Natura (Sulla natura).

Il fatto che egli, all'eta di quarantaquattro anni, si sia tolto Ia vita aggiunse alia potenza critica dei suoi versi un'aureola demoniaca che forse spiega Ia di­sattenzione che fu riservata, si puo dire fino all'epoca moderna, alia sua ope­ra. Lucrezio aveva un solo culto, quello di Epicuro (6.4-10), autore anche lui di un trattato, per noi perduto, dallo stesso titolo del poema lucreziano. Se e in che misura la poesia di Lucrezio sia una trasposizione in versi del discorso fi­losofico del maestro non e possibile stabilire. La sua novita, in rapporto alia tradizione epicurea, e nel suo carattere di risposta razionale allo stato di crisi in cui versava la repubblica. Catone, contro il contagia ellenistico, si appellava

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a] costume dei maggiori, al mvs majorum, IVl comprese le superstizioni reli­giose e il culto per la grandezza di Roma; Lucrezio, facendo sua e svolgendo fi­no a! limite Ia razionalita ellenistica dell'epicureismo, indica la salvezza in una visione del mondo nella quale l'infelicita appare come il frutto delle passioni, siano esse religiose o patriottiche, e la felicita e la conformita degli individui e dei popoli alle leggi oggettive che reggono gli infiniti avvicendamenti delle ag­gregazioni e delle disgregazioni degli atomi. Nemmeno lui nega l'esistenza de­gli dei. E il timore degli dei che fa nasce:i-e la religione, Ia quale, ai suoi occhi, non ha nemmeno il pregio, riconosciutogli dal moderno materialismo marxi­sta, di essere quanto meno un oppio che lenisce le sofferenze. Anzi e la religio­ne che fomenta appetiti di impossibile felicita e sottrae cos!. agli uomini il go­verna della vita- personale e collettiva. Solo facendo uso della ragione l'uomo puo raggiungere il suo modesto quoziente di felicita individuale, che e l'ataras­sia, cioe l'adeguazione psicologica al gioco onnipotente che tutto regge: il gio­co del caso e della necessita. In questi limiti ha valore anche lo Stato, che pero e soltanto la creazione di un patto sociale, suggerito, appunto, dalla necessita: il vero fine di que! patto none Ia potenza dello Stato, e la felicita dell'indivi­duo. In una raffigurazione del genere umano dove tutte le passioni sono men­zogna, che senso hanno i confini tra populo e popolo? La grandezza del pas sa­to di Roma e le preoccupazioni per il suo futuro? C'e qualcosa di titanico in questo disperato rigetto della Rornanitas, proprio mentre covavano nel seno della societa le smoderate passioni di Cesare e di Pompeo. Il poema di Lucre­zio si chiude con la descrizione della peste, derivata dalle famose pagine di Tu­cidide sul morbo che devasto Atene. Ma qui la peste non devasta la citta, deva­sta l'intero genere umano. Nell'infuriare del morbo, il saggio, proprio come l'eroe moderno del romanzo di Albert Camus (un ammiratore di Lucrezio) inti­tolato, appunto, La peste, non ha rimedi miracolosi da offrire, ha soltanto la fredda luce della ragione da opporre al trionfo dell'assurdo. L'epicureismo di Lucrezio dunque non e quello del letto di rose, richiama piuttosto l'eroica de­solazione del poeta della Ginestra. Niente di strano che, cosi poco funzionale all'ideologia dominante, il suo messaggio sia rimasto circondato dall'omerta del silenzio. Proprio all'opposto di quanto avvenne per un estimatore di Lucre­zio, anzi, a quanto pare, suo primo editore, Marco Tullio Cicerone.

7.5 Marco Tullio Cicerone. Appartenente alia classe dei cavalieri e cioe di quella nuova borghesia che aveva introdotto nel ceto dei magnati il gusto della novita e della generosa partecipazione all'attivita politica, anche Marco Tullio

.Cicerone (106-43 a.C.) avvertiva come Lucrezio, il dilagare della peste. nella ·sua citta. E anche lui indicava il rimedio nella ragione. Ma la ragione cicero-niana rifuggiva dai canoni meccanicistici di Epicuro, come pure dalle pretese metafisiche di Platone e di Aristotele; era la ragione di cui dissertavano gli ac­cademici e gli stoici, consapevole della insuperabilita del dubbio e tuttavia ca­pace di produrre le certezze morali che stanno alla base di un'ordinata convi­venza. Anche lui respingeva la superstizione rna senza equipararla, come face­va Lucrezio, alla religione in quanto tale. La vera alternativa alla superstizione e per Cicerone una piu alta religione, che consiste nella contemplazione dell' or dine in cui trovano uni ta il Cielo e la terra, l' eterni ta e il tempo, l' anima

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e il corpo e i diversi ceti in cui si articola la societa umana. Discepolo di Pane­zio e di Posidonia, anche lui celebra la 'simpatia tra tutte le cose' che, qualora trovi nella coscienza dell'uomo il giusto rispecchiamento, produce quella hu­manitas che cia alla vita dell'individuo il timbre dell'universalita. La sua erudi­zione straordinaria, la sua capacita di assimilare e comporre tra loro i piu di­versi insegnamenti e la sua ostinata volonta di colmare il vuoto filosofico di cui soffriva la Repubblica hanna fatto di lui il piu grande sistematore di cultu­ra che la storia ricordi.

Non filosofo vero e proprio, dunque: difficile trovare nelle sue numerose opere una sola idea originale. Eppure gran parte del patrimonio ideale dell'an­tichita noi lo abbiamo conosciuto a1traverso di lui, anzi lo abbiamo ereditato attraverso il filtro della sua humanitas. P~ssata attraverso quel filtro, la multi­forme filosofia dell'antica Grecia si trasforma in un grandiose organismo di 'luoghi comuni' su cui trovo base e alimento la cultura dei secoli successivi. Gran parte del moderno linguaggio filosofico e di stampo ciceroniano. L'uomo compiuto, infatti, non e, per Cicerone, il filosofo, rna l'esperto del linguaggio, l'oratore che, avendo assimilate tutto cio che di buono e di vero il passato gli ha trasmesso, lo trasforma in un discorso capace di persuadere e quindi di en­trare nell'ordine delle cause che muovono la repubblica. Quel che per Platone era il filosofo e per Cicerone il retore. Il retore ciceroniano non e come quello di Protagora e nemmeno come quello di Carneade: la sua forza persuasiva e infatti al servizio di cio che giova alla citta, e cio che giova alla citta e, insie­me, l'utile e il bene, che per Cicerone sono una stessa cosa: nihil utile nisi quod hones tum. La honestas ciceroniana e la proiezione politica dell' humani­tas: l'una e l'altra presuppongono il primate della giustizia su ogni altra virtu, anche sulla sapienza. Ma di quale giustizia si tratta? Niente in Cicerone che rassomigli all'idealismo oltranzista di Platone. Compito della giustizia e di pu­nire le offese e tutelare i diritti, prima fra i quali il diritto di proprieta. L'uni­versalismo umanistico di Cicerone fa da velo ad un sostanziale conservatori­smo, di tipo moderato, che lo rende ostile sia alle rivendicazioni della plebe (il suo giudizio sulla riforma agraria tentata dai Gracchi e severo), sia alle ambi­zioni di potere e di ricchezza dei magnati. Il tempo che gli tocco di vivere era troppo tumultuoso per consentirgli qualcosa di piu che lo splendido esercizio della sua retorica. Costretto a scegliere tra Pompeo e Cesare, pur detestandoli ambedue, prima parteggio per l'uno e poi per l'altro, senza riuscire, dopo l'uc­cisione di Cesare, a salvarsi dalla tempesta. Eppure egli non fu propriamente un vinto: la sua poderosa operazione culturale gli sopravvisse, segnando per sempre, nei suoi momenti piu alti, l'clhos della Roma imperiale. E soprattutto merito suo se Atene e Roma non furono piu, nelle classi dirigenti dell'impero, due citta rna una sola; e merito suo se l'ideale stoico di una citta dell'uomo tanto vasta quanta il genere umano, dotata di una sola legge, quella di ragione o di natura, divenne il principia di legittimazione rna anche l'impulso univer­salistico dell'impero romano.

Per Aristotele lo Stato nasce tra uomini socialmente uguali e percio a fame veramente parte sono soltanto i cittadini messi in grado dalla natura di eserci­tare i propri diritti: non dunque gli schiavi e nemmeno le donne. Per Cicerone invece il titolo di partecipazione e la razionalita.

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Vera Iegge e la ragione, che, conforme alla natura, e diffusa tra tutti gli uo­mini ed e immutabile ed eterna ... Non si deve cercare chi ce Ia spieghi e l'interpreti perche non e una a Roma ed un'altra ad Atene, una Iegge oggi ed una diversa domani, rna una sola Iegge eterna ed immutabile, che !ega e leghera tutti i popoli in eterno; e sara quasi un maestro e un reggitore co­mune degli uomini, un Dio, que! Dio che ne e l'autore, l'interprete e il pro­mulgatore

Questa dottrina del diritto naturale, fatta propria dai Padri della Chiesa, di­verra patrimonio comune dell'Europa medioevale e dell'eta moderna. Ma gia in questo fatto, cioe nella sopravvivenza dell'umanesimo ciceroniano lungo Ia storia di guerre, di tirannidi, di particolarismi razzistici, si svela il suo limite, il suo carattere ide,ologico nel doppio senso del termine: di progetto razionale continuamente risorgente in quanto proprio della specie umana alia ricerca di un ordine definitive e di strumento culturale con cui le istituzioni di fatto cer­cano via via di assicurarsi il consenso delle coscienze.

7.6 L'eta augustea. Questo Secondo USO dell'umanesimo ciceroniano e plU avvertibile durante il principato di Augusto, che sicuramente Cicerone avreb­be detestato come detesto la monarchia di Cesare.

L'ideologia dell'eta augustea e infatti ciceroniana. Mentre svuotava di con­tenuto le istituzioni della repubblica ormai non piu proporzionate a reggere Ia mole smisurata dell'impero, Augusto -suscitava e proteggeva lo svolgimento di una letteratura conforme ai nuovi tempi, che cioe, per un verso, fosse la sinte­si dell'eredita romana, per l'altro fosse in grado di unificare in una medesima memoria e in un medesimo ideale i popoli piu diversi.

Esemplare in questo senso e !'opera di Virgilio (70-19 a.C.). L'Eneide none, come il De Rerum natura di Lucrezio, un poema filosofico

e tuttavia ha in se una profonda filosofia della storia di afflato universale. Enea e come un 'padre pellegrino' condotto dagli dei alla foce del Tevere per dare origine a un popolo eletto che fondesse in se le qualita di molte stirpi e fosse in grado di reggere con le sue leggi i popoli della terra.

L'universalismo di Lucrezio, come abbiamo visto, si basa su di una ragione spoglia di mi ti, rassegnata a riflettere in se i meccanismi del divenire univer­sale, dove perdon di senso le diversita tra i popoli e le culture: la storia umana e retta da un fato a cui e illusorio resistere. L'universalismo di Virgilio e stoico-religioso: il suo fondamento e nel disegno degli dei che dominano il mondo e nella pie tas degli uomini che, come Enea, vincendo ogni seduzione, si conformano a quel disegno. Strumento della pietas non e la conoscenza, e la volonta e non la volonta cieca rna quella che mira a estirpare dal mondo la bel­li rabies (la furia della guerra) e l'amor habendi (l'amore per le ricchezze). Ec­co perche l'impero di Roma era diverso da quelli precedenti di Cartagine o dalle dinastie orientali. Sui crollo degli stati cresciuti mediante la tirannide e lo sfruttamento, l'impero di Roma si leva come un progetto di comunita uni­versale, legata ai valori dello spirito. E insomma, come riconoscera sant'Ago­stino, l'ideale citta terrena con tutte le sue possibili virtu e con tutti i suoi ine­vitabili vizi.

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II retroterra del cristianesimo

7.7 La 'veritit' cristiana, figlia del tempo. L'eta di Augusto fu considerata dalla storiografia cristiana successiva come il momento di pace universale, predisposto dalla provvidenza perche l'umanita fosse in grado di accogliere il suo Salvatore. Un momento di pienezza, di cui avrebbe profetizzato perfino il pio Virgilio. Inutile mostrare il carattere ingenuamente etnocentrico di questa visione delle cose. Il nucleo di verita di questa impostazione storiografica e che l'evento cristiano non emerge dal nulla, e organico ad un contesto senza del quale non potrebbe essere compreso. Per coloro che gli attribuiscono il va­lore di una rivelazione, l'evento cristiano none totalmente risolvibile nella stu­ria del pensiero, dato che a determinarlo e stata una decisione di Dio e le deci­sioni di Dio non sono, per definizione, interne alla storia se non nei loro effet­ti. Ma ormai anche i credenti riconoscono, col grande teologo Karl Barth, che ,, tutto cio che l'uomo dice di Dio e l'uomo che lo dice» e che dunque, in quan­to si e espresso con le forme e con il linguaggio dell'uomo, 1' even to cristiano rientra in pieno nella giurisdizione della ragione critica, che non accetta limiti al suo diri tto di ricos truire, secondo veri ta s torica, i fenomeni dello spiri to di qualsiasi tempo e di connetterli tra \oro secondo nessi che facciano luce sulle confluenze culturali che li hanno determinati e sul quoziente di novita che essi hanno appurtato. E questa l'unica maniera razionale di restituire al nustro presente anche cio che e remotu da noi e di dilatare il piu possibile gli oriz­zonti del nostro pensiero fino a farli coincidere con quelli dell'uomo universa­le. Certo la figura di Gesu di Nazareth ha determinato - e il meno che si pos­sa dire - uno 'scatto creativo' senza confronti nella storia dello spirito e tut­tavia anche lui e figlio di una cultura del cui repertorio si e servito nell'espri­mere il suo messaggio. E figli di una loro cultura sono, a maggior ragione, an­che i discepoli che lo hanno ascoltato e che, dopo la sua scomparsa, ci hanno lasciato memoria della sua vita e del suo insegnamento.

Cominciamo col delineare sommariamente le correnti spirituali che ebbero sicuramente una incidenza decisiva, se non sui Gesu storico (e cioe sul Gesu quale realmente fu, a prescindere dalle trasfigurazioni operate dalla memoria dei credenti). certamente sul Cristo della fede, e cioe sul Gesu come risulta dalla ricostruzione che ne fecero le comunita dei credenti - furono queste co­munita a chiamarlo 'Cristo', cioe Messia - e che ci viene custodita dai testi sacri del cristianesimo.

7.8_ Il giudaismo apocalittico. Abbiamo gia visto come i profeti d'Israele (2.28), insieme con la denuncia della corruzione religiosa e morale e con !'an­nuncio della catastrofe imminente, avessero lanciato anche un messaggio di speranza. Al di la del fallimento, nelle !oro parole si profilava il disegno di una ripresa, di una'ricostruzione materiale, politica e spirituale, che avrebbe river­berato i suoi effetti fin sulla natura. Dio avrebbe compiuto il miracolo di ri­portare Israele allo splendore d'un tempo; anzi, di renderlo centro di tutte le nazioni, in un mondo pacificato e prospero.

Ma questa speranza era andata ampiamente delusa. Dopo circa un quaran-

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tennio d'esilio ~ Babilonia, gli ebrei erano tornati (546 a.C.) a Gerusalemme e avevano iniziato la ricostruzione del tempio; rna la loro situazione politica era rimasta, salvo brevi parentesi, di dipendenza da potenze straniere.

E tuttavia la promessa di Dio non poteva essere vana; il suo adempimento, sempre atteso e finora smentito dai fatti, doveva essere datato piu avanti; me­glio, doveva essere sciolto da ogni scadenza. La speranza delusa si ando lenta­mente proiettando sull'orizzonte della storia, come sua risoluzione finale e conclusione defini tiva.

~acque cosi la coscienza apocalittica, che si organizzo in un sistema di idee e si sedimen to in una serie di scri tti, il cui periodo d' oro puo essere delimi ta to dal II secolo a.C. al II secolo d.C.

E. bene ricordare che la letteratura apocalittica si ritrova in tutte le religio­ni. Ne fanno parte anche gli scritti esoterici che erano in uso negli ambienti orfici. Gli stessi miti della Repubblica di Platone, in quanta 'svelano' quel che sulle origini e i fini ultimi dell'uomo la ragione non puo conoscere, rientrano nel genere apocalittico. Il significato del termine 'apocalisse' non coincide, co­me invece avviene nel nostro linguaggio, con quello di 'catastrofe finale' rna, piu generalmente, con quello di rivelazione di cia che finora e rimasto nascosto.

In conformita con !'indole particolare della tradizione giudaica, anche la ri­velazione del mistero nascosto ha, negli scritti ebraici di cui abbiamo detto, un carattere inconfondibile che riguarda sia Ia loro forma che il ]oro contenuto.

Quanta alla forma, essi si presentano come rivelazione ricevuta da parte di Dio, normalmente a modo di visioni (talora di audizioni); l'autore non vuol es­sere un filosofo o un saggio che propane riflessioni proprie, rna un 'veggente' che cornunica un sapere divino. Percio tutti gli scrittori apocalittici si nascon­dono dietro il nome di un uomo di Dio dei tempi passa ti (Enoch, Isaia, Salo­mone ... ); percio, ancora, essi si esprimono in un linguaggio cifrato, tutto intes­suto di imrnagini mitiche e simboliche, dove i protagonisti delle storie narrate (il popolo di Dio e i suoi nemici) vengono presentati in figura di animali, di piante, di fiumi in piena, ecc.

Ma qual e il contenuto di queste visioni? Esse non concernono avvenimenti particolari, singoli episodi della vita individuale o collettiva, bensi l'intero de­stino dell'umanita: finora· gelosamente custodito nei cieli (e quindi 'mistero'), tale destino viene rivelato sulla terra in forma di immagine e di parola (lo scritto apocalittico, appunto), prima di manifestarsi nella sua realizzazione ef­fettiva. Le apocalissi contengono dunque una teologia della storia, di cui pos­siamo cosi condensare i tratti salienti. Tutto e stato creato da Dio, e si svolge nel tempo secondo un disegno da lui preordinato. I fatti della natura e della storia non sono abbandonati al caso rna hanno un filo che li !ega, una logica che li comanda e li dispone al di dentro del piano divino che tutto contiene. Ogni cosa ha una posizione e un ruolo nell'ordinamento generale; ogni fatto accade come e quando deve accadere, dentro il tempo universale. Cia non si­gnifica pero che tutto si svolga tranquillamente; la storia e invece uno scontro continuo tra bene e male, di cui sono autori sia gli individui che le collettivita: categorie, citta, nazioni, regni. Ma dietro questi attori umani stanno due bloc­chi di forze ultraterrene - angeli e demoni - il cui influsso sulle vicende del­la storia umana conferisce a questa il carattere di un dramma cosmico.

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Al di sopra delle stesse potenze angeliche e demoniache c'e Dio; il suo dise­gno ingloba anche la loro presenza e il loro influsso sulle vicende umane. E, mentre nel corso della storia il male finisce quasi sempre per prevalere sui be­ne, il dramma apocalittico prevede una conclusione in cui .. Ja situazione sara integralmente rovesciata. Questo capovolgimento non avverra in maniera indo­lore. La fine di 'questo mondo' avra il carattere di una catastrofe di propor­zioni immani e di figura spaventosa. Essa comportera la scunfitta delle forze del male, ia resurrezione dei morti con il giudizio e Ia condanna dei cattivi e l'ingresso dei buoni nel mondo della salvezza.

In molte apocalissi, Dio~opera il suo intervento attraverso un intermediario con funzioni regali, che assume il titolo di Messia, o di Figlio dell'uomo, o altri ancora.

Il motivo che ha spinto gli apocalittici a tracciare questo quadro grandioso e a volte minuzioso dell'intera realta non e il bisogno di spiegare i fenomeni scientificamente, mediante nessi causali, e la ricerca di un punto di riferimen­to in base al quale orientare la vita religiosa del popolo, soprattutto nei mo­menti di maggior difficolta, di pili intensa crisi storica. Dopo l'esilio si era at­tenuata, e alla fine spenta, la voce dei profeti che interpretavano gli eventi e annunciavano il giudizio puntuale di Dio sulla storia. L'apocalittica cerca di colmare questo silenzio, utilizzando Ia luce che la profezia aveva gettato sul presente per disegnare una visione d'assieme che desse senso a tutto, anche ai momenti pili oscuri e drammatici, e sostenesse, in tal modo, Ia speranza nel ri­volgimento futuro.

7.9 II giudaismo ellenistico. Filone. Tra le difficolta con cui il giudaismo, nei secoli dopo l'esilio, doveva scontrarsi, c'era soprattutto il contatto e il con­flitto con la cultura greca nella sua fase 'ellenistica'. L'apocalittica e, nei con­fronti della sfida ellenistica, una risposta che si esprime nel rifiuto intransi­gente di ogni contaminazione - figura del male - e nella difesa ad oltranza della tradizione, soprattutto rituale. Ma non e l'unica. Fuori della Palestina, e in particolare ad Alessandria d'Egitto, si delinea una reazione opposta: gli ebrei ivi residenti in conseguenza della 'diaspora' (Ia 'dispersione' fuori del territorio nazionale), accettano l'integrazione con la cultura greca e ne cercano la conciliazione con i valori religiosi dell'ebraismo. Espressione e simbolo di questa situazione e di questa volonta e, tra il 250 ed il 50 a.C., Ia traduzione della Bibbia in greco, detta dei LXX (o Settanta) perche, secondo una leggen­da, ne sarebbero autori settanta saggi ispirati da Dio. Questo fatto testimonia, da una pa . ..-te, che. gli ebrei d' Alessandria non conoscono pili la lingua ebraica e parlano invece il greco, dall'altra, che il testo fondamentale della loro vita ri­mane la Bibbia.

Ma si sa che una lingua none soltanto un sistema di segni; e il veicolo del­la cultura che in essa si esprime, e di quella cultura asseconda le movenze, le flessioni, le pieghe ideologiche. «Tradurre» la Bibbia nella cultura greca e l'ambizione del giudaismo alessandrino, di cui un contemporaneo di Gesli di Nazareth, Filone (ca. 25 a.C.-45 d.C.), e il pili noto e qualificato esponente.

Delle opere di Filone le pili importanti sono quelle di carattere esegetico, dove egli si impegna ad interpretare i libri del Pentateuco (i primi cinque libri

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dell' Antico Testamento) applicando il 'metoda allegorico', cioe un criteria di lettura che, al di la del significate letterale del testo, ne cerca un senso pili ampio e nascosto, che ha come suo centro e protagonista l'anima dell'uomo. Cosi i personaggi della Bibbia vengono interpretati come incarnazioni e figura­zioni di atteggiamenti morali (virtu e vizi); rna anche le prescrizioni rituali tro­vano il lora sensa autentico nelle disposizioni interiori, di cui sono incentivo e segno; cosi come gli episodi narrati nell' Antico Testamento sono figura delle vicende dell'anima nel suo cammino di purificazione.

L'uso del metoda allegorico risponde, in Filone, a due intendimenti. Anzi­tutto, esso ha uno scopo apologetico: conferire dignita culturale al giudaismo, mostrando come nei suoi testi sacri sia contenuta - anzi, precontenuta -quella sapienza che il pensiero speculativo ed etico della Grecia ha poi svilup­pata. Ma, in secondo luogo, l'allegoria risponde anche ad una preoccupazione sistematica: il rapporto tra sensa letterale dei testi e lora verita nascosta ri­specchia la struttura antropologica: fatta a immagine e somiglianza di Dio, l'anima e contenuta nel corpo, che la lega e la trattiene nell'intrico pesante delle passioni. Liberare l'anima dalle passioni e avviarla sui cammino della pu­rificazione totale, verso l'estasi e la contemplazione di Dio, e come liberare il sensa mistico della Bibbia dal vela del suo significato materiale; anzi, la puri­ficazione dell'anima va di pari passo con la scoperta dei significati allegorici e segreti del testa sacra.

Nel dualismo filoniano risuonano prevalentemente motivi della filosofia platonica, pur non mancando elementi di etica stoica (l'idea di virtu come do­minio della spirito sulla sensibilita, e di educazione come formazione, alla stregua del Logos universale che 'forma' la materia plasmandola in base al principia spirituale).

Questa componente eclettica (platonismo, stoicismo, tracce delle religioni misteriche) si ritrova anche nella cosmologia di Filone. Egli infatti interpreta l'idea biblica della creazione mediante il concetto greco di cosmo, del mondo cioe come organismo unitario retto da una Iegge immanente e razionalmente comprensibile. Cosi la Parola che nell'Antico Testamento e la potenza creatri­ce di Dio, viene identificata col, Logos stoico, che dirige il corso del mondo con la sua provvidenza (pronoia). D'altra parte, il versante platonico del pensiero di Filone sottolinea la trascendenza di Dio sul mondo, la sua alterita - in quanta spirito- dalla materia cosmica, segnata dalla debolezza, dalla caduci­ta e dal male. Questa contrasto tra una visione unitaria del cosmo come armo­nia dominata da forze divine e una visione dualistica del rapporto Dio-mondo rimane irrisolto in Filone. Inoltre, n~ l'una tie l'altra di queste facce del suo pensiero, ne una lora eventuale sintesi, rendono ragione dell'idea biblica di creazione; perche questa e aliena da interessi teoretici e vuole invece annun­ciare la signoria assoluta di Dio su quanta esiste e l'appello alla fede come sot-tomissione obbediente e fiduciosa alla volonta divina. -

7.10 I movimenti religiosi nell'ellenismo: astrologia, religioni misteriche, gnosi. La crisi della polis greca - determinata dall'assorbimento della cit­ta-stato nella monarchia dei Diadochi e infine nell'Impero Romano - aveva sra­dicato l'individuo da quella totalita organica e vivente, della quale prima par-

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tecipava traendone sicurezza e senso di responsabilita. Ma la Stoa sapeva ri­creare attorno all'uomo una pili ampia citta: l'universo intero; alla relazione tra i cittadini e la polis si sostituiva quella tra l'individuo e il cosmo; ormai cittadino del mondo (cosmopolita), l'individuo umano adottava come propria la causa dell'universo, ritmava il proprio io sui logos generale, riconoscendo nel destino cosmico non una brutale fatalita mauna superiore razionalita, Ia prov­videnza (6.15).

Tutto questa, almena sui piano della proposta ideale, che funziono per la classe intellettuale, formata dalla tradizione della virtu (arete). Perle masse, il discorso era diverso. Se nella polis !'idea della partecipazione al tutto diventa­va carne e sangue nell' esercizio effettivo del controllo democratico, il rapporto diretto con il cosmo suscitava l'esperienza contraria, di essere in balia di forze non controllabili, costretti alla passivita e alla rassegnazione, Questa esperien­za negativa era acuita dagli sconvolgimenti politici e dalle fluttuazioni econo­miche, che, verificandosi su scala continentale, sfuggivano interamente alla comprensione del singolo e alia sua possibilita d'intervento. E in questa fran­genie che si diffondono un po' in tutta !'area mediterranea dottrine religiose di provenienza orientale, che promettono all'individuo una salvezza al di fuori del cosmo; non pili una visione di integrazione nel mondo, rna un messaggio di liberazione da esso. Possiamo ricordare brevemente fenomeni come l'astrolo­gia e le iniziazioni misteriche, per concedere poi un'attenzione piu distesa allo gnosticismo, in cui il sentimento di opposizione tra l'uomo e il mondo r<;tggiun­ge la sua formulazione pili cosciente.

Nelle religioni astrali i corpi celesti (sole, luna, stelle) sono posti dal Dio creature (o ne sono Ia personificazione) per regolare il ciclo dell'universo, del giorno e della notte, delle stagioni, delle messi e del bestiame. Essi hanno per­cia una valenza positiva per l'uomo e per i suoi interessi.

Ma il mutato sentimento cosmico comporta anche un diverso modo di vedere gli astri: essi non sono piu funzione e specchio dell'unita e armonia del cosmo, rna principia ed espressione della legge tirannica che incombe sull'uomo come fato. L'idea del cosmo e del suo ordine rimane, rna con segno invertito: non piu l'ordine buono e fidato entro cui amministrare la propria vita, ma uno schema rigido e indifferente o un insieme di forze da imbonire e di cui neutra­lizzare gli effetti. Si diffonde percio l'astrologia (di origine mesopotamica), co­me scienza per calcolare il futuro sulla base delle costellazioni astrali; con es­sa si diffonde Ia sua applicazione (l'oroscopo) per parare i colpi avversi delle congiunture astrali e sfruttare quelle favorevoli. Di questa costume sono espressione ed in..:entivo i ri ti che cercano di influenzare le stelle e il destino che esse determinano.

Un carattere piu strettamente religioso presentano i misteri. I riti misterici si diffondono principalmente in Asia Minore, in Frigia, in Siria, in Egitto, con culti incentrati in ogni regione su divinita diverse (Attis, Iside e Osiride, Ado­ne, ecc.). A differenza delle religioni nazionali, i culti misterici aggregano at­torno a se comunita di libera elezione, entro le quali cadono le differenze di razza e di nazionalita, di posizione sociale e di sesso.

Alia comunita e al suo culto si e ammessi con una solenne cerimonia di ini­ziazione (che deve rimanere segreta: di qui il nome di mistero), il cui atto cen-

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trale e la consegna della formula sacra. che realizza l'unione dell'iniziato con la divinita. Effetto di questa unione e Ia salvezza dai pericoli (malattie, insuc­cessi, navigazioni difficili ... ), rna sopra ttu tto Ia salvezza dell' anima al di Ia del­la morte; infatti la divinita, alla cui sorte l'iniziato partecipa, ha vissuto essa stessa un vicenda di morte e di resurrezione, che originariamente esprimeva la morte/rinascita ciclica della vegetazione, rna che e poi passata a rappresentare e a offrire Ia promessa d'immortalita per l'individuo. Di quest'immortalita e garanzia l'appartenenza alia comunita misterica, Ia partecipazione al suo cui­to, l' esperienza religiosa ed estatica che esso solleci ta e spesso provoca effica­cemente.

7.11 La gnosi. Nei testi gnostici, il tramite della salvezza umana non e un culto rna una dottrina e la coposcenza che essa trasmette.

Di questi testi, i piu noti e sistematicamente organizzati appartengono alla tradizione cristiana (Basilide, Valentino, Marcione), tanto che lo gnosticismo e stato considerato a lungo un fenomeno eretico interno a! cristianesirno. II pro­gredire della ricerca ha portato a individuare con certezza l'esistenza di forme protognostiche anteriori al cristianesimo o comunque ad esso estranee, dove sono presenti, con diversa accentuazione, elementi di derivazione giudaica, irn­nica ed egiziana. Importanti, a questo riguardo, il prima libro del Corpus Her­meticum, il Poimander, e la cosiddetta 'biblioteca gnostica' scoperta nel 1946 a Nag Hammadi, nell' Alto Egitto.

I testi gnostici esprimono Ia natura e il destino dell'uomo in un linguaggio mitologico, che e un'antropologia in forma narrativa. Numerose, e a volte con­sistenti, sono le varianti tra le diverse redazioni del mito. Si puo pero rico­struire una specie di modulo narrativo, che della tradizione gnostica raccoglie gli elementi principali.

Tutto parte da un'origine perduta. L'uomo originario era una figura cele­ste, luminosa e unitaria. Una calamita (diversamente spiegata) lo ha fatto cade­re nelle mani delle potenze demoniache delle tenebre, che, dopo averlo lacera­to, ne hanna disseminato i frammenti nel mondo del caos per creare un'imita­zione del mondo della luce, la cui bellezza suscita Ia loro incontenibile invidia. Tali frammenti o scintille luminose costituiscono le anime degli uomini, impri­gionate nel corpo e in esso stordite, inebriate e come addormentate, al punta di dimenticare Ia ]oro patria celeste. Mossa a compassione da questa situazio­ne miserevole, Ia Divinita invia il Figlio, mimetizzato sotto veste umana per non essere riconosciuto e osteggiato dalle potenze demoniache. II Figlio si avvi­cina alle·scintille, risveglia in esse la coscienza dell'esilio e la nostalgia della patria; a quelle che ne accolgono !'invito egli trasmette la dottrina celeste, le formule sacre che devono guidarle nel !oro camrnino di ritorno. Su questa cammino il Figlio-salvatore le precede; le anime potranno seguirlo integral­mente soltanto quando, nella morte, si scioglieranno dal corpo e le scintille sparse si riunificheranno per riformare l'unica figura luminosa.

L'idea centrale che il mito vuol fissare e comunicare e, come si vede, la ra­dicale estraneita dell'io umano al mondo e al corpo, il dualisrno antropologico piu intransigente, di cui quella platonica e Ia formulazione filosofica piu cono­sciuta. L'uomo fa esperienza della solitudine ontologica in un cosmo vuoto e

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senz'anima, dove la regolarita dei fenomeni none manifestazione della fedelta della vita rna monotonia di morte. Quei ritmi naturali, che. in tante religioni erano l'espressione dell'armonia universale, nella cui partecipazione l'uomo trovava salvezza, per lo gnostico sono l'eterno, esasperante ritorno delle mede­sime cose e dei medesimi eventi. Mondo, corpo, tempo, non sono la casa dell'uomo rna la sua gabbia, una gabbia cui egli si adatta nella misura in cui dimentica la propria identita.

Perche l'uomo ha un'identita. A differenza del nichilismo contemporaneo, che pur presenta diverse analogie con essa, la visione gnostica non insegna il non-sen so dell' esistenza umana, l'insuperabile derelizione dell'essere-al-mondo. L'estraneita nei confronti del cosmo e soltanto l'altra faccia dell'affinita origi­naria col Divino', con il mondo celeste e luminoso. Il che significa due cose. Anzitutto, che «il dualismo tra uomo e mondo postula, come scrive Hans Jo­nas, come corrispettivo metatisico quello tra Dio e mondo... Il Dio gnostico non e semplicemente estramondano e sopramondano, rna, riel suo significato ultimo, contromondano. L'unita sublime del cosmo e di Dio e spezzata, i due vengono separati e si apre tra di essi un abisso che non sara mai completa­mente colmato: Dio e il mondo, Dio e Ia natura, spirito e natura, fanno divor­zio, estranei l'uno all'altro, persino contrari». Ma, d'altra parte, proveniente da Dio e portatore della scintilla divina, l'uomo non e in assoluto un essere senza patria; e un essere in esilio, dotato- anche se inconsciamente - di una natu­ra divina che ne fa di diritto un cittadino del cielo. Qui e l'anima segreta della visione gnostica. Dietro il dualismo uomo-mondo (e Dio-mondo) c'e il monismo uomo-Dio, perche Dio e l'io umano «sono parenti consustanziali, scrive Ugo Bianchi, perche si ammette una sussistenza nativa, fisica, della natura divina nella persona dello gnostico, perche si ammettono non un'elevazione e una re­denzione, rna un recupero puro e semplice di sostanza divina perduta; non l'umilta della creatura elevata a figlio, rna l'orgoglio implicito dell'eone deca­duto a creatura».

E tuttavia la gnosi non e semplicemente una filosofia religiosa. La cono­scenza del proprio io, della sua origine e natura, non viene attinta per via di introspezione, di autoanalisi o di spontanea rammemorazione. Essa e frutto di una rivelazione che, mediata dalla venuta del Figlio di Dio o da eventi analo­ghi, sveglia l'uomo dal sonno dell'oblio e gli restituisce quell'autocoscienza che da solo non potrebbe ricuperare. E lo stesso cammino di salvezza non vie­ne pensato in termini umanistici, di formazione, di educazione alla virtu, rna in termini religiosi di ascesi, di liberazione dal corpo, fino alla liberazione su­prema della morte.

II Gesit storico e il Cristo della fede

7.12 Le fonti su Gesu. La prima diffusione del cnstlanesimo s1 mserisce nella stesso contesto di crisi in cui sorgono e si diffondono i messaggi di sal­vezza; anch'esso e, in ampia misura, un annuncio di salvezza, e presenta piu di

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un'analogia con la gnosi e le religioni misteriche. E tuttavia esso sovrasta di gran lunga quel contesto, non solo per la potenza di un messaggio che sarebbe giunto ai confini del mondo, rna per una originalita che e piena e totale fin dal suo apparire.

Non c'e altra via per determinare questa essenza originaria del cristianesi­mo se non· l'interpretazione dei testi in cui essa si e sedimentata ed e stata conservata e tramandata. Si tratta di testi non omogenei: vi figurano esposizio­ni narrative e messaggi epistolari, scritti di poche righe e lunghe trattazioni, pagine dal respiro universalmente umano e sequenze di discorso legate a tee­niche logiche e retoriche da lungo desuete.

Due cose hanno perc) in comune tutti questi scritti: l'og:getto e Ia prospetti­va. Essi parlano di Gesu di Nazareth e ne parlano in un'ottica di fede.

Gesit di Nazareth e un israelita vissuto in Palestina nei primi tre-quattro decenni dell'era cristiana, presentatosi ai suoi connazionali come proteta an­nunciatore de1 regno di Dio, processato e giustiziato per motivi insieme reli­g:iosi e politici. Una comunita di discepoli che Gesu aveva raccolto attorno a se dice di averlo incontrato risorto; anche un iniziale avversario - Paolo di Tar­so - fa Ia stessa affermazione. Tutti predicano che egli e il Cristo, cioe colui nel quale - e nel quale soltanto - l'uomo puo trovare salvezza.

Accostarsi a Gesu nell'ottica della fede giustifica allora credere aile parole dei suoi testimoni; significa credere che Gesu e il Cristo e vivere alla luce di questa certezza. Tutti gli scritti di questi testimoni (scritti che prendono collet­tivamente il nome di Nuovo Testamento) sono dunque a un tempo espressione della fede dei loro autori e indirizzati a promuovere la fede dei lettori. Essi parlano di Gesu di Nazareth; rna cia che di lui interessa gli autori-testimoni non sono gli episodi biografici, non e neppure il fascino della sua personali ta 0 la profondita dottrinale del suo insegnamento; e il carattere decisivo della sua presenza nella storia dell'uotno, e quel significato di salvezza universale che essi avevano soltanto intravisto mentre vivevano accanto a lui, e che han­no finalmente compreso quando il Risorto si e manifestato ai loro occhi. Que­sta interesse unico - non" documentaristico, ne psicologico, ne filosofico, rna salvifico- appare chiammente neg:li scritti a carattere pili teologico; rna esso ispira anche gli scritti "storici', come i Vangeli, che sembrerebbero narrare la vita di Gesu corne si fa nelle buone biografie: riproducendo detti e fatti nel­la forma pili vicina al loro svolgersi effettivo, in un preciso inquadramento cronologico e geografico. Invece, anche i Vangeli sono testimonianze di fede; nati dalla convinzione che Gesu e il Cristo, e volti a comunicarla, essi si preoccu­pano non tanto di: rendere l'esattezza dei fatti, quanto di consegnare illoro sensa.

La disputa tra chi riteneva gli evangelisti fedelissimi reporters dei detti e delle azioni di Gesli, e chi li denunciava come inventori (coscienti o meno) di leggende, e ormai da considerare metodologicamente scorretta: essi non vo­gliono essere cronisti e, quindi, non possono essere falsificatori. I loro raccon­ti sono interpretazioni della vita di Gesli secondo l'ottica di chi in lui ha sco­perto il discrimine della storia; sono regie, montaggi narrativi, dove ogni se­quenza obbedisce non a criteri di razionale dimostrabilita rna a una fondamen­tale volonta di proposta: «venite e vedete».

Tuttavia nei Vangeli e presente una messe abbondante di ricordi di quanto

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Gesu ha fatto, e soprattutto di quanta ha detto; il che permette, se non di rico­struire la sua vita, di individuare i tratti di fonda della sua predicazione. La predicazione di Gesu non e ancora il messaggio su Gesu; quindi non e ancora, in sensa stretto, il messaggio cristiano che genera Ia fede. Essa contiene pero in nuce cio che nel messaggio verra poi esplicitato e dispiegato. La nostra esposi­zione si snoda quindi in due momenti: le parole di Gesu e il messaggio cristiano.

7.13 Le parole di Gesu. Figlio del suo popolo, anche Gesu vive in quell'attesa della liberazione umana e cosmica che ha preso forma negli scritti apocalittici (7.8). Ma, diversamente da questi scritti, egli non indugia a descrivere le mo­dalita della libenizione, i bagliori sinistri della catastrofe, lo svolgimento del giudizio finale, la gloria del mondo futuro, insomma tutte le circostanze che dovevano preparare e accompagnare l'avvento del regno di Dio. Tutto cio ri­mane in ombra nella sua predicazione; in parte perche e risaputo, in parte per­che egli lo considera secondario. Cio che conta per lui (ed e l'unica cosa che manca agli apocalittici) e l'annuncio che il regno di Dio sta per venire, anzi e gia alle porte: «Il tempo e compiuto e il regno di Dio e vicino» (Me. 1, 15). Ge­su non ne descrive la figura, ne proclama la presenza.

Questa proclamazione ha un carattere pratico: e }'invito alia decisione, alla scelta tra Dio e il mondo che sta per crollare. La parola di Gesu accende il tempo, gli da l'urgenza dell'opzione indifferibile: domani e troppo tardi. E non ci si illuda di tergiversare, di aggirare l'ostacolo non scegliendo, cercando di tenere assieme realta incompatibili: «Nessuno puo servire a due padroni; non potete servire a Dio e a mammona (il denaro)>> (Mt. 6, 24). Il Regno di Dio

e simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nascon­de di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e cornpra quel campo.

E ancora

e simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una per­la di grande valore, va, vt>nde tutti i suoi averi e Ia compra (Mt. 13, 44-46).

I connazionali di Gesu, troppo fiduciosi nell'immaginazione apocalittica, stanno a spiare il cielo, per riconoscervi i segni visibili che il regno di Dio e in arrivo. Ma parola e azione di Gesu non sono accompagnati da segni cosmici: sono esse stesse il segno, la cui forza ed eloquenza si rivela 8. chi le accoglie ma resta occulta a chi le rifiuta.

Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno di­ra: eccolo qui, o eccolo Ia. Perc he il regno di Dio e in mezzo a voi (Lc. 17, 21).

E dunque Gesu in persona il 'segno dei tempi'; e di fronte a lui che ognuno e chiamato a decidere tra Dio e il suo futuro, da una parte, e il mondo presen­te ormai in estinzione, dall'altra. Forse Gesu non si e mai dichiarato esplicita-

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mente Messia, l'intermediario di Dio nell'instaurazione del suo Regno; rna la pretesa di essere la presenza decisiva per il suo popolo equivale alla sostanza della mediazione messianica, al di la dei titoli e dei riferimenti.

Ma che significa scegliere Dio invece del mondo? Le attese della fine del mondo determinano spesso un atteggiamento di distacco e di fuga, che si esprime nella forma di un ascetismo spinto (rinuncia al matrimonio, astinenze alimentari ... ) o di un'inerzia volontaria (abbandono del lavoro). L'aspetto para-~dossale della predicazione di Gesu e che essa non contiene nulla di questi at­teggiamenti. Distaccarsi dal mondo non vuol dire lasciare le occupazioni rna abbandonare la preoccupazione, l'affanno dell'avere e l'angoscia del non-avere, per affidarsi' con fede spontanea alia premura del Padre celeste.

Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vo­stro corpo, di quello che indosserete. Guardate gli uccelli del cielo: non se­minano ne mietono ne ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non fila­no, eppure, io vi dico, neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva co­me uno di !oro. Ora, se Dio veste cosi l'erba del campo, che oggi c'e e doma­ni verra gettata nel forno, non fara assai piu per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Pa­dre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate prima il Regno di Dio e Ia sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt. 6, 25-33).

Staccarsi dal mondo e decidere per Dio e anzitutto affidarsi a Lui. Mae an­che disporsi all'incontro con il prossimo, a quell'amore per gli uomini di cui Dio e, nelle parole di Gesu, l'incomparabile modelio. Non bisogna fare discri­minazioni fra buoni e cattivi, cosi come Dio dona sole e pioggia a tutti; biso­gna perdonare senza limiti («settanta volte sette»), come Egli perdona; bisogna promuovere chi e nell'indigenza, rinunciare a prevalere sugli altri, mettersi al loro servizio. Gesu non ha lasciato un sistema di norme morali, rna ha dato all'agire morale il fondamento della fraternita umana sotto lo sguardo e nell'imitazione della stesso Padre.

L'avvento del Regno non e stato soltanto proclamato dalle parole di Gesu, rna avviato dalle sue azioni. I miracoli che egli compie non sono, per lui, un'af­fermazione di personale potenza taumaturgica; sono gli inizi di quel mondo nuovo che i profeti avevano disegnato, di quei tempi messianici che essi aveva­no annunciato pe'~ un futuro lontano. A chi gli chiede se egli e il Messia, Gesu risponde indicando le proprie azioni:

Andate e riferite cio che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano Ia vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri e predicata la buona novella (Mt. 11, 4-5).

Anche le azioni di Gesu sono dunque, come le sue parole, segni che il Re­gno di Dio e venuto, che la storia dell'uomo e alia sua svolta decisiva.

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7.14 «Gesu e il CristO>>. Comunque si vogliono interpretare le 'apparizioni del Risorto', una cosa e certa: da esse prendono inizio Ia fede cristiana e la predicazione che la diffonde in tutto il mondo conosciuto. Finche i discepoli avevano vissuto con Gesu, camminato al suo fianco, la !oro comprensione del­le sue parole era stata fallimentare, chiusa in un'ottica di rivendicazione na­zionalista, con una singolare commistione di religioso e di politico. Percio la morte di Gesu - una morte di condannato d~l supremo potere giudaico -non poteva non significare la crisi delle speranze poste in lui. Ma l'incontro con Gesu risorto non fu ancl1e Ia resurrezione di quelle antiche speranze; fu anzi Ia loro morte dehnitiva e la nascita di una convinzione nuova: che in lui Dio si era manifestato definitivamente all'uomo e che attraverso di lui tutti gli uomini dovevano passare per entrare in rapporto con Dio. Gesu era dunque Messia, rna non come i suoi discepoli l'avevano voluto e sperato; il suo era un messianismo dilatato (da nazionalista a universale), approfondito (da emanci­pazione politica a salvezza compiutamente umana), demitizzato (dall'attesa let­terale della fine del mondo alla scoperta del sensa nuovo del mondo).

Certo, questa fede non maturo di colpo. L'esperienza, anche Ia piu sconvol­gente, e soltanto l'inizio di una lenta trasmutazione delle convinzioni e dei va­lori che una persona coltiva. Gli scritti dei discepoli di Gesu- diventati ormai suoi apostoli- sono tutt'altro che l'espressione di un pensiero teoreticamente compiuto e concluso. Se presi singolarmente, essi testimoniano ogni volta una certezza incrollabile, visti nel ]oro insieme tradiscono uno sforzo di gestazione faticosa, una pluralita di approcci che e ricchezza rna e anche tensione di op­posti non sempre conciliati. Il messaggio cristiano non matura a tavolino, nel­la passione solitaria del genio speculativo, rna si viene forgiando nel fuoco del­le situazioni vitali, a contatto con le problematiche paste dalla predicazione ai non-credenti e dall'impegno esistenziale delle comunita di credenti.

La piu importante di queste situazioni e stato l'incontro con il mondo elle­nistico. Gesu aveva parlato da ebreo ad ebrei, e le prime comunita cristiane erano sorte in territorio palestinese, a cominciare da Gerusalemme. Se l'iden­tita di lingua, di categoric di pensiero, di attese, non garantiva- come abbia­mo visto - l'intelligenza profonda delle parole di Gesu, rappresentava pur sempre un quadro entro cui collocarle, un insieme di punti di riferimento in base ai quali interpretarle. Le case cambiarono pero quando l'esigenza di dif­fondere la nuova fede porto ad oltrepassare i confiili del giudaismo palestine­se per predicare il vangelo ai non-ebrei, ai 'pagani', cioe a uomini che sentiv.a­no e pensavano secondo quegli stimoli e quei modelli che la cultura ellenistica aveva vittoriosamente diffuso. Che significava, per esempio, annunciare che Gesu e il Messia, quando questa parola, anche tradotta: in greco (= Cristo), non suscitava negli uditori di Antiochia o di Alessandria o di Roma alcuna ri­sonanza intellettuale e affettiva? La 'traduzione' del sensa di Gesu doveva an­dare ben oltre il semplice trasferimento linguistico; doveva investire i modi del sentire e del pensare. Ma come operare tale traduzione senza tradire il s.enso che si voleva comunicare, come annunciare al di fuori di Israele quel Dio che si era fatto conoscere come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giac<:>bbe, prima di essere il Dio di Gesu Cristo?

Parlare di Gesu come il Cristo, e di Dio che in lui si era manifestato, non

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era dunque cosa scontata; e non era neppure, per gli apostoli, lo sforzo dialet­tico di spiegare ad altri un pensiero gia personalmente giunto a maturazione. Era elaborare per i nuovi uditori, ed insieme ad essi, la comprensione del st­gnificato di Gesu Cristo.

Questa elaborazione ha raggiunto la sua forma piu matura nelle Lettere di Paolo e nel Vangelo di Giovanni. Se, dal punta di vista della coscienza creden­te, ogni testimonianza dei discepoli su Gesu ha lo stesso valore sostanziale, quando cerca una comprensione riflessa e una comunicazione meglio misurate sulle esigenze della cultura, la fede non puo che rivolgersi a quelle testimo­nianze in oui la sua esperienza e stata piu coerentemente pensata e formulata. Sulla base di queste testimonianze concettualmente piu articolate, e possibile offrire un'esposizione obiettiva del messaggio cristiano, in cui il credente pas­sa trovare rispecchiata intelligentemente la propria fede e il non-credente pas­sa intelligentemente confrontarsi con essa.

7.15 II messaggio cristiano: Dio-uomo-mondo. II retroterra del pensiero cristiano rimane l' Antico Testamento, dove i termini Dio, uomo e mondo sono tra loro correlati in modo essenzialmente diverso che nel pensiero greco.

Il Dio biblico e personale e trascendente: due attributi indissolubilmente solidali. E lnfatti con l'atto eminentemente personale della parola che Dio ha creato il mondo, rivelandosi cos! come soggetto e liberta, e l'ha posto come ra­dicalmente altro da se, non prolungamento del proprio essere rna realta crea­turale fragile e caduca. Tuttavia l'uomo biblico non e interessato a precisare lo statuto ontologico del rapporto tra Dio e il mondo; il suo interesse va aile modalita esistenziali e pnrtiche che questa rapporto presenta per l'uomo. Quando Gesu dice che Dio «nutre gli uccelli del cielo e veste l'erba del campO>>, non lo fa per esprimere con immagini una visione cosmologica rna per stimolare la fede dei discepoli. E neppure quando Paolo esclama che tutta la creazione soffre le doglie del parto, si deve vedere in lui un interesse alla realta cosmica come tale; cio che gli sta a cuore e affermare la solidarieta tra la sorte del mondo e la sorte dell'uomo entro l'unico disegno di Dio.

Quando l'uomo biblico afferma che Dio ha creato il mondo, non pensa a un nesso causale rna a una rivelazione esistenziale: creazione significa che l'uomo deve riconoscere sulla propria vita un'istanza superiore, cui affidarsi e secon­do cui orientarsi.

Ne deriva anche una peculiare visione dell'uomo: questi non e ne una por­zione del grande organismo cosmico, ne un'intelligenza sintonizzata sul logos del mondo; e una volonta, una capacita di decisione, la cui essenza consiste nell'essere chiamata e quindi, nel senso rigoroso del termine, 'responsabile'. Responsabile di fronte a Dio- responsabile del mondo: sono questi i due poli che definiscono l'uomo come volonta. La relazione con Dio non si traduce in un culto dell'interiorita, in una ricerca di perfezionamento dell'anima, rna nel compimento della sua volonta nella concretezza delle situazioni storiche. E stato detto che, mentre il greco ha una mentalita 'logica', in quanto vuol pene­trare l'origine e Ia natura delle cose, la mentalita dell'ebreo e 'escatologica', ri­volta cioe a cogliere e a promuovere la loro destinazione. E questo il senso ul­timo delle responsabilita per l'uomo biblico: portare le cose al loro fine, ricon­segnare a Dio un mondo maturo.

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1.±LP 7 - Il Gesu storico e il Cristo della fede

7.16 II me~saggio cristiano: il male radicale. Il Nuovo Testamento, come gia gli ultimi libri dell' Antico, e tutto attraversato dalla convinzione che l'uo­moe peccatore; non in maniera sporadica o comunque episodica, rna con una continuita, profondita e universalita da costituire per lui quasi una seconda natura. <<Tutti hanna peccato, e sono privi della gloria di Dio» (Rom. 3, 23) di­chiara Paolo senza mezzi termini; e in que] «tutti» sono inclusi sia i pagani che i membri del popolo eletto. E Giovanni gli fa eco: <<Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (I Gv., 19).

E non si tratta sol tanto di 'peccati', di atti colpevoli che, moltiplicandosi a dismisura, si diffondono e travolgono l'umanita come una valanga. C'e qualco­sa di piu organico, di costituzionale: Giovanni parla, altrove, di un «peccato del mondo>:, Paolo del «peccato» in assoluto, come di una potenza che sta die­tro le singole colpe e irresistibilmente le genera, un male radicale che infetta l'uomo.

Ora, questo pessimismo sembra in aperta contraddizione con quella re­sponsabilita che abbiamo vista affermata quale componente essenziale della concezione biblica dell'uomo. Come puo sussistere una responsabilita delle proprie azioni, se esse scaturiscono da un potere occulto e deterministico, da una specie di 'coazione a ripetere' il male?

Per rispondere a questa domanda, bisogna determinare con piu precisione qual e, nell'antropologia biblica, l'essenza del peccato. Non c'e dubbio che, lungo tutto l'arco storico dei libri sacri, coscienza del peccato e coscienza del­la responsabilita vanno di pari passo e si alimentano a vicenda: la possibilita del peccato e inscritta nella chiamata alla responsabilita, e il sensa della re­sponsabilita viene ulteriormente scavato dall'esperienza di peccato. Per Socra­te il peccato e un errore: errore dell'intelligenza che svia necessariamente la volonta. Basta illuminare la ragione, riportandola alla verita, per riportare au­tomaticamente la volonta al bene (3.13). Nella gnosi il peccato e Ia caduta ori­ginaria, in cui ognuno e stato coinvolto e che ognuno si porta dentro come una fatalita. Manca, in un caso come nell'altro, Ia liberta intesa come capacita di scelta tra bene e male. Anche nella Bibbia manca un termine apposito per esprimere questa capacita; rna Ia sua realta e presente e fondante: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; scegli dunque la vi­ta ... Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ... » (Deut. 30, 15 ss.). L'uomo e chiamato al bene, rna non e determinato per natura al bene; cio che lo definisce e l'essere sui crinale dell'opzione tra bene e male, e avere tra le mani quest'opzione da cui dipende il senso del proprio esistere. Il peccato e il volontario allontanamento da Dio, dal bene; non scaturisce da una natura o struttura antropologica, rna da qualcosa che e al di la di ogni data e inclinazio­ne naturale, da quel centro della persona che la Bibbia chiama 'cuore'.

E tuttavia, se questo cuore non e una natura, attraverso le sue scelte l'uo­mo si da una natura. Bene e male, scelti dalla volonta, non si disperdono come traccie lasciate sulla sabbia, rna si imprimono sulla stessa liberta che li ha vo­luti. L'uomo diventa quel bene e quel male che ha fatto.

Ora, nella coscienza etica e religiosa dell'uomo biblico e maturata lenta­mente, lungo secoli d'esperienza, la convinzione che la storia dell'uomo e stata in ampia misura una scelta in direzione del male, cosi che questa e diventato

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come un archetipo dell'agire umano. La colpa, da scelta si e fatta destino, da possibilita della volonta si e innalzata a potenza che domina la volonta. E que­sta il senso di una delle pagine piu note di Paolo:

Io non riesco a capire neppure cio che faccio; infatti non quello che vo­glio io faccio, rna quello che detesto; ... quindi non sono piu io a farlo, rna iJ peccato che _abita in me. Io so infatti che in me, cioe nella mia carne, c'e la tendenza al bene, rna non la capacita di attuarlo; infatti io non compio il be­ne che voglio, rna il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non vo­glio, non sono piu io a farlo, rna il peccato che abita in me (Rom. 7, 15-20).

Queste rig he richiamano, a prima vista, la nota espressione di Ovidio «Vi­deo meliora proboque, deteriora sequor»: «Vedo e approvo le cose buone rna se­guo le peggiori». Ma nell'autore classico i termini del conflitto sono ragione e passioni; e la volonta, che pure mantiene la sua trascendenza razionale di pnn­cipio, si trova puntualmente travolta dalla forza della passione. Per Paolo, il conflitto e interno alia volonta stessa; e la contraddizione di una liberta che si e fatta schiava con le proprie mani e si vede costitutivamente ridotta all'impo­tenza, declassata - come dira Lutero - a 'servo arbitrio', dinamicamente identificata al peccato. In questa situazione la ragione non serve, perche anch'essa preda della logica del peccato; e un volontaristico impegno di auto­conversione non farebbe che ribadire l'appartenenza dell'uomo all'universo della colpa, in quanto esprimerebbe non l'amore per il bene rna un attacca­mento egocentrico alia salvezza. Paolo descrive una situazione oggettivamente disperata (che soggettivamente puo esprimersi come angoscia, rna anche come evasione e dimenticanza).

E questo fallimento dell'uomo non rimane arginato nella sua interiorita. Se l'uomo e responsabile del mondo, Ia sua colpa supera necessariamente i confi­ni della soggettivita e dilaga nelle relazioni interumane e nei rapporti con lo stesso mondo materiale. II peccato e il fallimento integrale del mondo; e Ia storia umana e storia di peccato: questo e lo spettacolo che gli uomini del Nuovo Testamento contemplano alla luce della fede biblica.

7.17 II messaggio cristiano: Ia salvezza. La liberazione dell'umanita dal peccato e avvenuta attraverso Gesu Cristo: quest'affermazione concentra la so­stanza e il senso della predicazione cristiana; perch) essa risuona dall'uno all'altro capo del Nuovo Testamento come un peana di vittoria. E necessario coglierne alcune note: «In nessun altro c'e salvezza; non vi e in£atti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale e stabilito che possiamo essere salva­ti» (Atti, 4, 12). «Voi esistete in Cristo Gesu, il quale per opera di Dio e diventa­to per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (I Cor., 1, 30). «Cristo ci ha liberati perche restiamo liberi» (Gal. 5, 1). Dio <<ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Col., 1, 13-14). « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perche chiunque ere­de in Lui non muoia, rna abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, rna perche il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv., 3, 16-17).

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Che cosa signjfica che Cristo ci ha salvati, liberati, ci ha donato la vita? II Nuovo Testamento non elabora una dottrina coerente e compiuta della salvez­za; ma, raccogliendo i diversi elementi che vi si affollano, e possibile tracciar­ne un disegno essenziale, che si dispiega come in due momenti, corrispondenti a due interrogativi fondamentali: in che modo Gesu vive e opera per la salvez­za dell'umanita? In che modo la salvezza da lui ottenuta raggiunge gli uomini e vive e opera in essi?

Gesu viene visto come l'uomo che aderisce a Dio senza riserve, rovesciando esemplarmente la condotta peccatrice dell'umanita.

Una delle pagine piu celebri dell' Antico Testamento aveva presentato la stu­ria fallimentare degli uomini concentrandola in una figura simbolica, Adamo (che significa, appunto, uomo): disattendendo il ·comando di Dio, costui non so­lo ne aveva perso l'amicizia, ma aveva rovinato il rapporto con se stesso, con la donna, con gli altri uomini, con la natura (Gen. capp. II-III). II senso di que­sta mito era di dichiarare che la causa ultima delle alienazioni e delle soffe­renze dell'uomo nella storia non va cercata in disfunzioni naturali ma nel cat­tivo uso che egli fa della liberta. Ora, la fede cristiana contempla in Gesu Cri­sto il Nuovo Adamo; nuovo, non nel senso che ripeta l'impresa distruttiva, ma in quello esattamente opposto di chi ricomincia daccapo, su basi nuove, la stu­ria dell'umanita. Gesu allora e l'uomo che accoglie e mette in opera integral­mente il disegno di Dio, in rappresentanza di tutti gli uomini. Questa 'obbe­dienza' di Gesu, che e il capovolgimento della volonta ribelle operante nel pec­cato, trova espressione lungo tutta la sua vita rna soprattutto nella sua morte. A prima vista la morte di Gesu sembra il segno di un rifiuto che Dio oppone alla sua vita; essa infatti e non solo morte violenta, rna condanna dichiarata dalla suprema autorita civile e religiosa. Anche i discepoli restano sconcertati ed accasciati: se Dio non abbandona i giusti, cosa pensat';e del supremo abban­dono in cui ha lasciato Gesu? («Dio mio, perche mi hai abbandonato?» egli gri­da sulla croce). Non e forse, questa, la testimonianza, se non dell'ingiustizia di Gesu, almeno della sua illusione?

Tutto cambia radicalmente con l'esperienza della sua resurrezione. Questa significava la riabilitazione del giustiziato da parte di Dio, il sigillo divino sul­la sua vita e sulla sua morte. Ma non basta. Se vita e morte di Gesu erano quelle del nuovo Adamo, se trascendevano la sfera individuale per rappresen­tare l'intera umanita, con la resurrezione Dio non si limitava a render giusti­zia a Gesu, rna accoglieva l'umanita in lui raccolta e come contenuta. L'arco di vita, morte e risurrezione di Ge5u costituisce peril Nuovo Testamento la para­bola efficace del ritorno dell'uomo a Dio e della riconciliazione di Dio con l'uomo, la rimarginazione della rottura instaurata con il peccato e la ricostru­zione dell'alleanza e dell'amicizia.

I teologi del Nuovo Testamento pensano e formulano questo significato del­la vicenda di Gesu (e in particolare della sua morte) con un ricco ventaglio di immagini, desunte dalla tradizione giudaica o dalla cultura religiosa ellenisti-

. ca. Sulla prima linea, essi dicono che,,Gesu e la vittima sacrificale offerta per i peccati dell'uomo, che la sua morte e il rito di espiazione e di propiziazione, e il prezzo pagato per il riscatto. Sull'altra, il mito gnostico del Figlio di Dio in­viato tra gli uomini per riportarli a Dio offre uno schema dinamico suggestivo

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per inquadrare il sensa della missione di Gesu: venuto sulla terra dal mondo di Dio, con la morte egli torna a Dio trascinando con se, simbolicamente, l'umanita; la morte di Gesu e allora il passaggio dell'umanita da questa vita di perdizione e di oblio alia vita autentica del mondo divino.

In ogni caso, questi prestiti culturali servono per esprimere un significato che li trascende: il val ore unico che la persona di Gesu rives te nella s tori a del­la relazione tra Dio e l'uomo, cioe nella storia umana in quanta ha di piu deci­sivo. Tornare in pace con Dio, attraverso Gesu, significa riacquistare l'apertu­ra dell'esistenza umana a un futuro ricco di sensa; significa rimettere in cam­mino l'uomo e il mondo.

Ma in che modo questa nuova situazione opera dentro l'uomo? Che signifi­ca, sui piano antropologico, la riconciliazione dell'umanita con Dio? E questa la seconda faccia del problema della salvezza quale sL profila nel Nuovo Testa­mento. Entrato nella vita di Dio in rappresentanza degli uomini, Gesu diventa, in rappresentanza di Dio, il nuovo principia della storia umana. Anche qui le formule e le immagini si accavallano, motivi di derivazione ebraica e temi di ispirazione ellenistica si intrecciano: Gesu Cristo, nella sua posizione di Risor­to, e signore della storia, e legislatore e giudice, e parola e luce che orienta, e sorgente di vita, e forza che sostiene e dolcezza che consola.

Ma per esprimere la presenza e l'efficacia del Risorto nella vita degli uomi­ni una formula si impone al di sopra di tutte le altre: Gesu dona il suo Spirito, lo Spirito che i profeti dell' Antico Testamento avevano promesso come il bene piu qualificante dei tempi messianici.

Che i primi anni delle comunita cristiane siano stati particolarmente ricchi di esperienze 'carismatiche' (e cioe concesse da Dio per l'utilita di tutti) e cosa storicamente accertata. Atmosfera di entusiasmo spirituale, scoperta tumul­tuosa di possibilita psichiche e corporali prima sconosciute (chiaroveggenza profetica, preghiera estatica, capacita curative), una certa ebrezza della £rater­nita nella comunione di fede, sono fenomeni che le Lettere di Paolo documen­tano con ampia attendibilita. Ora, fonte di tutti questi fenomeni viene conside­rato lo Spirito di Gesu; e la profusione con cui essi si manifestano e la miglio­re testimonianza che i tempi messianici sono arrivati. E tuttavia Paolo non condivide pienamente quest'entusiasmo, e propane della presenza della Spirito un'interpretazione piu sobria e pill sostanziale. Se l'uomo si e reso impotente a compiere il bene, trasformando la propria liberta in schiavitu interiore, per salvarlo sarebbe necessaria una forza positiva che, da una parte, lo investisse da fuori e, dall'altra, entrasse a far pa'rte di lui, diventasse in lui nuova sogget­tivita. E questa, peri teologi piu maturi del Nuovo Testamento, l'essenza dello Spirito donato all'uomo. Esso opera nel centro della personalita umana, nel 'cuore', come liberta-per-il-bene, senza mai diventare proprieta dell'uomo; lo Spirito e l'orizzonte di trascendenza che, vincendo dal di dentro la paralisi de­rivata dal peccato, riapre l'uomo al rapporto positivo con gli altri e con il mondo.

Di qui lo statuto paradossale dell'esistenza cristiana: l'uomo rigenerato dal­lo Spirito ha la propria identita al di fuori di se, e la mantiene rinunciando a possederla. L"uomo nuovo' non appartiene al 'mondo': ne alia necessita del de­terminismo naturale ne alla logica del determinismo indotto; rna proprio per-

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cio e capace di gestire responsabilmente se stesso e il mondo. Cristo ci ha Iibe­rati dalle 'potenze', afferma Paolo; e sono le forze astrali che, secondo le con­vinzioni del tempo,'incombevano sulla vita dell'uomo e ne tracciavano inesora­bilmente il destino. Non c'e piu il destino, da quando Cristo ha debeliato e sog­giogato i suoi operatori; c'e l'uomo che vive nella liberta dello Spirito.

7.18. II messaggio cristiano: Ia nuova esistenza. Dovrebbe essere chiaro che questa liberta e agli antipodi di ogni pretesa di autosufficienza, di ogni esalta­zione della liberta-per-la-liberta. Abbiamo gia detto che essa viene da Dio, dal Cristo risorto, e ha quindi fuori di se la propria origine. Ma la liberta cristiana ha fuori di se anche il proprio fine: e liberta-per-l'amore. Paolo, assertore in­transigente di questa liberta, deve combattere su due fronti: contro coloro che tentano di introdurre nella comunita dei credenti il legalismo giudaico quale strumento necessaria di salvezza, Paolo riafferma che la salvezza viene dallo Spirito e non da un codice; rna contro quelli che si richiamano alia liberta del­lo Spirito per giustificare il libertinismo morale, I' Apostolo chiarisce che Ia li­berta cristiana non e arbitrio ne immoralismo, rna Iegge interiore che spinge al servizio dei fratelli. E di fronte alia ricchezza di doni straordinari che sem­bra inebriare i neofiti della comunita da lui fondata a Corinto, ancora Paolo stabilisce una gerarchia, dove al vertice, dono supremo e unicamente essenzia­le e l'amore:

Aspirate ai doni piu grandi! E io vi mostrero una via migliore di tutte. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, rna non avessi l'amo­re, sono come un bronzo che risuona o come un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri della scienza, e pos­sedessi Ia pienezza della fede cosi da trasportare le montagne, rna non aves­si l'amore, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, rna non avessi l'amore, niente mi gio­va. L'amore e paziente, l'amore e benigno; l'amore non e invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, rna si compiace della verita. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L'amore non avra mai fine. (I Cor., 13, 1-8).

A sua volta, Giovanni afferma che l'amore per i fratelli e la vita stessa di Dio calata nella storia:

Carissimi, amiamoci gli uni gli ala-i, perche l'amore e da Dio: chunque ama e generato da Dio e convsce Dio. Chi non ama non ha conociuto Dio, perche Dio e amore. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di Lui e perfetto in noi. Noi amiamo, per­che Egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: 'lo amo Dio' e odiasse il suo fratello, e un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non puo amare Dio che non vede. Questo e il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (I Gv., 3.7-8, 11-12, 21).

E anche per Giovanni, come per Paolo, si tratta di amore concreto, che vive e si dispiega nell'attenzione ai bisogni elementari degli uomini:

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Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato Ia sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare Ia vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchez­ze di questa mondo e vedendo il suo fratello in necessita gli chiude il pro­prio cuore, come dimora in lui l'amorc di Dio? Figlioli, non amiamo a paro­le ne con Ia lingua, rna coi fatti e nella verita. (I Gv., 3, 16-19).

Due sono dunque i poli che definiscono l'esistenza cristiana: l'origine da Dio e Ia finalita per l'uomo. II primo polo assume il nome di fede, pistis; il se­condo, di amore, agape. Fede non e adesione ad una dottrina, a un discorso teorico su Dio o ad una speculazione sulla natura di Cristo, rna apertura ad accogliere il dono che Dio fa all'uomo, attraverso Cristo e il suo Spirito, di · una nuova soggettivita. Amore non e estasi mistica che assorba l'uomo nel di­vino, rna attuazione della soggettivita rinnovata da Dio, nella responsabilita per un mondo pieno e riconciliato.

Ma un altro aspetto caratterizza l'esistenza cristiana: illuogo in cui la fede e l'amore nascono e si sviluppano e la comunita, Ia chiesa. La conversione a Cristo non puo restare un'avventura individuale; essa trova Ia sua ratifica con l'ingresso nella comunita dei discepoli, il cui suggello rituale e il battesimo. Nel battesimo si fa visibile e si socializza il dono dello Spirito al nuovo creden­te. Insieme con i fratelli nella fede, egli celebra la morte e la resurrezione del suo Signore in forma di pasto conviviale; insieme con loro ascolta Ia narrazio­ne della vita di Gesu e le interpretazioni che ne penetrano e ne comunicano il senso; con !oro, infine, tesse una rete di fraternita che si esprime nella gioiosa condivisione di cio che ognuno possiede. La descrizione che gli Atti degli Apo­stoli ci offrono della prima comuni ta cristiana e certamente idealizzata: rna in­dica Ia linea di tendenza lungo Ia quale ogni comunita si muove, l'immagine su cui si misura:

Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna; nello spezzare il pane e nelle preghiere. Tutti coloro che erano di­ventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprieta e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa, prendendo i pasti con Ietizia e semplicita di cuore, lodando Dio e godendo Ia simpatia di tutto il mondo (Atti, 2, 42-47).

E ancora:

La moltitudine di .coloro che erano venuti alia fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprieta quello che gli apparteneva, rna avevano ogni cosa in comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della Risurrezione del Signore Gesu e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra !oro era bisognoso, perche quanti pos­sedevano campi e case li vendevano, portavano l'importo di cio che era sta­to venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (Atti, 4, 32-35).

In questo modo, coloro che credono in Gesu Cristo intendono testimoniare in mezzo al mondo la possibilita di vivere senza rassegnazione alla fatalita e al

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non-senso delle cose, e senza I' ossessione di dover produrre il senso con I' esco­gitazione di tecniche etiche, ascetiche, estatiche, politiche.

Finalmente, se l'amore ha in Dio ha Ia sua origine, non puo che vincere an­che !'ultimo nemico dell'uomo e il frutto piu amaro del peccato: la morte. «L'amore non avra mai fine»: Ia fraternita vissuta dai discepoli di Gesu Cristo raggiungera la pienezza soltanto nella partecipazione alla sua Resurrezione.

, Una certezza, questa, ben diversa da quella filosofica sull'immortalita dell'ani­ma, anche se, nell'impatto tra fede cristiana ed ellenismo, le due cenezze arri­veranno ben presto a fondersi.

II cristianesimo delle origini

7.19 I criteri dell'ortodossia. Solo sui finire del II secolo il cristianesimo si presenta con una fisionomia abbastanza precisa. Prima di allora il messaggio diffuso dai discepoli di Gesu dette luogo a innumerevoli manifestazioni di dot­trina e di pratica religiosa, nelle quali si rifletteva, da una parte, la memoria del Maestro, dall'altra, !'indole culturale del gruppo a cui i credenti appartene­vano. Gli stessi scritti neotestamentari, d'altronde, documentano la varieta di questa simbiosi tra la predicazione apostolica e le forme culturali dominanti nelle diverse aree del mondo ellenistico. Le scoperte archeologiche fatte in quest' ultimo dopoguerra, quella di cui si e de tto (7 .11) della biblioteca gnosti­ca in alcune grotte di Nag Hammadi, in Alto Egitto, e nel 1947 quella dei roto­li di Qumran, nei pressi del Mar Morto, sede della setta giudaica degli Esseni, dispersa nel 68 d.C., ci hanno permesso di far luce sul contesto spirituale di cui il cristianesimo delle origini si nutri e da cui dovette difendersi per mette­re in salvo Ia propria originalita. L' elenco preciso (canone) dei testi che saran­no detti Nuovo Testamento rientra appunto tra gli espedienti di difesa nei con­fronti di un ambiente spirituale che mirava a riassorbire l'evento cristiano dentro le proprie categorie religiose . .Accanto ai 'Quattro Evangeli' (secondo Marco, Matteo, Luca, Giovanni) circolavano con pari autorita altri 'evangeli', come quello di Filippo, e soprattutto quello di Tommaso, dove alcuni esperti trovano tracce di sapienza buddista e induista (non si dimentichi che la tradi­zione fa di Tommaso l'apostolo dell'India).

_A..bbiamo gia documentato (7.8-9) la complessita della cultura religiosa nel mo-ndo giudaico-ellenistico agli inizi della nostra era, una complessi ta che sfugge a chi si limiti, nel ricostruire !a cultura del mondo antico, alle scuole filosofiche dominanti. Queste avevano adepti soprattutto nelle elites, mentre gli strati sociali piu umili, aggiogati al duro tirocinio della vita quotidiana, cercavano luce e consolazione al di fuori del mondo concettuale dei filosofi. Fu in questa arcipelago nascosto, abitato da schiavi, salariati e commercianti, e vivificato da una inquieta 'controcultura', che il messaggio cristiano trovo piu facile ascolto, prima ancora di diventare un messaggio concettualmente ben definito.

II punio d'innesto tra i primi predicatori itineranti e Ia societa erano, per

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lo piu, le sinagoghe giudaiche (ce n'erano nei centri piu importanti del mondo ellenistico) frequentate anche dai proseliti, cioe da fedeli che erano ebrei non per razza rna per credo religioso. II punto d'innesto diveniva spesso anche punto di rottura e conseguentemente di dilatazione nell'ambiente pagano. Quando, con Ia distruzione di Gerusalemme (nel 70 d.C.) l'ebraismo della dia­

. spora perse il suo luogo geografico di coesione, si accelero lo sradicamento dei cristiani (il 'nuovo Israele') dalla Sinagoga e si fece definitivo un importan­te mutamento nella !oro coscienza di se: essi si appropriarono dei libri sacri dei Giudei chiamandoli Antico Testamento, quasi che essi fossero stati scritti per !oro, quasi che l'intera storia di Israele altro non fosse stata che Ia prepa­razione di Gesu. Come vedremo subito, lo stesso trattamento i cristiani riser­veranno alla cultura greca. trasformandola in una lunga pedagogia a Cristo, parallela a quella giudaica.

Manon e detto che questa integrazione del giudaismo e dell'ellenismo nella coscienza cristiana abbia avuto uno sviluppo lineare ed univoco: gli scritti del tempo ci testimoniano una fusione tra antiche e nuove credenze, contrassegna­ta da diversissimi dosaggi tra pacifiche assunzioni e rigetti intransigenti. Solo lentamente andra prendendo consistenza una 'ortodossia' in rapporto alia qua­le divennero 'eresie' le posizioni spirituali non allincate. L'ortodossia implica­va l'accettazione di tre elementi: il canone del Nuovo Testamento (e cioe l'ado­zione di alcuni libri dell' eta apostolica con esclusione di al tri che circolavano nelle comunita cristiane); una professione di fede formulata in maniera univo­ca e richiesta a chiunque volesse ricevere il battesimo; una direzione delle co­munita da parte dei vescovi, preti e diaconi secondo un modulo monarchico che fini con l'avere il suo fulcro unitario nel vescovo di Roma. Fu cosi che il Cristianesimo, dallo stato fluido in cui visse fino a tutto il II secolo, passo allo stato solido destinato ad avere Ia meglio sulle spinte divergenti delle 'eresie', che, a partire da Costantino nel IV secolo, saranno disperse o represse, anche per mezzo della spada imperiale.

7.20 II confronto col pensiero greco. Anche per comprendere Ia matrice fi­losofica delle grandi eresie, merita particolare attenzione il confronto tra fede cristiana e pensiero greco. Si e visto come le maggiori scuole ellenistiche fos­sero anch'esse, a !oro modo, dottrine di salvezza (6.3), organizzate non di rado come vere e proprie chiese, con le loro assemblee anche cultuali. con i loro dog­mi, con la ]oro ansia di tenersi pure da questo mondo. Prima o poi il confron­to tra le due vie di salvezza, quella costruita di generazione in generazione dai grandi filosofi e quella apertasi con Ia croce di Gesu il Nazareno, ci sarebbe stato. E non sarebbe stato un confronto facile. Ne aveva fatto Ia prova il mas-. simo degli annunciatori del nuovo messaggio, Paolo di Tarso, attorno all'anno 50 e dunque proprio agli esordi della chiesa cristiana. Come raccontano viva­cemente gli Atti degli apostoli (17, 16-34), Paolo si era recato ad Atene dove prese a discutere non solo nella sinagoga con i giudei rna anche «sulla piaz­za principale con quelli che incontrava». «Anche alcuni hlosofi epicurei e stoi­ci discutevano con lui e alcuni dicevano: che cosa vorra mai insegnare questo ciarlatano?». E per meglio ascoltarlo lo condussero suli'Areopago, dove avve­nivano per solito i dibattiti di rilievo. «Tutti gli ateniesi infatti - nota il testo

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sacro con una certa malizia - e gli stranieri cola residenti non avevano passa­tempo piu gradito che parlare e sentir parlare>>. Paolo, alzatosi in mezzo all' Areopago, disse:

Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Pas­sando infatti ed osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: AI Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conosce­re, io ve lo annunzio. II Dio che ha fatto il mondo e tutto cio che contiene, c~e e signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo ne dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bi­sogno di qualche cosa, essendo lui che da a tutti Ia vita e il respiro e ogni cosa. Egli creo da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perche abitassero su tutta Ia faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i con­fini del loro spazio, perche cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andan­do come a tentoni, benche non sia Jontano da ciascuno di noi. In lui infatti Yiviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti han­no detto: <<Poiche di lui stirpe noi siamo». Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che Ia divinita sia simile all'oro, all'argento e alia pietra, che porti l'impronta dell'arte e dell'immaginazione umana. Dopo es­ser passato sopra ai tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiche egli ha stabilito un giorno nel quale dovra giudicare la terra con lliustizia per mezzo di un uomn che e~li ha de­signato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti.

Quando sentirono parlare di risurrezwne di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un'altra volta>>.

Nella reazione dei filosofi al discorso di Paolo c'e una ragione molto seria di cui solo di tanto in tanto, nella millenaria vertenza tra fede e filosofia, ci si e resi conto. Da parte sua, Paolo sembro essersi accorto del carattere equivoco della sua sortita in campo filosofico: da Atene si reco a Corinto, dove il suo uditorio di povera gente (lui stesso si mantenne col lavoro delle sue mani) gli consentiva di predicare senza gli accorgimenti del sapere umano e di predica­re soltanto Gesu crocifisso. Il diaframma che rendeva tra loro estranei Paolo e i filosofi era nella diversita delle forme del sapere che l'uno e gli altri rappre­sentavano. Quello che Paolo insegnava non era una dottrina, era la 'notizia' di un fatto storico avvenuto di recente e di un fatto futuro implicitamente annun­ciato dal primo; quello che l'uditorio si attendeva era una dottrina esposta per via dimostrativa. Lo scarto epistemologico era senza possibilita di saldaiure. I prirni cristiani non erano in grado di a:vvertirlo in quanto essi accoglievano la nuova via annunciata dagli apostoli come la 'vera filosofia'. In base a questa certezza si delinearono due tendenze: quella conciliativa, che mirava ad assor­bire il patrimonio del sapere filosofico greco all'interno della nuova dottrina quasi esso fosse stato niente pili che una sua preparazione; e quella della pole­mica intransigente che, in nome della verita di Cristo, condannava ogni altro sapere come espressione di Satana, principe della menzogna.

7.21 Le tendenze conciliative. Giustino. Primo esponente della tendenza conciliativa tra fede cristiana e filosofia greca e il filosofo Giustino (ca. 100-163). Venuto dalla Samaria a Roma, si converti all a fede cris tiana, di cui di-

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venne appassionato propagatore e finalmente testimone col versamento del sangue. Inquieto ricercatore della verita, il suo arrivo alia fede chiuse un lun­go itinerario da lui stesso raccontato nel Dialogo con Trifone. Dopa essersi ri­volto successivamente- cosi egli racconta- ad uno Stoico, che per troppa fi­ducia nell'uomo non gli fece fare nessun progresso nella conoscenza di Dio, poi ad un Peripatetico, che gli chiese su due piedi di fissargli un salario, poi a un Pitagorico, che lo costrinse ad una lunga iniziazione preliminare alla scien­za, si affido a un Platonico che suscito in lui l'ingenua speranza di poter vede­re subito Dio. A liberarlo da questa illusione fu un vegliardo, incontrato sulla riva del mare, dove si era recato per trovar silenzio e solitudine. Egli gli rivel<) che Ia vera filosofia, quella che conduce alla perfezione e alia felicita, non si raggiunge per via di dimostrazione, non e insomma quella dei sapienti di que­sta mondo, e quella dei testimoni della verita, dei profeti di Dio, degli amici di Cristo, del Verbo incarnato che illumina ogni uomo e che e stato predetto da Mose e dai profeti. L'idea di Logos permette a Giustino di innestare Ia sua fe­de cristiana nella filosofia platonica, di cui Ia fede diventa come il naturale epilogo, e di aprirsi all'intera storia degli uomini senza settarismo, dato che «il seme del Verbo (logos spermatikos) e innato in tutto il genere umano». In virtu di questa universale partecipazione alia medesima Ragione divina, i grandi filosofi sia greci che barbari hanno anch'essi illuminato gli uomini con la parziale rivelazione di quel Cristo che solo i cristiani conoscono. E questa la tesi centrale dell'altra opera di Giustino, ]'Apologia (con un'appendice che e stata denominata tradizionalmente Seconda apologia, scritta nel 150 per l'im­peratore Antonino Pio e suo figlio Marco Aurelio).

La conciliazione tra vangelo e filosofia, di piu, Ia riduzione della filosofia precristiana ad una lunga e incerta preparazione della luce che solo ai cristia­ni splende pura e incontaminata (Platone diventa un Mose), avrebbe fruttifica­to in seno aile numerose comunita disperse nel mondo greco-romano, perse­guitate, vilipese dalla cultura dell'ambiente, arricchendole di una fierezza non priva di oltranzismi. Gia nel discepolo di Giustino, Taziano, la serena universa­lita del maestro degenera in tracotanza: secondo lui, tutto cio che di buono contiene Ia filosofia greca c'e gia nella Bibbia, anzi e dalla Bibbia che essa lo ha attinto. Discorso che avra fortuna: Eusebio di Cesarea, lo storico-teologo della corte di Costantino, lo portera aile ultime conseguenze, in conformita alla propria ideologia politica che vede nel cristianesimo !'anima del nuovo impero.

Ma Ia chiesa del secondo secolo e ancora lantana da simili pretese. Vessata da ricorrenti persecuzioni, essa e tutta presa dal travaglio di contenere nell'unita di convinzioni e di pratica morale fedeli di diversa provenienza e di diversa tradizione. Non solo, rna deve adattarsi, ora che stanno cadendo nel nulla le attese di una fine del mondo, all'imprevisto compito di vivere den­tro Ia storia, come dire dentro le istituzioni imperiali, dall'economia al diritto, dal matrimonio alla milizia nell'esercito, dal metoda educativo dei bambini al­Ia partecipazione agli atti pubblici regolati dal calendario del rituale pagano. Fino a che punto e con quali contenuti concreti le 'ecclesie' ,nate all'ombra del­la sinagoga potevano diventare romane?

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7.22 La contaminazione gnostica. L'astratta conciliazione di Giustino tra fe­de e filosofia serviva poco per un cosi immane compito pratico. In seno e in contrapposizione a questo processo, guidato non dai filosofi rna dai vescovi, abituati a risolvere i problemi in sinodi collegiali, inventando via via risposte ispirate, insieme, alia fedelta al vang~lo e alia fedelta alla concretezza delle si­tuazioni, prendono forma alcune tendenze e alcune figure il cui principia co­mune e, invece, il rigetto di ogni compromesso, sia col giudaismo sia con la cultura greco-romana, rna soprattutto il rigetto di una pratica pastorale misu­rata sui livello della mediocrita della gente comune, senza i dovuti riguardi per le elites spirituali.

ln cuntrasLO con questo programma 'democratico' delle chiese, prese svi· luppo, nel II secolo, una reazione eli taria dalle espressioni mul tiforrni, che· vie· ne detta convenzionalmente gnosticismo cristiano (7.11). La scoperta della bi­blioteca di Hag Hammadi ha permesso agli studiosi una conoscenza diretta dello gnosticismo che, fino ad oggi, era stato ricostruito soprattutto sui testi degli avversari, da Giustino ad Ireneo. Abbiamo gia visto come, nelle comunita cristiane del tempo, circolassero libri sacri, alcuni attribuiti addirittura agli apostoli, nei quali Ia novita evangelica era diluita in una dottrina d'impronta spiritualistica, alimentata da sorgenti estranee all'evento cristiano. Un centro gnostico di particolare importanza fu Alessandria, dove operarono due degli gnostici piu influenti, Basilide e Valentino, e dove, come vedremo, avra presto straordinario vigore Ia 'gnosi ortodossa' di un Clemente e di un Origene. Diffi­cile mettere ordine nella selva oscura delle dottrine gnostiche che d'altronde facevano largo uso del mito e del linguaggio e"rmetico, riservato agli iniziati. Lo gnosticismo infatti e, a suo modo, un fenomeno di classe, e la versione che alcuni ceti, economicamente o culturalmente aristocratici, fecero del messag­gio cristiano, con lo scopo di sottrarsi all'informe mescolanza di cui eran for­mate le normali comunita di fede.

Il tratto distintivo dello gnosticismo e che la via della salvezza e una via co­noscitiva a cui hanno accesso, per illuminazione, soltanto alcuni spiriti eletti, mentre all'insieme dei cristiani non resta che Ia via della fede e delle buone opere. Proprio perche la Iegge morale e inferiore alla conoscenza, lo gnostico puo esimersi da ogni preoccupazione morale. A questo 'libertinismo' fa riscon­tro una dottrina metafisica, modellata sui dualismo orientale e platonico tra spirito e materia. Il mondo ha origine da Dio, in quanto Spirito, per emanazio­ne. Dio viene detto anche Eone ed Eoni vengono detti gli esseri emanati da Lui e che nel !oro insieme formano il Pleroma, Ia Pienezza. Ma accanto all'emana­zione spirituale c'e la degenerazione dello Spirito nella materia di cui e ordi­natore un Demiurgo inferiore. Il corpo in cui si trova prigioniera !'anima dell'uomo emanata da Dio e appunto una propaggine della materia, intrinseca­mente cattiva. Cio che avviene nel corpo (ad esempio Ia sregolatezza sessuale) non incide nell'anima, la cui vera attivita, come si e detto, e la conoscenza. Per liberare l'anima dal corpo il primo Eone ha inviato un altro Eone, il suo Figlio Gestl Cristo, la cui vita corporea, compresa la morte in croce, e pero da inten­dere come puramente simbolica. Conoscere, al di la delle sue parvenze mate­riali, Gesu Cristo vuol dire salvarsi, vuol dire assicurarsi l'ingresso, dopo la morte, nel Pleroma.

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Basta questa succinta esposizwne per comprendere che se le chiese non fossero riuscite a far prevalere, piuttosto attraverso la prassi che non attraver­so le confutazioni teoriche, la linea dell' ortodossia e cioe della fedelta alia no­vita evangelica, il cristianesimo sarebbe stato lentamente riassorbito dal con­testa culturale in cui era avvenuta la sua rapida diffusione. E su questa sfon­do che assumono rilievo e significato due movimenti ereticali promossi da due figure di prima piano nella chiesa del II secolo.

7.23 Gli intransigenti: Marcione e Montano. Verso il 140 approdo a Roma Marcione (ca. 85-160), un cristiano facoltoso (faceva l'armatore), gia espulso dalla sua comunita di origine, quella di Sinope, nel Ponto. A Roma Marcione ebbe contatti con lo gnostico Cerdone, che forni alla sua irrequietezza gli ele­menti dottrinali per una opposizione frontale alla linea accomodante della chiesa. Dette vita, cosi, appena espulso anche dalla comunita romana, ad una sua chiesa, che ebbe ben presto comunita in ogni angola dell'impero. Utilizzan­do l'opposizione che san Paolo, specie nelle sue lettere ai Galati e ai Romani, aveva posto tra la Legge e la grazia, Marcione, in una sua opera andata perdu­ta (era intitolata Antitesi) negava ogni autorita all' Antico Testamento. 11 Dio dell'Antico Testamento e il Dio creatore e legislatore, un Dio crudele, che pone sulle spalle dell'uomo il giogo della Iegge e, fatto ancora pili grave, privilegia il popolo di Israele. Difatti l'umanita, per partecipare aile promesse fatte a questa popolo, dovrebbe anche sottoporsi alla Iegge di Mose che, come Paolo spiegava, impedisce a chiunque di compiere il bene. Ma al di sopra del Dio creatore (eccoci cosi al dualismo gnostico) c'e un Dio trascendente e buono che invia suo figlio Gesli Cristo, dal quale abbiamo appreso a rivolgerci al Dio Padre e a vivere secondo l'amore. La Crocifissione segna il trionfo del Dio creatore sui Dio amore, un trionfo che durera fintanto che, giunti i tempi sta­biliti, il Dio buono non inaugurera il suo regno.

Una teologia cosi semplificata andava incontro al pessimismo dei cristiani, continuamente esposti alla persecuzione e irritati sia dall'avversione degli ebrei contra le chiese, sia dalla nauseante immoralita dei pagani. Le comunita marcionite erano austere e fraterne: insegnavano l'astinenza dalla carne, il ri­fiuto del matrimonio, la preparazione al martirio. Avevano, preparata dal mae­stro, una lora Sacra Scrittura che consisteva in una scelta di scritti apostolici (come il vangelo di Luca e le lettere di Paolo) direttamente antitetici al Vec­chio Testamento. La chiesa, che non aveva ancora redatto un canone della Scrittura, si rivelo piuttosto indifesa dinanzi all'entusiasmo rigoroso e alia teo­logia semplice e chiara delle comunita marcionite.

Un'altra ondata d'intransigenza minaccio la chiesa 'accomodante' nella se­conda meta del secondo secolo. Un certo Montano, un credente della Frigia, si fece banditore di un messaggio apocalittico: la fine di questa mondo era vicina ed era vicino il regno messianico di mille anni, profetizzato dalla Scrittura. Bi­sognava prepararsi nella totale astinenza. Lui, Montano, era lo Spirito 9anto, il Paraclito, promesso dal IV vangelo. 11 sottofondo sociale della Frigia e, pili largamente, dell' Asia Minore; era disponibile, anche per le remote tradizioni dionisiache, all'entusiasmo religioso. Montano ebbe adepti e mezzi economici per organizzare la sua chiesa, che infatti raggiunse ben presto larga diffusione

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nell'oriente mediterraneo. Aveva accanto a se due donne, Priscilla e Massimil­la, che, possedute anche !oro dallo Spirito, servirono ad imprimere a! montani­smo una certa audacia femminista, fino a concedere aile donne l'accesso a! mi­nistero. Del tutto ortodossa quanta alia dottrina, Ia chiesa montanista trovo alimento nella intransigenza popolare contro le autorita imperiali e nella di­sposizione diffusa a vivere Ia fede secondo i modi radicali della inimicizia col mondo. Come i marcioniti, anche i montanisti praticavano l'astinenza dal ma­trimonio e Ia preparazione al martirio.

7.24 Tertulliano. II successo dell"eresia frigia' (cosi fu chiamata) fu piu cir­coscritto di quella del marcionismo, rna ebbe un suo revival per opera di Ter­tulliano (ca. 160-220), uno straordinario proselite che, in contraddizione con tutto il suo passato, fece sue k tesi fondamentali di Montano, anche se le libe­rp da alcune 'stravaganze', tra le quali, da misogino qual era, il ministero con­cesso alle donne.

Era nato a Cartagine da famiglia pagana. Dopo aver studiato avvocatura a Roma, si convert! al cristianesimo (195) e torno in Africa. Prima della svolta montanista, avvenuta attorno a! 207, era stato il piu brillante apologeta della chiesa cattolica. Nel suo libro piu famoso, l'Apologeticum, fece uso della sua competenza di giurista per confutare una dopo l'altra le principali accuse rivolte ai cristiani e per mettere in risalto, mediante succinte rna penetranti cornparazioni col costume pagano, il modello di vita inaugurate da Cristo.

Il genio di Tertulliano e quello della ragion pratica. Mancante di acume speculativo e di universalita di respiro, non sa tenere a freno il suo irnpeto rigori­stico, quello che lo portera all'improvviso a farsi restauratore del rnontanismo.

In questa sede a noi interessa di Tertulliano soprattutto la sua intransigen­te opposizione alla filosofia. AI focoso apologeta, dominato dal prammatismo morale, sfuggl quel carattere della filosofia che non sfuggiva a Giustino: il suo essere una ricerca del vero, che nei casi piu esemplari, come quello di Platone, aveva avuto sbocchi contemplativi di alta tensione religiosa. Nella sua passio­ne catoniana egli era portato a fare un sol fascia dei maestri antichi e dei loro discepoli del suo tempo, dei ricercatori e dei profittatori e a ricostruire la sto-'' ria del pensiero classico secondo genealogie abusive, in base aile quali risalire dalla indubitabile mostruosita dei pronipoti aile responsabilita nefaste dei progenitori:

Sono le idee platoniche che hanna dato gli gnostici con i !oro Eoni, Ia di­vinita marcionita deriva dagli stoici ... Dagli epicurei deriva il concetto dell'annientamento dell'anima ... Infelice e Aristofele, il quale fornisce !oro una logica evasiva nelle sue argomentazioni, improbabile nelle sue conclu­sioni, polemico nelle sue dispute, noioso persino a se stesso, che risolve ogni cosa a! fine di non risolvere nulla.

La polemica antifilosofica di Tertulliano agiva su due fronti. II primo era quello epistemologico: Ia conoscenza di fede svela il carattere fatuo della cono­scenza filosofica. Siccome ai suoi occhi le due conoscenze appartenevano a! medesimo ordine, una volta riconosciuta la validita della conoscenza per fede, ne veniva di conseguenza la totale vuotaggine della filosofia.

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Cosa ha ache fare Alene con Gerusalemme, I'Accademia con Ia chiesa? ... Non abbiamo bisogno di curiosita dopo Gesu Cristo, ne di indagini dopo il vangelo. ·

L'oltranzismo di Tertulliano si serve del paradosso come del suo linguaggio pi.u appropriate. Ecco un famoso esempio:

II figlio di Dio nacque, io non mi vergogno di cio per il motivo che e ver­gognoso; il Figlio di Dio rnorl, cio e credibile per Ia semplice ragionc che e assurdo; e dopo essere stato bruciato risuscito e cio e certo perche e impos-sibile. ·

L'altro fronte e quello di classe: quella ispirata al vangelo e la cultura degli oppressi che si oppone alia cultura dominante, ormai vuota e sterile:

Non e a te che indirizzo me stesso, o anima, che, plasmata nelle scuole, istruita nelle biblioteche, vomiti un fondo di saggezza accademica, ma a te, anima semplice e incolta di chi non possiede niente altro ed ha formato tut­ta Ia sua esperienza agli angoli delle strade ed ai crocicchi e nelle fattorie. Io ho bisogno della tua csperienza dal rnornento che nel piccolo bagaglio della tua esperienza nessuno crede ...

In questa esaltazione dell'anima semplice, formatasi all'esperienza della vi­ta, Tertulliano tocca, con estrema facilita, un tema che trovera grande attuali­ta nei nostri tempi:

E il segreto deposito del sapere congenito e innato che contiene Ia verita; e questo non e il prodotto dell'insegnamento del secolo. L'anirna viene pri­ma della letteratura, le parole prima dei libri, e l'uomo in se stesso prima del filosofo e del poeta.

Non e giusto comunque servirsi delle espressioni antirazionalistiche, che abbondano negli scritti polemici di Tertulliano, per farsi di lui un'immagine contrassegnata dallo scontroso rigetto della filosofia classica. In realta, anche lui rientra tra i pensatori che avviarono la fusione tra messaggio evangelico e tradizione filosofica, anzi, e lui il primo scrittore che trae dal linguaggio filo­sofico Iatino i termini e le formule di cui si servira largamente Ia teologia piu matura nei secoli successivi .

. Que! che invece impedi a Tertulliano di occupare il posto che ebbe Ireneo di Lione (ca. 130-208), strenuo avversario degli gnostici contro cui scrisse un'opera fondamentale: Srnascherarnento e confutazione della falsa gnosi, fu non solo il suo slittamento improvviso (207) nella deviazione montanista, rna il suo individualismo radicale, che lo rese incapace di accogliere Ia politica con­ciliativa segui ta dalla chiesa.

Lacerata da opposte tendenze, decimata dalle persecuzioni, Ia chiesa, ormai saldamente impiantata nelle metropoli, mirava a stabilire Ia comunione tra i fedeli su criteri di fede basati sulla ininterrotta tradizione apostolica e su cri­teri di condotta ispirati alia comprensione misericordiosa della debolezza

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umana. Essa non si lascio sedurre dalle fiammate millenariste di Montano rna affronto la faticosa accettazione del tempo storico mediante tre operazioni che le avrebbero assicurato ben presto compattezza e maturita: 1. La determina­zione di un 'canone' delle Scritture che appare gia stabilito e comunemente ac­cettato agli inizi del III secolo; 2. la stesura di una 'regola di fede' valida per tutti (a questa periodo risale il 'simbolo apostolico' ancora in uso nella chiesa); 3. una propria organizzazione centrata sulla monarchia episcopale, sull'uso delle deliberazioni collegiali dei vescovi delle varie zone e sul riconoscimento del primato del vescovo di Roma, il Papa.

L'India nei primi secoli dell' era cristiana

7.25 II misticismo popolare. Nei tre o quattro secoli prima dell'era cristiana e in altrettanti successivi prende forma nell'India una straordinaria tradizione epica nella quale, per opera di cantori simili agli aedi della Grecia, racconti mitici trasmessi oralmente si intrecciano, in un groviglio da foresta vergine, con nuovi racconti a stento tenuti insieme da un tema conduttore. Ancora oggi !'India ri trova la propria identita quando si rispecchia in questa suo patrimo­nio epico, che prese forma letteraria in due opere, il Mahabarata e il Ramaya­na, attribuite rispettivamente a Viasa e a Valmiki, che sono pero da ritenere autori leggendari, un po' come I'Omero greco. Secondo una tradizionale distin­zione indiana, sono due le grandi stirpi mitiche, quella lunare, illustrata dal Mahabarata, che vuol dire 'Le grandi (gesta) di Barata', il caoostite da cui di­scesero le tribu barata in guerra tra lora, e quella so/are, illustrata dal Ra­mayana. Dei due poemi, e il Mahabarata quello che suscita maggior interesse per chi voglia conoscere le matrici e gli sviluppi dell'antico pensiero filosofico indiana. Come in un fiume dai molti affluenti, nel Mahabarata si ritrova allo stato di mescolanza tutto cio che l'India ha immaginato e ha pensato nei pri­mordi della sua formazione.

Il libra VI del Mahabarata e una digressione speculativa di ben 700 strafe. La tradizione indiana ne ha fatto un libro a se, dal titolo Bhavagad Gita (Canto del beato Signore) o, semplicemente, Gita. Da duemila anni !'India, sia nei suoi pensatori di qualsiasi tendenza sia nel suo popolo, si e nutrita a questa capola­voro.

Il suo pretesto narrativo e semplice: mentre· due eserciti sono schierati in campo, l'eroe Arjuna si sfoga col suo scudiero (che in realta e Krishna, incar­nazione di Visnu) dichiarando la propria angoscia: ci son consanguinei in am­bedue gli eserciti e dunque, comunque vada la battaglia, essa sara p·er lui oc­casione di crimini. Krishna parla - rivelandosi progressivamente per que! che e - ed espone due insegnamenti: l'eternita dell'atman, secondo la dottrina del­le Upanishad, e la necessita di agire col piu assoluto disinteresse per i frutti della propria azione. Nella sviluppo di quest'ultimo tema vengono indicate tre vie di salvezza:

- la disciplina degli atti (karmayoga) sia rituali, nel senso vedico, sia con-

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nessi ai propri doveri di casta_ Nella prospettiva brahrnanica l'individuo non esiste che nel preciso contesto sociale e religioso a cui appartiene_ «Ouanto ai Brahrnani, ai guerrieri e agli uornini della terza e quarta casta, i !oro atti sono sernpre in accordo con le qualita inerenti alia loro natura propria»_ Cosi dice Ia Gita_ E precisa: ai brahrnani la fede, Ia ternperanza, lo studio delle Scrittu­re; ai guerrieri (e Arjuna e appunto un guerriero) il valore nel combattirnento; agli uornini della terza classe Ia cura della terra e il commercia; a quelli della quarta il servizio degli altri. La finalita degli atti risiede nella loro fedelta alla Iegge (dharma) della casta a cui si appartiene, a prescindere dai loro effetti buoni o cattivi che in ogni caso toccano solo la forma illusoria degli esseri. Non abbia dunque nessun scrupolo Arjuna: cornbatta valorosamente, quali che siano i legarni di sangue con i suoi avversari;

- Ia via della conoscenza (jnanayuga) che ricalca quella proposta dalle Upanishad;

- Ia via della devozione (Baktiyoga), con Ia quale il fedele si distacca da ogni cosa relativa rirnettendosi in tutto al suo Signore, adorando il quale (bak­ti = adorazione) egli partecipa all' Assoluto e si sottrae a lie paure che incutono il presente e il futuro. La perorazione di quest'ultirna via, che e la particolari­ta del rnessagg'io della Bhavagad Gira, getta luce sui perche della sua origine e del suo straordinario successo_ La via della devozione e Ia via aperta a tutti, non riservata a questa o a quella casta. In rapporto alla possibilita di liberarsi dal Samsara tutti sono su un piede di parita; Ia rigida gerarchia esterna scom­pare se osservata dall'interno delle coscienze, dove solo i valori eterni hanna peso.

7.26- Le scuole filosofiche induiste. Nei due grandi poerni dell'induismo cornpaiono spesso, sia pure trasforrnati dalle esigenze narrative, i sisterni filo­sofici che, irnrnediatamente dopo i tempi vedici, si andarono formando come tentativi di interpretazione dei testi sacri. Le Upanishad, come abbiarno visto (1.19) sono, per un verso, ]'ultimo anello dei libri vedici e cioe di quella cono­scenza sapienziale, custodita dalla casta brahmanica e riservata a stretti circo­li di privilegiati, per l'altro verso sono il frutto di un libero esercizio della ra­gione speculativa, dove quel che conta none il puro commento aile regole cul­tuali, e l'indagine del senso dell' esistenza e dei varchi che si aprono nel rnuro della sua prigionia. Le Upanishad sono, insornrna, come uno spartiacque tra il tempo delle Origini, un tempo imrnutabile e sacra, in cui si ha accesso con la celebrazione del rito, e il tempo dell'uorno che e, si, un tempo vano, dato che :1a sua struttura e l'ignoranza, rna e anche il tempo della ricerca e della pratica delle vie di salve7a.

A partire dal VI secolo a.C., anche per lo stirnolo dell"eresia' buddista, i germi 'razionali' contenuti nelle Upanishad gerrnogliano in un fitto intrico di scuole che con una certa improprieta possono anche essere dette filosofiche. nel senso che, pur prendendo le rnosse dai Veda, considerati quali sorgente in­fallibile di verita (nulla del genere, ad esempio, presso i Greci) esse fanno affi­damento sulle capacita urnane di indagare, confrontare, argornentare, insorn­ma, sulla autonornia, sebbene relativa, del logos urnano. Ecco perche cornin­ciano a prendere forma, nella storia del pensiero induista, figure di pensatori

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dai contorni incerti e quasi sempre di difficile collocazione cronologica, rna che assumono rispetto al !oro mondo un ruolo in qualche modo comparabile a quello di Platone o di Aristotele. Attorno al X secolo della nostra era si e data una sistemazione per cosl dire canonica a quei sistemi (darsana) che con una evoluzione molto fluttuante avevano preso forma distinta a partire dal medesi­mo presupposto della fedelta ai Veda. Ecco perche vengono detti sistemi 'orto­dossi'. Infatti c'erano anche scuole in cui veniva negato ogni rapporto di sud­ditanza ai Veda e i problemi del mondo e dell'uomo venivano affrontati secon­do i metodi della ragione totalmente emancipata e con sbocchi non dissimili da quelli che abbiamo gia riscontrato in occidente: il materialismo, l'agnostici­smo, il fatalismo. Sono i sistemi non ortodossi. Nessuno, naturalmente, li ha mai scomunicati: e stato lo st.esso corso della sapienza indiana che li ha in qualche modo estromessi come corpi estranei. Difatti niente ci e restato del pensiero dei sistemi eretici, solo i frammenti riportati dai loro avversari.

Riteniamo opportuno offrire qui un quadro completo dei sistemi ortodossi, anche se questo comporta una certa 'irregolarita cronologica'. Ci proponiamo di illustrarli in seguito, uno dopo l'altro, adottando il criterio, tutto occidenta­le, dell'importanza dei singoli pensatori, molti dei quali non stanno aile origini della loro scuola di appartenenza rna emergono con piglio originale lungo l'im­personale svolgimento della sua dottrina. Premessa importante: nel tradurre il termine darsana (che di per se significa 'visione', 'intuizione') col termine siste­ma compiamo un piccolo abuso. Piu che una articolata costruzione del pensie­ro, come il platonismo e l'aristotelismo, i darsana sono, per cosi dire, 'fasci di pensieri', variamente intrecciati tra di loro, senza organicita globale, senza coesione distorsiva. Di qui la mortificante impressione di inafferrabilita che essi ci danno. Ma anche una grande lezione tipicamente induista: perche la ve­rita dovrebbe essere un sistema?

I sistemi ortodossi sono 6: 1. il sistema Mimamsa ('investigazione', 'indagine'): consiste in una illustra­

zione delle regole vediche dal punto di vista etico-religioso: per uno storico della filosofia il suo interesse e minimo.

2. II sistema Vedanta (letteralmente: 'fine dei Veda'), sistema ortodosso per eccellenza perche si basa direttamente sulle Upanishad (di qui il suo nome). Esso dibatte i lemi metafisici fondamentali come quelli del rapporto tra mon­do e Dio e tra uomo e Dio, raggiungendo soluzioni diverse, da quella monistica a quella dualistica (9.15).

3. II sistema Nyaya o Analitico, none altro che.una scuola di logica che si e strettamente unita al successivo (9.14).

4. II sistema Vaisesika, che si fonda su di una visione atomistica delle real­ta, analoga a quella di Epicuro (9.14).

5. II sistema Samkhya, o del ragionamento, che e difatti di tendenza razio­nalistica e prende in contropiede tutte le posizioni dell'ortodossia dei Vedanta fino a professare l'ateismo (8.20).

6. II sistema Yoga ('unione', dalla radice yuj, unire) e derivato dal Samkhya rna e teista, anzi e, piu ancora del Vedanta, il sistema per eccellenza della mi­stica indiana (8.20).

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Nelle scuole brahrnaniche tradizionali lo studio dei sisterni procede per coppie: si parte con i Nyaya- Vaisesika, si. procede con il Samkhya- Yoga e si conclude con Ia Mimamsa e il Vedanta: dalla lo!!ica, all'etica. alia metafisica.

Accanto ai sisterni ortodossi ricordiarno, tra i non ortodossi, il sistema Lo­kayata (che vuol dire visione del rnondo della gente cornune), rnaterialista e sovversivo, il cui fondatore Vrihaspati insegnava che gli organi dei sensi pro­ducono il pensiero 'come Ia mescolanza dello zucchero e di altre sostanze pro­duce un liquore inebriante'. Corne si e detto, i sisterni non ortodossi sono sem­pre rimasti ai rnargini della tradizione filosofica induista.

7.27 I due 'Veicoli' del buddismo. Si e gia visto come per opera del re­rnonaco Asoka (6.21), Ia comunita buddista si sia trapiantata e moltiplicata prodigiosamente fino a soppiantare largamente il predominio delle scuole brahmaniche. Di qui la necessita di adattare i testi sacri, che erano stati va­gliati e raccolti in un primo Concilio, poco dopo la morte del Maestro, aile di­verse tradizioni culturali dei popoli via via raggiunti nella rapida espansione. Non potevano non nascere alcuni nodi problematici riguardo al modo di conci­liare l'ortodossia, da una parte, e la diversita culturale delle comunita, dall'al­tra. I pili importanti erano due: quello religioso e quello metafisico.

Buddha era, se non proprio ateo, quanto meno agnostico: dfllla sua 'religio­ne' e bandito ogni riferimento alia trascendenza. Quando nei suoi discorsi ap­paiono i nomi degli dei, si tratta di pura abitudine di linguaggio, come quando si trovano nelle pagine di Seneca o di Cicerone i nomi di Giunone o di Mercu­rio. Paradosso della storia: proprio perche aveva svuotato i cieli di ogni divini­ta, Buddha, contro le proprie intenzioni, fini col riempire il vuoto, diventando ben presto lui stesso una divinita! C'erano tra i discepoli quelli che mantene­vano Ia memoria di Buddha nei confini rigorosi, e cioe puramente umani, del suo insegnamento, ma ce n'erano che facevano di lui l'apparizione in carne umana deii'Assoluto, reintroducendo cosi nella tradizione buddista il mistici­smo religioso di quella brahmanica.

La dottrina del Nirvana, anche nel caso che si accettasse la posizione agno­stica su Dio, !'anima e il mondo, poneva di necessita un problema metafisico: la condizione di beatitudine del Nirvana e uno stato di esistenza o di inesisten­za? Essere o Non essere?

A noi interessera naturalmente soprattutto il ventaglio di posizioni che si aprira attorno a questo secondo tema, pili propriamente filosofico.

Fu tra il I e il II secolo d.C., sotto il regno di Kaniska che, in occasione di un Concilio da lui promosso e presieduto dal monaco Vasumitra, la pluralita delle scuole si unifico in due tendenze fondamentali, che vanno ancora oggi sotto il nome di Hinayana o 'Piccolo Veicolo' e Mahayana o 'Grande Veicolo': la prima pili fedele a! buddisrno areligioso delle origini, la seconda.aperta alia simbiosi tra i principi di fondo del buddismo e le esigenze religiose che scatu­riscono dagli interrogativi metafisici o dalle tradizioni etniche dei vari paesi in cui il buddismo si era diffuso. Dal punto di vista filosofico la differenza fonda­rnentale tra i due Veicoli verte attorno al significato del Nirvana. Nel buddi­smo delle origini il Nirvana era piuttosto uno stato d'animo in cui si era del tutto annullato l'istinto vitale. II Piccolo Veicolo svolse nelle sue conseguenze

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filosofiche questa dottrina; sia al livello psicologico che a quello metafisico: nel prima sensa, il Nirvana e non dissimile dalla 'apateia' insegnata dagli stoi­ci (6.15): uno stato di serenita dell'anima da cui e scomparsa ogni volonta di vi­vere e percio ogni desiderio e ogni paura; nel secondo sensa il Nirvana e Ia soppressione simultanea del soggetto e dell'oggetto e quindi il ritorno al Vuo­to assoluto, al Nulla originario, causa e fine dell'Universo.

Per il Grande Veiculo il vuoto assoluto non e quello del Nirvana, e piutto­sto quello del mondo dei fenomeni, sia psichici che materiali. Se il mondo feno­menico e il Nulla, abolito il Nulla si entra in uno stato di assoluta purezza che e al di Ia deli'Essere e del Non-Essere. E facile capire come da qui a sboccare nella dottrina brahmanica sull' Assoluto il passo e breve.

Ma questa schematizzazione puo indurre in errore. Ai tempi di Asoka le scuole hinayaniste (sui Mahayana diremo in seguito) erano 18. Nei primi secoli della nostra era, due dominavano sulle altre, quella dei Vaibhasika e quella dei Sautrantika.

I Vaibhasika restavano fedeli al buddismo primitivo in quanta ritenevano il Buddha come un semplice uomo, magari un superuomo, rientrato definitiva­mente nel nulla. Questa ateismo riflette la caratteristica della lora filosofia, che potremmo definire come un realismo materialistico. Ricordiamo come nel­la dottrina di Buddha sotto il vela dei fenomeni psichici e fisici non c'e nessu­na sostanza, ne quella dell'anima ne quella della materia. Per questa scuola, invece, !'anima non esiste rna Ia materia sL 0, meglio, sia !'anima che la natu­ra fisica sono costituite da atomi infinitesimi che dan luogo a costruzioni og­gettive e soggettive destinate a disgregarsi e a risolversi nel nulla, il Nirvana.

I Sautrantika si differenziano dai Vaibhasika tanto dal punta di vista teolo­gico che da quello filosofico. Buddha per lora e un essere soprannaturale scm­pre presente tra i suoi. Dal punta di vista filosofico, essi non solo negano l'esi­stenza dell'anima rna anche quella della materia. Tutta Ia realta si riduce ad una serie di stati di coscienza di tipo istantaneo. La consistenza del soggetto e dell' oggetto e nella serie di percezioni, ciascuna delle quali nasce e muore nel­lo stesso momento, e che tuttavia nel loro insieme danno l'illusione della per­manenza, cosi come, se uno traccia un cerchio agitando una corda accesa nel l'altro capo, appare agli occhi un cerchio luminoso che non c'e. Cosi, Ia co­scienza che io ho di me non trascende i suoi atti di percezione: essa e tutta in ogni atto ed e trasmessa da ogni atto a quello successivo. Il tratto singolare della dottrina dei Sautrantika e che questo nichilismo filosofico sbocca in una al ternativa radicalmente religiosa. Come dire: filosofare non ci conduce a nul­la e dunque non c'e altra via che Ia fede nella parola di Buddha.

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Sommario. Quasi ad alzare una diga contra Ia 'teosofia barbara' (il cristianesimo) ormai vincente, il pensiero pagano conosce, negli ultimi secoli dell'Impero, una singola­re reviviscenza col neoplatonismo di cui il maggior maestro fu Plotino. Quello di Ploti­no e un itinerario di salvezza di natura esclusivamente filosofica (8.1), rna di una fi!oso­fia che si rifa all'insegnamento del contemplativo Platone, e precisamente alia dottrina dell'Essere come punta di approdo della dialettica. L'Essere di Plotino, !'Uno, si colloca a! di Ia di ogni definizione razionale f8.2), e potenza generativa che produce per emana­zione I'Intelletto e !'Anima del mondo (8.3). II principia razionale proprio dell'uomo, emanazione dell'Anima del mondo, e l'estrema propaggine dell'Uno, imprigionata nella materia e desiderosa di ritornare a! suo supremo principia. Questa viaggio di ritorno si conclude, a! di Ia del concetto filosofico, nell'estasi (8.4). Diffusosi ben presto. in tutto I'Impero, il neoplatonismo si differenzia subito in due versanti rappresentati rispettiva­mente da Porfirio e da Giamblico (8.5). Ad Alessandria il neoplatonismo riusci perfino ad avere un suo martire, anzi una sua martire, in Ipazia, uccisa da cristiani fanatizzati (8.6). L'ultimo avamposto del neoplatonismo fu Atene, dove insegno Proclo e dove Ia di­nastia degli scolarchi continuo finche Giustiniano non chiuse Ia scuola nel 529 (8.7).

Alia fine del II secolo, Ia fede cristiana non aveva ancora conquistato i ceti intellet­tuali, dove aveva presa invece Ia polemica contra i seguaci della 'demenza giudaica' (8.8). Proprio ad Alessandria fu compiuto, da Clemente, il prima serio tentativo di eleva­re alia dignita del discorso razionale Ia fede in Gesu di Nazareth (8.9), tentativo che rag­giunse un grandioso risultato in Origene, autore di una vera sintesi tra pensiero greco e rivelazione cristiana (8.10). L'eredita di Origene, contrastatissima, fu fatta valere da tre grandi 'padri' della Cappadocia. Basilio e i due Gregori (8.11 ). che volsero l'origenismo ad esiti ortodossi, utilizzandolo in seno aile grandi controversie teologiche che animaro­no e lacerarono Ia chiesa del IV e V secolo (8.12). Per opera dei Concill Ia chiesa, con l'aiuto del potere imperiale, giunse alia detinizione dei dogmi e cioe alla determinazione del mistero della rivelazione mediante categorie proprie del pensiero greco (8.13).

L'Origene di occidente fu Agostino di Tagaste, apparso quando ormai gia era in de­clino l'illusione neoplatonica e l'impero aveva bisogno di un nuovo cemento ideologico (8.14). Egli e giunto alla fede cristiana attraverso un itinerario che fa di lui l'erede della sapienza platonica ed il capostipite di una nuova cultura (8.15). E lui che determina i rapporti reciproci tra fede e ragione con una dottrina destinata a inf!uenzare le epoche successive (8.16); e lui che inaugura, nella storia del pensiero, il versante della interiori­ta dove abita Ia Verita (che si conosce solo per illuminazione) (8.17). Nell'intento di con­ciliare Ia fede nel creatore e Ia concreta potenza del male nel mondo e nella storia. Ago­stino elabora un'analisi metafisica e psicologica del male (8.18) e una vera e propria teologia o filosofia della storia (8.19).

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Nello stesso periodo che va da Plotino ad Agostino, in India si ha una fervida attivita filosofica. Sui ceppo della scuola brahmanica del Sankhya si sviluppano Ia riflessione e Ia pratica dello Yotza. di cui e maestro Pataniali (8.20).

Nell'area buddistica prende tzrande rilievo il Grande Veicolo, il cui massimo mae­stro e Nagarjuna. Dalla sua duttrina, una metalisica centrata sui 'Vuoto', partonu, con Asanga, gli Yogacara, fautori di un idealismo che anticipa di secoli quello del romanti­cismo tedesco (8.21 ).

II neoplatonismo

8.1 Plotino, tra oriente e occidente. La vitae la morte dell'ultimo grande fi­losofo dell'eta grecoromana. Plotino*, riflettono davvero le luci del tramonto. Platina conosce la religione cristiana rna non se ne lascia turbare perche gli sembra una 'teosofia barbara', della stessa famiglia di quelle fantasiose teolo­gie gnostiche che sono un'offesa per Ia ragione. Egli cerca Ia salvezza rna la cerca per le vie battute dai grandi maestri e soprattutto da Platone, Ia cerca nelle risorse che l'uomo ha in se. Attorno a lui la societa e in disgregazione. II fior fiore dell'intelligenza romana e n ad ascoltarlo rna egli non ne trae motivo di speranza. Piu avanza negli anni e pitt cresce, col disprezzo per quanta avvie­ne in questa mondo sublunare, il suo desiderio di isolarsi per andare incontro all'Uno. Il suo itinerario ci ricorda altri viaggi di salvezza. prima fra tutti quel­lo dell'antico asceta Gotamo Buddha che, scoperte le quattro verita della sal­vezza, le aveva predicate lungo il Gange. Una curiosita: c'e chi ha visto una qualche parentela tra Plotino e Buddha basandola su di un'ipotesi etimologica: il maestro di Plotino fu Ammonia Sacca (175-224), detto cos! per una deforma­zione greca dell'appellativo Sakyamuni, l'asceta della tribu dei Sakya, come si chiamo Gotamo prima di essere il Buddha.

L'ipotesi piu giusta e che Ammonia sia stato chiamato Sacca per il mestie­re di portatore di sacchi a cui in un prima tempo si adatto per vivere. Platina lo incontro quando aveva gia 28 anni. Come racconta Porfirio. l'incontro av­venne sulla spinta di una necessita spirituale:

A ventotto anni. Plotino si dedico alla filosofia: lo misero in relazione con le celebrita di allora ad Alessandria; rna usciva dalle !oro lezioni pieno di scoraggiamento e di afflizione. Racconto le sue impressioni ad un amico, l'amico comprese il desiderio della sua anima, e lo condusse da Ammonia, che non conosceva ancora. Non appena entro e lo ebbe ascoltato, disse all'amico: "Ecco l'uomo che cercavo». Da que! giorno frequent() assidua­mente Ammonia ... E questa fino a! suo trentanovesimo anno di eta; poiche aveva seguito i corsi di Ammonia per undici anni interi.

Forse il vero iniziatore del neoplatonismo e proprio Ammonia, se si ammet­te, come sostiene Porfirio, che l'insegnamento di Plotino altro non fosse che il

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disvelamento delle dottrine di Ammonia «ridotte all'essenziale». Di Ammonia, che non lascio niente di scritto, si sa pochissimo, ma un fatto e sottolineato dal solito Porfirio: nato da genitori cristiani ed educato nelle «dottrine cristia­ne>>, Ammonia si sarebbe convertito <<ad un genere di vita conforme aile leggi>> non appena «ebbe gustato Ia ragione e Ia filosofia>>. Origine piu significativa non poteva essere vantata da una filosofia come il neoplatonismo, che intende-

Plotino nasce a Licopoli, in Egitto, nel 205 d.C. A 28 anni entra alla scuola di Ammonia Sacca e vi rimane per 11 anni. A 39 anni fascia le le­zioni di Ammonia ed Alessandria per partecipare alla spedizione dell'im­peratore Gordiano 1//, che intende inseguire fin nelle lndie il re persiano Sapore. Pare che Platina volesse conoscere direttam'tmte e approfondire quella sapienza orientale, la filosofia dei Persiani e degli lndiani, che dai tempi di Numenio (I sec. d.C.) si considerava la matrice e la sorgenle della vera filosofia e che comunque Platina gia doveva conoscere in qualche modo. La notevole somiglianza di alcune parti delle Enneadi con le Upa­nishad non si spiega, infatti, sulla sola base del presupposto, peraltro di­scutibile, che l'esperienza mistica presenti un'identica articolazione strut­turale, indipendentemente dall'ambiente in cui e codificata. Gordiano Ill e sconfitto in Mesopotamia, Platina si salva a stento, si rifugia ad Antio­chia e da li prosegue per Roma, dove si stabilisce definitivamente nel 247, aprendovi una scuola che e frequentata sia da chi intende votarsi alla fila­sofia sia da senatori e da uomini di mondo. Pit~ che una scuola vera e pro­pria, quella di Platina doveva essere una sorta di Iibera circolo in cui gli ascoltatori ponevano domande e il maestro rispondeva, rifuggendo da ri­sposte gia confezionate e insistendo nel discutere a fonda l'argomento pro­pasta, sulla base di pazienti indagini dialettiche condotte prevalentemente sugli scritti di Platone. L'obiettivo non era la comzmicazione di un mes­saggio rivelato, ma l'educazione ad una disciplina razionale, capace di far fronte aile ansie e alle insicurezze di un'epoca dominata dall'angoscia, senza abdicare ai diritti della ragione.

Protetlo dall'imperatore Galiena e da sua moglie Salonina, Platina pen­sa di fondare in Campania Platonopoli, una citta di filosofi retta dalle leg­gi di Platone, ma il progetto fallisce. Ammalatosi gravemente, si allontana da Roma e si reca nella villa di un amico, in Campania, dove muore net 270, in quasi completa solitudine. a.

La nostra conoscenza di Platina dipende in gran parte dall'opera di me­diazione del suo allievo Porfirio (8.5), a cui si devono sia la Vita di Plotino, dalla quale provengono quasi tutti i dati biografici in nostro possesso, sia l'edizione delle opere del maestro. E Porfirio che, dopa la morte di Plati­na, ordina, emenda e sistema i suoi 54 scritti, ripartendoli in sei Enneadi (gruppi di nove trattati ciascuno) «lieto di attingere, insieme con il nove della enneade, la perfezione del numero sei>>. Senza tener canto dell'ordi­ne cronologico di composizione, Porfirio segue il criteria di ·riunire nella stessa enneade 'soggetti affini' per argomento.

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va ergersi come l'estremo tentativo, di difesa e di contrattacco, della ragione e del pensiero ellenico contra l'avanzata irresistibile del cristianesimo.

La morte solitaria di Plotino ci richiama immagini piu adatte aile sponde del Gange che non aile coste tirreniche. Un suo allievo, il medico Eustochio, giunse tardi al capezzale del maestro, appena in tempo per raccogliere le sue ultime parole:

'Vedi t'ho aspetlato!'. Aggiunse poi che cercava di far risalire il divino ch'e in noi a! divino ch'e nell'universo; e mentre un serpente sgusciava sotto il letto in cui giaceva il filosofo e si nascondeva in un buco ch'era Ia nel mu­ro, egli rese lo spirito.

Non e la morte di Socrate, circondato in carcere dall'affetto stupito dei di­scepoli, ne il trapasso di Epicuro, consumatosi in mezzo agli amici della cornu­nita; e la morte solitaria di chi aveva coltivato l'ideale espresso nell'esortazio­ne «Spogliati di ogni cosa», coerente con le parole conclusive delle Enneadi: fuga da solo a solo.

8.2 La dottrina dell'Uno. Con la sua dottrina dell'Uno, Plotino si riallaccia consapevolmente, offrendone pet molti aspetti un'interpretazione originale, al Parmenide platonico (4.13-15). La radice di tutte le cose e l'Uno assoluto. La realta, sensibile o intelligibile, dispersa in una mol teplicita infinita, presuppo­ne un principia che la trascende, un'unita che le dia sussistenza e ordine.

In ogni cosa c'e un'unita particolare alla quale bisogna risalire; ogni es­sere si riconduce all'unita che gli e anteriore (e non immediatamente all'Uno assoluto), fino a che, di unita in unita, si arriva all'Uno assoluto che non si riconduce piu a niente altro. Afferrare cosi l'unita della pianta, cioe il principia immobile della sua vita, l'unita dell'anima, o l'unita dell'univer­so, significa afferrare, in ciascuno di questi esseri, quello che ha di piu po­tente e di piu prezioso.

L'Uno, assolutamente trascendente, e al di sopra dell'essere e dello stesso pensiero:

( ... ) bisogna che quest'essere semplice sia prima di tutte le cose, e diver­so da tutte quelle che sono dopo di lui, che sussista in se medesimo non me­scolato e sia assolutamente Uno.

Qualsiasi determinazione limiterebbe la sua sussistenza. Ha ragione dun­que Aristotele quando, nella Metafisica (che era diventata oggetto dei primi commenti sistematici proprio ai tempi di Plotino), disegna un universo metafi­sico culminante in un principia unitario supremo (5.11), rna ha torto quando sostiene la convertibilita tra l'essere e l'Uno; il suo Dio e atto assoluto, rna del­la stessa natura di tutti gli altri atti che si realizzano nell'universo. Per Platina invece l'essere e subordinato all'Uno.

L'Uno non e alcuno degli esseri ed e anteriore a tutti gli esseri. Che e dunque? E Ia potenza di tutto; senza di lui niente esiste, ne gli esseri, ne l'intelligenza, ne Ia vita prima, ne alcuna altra forma di vita.

I l ~

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Pur non avendo grandezza, l'Uno va concepito necessariamente come «infi­nito per il fatto che la sua potenza non e circoscritta». Ancora una volta e se­gnata la distanza da Aristotele, Secondo il quale Dio non ha grandezza finita ne infinita. Quanto al termine 'potenza' riferito all'Uno, non si deve intendere, aristotelicamente, come passivita e materialita, rna come attivita generativa, forza eternamente ed inesauribilmente in esercizio:

L'Uno e Ia potenza del Tutto; il generato, invece, e gia il Tutto. Ma se questo e il Tutto, Quegli e al di Ia del Tutto; di conseguenza al di la dell'es­sere.

La realta dell'Uno, infinito ed autosufficiente, e postulata da Plotino, oltre che come necessaria punta di partenza, anche come termine finale ve'rso cui il mondo si muove. Egli infatti e il bene (Plotino identifica l'Uno con !'idea del bene che nel VI libro della Repubblica Platone aveva dichiarato «al di sopra dell'essere>>), eppure e pili che il bene, perche il bene ha di fronte a se cio che non e bene, mentre l'Uno trascende ogni distinzione.

A rigore non si potrebbe chiamare nemmeno Uno, se e vero che l'unita vie­ne prima del due ed entra, moltiplicandosi, nella serie dei numeri; Uno puo dirsi solo nell'accezione che questo Uno e oltre la serie e che la unifica tutta dandole un sensa. Sono tutte espressioni parziali e suscettibili di equivocita, rna che non intendono affatto definire l'Uno ne dime in positivo quello che sia: del resto, come si potrebbe, se l'Uno e al di sopra e al di la di ogni determina­zione e di ogni distinzione? L'Uno e ineffabile («A parlare con precisione, non si deve dire di lui ne questo ne quello»); di lui puo dirsi soltanto cio che none - «scartiamo dunque da lui tutte le case>> - ed e attingibile, come vedremo, eccezionalmente, nell'esperienza mistica.

Da un lato, dunque, Plotino esclude come illegittime la teologia aristotelica (5.12) e qualsiasi metafisica che presuma di porsi come scienza razionale dell'essere, dall'altro getta le premesse della 'teologia negativa' che caratteriz­zera tanta parte del pensiero successivo.

8.3 La triade e il mondo. Ma perche l'Uno non resta l'unico? Come l'essere vivente che, diventato adulto, genera il suo simile, anche ]'Uno, nella sua per­fezione e potenza, genera la realta. E un processo fuori del tempo, involonta­rio e inconsapevole, rna necessaria e non casuale, dovuto ad una sorta di so-vrabbondanza. '

Immaginate una sorgente che non ha origine; da la sua acqua a tutti i fiumi, rna non si esaurisce per questo, resta, tranquilla, allo stesso livello: i fiumi nati da lei confondono in origine le loro acque, prima di prendere cia­scuno il proprio corso particolare; rna ognuno sa gia dove lo trascinera Ia propria corrente. Immaginate ancora Ia vita di un immenso albero; Ia vita circola in tutto l'albero, rna il principio della vita resta immobile; non si di­sperde in tutto l'albero, risiede nelle sue radici; questo principio fornisce al­Ia pianta 'Ia vita nelle sue molteplici manifestazioni; quanto ad esso, resta immobile e, non essendo molteplice, e il principio di questa molteplicita.

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Nel generare la realta, non per bisogno («non bisognoso Lui di que! che da Lui e generato») ne per desiderio («perche allora sarebbe imperfettO>>), !'Uno rimane assolutamente immobile e trascendente.

La generazione, che da lui procede, chiamata anche emanazione, e da inten­dersi appunto come il traboccare da una sorgente inesauribile, come il diffon­dersi della luce o il propagarsi del calore del fuoco, e non ha niente a che ve­dere col concetto ebraico e cristiano di creazione, che, lo si e visto gia in Filo­ne (7.9), presuppone invece Ia concezione di un Dio personale e di un suo arbi­trario (non necessaria) atto di volonta, che entra nel tempo e dal nulla genera la realta. L'Uno di Plotino, trascendente ed immanente al tempo stesso, e radi­calmente contrapposto al Dio «geloso» di Israele, ad un Dio che si compromet­te con Ia storia e con le vicende drammatiche dell'umanita.

Dall'Uno procede l'Jntellettu, dall'lntelletto !'Anima. Dal «volgersi» (guar­darsi e conoscersi) verso se stesso deli'Uno nasce l'Intelletto, la seconda ipo­stasi. «Verbo e atto» dell'Uno, l'lntelletto «ha bisogno di lui», «come il genera­to desidera il genitore e l'ama». L'Intelletto permette che l'Uno divenga cono­scibile (nooitmenon) attraverso Ia molteplicita degli esseri, o meglio attraverso le molteplici determinazioni dell'essere che si unificano appunto neli'Intelletto («ha tutto in Se»). L'Intelletto deve dirsi «Un movimento quieto e immobile», e «uno, rna tuttavia in una specie di movimento si fa molti: nella sua totalita uno, nello sforzarsi quasi di contemplare se stesso e molti».

L'Intelletto comprende ed unifica le idee, gli archetipi eterni delle cose e le comunica alia terza ipostasi, !'Anima, che e «verbo e atto» dell'Intelletto e at­traversa il mondo animandolo e plasmandolo, come il demiurgo del Timeo pla­tonico ( 4.16 ). Princi pio vi tale del Tu tto, l' Anima comprende ed unifica tu tte le anime, tutte le forme di vita ed ha due facce: con quella piu alta guarda all'In­telletto, mentre con l'altra comunica con la vitalita inconscia della natura, per­mettendo cosi alle forme intelligibili di ordinare la materia.

L'anima universale ha una parte inferiore volta a! corpo, una superiore volta all'intelletto; ed essendo universale e dell'universo, con Ia parte infe­riore governa l'universo corporeo, sovrastandogli senza fatica, perche \ton con Ia ragione discorsiva, come facciamo noi, rna con l'intelletto ... governa l'universo inferiore a lei.

Per questo <<!'anima produttrice del cosmo sensibile ... per prima si rese temporale, producendo questo tempo in luogo dell'eternita». Condizione di ogni movimento, il tempo, come poi per Agostino, none una realta esterna, ne puo ridursi a misurazione del movimento: il tempo «e nato con questo univer­so», ed e il distendersi della sua vita, 0 meglio, e <da vita dell'anima che muo­vendosi passa da uno stato di vita all'altro».

II mondo delle cose sensibili sta al di sotto della Triade neoplatonica (Uno, Intelletto, Anima) ed e visto da Plotino come l'estremo estenuarsi dell'essere, il fioco e pallido riflesso di quella luce che nel diffondersi dall'Uno si e andata impoverendo fino a confondersi con le tenebre e col non-essere della materia. II concetto di privazione attribuito alla materia, che in Aristotele era seconda­rio (Ia materia per lui era innanzitutto capacita di attuarsi), assume in Plotino

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un ruolo primario: la materia diventa il limite interno dell'anima, il principia della distinzione e separazione. L'anima non giace sepolta nel corpo, rna e }'anima che ha in se la materia, «giacche none il corpo illuogo dell'anima, rna !'anima e nell'Intelletto e I'Intelletto in altro».

Come Ia materia, ridotta a mero non essere, anche il male non ha di per se consistenza rna svoige appunto ia funzione necessaria del limite estremo. L'universo, dunque, riflette un ordine tutt'altro che fortuito: neppure il mondo sublunare puo sottrarsi al determinismo e nessun elemento, nessun evento sfugge all'ordine e alia 'simpatia' universale delle cose.

Non bisogna credere che solo certi avvenimenti siano. sottomessi all'ordi­ne, rnentre altri sarebbero senza legami e puramente arbitrari. Se tutto de­ve accadere in base a cause e a conseguenze naturali, secondo una ragione e un ordine unico, bisogna credere che tale ordine e tale legame si estendano fino ai minimi particolari.

E il successo, purtroppo cosi frequente, dell'ingiustizia come si spiega? An­che l'ingiustizia, sia essa subi ta o commessa, trova per Plotino il suo posto nell'armonia del tutto e delle parti che lo compongono. E solo la nostra «igno­ranza» di questo ordine <<divino» e <<giusto» che ci offre <de occasioni di biasi­marlo». Hanno torto gli gnostici (7.11) a non <<accettare con dolcezza la natura di tutti gli esseri», sono ingiusti a disprezzare questo mondo e a dire <<che non e bello».

II suo autore non deve arrossirne; Ia sua opera costituisce un insieme molto bello e che basta a se stesso; e unito a se stesso come tutte le parti, che, grandi o piccole, gli sono proporzionate. E assurdo rimproverare a! tut­to di avere delle parti; sarebbe come prendere, nell'animale intero, un ca­pella o qualche parte umile, un alluce, tralasciando il divino spettacolo of­ferto dall'uomo nel suo insieme; oppure come tralasciare gli altri animali, per soffermarsi sui piu vile di essi, oppure ignorare Ia specie nel suo insie­me, come ad esempio, Ia specie umana, per vedere solo Tersite! Ora, ]'opera da prendere in considerazione, e il mondo intero (.~.). Da esseri che sono ine­guali, non bisogna esigere un effetto uguale; non bisogna domandare al dito di vedere, rna solo all'occhio; al dito bisogna domandare, penso, di essere un dito e di compiere Ia sua funzione.

E nun suno neppur inutili del tuttu questi mali all'uruwe e aiia pieuezza dell'universo ( ... ) Anche il vizio ha una funzione utile al tuttu, diventando esempio della Iegge e arrecando molte utili conseguenze ( ... ) E questo e pro­prio della piu gran potenza, di poter giovarsi in bene anche dei mali.

8.4_ L'ascensione dell'anima. Nel suo processo discensivo verso le articola­zioni della molteplicita, l'essere progressivamente si affievolisce: piu viene de­terminandosi, piu e relativo e dipendente; piu si allontana da se, piu si indebo­lisce. Questo postulato, che giustifica la discesa dall'Uno al mondo delle cose sensibili, disperse nella dimensione del tempo, presuppone tuttavia il senti­menta doloroso di quanto e andato perduto e il desiderio prepotente di un ri­torno alia casa del Padre. L'uomo vive il dramma dell'esule. La sua anima in­telligente, emanata dall'anima universale, partecipa della vita luminosa dell'es-

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sere, rna chiusa com'e nel limite del corpo, rischia di dimenticare la sua origi­ne e il suo bene che, come per ogni ipostasi, consiste nel contemplare cio che l'ha generata, nel «volgersi» verso l'essere che Ia precede per parteciparne e conoscersi. 11 bene del corpo e <<volgersi» verso Ia vita dell'anima, il bene dell'anima e la partecipazione all'intelligenza,' possibile solo nella misura in cui essa sa liberarsi dai vincoli del molteplice e dell'esteriorita (<<separarci dal corpo e forse un raccogliere in se !'anima dispersa quasi in vari luoghi»). Solo cosi !'anima riesce a ritornare alia propria radice, a superare Ia propria indivi­dualita e a sentirsi legata al Tutto.

L'anima singola, portandosi verso cio che e al di sopra di lei, e illumina­ta, e risiede nell'essere; portandosi verso cio che e in basso, va verso il non essere. Ed e quello che fa quando si porta verso se stessa; infatti, quando tende verso se stessa, produce al di sotto di se una sua immagine senza realta.

L'uomo e dunque capace di elevarsi per gradi, riproducendo rovesciata Ia processione dell'Uno. Condizione necessaria e Ia purificazione dell'anima at­traverso l'esercizio delle virtu: solo !'anima bella puo contemplare il bello.

Rientra in te stesso e guarda; e se non vedi bello te stesso, fa come lo scultore che taglia, porta via, fa levigato e puro il marmo che deve diventar bello, finche non esprima un bel volto di statua; cosi anche tu togli via il su­perfluo, raddrizza quanta e storto e, purificando cio che e oscuro, fallo es­ser luminoso, e non cessar di elaborare Ia tua statua, finche il divino splen­dore della virtu non rifulga al tuo sguardo ( ... ) Se diverrai tale e tale ti ve­drai ( ... ) intieramente e solo luce vera ( ... ), divenuto ormai tutto vista, fidan­do in te e pervenuto ormai a non aver piu bisogno di guida, guarda attenta­mente; che solo quest'occhio spirituale vede Ia grande bellezza ( ... ) Giacche ne l'occhio puo mai vedere il sole, se non fatto simile al sole; ne ]'anima pu6 veder il bello, se non latta bella. ...

L'ascensione dell'anima purificata si compie per tre vie, rappresentate dal­la musica (guida alia contemplazione dell'armonia <<intelligibile>> presente nei <<Suoni sensibili», nei <<ritmi» e nelle «figure»), dall'amore (attraverso il quale si perviene al Bene, luce della bellezza) e dalla filosofia (che conduce all'intelligi­bile puro). Viene spontaneo il riferimento aile stupende analisi del Fedro e del Convito. Ma Plotino va oltre: Ia filosofia e pur sempre « ragione discorsiva» e quindi <<molteplicita», incapace di cogliere !'Uno in se, che none discorso e di­stinzione; !'anima deve compiere un ulteriore grado di conversione, possibile soltanto con un atto superiore alia stessa intuizione intellettuale. Questa <<Vi­sione di un Intelletto amante» esige che, <<inebriati di nettare divino», si esca da se stessi, e per questo si chiama estasi (ek-statis = stare fuori da).

Allorche poi !'anima abbia Ia buona ventura di raggiungerlo, quando Egli venga ad essa o meglio riveli, semplicemente, Ia sua presenza, allorche ella stessa abbia distolto Ia faccia dalle cose presenti e si disponga ad esse­re tanto bella quanto sia possibile e raggiunga persino Ia rassomiglianza ( ... )

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ecco che !'anima SCOf!!e in se Colui che e apparso di recente. poiche tra l'anima e il Dio non c'e pili nulla. ne essi sono pili due. ormai. rna sono. !'una e I'Aitro, una sola cosa: certo, tu non riusciresti a distinguerli mai piu, finche Egli e presente; per farvene un'idea, pensate pure agli amanti ed amati di quaggiu, nella !oro brama di fusione! Ne del resto !'anima avverte pili il suo corpo, di dimorare, cioe, in esso; ne esprime se stessa come qual­che altra cosa, non come uomo, non come animale, non come essere, non co­me tutto!

Percio neppure ]'anima si muove, in questo momenta, poiche non si muove neppure Lui; cosi essa non ha neppure la vita, poiche Quegli non ha nessuna vita rna e al di sopra della vita; !'anima non e neppure I'Intelletto, poiche non pensa, dal momento che deve assimilarsi a Lui; ]'anima non pen­sa il Bene, poiche neppure il Bene pensa.

Persino le cose belle, egli le ha ormai valicate: anzi egli corre gia al di sopra del bello stesso, al di la del coro delle virtu: somiglia a uno che, pene­trato nell'interno dell'invalicabile penetrale, abbia lasciato aile spalle le sta­tue rizzate nel tempio; quelle statue che, quando egli uscira di nuovo dal pe­netrale, gli si faranno innanzi per prime, dopo ]'intima visione e dopo la co­munione suprema non con una statua, non con una immagine, rna con Lui stesso; quelle statue che sono, per certo, visioni di second'ordine. Pure li non ci fu certo una visione pura e semplice rna una visione in un senso ben diverso: estasi, dico, e semplificazione estrema e dedizione di se e brama di contatto e quiete e studio di aggiustarglisi ben bene; solo cosi si puo vedere cio che si trova nel penetrate; rna se uno guardi in altra maniera, tutto dile­gua per lui.

Questa unione, solitaria e quieta, dell' Anima con !'Uno e presentata come un evento eccezionale (Porfirio precisa che a! maestro questo «atto ineffabile» ca­pita quattro volte e a lui stesso una sola volta, a sessantotto anni di eta), rna e an­che posta come il suggello finale4 il compimento del ritorno alia casa del Padre.

II circuito discesa-ascesa si chiude con questo esito religioso-filosofico, su cui probabilmente si fa sentire l'influsso della filgsofia indiana e che non puo essere liquidato come un suicidio della ragione, come mera concessione all'ir­razionale, una sorta di tributo pagato da Plotino alia temperie religiosa del tempo, all' ampia circolazione di dottrine soteriologiche e mistiche nella socie­ta tardo-imperiale. Indubbiamente la «danza» mistica presuppone il silenzio della filosofia, rna non c'e estraneita ne incompatibilita: l'estasi e anzi, per Plo­tino, il culmine e il principia del sapere stesso, cosi come l'Uno, immanente e trascendente, e l'origine e il fine del processo di derivazione della realta. E ve­ro che Ia societa del III secolo, cosi instabile ed insicura sui piano politico, economico e sociale, e pervasa da un'ansia quasi angosciosa di salvezza e che anche Ia riflessione di Plotino e attraversata da un senso di malessere, dal sen­timento che Ia vita umana si svolge in condizioni miserande, sbattuta tra mali p~rsonali e sciagure collettive. Ma e altrettanto vero che l'itinerario proposto da Plotino e costantemente dominato e controllato da una ragione attenta, che esplicitamente esclude qualsiasi intervento magico o scorciatoie analoghe, solo apparentemente liberatorie. Non dimentichiamoci infatti che e proprio l'ordi­ne dell'universo a guidare l'uomo nel suo graduale processo di risalita.

Anche quando discute della divinazione astrologica, della preghiera o del

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culto delle statue, Plotino non nega e non disprezza tali riti, rna chiarisce che la lora efficacia non dipende dalla presunta azione provvidenziale di Dio, rna esclusivamente dalla simpatia che collega le varie parti del tutto. Gli eventi umani, all'insegna della stoltezza, sono ombra ed apparenza e Dio non se ne occupa. L'accesso che ]'anima si apre attraverso queste ombre per attingere la realta intelligibile e opera di un rigoroso impegno, che coinvolge vita intelletti­va e vita morale in un'unica tensione: pensare davvero ed essere saggi e Ia condizione per la risalita.

La soluzione di Plotino ai gravi problemi della trascendenza divina e della contraddittoria condizione umana non esula dunque dalla dimensione logico­razionale, rna tenta di recuperare, con una sintesi originale, il piano dell'espe­rienza vissuta all'interno di una ragione che allarga le maglie dei suoi schemi senza rinunciare alle sue prerogative.

8.5 Porfirio e Giamblico. Plotino combatte contra gli gnostici; al suo suc­cessore Porfirio - nato a Tiro nel 234 e morto a Roma non piu tardi, forse, del 305 - tocco il compito piu difficile di attaccare il cristianesimo e difende­re i1 paganesimo, resistendo in qualche modo all'invadenza sempre piu massic­cia delle posizioni irrazionali, rappresentate dal successo dei 'demoni' della mitologia popolare (intesi come potenze intermedie tra gli dei e gli uomini) e dal diffondersi della magia e della teurgia che, sulla scorta degli Oracoli cal­daici (redatti ai tempi di Marc' Aurelio), promettevano tecniche pratiche di unione al divino. Del lavoro di Porfirio, Contra i cristiani. bruciato nel 448 per ordine degli imperatori Teodosio e Valentiniano III, e dell'importante opera­zione da lui compiuta nel pubblicare le opere del maestro e nell'interpretarne la dottrina diremo tra poco (8.7). Restano qui da precisal"'e altri aspetti della sua vasta attivita, tenendo canto che la maggior parte delle sue opere (non ne cono­sciamo neppure tutti i titoli) e andata perduta. Tra gli scritti pervenuti, a par­te una Vita di Pitagora, un trattato vegetariano Sull'astinenza dal nutrimento degli animali e la bella Lettera a Marcella, e necessaria ricordare l'Introduzio­ne alle Categorie di Aristotele, la celebre lsagoge, che servi da manuale di logi­ca per tutto il Media Evo arabo e cristiano. Di altre opere possediamo solo frammenti, talvolta molto ampi.

Sulla base di quest'ultimi in particolare, e possibile collocare Porfirio all'origine di quella tendenza fondamentale che caratterizza il neoplatonismo Iatino di contra al neoplatonismo 'orientale', iniziato dal siriaco Giamblico (245 ca- 325 ca). Usando lo schema suggerito da Olimpiodoro, un neoplatonico di Alessandria, si puo dire che Porfirio e altri, sulla scia di Plotino, «mettono la filosofia prima di tutto», mentre Giamblico, Siriano, Proclo e altri «mettono in prima piano l'arte ieratica». Il neoplatonismo, diffusosi rapidamente in tut­to l'Impero, non si presenta dunque come un blocco monolitico, rna si diffe­renzia quasi subito in due versanti.

Da una parte, la tradizione 'occidentale' di Porfirio, piu equilibrata e con vive preoccupazioni etiche: presente in Macrobio o in Firmico Materna e, so­prattutto nei cristiani Mario Vittorino, Ambrogio e Agostino, e riscontrabile anche nella scuola di Alessandria (Ipazia, Sinesio, Ierocle, Ammonia ... ).

Dall'altra parte, la tradizione, metafisica e teurgica, di Giamblico: vi si rifa-

r· I

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ranno sia la scuola di Pergamo, che influenzera anche l'imperatore Giuliano sia la scuola di Atene con Siriano e Proclo, fino a Damascio. Una scissione, tra Oriente e Occidente, che ricorda la distinzione tra Chiesa d'Oriente, sotto il se­gno di Origene, e Chiesa d'Occidente, sotto il segno di Tertulliano, e che sara sanzionata dall'atto di nascita di Costantinopoli (324), della nuova Roma voluta da Costantino come capitale cristiana di un impero cristiano. L'unita della cul­tura ellenistica, nonostante il suo fragile equilibria e le pericolose aperture sincretistiche, ha in qualche modo resistito fino a Costantino. La frattura pro­fonda che con lui si apre, avvia decisamente i due universi culturali su direzio­ni sempre piu inconciliabili.

II dissidio fra Porfirio e Giamblico riguarda, in sintesi, il metodo seguito nello studio di Platone e di Aristotele, l'atteggiamento nei confronti della teur­gia e la valorizzazione della trascendenza dell'Uno.

Il metodo esegetico di Porfirio e analitico e arriva anche a proporre diverse interpretazioni di uno stesso testo senza curarsi di cercarne la coerenza. Giam­blico invece, preoccupato di individuare il senso profondo della dottrina segre­ta, celata nel testo filosofico, usa ed abusa del metodo allegorico e ordina in modo sistematico i testi, definendone l'ordine gerarchico di appartenenza (se di ordine fisico, etico, logico, metafisico, o teologico). Per Giamblico l'unione con gli dei e una grazia e si attua attraverso pratiche rivelate, incomprensibili agli uomini:

II compimento degli atti ineffabili, che oltrepassano qualsiasi conoscen­za, in una maniera degna degli dei, e la potenza degli ineffabili simboli com­presi dagli dei, producono soli l'unione teurgica. Non e dunque grazie all'in­telligenza che compiamo le cost;O sacre; altrimenti questo atto sara un effetto della nostra intelligenza, e dipendera da noi.

Se l'uomo potesse arrivare al divino con le sole sue forze, dovremmo ipotiz­zare che gli dei sono mossi da esseri inferiori.

Porfirio, invece, pur riconoscendo utili, per la purificazione della parte in­feriore dell'anima, le tecniche teurgiche, che favoriscono la risalita verso gli dei astrali (in questo si distacca da Plotino), sottolinea che la liberazione au­tentica e compiuta dell'anima si ha soltanto con la filosofia platonica che per­mette di attingere intellettualmente il divino. Agli eletti la via della contempla­zione, agli altri puo essere d'aiuto la teurgia.

II proposito di superare le difficolta e l'eccezionalita dell'estasi plotiniana e di offrire delle regole accessibili ai piu, che «hanno necessita di una regola>> si­gnifica invece per Giamblico relegare la filosofia alla funzione ancillare di 'commento' sistematico delle rivelazioni fatte dagli dei agli uomini: la tradizio­ne orfica e pitagorica, le rivelazioni 'persiane' di Zaratustra, quelle egiziane del dio Thot-Hermes e i piu recenti Oracoli Caldaici (commentati anche da Porfirio).

Bisogna sopprimere tutti i ragionamenti e qualsiasi deduzione logica per tutto cio che riguarda i nomi divini ( ... ). Tutto il linguaggio di certi popoli sacri come gli Egiziani e gli Assiri e stato dagli dei ritenuto conveniente aile cose sacre, e noi pensiamo quindi di dover intrattenerci con gli dei in un linguaggio che e loro naturale.

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Allora la religione e superiore alia filosofia, sia perche la nostra conoscen­za degli dei e anteriore a qualsiasi ragionar'nento, sia perche Ia ricerca specu­lativa (in particolare gli studi matematici) ha solo una funzione propedeutica e l'abisso che s'interpone tra l'uomo e Dio puo essere colmato solo dalle formu­le e dalle pratiche teurgiche. E il capovolgimento della posizione di Porfirio. L'esigenza di integrare i dati rivelati con i concetti platonici e con gli elementi pitagorici induce Giamblico a moltiplicare le ipostasi e le divinita e a costrui­re una complicata gerarchia di entita sovramondane (simili aile genealogie de­gli eoni gnostici) che giustificano il ricorso alla teurgia. Senza entrare nel me­rita, ci limitiamo a sottolineare lo sdoppiamento dell'Uno plotiniano: prima della triade intelligibile (in cui viene articolato l'Intelletto plotiniano per con­ciliarlo con lo schema triadieo degli Oracoli caldaici) Giamblico pone la 'mona­de', intesa come unita ipostatica della triade successiva, e prima della monade l'Uno. -Questa operazione, in linea con la tradizione pitagorica, accentua deci­samente la trascendenza dell'Uno e tradisce un recupero di Aristotele: l'atto puro rimane immobile al suo posto e nulla passa dal superiore all'inferiore; solo la potenza e principia di inferiorita e di dinamismo e la potenza e propria delle entita subordinate all'Uno, rna non dell'Uno che tutto trascende.

La posizione di Porfirio e diversa. In molti testi non fa neppure la distinzio­ne, cara al maestro, tra Uno ed Intelletto, in altri definisce l'Uno come Essere al di la dell'Essente. Sembra anzi che, proprio nel suo commento agli Oracoli Caldaici, Porfirio abbia identificato l'Uno con il Padre, prima termine della triade collocata dagli Oracoli alla sommita di tutte le cose: almeno di questo sara accusato da Proclo e da altri esponenti ckl versante 'orientale'. Tale in­sufficiente valorizzazione della trascendenza dell'Uno e, del resto, coerente con la lettura antropologica che del plotinismo offre Porfirio. 11 fulcro centra­le della realta e vista nell'anima, considerata come l'elemento unitario che mette in relazione la prima emanazione dell'Uno, l'Intelletto, con gli intelligibi­li. L'attenzione al problema del male, il processo di riconversione all'Uno inte­so come itinerario etico e mistico, in cui l'anima si riappropria, da protagoni­sta, dell'Essere: sono alcuni degli aspetti piu caratterizzanti della riflessione di Porfirio. Il confronto tra Agostino e filosofia ellenica passera proprio attraver­so la mediazione di questa indirizzo neoplatonico. Dall'innesto invece con la tradizione di Giamblico derivano le opere di quell'anonimo che, tra il V e VI sec., scrive con lo pseudonimo di Dionigi l'Areopagita (9.5).

8.6 La scuola d' Alessandria. I tre anni dell'impero di Giuliano (331-363) dal 361 ai 363, rappresentano lo sforzo disperato di restaurare e di riformare il paganesimo contra «la demenza dei Galilei». Giuliano cerco non soltanto di ri­generare il mondo secondo i decreti ispirati dalla filosofia, rna anche di intro­durre nel paganesimo gli elementi che a suo giudizio erano la forza del cristia­nesimo, come la vita monastica e l'amore al prossimo concretizzato nella cura dei poveri e dei malati. Alla sua opera, gia ricordata, Contra i cristiani, che non ha l'importanza di quelle analoghe di Celso e Porfirio, si ricollega molto probabilmente un opuscolo, Degli dei e del mondo, scritto forse nel 362 da un certo Saloustio (o Sallustio), che e stato definito un vero e proprio catechismo della religione pagana. ln varie parti vi troviamo volgarizzata la dottrina neo-

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platonica del versante orientale. AI di sopra di tutto sta Ia causa prima che e una ed immutabile; vengono poi gli dei, quelli al di sopra del mondo; poi e Ia volta del mondo, coeterno agli dei, in cui si trovano le essenze, le intelligenze e le anime. II mondo e ordinato da una provvidenza divina e il male non ha con­sistenza, rna riguarda solo gli atti umani. L'impassibilita degli dei non e certo mutata dai sacrifici, rna solo grazie a· questi gli uomini ottengono l'unione con gli dei. Puo darsi che la vittoria finale spetti al cristianesimo, che Saloustio chiama 'ateismo', rna tale trionfo non tocchera naturalmente gli dei, sara anzi il castigo voluto dagli dei stessi nei confronti delle anime che non vivono se­condo virtu.

Non sappiamo quando la scuola di Alessandria sia diventata neoplatonica. Stando aile notizie in nostro possesso, i suoi inizi coincidono con il dramma consumatosi nel marzo 415, quando Ia filosofa e matematica Ipazia, ancora nel fiore della sua bellezza, cadde nelle mani di una banda di cristiani fanatici e fu assassinata. L'insegnamento di questa eccezionale figura di martire pagana, che ha avuto tra l'altro una notevole risonanza nella coscienza letteraria mo­derna (dalle liriche di Leconte de Lisle al romanzo di Charles Kingsley, dalla commossa rievocazione di Charles Peguy al recente dramma in versi di Mario Luzi), ci e in parte noto grazie al suo discepolo Sinesio (370-415), vescovo di Tolemaide. Pili che le stesse lettere ad Ipazia, sono utili in proposito le opere di Sinesio che ci rivelano un'Ipazia pili vicina a Porfirio che a Giamblico. Lo zelo di Sinesio nel conciliare il neoplatonismo con gli insegnamenti cristiani e visibile in particolare negli Inni, dove il canto si distende in onore del Padre, il Principio di tutto che genera l'Intelligenza traendola dalla sua Volonta: come in Porfirio, il Padre forma una triade, pur restando una manacle.

Gli scolarchi successivi ad Ipazia, anche se sono stati quasi tutti allievi del­la scuola di Atene, sembrano restar fedeli all'impostazione porfiriana, almeno nel metoda esegetico seguito nella studio delle opere di Aristotele. Forse pro­prio per questa sua diversita, quando nel 529 scomparve la scuola pagana di Atene, Ia pili neutrale scuola di Alessandria pate continuare l'attivita fino a! 612, quando l'imperatore Eraclio chiamo a Costantinopoli Stefano di Alessandria.

8.7 La scuola di Atene: Proclo. La tradizione di Giamblico era penetrata in Atene per opera di Nestorio, gran sacerdote di Eleusi, sui finire del sec. IV. Non tanto con Plutarco di Atene (morto prima del 431), quanta col suo succes­sore Siriano !'influenza di Giamblico si consolida in modo decisivo.

L'esponente pili importante della scuola ateniese e il licio Proclo (410-85). Della sua immensa produzione conserviamo alcune opere: i commenti ad alcu­ni dialoghi platonici (non sembra che Proclo abbia commentato opere di Ari­stotele), agli Elementi di Euclide e al Tetrabiblos di Tolomeo e, soprattutto, Ia Teologia platonica, in 6 libri, e il compendia degli Elementi di teologia, che hanna avuto un largo influsso sui pensiero religioso e mistico, sia arabo che ebraico e cristiano, delle eta seguenti.

I propositi di Giamblico si attuano nel rigoroso sistema elaborato da Pro­do: platonismo e religione olimpica, orfismo e caldaismo risultano unificati in un impianto sicuramente complesso (moltiplicazione delle ipostasi) rna raffina-

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to e coerente. Per garantire meglio l'assoluta trascendenza divina Proclo pone, tra l'Uno ineffabile (corrispondente al Chronos dell'orfismo) e l'Intelletto, le Enadi, o unita supreme che vengono identificate con gli dei, anch'essi superio­ri all'essere e responsabili dell'ordine provvidenziale del mondo.

Ogni Dio e un'Enade in se perfetta e ogni Enade in se perfetta e Dio. Ogni Dio e superessenziale, supervitale e superintellettuale. Ogni Dio e par­tecipabile, fuor che l'Uno. Che esso e infatti impartecipabile e evidente, af­finche non accada che essendo partecipato, e perci<'> divenuto di alcuno, non sia piu causa di tutti gli uguali, dei primi enti e degli enti. Che poi le altre Enadi sian gUt partecipate, dirnostreremo cosi: che se ci fosse dopo il primo un'altra Enade impartecipabile, in che differirebbe dall'Uno?

Le Enadi pongono il piano puramente intelligibile che si articola in Tre triadi: I) Padre-Potenza-Intelligenza (corrispondenti a Etere-Caos-Uovo primiti­vo dell'orfismo e a Limite-Infinito-Misto del Filebo platonico); II) gli stessi ter­mini della I triade rna presi nel loro termine medio, Potenza o Infinito; III) predomina il terzo termine della triade (Padre-Potenza-Intelligenza, sono, que­sta volta, Intelligenza). Dopo questo viene il piano intelligibile e intellettuale, compos to anch'esso di tre triadi. Poi il piano puramente intellettuale (1' Anima di Plotino) costituito da una ebdomade (gruppo di 7,.entita). E cosi via: la gene­razione delle cose avviene per mezzo di una discesa a spirale e secondo una scansione triadica, in cui due termini - uno dei quali e unita e l'altro plurali­ta e potenza - danno origine, con la loro opposizione, a un termine che e fi­glio dei primi due. Una processione dialettica che indica un processo reale, un rapporto storico tra enti, e nel contempo vuol essere una rigorosa deduzione concettuale. Negli Elementi di teologia Proclo chiarisce il metodo da lui appli­cato, sulla scia di Giamblico, alia teologia, col proposito esplicito di imitare il metodo seguito da Euclide per la matematica. Soffermiamoci sui carattere triadico del processo, in cui, non a caso, la filosofia romantica tedesca, Hegel in particolare, vedranno il culmine raggiunto dal pensiero antico. Se campi­to della scienza e, aristotelicamente, <da conoscenza delle cause>>, la derivazio­ne della realta e una processione di cause che si svolge secondo i tre momenti logici (permanenza, progressione, conversione) impliciti nel concetto di causalita:

a) la causae superiore all'effetto e non gli comunica niente, permane in se im­mobile (se la causa si risolvesse nell'effetto, potrebbe l'effetto sussistere ed essere conoscibile ?); ,

b) la causa, che e potenza generativa, esce fuori di se e pone un effetto che e da lei distinto rna anche a lei somigliante;

c) la somiglianza dell'effetto ne permette il ritorno alla causa («ogni essere de­sidera il Bene e il raggiungimento di esso si compie per ciascun essere me­diante la sua causa prossima»).

La processione ha dunque un andamento circolare:

Ogni essere che procede da un altro e vi ritorna ha un'attivita circolare. Che se ritorna Ia donde procede, congiunge col principia il fine, ed e uno e

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continuo il suo movimento: nascendo, da una parte, da cio che permane, dall'altra col ritorno ad esso. Onde tutti gli esseri procedono in circolo dalle cause aile cause. E ci son circoli maggiori e minori, compiendosi le conver­sioni parte verso cio che e immediatamente sopra, parte verso cio che e piu su, fino al principio di tutte le cose. Da esso infatti tutte procedono, o ad esso tutte ritornano.

L'universo si puo dunque rappresentare come un grande circolo entro il quale si muovono ordinatamente circoli minori, che corrispondono ai vari gra­di della gerarchia. «Tutto e in tutti; rna in ciascuno nel modo proprio». II prin­cipia, gia di Plotino, e assunto e tradito in questo universo di Proclo che, quan­to ha piu necessita di moltiplicare minuziosamente gli intermediari, tanto piu smarrisce Ia continuita che costituiva l'universo plotiniano.

Nel 529 un editto di Giustiniano chiude Ia scuola di Atene. Da tempo l'im­peratore perseguitava gli 'ellenizzanti', i partigiani dell'antica cultura; con questo suo gesto eliminava ]'ultimo baluardo del paganesimo in un impero cri­stiano. Imitando l'esempio dei maestri della scuola siriaca di Sant'Efrem a Edessa (meta del sec. IV), chiusa nel 489, lo scolarca Damascio e i suoi collabo­ratori (Simplicia di Cilicia, Prisciano di Lidia ... ) partono per la Persia e cerca­no rifugio presso il re Khusraw Anoshakrawan (Cosroe), che fara loro tradurre un certo numero di opere filosofiche. Ha cosi inizio un' osmosi diretta con Ia cultura orientale, che ha permesso, fra l'altro, il salvataggio di numerosi docu­menti filosofici greci, grazie aile traduzioni siriache e poi arabe. Giustiniano chiude una scuola che ormai conduce un'esistenza isolata e stentata, non san­ziona pero Ia fine del neoplatonismo. Agli elementi via via segnalati e opportu­no aggiungerne due che riceveranno ampia eco in gran parte della produzione culturale (non solo filosofica) medioevale e moderna: l'idea del circuito (discesa-acesa) e Ia metafora plotiniana della luce. Senza, infine, dimenticare che lo stesso Platone sara conosciuto fino all'eta moderna attraverso Ia media­zione, spesso deformante, del neoplatonismo, o piu precisamente del neoplato­nismo successivo a Plotino, perche I'Occidente potra rileggere il testo origina­le delle Enneadi, nella sistemazione porfiriana, solo nel sec. XV.

La patristica greca

8.8 La polemica contro i cristiani. Sulla soglia del III secolo le chiese cri­stiane, disseminate in tutta !'area dell'impero e gia tra loro compaginate in unita (della quale era sempre piu riconosciuto come garante i1 vescovo di Roma) apparivano rigogliose, nonostante la ricorrente decimazione inflitta lo­ro delle persecuzioni imperiali. Gli adepti delle comunita erano pero per Ia gran parte di umile estrazione (numerosissimi gli schiavi), senza tradizioni cul­turali che li mettessero in grado di far fronte ai contrattacchi dei ceti intellet­tuali ancora pagani. Le due strategie aperte, come abbiamo visto (7.20-22), dal­la chiesa delle origini - quella conciliativa di Giustino e quella antagonistica

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di Tertulliano - servivarto, si, a dare appoggio, la prima, alla politica (che ri­sultera vincente) di integrazione dell' eredi ta ellenistico-romana nei patrimonio della nuova sapienza, la seconda al risentimento anti-filosofico molto diffuso nelle comunita cristiane di livello piu popolare e, appunto per questo, con molte radici nella controcultura ellenistica. Ma queUe due strategie non basta­vano a sollevare il confronto dei cristiani col paganesimo dal piano della sem­plice testimonianza morale, dove essi erano largamente in vantaggio, al piano intellettuale. Lo scarto appariva tanto meno tollerabile alle prime generazioni di intellettuali cristiani in quanta essi non erano del tutto consapevoli che la sapienza del vangelo fosse di altra natura di quella filosofica. Per !oro l'inse­gnamento di Gesu era la 'vera filosofia', in confronto alla quale quella dei gen­tili era o semplice preparazione, destinata a scomparire una volta assolto il suo compito storico, o inutile e · perniciosa menzogna.

Nei circoli colti della societa pagana, nei confronti della nuova religione, ancora non ben distinguibile nel variegato panorama delle religioni mistiche e di origine orientale, prevaleva un altezzoso disprezzo. Questo disprezzo non nasceva (lo abbiamo visto nel caso di Plotino, 8.1) da un senso di estraneita nei cronfronti dei valori spirituali e mistici, che anzi, nel II e III secolo, la piega presa dalle scuole stoica e platonica era nettamente religiosa, sia riguardo alla concezione di Dio, rigorosamente monoteistica, sia riguardo al senso della vi­ta, centrato, in varieta di modi, sul primato assohqo dei valori dello spirito. In apparenza solo una sottile parete separava dunque le due visioni del mondo, quella 'pagana' e quella cristiana. L'avversione anticristiana dei circoli stoici e platonici (gli epicurei sono significativamente assenti dalla polemica) potrebbe anche spiegarsi proprio con questa affinita, che, nel versante pagano, si poteva colorare del presentimento di un inarrestabile declino. Piu decisive dovettero essere, in modo latente, le ragioni etico-politiche, che davano all'avanzata della nuova religione il carattere di un moto sovversivo contro la santita dell'impero e contro l'ordine sociale.

Secondo numerose testimonianze, in questo periodo i cristiani venivano ac­cusati di ateismo (e. questa la tesi di Saloustio, 8.6) e come tali condannati. Nell'impero romano l'ateismo teorico non era im reato; lo era invece il rifiuto del culto pratico agli dei e allo stesso imperatore. Sottrarsi all'obbligo delle cerimonie religiose era professare disprezzo per lo Stato e perle sue leggi: era insomma un segno di intenti rivoluzionari. Intenti che d'altronde, cosi si dice­va nei circoli pagani riguardo ai cristiani, avevano riscontro nella parola del «capo della loro sommossa>>, Gesu, che non si possono servire due padroni. La disobbedienza civile designava i cristiani come «nemici del genere umano» che «Si staccano dal resto dell'umanita e si trincerano contra di essa».

Queste obiezioni politiche, si confondono, come spesso avviene, con quelle sociali. Il movimento dei cristiani ha un carattere plebeo. Il suo stesso fonda­tore era di basso rango, figlio illegittimo di una donna ripudiata dal marito e circondato da discepoli anch'essi di infima ordine. Il Regno di Dio di cui si parla nei vangeli non e forse gremito di ignoranti, poveri e peccatori mentre ne vengono esclusi colora che meritano particolare reputazione per la cultura, la ricchezza e il decoro della vita? Dietro la nausea filosofica c'e, dunque, un'altra nausea che oggi diremmo di natura classista.

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Le accuse che abbiamo riferito le conosciamo dai pochi frammenti che ci restano di una serie di opere polemiche anticristiane che ebbero, tra l'altro, il merito non solo di provocare delle repliche di grande valore rna anche di sti­molare la riflessione cristiana, che difatti riusci, nel giro di un secolo, a col­mare_lo scarto di qualita che la teneva distante da quella dei pensatori pagani. Naturalmente l'efficacia di questa provocazione si deve soprattutto alle obie­zioni piu direttamente filosofiche contra la nuova religione. Possiamo render­cene canto ricordando gli scritti dei piu importanti polemisti anticristiani.

Il platonico Celso compose, attorno al 170, Il discorso della verita, una con­futazione in piena regola dell'insegnamento cristiano. La conosciamo in base aile larghe citazioni che ne fece, 70 anni dopo, Origene, nella sua replica inti-tolata, appunto, Contra Celso. ·

Platonico era, come abbiamo vista (8.5), anche Porfirio, autore di un Contra i cristiani (15 libri, anno 270), che il grande storico del cristianesimo, A. Har­nack, defini lo scritto piu ricco e piu approfondito che mai sia stato composto contra il cristianesimo. Porfirio conosceva bene quel che combatteva: figlio di famiglia cristiana, e gia catecumeno, volse le spalle, alia chiesa per diventare discepolo di Plotino e poi suo successore nella direzione della scuola neoplato­nica di Roma.

Giuliano, detto l'Apostata perche di provenienza cristiana, divenuto impera­tore, si propose di rest~urare la religione imperiale e di abbattere l'egemonia della chiesa avviata da Costantino. Durante la sua permanenza in Antiochia, nel 362/3, compose anche lui un Contra i cristiani (8.6).

Come si vede, si tratta di tre opere che, distanti un secolo l'una dall'altra, coprono l'intero arco di tempo che condusse la chiesa da una posizione di margine al definitivo trionfo. Nelle tre opere ci sono alcune tesi ricorrenti.

1. La filosofia si assume !'onere di dimostrare i propri dogmi e invece i cri­stiani contrappongono la fede al sapere. In questa, dice Celso, i cristiani si ri­velano barbari. Qual e infa tti la differenza tra i greci e i barbari? Che i primi dimostrano quel che affermano, gli altri credono senza ragione e quindi senza nemmeno saper render canto di quel che credono. E credono condannando il dubbio, che invece e il principia del sapere filosofico. Ecco perche, argomenta Celso, i cristiani hanna paura del sapere ed esaltano la stoltezza, come fa il lo­ra maestro Paolo. Niente di strano che essi espongano le loro favole ai mano­vali ignoranti, ai calzolai, ai tessitori, aile donne e ai bambini. L'aristocratico Celso non sopporta questa degradazione, parallela, in ogni caso, alla degrada­zione a cui i cristiani sottopongono Dio stesso facendolo discendere dai cieli per fare comunita solo con loro.

2. L'idea che i cristiani hanna di Dio e pesantemente antropomorfica, specie nel Vecchio Testamento, dove Dio si arrabbia, si pente, minaccia di distrugge­re le proprie creature. Quanta piu perfetta e !'idea filosofica di un Dio puro spirito, invisibile, inattingibile, privo di bisogni e di impulsi passionali!

3. La dottrina sull 'unicita di Dio e contraddetta da quell a della Trinita e da quella del diavolo. Che sensa ha affermare che lo Spirito Santo e Dio come il Padre? E piu an cora, come si puo pensare che Dio sia sceso sulla terra con Ge­su (abbandonando cos! alia confusione l'universo!) ed abbia sofferto sulla cro­ce? E poi: come poteva Dio permettere l' esistenza di un essere perverso come

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il diavolo, di fronte al quale Lui stesso e come impotente ed impotente del tut-to e suo Figlio su II a terra? .

4. Ma il punto critico della inconciliabilita tra le due visioni e nel modo di concepire i rapporti tra Dio e il cosmo. Per i cristiani solo Dio e eterno: asso­lutamente altro dal mondo, che e sua creatura e come tale ha un principio, cosi come, in base aile decisioni di Dio, potra avere una fine. Per i greci e as­solutamente inconcepibile una creazione come produzione dal nulla. Il mondo e eterno ed e un tutt'uno, in cui rientrano tanto le cose inateriali quanto l'Es­sere sommo, stretti tra loro da una Iegge razionale da cui niente sfugge, ne le cose mortali ne Dio stesso. Puo darsi che l'anima sia immortale, rna anche in questo caso essa non esce dalla 'natura', passa da una parte all'altra del .co­smo, di cui l'uomo e, si, una porzione eletta, rna solo una porzione. Per i cri­stiani invece il cosmo e stato creato per l'uomo. Ed e per riguardo all'uoino che Dio si manifesta come provvidenza, mentre peri greci la provvidenza e un principio immanente alia natura, un principio che si cura delle specie non de­gli individui. Che sen so puo avere all ora la resurrezione della carne? La carne e, secondo la sua natura, corruttibile e non ha senso che Dio provochi una de­roga ad un principio che tutto regola, compresa la porzione divina del cosmo. L'idea di un Dio onnipotente ripugna ai greci.•«Dio non puo tutto, afferma Por­firio. Egli non puo fare che Omero non sia stato un poeta e che Troia non sia stata distrutta: egli non puo fare che due volte due, che sono quattro, facciano cento». Di qui l'inaccettabilita del miracolo, anche dei miracoli di cui e piena la mitologia greca. Il miracolo c'e, rna consiste nelle operazioni straordinarie di alcuni personaggi (famoso, a quei tempi, Apollonio di Tiana) che hanno una particolare conoscenza delle leggi di natura. Ma le leggi di natura come tali non possono mai essere infrante. La filosofia greca e dunque cosmocentrica; la fe­de evangelica e antropocentrica: una volta stabilito il primato dell'uomo e la trascendenza di Dio sui mondo, niente impedisce che per amore dell'uomo Dio possa mutare quelle che si dicono leggi di natura. La distinzione tra il possibi­le e l'impossibile vale anche per Dio, secondo i greci: per i cristiani niente e impossibile presso Dio, nemmeno cia che per noi e illogico. Celso si scandaliz­zava della sola idea che Dio si fosse fatto uomo attraverso il grembo di una donna, invece che farsi un corpo appositamente, che abbia scelto un piccolo popolo in un angolo della terra, e che abbia chiamato di preferenza i peccatori invece che la gente perbene.

Questi rapidi rilievi mettono in luce la portata della novita cristiana ed an­che l'immane compito che si parava all'intelligenza dei credenti: quello di usa­re i concetti del pensiero greco per far passare un messaggio cosi intrinseca­meriie estraneo alla tradizione di quel pensiero. Fu questo il compito che af­frontarono i 'Padri della Chiesa', da Clemente di Alessandria ad Agostino.

8.9 Clemente di Alessandria. Le scuole stoica e neoplatonica avevano sem­pre piu perduto di tensione teoretica per diventare veri e propri movimenti di salvezza, con finalita pratiche o addirittura terapeutiche. E i loro maestri, piu che filosofi nel senso tradizionale del termine, erano ormai dei 'direttori di coscienza', che accoglievano attorno a se un certo numero di discepoli per commentare insieme i grandi testi del passato, come i dialoghi di Platone. Cosi

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avveniva anche ad Alessandria, dove attorno ad Ammonia Sacca potevano ri­trovarsi discepoli di diversi orientamenti, come i1 pagano Platina ed i1 cristia­no Origene. Ad Alessandria si stabilisce, attorno al 180. un cristiano di Sicilia, Panlenu, che, senza nessun incarico ecclesiastico (la chiesa gestiva una sua scuola di catecumeni) avvio per proprio canto un'attivita di insegnamento con metodi e programmi ispirati ad una grande apertura. «Egli succhiava i fiori come una vera ape nei prati dei profeti e degli apostoli per deporre nelle ani­me una gnosi tutta pura»: cosi scrisse del suo insegnamento un discepolo di genio, Clemente ( 150-216 ca.) che avrebbe rilevato Ia sua scuola portandola ad un alto grado di efficienza e di irradiazione. Pare che in realta Clemente fosse un ateniese approdato ad Alessandria dopa aver molto viaggiato in cerca di sa­pienza. II suo merito e di aver tentato per primo nella chiesa una sintesi cultu­rale che avesse il respiro delle grandi creazioni della filosofia pagana, fosse cioe non solamente un commento ai libri sacri rna una vera e propria visione del mondo, nella quale trovasse il suo posto tutto cio che gli uomini del passa­to avevano detto di valido. Era un modo di trasferire sui piano del discorso ra­zionale quella universalita che i credenti riconoscevano nel messaggio evange­lico e di tramutare l'impresa apologetica, fatalmente viziata di settarismo, in un libero dialogo con QUalsiasi forma di cultura, per diversa che fosse.

E difatti, alia pari dei maestri del pensiero ellenistico, Clemente si propane un programma filosofico il cui obiettivo e il conseguimento della saggezza mo­rale, e lo fa in tre opere distinte: il Protreptico (un titolo che ci richiama ad Aristotele), che e una 'esortazione' alia conversione; il Pedagogo, cite si indiriz­za ai convertiti per formarne i costumi; Gli Stromati (letteralmente 'tappeti', 'arazzi': noi diremmo 'variazioni'), che raccolgono, senza preoccupazioni di si­stematicita, svariate esercitazioni di spiritualita in vista della perfezione.

Alia base della pedagogia di Clemente c'e Ia tesi gia enunciata da un altro filosofo cristiano, Giustino (7.21): il Logos, cioe la Ragione, e una sola cosa col Cristo. C'e dunque una sola filosofia, quella del Verba, cioe della Ragione, che si trova, frammentaria e dispersa, nel pensiero pagano, perfetta e limpida nell'insegnamento della Scrittura e soprattutto di Gesu. Per Clemente Ia so­stanziale omogeneita tra filosofia ellenica e Vecchio e Nuovo Testamento an­clava presa alla lettera: una medesima antichissima tradizione correva, come una falda segreta, sotto ambedue le filosofie, unificandole. Mose non e for.se cronologicamente anteriore a Platone? Ad assicurare la corrispondenza tra i due Maestri e, appunto, Ia vena nascosta, che trovera il suo sbocco pieno nella dottrina di Cristo.

Non si dimentichi che ai tempi di Clemente la filosofia non era piu intesa come ricerca autonoma, rna come commento, come esegesi di cio che era stato gia detto. Nell'area pagana, pensatori come Plutarco e soprattutto Numenio facevano consistere la filosofia nella ricerca di una 'Ragione antica' (Logos pa­laios) rivelata agli uomini da Dio agli inizi del mondo. Per Clemente, la cono­scenza di questa Ragione antica si ha con l'esegesi della Sacra Scrittura. Ad esempio, la vera filosofia della natura si ha nel I cap. della Genesi, che pero va interpretato simbolicamente. La conoscenza di questa divina filosofia e Ia vera gnosi (7 .11.22), da non confondere con la gnosi eretica di un Valentino o di un Basilide. Nella gnosi eretica la salvezza era, per cosi dire, un risultato automa-

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tico, esterno all'anima, di una Iotta tra potenze superiori all'uomo. Per Cle­mente, essa e una conquista libera dell'anima, che puc giungere alia gnosi me­diante un lungo itinerario dove, accanto all'impegno dell'intelligenza, trova po­sto anche una specie di ginnastica spirituale. I contenuti di questa gnosi non si riducono tuttavia a quelli della Scrittura.

Essi si trovano in una tradizione, in gran parte orale e segreta, trasmessa da Cristo agli apostoli e da questi a dei maestri spirituali la cui serie si e pro­lungata fino a Panteno, che di Clemente fu maestro. Fa parte di questa tradi­zione riservata agli iniziati la dottrina sui misteri dell'aldila. Dopo la morte il vero gnostico entra in una serie di dimore spirituali gerarchicamente disposte, nelle quali, prima come discepolo e poi come maestro, dovra restare duemila anni per raggiungere definitivamente una sede supe!iiiore. Tale certezza riem­pie lo gnostico di beatitudine gia su questa terra, dove gia vive, in qualche mi­sura, il mistero di progressive ascensioni che lo attende dopo la morte.

8.10 Origene Al di la di simili concessio.ni alle stravaganze esoteriche che erano di moda nelle tradizioni apocalittiche giudaico-cristiane, merita di esse­re sottolineata l'originalita dell'impresa teologica e filosofica di Clemente, che fu di ricondurre l'intera tradizione culturale ad una visione dinamica della storia, che da Dio parte e a Dio ritorna. Tocchera al discepolo di Clemente, l'alessandrino Origene (185-254), sviluppare in modo grandioso questo disegno che unifica, in una medesima odissea, l'immobilita metafisica e il movimento del tempo e gia lascia intravedere la tendenza tipica dell'intelligenza occiden­tale a ricercare un'unita finalistica nella molteplice e caotica esperienza della storia.

Era nel giusto san Girolamo quando considerava Origene il primo grande maestro di fede dopo !'eta apostolica. Ma il suo peso e grande anche nella sto­ria del pensiero filosofico: e a lui che si deve, prima che ad Agostino, una sin­tesi sistematica tra pensiero greco e rivelazione cristiana. La sua opera Periar­chon (o De principiis, com'e intitolata nella traduzione latina di Ruffino, nella quale ci e rimasta dopo che l'originale fu distrutto dai suoi avversari) e un ve­ro e proprio trattato di filosofia in quattro libri, composto tra il 220 e il 230. Per lui, come per il suo maestro, anche il cristjanesimo e filosofia, una filoso­fia che completa quella greca, sulla quale Origene si era formato, insieme a Plotino, alia scuola del fonda tore del neoplatonismo, Ammonio Sacca (8.1 ). Quanto egli fosse consapevole delle difficolta che un filosofo greco doveva pro­vare dinanzi all'insegnamento di Cristo lo dimostra la sua opera polemica, di cui abbiamo fatto cenno (8.8)/- Contra Celso,_ scritta nel 248 J?er cnnfutare il pamphlet anticristiano scritto dal neoplatonico settant'anni prima. Il metodo di Origene e lo stesso di Clemente, perfezionato: il commento simbolico della Scrittura, la quale, se letta dagli spiriti grossolani non ha altro senso che quel­lo letterale, se letta con intelligenza morale appare come un'allegoria che na­sconde un insegnamento utile al perfezionamento etico, e finalmente, se letta secondo lo Spirito, rivela la sapienza nascosta nel mistero. Si trattava di un metodo che, svincolando la ragione da fedelta troppo anguste alia pagina scrit­ta, le restituiva liberta di movimento. In Origene questa liberta si espresse an­che in alcune ipotesi di ricerca (come la preesistenza e l'uguaglianza delle ani-

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me, la loro caduta dovuta ad una sazieta di contemplazione, la forma sferica dei carpi resuscitati, la salvezza finale di tutti gli spiriti) che, anche peril mo­do pedissequo con cui vennero adottate dai suoi discepoli, gli procurarono la condanna di alcuni concili e dell'imperatore Giustiniano: condanne che, tra l'altro, provocarono la distruzione di quasi tutte le sue opere. Manon e in que­ste sue ipotesi discutibili, o addirittura grottesche, che noi dobbiamo far con-· sistere il suo contributo al pensiero filosofico. E in alcune tesi, d'altronde fon­damentali nel suo sistema.

Innanzitutto quella sulla creazione, che segna lo stacco radicale tra una teologia di derivazione platonica o aristotelica ed una teologia fondata sulla Scrittura. Nell'insegnamento neoplatonico la materia e coeterna a Dio, dinanzi al quale sta come limite invalicabile: dinanzi a Dio, che e l'essere, la materia e il non-essere. Pen) - ed ecco la eorrezione cristiana - tutto e nato da un de~ creta di Dio, anche la materia, Ia quale dunque, totalmente dipendente dall'on­nipotenza divina, serve da veicolo agli spiriti, anch'essi creature di Dio.

Dio ha creato liberi gli esseri razionali, in modo che essi sviluppino libera­mente -Ia lora razionalita e si approprino, mediante la libera scelta, dei doni che in principia altro non sono che una manifestazione della divina liberalita. Questa del Iibera arbitrio e la seconda fondamentale novita che in Origene la filosofia deriva direttamente dalla Scrittura. II libero arbitrio consiste nella possibilita dell'uomo di decidere se volgersi verso Dio o verso il nulla.

Le nature razionali, dotate di libero arbitrio, nel mondo originario (da non identificare con questa in cui noi siamo) erano uguali, unite ad una sostanza corporea adatta alia loro eccellenza ontologica. Alcune di esse scelsero di al­lontanarsi da Dio e dettero origine, cosi, ai .nostro mondo, nel quale regnano la diversita, la disuguaglianza, il disordine, mali la cui ragion d'essere e di casti­gare gli spiriti, di metterli alia prova. Questa prova puo durare anche molti 'eoni' e cioe molte fasi spaziotemporali (come dire: una pluralita di mondi successivi).

La storia umana e dunque una grande impresa educativa in cui il vero Pe­dagogo e il Logos, figlio di Dio e consustanziale a Lui, che ha svolto Ia sua missione pedagogica attraverso i filosofi, rna soprattutto attraverso Mose, i profeti, e. finalmente, in Gesu Cristo nel quale ha preso carne. I veri discepoli del Logos sono i cristiani e tra questi gli spirituali (gli 'pneumatici', contrapposti agli 'psichici') che sono in grado di penetrare nei misteri rivelati dal Logos-Gesu.

Tutta la creazione anela a ritornare nella sua originaria condizione di unita e di armonia. Compiuta !'opera di purificazione - che potrebbe richiedere molti eoni -, le anime, e con lora anche gli spiriti maligni, Satana compreso, saranno fatte degne di resurrezione. Dio sara allora di nuovo tutto in tutti e sara raggiunta la 'restaurazione di tutte le case'.

Nella sintesi di Origene si trovano principi tra loro non conciliabili, deriva­ti da universi spirituali reciprocamente estranei, come il principia dell'identita tra il cominciamento e Ia fine della storia e il principia della liberta umana quale parte integrante del processo di creazione. Anche se none forse da acco­gliere la tesi di alcuni interpreti moderni che vedono nell'origenismo niente piu che una forma di neoplatonismo, nel quale l'esigenza filosofica avrebbe avuto Ia meglio su quella teologica, e difficile non riconoscere che il geniale sforzo di ridurre ad unita sistematica le verita rivelate dal Logos biblico e

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quelle conosciute attraverso il Logos razionale e rimasto impigliato in alcune 'contaminazioni' i cui riflessi si sarebbero fatti sentire nella grande disputa teologica delle chiese di oriente. Si prenda ad esempio Ia dottrina su Dio crea­tore. Secondo Origene non essendo possibile che Dio passi da una condizione di non-creatore ad una condizione di creatore (sarebbe, aristotelicamente par­lando, un passaggio dalla potenza all'atto), la sua attivita di creatore fa parte della sua essenza e quindi le creature sono coeterne a lui. D'altronde, essendo Egli per natura il supremo Signore, come avrebbe potuto esserlo se non aves­se avuto le creature su cui esercitare la sua signoria? Sfuggiva ad Origene que] che sara chiarito dalla teologia successiva: che il senso filosofico della ve­rita biblica sulla creazione e il rapporto di contingenza tra Dio e le creature: le creature ci sono rna avrebbero potuto non esserci, senza nessun detrimento per l'assolutezza di Dio. Egli non seppe liberarsi, a questo riguardo, dallo schema teologico di Platone e di Aristotele che pone tr~ Dio e il mondo un nes­so di necessita. Certo per la stessa ragione la sua dottrina trinitaria, peraltro ricchissima, e dominata dalla preoccupazione di affermare l'unicita di Dio. Per quanto anche il Figlio sia Dio come il Padre, pero mentre il Padre e autotheos, e cioe 'Dio sussistente in se stesso', il Figlio e si della stessa sostanza del Pa­dre (omoousios) e quindi Dio, rna non allo stesso titolo del Padre: egli e un deuteros theos, un 'secondo Dio'. E qui che si nascondono i germi dell'eresia ariana che, nata ad Alessandria, mettera a ferro e fuoco la chiesa del secolo successivo.

Ma quel che ne i suoi discepoli ne i suoi avversari seppero tenere nel debi­to conto fu !'indole propria del pensiero di Origem~·. che fu bene espressa da lui: <do non enuncio dei dogmi, io mi limito a cercare e a discutere». E questo il tratto che lo apparenta ai grandi filosofi della Grecia classica e lo allontana dal mondo teologico dei primi secoli, quasi mai immune, per ragioni d'altron­de comprensibili, da una certa vena di settarismo. Egli, ad esempio, obbligava i suoi alunni ad uno studio propedeutico in cui veniva messa alia prova, in ma­niera socratica, la !oro autonomia intellettuale e il loro spirito critico. Dopo di che, passavano allo studio della logica, della dialettica e delle scienze naturali. Ultimo grado di preparazione, lo studio dell'etica, inteso come riflessione ra­zionale e come forma di educazione dello spirito. Finalmente passavano alia teologia, che comprendeva due momenti: Ia critica razionale della teologia pa­gana e lo studio approfondito della Bibbia. E soprattutto per merito di Orige­ne che il cristianesimo varco per sempre i confini del settarismo dentro i quali avrebbe potuto ripiegarsi, sia in ragione del risentimento che le persecuzioni alimentavano, sia in ragione dell'assedio culturale in cui era stretto, come ab­biamo visto, dal pensiero pagano. Origene sollevo la sapienza biblica nelle re­gioni universali della metafisica e della cosmologia, facendo dei ritmi della storia della salvezza i ritmi della storia dell'universo, a! punto che ai suoi occhi l'uomo veramente cristiano veniva a coincidere con 'l'uomo veramente naturale'.

8.11 I tre cappadoci. None i1 caso di seguire qui le vicende dell'origenismo nel versante della teologia, sia in oriente che in occidente (ne diremo qualcosa tra poco nel render conto delle controversie che animarono la chiesa fino al VI secolo); ci bastera ricordare alcuni origeniani che piu profondamente mar­carono il futuro del cristianesimo.

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Basilio di Cesarea (330-379) compi i suoi studi di retorica prima a Costanti­nopoli e poi ad Atene. Tomato a Cesarea in Cappadocia, suo paese natale, vi ricevette il battesimo, all'eta di 26 anni e, interrotta la sua professione di mae­stro di retorica, distribui ai poveri Ja sua fortuna e si ritiro in soli tudine. Asse­diato da numerosi imitatori, dette vita a diversi monasteri che si modellarono secondo le sue regole, improntate al rigore evan!!elico e, insieme, a una fecon­da apertura sociale: alia lettura della Bibbia si accompagnavano il lavoro ma­nuale e l' organizzazione di svaria te opere di ass is tenza, dalle scuole agli ospe­dali. L'umanesimo monastico di Basilio ebbe grande irradiazione non solo in oriente rna anche, con Benedetto di Norcia, in occidente. Fatto vescovo della sua citta, egli continua la sua opera di moderatore dei monasteri e intrapren­de una battaglia teologica contro l'eresia ariana. Ma anche !a sua baitaglia e scevra di ogni settarismo, come dimostra il suo Trattato sullo Spirito Santo, cosi aperto aile esigenze degli avversari da meritargli il sospetto di essere se­miariano. Questo timbro di universalita gli proviene anche da Origene, delle cui opere aveva composto, insieme all'amico e compatriota Gregorio di Na­zianzo, una scelta antologica intitolata Filocalia. Con lo stesso spirito di com­prensione egli difese, nella sua Esortazione ai giovani sul modo di trar profitto dalle lettere elleniche, lo studio dei classici pagani come utile propedeutica al­lo studio della Scrittura, tracciando un programma di 'umanesimo cristiano' che sara ripreso pili volte nei secoli e specialmente durante il nostro Rinascimento.

Gregorio di Nazianzo (330-390 ca) ha respirato lo stesso clima di Basilio di cui fu amico dopo che lo conobbe come condiscepolo ad Atene, Ia 'citta d'oro', !a 'madre delle belle cose', come scrivera. I succhi umanistici dell'eredita elle­nica si mescolarono con i moti delicati della sua sensibilita mobilissima che fara di lui una specie di romantico sperduto nell'antichita. II suo ideale e Ia contemplazione solitaria, ma l'ammirazione di cui lo circondava Ia chiesa del tempo lo costringera a pili riprese ad assumersi responsabilita episcopali, in­terrotte da ripetute fughe nella solitudine.

«Niente mi sembrava pili invidiabile che l'intrattenimento dell'anima con se stessa e con Dio». Fu proprio per questo suo bisogno di vita eremitica che non ritenne di dover entrare in un monastero del suo amico Basilio. La sua non era una contemplazione di tipo devoto, anche se, come ci documentano i suoi scritti, Ia sua dialettica razionale e sempre attraversata da afflato lirico. Egli loda la filosofia, le riconosce il diri tto di discu tere di tu tto salvo di cio che di sua natura e fuori della sua portata. Pili che Origene e Basilio egli ha chiara Ia coscienza che Ia cognizione razionale e quella di fede sono !'una all'altra irriducibili. Di questa incommensurabilita tra i due ordini tratta in modo esplicito nei suoi Discorsi teologici, scritti in polemica contro coloro che pretendevano di rendere intelligibile, secondo le misure della ragione, il Miste­ro trinitario. La ragione puo farci sapere che Dio c'e, rna l'essenza di Dio e un tale 'pelago dell'essere' che nessuno slancio razionale e in grado di attraver­sarlo. Tocca alia fede insegnarci che Egli e Uno in tre persone, cosl come toc­ca aiia fede insegnarci che Gesli Cristo e una persona nella dualita delle natu­re, divina ed umana. La ragione si arresta aile soglie del mistero.

Gregorio di Nissa (330-395) completa Ia singolare triade dei Cappadoci (era fratello di Basilio) della quale rappresenta in modo eminente il lato filosofico.

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I suoi maestri sono da una parte Platone (specie quello del Com!ito), dall'altra Origene, di cui condivide la teoria della preesistenza delle anime. L'aspetto piu singolare della filosofia del Nisseno e quello antropologico nel quale, a giudi­zio della critica moderna, egli raggiunge una originalita non inferiore e non di­versa da quella di Agostino.

Creato a immagine di Dio l'uomo e, nel suo spirito, indefinibile ed inaffer­rabile, dato che i1 'luogo' della rassomiglianza e Ia liberta.

La liberta che si muove verso il bene si trova a camminare senza fine, per­che il bene e infinito; se si muove verso il male, prima o poi dovra tornare sui suoi passi, perche il male non e infinito. Ecco perche al termine della vicenda storica .tutto sara ricomposto nel bene. Tanto piu che l'uomo fatto a immagine di Dio non e l'uomo singolo, e l'uomo-genere, e l'umanita, universale concreto che e un 'solo uomo' in un numero determinato di individualita, cioe di iposta­si. C'e un'analogia tra l'unita dell'essenza umana e l'unita dell'essenza di Dio, tra la pluralita delle ipostasi umane e la pluralita delle ipostasi divine. Andata in frantumi l'unita del genere umano, e nel Cristo della resurrezione che essa si restaura. La singolarita dell'antropologia del Nisseno e nel suo modo di con­cepire la perfezione dell'uomo. L'antichita sia pagana che cristiana si rappre­sentava la perfezione sotto la forma della stabilita e del riposo. Per Gregorio la perfezione e invece crescita senza limite verso l'infinito che e Dio. <<La vista della sua faccia e il camminare verso di lui senza riposo». L'infinito divino non e mai per l'uomo un oggetto, e sempre un aldila. Cosi, per la prima volta, l'in­finita del movimento e del desiderio prende un significato positivo.

8.12 Le controversie teologiche. Nel suo insieme, il pensiero dei tre Padri della Cappadocia ben rappresenta, nella linea ortodossa, lo svolgimento della grande eredita di Origene: attraverso la !oro mediazione, essa diventera patri­monio comune della chiesa di oriente e della chiesa d'occidente. Ma questa esito unitario, destinato a restare ·un solido presupposto per il cristianesimo del futuro fino ai nostri giorni, non fu il pacifica sbocco di un dialogo intellet­tuale a molte voci. Esso fu l'approdo di una tormentata vicenda che andrebbe ricostruita mettendo in luce, nella loro specificita e nella loro correlazione, molte componenti di diversa natura: il travaglio teologico nelle sue intricate ramificazioni; il costituirsi, al di sopra delle chiese locali, di un ceto intellet­tuale tanto dedito alle dispute quanto, in molti casi, estraneo alle esig~nze pra­tiche e spirituali delle comunita di fede; l'ingerenza massiccia del potere impe­riale che, riconoscendo nel cristianesimo il suo nuovo cementa ideologico, get­ta sulla bilancia delle controversie dogmatiche il- peso della sua spada; e final­mente Ia fitta trama di interessi e di passioni che non sempre le sottili disser­tazioni teologiche riescono a nascondere. Non e questo il luogo per una rico­struzione del genere. A noi interessa rispondere, in qualche modo, all'interro­gativo che, da circa un secolo, e cioe da quand<? ha avuto inizio la crisi della civilta occidentale e di conseguenza del cristianesimo quale cultura di fondo di questa civilta, rimbalza con intenzioni diverse nel dibattito stoiiografico e teologico: quale senso ha avuto Ia conclusione delle controversie del IV seco­lo? Ha voluto dire una definitiva ellenizzazione ael cristianesimo? 0, al contra­rio, una trasformazione radicale della filosofia greca soggiogata, nei suoi punti

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nodali, dalla nuova fede religiosa? Prima di tentare una risposta e necessaria prendere in esame i temi essenziali delle questioni che furono affrontate e ri­solte da tre concili della chiesa: quello di Nicea del 325, quello di Costantino­poli del 381 e quello di Calcedonia del 431. Tra il primo e !'ultimo, un secolo di intenso e a volte drammatico dibattito.

Aile origini del dibattito c'e, ancora una volta, Origene. Come abbiamo vi­sto (8.10), riallacciandosi direttamente ad Ammonio Sacca, suo maestro, e indi­rettamente al Timeo di Platone, Origene aveva cercato di conciliare l'unita di Dio e la Trinita delle Persone ponendo fra queste un rapporto di identita so­stanziale (il Figlio e omoousios, consustanziale al Padre) rna solo il Padre e in­generato e, proprio per questo e, in senso pienissimo, Dio. II Figlio, e cioe il Logos, e consustanziale a lui nel senso che none una sua creatura, rna essendo generato e, per cosi dire, un Dio in seconda: deuteros theos. E facile scoprire in questa tesi un riflesso del neoplatonismo nel quale (lo si e detto parlando di Plotino, 8.2) l'irradiazione del Logos dall'Uno segna ·una degradazione della pienezza dell'essere. Questo clinamen neoplatonico all'interno della dottrina trinitaria divenne vera e propria divaricazione a causa di un prete di Alessan­dria, Ario (256-336), il cui insegnamento, che sta aile origini dell'arianesimo, potrebbe essere riassunto nei punti seguenti: nella Trinita ci sono tre sostanze eterogenee; solo il Padre e Dio a pieno titolo; il Figlio e la prima delle sue creature, immagine perfetta del Padre, rna, non essendo partecipe della sua eternita (egli e soltanto preesistente alla creazione) ne della sua immutabilita, non puo essere detto consustanziale. Il Logos e stato l'intermediario di Dio nella creazione (si pensi al Demiurgo platonico) e, incarnandosi in Gesu Cristo, ha preso il posto dell'anima nell'uomo Gesu che egli ha assunto. Quanto allo Spirito Santo anch'egli e una creatura ed e inferiore al Figlio.

Su questi temi la disputa divampo fino a turbare la tranquillita dell'Impe­ro, proprio negli anni in cui Costantino doveva mettere alia prova la validita della sua scelta politica. E fu appunto Costantino (cosa inconcepibile soltanto qualche anno prima) a convocare di autorita l'assemblea (Sinodo, Concilio) dei vescovi a Nicea (325) per definire una volta per sempre la dottrina trinitaria. Il concilio si chiuse con una professione di fede che Costantino rese esecutiva con minaccia di sanzioni contro i renitenti. La professione conteneva, in poche parole, la soluzione antiariana del problema trinitario: il Figlio viene ricono­sciuto come «generato, non creato, della stessa sostanza (omoousios) del Pa­dre». Avvenne allora qualcosa di straordinario in rapporto alia linea della tra­dizione: al centro del credo cristiano venne a trovarsi non una proposizione bi­blica rna un concetto (quello di sostanza, essenza) derivato dalla filosofia greca.

8.13 I dogmi. Ario fu scomunicato, rna il problema era tutt'altro che risol­to. Restava da chiarire come sia possibile salvare, insieme all'unita della so­stanza divina, la trinita delle persone. C'era chi sottolineava, come Atanasio di Alessandria, l'unita della sostanza (omoousia) fino a far svanire la trinita delle persone e c'era chi sottolineava la diversita delle persone fino a ridurre l'unita sostanziale ad una semplice rassomiglianza (in greco la somiglianza di sostan­za si dice 'omoiousia', da 'omoios', simile: la differenza di un solo iota (i) na­sconde, a ben pensare, un abisso metafisico). E in questa periodo che cade la

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vigorosa ed ampia riflessione dei tre Cappadoci, Basilio e i due Gregori (8.11). In particolare Basilio porta avanti una chiarificazione terminologica che si sa­rebbe rivelata risolutiva. Cor'nmentando una formula gia in uso negli ambienti orientali pili ortodossi (una sola ousia, sostanza, e tre hypostasis, persone) defini 1' ousia come cio che e comune agli · individui di una stessa specie, che essi posseggono tutti ugualmente, tanto che e possibile designarli con lo stesso vocabolo. Ma per esistere realmente l'ousfa deve essere completata da caratte­ri propri che la determinino: tale e appunto !'hypostasis che designa l'essere concreto individualizzato e differenziato. Egli riesce a persuadere gli occiden­tali che il termine prosopon (in Iatino persona), usato da Origene, potrebbe suggerire equivoci dato che in greco esso non designa la persona propriamen­te detta rna il 'personaggio' del-teatro, anzi Ia maschera che esprime il suo ruolo, e quindi non e adatto, come lo e invece il termine hypostasis, a definire le tre persone divine. II concilio di Costantinopoli, del 38-1, anch'esso convoca­te dall'imperatore (Teodosio il Grande) pose termine alla questione trinitaria adottando, appunto, la formul-a illustrata dai Cappadoci.

Chiusa una questione, se ne apriva necessariamente un'altra: quella della relazione tra il Logos, consustanziale al Padre, e il Gesu-uomo dei vangeli. An­che dopo Nicea e Costantinopoli sopravvivevano due tendenze: quella, di origi­ne alessandrina, secondo la quale, come si e detto, il Logos si era unito all'uo­mo Gesu sostituendo in lui !'anima, dimodoche l'umanita di Gesu diventava un puro e semplice strumento della divinita; l'altra, col suo centro in Antiochia, che sottolineava soprattutto la piena umanita di Gesu col rischio pero che la sua qualita di Logos restasse estranea alla sua consistenza di uomo. Ecco per­che Nestorio, portando al limite questa dualita tra il Logos e l'uomo Gesu, considerava Maria come Madre del Gesu uomo e non del Verba divino. L'una tendenza accusava l'altra di eresia: quella alessandrina, ad esempio, accusava Ia tendenza antiochena di 'monofisismo', e cioe di attribuire a Gesu Cristo una sola natura (physis), quella divina, vanificando con cio la sua umanita. A conci­liare le due tendenze ebbe molto peso la mediazione della chiesa latina che, per autorita del Papa Leone IV, riusci a far accettare, nel concilio di Calcedo­nia, del 431, la formula che avrebbe fissato per l'avvenire il fondamento comu-ne della fede di coloro che si dicono cristiani: ·

Noi insegniamo ad una sola voce un solo e medesimo Figlio, nostro Si­gnore Gesu Cristo, perfetto in divinita e insieme perfetto in umanita, vera­mente Dio e veramente uomo, fatto di un'anima razionale e di un corpo, consustanziale al Padre secondo Ia div~nita, corsustanziale a noi secondo l'umanita, simile a noi fuori che nel peccato, g~nerato dal Padre prima di tutti i secoli quanto alla sua divinita, rna negli ultimi giorni per noi e per Ia nostra salvezza (generato) da Maria Vergine, Madre di Dio quanto alia sua umanita.

Gesu Cristo e dunque una persona divina in due nature, la divina e l'umana. Era questo davvero un trionfo della fede? 0 una prevaricazione della filo­

sofia platonico-origeniana sulla rivelazione della Scrittura? Possiamo limitarci ad alcune osservazio.ni conclusive.

L'impressione che la via percorsa dal pensiero cristiano, a partire da Orige-

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ne, attraverso le tappe dei vari concili, fosse una deviazione dalla semplicita della rivelazione evangelica rimase molto viva nei secoli IV e V. Una opposizio­ne, .._ora sorda ora violenta a questa svolta filosofica della fede, ebbe i suoi fo­colai nelle comunita monacali dell'Egitto e della Palestina, Ia cui cultura si ri­duceva volutamente ad una lettura acritica e dogmatica (fondamentalista, si direbbe oggi) della Bibbia. Espressione prestigiosa di questa animosita antifi­losofica e quindi antiorigeniana fu Ia predicazione del monaco Epifanio, poi vescovo di Salamina: il bersaglio della sua Iotta comprendeva non solo gli scritti di Origene, <<il peggiore di tutti gli eretici», rna ogni forma di cultura greca ed ogni tentativo di lettura critica della Bibbia. Eravamo sui finire del IV secolo. AI fronte dei monaci antiorigeniani si uni, in quegli anni, con un voltafaccia che resta una delle pagine piu sconcertanti della vita del gia scon­certante dottore della Chiesa, san Girolamo (347-420), che pure era stato uno degli ammiraturi, anzi dei traduttori Iatini di Origene. Col suo prestigio egli riusci a dar credito aile pressioni dei monaci (in certi casi si tratto di pressio­ni fisiche vere e proprie) persuadendo il vescovo di Alessandria Teofilo e il Pa­pa Anastasio a pronunciare scomuniche contra Origene. A questo livello Ia bat­taglia antifilosofica si contamino di sicuro con passioni ed interessi niente af­fatto puri. II trapasso della riflessione di fede nelle sfere della speculazione fi­losofica era probabilmente una scelta necessaria per una chiesa gia avviata a diventare, nel suo ceto ecclesiastico, l'apparato ideologico dell'impero. Ma Ia grande massa dei cristiani e degli asceti rimase estranea alia controversia e ai­le sue conclusioni dogmatiche.

Se si esaminano senza prevenzioni queste conclusioni dogmatiche e facile avvertire come le formule razionali non presumano mai di rinchiudere in se il mistero che intendono esprimere. Mentre le tesi ereticali (tipica quella ariana) miravano a ridurre i contenuti della conoscenza di fede dentro categoric filo­sofiche aprioristiche, come quella dell'unita dell'Essere, le formule teologiche dell' ortodossia rimangono ancorate ad antinomie il cui sensa e di definire in modo negativo il mistero, di delimitarne cioe i confini fuori dei quali esso si svuota e perde di sensa. E quanta Origene voleva, anche se di fatto alcune sue tesi esemplificano un cedimento della visione di fede alia logica neoplatonica. L'eresia consiste nell'introduzione di un principia filosofico all'interno dell'af­fermazione di fede con la pretesa di risolverla in esso; Ia definizione dogmatica invece e un'armatura razionale che la fede si da per tutelare se stessa dalla de­gradazione ereticale. Che poi, nel corso dei secoli, l'armatura razionale della fede sia stata scambiata per il suo contenuto e di conseguenza sia stata irrigi­dita nella presunzione della immutabilita, questo e vero. Difatti anche quaPdo i concetti filosofici greci, di cui l'antica armatura e costruita, persero di validi­ta nella circolazione culturale, Ia fede ha continuato a difendere se stessa di­fendendo l'armatura che si era data in altri tempi. Un dramma questo di cui dovremo occuparci a piu riprese.

Non va confusa Ia storia della teologia con quella della filosofia. E tuttavia nel suo sforzo di darsi una comprensione filosofica la fede ha prodotto, nei primi secoli di cui abbiamo parlato, una modificazione sostanziale anche nel pensiero filosofico. Certi concetti di cui Ia filosofia in seguito ha fatto uso, co­me quello di natura, di persona, di libero arbitrio, hanna avuto Ia !oro matrice

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in un lungo dibattito Ia cui posta in gioco era non'la verita filosofica rna quel­la religiosa.

Agostino

8.14 Fra due epoche. Que! che Origene era stato per il cristianesimo d'oriente Agostino di Tagaste fu peril cristianesimo d'occidente; e soprattutto loro merito se Ia predicazione del vangelo varco le soglie della cittadella filo­sofic;a (che Paolo di Tarso non era riuscito a varcare) appropriandosi dei raffi­nati strumenti della dialettica e della metafisica greca e abilitandosi, in tal modo, a provvedere di una nuova cultura le classi dirigenti, in oriente prima e poi, a distanza di tempo, in occidente. L'accostamento non deve pero trarre in inganno. Origene apparteneva a pieno diritto alia grande genealogia dei pensa­tori platonici; egli ripenso la rivelazione biblica rimanendo, in qualche modo, interno alia corrente spirituale derivata dal fonda tore dell' Accademia. Agosti­no, apparso pili di un secolo dopo, ebbe un compito storico pili arduo perche gli tocco di vivere sui crinale che separava due epoche, quella dell'antichita grecoromana e quella, incalzante, dell'eta romano-germanica. Il suo pensiero p1;10 essere considerato tanto un epilogo grandioso del mondo antico quanto l'avvio della nuova eta che, in rapporto ai tempi moderni, sara detta eta me­dia, medioevo. Il fatto straordinario e che egli assolse questo compito pur es­sendo, in rapporto alia grande area culturale che aveva per epicentri Atene ed Alessandria, come uno 'sradicato', senza ascendenze di prestigio, senza una scuola che gli consegnasse in modo organico l'eredita del passato. Gli mancava perfino una vera e propria conoscenza della lingua greca (lesse le Enneadi in Iatino) cosi come gli manco un cursus filosofico ordinato e completo. Le sue esplorazioni del pensiero antico furono sempre sollecitate da ricerche esisten­ziali, e dunque occasionali e saltuarie. Prima di lui erano stati i grandi filosofi neoplatonici a tentare dell'antica sapienza greca una sintesi nuova e fu soprat­tutto con questa antichita di seconda mano che egli si confronto. Origene sta a Platone come Agostino sta a Plotino. Agli occhi di Clemente e di Origene Plato­ne aveva Ia maesta di chi sta aile origini delle grandi creazioni dello spirito, come Mose; Plotino invece aveva costruito la sua grande sintesi quando gia il mondo pagano era in declino: il suo fu lo sforzo disperato di offrire un'anima ad un colosso politico che non ne aveva' pili. La sua luminosa gerarchia dell'es­sere, librato al di sopra della materia, sembrava nata per sostituire, a consola­zione dei filosofi, Ia gerarchia imperiale, ormai incapace di assolvere Ia sua funzione. Inutilmente egli aveva cercato di fondare in Campania una citta pia­tonica (8.1), l'unica citta su sua misura poteva ormai essere costruita soltanto con Ia sostanza spirituale delle irradiazioni dell'Uno, fuori della storia. Il cor­so delle cose andava verso altri sbocchi. Il suo disprezzo per la religione del vangelo velava Ia sua impotenza a risolvere quei problemi che invece i cristia­ni a )oro modo risolvevano.

Le loro comunita riuscivano a rimettere in vita, trasfigurandolo, !'ethos di-

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namico e cordiale della polis greca, con questo in piu. che sfuggiva all'aristo­cratico Plotino: mescolando a! proprio interno le classi diverse, esse risponde­vano al bisogno egalitario ormai prorompente in ogni angolo dell'impero. Que­sto loro successo le avvicinava, generazione dopo generazione, aile sfere del potere, attenuava la loro estraneita profetica al mondo e le investiva di una re­sponsabilita nuova e inattesa: quella di fornire all'impero l'anima di cui aveva bisogno, un'ideologia religiosa in cui la norma evangelica si saldasse con la concezione provvidenzialistica dell'impero gia elaborata da Panezio e da Cice­rone (7.5-6). Fu soprattutto alia corte di Costantino che questa operazione ven­ne portata a compimento da uomini come il retore Lattanzio (secc. III-IV), pre­cettore del figlio dell'imperatore, o come lo storico Eusebio di Cesarea (347-420) che trasformo il ruolo dell'impero e quello personale di Costantino in un capitola della storia della salvezza. II trapasso dalla pax romana alia pax chri­stiana avvenne quando ormai il pensiero pagano aveva esaurito tutte le sue ri­sorse. E non si tra tto solo di un' operazione di vertice: nel complesso organi­smo della societa imperiale la nuova fede arrivava al giusto momento per riempire nelle coscienze il vuoto delle antiche certezze e per guidare cosi la transizione da un'epoca ad un'altra senza che si aprisse, nel tessuto vivo della' memoria collettiva, una frattura che avrebbe avuto il senso di una catastrofe morale e di una irreparabile dispersione dell'intero patrimonio dell'antichita.

None per caso che, a differenza di Plotino, vissuto in un ristretto cenacolo di filosofi, Agostino ha costruito la sintesi vitale della cultura antica in seno ad una comunita di gente comune, a quotidiano contatto con quei problemi della vita che impongono alia speculazione misure cosi elementari rna cosi se­·vere che essa per lo piu ama prescinderne. La comunita di Ippona fu illabora­torio dove venne operata la fusione tra pensiero e vita, tra il messaggio filoso­fico del mondo antico e il messaggio morale del vangelo. In occidente l'impero stava morendo. Agostino chiuse la sua vita ad Ippona proprio mentre la citta era assediata dai Vandali di Genserico che devasteranno in modo irreparabile !'Africa proconsolare, da due o tre secoli la provincia piu florida dell'Impero. Quando, dopo diciotto rriesi di assedio, i Vandali entrarono nella citta incen­diandola e saccheggiandola, essi rispettarono la tomba e la biblioteca di Ago­stino, dove lui stesso aveva riordinato le sue opere, affidandole aile cure del discepolo Possidio. II quale si domandava, tanto esse erano numerose, « se mai sarebbe possibile ad un solo uomo leggere tutto e conoscere tutto». In quella bi­blioteca c'era in embrione, si puo dire senza retorica, !'anima dell'Europa futura.

8.15. L'itinerario di Agostino. Piu ancora che di Platone si deve dire di Ago­stino che il suo pensiero si svolge in risposta diretta aile sue necessita vitali. Anche le sue speculazioni piu ardite sono intrise della sua passione per la veri­ta o meglio per la felicita, dato che, fedele anche in questo alia eredita platoni­ca, il possesso della verita e la felicita sono stati sempre per lui una sola cosa.

Nato a Tagaste in Numidia (oggi Souk-Aras, in Algeria) nel 354 da padre pa­gano e madre cristiana, fu catecumeno della chiesa cattolica rna la madre, Mo­nica, ne voile differire il battesimo, com'era nel costume del tempo. Studio grammatica nella citta natale, le arti liberali a Madaura e infine, nel 370, rete­rica a Cartagine. Fu a Cartagine che il sedicenne Agostino si abbandono a tut-

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te le attrazioni della 'dole~ vita' di cui era ricca Ia seconda citta dell'impero. Mentre si trovava in preda alia dissolutezza gli cadde sotto mana l'Hortensius di Cicerone. «Questo libro, cosi egli racconta nelle Confessioni, mi tocco in tal modo che muto i miei affe"tti ... Cominciai a disprezzare tutte le vane speranze della ter­ra e a bruciare del desiderio incredibile di conquistare la sapienza immortale».

Riaffioro in lui, insieme alia passione filosofica, il desiderio di Dio ed egli prese in mana Ia Scrittura. Ma il raffinato retore rimase disgustato dalla sem­plici ta e dalra rozzezza dei libri sacri. Piu tardi, divenuto cristiano, impu tera questa cecita del cuore al suo stato di schiavitu sensuale. Amava i1 bene rna non sapeva staccarsi dal male. A giustificare questa sua contraddizione gli sembro opportuna la dottrina del manicheismo, giunta a Cartagine dal medio­riente dove un certo Mani (216-277 d.C.) aveva fuso insieme il dualismo dell'an­tica tradizione mesopotamica e l'insegnamento evangelico. II bene e il male non sono imputabili all'uomo rna a due supremi principi- Luce e Tenebre­in Iotta perenne tra lora, che hanna come lora teatro la coscienza dell'uomo. II quale, dunque, non e veramente responsabile delle proprie scelte. Per dodici anni Agostino resto fermo neiie convinzioni manichee, fino a che, ventinoven­ne, non lascio Cartagine per recarsi ad insegnare retorica a Roma. E, poco do­pa, nel 384, aiutato da amici ben piaizati, a Milano.

Milano era allora la capitale dell'impero d'occidente. La personalita che in quegli anni dominava la capitale era quella del vescovo Ambrogio (339-397). Agostino ne resto soggiogato. Ascontando le sue omelie, in cui il rigore morale evangelico si congiungeva alia humanitas di Cicerone e all'impeto contemplati­vo dei neoplatonici (in teologia Ambrogio appartiene alia grande famiglia degli origeniani), Agostino prese coscienza della rozzezza e della inconsistenza delle tesi manichee. II passaggio dal manicheismo al neoplatonismo fu per lui come un passo decisivo verso la scoperta della propria identita e (rna le due scoper­te sono state sempre per lui correlative) dell'identita di Dio. II clima intellet­tuale di Milano era allora determinato da una cerchia di pensatori neoplatoni­ci alcuni dei quali, come Manlio Teodoro, non cristiani, altri come lo stesso Ambrogio e come il suo direttore spirituale Simpliciano, testimoni di prima piano della fede cristiana. Fu proprio il vecchio prete Simpliciano che suscito nella coscienza di Agostino l'urgenza dell'ultimo passo quando gli racconto co­me il retore romano Mario Vittorino, il traduttore Iatino dei libri platonici, si fosse assoggettato con umilta alia Iegge di Cristo.

Era stata la lettura delle Enneadi di Platina che aveva gia condotto Agostino ad una certezza religiosa saldamente fondata sulla ragione, molto piu valida che quella religione 'da ·donnicciole' quale ai suoi occhi continuava ad essere il cattolicesimo. La dottrina del Logos rispondeva in un sol tempo alla sete filo­sofica della conoscenza delle cause prime e al bisogno estetico di darsi ragione della bellezza diffusa nell'universo. Gesu restava per lui un maestro troppo umile nei confronti della splendido magistero degli ultimi eredi del platoni­smo. Un giorno un suo compatriota, Ponticiano, gli racconto in che modo, la­sciati tutti i beni a imitazione dell'eremita Antonio, si era ritirato nel deserto insieme a tre amici per raggiungere, nella solitudine e nel dominio di se, la perfetta comunione con Dio. Tutto era pronto, nell'animo di Agostino, per la scelta finale. Poco dopa, ritiratosi nel suo giardino insieme all'amico Alipio,

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.. ode una voce che lo esorta a prendere in mano il libro delle Lettere di Paolo. Lo apre e vi trova le parole adatte a lui. La Iotta interiore, dopo alcuni sussulti violenti, si conclude con la sua resa totale.

Si ritira con gli amici a Cassiciaco, un luogo appartato della Brianza, e vi trascorre alcuni mesi in un intensa riflessione filosofica di cui sono documen­to i Dialoghi. Rientra a Milano, dove il 24 aprile del 387 viene battezzato da Ambrogio, e poi se ne torna in Africa, nella sua citta natale, dove, venduti i suoi beni, intraprende con alcuni amici una vita monastica a cui restera fedele anche durante le sue successive responsabilita ministeriali. Ordinato prete nel 391 diviene vescovo di Ippona nel 396 e tale resta fino alia sua morte, il 28 ago~to 430.

8.16 Fede e ragione. E bene dir subito che Agostino non si propose mai di costruire un suo sistema filosofico. Di piu: se si eccettua la pausa di Cassicia­co, alia vigilia del suo battesimo, egli si dedico al discorso filosofico solo in quanta esso e inseparabile dalla ricerca teologica. E a sua volta la ricerca teo­logica non fu per Agostino, come invece era stata per Origene, un impegno a se stante. Come prima della conversione si era sempre mosso sulla spinta di un bisogno di pacificazione interiore, cosl, diventato vescovo, quasi per una mi­racolosa dilatazione dell'io venuto a coincidere con le misure universali del popolo di Dio, egli prende la penna solo per provvedere alia pace interna della chiesa. II suo e insomma un pensiero militante. Le sue opere non nascono da una necessita speculativa rna da una necessita pastorale. I risultati superarono di gran lunga gli obiettivi immediati del suo lavoro: fu lui a fornire il quadro di certezze in cui i popoli eredi della romanitas e quelli germanici avrebbero trovato la loro unita di coscienza.

Agostino si riconosceva, per suo conto, un figlio di Platone.

Nessuna dottrina, egli scrive nel cap. VIII della Citlti di Dio, e piu della sua vicina alia nostra. C'e proprio da credere che nel suo viaggio in Egitto Platone abbia avuto conoscenza se non proprio della Sacra Scrittura alme­no dei suoi contenuti e in particolare dei Profeti. Per quanta i suoi discepoli abbiano ignorato Ia Creazione e, come Porfirio, disconosciuta l'incarnazio­ne, dei platonici autentici si puo dire 'Essi Ia pensano come noi!'.

II Platone di Agostino e quello che definisce la filosofia come amore del sa­pere e fa dell'amore l'attivita suprema dello spirito. E Platone che ha rivelato che Dio e al principia e al di sopra di tutto e che la Sapienza dell'uomo e solo una imitazione di Lui, anzi, e partecipa;ione alia sua luce. Di qui l'impulso na­turale che guida l'uomo a Dio come alia propria beatitudine: cercare la felicita e cercare Dio sono la stessa cosa.

Un quadro antropologico siffatto era perfettamente idoneo a fornire ad Agostino una interpretazione filosofica della propria inquieta vicenda di cerca­tore di felicita e soprattutto il punto d'innesto tra sapienza filosofica e sapien­za rivelata. In questa le due sapienze concordano: nel riconoscere che «il vero filosofo e amatore di Dio». II di piu della sapienza cristiana nasce dalla mani­festazione che Dio ha dato di se stesso in Gesu Cristo. I platonici erano arriva-

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ti a dire che il Logos e Dio, rna solo i cristiani sanno che il Logos si e fatto car­ne ed ha abitato fra di noL La verita piena, dunque, si e conosciuta solo con Gesu Cristo. I platonici avevano condotto la ragione fino al limite estremo del- · le sue possibilita, rna la verita e oltre quel limite, e puo essere conosciuta solo per gratuita concessione (grazia) di Dio. Dal punto di vista antropologico la co­noscenza della verita e una conquista e, insieme, un dono. Questo tema agosti­niano influenzera profondamente il pensiero medievale. Fu lo stesso Agostino a coniare Ia formula che avra tanta fortuna: intellige ut credas, crede ut intelli­gas: comprendi per credere, credi per comprendere (Epist. 120, 1, 3).

Per capire il senso dell'assioma agostiniano occorre collocarlo sullo sfondo platonico del suo pensiero. Tra il Logos e l'Eros, tra l'intelletto e l'amore, c'e, secondo Platone, un rapporto di reciprocita nel quale tuttavia tocca all'eros Ia prerogativa dell'arche, del cominciamento da cui tutto dipende. Una volta che - aggiunge Agostino- l'eros e sboccato, per opera della grazia, nella vera co­noscenza di Dio e cioe e diventato fede, si apre nell'uomo una nuova dialettica, ignota a Platone, quella tra ragione e fede. Agostino non ha nulla a che fare con certe tendenze che, nei secoli successivi, si rifaranno a lui per costruire i trionfi della fede sui vilipendio della ragione. La sua paternita nei confronti del futuro fideismo antirazionale si limita al fatto che il suo pensiero non pre­vede uno statuto di autonomia della ragione: per averlo, bisognera attendere l'aristotelico Tommaso d' Aquino (1 1.4). Tra ragione e fede c'e, secondo Agosti­no, una reciprocita che non puo essere espressa astrattamente senza che ci si tro­vi chiusi in apparenti aporie. Cio che nell'astratto non si concilia trova armonia nei moti concreti dell'esistenza. II nesso agostiniano fede-ragione puo essere chia­rito mediante una spiegazione analitica dei due membri della formula gia citata.

Crede ut intelligas: credi per comprendere. Se, come vuole Platone, la ragio­ne si muove sulla spinta dell'amore di Dio, che e verita, allora essa realizza Ia propria intima intenzionalita nel momento in cui si oltrepassa nella fede. Non che prima dell'atto di fede Ia ragione sia del tutto sprovvista del presentimen­to della verita. Come Agostino nel suo itinerario era stato sollecitato e illumi­nato, sia pure con vaghi riflessi, dalla Verita raggiunta solo nel momento della conversione, cosi di sua natura l'uomo che asseconda la ragione in qualche modo gia usufruisce della luce del Verbo. Viene a mente quanto dira nel 1600 Biagio Pascal: «Tu non mi cercheresti (e Gesu che parla) se non mi avessi gia trovato».

lntellige ut credas: comprendi per credere. Una volta compiuto l'atto di fe­de, nasce nell'uomo una nuova necessita, quella di comprendere Ia verita pos­seduta per un dono gratuito. Tra la ragione giunta al suo limite e Ia verita c'e come un fossato che non si supera se non per iniziativa di Dio. Ma, superato il fossato, l'uomo rion e meno uomo di prima, anzi lo e completamente, dato che egli e stato creato proprio per quel possesso di cui la fede lo fa ricco. E natu­rale che Ia ragione, lungi dal sentirsi mortificata, si muova a proprio agio nell'universo delle verita rivelate, cercandone il piu possibile la comprensione. lnlellectum valde ama: ama molto Ia ragione, diceva Agostino.

8.17 La veritit. In pochi momenti del pensiero agostiniano e facile scorgere la compenetrazione tra luce intellettuale e luce della fede come nella sua dot­trina sulla verita. Gia da quanto si e detto appare chiaro che il 'luogo' in cui e

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possibile l'accesso alia verWt none il mondo esterno, e il mondo interiore (No­li foras exire, in te ipsum redi: non uscire da te, rientra in te stesso; in interio­re homine habitat veritas: Ia verita abita nell'intimo dell'uomo). Agostino e il prima grande filosofo dell'interiori ta. L' eredi ta greca gli offriva una visione del mondo in cui l'uomo restava interno alia trama degli esseri, diverso certa­mente, per Ia prerogativa della razionalita, rna saldamente inserito nella cate­na della natura che lo integrava aile dinamiche del cosmo. Con una svolta che avra i suoi frutti nel futuro, Agostino risolve il cosmo nel crogiuolo dell'inte­riorita. In lui, anzi, l'interiorita e il vera punta di appoggio per raggiungere la trascendenza, rna per raggiungerla, tanto per usare il gergo alpinistico, lungo un'altra 'via'; quella, appunto, dell'interiorita.

,;Dio e !'anima, questa voglio conoscere. E null'altro? Assolutamente nulla», cos! leggiamo in apertura dei Soliloqui. Rientrando in se, l'uomo e su­bito illuminato da una conoscenza: egli sa di essere. Ecco l'incrollabile punta di appoggio della dialettica interiore. Perche se anche, come vogliono gli scet­tici, l'uomo di tutto dubitasse, di una cosa almena non potrebbe dubitare, di sapere che dubita. Se sono certo di dubitare allora e vera che dubito. Non so­lo: per dubitare devo essere: Si fallor sum, se mi inganno, sono; questa formu­la avra una grande risonanza nell'eta moderna (II. 5. 3). Ma in Agostino !'argo­menta serve solo per dare fondamento alia sua tesi: noi abbiamo in noi stessi !'idea di Verita, i cui connotati sono l'immutabilita, l'eternita, l'indipendenza da noi. E cosi, rientrato in se stess6, l'uomo supera se stesso con l'approdo ad una Verita indipendente da lui, trascendente, eterna, focolare di ogni altra ve­rita (in te ipsum redi ... et si mutabilem substantiam tuam inveneris, trascende te ipsum et Deum invenies: rientra in te stesso ... e se troverai che Ia tua natura e mutevole, trascendi te stesso e troverai Dio»).

Tutto cia che e fuori di Dio sussiste non come atto secondo, nel modo cioe illustrato dai neoplatonici, rna come effetto contingente, tratto dal nulla insie­me a! tempo, che e anch'esso, insieme al mondo, effetto della pura liberalita di Dio, il quale e quel che e indipendentemente dal mondo.

In Dio essere e conoscere sono Ia stessa cosa: egli e in quanta conosce e co­nosce in quanta e. L'intuizione che Dio ha della propria essenza implica Ia vi­sione di tutte le essenze limitate, che altro non sono se non i diversi modi con cui Ia sua essenza e imitabile o partecipabile dalle creature. E dunque in lui che noi conosciamo tutte le cose, volgendoci dal di fuori al di dentro e dal di­dentro al supra: ab exterioribus ad interiora, ab interioribus ad superiora.

In quanta conoscenza di se, Dio e i1 Verba (il platonico 'mondo degli intelli­gibili' diventa, in Agostino, Ia seconda persona .::lelia Trinita) che dunque e il principia dell'intelligenza di cia che e in se intelligibile. Quando noi attribuia­mo ad una affermazione il carattere della verita, io facciamo perche il Ver­ba, nell'intimo di noi stessi, ce lo attesta mediante una illuminazione. II princi­pia formale di ogni verita, dunque, e di per se religioso, non appartiene all'uo­mo in quanta creatura rna gli deriva dal Verba, maestro interiore di ogni ani­ma razionale. Ad una condizione. Come sui piano fisico l'atto del vedere com­porta non solo l'oggetto sensibile, non solo la luce che lo illumina, rna anche un occhio sano, capace di vedere, cosi sui piano intellettuale e necessaria che Ia ragione sia Iibera dalle schiavitu sensibili, intimamente animata dall'amore

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per il bene, dalla buona volontil. Insomma, contro tutti gli intellettualisti, Ago­stino considera Ia conoscenza del vero come effetto, oltre che di una 'ragione' superiore, quella del Verbo, anche di un orientamento religioso della volonta. La dinamica interna dell'uomo non fa che riprodurre, nei limiti creaturali, il moto ineffabile interno al Dio uno in tre Persone: !'anima e come il Padre: essa genera Ia comprensione intellettuale di se stessa, che e come il Figlio; l'amore che stringe l'anima all'intelligenza di se stessa e come lo Spirito Santo. L'ani­ma e il Pensiero (Padre) che si conosce (Figlio). e che si ama (Spirito Santo).

8.18 II male e Ia Iiberti!. L'intreccio tra motivi neoplatonici e motivi diret­tamente derivati dalla verita rivelata di tanto in tanto si districa, lasciando emergere Ia poderosa originalita di un pensiero che sa trarre tutte le conse­guenze dalla novita della fede. II Dio di Agostino non e pii:t il Dio platonico, Egli e, si, interior intima nostro, pii:t intimo a noi di noi stessi, rna e anche su­perior summa nostro, al di sopra di cio che in noi e pii:t in alto. II mondo none una sua emanazione e, come si e detto, una sua creazione: prodotto dal nulla, esso rimane, per cosi dire, imparentato col nulla, nel senso che ogni creatura, sebbene perfetta nel proprio ordine, e anche limitata in quanto none Ia totali­ta delle creature e tanto meno il Creatore. II male, dunque, altro non e che il non-essere che fa da limite all'essere e come tale non ha bisogno di una causa efficiente. E cosi Agostino si Iibera sia dall'errore dei manichei (di cui, ricor­diamolo, era stato un seguace prima della sua conversione neoplatonica), i quali riconducevano il male ad una causa prima, contrapposta alia causa pri­ma del bene, sia dall'errore dei neoplatonici, che identificavano il male col non essere dello spirito e cioe con la materia. Le cose, anche quelle materiali, sono buone; amandole, l'uomo puo ascendere di grado in grado verso il Bene in se, che e Dio.

Dunque il male ontologico (che in quanto riguarda le creature sensibili pos­siamo chiamare male fisico, la malattia, Ia corruzione del corpo ecc ... ) non fa problema. Arduo problema invece e quello dell'origine del male morale e cioe del disordine che ha nell'uomo l'artefice e Ia vittima. Agostino tenta di illumi­narlo congiungendo l'analisi della ragione e le verita fondamentali della fede.

Dal punto di vista della ragione il male morale e anch'esso senza vera cau­sa efficiente. L'uomo infatti, per sua natura, tende a! bene ne altro puo volere se non il bene. Ma gli oggetti buoni che si propongono alia sua scelta sono di­sposti gerarchicamente: ci sono beni inferiori e beni superiori e c'e il Bene sommo. II male e nello scegliere i beni inferiori come se fossero superiori: !'er­rore soggettivo, e doe lo scambio tra cio che e inferiore e cio che e superiore, riflette una 'deficienza' (Ia causa del male morale non e efficiens, e deficiens) della volonta, intimamente condizionata dalla concupiscenza e quindi resa de­bole, 'deficiente', in rapporto a cio che, se fedele a! suo profondo impulso, vor­rebbe veramente volere.

Agostino connette qui all'analisi razionale la nozione cristiana di peccato: il male o e il peccato o e Ia pena derivata dal peccato: sive culpa, sive poena. Nella condizione storica in cui si trova, radicalmente segnata dal peccato ori­ginale, l'uomo non puo sperimentare Ia liberta totale, che sarebbe nel non pa­ter peccare, e cioe nella spontanea coincidenza tra il desiderio del bene e Ia

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scelta. E solo per la grazia venuta dal Cristo che l'uomo rectipera il 'libero ar­bitrio', che consiste nel pater non peccare, mentre per coloro che vivono senza la grazia Ia condizione irreparabile e quella del non pater non peccare. Questa tesi pessimjstica sara alla base della polemica di Agostino contro i seguaci del monaco Pelagia (350-427), i quali, svalutando Ia necessita della redenzione, so­stenevano che l'uomo e in grado con la sua volonta morale di guadagnarsi la salvezza. In pochi momenti come in questo relativo alla dottrina del male Ago­stino ha risentito delle oscillazioni imposte dal movente polemico: da una par­te, contro i manichei, egli ha sostenuto la bonta della creazione e il carattere 'inesistente' del male; dall'altra, contra i pelagiani (in una polemica durata cir­ca venti anni), egli ha difeso Ia necessita della croce di Cristo per Ia salvezza, fino a considerare l'umanita intera, prima e fuori degli eftetti della croce, co­me massa damnationis, massa di dannazione.

Merita sottolineare nel pensiero agostiniano queste simmetrie che ne svela­no la profonda unita: sui piano della conoscenza non si da accesso alla verita se Ia ragione non e illuminata dal Verbo; sui piano della morale non ·Si da ac­cesso al bene senza l'azione risanatrice della grazia, che mette la volonta in condizione di scegliere il bene. E facile scoprire come nella visione agostinia­na Ia ragione e Ia volonta non hanno nessuna vera e propria autonomia: per essere se stesse occorre loro il gratuito apporto della fede. Ma le simmetrie non finiscono qui.

8.19 La citta di Dio. Come per essere veramente se stessa la ragione ha bi­sogno dellume della fede e come per realizzare i suoi propri fini la volonta ha bisogno dell'ausilio della grazia, cosi il genere umano nel suo insieme per co­struire Ia citta a cui aspira ha bisogno che sia Dio a edificarla insieme all'uo­mo. Fu proprio questo ii tema che occupo Agostino, per 12 anni, dal 415 al 427, quando ormai si addensavano le ombre del tramonto non solo sulla sua vita rna sulla vita stessa dell'Impero Romano. La Citta di Dio e un'opera pode­rosa, la cui potenza suggestiva e dovuta anche al fatto che i movimenti della speculazione teologica vi si intrecciano scopertamente ai sussulti di una co­scienza ormai invasa dal presentimento della fine di una civilta che si voleva immortale e, piu radicalmente, alla argomentata convinzione che i regni di questa mondo nascono crescono e crollano secondo i ritmi di una volonta di potenza titanica e vana. Che l'uomo fosse in un sol tempo cittadino di due cit­ta, quella del corpo e quella dello spirito, lo avevano detto i filosofi pagani, ul­timi Seneca e Marc'Aurelio, rna in Ioro un simile dualismo non diventava mai una dialettica della storia in quanto tale: era come un'immobile linea che di­scrimina il mondo del mutamento e il mondo eterno delle idee. Medellatasi sulla sapienza biblica, l'intelligenza di Agostino vede ii moto delle cose e degli uomini all'interno di un disegno che lo sovrasta, organizzando in risultati uni­versali le intenzioni particolari degli individui e dei regni. II disegno e quello di. una Citta definitiva, che ha per sua Iegge fondamentale « l'amore di Dio fino al disprezzo di se». Ma questo disegno e sopraffatto, nella storia concreta degli uomini, che e storia di peccato, da un 'controdisegno', per cosi dire, che pone alla propria base <d'amore di se fino al disprezzo di Dio». Osservata al di fuori di ogni trasparenza di fede, Ia storia e, appunto, una successione di costruzio-

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ni politiche- a partire da Caino, omicida e fondatore di citta- guidate dalla libido dominandi, dalla volonta di potenza, che le travolge e le atterra proprio quando ritengono di aver toccato il vertice delle proprie aspirazioni. Come sta­va avvenendo, appunto, per l'lmpero Romano. Non diversamente dalle sue opere piu importanti, anche questa Agostino la progetto per far fronte all'on­data di inquietudine che lo assediava dopo che, nel 410, Alarica, con. Ia sua tri­bu dei Visigoti, aveva espugnato Roma. Si era trattato di un raid fulmineo che aveva lasciato dietro di se rovine e lutti. Roma, pero, era ancora in piedi. Mail fatto che la Citta dominatrice del mondo fosse stata colpita al cuore da un roz­zo barbaro aveva spezzato, in un attimo, un mito che in qualche modo era sta­to fatto proprio dalla coscienza dei cristiani. I quali si trovarono a dover fron­teggiare la grave accusa dei cittadini pagani: Ia nuova religione aveva sdegnato gli dei protettori dell'impero!

Agostino venne in soccorso all'imbarazzo dei suoi fratelli di fede dimo­strando la natura effimera di tutte le costruzioni terrene, si tratti dell'impero degli Assiri o di quello dei Romani, e la natura immortale di un'altra costru­zione, di cui solo i credenti possedevano l'immagine ideale e gli strumenti: la citta di Dio. La struttura dell'opera risente di queste finalita pratiche (La Citta di Dio e l'ultima opera apologetica del cristianesimo antico): i primi dieci libri s~mo dedicati alla confutazione della mitologia politica pagana, gli altri dodici alia illustrazione di quella Iotta permanente tra le due Citta, nella quale prende senso il declino del potere romano.

La contrapposizione delle due Citta non si traduce, in Agostino, nella con­trapposizione tra l'impero e la chiesa, quasi che il primo fosse Ia citta di Sata­na e la chiesa la citta di Dio. L'antagonismo tra le due societa, quella dell'amo­re e quella dell'egoismo, si inscrive piu in profondita, fino ad identificarsi con l'antagonismo morale tra il male ed il bene, tra il peccato e la grazia, che e un antagonismo vivo in ogni coscienza. Solo alla fine dei tempi la zizzania sara se­parata dal huon grano; dentro il tempo non basta essere nella chiesa per esse­re anche nella citta di Dio, cosi come non basta essere stati fuori della chiesa per essere esclusi anche dalla citta di Dio.

Per quanto certe pagine facciano pensare il contrario, resta vigoroso, il) Agostino, l'ideale politico della cultura antica, da Platone a Cicerone. L'ideale politico dell' ordine e della pace sot to il prima to della giustizia fa da legame tra la cittadinanza terrena e quella celeste e rende obbligatorio al cristiano l'ossequio verso le autorita che di quell'ideale sono strumenti e vindici. Nessu­na fuga dal mondo, dunque, rna partecipazione alla vita sociale pur nella con­vinzione che il potere civile non potra mai realizzare davvero le sue intenzioni senza la salvaguardia della chiesa.

Da questa necessita di salvare Ia finalita politica rapportandola ad un ordi­ne che la trascende derivera, lungo tutto il medioevo, la tendenza a risolvere il rapporto Stato-Chiesa nella subordinazione della spada temporale a quella spi­rit.uale. Ma in Agostino questa subordinazione non e cosi rigida, sebbene egli abbia fatto ricorso, per suo conto, alia spada del potere politico per ridurre all'ordine gli eretici donatisti che avevano fondato una specie di controchiesa a sfondo nazionalistico-popolare. Piu che giuridico-istituzionale la subordina­zione della citta terrena a quella celeste e ontologica e finalistica: il luogo in

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cui quella subordinazione deve affermarsi, durante i giorni feriali della storia, e soprattutto la coscienza: solo nel 'sabato' dell'adempimento la subordinazio­ne si risolvera nell'unita armoniosa.

In conformita con la sua indole intellettuale, Agostino evita dunque, pur nell'oscillazione del suo linguaggio di cui approfitteranno in piu sensi i suoi seguaci, i tagli netti, le geometrie inequivoche e diluisce le astratte contrappo­sizioni in una rappresentazione duttile del chiaroscuro della storia. La sua tesi astratta, che non c'e vera repubblica dove non c'e giustizia e non c'e giustizia dove non c'e la legge di Cristo, evita la facile deduzione teocratica e si piega alia misteriosa ambivalenza del tempo storico, che e, in ogni suo momento, trionfo della dissoluzione del passato e apertura, piena di attesa, al futuro che viene. Gli irrigidimenti clericali verranno in seguito. Per suo conto Agostino preferisce rilasciare alia onnipotenza di Dio il compito di regolare le armonie di questo immenso poema che e la storia (saeculorum pulche.rrimum carmen). Ancora una volta, le categorie prime di Agostino non sono quelle della raziona­lita, sono quelle della fede.

In India nei primi secoli della nostra era

8.20 Le scuole brahmaniche: il Samkhya e lo Yoga. Come si e detto (7.26), le scuole brahmaniche non hanno, a differenza di quelle greche, un vero e rpro­prio iniziatore. Sono piuttosto delle tradizioni di pensiero sgorgate ai piedi del massiccio sacro dei libri vedici e giunte fino ai nostri giorni in una varieta di intrecci, di confluenze e di divaricazioni che rendono impossibile ad uno stori­co la determinazione esatta dei contenuti dottrinali di ciascuna di esse. Di tan­to in tanto, dalla serie dei commenti e dei commenti sui commenti emerge qualche opera di rilievo, qualche pensatore dai contorni piu precisi che ci con­sentono di isolare, in un continuum senza sfumature, l'insorgere di un contri­buto originale che arricchisce la qualita della tradizione. E appena questo il fondamento reale del nostro tentativo di storicizzare, distribuendolo in una ar­ticolazione cronologica, il complesso delle scuole induiste. II senso di tale scel­ta, sicuramente molto discutibile, e non solo di render possibile una visione si­nottica dello svolgimento spirituale dell'umanita rna anche di correggere la convinzione vulgata che in India tutto sia stato pensato alle origini, che nel succedersi dei seeoli niente vi sia stato fatto che svolgere, come fa il ragno, una tela tutta gia contenuta nel corpo delle Sacre Scritture. Una cosa comun­que e vera: mentre, come abbiamo abbondantemente documentato .anche in questo capitolo, in occidente e ben netta la distinzione tra il pensiero razionale e quello basato sulla fede religiosa, cioe tra filosofia e teologia (8.16), nella tra­dizione induista le due forme di conoscenza procedono in maniera indistinta. Una distinzione c'e, e vero, rna non riguarda mai la sfera della metafisica (do­ve invece, come abbiamo appena visto, un Plotino e un Agostino rappresentano l'uno la ragione l'altro la fede), riguarda la dualita tra sfera del sensibile e sfe­ra dell'invisibile: la prima e aperta ai sensi e genera solo illusione, la seconda

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e aperta allo spirito rna si manifesta solo nella rivelazione contenuta nei Testi Sacri delle originL Cio premesso, sarebbe errato concludere che dunque le scuole brahmaniche niente hanno a che fare con la filosofia. Pur dentro uno statuto epistemologico tanto diverso dal nostro, esse hanno affrontato, con ric­chezza di analisi e con rigoglio creativo, gli stessi problemi affrontati in occi­dente. Ce ne possiamo rendere conto anche mediante una breve esposizione di due tra le sei scuole ortodosse di cui abbiamo tracciato (7.26) un quadro sche­matico: il Samkhya e lo Yoga.

Le origini dei due sistemi si confondono con i tempi vedici (o addirittura preariani: e il caso dello Yoga), rna le loro sistemazioni dottrinali piu autorevo­li cadono presso a poco in un periodo che corrisponde all'eta che va da Plotino a sant'Agostino. Periodo florido per l'India, di poco successive alle sue grandi creazioni epiche. Sono di questo periodo Isvarakrishna, autore di un conciso poema di 72 ~ersi, considerate il classico del Samkhya e, secondo molti, Patan­jali, autore dello Yogasutra, il trattato per eccellenza della dottrina Yoga. Le due scuole vengono tradizionalmente citate insieme, perche di fatto la scuola Yoga riconobbe nel Samkhya il proprio supporto dottrinale anche se tenne fer­mi alcuni principi (e diremo quali) che la differenziano nettamente dalla scuo­la gemella.

La tesi comune alle due scuole e che la realta consta di due sostanze (e la tesi dualistica) :radicalmente estranee l'una all'altra: la natura (Prakrti) e lo spi­rito o meglio le anime (purusa).

La natura non e la materia, e un principia attivo (natura naturans) che nel suo dinamismo (un continuo passaggio dall'omogeneo all'eterogeneo, dall'in­differenziato al differenziato) giunge a produrre, come sua suprema manifesta­zione, la psiche. Di contro ci sono le anime, in numero infinito, purissime e in­telligenti.'Il compito della naturae l'adescamento delle anime che, attratte dal suo fascino, restano imprigionate nella psiche, dove prende origine quello che noi chiamiamo 'io' Uiva). Come uno spettatore dinanzi ad una danzatrice si fa totalmente estraneo a se stesso fino ad identificarsi con la donna che osserva, cosi !'anima: si fa dimentica di se e '~cambia se stessa con la natura, piu preci­samente con la natura-psiche, e diventa cosi quella forma mentale illusoria a cui ciascuno di noi allude quando dice 'io'. L'anima e immutabile, l'io e mute­vole, !'anima e intelligente, l'io e non-intelligente, l'anima non nasce ne muore, l'io nasce, muore e rinasce nel ciclo del samsara, raccogliendo, nella rinascita, il karman che ha seminato nella vita precedente. lnfatti ogni atto si trascrive nella psiche, la quale cosi accumula in se delle predeterminazioni che daranno struttura all'io della rinascita. Per questo l'uomo non ancora libero attribuisce a se quel che invece accade nell'io illusorio e cioe nella natura: soffrire, gode­re, amare, sperare, morire, tutte azioni e passioni che sono proprie della natu­ra rna che !'anima prigioniera, invischiata nell'adescamento, attribuisce a se stessa. La liberazione si ha con la consapevolezza. E la conoscenza della distin­zione o dualita della prakrti e del purusa che conduce alla salvezza. Appena lo spettatore ritorna in se, e diventa estraneo alla danzatrice, e libero; appena !'anima prende coscienza che tra lei e la natura c'e una totale diversita, essa esce dal ciclo cosmico ed entra nella sua vera condizione. Venuta meno la sua funzione, la natura si ritrarra in se stessa e il cosmo si dissolvera nel nulla. La

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fine del cosmo. senza nessuna eternita beata, e la vera aspirazione del Samkhya. Lo Yoga, pur partendo dalle stesse premesse, giunge a conclusioni diame­

tralmente opposte a quelle atee del Samkhya. La divaricazione e gia netta ri­guardo al metoda della liberazione dell'anima dalla prigionia della psiche. Per il Samkhva Ia Iiberazione e effetto della pura e semplice conoscenza; per lo Yo­ga e il punta di arrivo di una prassi che comporta sia il distacco ascetico dal mondo, sia una tecnica mediante Ia quale si realizza Ia concentrazione dell'ani­ma in se stessa. Fa parte di questa tecnica Ia posizione del corpo durante Ia meditazione, il controllo del respiro che prepara il controllo del pensiero sino al suo totale svuotamento. Una volta privata del suo riferimento all'oggetto, il pensiero abbatte Ia porta che lo separa dall'anima ed entra nella totale liberta dal mondo. E qui Ia differenza piu sostanziale tra Samkhya e Yoga. Liberatasi dalle prese della natura, !'anima non entra nel puro vuoto, si trova anzi in Brahman, in uno stato di perfetta unione con Lui. Brahman infatti non e un Assoluto impersonale, e un Dio personale. La devozione a Lui va di pari passo con Ia liberazione dal mondo. Dalla mistica di Patanjali sono derivate in India forme di esperienza religiosa non dissimili da quelle dell'Islam e del Cristiane­simo.

8.21 Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e l'idealismo di Asanga. Si e gia vista come nella scuola del Piccolo Veicolo lo sviluppo del pensiero fi­losofico, scontando le sue premesse rigidamente sensistiche, sia sboccato nel nichilismo per proporre, quale alternativa a questa naufragio della ragione, Ia fede cieca nella parola di Buddha (7.27). Ebbene, questa parabola del Piccolo Veicolo puo cunsiderarsi come una prolusione al pensiero del Grande Veicolo che avra un destino filosofico tanto piu grandioso anche se, rapportato alle no­stre misure, incredibilmente paradossale. Ma gia qui, a nostro giudizio, risiede !'interesse di questa capitola della storia del pensiero, in questa inesauribile estrosita della ragione orientale che, muovendosi, con l'agilita di un trapezista, tra il Nulla e l' Assoluto, oscilla di continuo tra il piu to tale nichilismo e il mi­sticismo piu estatico.

Aile origini dell'epoca mahavanica sta. come un patriarca .. l'ex-brahmano Nagarjuna, Ia cui attivita si svolse (rna le date sono inolto incerte) nel II secolo d.C. nell'lndia Nord-occidentale. II suo pensiero fu sviluppato, nei secoli suc­cessivi (fino a! sec. VII), dai suoi seguaci Aryadeva e Santideva, le cui opere conobbero una straordinaria popolarita, non solo in India rna in tutta !'Asia centrale e nell'estremo oriente. Essi han dato vita alia scuola dei Nichilisti (sunyavadins = da sunya, vuoto) che in qualche modo ripercorre la stessa via battuta dai Sautrantika (7 .27) rna con risultati metafisici ben diversi. Per i Sautrantika, tra la non esistenza dell'oggetto e la non esistenza del soggetto stava Ia serie dei fenomeni, che almena essa era dotata d'esistenza, sia pure ri­dotta all'istante in cui Ia serie fenomenica via via si condensa per subito scom­parire. Tra il vuoto oggettivo e quello soggettivo c'era questa velo o meglio questa infinitesima bolla di sapone dell'istante fenomenico. Nagarjuna soffia sulla bolla di Sapone e la dissolve: non solo iJ fenomeno non ha dietro di sene dalla parte del soggetto ne dalla parte dell 'oggetto, ness una so stanza, rna non

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esiste nemmeno come fenomeno. Infatti, argomenta Nagarjuna, l'istante ha questa di proprio (altrimenti non sarebbe l'istante), che scompare nel momen­ta stesso in cui appare: insomma non c'e.

Non e il caso qui di riassumere la straripante ricchezza di argomentazioni con cui da Nagarjuna a Santideva, e cioe dal II al VII secolo, i nichilisti con­trappongono alle altre scuole la dottrina del vuoto assoluto: essa ha in se tutta la scaltrezza della sofistica occidentale e insieme una specie di ingenuita in­fantile, dovuta al fatto che, in fonda, questi nichilisti erano dei mistici per i quali la distruzione della ragione non era che il passo necessaria per l'affer­mazione della fede. E difatti il lora Nulla non e poi un vera e proprio Nulla.

Il Vuoto di Nagarjuna, ad esempio, non e ne I 'Essere ne il Nulla. Come ave­va insegnato Buddha, la verita none ne nel giudizio d'esistenza ne in quello di non-esistenza.

L' Essere e il Nulla sono !'uno inerente all'altro, I' uno confutazione dell'al­tro, !'uno condizione dell'altro. La verita va cercata al di la dell'uno e dell'al­tro, data che essi sono niente pili che due nozioni razionali e la ragione - ec­co il vera bersaglio dei nichilisti - non e che una menzogna. La scuola di Na­garjuna, proprio perche si tiene fuori sia dalle correnti di pensiero che si fon­davano sui giudizio d'esistenza (se non della so stanza, almena dell 'Essere asso­luto) sia da quelle che si basavano sul giudizio di non-esistenza, viene anche detta la scuola del Sentiero media (Madhyamika). Come si diceva, il suo obiet­tivo non era filosofico, era religioso: invece di attendere il Nirvana dopa la morte, il suo nichilismo lo anticipava nella vita. Infatti, ridotta tutta Ia realta ad illusione e vissuta nella consapevolezza della sua illusorieta, non resta di vera, fin d'ora, che il puro Vuoto nel quale, si, e la vera beatitudine. Non c'e bisogno di aspettare la fine delle reincarnazioni per diventare come Buddha: basta applicare fino in fonda la dialettica distruttiva della ragione.

La scuola degli Yogacara, che nel nostro linguaggio potremmo dire dell'idealismo assoluto, viene fatta risalire a due fratelli, vissuti nel V secolo d.C., Asanga e Vasubandhu, nati nella regione di Gandhara, dove, come si e detto, avvenne una qualche osmosi tra la cultura greca e quella buddhista. L'influenza dei due fratelli (passati ambedue, in momenti diversi, dal materia­lismo della scuola Hinayana al Mahayana) fu immensa non solo sulla cultura indiana rna in tutto l'estremo oriente. Tra l'altro il pellegrino cinese Hiuen Tsang, nel secolo VII, propago in Cina il lora insegnamento. Per noi occidenta­li la lora dottrina e particolarmente interessante perche presenta una curiosa rassomiglianza con quello che sara l'idealismo tedesco degli inizi del 1800.

Come Fichte (III. 1. 5) partira dal criticismo di Kant, cosi gii Yogacara par­tono dal nichilismo di Nagarjuna. Il vuoto universale, a lora giudizio, presup­pone qualcosa che sia vuoto: l'illusione universale presuppone un soggetto il­luso. Questa contenente vuoto, questa soggetto illuso e il Pensiero. Il mondo esterno non esiste al di fuori del Pensiero, come anche il soggetto empirico, l'io e il tu della nostra esperienza, e come l'atto di conoscenza con cui l'io en-. tra in contatto col mondo esterno. Questi tre dati dell'esperienza - il sogget­to, l'oggetto e l'atto con cui il soggetto conosce l'oggetto- sono tutti e tre una sola cosa, sono il Pensiero che pensa se stesso e pensandosi si da un contenuto di rappresentazioni, le quali, prese in se e per se, sono davvero soltanto delle

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I .!.

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illusioni rna, riconosciute come prodotto del pensiero, sono vere. 0 meglio: di vero c'e solo il Pensiero, anteriore al soggetto e all'oggetto, matrice eterna da cui promanano sia l' ordine soggettivo che l' ordine oggettivo, oceano preco­sciente su cui si agitano i flutti della coscienza.

Questa Pensiero precosciente (Alaya Vijnana), se ben si riflette, rassomiglia all'Atman senza pen~iero della tradizione induista. Anche per gli Yogacara, co­me per le Upanishad, i soggetti e gli oggetti particolari sorgono sull'oceano quieta del pensiero in virtu della nescienza (avidya).

Come gUt per Nagarjuna, anche per Asanga e Vasubandhu la dialettica del­la ragione serve quale premessa all'unica vera via conoscitiva, quella dell'in­tuizione mistica, la quale, trasferendo l'uomo, per Nagarjuna, al di la dell'Es­sere e del Nulla, per Asanga e Vasubandhu al di la del Mondo e dell'Io, lo im­medesima con l' Assoluto e cioe col Nirvana di cui aveva predicate Buddha.

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Sommario. Con Ia caduta dell'Impero romano !'Europa entra in una stagione appa­rentemente sterile durante Ia quale si pongono le premesse per Ia formazione di una ci­vilta originale: Ia cristianita latina (9.1). II piu importante artefice di questa trapasso fu Severino Boezio, }'ultimo dei romani, il primo dei medioevali (9.2), che fu un autentico filosofo, oltre che un grande erudito. Poco piil che dei compilatori con ambizioni enci­clopediche furono invece Cassiodoro e Isidoro di Siviglia, che offrirono al medioevo re­pertori sfruttatissimi (9.3). Le strutture organizzative e !'ethos della nuova eta vennero pero soprattutto dal monachesimo benedettino (9.4). La cristianita orientale invece e an­cora ripiegata sul suo splendido passato, come dimostra Ia teologia platonica della pseudo-Dionigi (9.5), oppure tenta di convivere con una nuova civilta religiosa, quella islamica. Su questa sfondo acquista grande rilievo il teologo Giovanni Damasceno, in tutti i sensi uomo di frontiera (9.6). L'epicentro della cristianita latina andava ormai or­ganizzandosi sulla frontiera occidentale, quella del nuovo regno germanico cristianizza­to dai Franchi. Alia corte di Carlo Magno fu programmata da Alcuino una riforma cul­turale dal grande futuro (9.7). Tra gli esecutori di questa programma emerge lo scozze­se Giovanni Scoto Eriugena, autore di un grandioso sistema che e come !'ultima sintesi dell'eredita platonica e neoplatonica (9.8).

Quando Carlo intraprende Ia sua riforma, I 'Islam aveva gia conquistato un: buon ter­zo dell'antica Repubblica Romana: tutto l'arco mediterraneo meridionale, dalla Siria al­Ia Spagna. L'Islam conquistava nuovi popoli con l'intento di diffondere, sia pure con metodi relativamente tolleranti, il messaggio del Profeta Maometto (9.9). E. un messag­gio che nasce sui ceppo della tradizione ebraico-cristiana rna con alcuni tratti caratteri­stici che ne spiegano il successo, come Ia Jaicita e l'egalitarismo (9.10). Oltre che messag­gio di fede !'Islam fu anche una sintesi tra rivelazione coranica e culture preislamiche, importante fra tutte quella della Persia, dove avevano tra l'altro trovato rifugio gli ulti­mi pensatori neoplatonici (9.11). Dalla dialettica tra rivelazione e ragione presero svi­luppo alcune tendenze di pensiero a carattere essoterico e cioe aperto aile esigenze del­la comunita e della ragione umana, come, in diverso modo, i mutaziliti e'gli ashariti (9.12) e altre, a carattere piu esoterico, che introdussero nell'egalitarismo islamico alcuni elemen­ti di consapevolezza elitaria, •sui tipo_;!ella gnosi cristiana, come gli sciiti e i sufi (9.13).

In India, in questa periodo hanno particolare sviluppo due scuole filosofiche, tra !oro collegate: il Vaisesika (il cui tratto essenziale e una specie di cosmologia fortemen­te dualistica) e il Nyaya, una scuola di logica incentrata su metodi raffinati per tenersi in guardia dall'errore (9.14). Le complicate tradizioni di pensiero di area vedica trovaro­no in Shankara il genio che le ridusse ad una sintesi rigorosa e di grande influenza sto­rica. Shankara trasse dalla dottrina vedica, e specie dalle Upanishad, il succo metafisi­co e lo sviluppo con impeto contemplativo e splendore di linguaggio ·(9.15). Nella stesso arco di secoli, in area buddista, ebbe sviluppo e diffusione geografica Ia scuola det­ta Tathata che capovolse in senso oggettivo il panteismo soggettivistico di Asanga (9.16).

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9- Le due cristianita D 309

Le due cristianita

9.1 Rottura e continuita. Per delimitare il periodo di cui stiamo per occu­parci, possiamo prendere due date-simbolo: il 529, l'anno in cui l'imperatore d'oriente, Giustiniano, chiuse d'autorita Ia scuola di Atene (8.7); il 782, l'anno in cui Carlomagno fonda Ia 'Scuola Palatina'. Se davvero, com'era nel gusto degli storiografi di ispirazione illuministica, Ia lunga stagione che va dalla ca­duta deii'Impero romano alle prime forme dell'umanesimo moderno (un mil­lennio circa) potesse esser detta 'eta delle tenebre', allora questo primo perio­do medioevale- !'alto medioevo -, funestato, per usare le parole di Rabelais dall'«infelicita e calamita dei Goti», potrebbe esser detto le temps tenebreux per eccellenza. Ma oggi, in base a piu approfondite ricerche e soprattutto ad un mutato concetto di cultura, noi siamo meno disposti a questi giudizi som­mari e siamo piu rispettosi della particolare originalita e del medioevo nel suo insieme e di questo periodo in particolare.

Anche dinanzi ad una questione piu specifica: in rapporto all'eta antica (il medioevo si chiama cosi appunto perche e l'evo che 'stain mezzo' tra l'antichi­ta classico-patristica e l'eta moderna) questo periodo di due secoli e mezzo se­gna una rottura o una continuita?, Ia nostra risposta non puo essere che per­plessa.

Fu una rottura, sicuramente. Fino a Scoto Eriugena, come dire fino all'800 (e quanto stiamo per documentare) non incontreremo nessun pensatore origi­nale rna solo degli eruditi (molto rari anche questi) occupati nel riordinare i frammenti rimasti dell'antico patrimonio secondo finalita pratiche (nemmeno Boezio, come vedremo, fa del tutto eccezione) e senza nessun vigore critico, quasi che il mondo, totalmente mutato attorno a !oro, non avesse problemi nuovi da porre alia ragione. C'e un 'vuoto' creativo, reso legittimo dalla comu­ne convinzione che ormai tutto il pensabile era stato pensato e che dunque comporre un libro aveva senso solo se si trattava di commentare o di ripropor­re, in ordine diverso, quanto gia era stato scritto.

Fu una continuazione della cultura precedente, che sopravvisse anche nelle strutture pedagogiche elaborate durante l'impero romano e, dopo qualche ri­luttanza, adottate dai cristiani. Si fecero piu rare, si, le 'scuole elementari' cosi diffuse nell'eta d'oro dell'impero e anche le scuole superiori di grammati­ca, retorica e diritto, rna ne rimasero abbastanza, almeno nei centri maggiori, per garantire Ia conoscenza della lingua e la formazione dei funzionari. Anche le popolazioni germaniche, entrate nel territorio dell'impero, si adattarono in qualche misura a farsi acculturare dalle scuole municipali. Senza dire che nel contempo la chiesa, chiamata ormai ad esercitare, in contrasto con il caos dei poteri civili, una funzione sempre piu efficace di egemonia culturale e sociale, aveva creato un suo personale specializzato (il clero) e una fitta ramificazione di monasteri, dove, accanto al lavoro manuale, aveva grande importanza la scuola. II filo della trasmissione del sapere insomma non si spezzo.

Ma si trattava appunto di un sapere trasmesso. II medioevo nacque come memoria del passato, come memoria pedissequa, quasi sopraffatto dall'im­pressione che ormai tutto quello che la ragione coi suoi mezzi era in grado di

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conquistare gia l'aveva conquistato e che altro compito non restava che quello della trasmissione. Quella coscienza e questo compito appaiono in tutta evi­denza nei pensatori del sec. VI che possono a giusto titolo esser detti, come fu detto Boezio, gli ultimi romani e i primi medioevali.

9.2. Severino Boezio. Come dice il suo nome completo - Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480-526 ca) - il filosofo a cui il medioevo, fino al sec. XII, guardera come ad un maestro, apparteneva ad una famiglia romana di antica nobilta. Nato nel 480, fu console di Roma nel 510 e godette per molti anni il favore del re ostrogoto Teodorico, che lo fece suo ministro per meglio a ttuare il suo progetto di conciliazione tra le due culture, la romana e la ger­manica. Accusato di cospirazione, fu rinchiuso in un carcere di Pavia dove, do­po atroci torture, fu ucciso, per ordine del re, nel 526.

Il vero intento di Boezio, testimone della rapida decadenza della sua patria, era di assicurare a Roma il patrimonio maggiore della cultura ellenica, dive­nuto estraneo ai suoi contemporanei, ormai quasi tutti ignari della lingua greca.

Formatosi alia scuola di Atene, Boezio ne aveva accolto la dottrina che allo­ra vi dominava e che aveva come linea di tendenza la conciliazione tra Aristo­tele e Platone, maestro delle cose sensibili, i1 primo, il secondo di quelle sovra­sensibili. Il suo programma puo essere paragonato a quello di Cicerone, pur­che si tenga conto del contesto tanto diverso e della diversa durata dell'attivi­ta culturale dei due. Cicerone non tradusse rna trasfuse nella tematica delle sue opere il pensiero greco; Boezio affronto direttamente l'immane compito della traduzione in Iatino di tutte le opere di Platone e di Aristotele . Di fatto non ando oltre !'Organon aristotelico e i· lntroduzione (detta anche grecamente Isagoge) di Porfirio (8.5) della quale scrisse anche un commento che ebbe gran­de influenza nel Medioevo.

Non a caso l'impegno di Boezio preferi l'aspetto logico dell'aristotelismo. Il suo intento era infatti prevalentemente pedagogico. A lui si deve la riforma della disposizione in cui le sette 'arti liberali' venivano insegnate fin dai tempi di Varrone. La dialettica occupava il secondo posto del 'trivio', tra la gramma­tica e la retorica, come preparazione a questa: aveva insomma una finalita let­teraria. Boezio le assegno il terzo posto, come conclusione del trivio e prope­deutica alle arti superiori, queUe del quadrivio: aritmetica, musica, geometria, astronomia. L'approfondimento della dialettica era ai suoi occhi indispensabi­le per affrontare gli studi superiori. Elevata a questo ruolo, Ia dialettica rima­se per secoli, nell'ordinamento delle scuole, il momento di raccordo col pensie­ro antico fino a che non esplodera, nel sec. XII, la prima grande questione filo­sofica, quella degli universali (10.5), il cui testo di riferimento sara appunto il commento boeziano all'Isagoge di Porfirio.

Gli interessi speculativi di Boezio non restavano chiusi nell'area platoni­co-aristotelica. Infuriava allora in oriente la disputa teologica tra i seguaci e gli avversari di due eretici gia condannati dai concili: Nestorio ed Eutiche. Nel 512 il vescovo di Roma fu chiamato in causa e Boezio prese parte ad un Sinodo che doveva elaborare una risposta alle interpellazioni giunte dall' orien­te. L'occasione sveglio in Boezio }'interesse perle questioni teologiche, che tro­vo forma in alcuni opuscoli (che verranno detti appunto opuscula sacra) sulla

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cui autenticita parziale o totale non c'e pieno accordo tra gli studiosi. None il caso di entrare in merito ai contenuti di questi scritti, caratterizzati dalla pili rigorosa ortodossia. Basti dire che, anche in questa caso, il merito di Boezio e, per cosi dire, ciceroniano: egli ha creato dei termini che saranno adottati in seguito dalla terminologia cattolica latina per esprimere in modo adeguato il patrimonio dottrinale della chiesa d'oriente. Ad esempio, i termini di 'natura', 'persona', 'sostanza', 'eternita', ecc., propri del lessico teologico occidentale, sono di fattura boeziana.

E tuttavia l'impegno teologico di Boezio e poco pili che formale. Il suo os­sequio ai dogmi cattolici, sincero e senza riserve, lascia Iibera campo all'eser­cizio della sua intelligenza formalistica, di educazione aristotelica, e ad un confrontb puramente filosofico con i grandi temi dell'esistenza. Tant'e vera che nell,'opera a cui e soprattutto legato il suo nome, il De consolatione philo­sophide (La consolazione della filosofia), non s'incontra nessuna citazione del vangdo o semplicemente dei Padri della chiesa. La cosa stupisce anche perche si tratla di un'opera scritta in prigione, in attesa della morte, a tu per tu con gli interrogativi che si fanno drammatici in una vigilia del genere. Sopraffatto, pili che dalla paura fisica, dallo scandala morale di una condanna ingiusta, Boezio immagina che gli appaia la Fortuna, le cui parole di consolazione sono ispirate alia ideologia scettica del Caso: la vitae una ruota che ora porta in su ora porta in gili: e stolto inorgoglirsi nella prima evenienza ed e stolto dispe­rarsi nella seconda. A liberare Boezio dal rischio di questa piatta rassegnazio­ne sopraggiunge, nelle forme di una maestosa matrona, la Filosofia, che gli in­dica il vera luogo della felicita, il Somma Bene al cui cospetto la vita terrena perde ogni valore. L'opera e scritta in versi e in prosa, e questa in forma di dialogo. Tutto quanta di altamente umano avevano scritto i platonici e gli stoi­ci, Boezio lo fonde in un discorso autenticamente suo, improntato alia serenita e alia chiarezza anche tecnica dei concetti. La humanitas antica si compone, con solennita e sensa di sufficienza, nel quadro di una visione del mondo in cui sono gia entrate le illuminazioni della fede cristiana rna che resta sostan­zialmente affidata a quanta l'umana ragione puo, con le sue proprie forze, comprendere. L'enorme fortuna incontrata da questa testamento di Boezio, che e insieme un messaggio di conciliazione tra la saggezza antica e quella cri­stiana, e anch'essa una riprova che nel sottosuolo del medioevo correvano na­scostamente le stesse acque che avevano fecondato l'eta antica.

9.3. I compilatori: Cassiodoro e lsidoro. In Boezio la preoccupazione didat­tica di riordinare, tradurre e trasmettere la cultura o.ntica ~i congiunse, sia pure senza esiti veramente originali, con una vigorosa vocazione filosofica. Gli altri testimoni della transizione dei quali occorre fare memoria obbediscono invece quasi esclusivamente alia richiesta di erudizione che nasceva dalla na­tura stessa della nuova societa romano-germanica.

Cassiodoro (pili precisamente Magno Aurelio Cassiodoro Senatore: 485 ca-580 ca.) era anche lui di famiglia nobile e anche lui fu ministro di Teodorico. Pili dutti1e del suo coetaneo Boezio, resto a corte fino a quando il regno dei Goti cadde sotto i colpi dell'esercito bizantino. Si ritiro allora a Squillace, il paese calabro dove era nato, e vi fondo una specie di universita monacale, il

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'Vivarium', che divenne come un'arca di Noe in cui trovarono salvezza nume­rose opere dell'antichita grecoromana. Il compito essenziale dei monaci del 'Vivarium' era infatti la trascrizione e Ia traduzione dal greco in Iatino dei li­bri che meglio rispondevano all'ideale educativo di Cassiodoro: Ia fusione tra le due culture, romana e greca, e l'assunzione dell'eredita a.ntica dentro Ia su­periore sapienza offerta dalla Sacra Scrittura. E bene non dimenticare che, un secolo dopo, il prezioso patrimonio bibliografico del 'Vivarium' fu trasferito nella biblioteca del Laterano, diventando cosl. uno strumento di trasmissione davvero decisivo per il futuro.

Gia queste notizie rivelano il carattere enciclopedico di Cassiodoro, un ca­rattere che si rispecchia fedelmente nelle sue opere. Se si eccettuano le Va­riae, 468 lettere scritte quand'era cancelliere del regno Goto, la Chronica, una storia cronachistica dell'umanita da Adamo al 519, il De anima, un trattatello in cui si propane come dottrina cattolica il principia antropologico dell'anima come forma del corpo, gli altri suoi scritti, raccolti senza vera organicita in due diversi libri sotto il medesimo titolo di lnstitutiones (lstituzioni), sono vere e proprie compilazioni di tipo enciclopedico, dove si trova di tutto, dalla gram­matica all'astronomia, e si trova a volte allo stato di pura e semplice trascri­zione da opere antiche pagane e cristiane. L'ideologia che tiene legato questa coacervo antologico e Ia stessa di Agostino: Ia cultura antica non va rigettata, rna messa al servizio della conoscenza teologica e della vita religiosa. Ci da Ia misura dell'uomo, e della sua fondamentale importanza per Ia cultura del me­dioevo incipiente, Ia notizia che a novantatre anni egli stava componendo un trattato De Orthographia (sull'ortografia) per insegnare ai monaci come si do­vevano trascrivere gli antichi codici.

Non dissimile fu il ruolo svolto, in un diverso contesto e in un'eta diversa, da lsidoro di Siviglia, che fu vescovo di questa citta dal 601 al 636. L' Andalu­sia era la piu romanizzata delle provincie ispaniche, quella in cui i re visigoti, passati dall'arianesimo all'ortodossia cattolica, tentarono Ia fusione tra le due culture, anche in vista del lora progetto di unificare sotto una medesima mo­narchia l'intera Spagna. Il vescovo di Siviglia, !oro consigliere, fu l'artefice del rinnovamento culturale della penisola tramite una fitta rete di scuole abbazia­li e vescovili. La sua produzione enciclopedica culmina nei venti libri sulle Bti­mologie circa l'origine di certe case. Con un metoda originale, Isidoro perlu­stra l'intero dominio delle sette arti, delle tecniche materiali, del diritto, della medicina, delle scienze naturali, partendo dall'analisi delle parole per risalire alle 'sorgenti delle case', recuperando, lungo questa pellegrinaggio etimologi­co, tutto lo scibile dell'aniichita pagana e cristiana. Sull'ambizioso progetto politico-religioso dei Visigoti calera presto, nel 711, la spada degli Arabi, rna essi, ritiratisi sui Pirenei, portarono con se il tesoro delle opere di colui che venne detto '!'ultimo Padre dell'occidente', un tesoro a cui attingeranno larga­mente secoli successivi.

9.4 II monachesimo d'occidente. Ma le basi organizzative e l 'ispirazione ideale che avrebbero data solidita e unita interiore alla cristianita medioevale erano gia state paste dal vescovo di Roma Gregorio (540-604), a cui Ia posterita riservera il titulo di Grande (Magno). E con lui che il patrimonio teologico del

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passato diventa, per cosi dire, cultura popolare, penetra, per altri mezzi che quelli del libra, nelle plebi raccolte attorno ai monasteri, nutrendone la natu­rale devozione e modellandone il costume secondo una larga uniformita di cri­teri morali. In pochi casi come in questa e possibile attribuire all'opera di un solo uomo !'ethos di un'epoca. Tutto lo disponeva a questa compito: la sua ori­gine da una famiglia romana di antica dignita patrizia; la sua esperienza am­ministrativa di 'prefectus urbis' in un tempo in cui l'autorita dell'impero d'oriente non aveva piu strumenti per farsi sentire; la sua decisione di lascia­re ogni carica per trasformare la sua casa, aile pendici del Celio, in un mona­stero; Ia sua esperienza di nunzio del Papa a Costantinopoli e finalmente Ia sua elezione al pontificato per plebiscita popolare.

La citta, funestata dalla peste, dalla fame, dalle alluvioni e dagli assedi fu totalmente nelle sue mani ed egli seppe far fronte a compiti di diversa natura senza venir meno alia sua austerita di monaco contemplativo e alle sue premu­re pastorali. I suoi scritti (famosi fra tutti i Dialoghi) non ci interessano in questa sede perche sono tutti di impronta pastorale, esprimono cioe il suo ri­fiuto di una ricerca dottrinale fine a se stessa e Ia sua indole di 'pastore di anime'. Importante fu Ia sua opera di creatore di categoric morali, di modelli di vita, di tradizioni popolari e, al di la di tutto, la sua impresa di organizzato­re della vita missionaria e contemplativa. Si potrebbe anche dire che il mona­chesimo benedettino fu una creazione sua. Benedetto di Norcia (480-547) aveva fondato il monastero di Montecassino nel 529, lo stesso anno in cui Giustinia­no chiudeva la scuola di Atene. Ma ben poco sarebbe rimasto della creazione di Benedetto se i superstiti del suo monastero, distrutto dai Longobardi, non si fossero incontrati a Roma con un uomo cosi congeniale al lora fondatore qual era Gregorio. Del resto Ia fonte storica che ci ha custodito, trasfigurando­li, i fatti e le opere di Benedetto e il II libra dei Dialoghi. Il santo e il suo agio­grafo sono accomunati da una humanitas in cui l'imitazione di Cristo si fonde con !'equilibria, Ia concretezza, il sensa del limite propri della tradizione etica del mondo romano. Nel monastero come lo modella Ia 'Regola' di Benedetto e come lo intende Gregorio non regna il disprezzo del mondo. ne l'individuali­smo ascetico che conduce i monaci all'estraneita reciproca, c'e invece !'equili­bria tra Ia preghiera e il lavoro e tra il lavoro manuale e quello intellettuale (erano d'obbligo quattro ore al giorno di lettura), c'e uno stile di vita che !ega gli uni agli altri in rapporti gerarchici e in forme di fraterna collaborazione che mirano a facilitare a ciascuno Ia realizzazione delle proprie tendenze. Su tutto domina !'Abate (da Abba, padre) che none un monarca rna, eletto com'e dai monaci, il garante dell'unita d;;;:ll'insieme e Ia manifestazione tangibile del­la Paternita divina da cui ogni autorita deriva.

Che Gregorio abbia deciso di inserire nella sua strategia di pontefice i figli di san Benedetto ha voluto dir molto per il destino della chiesa e della societa occidentale. C'era intatti a portata di mana un'altra forma di monachesimo, nata nella lontana Irlanda e giunta in quegli anni anche in Italia. L'Irlanda non era stata romanizzata come lo era stata l'Inghilterra, Ia quale conobbe, proprio perche regione dell'impero, una precoce penetrazione del cristianesi­mo: sotto Diocleziano contava tre vescovati. Pelagia, il monaco combattuto da Agostino, veniva appunto dall'Inghilterra. E dall'Inghilterra, e precisamente

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dalla predicazione iniziata nel 432 da san Patrizio, giunse in Irlanda l'annuncio del vangelo. Gli Irlandesi erano di razza celtica; la loro religione era quella dei druidi, sacerdoti ed insieme capi della comunita. L'innesto del cristianesimo sui ceppo druidico dette luogo ad una straordinaria fioritura di monasteri. La chiesa irlandese non si divideva in diocesi affidate ai vescovi rna in monasteri, dove ]'abate era insieme capo della comunita religiosa e della tribu. Proprio

· l'anno in cui Gregorio divenne pontefice, il 590, giunse in Francia dall'Irlanda il monaco Colombano per fondarvi dei monasteri. Nel 610 sara in Italia dove . fondera, nel 614, la famosa abbazia di Bobbio, sugli Appennini. Il suo discepo­lo san Gallo fara altrettanto in Svizzera.

Per riportare il-vangelo in Inghilterra (l'invasione degli Juti, degli Angli e dei Sassoni, nel sec. V, ne aveva cancellate ogni traccia) Papa Gregorio non si servi degli Irlandesi rna invio una pattuglia di monaci benedettini (circa 40) sotto Ia guida di uno di loro, Agostino. Convertito il re sassone Etelberto (e con lui tutto il popolo), Agostino si stabill. a Canterbury divenendone vescovo e, me­diante una larga rete di scambi e nuovi afflussi dall'Italia, avvio la storia cri­stiana e culturale dell'Inghilterra.

Alia sua morte, Gregorio Magno aveva gia posto tutte le premesse per la formazione di una nuova realta socioculturale: la cristianita latina medioevale.

9.5 L'oriente: lo pseud~Dionigi. Ma la cristianita non ha i confini dell'im­pero romano. Il panorama politico culturale del sec. VII ci mostra altre due realta, distinte da quella su cui ha ormai solida egemonia il papa di Roma: l' oriente bizantino e, ancora nella prima fase della sua espansione, l'Islam. Dell'Islam tratteremo in altra parte del capitolo. Dell'oriente invece occorre dir subito qualcosa, anche perche non capiremmo a pieno le ragioni e i conte­nuti della cosidetta rinascita carolingia se non dessimo il giusto peso agli ap­porti che dall 'oriente cristiano vennero, proprio in questi secoli, al medioevo occidentale. La storiografia piu recente ha del tutto sfatato il pregiudizio al­tezzoso con cui, a partire dal secolo scorso, si squalificava, col termine apposi­tamente coniato di 'bizantinismo', la cultura che faceva capo a Bisanzio, dopo che nel 529 venne chiusa la scuola di Atene. Con quella chiusura si voile colpi­re il paganesimo, ormai d'altronde gia in agonia, non certo Ia cultura ellenisti­ca, che anzi continuava a dominare in quella specie di universita cristiana che, quattro anni prima, era stata creata a Bisanzio col nomedi 'Pandidacterion'. E vero piuttosto che al centro del dibattito culturale tenuto vivo dalla scuola di Bisanzio erano sempre le questioni teologiche, che facevano da strascico ai grandi ctmcili ecumenici relativi alla dottrina trinitaria e a quella cristologica. Ma anche in questo caso non si trattava di sterili diatribe tra intellettuali: al dibattito partecipavano largamente perfino gli strati popolari, anche perche la prevalenza dell'una ·o dell'altra posizione teorica aveva sempre a che fare con le alterne vicende del potere politico. Non per nulla, a differenza dell'occiden­te, dove ormai l'unanimita della chiesa era saldamente nelle mani del papa, in oriente erano spesso gli imperatori ad entrare nelle dispute col peso della spa­da, per imporre le soluzioni 'ortodosse'. Un esempio per tutti: quando l'impe­ratore Leone Isaurico ordino le distruzioni delle immagini in base ad una pre­cisa condanna teologica (730 d.C.), egli mirava soprattutto a tener tranquille le

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regioni orientali dell'impero, dove prevalevano le tendenze 'eretiche' nestoria­ne, e a tacitare le accuse di idolatria che venivano dall'Islam, ormai scalpitan­te ai confini meridionali sotto il vessillo del pill. rigido monoteismo.

Ma non e di questa aspetto della storia orientale che dobbiamo occuparci. La cultura bizantina aveva qualcosa di pill. duraturo da offrire alia cristianita occidentale ancora occupata nel costruire le basi materiali del proprio futuro. Durante una disputa teologica - eravamo a Bisanzio, nel 533 - i difensori della dottrina dei concili misero sui tavolo, a proprio sostegno, le opere di un au tore fino ad allora sconosciuto: Dionigi I' Areopagita.

Secondo loro si trattava proprio di quel Dionigi di cui gli Atti degli apostoli dicono che fu convertito dal discorso di Paolo all' Areopago (7 .20). Leggende successive ne fecero il prima vescovo di A tene e poi nientemeno che di Parigi, dove sarebbe morto martire. Dal Rinascimento in poi la critica ha mostrato che l'attribuzione e senza fondamento. Oggi si ritiene che lo pseudo-Dionigi sia un au tore della fine del V secolo e degli inizi del VI: presso a poco un contem­poraneo di Boezio. La sua matrice filosofica e il neoplatonismo: c'e chi ne fa un alunno di Proclo (8.7) e c'e chi nientemeno ritiene che sia piuttosto Proclo ad aver fatto propri alcuni argomenti di Dionigi. Certo e che in nessun altro ca­so Ia tradizione platonica si e cos! profondamente compenetrata con Ia sapienza evangelica, nemmeno in Agostino, che d'altronde conosceva Platone e Plotino solo parzialmente e in traduzioni latine.

Il Corpus dionysianum comprende quattro trattati: I nomi divini, La, teolo­gia mistica, Ia Gerarchia celeste, Ia Gerarchia ecclesiastica. Potremmo ridurre a tre i temi fondamentali dall'anonimo teologo.

1. Ispirandosi al Parmenide di Platone, Dionigi mostra come due siano le vie per conoscere Dio. In quanta Dio e l'Uno, chiuso nella perfetta identita con se stesso, niente si puo dire di lui, egli e totalmente ineffabile; in quanta tutte le cose partecipano dell'Uno, si possono attribuire a Dio infiniti nomi, per analo­gia. Solo che il Dio di Dionigi e quello biblico: tra lui e le cose non c'e deriva­zione rna creazione. Per cui l'Uno a cui si riconducono dialetticamente le cose q.on e il vero Dio. Il vero Dio ha detto i suoi nomi nella Bibbia. Riguardo a questi nomi il metoda da applicare e lo stesso: in una cognizione di tipo meta­fisico quei nomi dicono qualcosa di Lui, rna in una cognizione che rapporti quei nomi a lui, essi si rivelano inadeguati, in tanto dicono in quanta vengono negati: di Dio sappiamo quel che non e, non quel che e. Dio e l'essere, rna in una cognizione pill. profonda egli deve esser detto Non-essere. Dio e al di la di tutte le determinazioni. Perfino toccando del dogma trinitario Dionigi sostiene che Ia dialettica tra l'unita e Ia_ trinita va superata in una «sopraunita» che concili in se l 'esser uno e I 'esser trino. La potenza della teologia dionisiana e in questa primato della negazione. Nelle scuole medioevali egli sara citato infi­nite volte (Tommaso lo cita 1170 volte), rna in realta la sua mistica sara sem­pre sentita come una minaccia per la stessa validita del sapere.

2. Le cose sono create da Dio secondo 'paradigmi eterni'. Una volta create, le cose sussistono non come emanazioni rna come realta autonome, che hanna per fondamento i paradigmi divini, secondo i quali le creature si dispongono in una gerarchia scalare, a ritmi ternari. Ad esempio, le creature pili alte, gli angeli, sono di nove tipi, distinti in tre gradi. Dante costruira su questa sche-

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rna il suo Paradiso. Alia gerarchia celeste corrisponde Ia gerarchia ecclesiasti­ca, anch'essa scandita in ritmi triadici (uno di essi: Vescovo, prete, diacono)~ Si capisce il fascino esercitato da Dionigi nella societa medioevale, tutta costrui­ta secondo una gerarchia scalare. E uno dei casi piu clamorosi in cui Ia teolo­f,!ia ha funzionato come lef!ittimazione sacra dell'esistente.

3. Nato da Dio, i1 mondo e in moto verso di Lui. Ouesto movimento ascensio­nale, in quanto investe le intelligenze si compie in tre momenti: Ia purificazio­ne, l'illuminazione, l'unione contemplativa, che sbocca nell"inconoscenza' dell'estasi, punto culmine della 'teologia negativa' di cui abbiamo detto. Inte­ressante quanto dice Dionigi sui simbolismo, forma inevitabile di conoscenza quando si tratta della realta indefinibile. C'e un simbolismo della somiglianza e uno della dissomiglianza. II primo e adatto alia formazione dei semplici e dei novizi, che hanno bisogno di appoggiarsi a delle immagini; l'altro e possibile solo ai piu maturi, i quali sanno che Ia vera parola e il silenzio e che Ia vera conoscenza e Ia non-conoscenza.

Aile soglie del medioevo, Ia teologia negativa dell'Areopagita si incorpora definitivamente nella struttura mentale dell'uomo pensante, arricchendola, fi­no ai tempi nostri, di una specie di supremo sospetto sulla validita dei concet­ti chiari e distinti, un sospetto che e sicuramente un principia di liberta della ragione.

9.6 L'oriente: Giovanni Damasceno. Diversamente che in occidente, dove, come abbiamo visto, anche in ragione dell'afflusso di popolazioni barbariche, i gran­di maestri erano degli eruditi con ambizioni enciclopediche, in oriente, anche per lo stimolo delle dispute teologiche, il pensiero mantenne per secoli il vigo­re speculativo che abbiamo appena sottolineato in Dionigi l'Areopagita.

Mentre nella scuola di Bisanzio, sia pure in una cornice diversa, continua­no gli interessi perle questioni poste dall'aristotelismo e dal platonismo, nella diaspora dei monasteri, specie nella Siria, prima che arrivi l'onda dell'Islam, ferve lo studio diretto delle opere di Aristotele, alcune delle quali vengono tra­dotte in lingua siriaca. Quando gli arabi si insedieranno nella Siria come do­minatori avranno cura di non distruggere questa patrimonio di ricerche. Tant'e vero che proprio in queste regioni del medioriente essi hanno preso contatto in modo vivace con la filosofia greca e precisamente con l'Aristotele tradotto nei monasteri, che divenne per loro il 'Filosofo per eccellenza'. Se si pensa che il risveglio filosofico delle universita occidentali nel secolo XIII av­verra proprio attorno all'Aristotele arabo, e facile valutare l'importanza del di­ligentt; lavoro compiuto dai monaci siriaci.

Tra di essi emerge Giovanni Damasceno, (640-750). Nato a Damasco, egli si chiamava anche Mansur, col nome arabo che aveva avuto suo nonno, funzionario dell'impero bizantino a cui era toccato il duro compito di firmare Ia capitolazio­ne di Damasco assediata dai musulmani. Il califfo lascio in piedi l'amministra­zione bizantina e cosi Giovanni divenne responsabile delle finanze locali e tu­tore dei suoi correligionari che, dietro il pagamento di un tributo, godevano, in quanto 'nazione cristiana', di una certa autonomia. Dette prova di spirito libero e coraggioso quando si fece difensore delle imma­gini, contra la furia congiunta degli iconoclasti e dell'Islam. Ritiratosi nel mo-

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nastero di San Sabba, vicino a Gerusalemme, vi mori piu che centenario attor­no al 750.

La sua importanza e grande soprattutto nella storia della teologia (viene considerato !'ultimo Padre della Chiesa), rna anche dal punto di vista filosofico il suo ruolo fu di primo piano, per quanto egli fosse piuttosto un grande com­pilatore che un pensatore originale. La sua opera principale, La fonte della co­noscenza, scritta quando aveva cento anni, tratta, nella sua prima parte, della 'dialettica' (la seconda e una confutazione di cento eresie, tra le quali, partico­lare significativo, c'e anche !'Islam, considerato eresia cristiana; Ia terza e una esposizione del dogma), rna lo fa senza attribuire alia logica un valore a se stante. La dialettica e per lui, come nella migliore tradizione aristotelica, non un sapere rna uno strumento del sapere.

Per Ia prima volta nella storia del pensiero cristiano, e~li si pone in modo consapevole il problema dei rapporti tra filosofia e teologia, as-.umendo una posizione che prelude a quella sostenuta con successo net secolo XIII da Tom­maso d'Aquino: Ia filosofia e, si, ancella della teologia rna possiede principi e metodi propri che conducono a conclusioni non contrarie, anzi preliminari a quelle della teologia.

Ad esempio, egli sviluppa, su base aristotelica, le prove razionali dell'esi­stenza di Dio, anche se Ia ragione non puo, secondo lui, non arrestarsi impo­tente dinanzi al problema dell 'essenza divina: qui egli si ricollega con Ia teolo­gia negativa dell' Areopagita.

Particolarmente profondo e fecondo e il suo discorso sui rapporti tra es­senza ed esistenza anche riguardo all'uomo. Il tema sara affrontato dalla sco­lastica medioevale, rna raramente col pathos 'esistenzialistico' del Damasceno. Non c'e una natura umana di cui l'individuo sia una specificazione ultima, una ipostasi. La naturae reale solo nell'ipostasi, nell'esistente concreto, Ia cui ten­denza insopprimibile e di rimanere nell'esistenza e non gia di sciogliersi nei suoi elementi 'naturali', corpo ed anima. La tendenza ad esistere genera l'an­goscia. L'angoscia, egli dice con linguaggio modernissimo, e la paura della ca­duta dell'esistenza, paura da cui ci si salva avvicinandosi il piu possibile a Dio, in cui essenza ed esistenza coincidono.

Anche se di natura teologica piu che filosofica, merita un cerino la tesi del Damasceno sui valore delle immagini (in greco 'iconi') contra la posizione ico­noclastica degli eretici e dei musulmani. La vera icone e Gesu Cristo, in quan­to nel suo corpo trasfigurato l'invisibile si fa visibile a noi nella carne e nel sangue. «Io non venera la materia, rna io venero il Creatore della materia che per me e divenuto materia e ... che mi salvera per mezzo della materia». In Ge­su Cristo, in quanto ipostasi divina che ha assunto Ia natura umana, Dio e rap­presentabile.

E cosi le immagini si collocano sulla stessa logica dell'Incarnazione e re­surrezione gloriosa. Su queste premesse si sviluppo Ia spiritualita li turgica hi­zan tina e, in seguito, quella dell'Ortodossia russa, dove il culto delle icone e ancora oggi al centro della pratica liturgica e della devozione popolare.

9.7 La riforma carolingia. Era ancora vivo Maometto quando nacque Gio­vanni Damasceno e quando questi morl i maomettani avevano gia costituito un

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impero che andava dall'Indo ai Pirenei: il mondo era davvero cambiato. E in questo quadro politico che prende senso la Iotta di Bisanzio contro gli icono­clasti. Minacciato dal rigido monoteismo dell'oriente islamico, l'impero bizan­tino nel difendere il culto delle immagini difendeva se stesso dall'assorbimen­to culturale e nel contempo difendeva alcuni valori essenziali della tradizione greco-romana, cosi fedele, nonostante le sue metafisiche, aile ragioni del con­creto, cosi gelosa dei diritti dell'individuo e delle abitudini popolari. L'Islam aveva strappato all'area cristianizzata dell'impero romano il Mediodente e }'Africa del Nord, destinati l'uno e l'altra a far parte definitivamente della cul­tura araba e, in ultimo, la penisola iberica, che solo nel 1492 sara restituita in pieno alia cultura occidentale. Cos! accerchiato, l'impero bizantino non ebbe altra area di espansione che a nord, nel mondo slavo, nel quale infatti trovera in seguitu il suo epicentro. E cosi, a partire dal sec. VIII, la· cultura bizantina si trovo a fare da mediatrice tra l'occidente ormai germanizzato e l'oriente or­mai islamizzato: un compito che gli storici di oggi tendono a rivalutare.

A causa di questo immenso spostamento sismico, l'impero d'occidente cer­chera il suo centro di coesione nel nord-ovest, dove i Franchi, a partire dal ca­postipite dei carolingi, Pipino, avevano instaurato una monarchia saldamente alleata con la chiesa di Roma. Per la verita, l'impero d'occidente era gia finito nel sec. V, smembrato dalle popolazioni germaniche che in diverse ondate era­no entrate nei suoi confini, rna l'assenza di un imperium vero e proprio era compensata dalle prerogative imperiali che Bisanzio aveva delegato in parte al Papa di Roma. Quando, circondata dall'alluvione islamica, Bisanzio non fu piu in grado di offrire tutela al Papato, questi volse gli occhi alia monarchia dei Franchi e spezzo i vincoli residui con !'oriente.

Nasceva cosi, alia fine del sec. VIII, l'Europa, attorno ad un asse politico che andava da Roma alle regioni del Reno, dove aveva sede il re Carlomagno, coronato imperatore nell'800. ·

La renovatio imperii (costruita giuridicamente sulla pretesa che il Papa di Roma avesse ricevuto da Costantino la giurisdizione sull'occidente e che quin­di avesse titolo per trasmetterla) solo in parte fu vissuta e pensata come una continuazione dell'antico impero.

Le sue basi culturali erano nuove, costituite dalla fitta rete delle scuole cat­tedrali e monacali. Si trattava di fornire a questa miriade di centri formativi una ideologia unitaria. Fu merito di Carlomagno aver intuito questa necessita e avervi provveduto mediante la fondazione della Scuola palatina. E forse esa­gerato parlare di un 'rinascimento' carolingio, rna e certo che, come avverra in modo netto e fecondo nel sec. XV, anche nella corte di Carlo (nel palazzo, Pa[a.> tium, donde la denominazione della scuola) era viva la convinzione che non si trattava di continuare una tradizione come se niente si fosse interrotto dai tempi antichi, si trattava di mettersi, con coscienza distinta, dinanzi ai modelli dell'antichita classico-cristiana per ripeterli in un contesto nuovo. E quanto di­chiarera all'imperatore il monaco inglese, Alcuino di York, braccio destro del programma culturale di Carlo: «Se le vostre intenzioni vengono realizzate, puo sorgere in terra franca una nuova Atene, piu splendida dell'antica. Perche la nostra Atene, nobilitata dall'insegnamento di Cristo, superera la sapienza dell'Accademia». Inutile soggiungere che l'ambizione di Alcuino era ingenua.

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Egli non era solo, comunque, nell'impresa. Attorno a Carlo, variamente impe­gnati nel grande programma, si aggiravano gli uomini piu illustri dell'occiden­te, da Paolo Diacono, proveniente dall'Italia, ad Agobardo, profugo dalla Spa­gna, ai monaci della scuola di York da cui proveniva Alcuino.

Nato nel 735 in Inghilterra, Alcuino aveva conosciuto Carlomagno in Italia, a Parma, nel 781: l'anno dopo era alla corte di Aquisgrana per dar vita alla Scuola Palatina. Abile organizzatore, convoglio nel palazzo gli strumenti e l' esperienza della scuola di York, facendo di Aquisgrana non solo il centro di una larga rete di scuole rna anche un luogo di confronti e di dibattiti. Nel 793 si ritiro nel monastero di Tours, dove, come abate, organizzo una vivace attivi­ta cultu·rale e dove morira nell'804.

11 prima aspetto notevole della riforma palatina fu l'estensione della mede­sima legislazione scolastica a tutte le sedi vescovili e a tutti i monasteri. Nelle scuole monastiche era prevista anche la presenza di alunni non destinati al chiostro.

Possiamo distinguere, nell' ordinamento di Alcuino, tre livelli di studio: a) quello elementare, dove si apprende a leggere e a scrivere e ci si inizia ai rudi­menti del Iatino, alla Bibbia e alla liturgia; b) quello media che comporta lo studio delle arti liberali (il trivio e il quadrivio) e la lettura di alcuni autori pagani e cristiani; c) quello superiore, che consiste nella studio della Sacra Scrittura.

Fino al secolo X Ia riforma carolingia ha funzionato, promuovendo la lenta formazione di quella che sara la coscienza della cristianita nei suoi secoli d'oro, i primi del secondo millennia.

9.8 Giovanni Scoto Eriugena. Sulla moltitudine degli esecutori della riforma di Alcuino emerge solitario uno scozzese, Giovanni Scoto Eriugena, nato in Ir­landa (Hibernia, Scottia, Eriu: da qui il pleonasmo, Scoto Eriugena) e chiama­to nell'846/7 alia Scuola Palatina dall'imperatore Carlo il Calvo, alla cui prote­zione si deve se usd indenne dalle accuse di eresia. La sua singolarita non fu solo di val ore rna anche di formazione: conosceva il greco ( dopo di lui ness uno lo parlera piu in occidente fino al sec. XIII) tanto da pater tradurre in Iatino Dionigi l'Areopagita e Gregorio di Nissa. Era come un Padre greco sperduto in occidente. E della patristica- vien fatto di pensare ad Origene- aveva eredi­tato il gusto e l'ardimento delle grandi sintesi sistematiche. La sua opera prin­cipale, De divisione naturae, e appunto una descrizione sistematica dell'univer­so, a partire dall'intuizione del suo duplice movimento, discendente ed ascen­den~e, il cui punta di partenza e di arrivo e Dio. Filosofia e teologia si intrec­cialio nel disegnare il quadro dinamico dell'universo e si intrecciano in modo che tocchi alia fede, com'e nell 'insegnamento dei Padri. aprire i1 varco all ave­ra conoscenza. Ma, ed ecco una prima novit:a dell'Eriugena, la Scrittura e la natura sono due libri in cui si manifesta la stessa verit:a eterna, con perfetta consonanza. Tocca alia ragione leggere la natura e quanta alia Scrittura, tra i molti sensi che hanna le sue pagine, bisogna pure scegliere: scegliere e ancora ragionare! C'e, si, l'autorita che compete ai Padri della chiesa che offrono la retta interpretazione della Scrittura, rna tra le molte autorita bisogna ancora una volta scegliere, cioe ragionare.

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Forte di questa metoda Scoto Eriugena percorre il movimento di discesa e di ascesa dell'universo, distinguendo Ia natura in quattro 'specie'.

1. La natura che crea e non e creata, cioe Dio, che e insieme Essere e non­Essere in quanta, come insegnava il suo maestro Dionigi, Egli e al di Ia delle categoric. Per esprimere questa 'aldila', Scoto usa il termine Iatino super: Dio e superessenziale. La 'teologia negativa' viene sviluppata, per un verso (Scoto giunge a dire che Dio non sa nemmeno che cosa Egli sia perche egli none nes­suna cosa, nessun quid, e non-essere), e per:A'altro viene corretta, nel senso che secondo I'Eriugena gli attributi con cui si designano le creature (buono, giu­sto, bello) possono essere usati per parlare della natura di Dio, a condizione che siano elevati al massimo del !oro significato, applicando !oro, appunto, il suffisso super.

2. La natura che e creata e che crea, e cioe le cause primordiali, gli archeti­pi, coeterni a Dio perche creati da tutta l'eternita rna non coessenziali a lui (come invece e i1 Logos, i1 Verbo) perche inferiori a Lui in quanta da lui creati.

3. La natura che e creata e che non crea, cioe l'insieme delle creature, visi­bili o invisibili, la cui distribuzione gerarchica, dagli angeli alia materia, e una differenziata 'teofania', cioe manifestazione di Dio.

4. La natura che ne crea ne e creata e cioe Dio stesso in quanta e punta di arrivo della divinizzazione, che si raggiunge o per conoscenza o per amore (gnosis e agape) a condizione pero che all'umana ascesi venga incontro la grazia.

Troppo lungo sarebbe qui mostrare i punti deboli di questa sugg:estiva cir­colarita dell'universo, come ad esempio quello della divinizzazione, che sem­bra introdurre nel dogma cristiano il panteismo, o quello del male, identifica­to da Scoto col puro non essere, per cui non puo rientrare nel suo sistema la dottrina cristiano della dannazione. Di secolo in secolo si rinnoveranno contra di lui le accuse di eresia. Ci basti aver registrato sommariamente questa 'mira­colo' culturale in cui, proprio mentre l'occidente intraprende con fatica il suo cor so separate, la grande corrente metafisica che va da PI atone a Dionigi I 'Areopagita ritorna alla luce (per poi subito nascondersi per altri quattro se­coli) per merito di questa solitario pensatore della lantana Irlanda.

L'Islam aile sue origini

9.9 Maometto e il Corano. Nel corso del sec. VII-t-1 panorama religioso, cultu­rale e politico dell'umanita ebbe un rapido cambiamento che modifico per sempre gli equilibri della storia, anche della storia del pensiero. Agli inizi del secolo il 'mondo civilizzato', e cioe il mondo erede dell'ecumene ellenistica, era sotto l' egemonia di due blocchi imperiali in Iotta tra !oro: quello roma­no-bizantino e quello persiano (tav. 8). L'energia del cambiamento esplose oltre i confini meridionali dei due imperi, in quell'immenso subcontinente desertico che e la penisola arabica. Solo nella sua punta meridionale, lo Yemen, un avamposto ·tra l' Africa e l' oceano indiana, le sorgenti d' acqua e il regime dei venti monsonici avevano reso possibile uno sviluppo di vita civile di alto live!-

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lo, Da qui partivano le carovane di cammelli, veri signori del deserto, dirette verso la Palestina e Ia Siria. Soste obbligate delle carovane, insidiate dalle tri­bu nomadi dei beduini, erano sopratutto due citta costiere: La Mecca e Medi­na. La Mecca era gia una citta sacra, perche la sua vita si svolgeva attorno ad un tempio di forma cubica (Kaaba) dove insieme a molti idoli era venerata una 'pietra nera' (portata ad Abramo dall'arcangelo Gabriele, si disse in seguito). Qui si davano convegno i mercanti nelle scadenze festive: i pellegrinag­gi-mercato alimentavano l'economia della citta. Ma piu che citta vere e proprie La Mecca e Medina erano aggregazioni di tribu ancora chiuse nelle lora tradi­zioni politeistiche e nei !oro feroci antagonismi: il passo dalla cultura tribale a quella cittadina non era stato ancora compiuto. Culturalmente esse vivevano dei riflessi dei due grandi imperi del nord, da cui portavano notizie e costumi (ad esempio l'uso del cavallo) i mercanti e i mercenari al soldo dei due eserciti in guerra tra lora. La cultura del nord era d'altronde rappresentata da un for­te insediamento di ebrei, specie a Medina, e di cristiani, disseminati lungo Ia costa. Le due religioni monoteistiche (Ia 'Gente del libra') godevano di malta prestigio perche offrivano, specie il cristianesimo, que! modello universalistico di cui l'anarchia delle tribu, alla ricerca di forme di unificazione o di federa­zione tattica, rendeva sempre piu acuto i1 bisogno.

E in questa quadro che avvenne l'episodio che avrebbe cambiato il mondo. Un mercante quarantenne, Muhammad (Maometto), durante un suo ritiro nei pressi della Mecca, udl. Ia voce di Dio (Allah) o meglio del suo Arcangelo Ga­briele, una voce che gli imponeva Ia recitazione (Qu'ran, Carano) del suo mes­saggio. Cosl. nasceva I' I slam, che vuol dire, in sen so oggettivo, Ia 'vera religio­ne', in sensa soggettivo, 'abbandono cosciente a Dio'. Chi vive l'abbandono a Dio e un muslim, un musulmano.

Il successo di Maometto non fu immediato. Per dodici anni pochi furono quelli che lo presero sui serio. I suoi concittadini consideravano Ia sua predi­cazione una minaccia per l'egemonia del politeismo, il cui fulcra era Ia pratica dei pellegrinaggi alia Kaaba e il cui riscontro economico-politico era il potere nelle mani di un grupo di notabili.

Per sottrarsi alle persecuzioni Maometto, con una settantina di seguaci, emigro nel 622 (l'anno dell'Egira, che vuol dire appunto emigrazione), a Medi­na. Fu a Medina che Ia sparuto gruppo divenne una comunita (umma) consi­stente, tanto che dopa otto anni, nel 630, con una specie di pellegrinaggio­marcia, Maometto pate rientrare alla Mecca senza incontrare una seria resi­stenza. L'unificazione della penisola era cosl avviata. Maometto muore nel 632. Gli succede quale suo luogotenente (Califfo) il suocero Abu Bakr. II secondo Ca­litfo, Utman, (644-656) organizza la raccolta delle rivelazioni avute da Maomet­to, che erano state frammentariamente trascritte in materiali d'occasione o conservate a memoria. Nasce cosi il Carano.

Nel frattempo l'entusiasmo religioso si era gia trasformato in impeto di conquista: nel 638 gli arabi avevano gia occupato l'impero persiano e sottratto a Bisanzio Ia Palestina e Ia Siria. Nel 642 occupavano I'Egitto. Quando nel 732 furono arrestati da Carlo Martello, in Francia, a Poitiers, avevano gia occupa­to la penisola iberica e !'Africa settentrionale fin quasi ai Tropici e ad oriente le lora punte avanzate avevano gia intrapreso offensive contra gli Indiani e i

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Cinesi. Tra gli aspetti piu sconcertanti di simile espansione e che, con la con­quista e la conversione al messaggio di Maometto, la Palestina, la Siria, l'Egit­to e l'Africa.settentrionale- e cioe un huon terzo dell'antica respublica roma­na, proprio quel terzo che per primo era stato evangelizzato- entrarono a far parte per sempre di una diversa storia sia politica che culturale (tav. 8).

Questa diversita fu sentita, per tutto il medioevo, come un incubo e iii af­frontata per lo piu come si affronta cio che non si riesce a condurre nella pro­pria comprensione razionale: come il Male, ·come !'Errore, come l'impero di Satana. Due effetti di questa 'rimozione' sono avvertibili ancora oggi nella cul­tura laica. II primo e la sbrigativa identificazione tra cio che e arabo e cio che e islamico. In realta, gli arabi furono il gruppo etnico che forni ad altri popoli la religione e la lingua, rna l'Islam abbraccia in se culture diverse con radici del tutto autonome e spesso anteriori (si pensi al caso dell'Iran) all'influenza araba. II secondo e che per l'occidente i 'filosofi arabi' sono quelli che hanno accettato l'eredita platonico-arastotelica, si sono, per cosi dire, occidentalizzat1, entrando, come Avicenna o Averroe, a far parte della stessa tradizione cultura­le europea. Anche se dovremo in larga misura adattarci a questa ottica euro­centrica, e bene tener presente che essa commette ingiustizia nei confronti di una storia teologica e filosofica tanto piu vasta e ricca di sviluppi diversissimi tra loro. lnsomma, dovremmo dire filosofia islamica e non filosofia araba; e dovremmo dare spazio a molti pensatori che, ignoti in occidente, nella consi­derazione dell'Islam sono di primaria importanza.

9.10 II messaggio deli'Islam. None giusto, come si e fatto per lo piu, spie­gare la rapida diffusione dell'Islam con ragioni prevalentemente militari e tan­to meno col vantaggio che avrebbe una religione arrendevole alla voce dell'istinto in confronto alle altre religioni rivelate, come il cristianesimo o l'ebraismo, cosi rigorose nelle loro esigenze morali. ·

L'Islam non e affatto, nel suo nucleo essenziale, una superstizione. Si po­trebbe dire anzi che esso e la piu filosofica delle religioni rivelate, perche, se si eccettua quello della resurrezione dei corpi, desunto dal cristianesimo, l'Islam non ha dogmi ne misteri soprannaturali. Ha una sola verita, che e l'esi­stenza di un Dio unico, trascendente, creatore del cielo e della terra, ugual­mente misericordioso con tutti gli uomini senza distinzione di razza e di cultu­ra. Egli ha stabilito, in Adamo, un 'patto primordiale' con tutti gli uomini, un patto nel quale egli promette la resurrezione a tutti quelli che hanno fede in Lui. Ogni uomo nasce dentro quel patto, e percio, si potrebbe dire, nasce mu-

Tav. 8 - L'espansione dell'Islam resta, per la sua rapidita e la sua estensione, uno dei fenomeni piu grandiosi della storia: in un secolo, la fa­scia che va dall'lndo all'Atlantico entra sotto il segno della mezzaluna. Per tre o quattro secoli fu questa ['area geografica della civilta piu florida, che tra l'altro elaboro e trasmise all'Occidente cristiano l'eredita dell'antica Grecia, anche di quella filosofica. --

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IZ':SJ sotto Maometto (fino al 632)

- sotto Abu Bakr (fino al 634)

- sotto Omar e i califfi omayyadi (fino al 656)

n sotto i califfi omayyadi (fino al 733)

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SLAV I

FARGHANAH

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324 0 '! · L'Jslam aile sue origini ~------------------------------------------------

sulmano: sono i genituri a farne un pagano u un ebreo u un cristiano. Proprio per ristabilire nella sua purezza questo patto originale Diu ha suscitato in ogni popolo e nazione dei profeti, come Muse e come Gesu Cristo: gli ebrei e i cri­stiani, se hanno fede nel !oro profeta, vivono !'Islam. Maometto non e contra di !oro, e soltantu dopo di !oro, 'sigillo dei profeti', ultima e definitiva voce che su dettatura di Dio ha manifestato per tutte le genti Ia vera religione. II Cora­no e, per i musulmani, il Libro di Dio in senso proprio. Si potrebbe dire che come per i cristiani Gesu e l'incarnazione del Verbo, per i musulmani l'incar­nazione del Verbo di Diu e il Corano.

Un messaggio cosi semplificato passo come un vento Iiberatore sulle reli­gioni preesistenti, compreso, in larga misura, il cristianesimo, o chiuse nell'an­gustia delle superstiziuni o irri~idite nelle complicate teologie divenute mono­polio di caste sacerdotali. L'lslam non ha ne clero, ne chiesa, ne templi, ne sa­crilici, anche se ha alcune regole di compurtamento pratico, sia in ambito reli­gioso, sia in ambito civile. Ma si tratta di regole semplici, che possono benissi­mo adattarsi alle culture piu diverse. Sono i 'cinque pilastri': Ia testimonianza della fede espressa nella formula «Don c'e altro Dio che Dio e Maometto e il suo profeta»; Ia preghiera rituale cinque volte al giorno; il digiuno di un mese all'anno (Ramadan); il pagamento della decima che assicura il mantenimento dei poveri e degli orfani; il pellegrinag:g:io annuale alia Mecca. Dal Marocco all 'Indonesia, Ia umma (com unit a) islamica si riconosce da questi medesimi segni.

Questa uni ta nella tede e nella pratica trova il suo sostegno nel carattere proprio della 'citta' musulmana che e teocratica, Iaica, egalitaria. :E teocratica in quanto Ia Parola del Corano e Ia sua unica costituzione: il califfo non ha al­tro potere che quello di farla rispettare. E laica perche, come si e detto, non ha nessuna gerarchia religiosa, anzi non ha nemmeno un clero vero e proprio. E egalitaria nel senso che ogni musulmano e uguale agli altri, agli occhi della Iegge.

Nonostante questa sua rigida compagine di certezze, )'Islam, salvo che nel­la nazione araba, non si e imposto normalmente con Ia forza, nei paesi in cui si e diffuso. I popoli assoggettati potevano continuare l'esercizio della !oro re­ligione obbligandosi al pagamento di una tassa. Simile tolleranza -- molto maggiore di quella esercitata allora dall'impero e dai regni cristiani contro i pagani o contro gli eretici -- spiega perche !'Islam sia riuscito ad assorbire le culture preesistenti, al punto che in poco tempo da religione nata da un mani­polo di ex-beduini, esso divenne una civilta di altissimo livello: l'impero caro­lingio al confronto era una congerie di paesi barbari. Nessuna citta medioeva­le pareggiava in splendore di opere ed in tens ita di.- produzioni cui turali ci tta islamiche come Damasco, Bagdad o Cordova.

9.11 Le sorgenti del pensiero islamico. II pensiero islamico, che ebbe Ia sua massima fioritura nei primi secoli dell'Egira, corrispondenti al nostro Alto Medioevo, si alimento a sorgenti di due ordini: quelle interne, che costituisco­no il patrirnonio della rivelazione coranica e quelle esterne, e cioe gli apporti delle culture che, ad oriente e ad occidente, lo avevano preceduto.

La frontiera permanente della ricerca filosofica, che e Ia linea di contatto

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tra il relativo e l'assoluto, tra il provvisorio e l'eterno, tra l'uomo e Dio, per la coscienza islamica si concretizza nei testi sacri nei quali il divino ha preso for­rna di parola umana.

Questa vale in modo assoluto peril Carano, che in 14 capitoli (Sure) riporta tutto cio che Dio ha comunicato a Maometto nei 23 anni della sua missione di Annuncia tore.

La tradizione profetica, fissata in alcuni testi (le hadith) dopo che !'Islam si diffuse oltre la penisola Araba raccoglie le parole e i fatti del Profeta cosi co­me si erano conservati nella memoria dei suoi primi seguaci.

E su questi testi che si e aperta quasi subito nell'Islam una disputa destina­ta a rimaner viva fino ad oggi.

Si dicono sunniti i musulmani che fondano la !oro fede solo sui Carano, sulla tradizione e sulle decisioni concordi dei primi Califfi: Una setta islamica di cui direrno tra poco, gli sciiti, aggiunge aile due fonti comuni a tutto !'Islam Ia tradizione degli imam, e cioe di alcune guide spirituali in cui ha trovato ve­ra continuita Ia missione del Sigillo dei Profeti.

Pili difficile e naturalmente determinare quali siano stati gli apporti delle culture preislamiche. Bisognerebbe cominciare dai libri sacri del giudaismo e del cristianesimo, dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, che, se non diretta­mente, almena indirettamente, cioe tramite trasmissioni orali, sono entrati a far parte, sia pure con gravi travisamenti, della stesso Carano. Gesu ad esem­pio e per il Carano il piu grande dei profeti prima di Maometto e sara il giudi­ce universale alia fine del mondo. Non e vero che e morto sulla croce: fu diret­tarnente elevato al cielo da Dio. Agli ebrei Maometto ricordava che anche gli arabi discendono da Abramo. In un prima tempo durante Ia preghiera rituale i musulmani dovevano inchinarsi in direzione di Gerusalemme. Molte prescri­zioni legalistiche del Carano sono chiaramente derivate dalla Bibbia. Questa rapporto privilegiato con le 'genti del Libra', e in ispecie con i cristiani, l'Islam lo manifesto fin dal momento in cui, occupata Damasco, allora Ia piu splendida citta dell'oriente, gli arabi garantirono ai cristiani l'uso di 15 chiese e l'esercizio del culto. Si narra di mussulmani che su questioni religiose anda­vano a consultare gli eremiti cristiani della Siria. Ma la crescita e l'irradiazio­ne culturale dell'Islam sono dipese da altri innesti. Ad uno di questi si deve il grandioso periplo che condurra l'eredita filosofica platonico-aristotelica da Atene a Bagdad da Bagdad a Toledo, da Toledo a Parigi. Fermiamoci per ora sui due focolai in cui ebbe inizio l'assimilazione islamica del pensiero greco.

Quando nel 489 l'imperatore Zenone chiuse Ia scuola filosofica di Edessa, in Siria, a causa delle tendenze ereticali (nestoriane) che vi dominavano, mae­stri ed alunni si trasferirono a Nisibe, in Mesopotamia, dove fondarono una scuola di teologia e filosofia. Sempre nella Persia, a Gandisapora, l'imperatore Cosroe fondo un'altra scuola, i cui maestri furono anch'essi importati dalla Si­ria. Fu lo stesso imperatore ad accogliere sette filosofi greci, diventati esuli quando, nel 529, Giustiniano chiuse la scuola di Atene (8.7). In questa diaspo­ra greco-siriaca, che aveva un altro epicentro ad Antiochia, fu avviata un'im­mensa opera di traduzione di opere greche in siriaco, una lingua semi tica affi­ne all'arabo. Quando l'Islam arrivo in Siria, in Mesopotamia e in Persia trovo un ambiente culturalmente vivo che aveva gia preparato le condizioni per un

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incontro tra la nuova fede e il pensiero ellenico. Infatti il patrimonio filosofico della Grecia era stato filtrato da un criteria selettivo di carattere prevalente­mente religioso e con scarsa fedelta filologica. A cio si deve, ad esempio, una lettura di Aristotele secondo canoni neoplatonici, come quella documentata dalla Teologia, attribuita al filosofo di Stagira rna che in verita non e che un estratto delle Enneadi di Plotino. Accanto a quello religioso !'interesse domi­nante era quello scientifico: a Nisibe, ad esempio, si studiavano Ippocrate e Galena.

Quando con Ia dinastia degli Abassidi Ia capitale islamica si sposto da Da­masco a Bagdad (750) i califfi incentivarono il fervore dei focolai greco-siriaci. II califfo al-Mamun fonda, nell'-832, la 'Casa della saggezza' una vera officina di traduzioni che tocco il suo culmine sotto la direzione di Honayn (809-873), la cui passione per il recupero degli antichi testi fa pensare a certi umanisti italiani del Quattrocento. Per cercare un testo di Galena egli viaggio in Mesopota­mia, in Palestina, in Egitto. Lo trovo, rna solo una meta, a Damasco. Le tradu­zioni venivano fatte o dal siriaco o direttamente dal greco rna sempre con la preoccupazione della massima fedelta filologica, senza venir meno aile regale dell' eloquenza.

E cosi, con un anticipo di secoli sulla cristianita latina, i musulmani po­tranno leggere in arabo, gia nel secolo IX, l'intera opera di Aristotele (eccetto la Politica) e del suo commentatore Alessandro di Afrodisia, i dialoghi di Plato­ne e le opere scientifiche di Euclide, di Tolomeo e di Galena.

9.12 II pensiero religioso dell'Islam: le tendenze essoteriche. Per una com­prensione non eurocentrica della grande meditazione filosofica svoltasi nell'Islam bisogna, come si e detto, liberarsi dagli schemi storiografici in uso nei manuali. La linea che ha prevalso in occidente e quella che, a partire da una determinazione del conoscere razionale come processo autonomo, tiene di­stinti l'uno dall'altro ]'ambito filosofico e quello teologico, dato che, in :JUest'ultimo, le certezze di fondo si hanno per fede e non per dimostrazione. Solo che si sono date e si danno nella storia riflessioni di matrice religiosa nel­le quali, a dispetto delle forme sacre, la ragione usa in pieno delle proprie ri­sorse tracciando a se stessa spazi di liberta e metodi di procedimento che rien­trano a pieno titolo nella giurisdizione della filosofia.

Prima di parlare dei 'filosofi arabi' che hanno sempre avuto cittadinanza nelle nostre storie della filosofia, e bene rendersi conto, sia pure sommaria­mente, delle grandi correnti di pensiero che, nell'Islam, han preso forma nei primi secoli dell'Egira e che sono da considerarsi il contesto organico di quei filosofi. Potremmo distinguerle in due gruppi: le essoteriche, che, secondo l'or­todossia sunnita, partono da una accettazione del Carano e della tradizione profetica cosi come si e codificata nei testi sacri; le esoteriche, che si riferisco­no alia medesima rivelazione rna per rendere assoluto solo cio che sta al di Ia delle sue forme concrete, il nucleo ineffabile, eterno, universale che quelle forme nascondono.

I movimenti religiosi nell'Islam, in mancanza di un ceto ecclesiastico che ne sorvegli e ne garantisca l'ortodossia, si affermano e si dissolvono con un'al­ternanza di egemonie relativamente libera. Tra i movimenti essoterici ebbe lar-

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ga e rapida diffusione quello dei mutaziliti (i secessionisti, e cioe i separati dal­la maggioranza circa Ia questione se il peccatore vada considerato ancora un credente, membra della comunita o invece un infedele), nato a Bassora, in prossimita del Golfo Persico, nel sec. VIII, e divenuto ben presto Ia vera teolo­gia della corte di Bagdad. Al centro della dottrina mutazilita c'e l'unita di Dio rigorosamente intesa e cioe con esclusione di ogni attributo tratto dalle crea­ture e con l'accentuazione dell'arbitrio divino, non soggetto, nel suo atto crea­tivo, a nessun archetipo eterno. Di fronte all' onnipotenza divina stanno la li­berta e la responsabilita dell'uomo: Ia salvezza deriva, si, dalla grazia di Dio, ma senza deroghe alia giustizia. Solo mettendo in prima piano la giustizia di Dio si da fondamento alla responsabilita dell'uomo nelle proprie scelte, che dovranno uniformarsi con liberta aile leggi della giustizia. E cosi, accanto alla distinzione tra credente e non credente prende piede Ia distinzione tra pecca­tore e non peccatore. La morale del mutazilismo ha il suo culmine nella dottri­na dell'armonia: l'azione veramente giusta e quella che mira alia crescita e al­Ia pace della comunita, perche solo nell'armonia dell'insieme l'individuo trova assicurate le condizioni del proprio sviluppo. Come si vede, l'intento dei muta­ziliti era di mettere in equilibria l'assolutezza della fede con ·le esigenze della ragione: in quanta e giusto, Dio vuole il bene perche e il bene (mentre il fidei­smo islamico sosteneva che il bene e bene a partire da una decisione di Dioj e in quanta e la verita, cio che e vera per l'uomo e vera anche per lui e vicever­sa. Non solo, ma le rivelazioni dei profeti vanno sottoposte al vaglio della ra­gione, alia quale tocca determinare quello che puo essere accolto e quel che deve essere rigettato. Quella dei mutaziliti fu, nell'VIII e IX secolo, l'espressio­ne dominante del kalam: termine che di per se vuol dire 'parola' ma che stori­camente indica Ia teologia e cioe l'applicazione della dialettica umana alia pa­rola di Dio.

In reazione a questa 'razionalismo' nacquero, nel sec. X, gli ashariti, detti cosi dal lora prima maestro al-Ashari (873-935) cresciuto nelle dottrine mutazi­lite fino ache, all' eta di quarant'anni, non ruppe clamorosamente con esse in una forma e con delle ragioni che ricordano Ia rottura di Lu tero con Ia chiesa cattolica. L'asharismo si oppone, come il mutazilismo, alia fedelta letterale ai testi sacri, ma si oppone- ed e qui la sua novita- anche all'eccessiva fiducia nella ragione e nelle risorse etiche dell'uomo. I 'letteralisti' (quelli che si fer­mana alla lettera dei testi sacri) rendono vana la ragione, e sbagliano, ma sba­gliano anche i mutaziliti che rendono vana la fede religiosa: ecco quanta affer­mano gli ashariti. L'asharismo, in risposta ai due estremismi, ha tentato di de­limitare Ia sfera dell'autonomia della ragione e di quella della fede. Ci sono, si, verita in comune tra ragione e fede (ad esempio l'esistenza di Dio) ma questa coincidenza materiale non annulla Ia diversita formale delle due conoscenze. Una tesi asharita in cui appare evidente il rapporto tra fede e ragione e quella relativa alla creazione. Il mondo e costituito da particelle indivisibili (dottrina derivata dall 'atomismo) perche se le particelle fossero di per se divisibili ail o­ra le moditicazioni del mondo si potrebbero spiegare senza ricorso ad un prin­cipia trascendente. Se invece sono indivisibili, le determinazioni individuali dei lora aggregati essendo accidentali, senza cause in se stesse, non si spiega­no senza il ricorso ad un principia supremo ad esse estraneo. L'intervento

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creativo non e avvenuto soltanto agli inizi del mondo, avviene in ogni istante. La continuita delle cose e dei loro processi di cambiamento presuppone la creazione continua.

9.13 II pensiero religioso dell'Islam: le tendenze esoteriche. Nel sec. XI gli ashariti avevano soppiantato i mutaziliti nell'egemonia teologica sull'Islam. Sono sempre rimaste invece minoritarie le correnti esuteriche, proprio perche esse introducono nell' egalitarismo dell' Islam un principia di sua natura aristo­cratico, lo stesso principia che nel cristianesimo dei primi secoli dette luogo aile eresie gnostiche o anche semplicemente alia gnosi ortodossa di Alessan­dria (7.22;8.9).

Gli sciiti (shia = gruppo di adepti) sono nati dal gruppo che, alia morte di Maometto, riconobbe quale capo della umma suo cugino e genera, Ali (invece che l'effettivo califfo Abu-Bakr). Figura tipica degli sciiti e !'imam (il prima, colui che sta davanti; appellativo che per lungo tempo era quello del califfo) cioe la guida spirituale della comunita, da tener distinta dalla guida del calif­fa. Lo sciismo si e diversificato in vari rami di cui non e il caso qui di render canto. I diversi rami hanna un comun denominatore dottrinale che puo essere ridotto a due punti essenziali.

II prima riguarda il valore da dare alia rivelazione e alia tradizione: per gli sciiti il vero sensa della 'lettera' della dvelazione e nel suo significato spiritua­le, che non puo essere compreso per via di ragionamenti e di commenti del ti­po di quelli del kalam, rna per via di una iniziazione che apra l'accesso all'ere­dita spirituale trasmessa dagli imam. Ed e qui, nel ruolo dell'imam, l'altra tlif­ferenza specifica della sciismo. Una cosa e il profeta, una cosa e l'imam. L'uno e l'altro sono 'amici di Dio' rna mentre il profeta (e in specie Maometto, ultimo dei profeti) ha il compito di rivelare Ia profezia, l'imam ha il compito di guida­re i fedeli alia comprensione del significato segreto della profezia che solo lui possiede. L'imam succede a! profeta, e ne continua !'opera non perche aggiun­ga nuove profezie rna perche, in base alia sua particolare amicizia con Dio, pe­netra nel senso nascosto della profezia e lo comunica a quei fedeli che hanno nei suoi confronti totale docilita di cuore e d'intelletto.

L'ortodossia degli sciiti non e mai stata messa in dubbio perche nella loro dottrina la polarita verso l'esperienza interiore della fede si e tenuta piu 0 me­no in equilibria con l'opposta polarita verso i dati letterali della rivelazione. Questo equilibria e piuttosto un ideale che una realta: in tutte le correnti ha sempre avuto peso preponderante Ia tendenza esoterica.

Particolarmente fecondo e stato l'esoterismo dei sufi (dal bianco mantello di lana, in arabo suf, che indossavano, alia stregua dei monaci cristiani), nati anche !oro nel sec. VIII. Vivevano una vita eremitica e comunque non legata alle regole della societa, nella ricerca di un'esperienza spirituale che li portas­se al di Ia della barriera della Iegge promulgata da Maometto: insomma la stessa esperienza del Profeta di un contatto immediato con Dio. Si capisce co­me i sufi abbiano dovuto subire persecuzione da parte degli ambienti fedeli al­Ia sunna che sospettavano nei loro slanci mistici una specie di energia sovver­siva, in quanto essi finivano col gettare nel relativo anche il Profeta e la sua Legge. L'esperienza dell'unione con Dio propria del sufismo arriva spesso a

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sopprimere il divario tra l'assoluto e il contingente, tra l'eterno e il relativo, tra Ia creatura e il creature: il contemplativo arriva fino ad identificarsi con Dio. «Sia lode a me! La mia intercessione e piu grande eli quella eli Maometto», «Per il perfetto amante Ia preghiera diviene empieta>>, «L'intero Corano e sem­plicemente politeismo»: ecco alcune espressioni eli questi ebbri eli Dio che nel raptus contemplativo non solo riproducevano in se l 'esperienza del Profeta rna arrivavano fino ad identiticarsi con Allah. Questa suprema combustione della dualita era pero al tennine eli un'ascensione le cui tappe decisive erano quella etica, nella quale l'obbedienza alia Iegge conduce fino all'identificazione col Legislature; quella ascetica, che conduce alia percezione diretta eel inebriante dello stesso amore con cui Diu ama le creature e iinalmente quella ontologica, in cui si intuisce che tutto e Dio, non nel sensu del panteismo ma nel senso che tutte le cose diventano luoghi della manifestazione eli Dio, il quale pero, considerato in se, resta infinitamente lontano dai luoghi del suo manifestarsi. La passione mistica trascinava i sufi a] eli Ia del terreno della rigida disciplina della societa islamica e ne faceva degli irregolari da emarginare se non da re­primere. Eccelle tra eli essi Al-Hallaj, che venne mutilato e decapitato a Bag­dad nel 922. Dice qualcosa il fatto che AI Hallaj (come del resto l'altro grande sufi, Abud Yazid Bastami) era nipote eli uno zoroastriano. Il sufismo non e in­fatti un prodotto puro dell'Islam, e il risultato straordinario della convergenza eli molteplici tradizioni religiose nel centro focale della fede islamica, come il neoplatonismo dei greci, il monachesimo dei cristiani siriaci, e soprattutto la religiosita gnostica, che era come il sottosuolo spirituale dell'Iran, in stretto contatto con le grandi tradizioni induiste e buddiste, specie quelle della scuola Yoga.

India e Cina dal VI al IX secolo d.C.

9.14 le scuole brahmaniche: Vaisesika e Nyaya. Sappiamo gia che non rispon­de al vero l'immagine convenzionale che si ha del pensiero indiano, tutto as­sorbito nella intuizione mistica che segna le sue origini e incapace eli contene­re Ia ragione nella sfera spazio-temporale che le e propria (8.20). La scuola Sankhya e, a suo modo, una forma indiana eli ateismo o quanto meno eli totale disinteresse per ·le questioni religiose. E cosi potremmo dire eli un'altra scuo­la, anch'essa eli origine immemorabile ma giunta a compiutezza eli formulazio­ni con Prasastapada, attorno al V-Vl secolo della nostra era: il Vaisesika, il cui leggendario fondatore e Kanada, autore dei Vaisesika-sutra. Nelle tradizioni scolastiche indiane la dottrina del Vaisesika fa corpo con quelle eli un'altra scuola, il Nyaya, i cui sutra, anch'essi eli remota origine, furono commentati nel V secolo da Vatsyayana. Schematizzando, potremmo dire che le due dottri­ne stanno tra loro come la fisica sta alia logica.

Nella dottrina Vaisesika, alia base del ragionamento c'e l'esperienza sensi­bile, secondo la quale l'esistenza del mondo esterno e immediata e innegabile.

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Con singolare parallelismo con quanta avevano insegnato Democrito ed Epicu­ro, il Vaisesika riconduce i carpi a degli elementi infinitesimali che non posso­no essere ulteriormente analizzati, i paramanus, e cioe gli atomi, con questo di proprio, che non sono infinitamente piccoli, sono addirittura senza grandezza come il punto matematico. E come tali sono indistruttibili, eterni e di numero infinito. A dispetto di questa lora natura astratta, gli atomi danno luogo, con le loro innumerevoli associazioni, alle sostanze corporee. E com'e possibile che degli atomi inestesi diano luogo a corpi estesi? E che nel Ioro aggregarsi gli atomi restano separati da un vuoto interstiziale, un po' come lo spazio che nella nostra fisica atomica separa gli elementi costitutivi dell'atomo, quali il protone e l'elettrone. I corpi fondamentali a cui gli atomi danno luogo sono la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria, solo che, a differenza di quanta insegna l'atomi­smo greco, la diversita qualitativa dei carpi, anche di quelli elementari, non nasce da variazioni quantitative, e dovuta al fatto che gli atomi - e quanto in occidente aveva insegnato Anassagora (2.20-21) - sono qualitativamente diver­si: ignei, acquei ecc. La nascita e la morte riguardano gli aggregati, non gli atomi in se che rimangono immutabili e che, alla fine di ogni ciclo cosmico, si ritrovano nella loro disaggregazione originaria.

Quando il Vaisesika passa dalla fisica alla psicologia, da materialista diven­ta spiritualista. In opposizione al mondo degli atomi sta infatti l' atman, cosl. come l'avevano definito le Upanishad. L'atman e anch'esso attestato dall'espe­rienza, non certo esterna rna interna. Le anime sono infinite di numero rna lo sono anche per estensione o meglio per onnipresenza, data che ognuna di esse e virtualmente in rapporto con tutte le cose. Solo che l'anima di cui qui si par­la non va confusa con l'anima individuate a cui noi alludiamo quando ci rife­riamo a quel centro psicologico detto io: questo non e che il concentrato psi­chico dell'esperienza cosl. com'e presente nella mente (manas) individuale. Mentre l'anima, l'atman, e, come si e detto, onnipresente, il manas, l'io empiri­co, ha l'orizzonte degli oggetti che sono alla sua portata: esso none dunque il vero io (il vera io e 1 'anima), ne e piuttosto lo strumento.

I due mondi stanno l'uno di fronte all'altro, ciascuno completo in se stesso. La confusione tra i due mondi, prodotta dalla pratica del vivere, determina la necessita della reincarnazione. La salvezza si puo raggiungere solo attraverso la discriminazione tra l'ordine spirituale e quello materiale:

Quando un uomo ha saputo distinguere !'anima dal corpo le nozioni fal­se scompaiono come scompaiono i vizi e con essi cessa l'attivita; con l'attivi­ta cessa la nascita, e con Ia cessazione· della nascita si produce I:abolizione completa del dolore, abolizione che e la beatitudine finale.

La dottrina Nyaya si intreccia a quella Vaisesika proprio come perfetto strumento logico per provvedere a questa discriminazione. Essa infatti non e che un complesso Organon in cui sono fissate le regole del retto ragionamento che permette di distinguere la conoscenza vera da quella fallace. Tali regale ri­guardano quattro momenti: l'osservazione, l'inferenza, la comparazione assi­milatrice e la parola autorizzata (come dire l'argomento di autorita).

Non possiamo entrare nei meandri di questo complesso formalismo logico;

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basti dire che vi ha particolare importanza la descrizione del sillogismo, abba­stanza simile a quella fornita da Aristotele.

Come nella coppia Samkhya e Yoga il secondo rappresentava l'altemativa reli­giosa di una dottrina per altri versi comune (8.20), cosi il Nyaya corregge il rigi­do scientismo del Vaisesika identificando con Dio la causa efficiente dell'uni­verso e con la sua provvidenza il corso delle cose. Nella tradizione Nyaya mol­ta importanza acquisteranno le dimostrazioni dell'esistenza di Dio.

9.15 II culmine del pensiero induista: il Vedanta di Shankara. E nel secolo IX della nostra era che il pensiero indiano fedele alla rivelazione vedica, rima­sto fino ad allora come una rete di ruscelli che, scendendo dalla medesima montagna, si intrecciano gli uni con gli altri, diventa finalmente un fiume dal­le grandi acque: quel fiume attraversera le diverse epoche per giungere fino a noi pressoche immutato. II merito di questa unificazione delle diverse tradizio­ni vediche e della loro qualificazione filosofica e del pili grande pensatore in­diano, Shankara, vissuto a cavallo tra l'VIII e il IX secolo (non del tutto sicure sono le date che per lo pili si riportano: 788-820). Per quanto egli abbia tutte le caratteristiche del filosofo anche nel senso occidentale del termine, i suoi in­tenti erano pen) quelli di un restauratore dell'autentica dottrina vedica e pili precisamente della parte metafisica del corpo vedico, le Upanishad. Il termine Vedcmta (fine dei Veda) indica insieme sia }'ultima porzione dei libri sacri sia la disciplina culmine a cui dovevano attendere, nella loro formazione, i brah­mani. Il nucleo della tradizione vedantica era la dottrina dell'Essere, e doe quella dottrina che le altre darsana mettevano ai margini. Nemmeno la Mi­mamsa (la scuola che, nella sistemazione canonica, fa coppia col Vedanta) fa­ceva eccezione, in quanto essa identificava le vie della salvezza con la perfetta esecuzione del rito religioso. Non il sacrificio in se e nemmeno la divinita a cui si sacrifica possono liberare }'anima dal karma rna solo l'esatta esecuzione delle norme rituali fissate dai Veda: il rito mette in contatto con la Iegge mi­steriosa che regge tutte le cose. E questa Iegge, che attraverso la meccanica ri­tuale, produce il suo effetto di salvezza. Il valore filosofico di simile dottrina magica e quasi nullo. E tuttavia in questo suo riferirsi ad un principio miste­rioso a cui tutto soggiace, la natura e le divinita, essa apre un varco che con­duce a quell' Assoluto impersonale che sta al centro del radicalismo vedantico di Shankara. II quale nel riaffermare l'inconoscibilita deli'Essere impersonale assorbiva in qualche modo anche l"ateismo' buddista che aveva raggiunto, con la scuola di Nagarjuna (8.21), un grande rigore logico e che ai suoi occhi rap­presentava il massimo pericolo per l'India. La sua impresa teologica rassomi­glia molto a quella che nell'occidente cristiano era stata svolta dalla 'teologia negativa' che anch'essa mirava a sottrarre il mistero di Dio alia prigionia dei concetti filosofici. Per altri aspetti fa pensare a sant' Agostino, anche lui artefi­ce di una sintesi che ha influenzato l'occidente fino ad oggi ed anche lui domi­nato da un intento pastorale. Shankara fondo molti monasteri e mori, appena trentaduenne, come abate di uno di questi.

Con rigore che vorremmo dire eleatico, Shankara afferma che solo l 'Essere e: il non-essere, e cioe il mondo dei fenomeni, non e. Al di fuori di Lui tutto e apparenza, e come una maschera mutevole dietro la quale esso resta immuta-

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bile «come l'attore si ritrova identico e indifferente sotto i suoi travestimenti successivi». Ed e spirituale: altrimenti sarebbe divisibile e mutevole. Nessun attributo dunque gli e adatto, perche ogni attributo e una determinazione e dunque anche una negazione: di Lui si parla negando qualsiasi attributo: Neti, neti, non, non. Ma si potra almena dire che esso e Pensiero? Shankara qualifi­ca l'assoluto come Sat (Essere) e come cit (coscienza), rna lo fa dopa aver posto una distinzione tra il Brahman 'esoterico' (il Dio superiore, in se) e il Brahman 'essoterico' (il Dio inferiore, per noi): del prima nulla si puo dire, del secondo si possono predicare infiniti attributi, anche quello del pensiero. Ma mentre Aristotele definiva Dio come pensiero del pensiero, come pensiero che pensa se stesso, in Shankara il Dio superiore non puo essere pensato: egli rimane co­me un Subconscio infinito, inconoscibile al proprio stesso pensiero. Egli none ne oggetto ne atto di conoscenza, e soggetto conoscente il cui atto e appunto il Brahman inferiore, il «Brahman qualificato», che puo essere dunque detto pensiero di Dio (che pero; giova ripeterlo, non puo pensare il Dio superiore). Questo Dio inferiore e il Dio del teismo, che Shankara chiama lsvara: e il Dio della devozione, il Dio del culto, che puo essere nominata o raffigurato in infi­niti modi.

Ma come si passa dal Dio indeterminato a! Dio determinato? Fondamentale e in Shankara il ruolo della Maya (illusione) che dai processi della psicologia individuale, in cui la relegava la tradizione vedantica, egli solleva nel seno stesso dell'Essere assoluto. E. attraverso il gioco della Maya che l'essere puro, indeterminato (Brahman) passa allo stato di essere determinato e attivo, sui versante del contingente e del mutevole. Non che il Brahman superiore subi­sca mutamenti in se: l'acqua di un fiume non muta qualita quando, peril fred­do, si trasforma, in superficie, in una crosta di ghiaccio. Ne Ia luce in se subi­sce modifica quando toccando gli oggetti appare in diversi colori.

Questa immutabilita deli'Essere permane anche quando, per il gioco della Maya, dalla prima determinazione si passa alle altre innumerevoli determina­zioni che costituiscono il mondo. Il mondo non e propriamente creato per un atto libero di Brahman data che la Maya e un modo necessaria di Brahman. Il mondo delle case e come l'insieme delle spere di sole che scintillano e si muo­vono sulla superficie del mare. Esse sono e non sono. Solo a partire dalla Maya esse sono, rna se si varca il velo della Maya per entrare nel Dio esoteri­co, esse non sono. Come quando noi sogniamo prati, montagne, animali: essi sono 'nel sogno'. E del resto anche il sognante e a sua volta un sogno, fram­mento infinitesimo del grande sogno di Dio che e Ia Maya.

Dunque il mondo e solo una rappresentazione: e uno spettacolo che il Pen­siero divino dona a se stesso. L'uomo e, come si e detto, interno a questo so­gno, sia come oggetto rappresentato, sia come soggetto rappresentante. Ma cos' e l'uomo? Shankar a utilizza per il suo sistema Ia classica distinzione tra 1 'io em pi rico individuale (jiva) e il 'Se' (At man): l'io empirico (quello che nasce e che muore) e il prodotto dell'ignoranza, da cui scaturiscono gli atti il cui ac­cumulo, il karman, determina la sua individualita e lo trascina di nascita in ri­nascita, nel samsara. Ma l'io empirico non e !'anima, l'Atman. Sebbene chiusa nella prigione dell'io empirico, !'anima non si divide ne si corrompe e quindi e, di per se, fuori del ciclo delle nascite. A causa della sua prigionia essa ignora

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la propria essenza divina su cui si sono depositate le scorie delle passioni e delle relazioni sociali.

Ma allura da dove ha origine il dulure? Riportiamu da un testo vedantico mediuevale Ia domanda e Ia risposta:

Se l'essere unico risiede in ogni anima, da dove vengono Ia miseria e il dolore ai quali lo condanna Ia sua presenza in seno ad ogni anima umana? Essi vengono dalla Maya di cui l'Essere si avvolge; rna questa apparenza none che illusione senza realta, simile al sogno di un uomo che nel sonno si imrnagina di essere suppliziato.

Come si vede, l'universu sia umanu che fisicu non e che una smisurata real­ta psichica i cui ritmi (e qui e evidente Ia radicale diversita dalle cosmologie occidentali) vanno spiegati anch'essi, per dir cosi, in termini psicologici. Quan­do Dio durme il mundu si distrugge, quando Dio si sveglia il mondo nasce. Un giorno di Diu currisponde a 4 miliardi di anni umani. Fini to il giurno, il mon­do si dissolve e comincia la notte in cui Brahman si riposa. Un giorno e una notte di Brahman formano un kalpa, un periodo cosmico. Dopo 3.600 kalpa si avra Ia grande notte e cioe la dissoluzione di tu tte le essenze e il riassorbimen­to del Diu inferiore nel Dio superiore. Queste determinazioni cosmogoniche nun suno proprio di Shankara rna dei suoi seguaci: esse servono comunque a darci lo sfondo grandioso della sua spiritualita.

Ma per l'uomo, chiuso nel suo kalpa, quale sara Ia via della salvezza? La ri­sposta e gia implicita in cio che abbiamo detto sui gioco di Maya. II mondo puo essere contemplato da due punti di vista: quellu al di qua del velo di Maya e allora si vive nella nescienza (avidya) fonte di ogni male, e quello al di la del velo e allora si entra nella verita. La via della salvezza (Moksha) e dunque filo­sofica: Ia devozione e utile rna ci lascia interni all'orizzonte di Maya il cui limi­te estremo e il Diu inferiore. Lasciamo parlare Shankara che, come Platone, era anche un pueta:

La scienza caccia l'ignoranza come il sole caccia Ia notte. Perche le cose e le !oro rivoluzioni sono come le immagini di un sogno ... Finche il sogno du­ra tutto questo mondo ci sembra reale. Ma il mondo non esiste pili quando il sogno e finito .. II santo che ha potuto raggiungere Ia contemplazione per­fetta vede in Dio l'universo intero. Vede il Tutto come un'anima unica e Ia sua anima si perde in questa Anima cosi come l'acqua si dissolve nell'ac­qua, come il fuoco si unisce al fuoco, come !'aria si unisce all'aria. Poiche nient'altro esiste che Brahman e quando qualche altra cosa ci sembra esi­stere, c'e in questo un'illusione simile al rniraggio del deserto.

9.16 II pensiero huddista: Ia Tathata. Negli ultimi secoli del I millennio eb­be grande sviluppo e diffusione (particolarmente in Cina e in Giappone) una scuola filosofica che nei nostri termini potremmo chiamare panteismo e che nella sistemazione stunugra1Ka tndwna v1ene detla Ia 1 uLhata e in quella giap­ponese Tendai (dal cinese Tien tai, nome del monastero buddista fondato da Han Cheu, nel quale aveva studiato il monaco giapponese Daishi (767-822) con­siderato nella sua patria fondatore della scuola di cui stiamo parlando). La scuola ha un patriarca che risale ai tempi d'oro della filosofia buddista, quelli

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del re Kaniska (II sec.): il poeta Asvagosha, autore di uno dei grandi poemi in­diani, la Buddha carita. E da lui che Asanga (8.21), il caposcuola degli idealisti (Yogacara), trasse !'idea centrale del suo sistema e cioe }'idea di una realta che sta prima della divaricazione tra soggetto e oggetto, di un Pensiero assoluto precosciente. Ma Asanga e i suoi seguaci svilupparono questa monismo nel sensa soggetivistico: 1' Assoluto e un soggetto che pensa e crea in se stesso i contenuti del proprio pensiero. I seguaci medioevali di Asvagosha, al contra­rio, svilupparono l'intuizione monistica del maestro in sensa oggettivo, vor­remmo dire eleatico. Al di la dei fenomeni c'e una realta permanente, detta Bhuta Tathata. Come il Brahman di Shankara o come la Vacuita di Nagarjuna (8.21) essa ha due modi di essere: quell a incondizionato e quell a condizionato. II prima e lo statu inconoscibile, u mondo del Nirvana, il Secondo e l'insieme dei fenomeni, e il samsara, nel suo duplice aspetto di coscienza psicologica e di mondo naturale. La Butha Tathata comprende dunque il tutto: essa e l'es­senza dei Buddha, si potrebbe dire la Buddeita, e la Iegge (dharma) che si rive­la come norma dell'esistenza, e la sorgente (Bodhi) dell'intelligenza, e il Nirva­na dal punta di vista della dialettica che nega il relativo ed e l'Essere dal pun­to di vista ontologico. Essa e l'immobilita e il movimento, l'oceano e le sue on­de. Siamo ancora una volta nel misticismo. Mentre in occidente le dottrine sull'assoluto si basano sulla filosofia dell'Essere, quella del Tathata e in gene­re del pensiero buddista, si basa sulla filosofia del divenire, o meglio del supe­ramento della duplice polarita essere e non essere. Ma in questa 'al di la' non ha accesso la ragione ragionante sibbene quella contemplativa. E in questa 'al di la' la fede buddista contempla Buddha, divenuto cosi, secondo lo slancio proprio del Mahayana, una divinita assoluta che il Tathata risolve in una onni­presenza panteistica. Tra Buddha e gli individui che vivono nel tempo c'e una radicale unita metafisica. Anzi, come dice il Tendai giapponese, con una sfu­matura di quietismo universale: "Gli animali, le piante, le montagne, i fiori, tutto puo diventare Buddha".

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Sommario. Nei due secoli che vanno dallo sfaldamento dell'impero carolingio (843) alla formale rottura tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa (1054), !'Europa riorganizza se stessa secondo un ordine che ha nei monasteri la propria rete di sostegno e nel papa­to il centro di coesione (10.1) Nel sec. XI si ha una lenta rivoluzione sociale che sposta il centro della vita dal monastero alia citta dove, alia maniera delle corporazioni delle arti e dei mestieri, si organizzano le Universita (10.2). Le prime avvisaglie di questa se­colarizzazione del sapere si ebbero, nel sec. XI, nella disputa tra dialettici e antidialetti­ci e cioe tra coloro che ritenevano di poter usare la logica aristotelica per rendere ra­gione dei dogmi cattolici e coloro che si opponevano a questa estensione del sapere in quanto dannosa per la fede (10.3). Su questo sfondo, ma con sviluppi originali, prende rilievo il pensiero di Anselmo d'Aosta. Pur tenendo fermo il presupposto dell'autosuffi­cienza della fede, egli elabora la comprensione razionale delle verita rivelate dando pro­va di una straordinaria abilita dialettica (10.4), una abilita che, uscita dal chiuso del monastero, avra modo di svolgersi largamente nella disputa sugli 'universali' (10.5). Ar­tefice di rotture scandalose, e non solo sul piano del costume, fu Abelardo, precursore dell'eta aurea della scolastica, in quanto difese l'autonomia del sapere razionale nei confronti di quello religroso (10.6). Era posto cosi il problema che restera centrale nei secoli successivi, quello dell'autonomia della ragione. In posizione di intransigente ri­fiuto di questa autonomia saranno i cistercensi, al seguito di Bernardo di Chiaravalle (10.7), mentre i 'vittorini' daranno al proprio misticismo un orientamento meno rigido, piu sensibile alle esigenze della ragione e dell'esperienza, specie scientifica (10.8). Su posizioni di recupero dell'autosufficienza relativa del mondo e, nel mondo, dell'uomo a cui si riconoscono compiti schiettamente terreni e la cosiddetta scuola di Chartres, che dilato gli interessi culturali non solo verso l'antichita classica ma anche verso il mondo degli 'infedeli', della cultura islamica (10.9).

Mentre nella cristianita latina si andava organizzando quella particolare stagione fi­losofica che vien detta scolastica, nell'Islam giunge a pieno sviluppo quella corrente di pensiero che si nutre alla tradizione aristotelico-platonica e che pone le questioni esi­stenziali dei rapporti tra fede e ragione e in particolare le questioni della psicologia del conoscere (10.10). Il primo dei grandi falasifa islamici e Avicenna che, svolgendo le in­tuizioni di al-Farabi, elabora una metafisica in cui si unificano, alia maniera neoplatoni­ca, la teologia e Ia psicologia del conoscere (10.11). A lui si oppose, in nome dell'orto­dossia, al-Ghazali, autore di una Distruzione dei filosofi che avra grande risonanza. Per al-Ghazali i principi da difendere sono la non necessita del mondo (dunque la verita della creazione) e il contenimento della ragione nei propri confini (10.12). Su basi di ca­rattere storico-filologico si oppose ad Avicenna un arabo di Cordova, Averroe, che restitui Aristotele a se stesso liberandolo, con i suoi Commenti, dalle contaminazioni platonizzanti. Particolarmente importante la sua analisi dell'intelletto, che implica la negazione dell'immortalita dell'anima (10.13).

In India raggiunge una grande fioritura la scuola di Shankara, che, salva restando Ia tesi che l'unica realta e quella del Brahman, si diversifica nel determinare Ia consisten­za della molteplicita fenomenica (la maya), irradiazione del Brahman, secondo alcuni, velo

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che lo oscura generando l'illusione del Dio personale e dell'anima, secondo altri (10.14). Sull'onda del fervore filosofico, anchc;- le sette religiose, vishnuite e shivaite, trasforma­no il !oro impianto devozionale in una speculazione metafisica, incentrata sull'una o l'altra (Vishnu o Shiva) divinita suprema (1 0.15). Tra i vishnuiti emerge Ramanuja, che attribuisce esistcnza autonoma all'Assoluto, alle anime e al mondo materiale (10.16). An­che il buddismo del Grande 'v'L·icolo conosce una fioritura di tipo mistico che prende forma in alcune testimonianze o scuole: il Mantra, il Dhyana, l'Amidismo (10.17).

In Cina, dopo una lenta ma profonda invasione del buddismo, si ha un risveglio del confucianesimo, che, liberand"~' dal prammatismo hurocratico tradizionale. si arricchi­sce di sviluppi m<::talisici che integrano in se gli apporti delle altre tradizioni religiose e filosofiche: e il neoconfucianesimo (10.18).

La cristianita latina

10.1 L'ordine feudale. Dopo la morte di Scoto Eriugena - il cui pensiero d'altronde si era alimentato aile sorgenti dell' oriente cristiano - !'Europa en­tre in un inverno che doveva durare pili di due secoli. Ma come nel ciclo pro­duttivo della terra l'inverno e tutt'altro che un periodo morto- sotto le dure cortecce e sotto le zolle i processi vitali continuano - cosi nei due secoli che vanno dallo sfaldamento dell'impero carolingio (843) alia meta del secolo XI, !'Europa cristiana non produsse opere intellettuali durature rna porto avanti la propria organizzazione sia in sensa geopoli tico sia in sensa sociale.

Contenuta a mezzogiorno dall'impero islamico, che aveva nel califfato di Cordova il suo avamposto occidentale di irradiazione culturale, e, a levante, dall'impero bizantino, che aveva inserito nella propria orbita religiosa i popoli slavi dell'est europeo (Russi, Bulgari, Serbi), l'Europa latina trove il suo cen­tro di coesione nel papato molto pili che nel Sacra Romano Impero, ormai ri­dotto, nella sua edizione germanica inaugurata da Ottone di Sassonia, alla Germania e a parte dell'Italia. Della respublica christiana facevano parte anche popolazioni che non erano state raggiunte dalla spada di Carlomagno, come l'Inghilterra, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia e come i paesi slavi ad oc­cidente dell 'area bizantina (tav. 9).

Dentro questi confini l'Europa vive ai limiti della sussistenza: in confronto ai due imperi confinanti, sembra un paese del 'terzo mondo'. Se si prescinde dalle repubbliche marinare e, nel Sud d'Italia, dal Regno dei Normanni che tengono aperti molti varchi con le due civilta confinanti, !'Europa e come piegata su se stessa, in un immane sforzo contra la miseria e la disgregazione sociale.

Tav. 9 - Fino all'anno 1000 la cristianita latina, identificatasi pratica­mente con l'impero carolingio, e come sopraffatta dai due imperi confi­nanti, quello bizantino, ancora avvolto nel suo antico splendore, anche se in declino, e quello musulmano in cui sopravvivorw in modo creativo le culture precedenti, da quella iraniana a quella ellenistica. -

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~ lmpero Romano ~ (all'inizio del IV secolo)

f;;,:r:::Jimpero carolingio (nell'814)

[ .. ::.:J lmpero bizantino (all'inizio del IX secolo)

~ lmpero arabo (all'inizio del IX secolo) 0

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L' organizzazione feu dale fu la prima risposta alla minaccia. Scorn parse le citta, !'Europa e una immensa regione boschiva disseminata di miseri villaggi di legno che trovano tutela nei castelli dove abita iJ signore, a sua volta vassal­lo di un signore, anello anche lui di una catena di dipendenze il cui capo e nel­le mani del re o dell'imperatore. I campi strappati alia boscaglia, grattati ap­pena da aratri rudimentali, sono avari; bisognosi di riposo, danno un raccolto ogni due o tre anni. Il commercia quasi non esiste, tanto che scompare in mol­ti luoghi anche Ia moneta. La popolazione e decimata da carestie e pestilenze. Ecco perche la religione assume toni apocalittici e si esprime in superstizioni parossistiche, com'e nella logica dell'istinto di morte. Che nell'ultimo giorno dell'anno Mille !'Europa cristiana attendesse terrorizzata la fine del mondo e una leggenda, rna non e una leggenda che la paura o il desiderio della fine fos­sero lo stato d'animo dominante in una cristianita senza piu sostegni alia ter­rena gioia di vivere.

Eppure qualcosa di nuovo c'e in questa organismo devastato dalla miseria e dalle violenze. La fitta rete dei monasteri benedettini su cui si era innestata la riforma scolastica carolingia e come il tessuto embrionale dell'Europa che clara segni di vita appena varcato l'anno Mille. lnsieme al patrimonio librario del passato anche il ceto intellettuale dell'Europa feudale ha trovato rifugio nei monasteri, dove attende, secondo la massima di Benedetto, alla preghiera e al lavoro, il quale e per gran parte un lavoro di copiatura dei libri sacri e dei testi antichi (lo scriptorium e il laboratorio del convento) e di organizzazione delle attivita agricole. Anche le abbazie hanna preso forma feudale rna con questa di proprio, che molto spesso (e il caso del grande ramo benedettino fa­cente capo all'abbazia di Cluny: 2000 monasteri circa nell'alta Europa) gli aba­ti dipendono direttamente dal Papa, come dire che godono di una autonomia locale di fronte ai signori. Nel lora insieme i monasteri rappresentano l'appa­rato intellettuale dell'Europa in formazione; in mancanza di un organismo di potere unitario, sono i monaci la vera classe dirigente, che esercita l'autorita in condominia con i signori feudali la cui occupazione distintiva e la guerra.

La casa di Dio e divisa in tre, scrive il vescovo Adalberone di Laon, nel 1016, chi prega, chi combatte, chi lavora (oratores, bellatores, laboratores). Queste tre parti coesistenti non ammettono di essere disgiunte; i servigi resi dall'una sono la condizione perche le altre due possano svolgere l'opera lo­ro; ognuna per parte sua si sforza di recare beneficia al tutto. Cosi, questo triplice insieme rimane uno ...

La casta degli oratores e anche la casta che insegna, e che insegna soltanto per riprodurre se stessa, data che il sapere intellettuale non giova ne ai bella­tares ne ai laboratores. Infatti il vera testa di studio e di insegnamento e la Bibbia, specie le sue pagine profetiche di carattere escatologico che descrivo­no la catastrofe di questa mondo e la gloria della Gerusalemme celeste di cui la comunita monacale si sente come l'anticipazione.

Ma la stabilita della societa tripartita poteva durare fintanto che i labora­tores fossero rimasti legati al lavoro della terra: la grande piramide aveva la base di argilla. E la base comincio a sfaldarsi non appena il Iento rna incessan-

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te progresso tecnico negli strumenti di lavoro, il dilatarsi dei rapporti di com­mercia, il mutamento nei rapporti dei tre blocchi culturali (la cristianita orientale, quella occidentale e !'Islam) favorirono la mobilita sociale, dando l'avvio, con i primi insediamenti urbani, ad un nuovo ceto, quello artigianale e commerciale, da cui trarra origine la borghesia e cioe la classe protagonista del nuovo millennia. II trapasso si ebbe attorno al 1050. E allora che, con una concorrenza singolare di sintomi, si manifesta quella che e stata detta la 'se­cunda eta feudale' o la 'secunda rinascita medioevale', dopa quella carolin­gia. lntanto e in questa periodo che la chiesa di Roma rompe formalmente con Bisanzio con uno scambio di scomuniche tra il Papa e il Patriarca di Costanti­nopoli (1054). Pochi anni dopo, nel 1063, ha inizio, in Spagna, la Riconquista., e si inaugura, col sigillo papale, Ia serie delle crociate. L'Europa cristiana trova la sua identita nel Papato (Gregorio VII nel 1075 enuncia i prindpi della teo­crazia nel suo Dictatus Papae) il quale e spinto dalle proprie mire egemoniche ad allearsi con i primi nuclei di burgenses in Iotta contra l'Impero.

10.2 Le Universita. Come si diceva, la vera mutazione strutturale che sta al­Ia base della 'rinascita' e 1 'urbanizzazione, che porta con se il passaggio del servo alla condizione di uomo libero, di cittadino. I1 Comune (parola prima sconosciuta) e una convivenza in cui non si e piu ,.J'uomo di un uomo», si e uo­mo con l'uomo, in un rapporto di fraternita che e anche autonomia, garanzia di sviluppo e di iniziativa creatrice.

I monaci si allarmano. San Bernardo fa appello al Papa perche ingiunga al re Luigi VII «di dissipare con Ia potenza regale le associazioni colpevoli ». E di · fatti queste libere associazioni portano con se la fine dell'egemonia monacale. Le Scholae emigrano: dall'abbazia passano alia cattedrale, come dire alla chie­sa principe della citta, dove, invece che i monaci, insegnano i clerici che, anche quando restano formalmente sotto Ia responsabilita dei vescovi, si organizzano secondo i criteri delle corporazioni dei mestieri, con le relative liberta di re­clutamento, di programma e di gestione. A Parigi le scuole ottengono la lora carta di autonomia, dopa 18 mesi di sciopero. Il mutamento di apparato va di pari passo col mutamento metodologico: dal monaco commentatore della Scrittura per i suoi confratelli si passa al 'maestro' che esercita il suo 'mestie­re' nella citta. A questa secolarizzazione professionale risponde anche una se­colarizzazione di contenuti e di metodi. II curricolo degli studi - il trivia e il quadrivio - che prima era come una scala da percorrere per giungere al piu presto alla vera 'scientia', quella della Scrittura, si disarticola in facolta spe­cializzate nell'una o nell'altra delle diverse arti, che si organizzano ciascuna secondo la sua specifica ~utonomia e si arricchiscono di nuove discipline co­me il Diritto e Ia Medicina. E anche se gli insegnanti rimangono 'clerici', diven­ta profano il !oro insegnamento, nel sensa che ogni disciplina andra insegnata secondo la sua Iegge interna, mentre nell'eta monacale anche le materie profa­ne venivano sacralizzate. Questa transizione alia razionalita aprira nel sec. XIII un conflitto in cui non sara difficile scorgere i primi segni dell'eta moderna.

E su questo sfondo che trovano un sensa i nuovi ordini religiosi, i France­scani e i Domenicani, che nei primi decenni del XIII secolo, sfidando le reazio­ni monacali, tenteranno di riproporre la parola evange'lica alla nuova classe

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emergente, ed entreranno nelle corporazioni universitarie accettandone le re­gale di autonomia e di democrazia interna. I1 secolo XIII e il secolo delle Uni­versid:t proprio perche e il secolo delle corporazioni. La Universitas magistro­rum et scolarium e infatti una corporazione vera e propria, dove anche gli stu­denti hanno competenza direttiva, dove il personale e soggetto alia regola del­le elezioni e delle promozioni gerarchiche e dove hanno libero accesso studenti di ogni provenienza, richiamati dal credito di questa o quella universita: Saler­no e Montpellier per Ia medicina, Bologna per il diritto civile e canonico, Ox­ford per il metodo empirico applicato aile diverse discipline, Parigi per la teo­logia.

Questa diversificazione riflette Ia nuova eta dell'uomo, passato dalla cam­pagna alia citta e divenuto percio piu versatile, piu critico, piu fiducioso nelle risorse della ragione. Egli e il mercante e l'artigiano che ha preso il posto del miles: il principia d'autorita che nell'eta monacale trasferiva le dipendenze feudali fin nella sfera dell'intelletto e sostituito con quello della Iibera disputa­tio e cioe con l'esercizio della dialettica. L'Universita insomma e il nuovo orga­na della cristianita diventata matura.

10.3 Dialettici e antidlalettici. I primi sintomi di una fondazione del sapere filosofico sui principi della ragione, indipendenti da quelli del sapere teologi­co, si ebbero attorno alia meta del secolo XI, quando si comincio a porre Ia questione se le regole della dialettica potevano essere applicate, e in quale mi­sura, anche ai Libri Sacri. Dopo Ia riforma boeziana, l'arte della dialettica oc­cupava Ia fase conclusiva delle arti del trivio ed aveva come suo oggetto di studio !'Organon di Aristotele o meglio, fino al sec. XII, quella parte dell'Orga­non che era stata tramandata dallo stesso Boezio. Lo scopo della disciplina era di preparare i monaci all'interpretazione e alia esposizione della Scrittura, vero culmine del sapere. In questo periodo si accentuarono due tendenze: quella dei dialettici e quella degli antidialettici.

La dialettica aveva un ruolo sempre meno strumentale e abbracciava l'inte­ra problematica che Ia filosofia antica attribuiva alla Logica. Come sappiamo (5.4), per Aristotele Ia Logica non era un vero e proprio sapere, era uno stru­mento del sapere. E Ia dialettica era appena una porzione della Logica, quella che riguardava gli argomenti sulle cose opinabili. Ebbene, nelle scholae Ia dia­lettica prese un'importanza che esorbitava dalla sobrieta aristotelica e in alcu­ni casi mirava ad assoggettare a se anche le verita di fede. Saranno detti 'dia­letti:::i' appunto quei pensatori che non si limiteranno a servirsi delle regoJe aristoteliche per una piu profonda cognizione dei dogmi rna, applicando al !o­ro contenuto le 'categoric', li metteranno sotto giudizio, fino a svuotarli dello­ro s ignifica to.

Il caso piu clamoroso di queste prime avvisaglie razionalistiche fu quello relativo al dogma cattolico della presenza del corpo di Cristo nel pane eucari­stico: la sostanza del pane, con la consacrazione, viene sostituita dalla sostan­za del Corpo pur rimanendo intatti gli accidenti o, come si diceva, le specie. Il direttore della scuola di San Martino di Tours, Berengario (1000 ca -1088) pro­voco, attorno al 1050, una vera tf•mpesta proponendo una sua spiegazione, in

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linea con la dottrina delle categoric. Secondo Aristotele, quando scompare la sostanza scompaiono anche gli accidenti. Siccome nel pane eucaristico gli ac­cidenti non scompaiono, la presenza del corpo di Cristo non puo essere intesa in modo sostanziale, rna solo spirituale, simbolica. Non possiamo seguire il di­battito suscitato da Berengaria. Ci baster:':t ricordare che il piu intransigente degli "antidialettici', il monaco Pier Damiani (1007-1072) nella sua opera Sulla divina onnipolenza colpisce con veemenza le pretese dei dialettici:

Siffatle deduzioni dei dialettici o retori non vanno applicate con legge­rezza al mistero della divina potenza, e le regole che si son trovate per for­mare dei sillogismi e trar conclusioni dai nostri giudizi, si guardin bene co­storo dal farle valere pertinacemente contro le leggi divine e dall'opporre alia divina virtu Ia necessita· dei !oro ragionamenti. Se non di meno avviene che s'usi della perizia dell'umana dialettica nell'esporre le Sacre Scritture, essa non deve usurpare con arroganza il diritto di maestra, ma secondarle colla dovuta riverenza, come un'ancella va dietru alia sua padrona, per non smarrirsi andando innanzi, e per non perdere l'intimo lume della virtu e il retto tramite del vero.

E dunque di Pier Damiani la celebre formula della <<filosofia ancella della teologia». Per lui Dio e ben a! di sopra della logica umana: Egli non e soggetto nemmeno a! principia di non contraddizione: potrebbe fare addirittura che Ro­ma non sia mai stata fondata pur essendo, secondo noi, stata fondata! AI di Ia dei suoi paradossi, Ia questione posta da Pier Damiani e teologicamente e filo­soficamente seria, come apparira nei secoli successivi: I' ordine razionale delle cose vincola anche Ia volonta di Diu, per cui esso vale anche per Lui o, essen­do quest'ordine contingente, posto da un suo atto libero di creazione, la sua volonta e, nei suoi confronti, totalmente Iibera?

II dibattito sui limiti della logica razionale non fa che dare forma specifica ad un contrasto che investe, in questo secolo di transizione, l'intero ordine so­ciale e politico della cristianita.

Dal punto di vista sociale, l'ostilita verso Ia dialettica era anche un riflesso dell'ostilita del mondo feudale e monacale contro il diffondersi di nuovi modi di vita, a cominciarc dall'organizzazione della scuola, che ormai ha spostato le sue tende nelle citta, dove stan prendendo forma le prime attivita professiona­li, come quella del medico (grande risonanza ha in questo secolo Ia Scuula sa­lernitana) o come quella dell'uomo di le~~e (basti ricordare l'importanza dell'universita di Bologna). Dal punto di vista politico, la subordinazione totale della ragione alia tede rtspecchiava I' orientamento teocratico secondo il quale l'Impero non e che uno strumento del potere universale del Papa: l'antidialet­tico Pier Damiani e Gregorio VII, autore del Dictatus papae, erano d'accordo su questa dottrina, che, divenuta programma pastorale e politico, aprira dram­matiche contraddizioni nella cristianita medioevalc.

10.4 Anselmo d'Aosta. L'ultimo dei grandi monaci-maestri (san Bernardo, nel secolo successivo, rappresentera, in modo unilaterale, l'intransigenza anti­filosofica dei contemplativi) e Anselmo d' Aosta*.

II pensiero di Anselmo si muove costantemente, com'era nella tradizione

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monastica, dentro l' orizzonte di Agostino e di Platone (naturalmente di un Pia­tone mediato da Agostino) rna con questo di proprio: egli adotta l'uso della dialettica a vantaggio di un vigoroso esercizio della ragione, e minimizza al massimo il ricorso all'autorita della Scrittura e della chiesa. Ma la ragione di Anselmo rimane ancora interna al presupposto agostiniano che solo la fede da la vera conoscenza: e il Maestro interiore, il Verbo che, come aveva intuito Platone nella sua dottrina delle idee, illumina il nostro intelletto porta;.,dolo a discernere il vero dal probabile. «Io non cerco di comprendere per ci·edere, rna credo per comprendere», cosi egli scrive nel Proslogion. E difatti il suo in­tento non fu mai di fondare un sapere autonomo, una filosofia distinta dalla teologia. Qualunque tema tratti, egli resta fermo nel suo programma enuncia­to con una famosa formula: Fides quaerens intellectum, la fede alla ricerca della comprensione di se stessa. La sua originalita e nella convinzione che, alla luce della fede, l'universo possa essere conosciuto dall'intelletto umano in quelle che sono le sue 'ragioni necessarie': compito della dialettica e appunto di portarle alla luce. Tra la fede di chi conosce la verita solo dalle parole ap­prese (ex auditu) e la contemplazione diretta, riservata ai mistici, si apre cosi una via mediana, quella dell'intelletto, che ci rende «pronti, come egli scrive, a soddisfare per quanto possibile, ogni uomo che chieda ragione della speranza che e in noi».

Non e un caso che a scrivere i due suoi opuscoli piu celebri, il Monologion e il Proslogion, egli si sia deciso non per dar sostegno o prestigio alla sua atti­vita professionale di insegnante, come fara ad esempio Tommaso d'Aquino, rna per preghiera dei suoi monaci, e nemmeno e un caso che, come vedremo subi­to, a sollevare obiezione contro il secondo fosse, sia pure in nome di un ipote­tico non credente, un piissimo monaco di altra abbazia. Siamo ancora all'inter­no di una filosofia davvero 'monologica', a circuito chiuso, per cosi dire, non disturbata da altre emittenti. Anselmo dimostra I 'esistenza di Dio a chi gia ci ere­de, col solo scopo di dimostrare le 'ragioni necessarie' del contenuto della fede (nel caso, I' esistenza di Dio}; i movimenti della sua ragione, apparentemente autonomi, sono attraversati dall'onda segreta della pietas che li volge al segno pres ta hili to.

Nel Monologion i quattro argomenti sono tutti riconducibili ad un asse me­tafisico di stampo platonico: tutte le cose derivano dall'essere necessaria, cau­sa di se e della propria esistenza, che non puo non essere, al quale l'intelligen­za deve necessariamente risalire quando s'imbatte negli esseri contingenti, che

Anselmo nasce ad Aosta nel 1030. Dopa aver seguito gli studi tra i be­nedettini della sua citta, entra anche lui nella stesso ordine nell'abbazia di Bee, in Normandia, richiamato dalla fama della scuola teologica che vi ha sede. Vi diviene abate nel 1078. Dedito all'insegnamento, scrive le sue ope­re piu importanti, come il Monologion e il Proslogion, nel quadro delle di­spute scolastiche della sua abbazia. Fatto vescovo di Canterbury nel 1093, continua la sua vita di studioso anche se coinvolto in fastidiosi conflitti con i monarchi inglesi. Muore nel 1109.

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non hanno in se Ia ragione di se stessi. Dalla presenza di un termine comune (poniamo, la Bonta, la Perfezione) nella serie degli esseri contingenti, Anselmo risale all'esistenza anteriore di questa tennine come al modello al quale parte­cipano le singole cose e l'intera serie: alia Bonta in se, per cui le cose sono buone, alla Perfezione in se, per cui le cose sono, in gradi diversi, perfette.

Ma l'argomento che ha reso celebre Anselmo e quello che in tempi piu re­centi e stato detto 'ontologico', tema unico del Proslogion. Merita leggerlo, an­che per avere un saggio dello stile filosofico anselmiano, direttameute sui te­sta:

Noi crediamo che Tu sia qualche cosa di cui nulla puo pensarsi piu grande. 0 che forse non esiste una tale natura, poiche 'lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste'? (Ps., 13,1 e 52,1). Ma certo, que! medesimo stolto, quando sente cio che io dico, e cioe Ia frase 'qualcosa di cui nulla puo pen­sarsi piu grande', capisce quello che ode; e cio che egli capisce e nel suo in­telletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti e che una cosa sia nell'intelletto, altro intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta cic che dovra dipingere, ha nell'intelletto ]'opera sua, rna non intende ancora che esista quell'opera che egli non ha ancor fatto. Quando invece l'ha gia dipinta, non solo l'ha nell'intelletto, rna intende che !'opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve cunvincersi che vie alme­no nell'intelletto una cosa della quale nulla puo pensarsi piu grande, poiche egli capisce questa frase quando Ia ode, e tutto cio che si capisce e nell'in­telletto.

Ma, certamente, cic di cui non si puo pensare il maggiore non puc esiste­re solo nell'intelletto. Infatti, se esistesse solo nell'intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realta, e questo sarebbe piu grande. Se dunque cio di cui non si puc pensare il maggiore esiste solo nell'intelletto, cio di cui non si puc pensare il maggiore e cio di cui si puc pensare il mag­giore. II che e contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si puo pensare il maggiore e nell'intelletto e nella realta.

Con questa argomentazione si confronteranno, per confutarla o per acco­glierla, i maggiori filosofi delle epoche successive, da Tommaso d' Aquino a Cartesio a Immanuel Kant. Ma gia un contemporaneo di Anselmo, tin monaco di Marmontier, Gaunilone, nel suo Liber pro insipiente (Libra a difesa della stolto ), pose con chiarezza i termini della disputa, non chi usa nemmeno oggi. I suoi controargomenti sono due: 1. lo stolto quando ode parlare dell'essere di cui niente di piu grande si puo pensare, percepisce s1 le parole rna non e detto che passi dalle parole al concetto. Dei tre momenti in cui si distribuisce ia prova anselmiana e cioe le parole, il concetto, la realta, lo stolto percepisce so­lo il primo che invece nel Proslogion fa indebitamente tutt'uno col secondo. 2. dall'esistenza mentale della perfezione non si puo dedurre l'esistenza reale, co­me dall'idea delle isole Fortunate che sono le piu perfette isole pensabili non si puo dedurre che dunque esse ci so no nella real ta.

Anselmo rispose a Gaunilone. In sostanza Ia sua risposta metteva in eviden­za quel che era implicito nel Proslogion, che cioe l'argomento vale per chi ha gia il dono della fede e quindi ha gia compiuto il passaggio dalle parole udite all'idea da esse espressa. Non e certo per un puro vezzo letterario che Ansel-

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mo aveva dato a! Proslogion la struttura di una preghiera: esso di per se non e un discorso su Dio, e un discorso a Dio. Il titolo completo del suo libro era: Proslogion seu fides quaerens intellectum, e cioe la fede che cerca la compren­sione intellettuale di se stessa. Insomma anche qui la 'ragione necessaria' non e quella che costringe la mente a passare dal dubbio alla certezza, e quella che, in virtu dell'analisi, si dischiude all'interno di una certezza gia ottenuta per altre vie, appunto per quelle della fede.

Questa oscillazione tra la necessita razionale e la contingenza della fede (al­Ia quale fa riscontro la gratuita delle azioni di Dio, come la creazione e la re­denzione: Dio le ha decise rna poteva anche non deciderle) contrassegna di am­biguita tutto il pensiero di Anselmo.

Anche il suo capolavoro teologico, il Cur Deus homo (Perche Dio si e fatto uomo) intende mostrare che l'Incarnazione del Verba era necessaria una volta che Dio ha deciso di salvare l'uomo. Difatti il peccato originale e stato com­messo dall'uomo e quindi doveva essere l'uomo a ripararlo. E Gesu e uomo. Ma il peccato originale, in quanta offesa fatta a Dio, e di una gravita infinita, e quindi aveva bisogno di una vittima il cui sacrificio fosse di valore infinito, che fosse insomma Dio stesso. E infatti Gesu e Dio. Sui contemporanei di An­selmo simili argomenti, che per noi sanno di sofisma, avevano la capacita di provocare un pili libero esercizio della ragione, che veniva facilmente svilita dal costante ricorso aile autorita della Scrittura e della chiesa e dal totalitari­smo fideistico tipico del monachesimo contemplativo. E quando la ragione si sveglia non importa in quale nido si svegli, perche prima o poi si decide a prendere il volo.

10.5 II dibattito sugli 'universali'. La ragione si sveglia non appena e al giusto grado di formazione lo spazio fisico e sociale di cui ha bisogno: lo spa­zio cittadino. L'orizzonte delle abbazie abbraccia campagne e foreste: dove fi­nisce la solitudine comincia, per i monaci, il mondo della perdizione, che inve­ce e semplicemente il mondo diventato esterno alla piramide degli ordines, un mondo nel quale l'uomo si muove come uomo, non piu come monaco, soldato, servo della gleba. Gia per questa il cittadino e un irregolare, costretto a farsi luce con la ragione, da usare come il cavaliere usava la spada, ora che le auc­toritates del passato non bastano piu a rendere legittime le sue esperienze di vita, ora che la promiscuita culturale dei contatti e anche rimescolamento del­le identita ereditarie. E nei primi decenni del sec. XII le citta ci sono, con le loro cattedrali, spesso con le loro cinte di mura e soprattutto con le loro scho­lae, per lo piu annesse alle cattedrali rna anche g<stite da gruppi di clerici che si sono dati un regolamento (un canone, per cui si dicono canonici), o addirit­tura messe su in proprio da qualche maestro di grido. E il caso di Chartres, la cui scuola, come vedremo, sara un centro di animazione umanistica per tutto il secolo, ed e soprattutto il caso di Parigi. A Parigi le scuole sono molte, da quella dell' Jle de la Cite, dove, come scrive un contemporaneo, de Arti liberali si sono costruite un'eterna dimora», a quella della collina di Santa Genoveffa, dove si sta forgiando la 'scolastica' destinata ai trionfi del secolo successivo, a quella di San Vittore, dove i 'Vittorini' daranno guerra, in nome della tradizio­ne mistica, ai pericolosi novatori, <<minotauri accovacciati» nei loro labirinti.

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Uno di questi minotauri, additati da Gilberta da San Vittore nel suo Contra IV labirinthos Franciae (contro i quattro labirinti della Francia), e Abelardo (10.6) il pensatore che campeggia sui suo secolo riflettendone le arditezze e le con­traddizioni. C'e un momenta nella autobiografia di Abelardo che ci ritrae a! vivo il costume culturale che agli albori del secolo XII si era instaurato nelle scuole di citta.

Preferii - egli scrive - i conflitti delle dispute ai trofei guerre::;chi. Quindi girai disputando per diverse provincie, dovunque udivo che fiorisse lo studio di quest'arte, e diventai emulo dei peripatetici. Finalmente arrivai a Parigi, dove Ia dialettica era in auge, alla scuola di Guglielmo di Cham­peaux, maestro illustre di questa disciplina, per fama e per valore. Rimasi un certo tempo pres so di lui, prima bene accetto, poi a lui spiacentissimo, · perche cercavo di confutare alcune sue opinioni e spesso mi mettevo a di­scutere con lui e mi rivelavo a lui superiore nella disputa. II che suscitava tanto maggiore indignazione anche tra i migliori miei condiscepoli, in quan­to ero il piu giovane e studiavo da meno tempo. Di qui cominciarono le mie disgrazie, che continuano fino ad oggi; e quanto pili si estendeva Ia mia fa­rna tanto piu si accendeva l'invidia degli altri per me.

Un bel giorno, presumendo del mio ingegno piu di quanto consentissero le forze della mia eta, ancora ragazzo, mi misi in mente di dirigere una scuola, e mi cercai il posto.

Prima di occuparci dell'inquieto 'peripatetico palatino' (cosi veniva anche chiamato Abelardo perche nato a Palet), e bene dire quale fosse, nelle dispute delle scuole, !a questione principe. Era la questione degli 'universali'.

Trattando della logica di Aristotele abbiamo distinto (5.4) tra le 'categorie' quelle fondamentali (inerenti aile cose) e quelle accessorie, che sono determi­nazioni accidentali della sostanza, come il tempo, il luogo, ecc. Sulla scorta di una pagina del Commento (lsagoge) di Porfirio aile Categorie (8.5), studiate nel corso della dialettica, ci si comincio a chiedere

- se i predicati che riguardano l'essenza delle cose (i generi e le specie: ad esempio, per quanto riguarda l'uomo, l'animalita e Ia razionalita; per quanta riguarda un animale, Ia vita vegetativa e quella sensitiva) siano soltanto dei nomi con i quali, per convenzione, noi raggruppiamo cose simili tra di loro, senza che essi abbiano nelle cose nulla di corrispettivo,

- o se i predicati riflettano, prima che nelle parole, nei concetti della men­te qualcosa di reale intrinseco alle cose,

- o se essi abbiano, come vero corrispettivo, archetipi interni alla ment8 di Dio, anteriori aile cose, come le idee platoniche. Da Scoto Eriugena, ad An­selmo di Aosta e, appunto, a Guglielmo di Champeaux (1070-1120), che dovette subire le intemperanze del suo acerbo discepolo, era la terza, quella platonico-ago­stiniana, la dottrina variamente condivisa e trasmessa, una dottrina che fra l'al­tro metteva un tranquillizzante sigillo filosofico sullo stato di vita dei contempla­tivi che tendono a guardare le cose con ]'occhio di Dio.

Prima di ascoltare le lezioni di Guglielmo, Abelardo si era imbattuto in un altro maestro, Roscellino (1050-1120), che egli ricordera con parole sferzan­ti. Per Roscellino, invece, le categorie non erano che flatus vocis, dei suoni del-

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le labbra a cui niente corrisponde nelle case, puri nomi senza soggetto. Altri, invece, seguivano, in nome di Aristotele, la via media. Per ragioni di chiarezza e semplificando, potremmo cosl definire le tre posizioni in latta tra di lora nel secolo XII:

il realismo: gli universali sono realta a se stanti, prima ancora delle case (ante rem), come le Idee di Platone; le case sono create sulloro modello, e dun­que gli universali sono anche nelle case (in re); l'intelletto umano le riproduce in se mediante il concetto (post rem);

il concettualismo: gli universali di per se esistono solo nella nostra mente (post rem); nella realta (in re) essi sono inseparabili dalla materia e cioe dagli individui, dai quali lo spirito li astrae mediante il concetto;

il nominalismo: noh ci sono che gli individui (c'e Pietro, Luigi, ecc., non l'Uomo) e i nomi cofu;u,i noi li raggruppiamo in base a certe lora rassomiglian­ze. Dunque gli universafi non sono ne ante rem, ne in re, ne post rem: sono del­le comode invenzioni del linguaggio.

10.6 Abelardo. Basterebbe leggere l'autobiografia (piu precisamente, Histo­ria calamitatum mearum) di Abelardo* e la corrispondenza tra lui ed Eloisa, la sua infelice e sublime amante, per avere del medioevo, o quanta meno di que­sta sua fase, un'immagine molto diversa da quella consegnataci dalla storio­grafia dominante fino a qualche anna fa. Attorno a questa 'cavaliere della dia­lettica', proprio negli anni in cui nasceva in Francia, per mana di un anonimo, il romanzo d'amore su Tristano e Isotta, si muove un mondo di passioni intel­lettuali (e non solo intellettuali) ancora oscillante tra i richiami monastici (Abelardo morira monaco) e le forme di intraprendenza individualistica di cui andra fiera la civilta moderna. Abelardo e del tutto cosciente di questa ambi­guita, che lo segna anche nella carne, pronta ad assoggettarsi ai pili severi ascetismi e insieme abbandonata senza ritegno al mota della passione amoro-

Pietro Abelardo nasce da famiglia di piccola nobilita nel 1079. Dedica­tosi allo studio del quadrivio e poi, in modo esclusivo, della logica, fre­quenta diversi maestri, del piu illustre dei quali, Guglielmo di Cham­peaux, diventa successore nella cattedra di Parigi. Qui conosce Eloisa, una giovane di eccezionali qualita, affidatagli come alunna dallo zio, il canoni­co Fulberto. Esplode fra i due una memorabile passione. Eloisa ha un fi­glio, Astrolabio, e lo zio costringe i due al matrimonio, che pero, per tute­lare il ruolo pubblico di Abelardo vincolato al cdibato, essi decidono di te­nere segreto. Per questa Eloisa vive appartata in un monaslero. Lo zio la crede ripudiata e per vendetta fa evirare nottetempo Abelardo. I due si de­dicano alla vita monacale, lontani l'uno dall'altro. Pur tra turbamenti d'ogni genere Abelardo continua il suo insegnamento. Condannato a Sens nel1140, intende appellarsi aRoma. Malato, accetta l'ospitalita di Pietro il Venerabile, a Cluny, dove muore nel 1142. La sua salma viene portata nel monastero da lui fondato, il Paracleto, dove nel frattempo si e ritirata, in­sieme alla sue monache, Eloisa, che lo raggiungera nella stessa tomba nel 1164.

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sa. Nei suoi confronti, Eloisa ci appare prodigiosamente pili autentica, pla­smata in tma sola sostanza, quella d'amore, anche se straordinariamente diver­sa da Isotta, esperta com'era nelle discipline apprese alla scuola del suo Abe­lardo, grande ai suoi occhi come Platone, come Girolamo e come Agostino. Di­venuta eremita dopa il suo turbinoso legame, essa rimarra sino alia fine so­spettosa di amare Dio pili per far piacere ad Abelardo che non per spontanea elezione. Per non turbare Ia carriera del suo amante-maestro, essa passo Ia vi­ta ad intrecciare con ferma generosita le memorie e le nostalgic del suo cuore di donna con Ia dedizione completa e solitaria a Dio. E uno dei casi, questa, in cui un resoconto della storia del pensiero riesce facilmente a documentare co­me i movimenti dell'intelligenza non siano che un aspetto del moto stesso del­la vita. Cosi come sfido le regale canoniche e morali del suo tempo, il 'mino­tauro' Abelardo sembro compiacersi nel procacciarsi innumerevoli avversari per avere ragione di loro con la sola arma della ragione. Ma fu proprio cosl. che egli impresse al corso del pensiero un mutamento senza del quale non avremmo avuto la splendida stagione filosofica del secolo successivo. Anzi, nelle sue clamorose rotture, e stato possibile intravvedere qualcosa di pili: l'autonomia degli umanisti; la soggettivita religiosa e morale della Riforma lu­terana; il primato della ragione dell'Illuminismo. Limitiamoci ad esporre alcu­ne di queste 'rotture'.

1. Nella questione sugli universali, la sua posizione, elaborata in polemica con Roscellino prima e poi con Guglielmo di Champeaux, sara un punta di parten­za d'obbligo per la Scolastica dell'eta di Tommaso d'Aquino. E una posizione che si avvicina di pili a] nominalismo che al realismo, nel senso che anche per Abelardo si ha vera conoscenza solo del particolare, e cioe di Pietro, Paolo, Luigi e non dell'uomo, degli individui e non delle specie e dei generi. I nomi universali - dice Abelardo - evocano rappresentazioni generiche e sbiadite. Solo che quei nomi non si identificano, come voleva Roscellino, col suono del­le parole, non sono soltanto voces. Egli distingue nel nome universale (albero, animale, uomo, ecc.) il vocabolo (vox) dal suo significato (sermo) e cioe dalla sua disposizione logica ad essere usato come predicato di una pluralita di sog­getti. Questa duplice valenza di un nome e dovuta al fatto che mentre la deter­minazione dei vocaboli e fissata dalla convenzione, il !oro contenuto logico e prodotto dal processo astrattivo dell'intelletto, il quale, in una moltitudine di oggetti offerti dalla sensazione, sceglie quei caratteri che si ritrovano in tutti e che dunque esprimono il !oro status communis, la !oro comune condizione. Egli non dice, come i realisti moderni, che negli individui c'e una so.;;tanza co­mune e tanto meno che questa sostanza comune rimanda aile idee eterne di Dio, come dicono i realisti assoluti. Egli dice che in re, nella realta, si da una molteplicita di condizioni di esistenza (status), in ciascuna delle quali si trova­no raggruppati pili individui. Tali condizioni non sono 'nature' a se stanti, non sono da considerare come separate dagli individui, anche se sono pensabili se­paratamente da essi. Gli universali dunque non sono 'cose', come vogliono i realisti, perche esistono solo nella mente, rna non sono neppure convenzioni fissate nel linguaggio, dato che se sono nella mente e perche hanno un corri­spettivo nelle cose. Che poi gli universali esistano nella mente di Dio Abelardo non lo nega affatto, solo che il suo metoda filosofico (ed e qui la sua novita)

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procede con l'unico strumento dell'analisi razionale dell'itinerario conoscitivo, della trama psicologica con Ia quale si passa dalla sensazione al concetto. La filosofia insomma cammina con i propri piedi.

Non che Abelardo sia il razionalista ribelle caro ad una certa letteratura ottocentesca: il suo vero mondo spi rituale e quello ereditato dalla Tradizione e definito dai dogmi, Ia cui tutela e affidata, anche per lui, all'autorita della chiesa. Anche lui polemizza, adducendo l'esempio del piu grande dei dialettici, Boezio, contro chi applica ai misteri di Dio la dialettica, quasi che quei misteri potessero rientrare nelle dieci categoric. Ma mentre un filosofo come Anselmo partiva dai dati della fede per sviluppare le sue argomentazioni filosofiche, Abelardo, con una piu netta percezione della diversita tra filosofia e fede, la­scia da un lato i dogmi e procede a partire dalla ragione, restando costante­mente nei suoi confini, nonostante Ia !oro angustia di cui egli e perfettamente cosciente. Quei confini sono rigorosamente tracciati dal reticolato delle cate­goric, al di Ia del quale solo Ia fede ha il passo libero. Ma Ia robusta razionali­ta di Abelardo non poteva restar paga di questa dicotomia. Egli e convinto che Ia ragione ha, nei confronti della sfera della fede, due possibilita. La prima e quella di un raccordo tra verita razionali e verita di fede mediante l'analogia. E cioe: Ia ragione, procedendo con i suoi mezzi (come han fatto i filosofi anti­chi, ad esempio Platone nel Timeo), raggiunge verita che sono rassomiglianti, analoghe a quelle della fede. Sotto qualsiasi cielo, Ia razionalita umana e una sola, come una sola e Ia verita.

Anche se su questa strada era facile prevaricare perdendo di vista Ia rico­nosciuta di\·ersita delle due sfere (Abelardo ad esempio e convinto che Ia dot­trina platonica dell'Anima del mondo sia una anticipazione mirabile della dot­trina trinitaria dello Spirito Santo), resta importante il recupero non puramen­te strumentale del pensiero antico in nome della comunanza della natura uma­na. Questa certezza, che ci ricorda Ia dotttina dei primi padri della Chiesa (Giustino 7.21, Clemente 8.9) ispira ad Abelardo un singolare tentativo missio­nario. Nel suo Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano egli mostra co­me nella fede cristiana trovi esplicita rivelazione quel che e !!ia contenuto nel sapere razionale di ogni uomo: testimoni i filosofi antichi. E gia un'avvisaglia del peso che avra Aristotele - il 'filosofo' - nella Scolastica del secolo successivo.

2. L'altro ruolo della ragione in ambito teologico e Ia rimessa in questione delle autorita dei Padri mediante il metoda, che avra un destino glorioso, della disputatio. II documento piu eloquente di questa novita abelardiana e una rac­colta di brani dei Padri della Chiesa a cui l'autore dette il titolo significativo di Sic et Non: si tratta infatti di una serie ..:.i testi j>::ltristici tra !oro contrastan­ti su singoli argomenti di teologia. L'intento di Abelardo non era il rifiuto scet­tico delle auctoritates contraddittorie, ma la messa in opera della discussione razionale in vista di una conciliazione dei contrasti. L'insegnamento di Abelar­do e chiaro: che senso ha riferirsi ad un'autorita in se contraddittoria senza il filtro della ragiune? lnsomma senza un 'dubbio metudico' che, mettendu a con­fronto due affermazioni contraddittorie, e usando l'analisi del senso e delle ac­cezioni delle stesse parole in diversi contesti, arrivi a produrre il superamento dell'apparente conflitto? La disputatio (videtur quod sic, videtur quod non) sa­ra Ia forma tipica della ricerca scolastica.

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3. Una terza 'rottura' nei confronti della tradizione Abelardo Ia compie nell'ambito della dottrina morale con Ia sua Ethica seu scito te ipsum (Etica cioe conosci te stesso). E gia questa e singolare, che egli abbia preso a titolo delle sue paf!ine l'antico detto oracolare illustrato da Socrate, scito te ipsum: conosci te stesso. Perche, si domanda Abelardo, un 'azione e huon a o cattiva? La sua analisi distingue una sfera al di qua della morale e una sfera al di la: a! di qua e I 'inclinazione, il desiderio, che in quanta tale non e mai ne buono ne cattivo, nemmeno quando tende al delitto; al di Ia c'e l'esecuzione dell'atto. Tra l'uno e l'altro momento c'e un punto impercettibile rna decisivo, ed e l'in­tenzione. L'intenzione potrebbe anche essere in contrasto con l'ordine oggetti­vo del bene, rna se essa, nella coscienza di chi agisce, e buona, allora l'azione, quale che essa sia, e da dirsi moralmente buona. Coloro che uccisero Cristo se erano convinti di doverlo fare non hanno peccato, anzi avrebbero peccato se non l'avessero fatto. Questa esasperata esaltazione del momenta soggettivo dell'agire umano, urtava in piu modi Ia cultura del tempo. Essa contestava in­fatti: la pratica sacramentale superstiziosa e spesso venale; il pessimismo an­tropologico in voga tra i monad secondo il quale le inclinazioni dell' is tin to erano da ritenersi gia in se stesse un male; il giuridicismo dilagante che equi­parava le discriminazioni della coscienza morale con quelle della Iegge. La tesi di Abelardo era dunque destinata a provocargli multi nemici anche perche, co­me avviene a tutti gli iniziatori, non sempre egli riusciva a dimostrarla senza ambiguita e senza slittare in complicati sofismi.

10.7 II contrattacco dei mistici. Incalzato dalle sue calamita, Abelardo ave­va cercato il suo ultimo rifugio in un'abbazia, precisamente quella di Cluny, la casa madre, si potrebbe dire, del monachesimo dell'era feudale. La sconfitta di Abelardo e anch'essa un segno di quanto fosse ancora incerta, alia meta del XII secolo, la Iotta tra la nuova cultura prodotta nelle scuole cittadine e la grande tradizione monacale. Proprio mentre agli inizi del secolo si organizza­vano, col concorso di alunni assetati di un nuovo sapere, le prime scuole dei chierici addossate aile cattedrali o sorrette da statuti autonomi, Ia resistenza dei monaci si era ravvivata attraverso coraggiose riforme della vita conventua­le ispirate alia Regola benedettina. L'ideale della fuga dal mondo parve infatti a molti del tutto svuotato di sensa dal ruolo politico ormai assunto dalle ahha­zie cluniacensi, specie dopo che con Gregorio VII esse avevano investito, con Ia lora ideologia teocratica, lo stesso vertice della Chiesa. Tra i benedettini rifor­mati ebbero particolare sviluppo i cisterrcnsi, de':ti cosi perche nati nella zona paludosa e selvaggia di Ci teaux, presso Digione, dove nel 1098 si era ri tira to, alia ricerca di poverta assoluta, il monaco Roberto. II !oro successo fu assicu­rato quando, nel 1112, il nobile Bernardo di Fontaine (1091-1154), insieme ad una trentina fra parenti ed amici, entro nella comunita di Citeaux e, tre anni dopo, fu inviato a fondare l'abbazia di Clarveaux (Chiaravalle) di cui rimase abate fino alia morte, avvenuta nel 1154. In tale anno le abbazie cistercensi erano gia 350. L'ideale pauperistico, che fiammeggera nel secolo successivo con Francesco di Assisi, ebbe le sue prime attuazioni rigorose nei monasteri cistercensi. Mentre a Cluny c'erano eserciti di servi, nelle nuove abbazie, mise-

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re anche nelle strutture (Bernardo per entrare nella sua cella doveva pieg:are la testa), si vedevano, con scandala di molti, i sacerdoti e perfino I 'abate mun­gere le pecore e pulire le stalle. Ma pur non essendo pil.1 una casta di potere, i nuovi monaci miravano a salvare l'immag:ine g:erarchica della societa cos! co­me si era attuata nella grande stag:ione del feudalismo. Per Bernardo di Chia­ravalle, Parigi era la nuova Babilonia, sia perche, nata e cresciuta a spreg:io degli ordines tradizionali, si dedicava ai traffici e alia dolcezza del vivere, sia perche Ia cultura d~lle sue scholae inseguiva un progetto di emancipazione della ragione dal primato conoscitivo della fede e dalla sudditanza all'autorita della chiesa. Bernardo era convinto, con gli uomini del suo tempo, che gli apo­stoli di Cristo avessero vissuto una vita monacale e che il !oro insegnamento non riguardasse altro che la maniera di vivere:

Che cosa ci insegnano i santi apostoli? Non certo a leggere Platone ne a rimuginare le sottigliezze di Aristotele, non certo a imparare sempre per non giungere mai alla conoscenza della verita; essi mi hanno insegnato a vi­vere.

Per gli antichi pagani la ricerca filosofica poteva avere un senso, data che essi non avevano altra via per la conoscenza di Dio. Ma i cristiani questa via ce l'hanno. La Sacra Scrittura, letta con semplicita di cuore, e la vera e defini­tiva filosofia. Bernardo sottolinea del cristianesimo il carattere di evento stori­co, irriducibile in quanta tale aile rationes naturales, contrastante di per se con ogni pretesa della ragione di giungere con le proprie forze ad una qualsia­si verita. Tra le conseguenze di questa impostazione integrista c'era anche la difesa del Papato contra ogni ordine politico naturale, alia maniera di Grego­rio VII, e c'era Ia legittimazione della crociata, sia contra i Catari che contra !'Islam. E finalmente c'era la convinzione che la chiesa con la sua autorita do­veva condannare chi, come Abelardo, applicando la ragione al Mistero, non po­teva non produrre eresie. Bernardo ritenne di aver vinto Ia sua battaglia nel 1140, quando a Sens riusci a far condannare da un Sinodo di Vescovi alcune proposizioni di Abelardo, senza nemmeno aver accettato, perche del tutto su­perfluo, un dibattito con lui.

Dalla sua solitudine, interrotta da frequenti incursioni nella vita pubblica, Bernardo fu la pili alta voce della cultura tradizionale, alla quale seppe infon­dere, con la ricchezza della sua psicologia di contemplativo, con l'opulenza del suo linguaggio devato, col fascino della sua testimonianza di vita, un afflato di novita che la rendera capace, paradossalmente, di sorpassare il proprio limite medioevale con una irradiazione di cui possono cogliersi riflessi in Dante Ali­ghieri, nella Riforma luterana e perfino nel cristianesimo devoto dei nostri tempi. Mettendosi contra la logica delle cose, egli non poteva che perdere le sue battaglie: la crociata che egli predico, ad esempio, non ebbe esiti nemme­no di organizzazione; !'influenza di Abelardo non fu offuscata dalla sua pole­mica e dalle censure da lui provocate.

Non puo darsi un sensa della storia quale prodotto dell'uomo se non si ri­conosce alla ragione, sia speculativa che pratica, una sua autonomia e cioe

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una sua intrinseca capacita di produrre opere gia di per se significative. La fu­ga dal mondo, che sta alla radice di un certo monachesimo, e anche ngeno della storia dell'uomo e quindi, se lo proponga o meno, una difesa dell' ordine esistente quasi fosse scritto nei decreti della provvidenza. L'unica storia, per il monaco che ritiene esemplare l'orizzonte del monastero, e quella sacra, riev~ cata ogni giorno neii'Opus Dei, nelle celebrazioni liturgiche. E qui che l'uomo puo portare avanti il suo tirocinio di perfezione, quale lo illustra Bernardo nei suoi Sermones, che va dalla conoscenza di se fino alia perfetta unione con Dio, giunto alla quale egli si perde nella Santita divina come una goccia d'acqua nel vino. Un simile viaggio, mosso dalla forza d'amore, non tocca il suo scopo se non per opera della Grazia. E, come si vede, l'itinerario di Agostino, rna tracciato secondo i dettami di una fuga dal mondo che i monaci di Agostino, ancora cosi organici alia citta di Ippona, non conoscevano. La passione mistica di Bernardo, abbandonata totalmente aile ragioni del cuore, anche se non con­danna l'uso strumentale della dialettica, svuota di ogni consistenza i momenti autonomi della ricerca razionale cosi come svuota di ogni senso morale positi­vo la vita della citta e di ogni legittimita un potere politico che non sia puro strumento di quello ecclesiastico. L'asse dell'itinerario contemplativo si spo­sta, con lui, dalla ragione a! sentimento. Non a caso Bernardo e il massimo creatore della devozione cattolica a Maria: nel paradiso dantesco tocco a lui cantare l'inno mariana nel grande consesso della 'candida rosa'.

10.8 I moderati di San Vittore. A mezza strada ~dealmente, non geografica­mente) tra la collina di Santa Genoveffa, a Parigi, dove Abelardo insegnava, e la piana selvaggia di Citeaux, dove Bernardo meditava in solitudine, c'era, alia periferia di Parigi, lungo la Senna, l'abbazia di San Vittore, dove si era rifugia­to con un gruppo di chierici Guglielmo di Champeaux (10.5), dopo che Abelar­do lo ebbe cacciato dal suo nido. Era nata cosi una nuova comunita, non di monaci rna di chierici, che si erano dati una regola di vita desunta da sant' Agostino. Nel concerto delle scuole parigine Ia comuni ta dei vi ttorini rap­presentera lungo tutto il secolo l'istanza monacale del primato della contem­plazione e, nel grande arcipelago delle scuole abbaziali, rappresentera l'esigen­za di un piu rispettoso confronto con il sapere filosofico che si andava orga­nizzando nelle citta. Questa ruolo di mediazione verra meno solo quando, alia fine del secolo, le scuole di citta si organizzeranno nella Universitas e cioe in un complesso di strutture capace di accogliere al proprio interno le piu diver­se tendenze e di favorirne una mediazione creativa. L'umanesimo monacale dei Vittorini e gia presente nel ]oro capostipite Ugo detto appunto di San Vit­tore (t 1141). Anzi, nel suo Didascalion, Ugo depreca coloro che passano subi­to alia filosofia senza aver acquisito solide basi nella conoscenza storica e fil~ logica.

Io oso affermare di non aver mai disprezzato nulla di cio che spetta all'erudizione, rna di aver imparato spesso molte cose che ad altri sarebbero sembrate scherzi o pazzie.

II vero sapere e, si, Ia contemplazione di Dio, rna esso non puo raggiungersi

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senza aver percorso, grado dopo grado, l'itinerario conoscitivo delle sette arti, di cui la sua opera offre una specie di summa ad uso scolastico. Ogni cono­scenza rimanda, per intima necessita, alia conoscenza superiore e in ultima istanza alia contemplazione di Dio; Ia 'teologia mondana' rimanda alla 'teolo­gia divina'. La prima e opera della ragione in quanto osserva la realta sul ver­sante dell'immaginazione sensitiva, Ia seconda e opera della n:\gione in quanta guarda direttamente Dio e ne riceve in se Ia luce. Cosi illuminato, I 'occhio del­la ragione per!ustra l'intera storia della natura e dell'umanita cogliendovi la trama di analogie che rimandano al Dio della creazione e della redenzione: tut­te le cose sono 'segni' e cioe 'sacramenti' delle cose sovrasensibili. De Sacra­mentis si intitola infatti l'altra opera di Ugo. Nel suo alunno e successore Ric­cardo (t 1173) riaffiora l'esigenza razionale che era stata al centro della rifles­sione di Anselmo di Aosta: cercare le 'ragioni necessarie' all' interno delle veri­ta accolte per fede. E cosi egli tenta di armonizzare Ia ricerca dialettica e Ia speculazione mistica. Alia ricerca dialettica appartengono le prove induttive dell'esistenza di Dio da lui proposte nel Beniamino maggiore, che a quel tem­po, nonostante il M(mologion di Anselmo, erano piuttosto nuove. Esse si basa­no sull'esperienza delle case che non hanna in se la ragione di se stesse, non sono da see percio rimandano necessariamente all'Essere che e in see da se. ragione di ogni altro essere. Alia speculazione mistica appartiene il suo Tratta­to sulla trinita (De Trinitate), nel quale egli cerca le 'ragioni necessarie' del fat­to che Dio e uno in tre persone. AI centro di queste ragioni sta Ia natura stessa di Dio che e amore e dunque comunicazione di se ad un Altro. i1 Figlio. II Pa­dre e il Figlio non si amerebbero davvero senza rendere partecipe del !oro amore una Terza persona, che e lo Spirito. Questa analisi dell'Amore come na­tura di Dio e simmetrica all'analisi che Riccardo fa, con acume e ricchezza espressiva, dell'amore con cui l'uomo, fatto a somiglianza di Dio rna disperso nelle regioni della 'dissomiglianza', ritorna a Lui.

La caratteristica dei vittorini. che ha fatto parlare di un lora umanesimo, e che il !oro itinerario contemplativo prevede due momenti esclusi' o lasciati in ombra dal misticismo cistercense: innanzitutto la necessita di nutrire la ragio­ne di tutto lo scibile 'profano', che e il contenuto delle arti (ivi comprese le at­tivita meccaniche), e, in secondo luogo. l'importanza preminente attribuita. nell'ascensione a Dio, al processo conoscitivo come tale: e la ragione che scan­disce le tappe dell'amore.

10.9 La scuola di Chartres. Piu che una vera e propria scuola, quella di Chartres va considerp.ta come una famiglia intellettuale che si distinse per al­cuni tratti comuni e per un comune riferimento ai maestri della Scuola citta­dina annessa alia cattedrale e specialmente al prima di essi, Bernardo di Char­tres, magister scholae dal 1114 al 1119, quando ne diventa cancelliere. Bernar­do era un 'grammatico', rna nel sensa ricco che la parola aveva nella tradizio­ne della humanitas latina: la lettura degli autori diventava la base per appren­dere le regale elementari del discorso e per condurre l'analisi fino al punta in cui le regale del discorso (come le connessioni tra soggetto e predicato) arriva­no a coincidere con le leggi stesse della logica, quelle che Aristotele aveva fis­sato nelle sue Categorie. Bernardo Iegge Aristotele alla maniera platonica; gli

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universali sono per lui le idee preesistenti aile case. Preesistenti ed eterne (an­che se non 'coeterne' a Dio: coeterne sono soltanto le tre persone della Trinita) in quanta sono effetti che Ia causa prima ha prodotto all'interno di se. In coe­renza col principia cristiano della creazione, Bernardo introduce nella dottri­na platonica una seconda variante: anche la materia e creata da Dio. Traccian­do una linea di separazione tra il Dio trascendente ed eterno da una parte e dall'altra le idee e la materia create da Lui, Bernardo correggeva il platonismo di Agostino e di Boezio con un tocco di teologia negativa derivata dallo pseudo-Dionigi. Questa relativa liberta nell'usare le tradizioni filosofiche e ap­punto, nella scuola di Chartres, una caratteristica consapevole del proprio ar­dimento. Bernardo, come ci attesta un suo discepolo di cui dovremo subito oc­cuparci, Giovanni di Salisbury, «diceva che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, si che possiamo vedere piu case di !oro e piu lontane. non per l'acutez­za della nostra vista o per l'altezza del nostro corpo, rna perche siamo sostenu­ti e portati in alto dalla statura dei giganti».

Di questa arditezza era sicuramente dotato il piu acuto dei suoi discepoli, Gilberto de Ia Porree detto anche il Porrettano (1080-1154), amico di Abelardo e insieme a lui bersaglio preferito della pattuglia cistercense. Anche lui doveva avere il sarcasmo facile: ai discepoli che prendevano gli studi aile leggera con­sigliava di andare a fare i fornai: si guadagnava bene senza bisogno di troppe specializzazioni. Forse proprio perche molto esigente anche con se stesso, Gil­berto ha lasciato poco di scritto e quel poco di sapore piuttosto aspro. Il suo trattato Dei sei principi e stato studiato e commentato lungo tutto il medioevo. I 'prindpi' sono le categoric aristoteliche, distinte da Gilberta in due gruppi, quelle 'inerenti' alia so stanza in se considerata e quelle 'avventizie', che le resta­no esteriori, come il tempo e il luogo. Ma, diversamente da Abelardo, il cui ap­proccio alle Categorie di Aristotele fu di tipo dialettico, Gilberta ne trae ispira­zione per impostare degli ardui temi metafisici, il cui sensa complessivo, sulla linea tendenziale di Chartres, e Ia fondazione di una scienza della natura dota­ta di principi e di regale autonome. Ad esempio egli, come il suo maestro Ber­nardo, riconosce che le case sono state create secondo le idee eterne, rna que­ste idee non si uniscono direttamente alla materia per dar origine agli indivi­dui: esse sono soltanto gli 'esemplari' eterni in conformita ai quali sono state create delle 'forme native' che, unendosi alia materia, danno origine agli indi­vidui. Sono queste forme terrene, e non i lora esemplari eterni, gli universali che l'intelletto coglie per via astrattiva. L'universale e 'cio per cui una cosa e quello che e', eva distinto da 'cio che una cosa e': e, ad esempio, J'humanitas per cui questa individuo e un uomo, e la corporeita per cui questa e un corpo. Anche riguardo a Dio si deve procedere cosi? Bisogna distinguere in Lui Ia di­vinitas per cui egli e Dio? Fu sulla base di questi sospetti teologici (di cui qui non occorre occuparci) che Gilberta fu, accanto ad Abelardo, un imputato al concilio di Sens (accusatore di Bernardo), dal quale pero usci indenne.

A Gilberto. diventato vescovo di Poi tiers (1141). successe, come cancelliere 'della scuola, il fratello di Bernardo, Teodorico (sec. XII), anche lui arnica e all' occasione difensore di Abelardo, del quale anzi fu anche maestro di mate­matica (pare con poco successo). L'apporto piu rilevante di Teodorico al pen­siero chartriano fu un'ardita armonizzazione tra il racconto biblico della crea-

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zione del mondo e le dottrine 'pagane' sulla cosmogenesi, da quella del Timeo platonico a quelle pitagoriche, arricchite da alcune conoscenze dell'astronomia tolemaica ed araba. Di tipo pitagorico e Ia sua dottrina sui rapporti tra Dio e mondo (Dio e l'unita, il mondo e il molteplice) e tra Dio uno e le tre persone divine (cia che l'Unita genera non puo che essere identita: il Figlio e l'identita generata dall'unita all'interno di se stessa). Al Timeo (4.16), rna anche al mec­canicismo atomistico, si ispira l'intepretazione del racconto del Genesi sulla creazione in sf'i giorni: Dio crea i quattro elementi, aria, acqua, terra e fuoco, le cui combinazioni, regolate da leggi meccaniche, danno luogo aile diverse fa­si (i sei giorni) della formazione dell'universo. Anche i miracoli sono eventi gia contenuti, in modo seminale, nel primo impulso impressa da Dio agli elementi primi. Siamo lontani, qui, dalle letture allegoriche e misticheggianti del rae­canto biblico. La fede nel dogma della creazione si veste qui di panni scientifi­ci o, come alcuni pensano, e la scienza fisica, affidata alle proprie leggi, che si veste, dati i tempi, di panni religiosi.

II platonismo di Teodorico e in genere della scuola di Chartres si riduce so­stanzialmente a quella parte del Timeo che riguarda la formazione del mondo e cioe a quanto allora di Platone si conosceva, attraverso la traduzione di Cal­cidio. Vero e che in quel periodo la curiosita enciclopedica, particolarmente viva a Chartres, aveva messo mano su molti altri strumenti: tra gli altri anche sull'intero Organon di Aristotele, di cui Teodorico per primo fece largo uso. Poggiandosi su questo patrimonio molteplice, un condiscepolo di Teodorico, Guglielmo di Conches (1080-1154) fa compiere un passo vigoroso alia fondazio­ne di una fisica svincolata dalle dipendenze idealistiche e dai significati mera­mente simbolici, cari, come abbiamo visto, ai contemplativi di San Vittore. Nella sua Philosophia mundi, senza negare naturalmente i rapporti del mondo sensibile con gli archetipi eterni che sono nella mente di Dio, egli colloca tra le cose e Dio un 'ordine naturale' che e strumento autonomo dell'azione divi­na, dotato di proprie leggi e di una propria efficacia specifica. «<o non tolgo niente a Dio» scrive Guglielmo, in risposta alle accuse dell'ambiente bernar­diano che mal tollerava una spiegazione della natura in base a cause naturali. Egli riconosce alia volonta di Dio il potere di fare un mondo diverso da que­sto, rna una volta che Egli ha voluto proprio questo, e del tutto legittimo che noi tentiamo di comprendere le regole con cui esso procede, senza tirare in causa l'arbitrio di Dio: «Dio puo di un tronco d'albero fare un vitello: rna l'ha mai fatto?». Le ambiguita di Guglielmo sono altrove; sono, ad esempio, nelle sue spiegazioni del mistero trinitario (allora il tema teologico per eccellenza) nelle quali anche lui r~sta sogg:iogato dalle sugg:estioni platoniche, quella so­prattutto, a cui ne Abelardo ne g:li altri chartriani seppero sottrarsi, deli'Ani­ma del mondo, trasformata, sia pure problematicamente, in concettp tilosofico adatto a definire lo Spirito Santo. Erano proprio queste prevaricazioni che of­frivano armi al partito degli intransigenti. ·

Sfuggiva per lo piu ai protagonisti dei grandi dibattiti teologici e filosofici del secolo che Ia vera questione che stava sotto le formulazioni dottrinali in­conciliabili era, in realta, quella della posizione dell'uomo nel mondo e del mondo dinanzi a Dio. Il mondo e solo una trama di simboli da decifrare col rapportarli alia realta soprannaturale o e un insieme di determinazioni indivi-

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duali dotate di significato proprio e governate da leggi che nel lora insieme formano l'ordine di natura? E l'uomo ha ora come suo vera unico fine lacon­templazione delle idee eterne, fuori della storia, o ha anche, come suo fine im­mediato, la conoscenza della natura e la realizzazione del bene comune della societa temporale? Era insomma una questione umanistica, che solo la scuola di Chartres seppe prendere sui serio.

Anche se non appartenente alla scuola, Giovanni di Salisbury (1110-1180 ca.) impersono l'umanesimo chartriano liberandolo pero dalle sue pretese me­tafisiche e riducendolo ad una amabile humanitas, modellata, pili che su Plato­ne o Aristotele, su Cicerone, del quale egli adotto l'ideale etico-letterario dell'eloquenza. Testimone diretto delle aspre polemiche tra Abelardo e il mo­naco Bernardo e tra Bernardo e Gilberta Porrettano, egli rafforzo la convinzio­ne, a cui lo disponeva la sua stessa indole, che la ragione umana non puo, con le sue forze, che rassegnarsi ad alcune opinioni pili probabili delle altre. Era, il suo, uno scetticismo moderato, non diverso da quello di Cicerone e degli Ac­cademici, che lo teneva a mezza strada fra il dilettantismo loquace di quelli che egli chiama 'Cornificiani' e le complicazioni astruse dei grandi maestri contemporanei che pure ammirava. Ad esempio, sulla quest~one degli univer­sali egli rigettava il nominalismo rna riteneva inutile indagare sulla lora natu­ra: bastava attenersi al procedimento, questa si facilmente conoscibile, con cui la nostra ragione li costruisce induttivamente. E forte in lui il sentimento dei limiti del sapere. Tre sono le fonti della nostra conoscenza: i sensi, la ragione, la fede, o meglio l'intelletto che per via intuitiva attinge le case divine. Tutto cio che e fuori della portata di questi tre organi conoscitivi non puo diventare oggetto di disputa, se non si vuol ripetere la confusione di Babele. La vera fila­sofia none nell'indagine teorica, e nel tradurre in vita cio che si conosce: Phi­losophus amator Dei est: il filosofo e colui che ama Dio.

Chiamato alla corte d'Inghilterra accanto al vescovo di Canterbury, Tom­maso Becket, Giovanni fu testimone delle lotte tra il re Enrico II e il vescovo, lotte che si chiusero con 1' assassinio di questi. Pare che Giovanni non condivi­desse del tutto le intransigenze del suo superiore. Anche sui piano pratico egli era per la moderazione, per quella moderazione il cui vera sensa e nel primato dell'amore per l'uomo su ogni altro principia dottrinale o politico. Di questa sua saggezza umana e filosofica trattano due sue opere, il Polycraticus e il Me­talogicon, due capolavori che si direbbero scritti dalla penna di qualche uma­nista del '400.

Giovanni mori vescovo di Chartres: un fatto che in qualche modo sottolinea la sua appartenew:a sostanziale a quella famiglia di grandi spiriti di cui aveva narrato le origini, con viva simpatia, nel suo Metalogicon. La sua Iibera umani­ta aveva derivato dal capostipite di questa famiglia, il 'grammatico' Bernardo, il gusto delle forme nobili del dire e soprattutto il distacco dai fanatismi cosi funesti nel suo tempo. Alla sua larghezza d' orizzonti contribui sicuramente an­che il fatto che proprio a Chartres fu aperta, nel recinto della cultura latina medioevale, una breccia attraverso la quale si introdussero gli apporti del­la scienza dei Saraceni e quelli della medicina di Ippocrate e di Galena, volga­rizzati dalla scuola di Salerno. I monaci pensavano aile crociate mentre ormai

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gli intellettuali guardavano al mondo degli infedeli con ammirazione e con spi­rito di emulazione.

La filosofia islamica dal IX al XII secolo

10.10 I 'falasifa'. II periodo che va da Scoto Eriugena (sec. IX) a Giovanni di Salisbury (sec. XII) corrisponde, nella storia dell'Islam, alia stagione di quei filosofi ellenizzati che, proprio per questo, rientrano da sempre nella storio­grafia del pensiero occidentale. Piuttosto mar~inali in rapporto alle dinamiche specifiche della cultura islamica, essi hanno avuto invece il compito di assicu· rare la continuita tra pensiero antico e pensiero medioevale cristiano. La sal­datura vera e propria fra Ia filosofia ellenizzata dell'Islam e Ia scolastica occi­dentale avverra solo nel sec. XIII (11.2), ma gia prima, nella cortina di ignoran­za reciproca che separava Ia cristianita latina e Ia umma musulmana, erano stati aperti dei varchi, sia per l'intraprendenza personale di alcuni esploratori della cultura. come Gerberto d'Aurillac, aile so~die dell'anno Mille, o come, nel sec. XII, l'inglese Adelardo di Bath, sia per l'intraprendenza di alcuni centri culturali come quello di Toledo, vera fucina di traduzioni dall'arabo in Iatino. Proprio nel periodo delle Crociate in cui l'antagonismo religioso ricorreva alia spada, Ia fiducia nella ragione aveva predisposto pacifici scambi tra i due mondi, a tutto vantaggio della cristianita, che con Ia disputa tra dialettici e an· tidialettici aveva ripreso in mano il filo del sapere razionale, sotto l'insegna di Aristotele, e avvertiva il bisogno di ripercorrerne Ia trama storica. Questa tra· rna conduceva a Cordova e soprattutto a Bagdad, Ia capitale abasside nella quale, come si e detto (9.12), aveva trionfato, fin dal sec. VIII, il razionalismo teologico dei mutaziliti. Furono questi a dar veste maomettana ad Aristotele, di cui si potevano leggere in arabo quasi tutte le opere, insieme a queUe dei suoi commentatori e insieme ai dialoghi di Platone. E su questi testi e in que­sta ambiente che prese avvio la riflessione di alcuni pensatori che, a causa dell'impianto ellenico del loro pensiero, vennero detti, con una trascrizione dal greco lievemente storpiata, falasifa. Come si e accennato, l'Aristotele dei falasi­fa fu letto attraverso la chiave neoplatonica della pseudo-Teologia (9.11) che lo accomunava a Platone e faceva di ambedue come dei precursori della rivela­zione del Profeta, illuminati anche !oro dalla luce che scende dalla 'nicchia dei Lumi'. Solo con Averroe, nel sec. XIII, l'armonia tra i due maestri della Grecia si spezza: ma l'aristotelico Averroe, dislocato in occidente, rimase, nella me­moria dell'Islam, piuttosto un irregolare in confronto, ad esempio, al neoplato­nico Avicenna, molto piu omogeneo allo sviluppo del pensiero islamico.

I temi affrontati da questi due massimi filosofi erano gU1 sui tappeto da qualche secolo ed erano gia stati sviluppati da pensatori di grande risonanza, come al-Kindi (796-873) e al-Farabi (872-950). II primo visse soprattutto a Bag­dad, ma era di famig:lia araba (e percio venne detto 'il filosofo degli arabi'); fu vicino ai gruppi dei mutaziliti, sebbene se ne distinguesse per una minore ac­centuazione del primato della ragione in rapporto alia Profezia e per un oriz-

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zonte di interessi extrateologici che abbracciava anche Ia musica, l'astronomia e Ia matematica. AI Farabi fu anche lui un enciclopedico (Ia leggenda gli attri­buisce Ia conoscenza di 70 lingue) tanto da esser detto il secondo Aristotele: Magister secundus. Autore di un trattato sulla musica (largamente diffuso nel medioevo) e musicista lui stesso, trasporto Ia passione dell'armonia anche nel campo filosofico, propugnando un 'accordo' sia tra fede e ragione, sia tra Pia­tone ed Aristotele. Dobbiamo limitarci ad indicare fra i temi trattati dai due falasifa quelli che diverranno questioni permanenti in seno all'Islam e di ri­flesso in seno alia cristianita latina.

1. La questione dell'intelletto e cioe della psicologia del conoscere e risolta da ambedue i filosofi secondo Ia interpretazione che di Aristotele aveva dato, nel III secolo, Alessandro d'Afrodisia: proprio dell'uomo e l'intelletto passivo (Alessandro lo chiama materiale) e cioe 'in potenza' riguardo ai concetti: il pas­saggio della potenza all'atto puo darsi solo con l'intervento di un intelletto che e gia in atto, il quale non e numericamente diverso per ogni individuo, e unico per tutti e dunque none soggetto a morte, e immutabile, trascendente, insom­ma o e Dio stesso (come per Alessandro o per sant'Agostino) o una sua prima creazione coeterna a lui. E facile capire come per questa via Ia psicologia peri­patetica arr·iva a coincidere con Ia metafisica platonica: l'intelletto attivo, che ha in se tutte le idee, e separato dal mondo e comunica Ia conoscenza della ve­rita per illuminazionc. L'analisi di ai-Kindi e quella di al-Farabi, diverse nella determinazione delle varie fasi con cui l'intelletto passivo passa all'atto, con­cordano sulla natura trascendente e separata dell'intclletto attivo.

2. Sempre sulla linea di una contaminazionc tra motivi platonici e motivi aristotelici, J'intelletto attivo viene collocalo nelle sfere sopralunari, come un prodotto dell'Intelletlo primo. ll quale Intelletto primo, causa motrice delle sfere celesti, non e un'emanazione deli'Uno, e Ia sua pili alta creazione: !'Uno, cioe Dio, resta inaccessibile, ol tre Ia frontiera suprema deli'Intelletto. E I'In­telletto, spiega al-Farabi, in quanto e creato, e di sua natura non necessaria rna 'possibile' e come tale genera Ia materia del primo cielo, quello delle stelle fisse, rna in quanto si conosce come necessaria in rapporto a Dio (Dio infatti lo crea in quanto pensa se stesso e dunque non puo non crearlo) genera un se­condo Intelletto. E questo a sua volta genera una seconda materia celeste e un terzo Intelletto. Il processo continua fino all'ultimo cielo e all'ultimo intellet­to, quello che funge da intelletto attivo nella conoscenza umana. L'aspirazione dell'uomo e di unirsi all'intelletto primo: e questo il privilegio del Profeta. Ec­co cosi conciliati il rigoroso monoteismo islamico, l'emanazionismo neoplato­nico e la rigida str~ttura della cosmologia aristotelica.

3. E stato al-Farabi ad impostare uno dei pili ardui temi della metafisica, quello della distinzione tra essenza ed esistenza. Aristotele aveva gia detto che Ia nozione di cio che una cosa e (l'essenza) non include il fatto che la cosa sia (l'esistenza). Solo in Dio l'essenza include l'esistenza: nelle creature l'esistenza e conting:ente in rapporto alia !oro essenza, dato che niente c'e nella !oro defi­nizione che postuli Ia !oro esistenza effettiva. L'esistenza non e un loro carat­tere costitutivo, e un !oro accidente accessorio di cui solo Ia percezione sensi­bile o Ia dimostrazione possono renderci certi. Ci sono gia, con un secolo di anticipo, tutti i termini dell'argomento ontologico di sant 'Anselmo (10.4).

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10.11 Avicenna. Fu passando attraverso la Spagna che il nome di Ibn Sina divenne~ per il medioevo Iatino, Avicenna*. GUt questa viaggio fonetico dice molto sul destino storico del massimo filosofo dell'Islam: sui versante occiden­tale egli fa coppia con Averroe, come Platone fece coppia con Aristotele; sul versante orientale, che fu poi il suo (era di ceppo iraniano) egli fa corpo, sia pure con differenze 'ereticali', con le correnti spjrituali esoteriche (9.13). D'al­tronde l'occidente non conobbe della sua immensa opera che qualche cospicuo frammento: il Canone, una specie di enciclopedia medica che fu, fino all'eta moderna, una vera e propria bibbia professionale, e La Guarigione (tradotta in latina solo in parte), una enciclopedia filosofica che pen), a detta della stesso Avicenna, poteva essere appieno capita solo rifacendosi alia sua Filosofia orientale, che ando perduta in un saccheggio durante la sua vita avventurosa. Dai frammenti che ce ne restano, sappiamo che in questa opera di carattere iniziatico }'oriente e un 'luogo della spirito', e precisamente il lu,ogo da cui si alza la luce della vera conoscenza, mentre l'occidente e illuogo delle ombre in cui tramontano le anime incapaci di contemplazione. Nella storia dell 'Islam e questa l'Avicenna che ha avuto un futuro. A noi non resta che renderci canto di quello che fu 'l'Avicenna latina', citato dai medioevali con sommo rispetto anche quando veniva criticato.

E piu che un episodio quello che lui stesso ci racconta nella sua autobio­grafia. Aveva letto quaranta volte la Metafisica di Aristotele senza venirne a capo, fino a che non lesse quanta ne aveva scritto al-Farabi. Entrato d'improv­viso nei segreti della filosofia prima, fu preso da tale gioia che per riconoscen­za distribui larghe elemosine ai poveri! E difatti l'asse portante del pensiero di

Avicenna (semplificazione latina di Abu ibn Sina) nasce nel 980 ai con­fini orientali dell'Iran. A 17 anni ha gia assimilato l'enciclopedia del sape­re: matematica, fisica, logica, metafisica, diritto canonico, teologia.

Trova difficile la Metafisica di Aristotele: la rilegge quaranta volte fino a che un trattato di al-Farabi non gli offre la chiave per comprenderla. Studia anche medicina sotto la guida di un medico cristiano e compone un Canone medico che tradotto in latina sara per molti secoli la base de­gli studi medici in Europa. Divenuto ministro dell'emiro di Ramadan, nell'Iran occidentale, alterna le cure politiche (di giorno) con le ricerche fi­losofiche (di notte). Caduto in disgrazia, si rifugia presso l'emiro di Isfa­han, che gli affida anche lui il compito di ministro. !vlentre accompagna l'emiro in una campagna militare si ammala, si cura da se stesso ma pare con un eccesso di dosi e muore da musulmano edificante, all'eta di 57 an­ni, nel 1037.

Tra le sue opere, oltre il Canone, il Libra della guarigione, una vera en­ciclopedia dell'aristotelismo; Direttive e rilievi dove predomina l'aspetto esoterico della conoscenza e il Libra delle scienze, scritto in persiano, che contiene alcune tesi teologiche di cui approfitteranno i suoi avversari orto­dossi.

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Avicenna e nella trasfigurazione platonica dei cieli aristotelici, compiuta, co­me abbiamo appena detto (10.10), da al-Farabi.

Anche A vicenna pone tra essenza ed esistenza i rapporti che, sulla scorta di Aristotele, ai-Farabi aveva approfondito. L'esistenza e, in rapporto all'essenza. una pura possibilita, dinanzi alla quale di per se l'essenza e indifferente. Come dire che l'essenza non passa all'esistenza se non per una causa estranea a se. Solo Dio fa eccezione: in lui essenza ed esistenza si identificano. Egli e dunque l'essere necessaria in assoluto. Ma Dio in tanto e, in quanta pensa se stesso: egli e insieme il soggetto, l'oggetto e l'atto con cui il soggetto comprende l'og­getto. In quanta pensa se stesso Dio pone in essere il 'prima creato', I'Intelli­genza prima. La quale in se considerata non e necessaria, e soltanto possibile, rna in quanta necessariamente creata da Dio e anch'essa necessaria, sebbene di una necessita derivata. E con questa sottile distinzione tra necessita assolu­ta e necessita derivata che, come al-Farabi, Avicenna prende le distanze dai neoplatonici per salvare il dogma islamico (ed ebraico-cristiano) della creazio­ne. Una distinzione troppo tenue per appagare i tutori dell'ortodossia. Il Dio di Avicenna non crea per volonta rna per necessita: la volonta, in quanta possibi­lita di passare dalla potenza all'atto, e disdicevole a Dio, come aveva insegnato Aristotele.

La prima Intelligenza compie tre atti di contemplazione, tutti e tre fecondi: 1. contempla Dio che l'ha creata e con questa atto genera la seconda Intelli­genza separata; 2. contempla se stessa come necessaria in ragione della sua Causa, e con quest'atto genera !'Anima della prima sfera celeste che avvolge il mondo; 3. contempla se stessa come possibile (in quanta non ha in se la ragio­ne di se) e con quest'atto genera la materia pura della prima sfera celeste. Lo stesso atto triadico avviene nella seconda Intelligenza e via via nelle altre in­telligenze cosi generate, fino a quella che presiede il cielo della Luna, la Deci­ma Intelligenza. Le anime delle sfere celesti aspirano a unirsi ciascuna all'In­telletto che le ha generate e cosi si muovono i cieli, in virtu di amore (notiamo di passaggio che il Paradiso di Dante e in gran parte avicenniano). La decima Intelligenza, proprio perche remota dalla prima, non e in grado di generare un'altra intelligenza simile a se: con lei si ha il passaggio dal semplice al mol­teplice. Infatti essa genera le anime che si uniscqno alla materia nella sfera sublunare, le anime degli uomini.

Ma la decima Intelligenza ha un'altra importantissima funzione. Essa e l'In­telletto attivo, causa prima dell'attivita conoscitiva dell'uomo: il ruolo di intel­letto passivo o possibile tocca all'anima razionale, unita al corpo come sua forma. L'Intelletto passivo fa proprie le forme dell'Intelletto attivo in due mo­di: o per emanazione dall'alto, come nel caso dei principi primi della logica, o attraverso i sensi, che gli danno il contenuto della conoscenza, sul quale esso compie il processo di astrazione solo con l'intervento dell'Intelletto attivo. E interessante a questa punta osservare come per Avicenna l'effusione degli in­telligibili nel soggetto umano da parte dell'Intelletto attivo puo investire, oltre che l'intelletto passivo, anche l'immaginazione: di qui il carattere profetico dei sogni. Anche le Anime dei pianeti sono ricche di immaginazione e siccome ri­cevono luce dalla rispettiva Intelligenza hanna una 'conoscenza immaginativa' di cio che avverra. I profeti sono appunto colora che possono mettersi in co-

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municazione con Ia conoscenza immaginativa delle sfere celesti: ecco un illu­stre esempio di quella 'fiJosofia della profezia' che e un tratto delle COrrenti esoteriche dell'Islam. La via filosofica non e quella profetica, e la via che con­duce l'intelletto passivo ad unirsi sempre pili strettamente all'intelletto attivo fino a stabilire una comunione permanente con esso attraverso un'abitudine contratta mediante un severo esercizio. E cosi che !'anima diventa immortale, per partecipazione all'immortalita che e prerogativa essenziale dell'Intelletto attivo. In quanta forma di un corpo, !'anima si corrompe, rna in quanta intelli­genza potenziale }'anima puo acquisire Ia capacita di sopravvivere. Una via tortuosa, questa di Avicenna, per conciliare il dogma dell'immortalita persona­le dell' anima con l'aristotelismo di Alessandro d' Afrodisia, secondo il quale so­lo l'Intelletto attivo e immortale (10.10).

10.12 Da Bagdad a Cordova. Il sistema di Avicenna era destinato a provo­care contestazioni da due lati: da quello religioso e da quello storico-filosofico. L'ortodossia religiosa non poteva restare indifferente dinanzi a tesi come quel­le sul carattere necessaria della creazione e sull'eternita del mondo; e, dal punta di vista filosofico, la cosmologia avicenniana aveva Ia fragile base di un aristotelismo platonizzante che si sarebbe sgretolata qualora si avesse avuto una conoscenza diretta delle opere di Aristotele. La battaglia in nome dell'or­todossia fu condotta da al-Ghazali, quella in nome dell'autentico aristotelismo da Averroe.

II destino storico di al-Ghazali (1059-1111) e curiosa: scrisse un'opera, La distruzione dei filosofi, per confutare il pensiero di Avicenna e del suo prede­cessore al-Farabi, nella quale una prima parte era dedicata all' esposizione del­le tesi da confutare. Smarrito il resto, questa fu la parte conosciuta - col tito­lo lntentiones philosophorum - in occidente, dove pertanto al-Ghazali (o Alga­zel, come si diceva) passo come un prosecutore dei pensatori che avrebbe volu­to 'distruggere'.

Al-Ghazali non si limita a illusti-are il travisamento a cui i falasifa avevano sottoposto le verita di fonda della fede islamica, come appunto la liberta del Dio creature e la contingenza del mondo, rna giunge a stabilire, con uno spiri­to critico che prelude la gnoseologia dell'occidente moderno, i confini della ra­gione, condannata dalla propria natura a non fare affermazioni che non siano dimostrabili. Perfino il principia di causalita cade sotto il suo impeto critico: se, egli dice, il cotone brucia a contatto del fuoco noi non possiamo dire che e il fuoco che lo brucia, possiamo dire soltanto che il cotone brucia dopa che il fuoco gli si e accostato. Com'e nella natura dei mistici (e ai-Ghazali era vicino agli ambienti del sufismo) le posizioni scettiche sui piano della ragione servo­no a rendere pili ampi gli spazi della fede. II suo intento era di combattere il rigido determinismo cosmologico allora dominante tra i filosofi-scienziati dell'Islam. La catena dei fenomeni fisici sembra continua rna, dice al-Ghazali, non lo e: la materia si divide in atomi, il tempo in istanti. E la volonta di Dio che interviene, istante dopo istante, a dare continuita ad un processo che di per se e discontinuo e senza nessuna Iegge immanente.

None fondata la convinzione, un tempo generalmente condivisa, che dopo gli attacchi di al-Ghazali i filosofi, e in specie Avicenna, fossero davvero di-

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10- La filosofia islamica dal IX al Xll secolo 0 361

strutti. Nell'Islam orientale il pensiero di Avicenna ebbe un fecondo sviluppo. Ma anche nell'Islam occidentale (Spagna e Marocco) egli fu considerate il prin­cipe dei falasifa.

L'espressione ammirativa e di un seguace di Avicenna, Abu Bakr ibn Tofayl (conosciuto tra i Iatini come Ahuhacer) nato a Cadice agli inizi del secolo XII e morto nel 1185. E autore di un commento al De anima di Aristotele e di un 'romanzo filosofico' (imitazione di un analogo romanzo di Avicenna) ignoto agli scolastici perche fu tradotto in latina solo nel sec. XVII col titolo Jl filoso­fo autodidatta. Ambiente del racconto sono due isole. La prima e abitata da una popolazione retta da una legge che impone comportamenti ed atti religiosi totalmente esteriori. In quel popolo ci sono due uomini diversi dagli altri, con­cordi tra loro nel condannare una forma di vita senza interiorita, rna il primo, di spirito pratico, rassegnato a governare il popolo in conformita alle sue tra­dizioni, il secondo, Absal, deciso ad abbandonare una societa in cui si sente estraneo. Absal mette in atto il suo proposito recandosi in un'altra isola che egli crede deserta. E invece in quest'isola c'era una specie di Robinson Crosue. Nato, per via eccezionale, dalla terra, Havey (cosi si chiarnava il solitario) era cresciuto allevato tra gli animali e poi, illuminato soltanto dalla luce interiore dell'intelligenza, aveva inventato per suo conto tutti gli artifici che rendono ci­vile la vitae soprattutto aveva scoperto, una dopo l'altra, le fondamentali veri­ta filosofiche e religiose. Absal incontra Havey e, superate le difficolta lingui­stiche, i due arrivano a capire che per vie diverse hanno raggiunto la medesi­ma verita. Avendo saputo dell'altra isola, Havey chiede ed ottiene di esservi accompagnato dal nuovo arnica. Ma i due, per quanto si diano da fare, non rie­scono a scuotere le coscienze, anzi si guadagnano una tale ostilita che decido­no di tornarsene da soli nell'isola disabitata, unico luogo adatto alia sapienza.

Fra i molti sensi della parabola filosofica sembrerebbero sicuri questi due: la verita si raggiunge non per insegnamento esterno rna per l'illuminazione in­terna dell'Intelletto agente; l'uomo filosofo puo capire l'uomo religioso, rna non viceversa. E un insegnamento avicenniano che pero gia prelude alla filoso­fia di Averroe, di cui Abubacer era amico e protettore. Trovandosi Abubacer alla corte dell'emiro del Marocco, questi gli chiese di tradurre direttamente in arabo le opere di Aristotele. Abubacer si sentiva vecchio rna aveva con se l'amico Averroe e chiese all'emiro di passare a lui l'incarico. E cosi ebbe inizio l'aristotelismo arabo.

10.13 Averroe. Una conoscenza piu completa delle opere di Averroe* e basta­ta a far cadere, o quanto meno a correggere, l'immaginc che di lui si fece 11 medioevo come di un sovvertitore della religione. In realta Averroe si propose di rimettere ordine nella societa islamica liberandola dalle influenze dei teolo­gi, che, applicando in modo indebito la ragione alle verita della fede, davano origine a dogmatismi settari che erano di danno sia alla semplice religiosita del popolo sia alla serenita dei filosofi decisi a Fispettare le regale della ragio­ne. E in questa prospettiva che si capisce il senso religioso e politico della sua immensa opera di recupero del vero Aristotele, travisato nell'oriente islamico a causa delle mediazioni neoplatoniche. Nessuna riforma, a suo giudizio, anda­va apportata alia legislazione della comunita musulmana, troppo piu perfetta

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della citta greca anche nelle trasfigurazioni idealistiche di Platone. Il disordi­ne da sconfiggere, secondo Averroe, e quello che investe i rapporti fra le tre categorie di uomini dalle quali dipende la pace della comuniHt: gli 'uomini del­la dimostrazione', che procedono per prove convincenti e cioe per prove che vanno dal necessaria al necessaria, come appunto Aristotele insegna; gli 'uomi­ni della dialettica', che procedono con argomenti soltanto probabili; gli 'uomi­ni dell' esortazione' (noi diremmo della predicazione) che fanno affidamento sui sentimenti e sull'immaginazione. II Carano si adatta a tutti e tre i tipi. Ma solo gli uomini della dimostrazione, i filosofi, riescono a penetrare nel senso segre­to del testo, nella sua verita assoluta. I teologi che non sono capaci di sollevar­si ai livelli della dimostrazione rigorosa meglio farebbero a tacere. D'altra par­te i filosofi devono astenersi dal divulgare tra il popolo (al quale bastano i pre­dicatori) la verita che essi sono riusciti a comprendere. Non che ci siano due verita (nel cliche tradizionale Averroe passa come il teorico della 'doppia veri­ta'); ci sono due diversi livelli di comprensione delle medesime verita, che noi sopra abbiamo chiamato esoterico e essoterico (9.12-13). Anche Averroe e un esoterico, rna, a differenza degli sciiti o dei sufi, la sua via segn~~ta di accesso alla verita non e l'intuizione mistica, e la dimostrazione filosofica. Non che la

Averroe (cosi i Iatini semplificarono un nome impronunciabile, che nella sua forma piu semplice e Abu ibn Rushd) nasce a Cordova nel 1126 in una famiglia che conta celebri giuristi. NeZ 1169 diviene cadi di Siviglia e due anni dopa di Cordova. Nel 1182 e medico dell'emiro. Attaccato dai sostenitori della rigida ortodossia religiosa cade in disgrazia e muore nel 1198, appena riabilitato. Il suo obiettivo era stato di consegnare agli Arabi il vero Aristotele: di qui la serie dei suoi Commenti, che gli meritarono tra i Iatini il nome di 'Commentatore:

Anche Dante parla d"Averrois che il gran commento feo '. E difatti il Grande commento e La sua opera piu celebre: le opere di Aristotele, ripro­dotte paragrafo per paragrafo, vengono corredate di puntuali, approfondi­te spiegazioni. Accanto a questa opera maggiore c'e anche un Piccolo com­menta, una specie di parafrasi delle opere aristoteliche, e un Medio com­menta che segue le opere paragrafo per paragrafo ma in modo succinto.

E bene comunque ricordare che Averroe none un aristotelico antipla­tonico: compone infatti anche un Commento alla Repubblica di Platone. E non e nemmeno sol tanto 'il 'Comfnentatore '. Scrive anche opere perso­nali, tra le quali ricordiamo una monumentale replica ad al-Ghazali (10.12) ignota ai Iatini perche tradotta solo nel 1560 col titolo Desctructio destructionis (Distruzione della distruzione); e un Trattato decisivo sull'accordo della religione e della filosofia, anch'esso conosciuto in occi­dente solo in epoca recente. Il destino occidentale di Averroe e, per dir cosi, scritto nella stessa vicenda delle sue opere: quasi del tutto perduce nella lora lingua originale, le conosciamo solo in traduzioni ebraiche e !a­tine.

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10- La filosofia islamica dal IX al XII secolo 0 363

ragione sia in grado di esaurire il contenuto della fede: la rivelazione trascen­de i confini della ragione. Ma la dove si puo ragionare si deve far usa degli ar­gomenti di necessita e non di quelli di probabilita. Solo separando le due giu­risdizioni, quella della fede, che crede senza bisogno di ragionare, e quella del­la filosofia che ragiona senza dover fare appello alla fede, solo cosi si da a cia­scuno il suo e si garantisce la pace. Quando dice 'ragione', Averroe dice Aristo­tele, che Dio, cosi egli scrive, «ha collocato da solo al grado piu alto della su­periorita umana, dove nessun uomo, in nessun secolo ha mai potuto arrivare>>. E infatti la Metafisica di Aristotele che fornisce ad Averroe l'argomento per ta­gliar netto il groviglio delle discussioni sugli attributi di Dio (i mutaziliti li ne­gavano in nome della semplicita di Dio, gli ashariti li affermavano in nome del Carano, Avicenna aveva trovato l'espediente neoplatonico della Prima Intelli­genza, emanazione di Dio, alia quale collegare il mondo della molteplicita la­sciandone Dio al di fuori) ponendo al pasta della causalita efficiente di Dio la sua causalita finale: Dio, pensiero del pensiero, e semplice ed unisce in se il molteplice in quanta e la suprema causa finale. E lui dunque il motore immo­bile e non l'Intelligenza prima: egli e causa di questa come di tutte le altre In­telligenze, alia stessa maniera che l'intelligibile e causa dell'intelligente, in quanta cioe le fa passare dalla potenza all'atto~

Eliminata cosi la cascata neoplatonica delle emanazioni, l'universo di Aver­roe torna ad essere quello di Aristotele, con i carpi celesti mossi dal Motore immobile e con la realta sublunare resa molteplice non da una pioggia di for­me che scenderebbe dall'alto, alia maniera avicenniana, rna dall'emergere delle forme dall'oscuro fonda della materia, la quale, coeterna a Dio, e potenza a tutte le forme e passa all'atto per l'azione di cio che le e superiore, e cioe, in ultima istanza, di Dio.

Alia stessa maniera con cui Averroe ha 'distaccato' !'ultima Intelligenza, quella del cielo della luna, dalla materia sublunare (in quanta le 'forme' sono, in potenza, gia in questa, non devono venir infuse dall'alto), cosi egli separa l'intelletto agente dall'anima dell'uomo, che e un principia Vitale destinato a corrompersi col corpo. Potremmo cosi esporre, in sintesi stringata, la com­plessa dottrina averroistica dell'intelletto.

La conoscenza razionale non e che l'operazione con cui si astrae dalle im­magini sensoriali la forma che esse contengono in potenza e cioe l'intelligibile. Questa operazione astrattiva viene compiuta dall'intelletto agente, che e come la luce che da risalto ai colori, gia esistenti in potenza prima che essa li illumi­ni. L'intelletto agente e separato, immutabile, eterno, con in se tutti gli intelli­gibili in atto.

Ma l'intelligibile non puo passare all'atto se non in qualcosa che sia allo stesso livello dell'intelletto agente, non dunque nelle capacita corporee o psi­chiche dell'individuo. Questa 'luogo' in cui per opera dell'intelletto agente l'in­telligibile passa all'atto e l'intelletto materiale, 0 passivo 0 possibile (i tre ter­mini, come sappiamo, sono, nellinguaggio aristotelico, sinonimi). Come l'intel­le.tto agente, anche l'intelletto materiale deve essere non generato, non morta­le, impassibile e semplice. Come dire che esso non puo essere proprio di cia­cun individuo, non puo moltiplicarsi numericamente. E allora quale sara l'in­telletto proprio dell'individuo umano?

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L'intelletto materiale non e che Ia determinazione particolare che, in cia­scuna anima, assume l'intelletto agente. Esso non e dunque un'altra sostanza dall'intelletto agente. E in che modo si particolarizza l'intelletto materiale in ciascun uomo senza peraltro cessare di essere unico e incomunicabile? Attra­verso Ia disposizione immaginativa di ciascun individuo, diverso dagli altri in ragione delle categorie accidentali. Questa disposizione immaginativa dura pe­ro quanta dura la vita dell'individuo: essa e monale come e mortale !'anima. E tuttavia l'intelletto materiale; connesso con Ia disposizione immaginativa dell'individuo e portato all'atto dall'intelletto agente, da luogo ad un intelleuo prodotto, acquisito, quello ad esempio che stiamo esercitando ncll'apprendere Ia filosofia. Questa intelletto prodotto none che un arricchirnento dell'intellet­to matcriale, unico per l'intera specie umana. Passano gli individui ma l'intei­ligenza dell'umanita resta, anzi si arricchisce dci singoli apporti che i singoli uomini le hanno offerto. Suggestivo concetto, questo, che avra risonanze mol­teplici anche nella cultura moderna.

Ecco dunque quanto dice Ia ragione: l'individuo e rnortale, la specie umana e eterna. L'immortalita individuale e oggetto di fede, non di dimostrazione fi­losofica. E facile capire come 'l'esoterismo' fiiosofico di Averroe si trovasse al polo opposto dell'esoterismo mistico che nelle sue varie forme, anche in quelle avicenniane, stava allora dilagando. Aveva scritto Averroe:

0 uomini! Io non dico che questa scienza che voi chiamate divina sia fal­sa; dico soltanto che io sono uno che conosce !a scienza umana.

Quando le ceneri di Averroe furono trasportate a Cordova, nella tomba di famiglia, c'era ad osservare un mistico di grande importanza nell'Islam: Ibn Arabi. Da una parte della cavalcatura avevano caricato il feretro di Averroe dall'altra i suoi libri. «Un pacco di libri che bilancia un cadavere», commento Ibn Arabi. Il cadavere resto, senza culto, a Cordova; i libri andarono lontano.

II pensiero indiano attorno al sec. XI

10.14 La scuola di Shankara. La scuola della non - dualita - assoluta (l'advaita-vedanta) di Shankara·(9.15) h:t avuto, nello sviluppo ulteriore del pen­siero indiana, l'importanza che ha avuto la filosofia di Aristotele nel pensiero classico occidentale e quella di Tommaso d'Aquino nella tradizione cattoli­ca. La scuola che prende nome da lui ha dato vita ad una imponente produzio­ne letteraria. L'opera piu significativa del periodo compreso tra il sec. XI e il sec. XIV e quella di Shriharsa (sec. XI-XII), Delizie della confutaz.ione, Ia cui tesi centrale e che qualsiasi sistema filosofico, se esaminato criticamente a fondo, si rivela contraddittorio e inconsistente in quanta basato sulle relazioni reciproche tra il soggetto, l'oggetto e la conoscenza, tre principi nessuno dei quali e dimostrabile separatamente. A causa di questa impossibilita di dcfinire i

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10 · Il pensiero indiana attorno a/ sec. XI D 365

propri fondamenti il pensiero si muove a vuoto. L'unica certezza, dice Shrihar­sa, anticipando di quattro secoli il nostro Cartesio, e data non dalla veridicita o meno di cio che pensiamo, rna dal fatto indubitabile che il pensiero esiste e come tale si identifica con il Brahman, l'assoluto reale.

E appunto questa la dottrina comune a tutti gli esponenti della scuola shankariana: l'unica reale esistenza e quella del Brahman (I'Uno-Tutto, l'Asso­luto impersonate), mentre Ia molteplicita contingente del mondo fenomenico e solo una illusoria apparenza suscitata dalla maya. E proprio sulla natura di quest'ultima che le interpretazioni divergono.

Secondo Shankara, della ma.va non si puo dire ne che e ne che non e: infat­ti, se avesse esistenza autonoma, allora il Bralmuu1 non sarebbe piu l'unica realta; se d'altronde non esistesse affatto, non potrebbe agire come velo illuso­rio che impedisce Ia coscienza dell'identita fra ogni singolo essere e il Brah­man. La maya resta dunque per il pensiero umano un quid indeterminabile, indefinibile e inafferrabile. Cercando di meglio determinare Ia natura della maya, i maestri di scuola shankariana hanno seguito due diverse tendenze: se­condo alcuni Ia maya rappresenta un'energia creatrice (shakti) congenita a! Brahman, il quale va quindi considerato l'unica vera causa del mondo fenome­nico; secondo altri, invece, la maya e solo un miraggio irreale (e quindi senza alcuna relazione con il Brahman) che oscura Ia coscienza pura dell'Uno-Tutto tramite una molteplicita di apparenze illusorie, e come tale e essa- e non il Brahman - la vera responsabile del mondo fenomenico, inteso qui come un gioco d'ombre intrinsecamente irreale, sullo sfondo luminoso dell'Assoluto.

Secondo alcuni, dunque, il mondo fenomenico conserva una propria pseu­do-realta- sia pure relativa rispetto al Brahmm1 - mcntre. secondo altri. es­so none che Ia proiezione inconsistente di una perceziune distorta. Fra i post­shankariani si sviluppo anche una tendenza a distinguere due diversi aspetti della maya: Ia sua 'forma pura', che si limita a velare l'Assoluto attraverso il­lusorie determinazioni spazio-temporali e Ia sua 'forma impura', che invece ve­la I'Assoluto attraverso l'oscuramento della coscienza suprema (avidva). II 'ri­flesso' (pratibimba) dell'Assoluto impersonale (Brahman) sulla forma pura del­la maya genera l'illusoria percezione di un Dio personale (lshvara); il 'riflesso' del Brahman sulla forma impura della maya genera invece l'illusoria percezio­ne di molteplici anime individuali (jiva).

10.15 La filosofia delle sette. In questo periodo e cioe a partire dal sec. XI, lo sviluppo del pensiero indiano si arricchisce anche dei contributi apportati dalle cosiddette 'sette' teistiche, il cui impulso fondamentale religioso e devo­zionale- dietro l'influsso della speculazione vedantica - comincia ad intrec­ciarsi con l'esigenza di una giustificazione filosofica.

Le scuole settarie piu importanti sono le t>ishnuite e le shivaite, legate ri­spettivamente al culto di Vishnu e a quello di Shiva. Si dicono 'sette' perche rompono la stretta dipendenza dalla tradizione ortodossa, quella vedica, e adottano libri sacri particolari, che contengono rivelazioni attribuite all'una e all'altra divinita suprema. I libri sacri dei shivaiti sono gli Agama, sostanzial­mente testi liturgici in cui venne realizzata e resa accessibile a tutti, indipen­dentemente dall'appartenenza di casta, Ia rivelazione di Shiva. Il testo sacro

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dei vishnuiti e invece un corpus molto complesso detto Samhita, incentrato sull'adorazione di Vishnu e contrassegnato da una spiritualita intimistica che richiama la Bhagavadgita.

Nei sistemi classici del brahmanesimo si era sempre ammessa l'esistenza della divinita, anche se per alcune filosofie (come ad esempio il mimamsa e il samkya classico) in un universo regolato da una Iegge impersonale gli dei sono soggetti al karma come tutti gli altri esseri, mentre per le altre (come lo yoga, il nyaya o il vaisheshika) esiste; al di sopra di tutto, un Dio che e sovrano eter­no dercosmo e non soggetto alia Iegge del karma. Ma in ogni caso non si era fatta valere Ia necessita di identificare il reggitore del mondo con una divinita particolare.

La caratteristica distintiva delle sette teistiche e invece proprio la tendenza ad elevare a! rango es~lusivo del Dio supremo una specifica figura del pan­theon induistico e a ridurre le altre divinita a figure subalterne soggette alle leggi karmiche.

Durante il nostro medioevo queste divinita crebbero e si diffusero anche in ambienti colti, affiancando alle componenti devozionali e teistiche lo sviluppo di un pensiero filosofico che si incentra sui rapporto tra Dio e uomo. Nona­stante indubbie analogie, le scuole shivaite e vishnuite presentano notevoli dif­ferenze, oltre che circa il culto, la rappresentazione e la mitologia del Dio su­premo anche da un punta di vista pili strettamente filosofico: mentre per qua­si tutti i vishnuiti il mondo esterno ha realta oggettiva, tra gli shivaiti vie an­che una forte corrente di impronta idealistica.

Nel pensiero vishnuita si intrecciano in varia modo due diverse correnti co­munemente indicate con i termini bhagavata e pacaratra. La prima ha il suo nucleo distinto nella teoria degli 'stadi di emanazione' (vvuha), secondo cui dal Dio supremo (Vishnu), trae origine una serie graduale di emanazioni cosmiche (simbolicamente indicate da vari nomi divini corrispondenti alia materia pri­mordiale, alia mente, al sensa dell'io, al mondo visibile) che portano alia for­mazione dell'universo. L'azione creatrice di Vishnu si svolge per impulso della sua energia immanente (shakti) - rappresentata simbolicamente dalla dea Lakshmi - che trae l'universo dalla stessa sostanza divina.

Nella speculazione shivaita ha particolare importanza la componente indi­cata col termine pashupata: nella iconografia tradizionale, Shiva rappresenta, tra l'altro, anche il 'signore degli animali' (pashupati: pashupata e il termine con cui spesso vengono designati i suoi seguaci) secondo un mistico simboll­smo che identifica le anime individuali con l'immagine degli 'animali' (pashu) e il Dio supremo (Shiva) con la iigura clcl I oro 'signore' (pati). Il potere di Dio e assoluto: egli puo Iegare le anime al karma tramite il laccio (pasha) dell'igno­ranza, come puo liberarle istantaneamente con la luce della sua grazia. Nel suo lungo sviluppo, che ebbe inizio col 500 d.C., la speculazione shivaita, che si espresse, come si e detto, in un corpo di libri sacri denominati Agama, segui tre diversi orientamenti, per quanta riguarda il rapporto fra Dio (Shiva) e le anime individuali (jiva): 1) il monismo assoluto, secondo cui Shiva e l'unica realta, mentre le anime individuali appaiono solo illusoriamente distinte da Lui; 2) il pluralismo, secondo cui Dio e le anime sono entita distinte e separa­te; 3) il monismo differenziato, che tenta di mediare le due posizioni preceden-

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ti collocando la distinzione tra Dio e anime nel quadro di una piu generale identita di base.

Oueste diversificazioni risalgono probabilmente a tempi abbastanza antichi, co-· me sembra confermare la leggenda di Durvasas, il mitico saggio shivaita che ad ognuno dei suoi tre figli insegno un distinto sistema dottrinale per andare incontro a esigenze diverse, che variano da individuo a individuo a seconda della tipologia personale.

Ma, come si e detto, e soprattutto a partire dall'XI sec., che, sull'onda del nuovo fervore filosofico maturate in seguito aile speculazioni vedantiche e shankariane, anche le correnti religiose settarie, finora incentrate su un ap­proccio prevalentemente teistico e devozionale, sentono la crescente esigenza di darsi una sistematizzazione filosofica, utilizzando per lo piu gli schemi con­cettuali del vedanta~ Particolarmente vivace fu questa trapasso dalla devozio­ne alla filosofia nelle sette vishnuite.

10.16. I Vishnuiti. La grandiosa sintesi di Shankara (9.15) divenne egemoni­ca nel pensiero brahmanico, rna non poteva non sollevare obiezioni. Che sensa potevano avere ancora le pratiche ascetiche, la devozione religiosa, se la via della salvezza era ridotta alia conoscenza? E se il Dio a cui ci si rivolge nella preg:hiera e esso stesso un prod otto dell'illusione (maya)? Nell'intento di com­battere il nichilismo religiose del buddismo, Shankara non vi era forse arrivato lui stesso per altre vie? II vedanta antishankariano trovo voce nel sec. XI con un filosofo la cui influenza, nei secoli successivi, non e stata certo inferiore a quella di Shankara. Si tratta di Ramanuja (1017-1137), un brahmano educate alia scuola shankariana, rna ben presto ribelle in virtu della sua intensa devo­zione che fece di lui, per lunghi anni (pare sia morto a 120 anni), l'apostolo del vedanta teista, in diretta polemica con il monismo impersonalista shankariano.

La sua posizione filosofica puo essere definita come monismo 'differenzia­to' (vishishtadvaita) perche, pur considerando il Dio Supremo (Vishnu) come unica realta al di fuori della quale non e possibile alcuna esistenza, ammette una differenziazione al suo interne, nel senso che le anime individuali (jiva) e il mondo materiale (jada), lungi dall'essere illusorie apparenze, gli appartengo­no come sue qualita intrinseche (vishesha).

Per Ramanuja 1' Assoluto (Brahman), le anime (jiva) e il mondo materiale (ja­da) sono tre entita distinte e tutte tre reali, anche se la prima, il Brahman, non e soltanto la causa efficiente delle altre due rna altresi la loro causa materiale. Ramanuja non riuscira a liberarsi del tutto da questa evidente contraddizione: le entita reali sono tre, rna la loro sostanza e una sola! Nel tentative di fonda­re con coerenza la sua riforma del vedanta, egli introduce tre varianti:

1. Il mondo delle anime e quello della natura sono, in rapporto a Dio, quel che nell'uomo e il corpo in rapporto all'anima: non possono essere identificati con Dio e tuttavia senza di Lui non possono esistere. Gli spiriti individuali (ji­va) e cio che none cosciente (acit o jada, cioe la materia e il tempo) sono dun­que completamente dipendenti da Dio, rna, nel contempo, eternamente distinti da Lui. La molteplicita del mondo esterno non e illusoria, rna reale, perche le entita sono 'forme' (prakara) di Dio che aderiscono alia divinita come gli at-

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tributi alla sostanza. Esse sono potenzialmente contenute inDio nel periodo di quiete cosmica, ma divengono manifeste nelle cicliche ricreazioni dell'universo.

2. II Dio superiore (che in Shankara era assolutamente impersonale) e il Dio inferiore (lshvara, il primo prodotto di maya) diventano in Ramanuja un unico Dio, trascendente e personale, termine vero della devozione. Anche Ra­manuja parla di un Dio inferiore, creato dal primo, rna esso viene ad identifi­carsi con l'universo nella sua concretezza materiale. Nel Dio trascendente l'universo (sia le anime che la natura fisica) e presente allo stato ideale, come nel neoplatonismo occidentale; nel Dio creato esso e, invece, allo stato reale: il passaggio dall'omogeneo all'eterogeneo, dall'uno al molteplice e viceversa, e il passaggio dal Dio trascendente al Dio creato e viceversa.

3. Le anime individuali (jiva) non sono prodotti psichici il.lusori, sono anch'esse reali e indistruttibili, perche della stessa sostanza di Brahman, an­che se da lui distinte cos! come, dice Ramanuja, Ia luce che promana dal fuoco non e la stessa cosa che il fuoco.

Unendosi strettamente al mondo della materia, le anime costituiscono, co­me si e detto, insieme alla materia, il corpo di Brahman, rna nello stesso tem­po si degradano. Non c'e altra salvezza per !oro che quella di liberarsi dalla materia mediante la devozione (bhakti) verso Dio. Con l'abbandono devoziona­le a Dio, esse arrivano a rompere ogni legame degradante e a unirsi a Dio, sen­za pero perdere la loro individualita. La sola conoscenza (jnana) non e valido strumento di liberazione perchc[! solo colui che si rivolge a Dio con fiducia (bhakti) - conscio di essere soltanto una sua 'appendice' (shesha) - potra es­sere certo di venire salvato dalla grazia (prepatti).

Sulla stessa via di confutazione di Shankara, in nome di un piu marcato teismo, si muovono Nimbarka e Madhva.

Nimbarka (t 1162) propugna Ia cos\ detta 'dottrina della differenziazione indifferenziata' (bhedabheda-vada) o 'dottrina della dualita non duale' (dvaitadvaita-veda), secondo cui !a molteplicita del mondo fenomenico - seb­bene anche qui totalmente radicata nell'essenza divina- acquista, rispetto al­Ia concezione di Ramanuja, una maggiore autonomia ontologica.

Le anime individuali e il mondo materiale sono, rispetto a Dio, in un rap­porti simile a quello che !ega le on de a-ll' oceano o i raggi di luce al sole: un' on­da none ne diversa dall'oceano (in quanto ne fa parte), ne ad esso identica (al­trimenti sarebbe indistinguibile sia dall' oceano che dalle altre on de). Ogni es­sere individuale e dunque una limitazione differenziata di un Dio che lo tra­scende incommensurabilmente. Anche per Nimharka. come per Ramanuja, 'l'(mwr de'i (bhakti) e Ia grazia divina l.prepatti) rappresentano Ia via regia ver­so la salvezza. Sara pero Madhva (1199-1278) a recidere ogni legame con il mo­nismo shankariano. La sua dottrina e definita dvaita (dualismo) perche sostie­ne la piu radicale diversita ontologica fra Dio, anima e mondo. Raggiungendo posizioni non dissimili a quelle del giudaismo, del cristianesimo e dell'Islam, egli nega che Dio, causa efficiente del mondo, ne sia anche Ia causa materiale. Tra Dio, !'anima e il mondo ci sono barriere invalicabili, cosl come ci sono tra anima ed anima, tra anima e materia, tra cosa materiale e cosa materiale. Dio e l'artigiano che non va confuso col vaso che costruisce. Come per Platone, an­che per Madhva la materia, allo stato informe, e eterna come Dio e a lui con-

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10- 11 pensiero indiana attomo al sec. XI 0 369

trapposta: Dio si limita a darle forma e organizzazione nel tempo e nello spa­zio. Dentro la materia sono le anime, che ottengono la liberazione non·solo per i propri sforzi rna soprattutto per grazia divina. Anime e mondo sarebbero inerti senza l'impulso di Vishnu, il quale, alia luce del radicale teismo di Madhva, diventa un principia di potesta assoluta capace di dannare o salvare le anime a suo piacimento, secondo una ferrea quanta imperscrutabile prede­stinazione.

Cosi, col ritorno alle forme pii.I pure della devozione, Madhva portava alii­mite il rigetto di Shankara, che egli accusava di essere un demone tentatore il quale, mediante l'insegnamento dei Brahmasutra, sviava le anime nell'errore.

10.17 Buddismo: l'irradiazione del Grande Veicolo. Lo Zen. l'Amidismo. La costante delle scuole mahayaniche (7.27) e il ribaltamento del nichilismo filo­sofico nel misticismo religioso: il Nirv~na, invece che essere, come nel buddi­smo delle origini, una condizione beata di non-esistenza, diviene una regione metafisica in cui, in varia modo, l'alternativa Essere o Nulla viene assunta co­me realta assoluta, non pii.I oggetto di sapere rna oggetto di contemplazione transconcettuale. Mentre nelle scuole filosofiche questa postulato mistico cor­reva lungo una dialettica razionale per emergere allo stato puro solo al termi­ne, in altre tendenze pii.I scopertamente religiose il postulato si afferma in ma­niera immediata. Si tratta di tendenze che accompagnano lo svolgimento delle altre scuole, traendone, si. alimento, rna mantenendosi in sostanziale indipen­denza. Ne ricordiamo alcune, fiorite durante I 'alto e il basso medioevo.

1. La scuola del Mantra o della vera Parola: l'assoluto e Buddha, il Grande 11-luminatore, considerato come un'entita metafisica, che si esprime in tre distin­ti misteri: quello del Corpo, quello della Parola, quello del Pensiero. Buddha e come !'anima del mondo in cui hanna sede le Idee (intese platonicamente) le quali si esprimono nella vita stessa dell'universo, umana, animale, vegetale e materiale, fin nel granello di sabbia o nella goccia d'acqua. Di qui la possibili­ta di raggiungere il Nirvana (e cioe la condizione del Buddha assoluto) attra­verso formule magiche e tecniche ascetiche. Il tantrismo e appunto il buddi­smo panteistico e magico. In forme diverse esso si e diffuso sia in Cina che in Giappone,

2. Il Dhyana (meditazione) indiana si diffuse in Cina ad opera di un maestro dell'India meridionale, Bodhidarma, (V sec. d.C.) con la sua denominazione di scuola Ch'an (scuola venuta poi a notorieta sotto il nome giapponese di Zen).

Bodhidarma si ribello all'eccessivo intellettuali smo allora imperante in gran parte della tradizione buddist<it"e, ih linea con i principi del mahayana, ribadi che ogni uomo e Buddha, che in ogni uomo puo ricominciare da capo la vicenda di liberazione dell'antico Sakyamuni. Buddha risiede in ogni cuore, anzi ogni cuore e Buddha. Bisogna rientrare in se stessi e al fondo di se incon­trarsi con quella natura originaria o illuminazione che e in ognuno di noi e che non nasce ne muore. Ogni uomo e Buddha rna non se ne rende conto per­eM ha la mente offuscata da false opinioni. Sopprimendo i1 pensiero discorsi­vo e concentrando la mente in se stessa fino a svuotarla, diventa possibile per­cepire la propria natura originaria attraverso un'esperienza di illuminazione improvvisa.

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3. L'ultimo prodotto medioevale del mahayana fu I 'Amidismo o Dottrina della Terra Pura. Amida o Amitabha ('Luce infinita') e la Parola di Buddha, diventa­to, nella rappresentazione dei fedeli, una divinita misericordiosa che, nella sua compassione per l'umano dolore, ha promesso salvezza a chiunque le si rivol­ga con fede. La scuola detta 'Terra Pura' ritiene che tutti gli sforzi dell'uomo per diventare Buddha con le sole proprie forze derivino dal falso orgoglio dell'ego; basta invece ripetere la formula <<Namo-Amitabha» (letteralmente <<il nome di Amitabha») per affidarsi alla misericordia del Buddha e rinascere nel­la Terra Pura, su cui signoreggia Amitabha.

Nella Terra Pura tutti gli ostacoli che si frappongono al cammino per dive­nire Buddha sono rimossi: di modo che la rinascita nella Terra Pura virtual­mente equivale a divenire Buddha. La ripetizione del nome e efficace perche, in tempi remoti, Amitabha fece voto di non entrare nella Suprema Buddhita se la rinascita nella Terra Pura non fosse assicurata a tutti gli esseri che avesse­ro invocato il suo nome. Poiche in se~;mito egli entro nello stato di buddhita, il voto fu positivamente adempiuto. II buddismo della Terra Pura e chiaramente uno sviluppo della dottrina mahayanica del bodhisattva che, prima di entrare nell'assoluta quiete del Nirvana, fa voto di liberare tutti gli esseri.

II pensiero cinese a ttorno al sec. XI

10.18 II neoconfucianesimo. Dopo l'incendio dei libri (213 a.C.), ordinato sotto la dinastia dei Chin (6.25), al fervore delle 'Cento scuole' subentro una lunghis­sima stagione di aridita creativa, durante la quale il taoismo e il confucianesi­mo, uniche scuole sopravvissute, si disputarono l'egemonia sulla societa di cui rappresentavano il doppio volto: quello del disimpegno politico, basato sull' esaltazione della natura, varia mente intesa (prese piede in questi secoli una specie di naturalismo magico), e quello del conformismo politico che face­va consistere la vita intellettuale nel servizio al potere. Le fortune del confu­cianesimo rinacquero infatti con le dinastie che, a cominciare da quella degli Han (202 a.C. 220 d.C.), sostituirono la burocrazia nobiliare con gli <<intellet­tuali organici» quali erano per tradizione i discepoli di Confucio. In seguito, nel VI sec., si arrivo ad istituire gli 'esami di stato' (i testi d'obbligo erano le opere de-l canone confuciano) come condizione di accesso all'amministrazione dell'impero.

Questa divaricazione tra un taoismo sempre piu incline alla spontaneita ir­razionale e superstiziosa e un confucianesimo appiattito sulle ragioni pratiche del potere, lasciava campo aperto alia invasione del buddismo, il quale, infatti, penetrato in Cina fin dal I sec. d.C., nelle forme del Mahayana, raggiunse, tra il VII e i1 IX secolo, una diffusione che minaccio l'egemonia politica del confucia­nesimo. Armato di strutture concettuali raffinatissime, animato dalla tensione morale ed ascetica per la salvezza, impegnato, oltre che nell'assecondare il bi­sogno della devozione religiosa, anche nello speculare sui grandi temi ontolo-

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10- Jl pensiero cinese attorno al sec. XI 0 371

gici, il buddismo, mentre disseminava i suoi conventi sui territorio cinese (era­no ben 4.600 nel sec. IX, ai quali vanno aggiunti 40.000 edifici con finalita reli­giose) si dimostro capace di assorbire nella propria dottrina l'insegnamento classico sia taoista che confuciano.

Fu cosi che il buddismo divenne indigeno, influenzando profondamente il costume, la cultura e perfino la lingua del popolo cinese. Le due tradizioni do­minanti, la taoista e la confuciana, ne risentirono. Particolarmente viva fu la reazione dei confuciani, tra i quali non pochi tentarono, fin dai tempi degli Han, di trasformare una dottrina eminentemente pratica come quella confu­ciana in una metafisica a sfondo morale che prendera presto il nome di 'Fila­sofia della Via' (Tao-hiue) e che i moderni chiameranno neoconfucianesimo. Ma il risveglio confuciano non si nutri soltanto delle proprie risorse intellet­tuali, ebbe a suo vantaggio anche il braccio secolare: nell'845 i Tang ordinaro­no la distruzione dell'immenso apparato degli edifici buddisti e la secolarizza­zione di oltre 960.000 religiosi di ambo i sessi. Da allora il buddismo visse di vita semiclandestina e il confucianesimo ebbe via libera per il recupero della sua antica egemonia politica e culturale.

II neoconfucianesimo medioevale sta al punto di confluenza tra buddismo, taoismo e dottrina confuciana, i limiti della quale, a riguardo delle grandi que­stioni metafisiche, erano diventati ormai non piu tollerabili. II silenzio di Con­fucio su tali questioni non era dovuto, secondo i neoconfuciani, a disinteresse. Egli si era limitato a parlare delle cose esprimibili e tacque del tutto sul Prin­cipia primo solo perch e. come da sempre sostenevano i taoisti, esso e di sua natura inesprimibile. I neoconfuciani cercarono di riempire la lacuna attingen­do largamente aile metafisica taoista e a quella del buddismo Mahayana. II ri­sultato fu una forma di panteismo, volto perc a dare fondamento al primato della ragione pratica che era stato la caratteristica di Confucio. Per i neocon­fuciani il mondo delle cose non e, come per i taoisti e i buddisti, illusorio, pro­prio perche e una determinazione dell'assoluto. Di conseguenza le leggi che lo regolano, sia nella sfera della natura, sia in quella della societa, non vanno ri­gettate, rna vanno considerate come l'unica via di salvezza. Diamo direttamen­te la parola ad alcuni di questi maestri:

L'uomo- scrive Shao Yung (1011-1077) che adatto Ia cosmologia taoista al confucianesimo - e una sola cosa col Cielo e con Ia Terra, con tutti gli esseri di tutti i tempi, dato che Ia norma universale e unica. L'essere primo (T'ai chi) dal quale e uscito tutto cio che e, e il Principia, il Polo augusta, l'Apogeo, nomi di prestito peraltro, dato che l'Essere primordiale e indefini­bile, innominabile, ineffabile. La fuateria universale e una, partecipata da tutti gli esseri; lo spirito vitale e uno, partecipato da tutti gli esseri. Le ge­nesi e le cessazioni, le nascite e le morti sono semplici trasformazioni di queste due entita. II cielo e Ia terra sono materia limitata che deriva dalla materia illimitata. Il limitato viene dall'illimitato. II definito viene dall'inde­finito. II principia vitale particolare viene dal principia vitale universale. II Polo supremo e l'essere nel suo stato primordiale di inazione. Essendo Uno, con una Prima azione produce un altro Uno, Ia materia tenue. Successiva­mente in questa materia egli produce la dualita, Ia doppia modalita Yin e Yang. Nella materia, sotto questa duplice modalita, tutti gli esseri pullula-

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rono, secondo le leggi generali dell'alternanza e delle mutazioni. Una pianta produce il suo grano: questo grano seminato produce una pianta. Questa se­conda pianta non e !a pianta di prima, rna il suo spirito vitale e lo stesso, perche lo Spirito Vitale universale e unico ed e qui la Iegge di tutte le gene­si.

Questo panteismo assume in Shao Yung tonalita idealistiche:

Tutti gli esseri sono una sola cosa con me. Dunque, se pongo la questio­ne dal mio punto di vista, ci sono davvero degli esseri? E se prendo la que­stione dal punto di vista degli esseri, c'e veramente un io?

Invece nel suo contemporaneo Chang Tsai il panteismo ha un impianto ma­terialistico: le modalita metafisiche Yin e Yang sono per lui una stessa cosa che la rarefazione e la condensazione.

Tutto comincio con Ia condensazione della materia rarefatta. Condensata fino a cadere sotto i nostri sensi, vaporosa, densa come fiocchi, essa si chia­ma Ki. La sua quintessenza non condensabile, invisibile impalpabile si chia­ma Cheu. Si, la materia ha due stati: molto rarefatta, essa e impercettibile; condensata, diventa percettibile. Impercettibile, e neutra e inerte, percettibi­le e specificata e percio dotata di proprieta. Non si deve immaginare che ci sia mai stato un vuoto perfetto. II termine T'ai ho non significa vuoto, rna materia estremamente rarefatta. Dopo che ebbe inizio il duplice movimento di espansione e di contrazione Ia materia non gli si puo pili sottrarre. Essa si espande irresistibilmente in esseri molteplici che rientrano nel suo seno quand'essa si contrae. Il duplice movimento e inarrestabile, esso accade nel­la materia senza modificare la materia, come nel duplice fenomeno del gelo e del disgelo dell'acqua, Ia quale resta inalterata nei due stati.

L'evoluzione materialistica di Chang Tsai resta sottomessa comunque alia legge dello spirito vi tale, che governa dall 'interno le alterne vicende di Yin e Yang.

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11 - Sommario 0 373

Sommario. Il Duecento e il secolo d'oro della cristianita, rna e anche il secolo del suo declino. Si consolida l'alternativa della citta al feudo, delle libere universita aile ab­bazie; emerge la nuova classe popolare che ha negli ordini mendicanti Ia propria espressione di fede e anche i portatori di una cultura nuova, in cui fermenta I 'istanza laica. Su queste fermentazioni passa il vento della profezia di Gioacchino da Fiore, che prevede una 'terza eta' che avra i tratti della liberta e della laicita. (11.1) Un fatto nuovo e Ia caduta (relativa) della barriera che separa cristianita e Islam e, per quanto riguar­da Ia cristianita, una sua presa di contatto piu larga e piu Iibera con la filosofia antica, specie con quella di Aristotele. In questa 'rinascita' hanno avuto il !oro peso i filosofi ebrei, con in testa Maimonide (11.2). Di decisiva importanza per Ia filosofia delle univer­sita e l'introduzione in occidente delle opere aristoteliche tradotte e commentate dagli arabi e poi tradotte direttamente dal greco. Le universita si difendono e provocano con­danne pontificie contro l'aristotelismo, che pen) viene efficacemente difeso da Alberto Magno, il cui merito e di aver posto le grandi questioni della scolastica (11.3.).

Sono le questioni che affronta con grande potenza speculativa l'alunno di Alberto, Tommaso d'Aquino. Contro la tesi averroistica della doppia verita egli sostiene Ia di­stinzione dei due ambiti del conoscere, quello della fede e quello della filosofia (11.4), rna Ia svolta tomistica avviene soprattutto nella 'correzione' alia metafisica di Aristote­le. Il nesso potenza-atto diventa nesso essenza-esistenza: l'esistenza non e un predicato accidentale rna un elemento costitutivo dell'essere (11.5). L'esistenza di Dio si prova ap­punto a partire dalle cose che esistono e che rimandano, per varie vie, all'Essere nel quale essenza ed esistenza coincidono (11.6).

Altra innovazione di Tommaso e quella antropologica, che attribuisce all'anima ra­zionale Ia funzione di forma unica del corpo, anche se non totalmente soggetta alla Ieg­ge del sinolo. Infatti Ia sua attivita conoscitiva ha come base l'esperienza sensibile rna come momento specifico l 'intellezione che Ia rivela trascendente nei confronti del corpo (11.7). Anche nella sua vita morale e politica l'uomo aspira ad un simile equilibrio: le virtu cardinali con al vertice la giustizia sono insieme autonome e articolate aile virtu teologali. Cosi Ia societa civile, che e lo spazio naturale della crescita umana, e autono­ma nei confronti della chiesa rna insieme le e subordinata in ragione della diversa di­gnita dei fini, naturale per la societa, soprannaturale per la chiesa (11.8) .

. Nonostante il suo prestigio, la grande sintesi di Tommaso suscito reazioni nell'ambi­to dell'Universita parigina dove dominava ancora Ia corrente agostiniana, il cui soste­gno era l'ordine francescano e soprattutto Bonaventura (11.9). Per Bonaventura l'aristo­telismo, a! quale peraltro egli molto attinge, rischia di annientare il principio che col peccato originale anche Ia ragione e divenuta debole, bisognosa del soccorso della fede, cosi come lo Stato ha bisogno per i suoi stessi fini dell 'aiuto della chiesa (11.10). Anche Ia natura trova il suo senso non gia nei principi che le sono interni rna nel suo essere uno specchio degli 'esemplari' eterni: e per questo che Ia mente, partendo dalle cose sensibili, puo ascendere a Dio (11.11). I francescani sono attivi anche ad Oxford dove per opera di Roberto Grossatesta il platonismo trova sbocco in un empirismo ricco di intuizioni feconde ( 11.12), che avranno il !oro banditore in Ruggero Bacone, per il quale i veri strumenti del sapere sono Ia filologia e Ia matematica (11.13).

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37 4 D 11 -La metamorfosi della cristianitii

Nell'Islam, con la morte di Averroe, il pensiero ritorna nel proprio asse, quello cora­nico, e dal punto di vista geografico si apparta attorno a focolai spirituali dislocati in Iran e in India ( 1 L 14). La ricomposizione delle esigenze metafisiche nei quadri della tra­dizione esoterica lascia libero campo, per quanto riguarda i rapporti dell'Islam con la realta storica, aile scienze e soprattutto a! diritto: Ibn Taymiyya da l'esempio di come, riconducendo le istituzioni alia lettera del Corano, se ne ottengono conseguenze nei se­coli successivi a! Profeta (11.15). Il vero maestro della sapienza islamica riportata alia sua vocazione contemplativa e insieme arricchita dagli apporti della tradizione metafi­sica, e ibn 'Arabi che propone un 'itinerario mistico' non diver so da quello dell 'occiden­tale san Bonaventura (1 L16).

In India, raggiungono ricchezza di espressioni pratiche e dottrinali le scuole shivaite, incentrate su di un monismo misticheggiante, secondo cui Ia realta molteplice non e che una irradiazione e una alienazione magica di Shiva: la liberazione dalla prigionia individuale si ha mediante diverse tecniche, anche stravaganti {11.17).

In Cina, prendono piede le due scuole neoconfuciane: Ia Scuola dello Spirito Univer­sale e Ia Scuola dei Principi Universali, fondate dai due fratelli Ch'eng Hao e Ch'eng Yi e incentrate, con diversita di accentuazioni, sui rapporti che corrono tra i principi uni­versali e Ia materia (11.17).

La metamorfosi della cristianita

11.1 Una societil nuova. II secolo XIII, il Duecento, e sicuramente il secolo aureo della cristianita rna, com'e nella Iegge del divenire storico, e anche il se­colo che da inizio al suo disfacimento. Basti pensare al Papa che lo inaugura, Innocenzo III (1198-1215), e al Papa che lo chiude, Bonifacio VIII (1294-1303): ambedue teocratici, il prima esercita ancora, pur in mezzo a contrasti e con ri­petuti fallimenti, la sua 'primazia' papale cosi come, un secolo e mezzo prima, l'aveva fissata, nel suo Dictatus, Gregorio VII; il secondo. subentrando, con me­todi rimasti sempre sospetti, all'evangelico Celestino V, esprime l'ideale teo­cratico in documenti altisonanti, come l'Unam Sanctam, rna poi deve subire perfino l'umiliazione di uno schiaffo da parte di un emissario del Re di Fran­cia. La pretesa teocratica di tener soggetti alia Chiesa gli Stati della cristianita e ormai del tutto anacronistica. E nonostante i sogni ostinati di Dante Alighie­ri e anche finita per sempre l'utopia della Monarchia universale da affidare ali'Impero.

E che nel Duecento il flusso creativo della storia passa altrove. E intanto passa in basso, ha cioe i suoi luoghi di alimentazione nelle citta, dove, come in un impluvio, si raccolgono, stringendosi in nuovi patti, i nobili discesi dai ca­stelli e i servi che hanna lasciato la gleba, e dove le figure piu importanti sono ormai l'artigiano e il mercante. Abbiamo detto (10.2) come gia nel secolo XII la citta fosse, con le sue Universitates e comunque con le sue Scholae, l'alternati­va culturale dell'abbazia, anzi una vera e propria alternativa di classe nel sen-

Tav. 10 - II duecento. Schema sinottico. -

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1190

1200

1210

Eventi politic! e culturali

In Occidente e In Oriente

1202-1204 Quarta Crociata. Impero Iatino d'Oriente

1206 Sultanate di Delhi 1209 Crociata contro gli Albi ·

gesi

1210 Ordine dei Frances~ani 1211 I Mongoli devastano il re·

gno dei Chin 1215 Ordine dei Domenicani.

In lnghilterra Magna Charta

1220 1220 Federico II lmperatore

1230

1240

1250

1260

1270

1280

1290

1226 t Francesco d'Assisi 1227 t Gengis Khan

1231 Costituzi011i Melfitane di Federico II

1240 I Monj!oli saccheggiano Kiev

1246 La riconquista deii'Anda· !usia.

1250 t Federico II 1257 Bonaventura generale dei

Francescani 1258 Bagdad conquistata dai

Mongoli: fine del Califfato degli Abbasidi

1264 lnizio dominazione dei Mongoli.

1265 Nasce Dante Alighieri 1268 Fine della presenza sveva

in Italia

1271-95 Viaggio di Marco Polo 1273 A Rodolfo d'Asburgo Ia

corona imperiale 1279 Fine della dinastia dei

Sung

1282 Vespri Siciliani

1290 Giotto ad Assisi 1293 Ordinamenti di giustizia

a Firenze. Dante scdve Ia Vi· Ia nova

11 ·La metamorfosi della cristianitii D 375

Fllosofia

In Occidente

1202 t Gioacchino da Fiore

1215 Parigi: Statuti Universita Proibizione di Aristotele

1222 Universita di Padova 1224 Universita di Napoli

1228 Studio dei Francescani a Ox­ford

1230 Si diffondono i Commenti di Averroe

1231 Gregorio IX elegge commis· sione peri Libri naturales di Ari· stotele. Nasce I 'lnquisizione

1244 Alberto Magno insegna a Parigi

1245 Roberto Grossatesta traduce l'Etica di Nicomano

1248 Bonaventura insegna a Parigi

1255 Parigi: I Libri naturales di Aristotele adottati come testo universitario

1257 Tommaso insegna a Parigi 1259 ltinerario di Bonaventura

1266 Tommaso inizia Ia Summa tlzeologica . Opus majus di Rug· gero Bacone

1274 t Tommaso e Bonaventura 1277 II vescovo Tempier condanna

l 1averroisn1o

1280 t Alberto Magno· Nasce Oc· cam

1282 t Sigieri

1292 t Ruggero Bacone 1298 Eckart: Discorsi Spiritual!

In Islam e In Oriente

1191 t Suhrawardi 1198 tin Marocco Averroe 1200 t Chu Hsi

1204 tal Cairo Moise Maimonide

1212 t Honen Shonin, fondatore dell'Ami· dismo

1241 t a Damasco Ibn Arabi

1253 tin Giappone Dogen, esponente della scuola zen

1262 t Shinran, esponente dell'amidismo 1266 t Madhva, avversario di Shankara

1273 til poeta mistico persiano Rumi

1282 til monaco giapponese Nichiren 1288 t Nafis, commentatore di Avicenna

1300 1300 II Giubileo di Bonifacio 1300 Duns Scoto: Opus oxoniense VIII

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376 0 II- La metamorfosi della cristianita

so che la classe nelle cui mani passa lentamente il sistema dei poteri e quella che gia possiamo chiamare borghesia. Quando si parla di 'movimenti popolari' del medioevo non si deve pensare ad agitazioni portate avanti dal ceto dei piu miserabili. Francesco di Assisi e figlio di un mercante, come mercante era sta­to Pietro Valdo. Perfino il movimento Iombardo degli Umiliati recluta i suoi adepti tra i membri delle 'arti maggiori'. In linguaggio odierno si potrebbe di­re che l'evangelismo, che esplode nel periodo che va dalla seconda meta del dodicesimo secolo alia prima del tredicesimo, e l'ideologia della nuova classe, che fa della Iotta contro la ricchezza, in nome del Vangelo, una Iotta contro il sistema feudale e contro una chiesa che vi e rimasta imprigionata. ·

Gli ordini dei domenicani e dei francescani, detti mendicanti perche rifiuta­vano il sistema feudale dei 'benefici', si trovano non di rado a dover guidare, all'interno della citta in fermento, la formazione e la stipula di nuovi patti so­ciali. Due esempi: ad Assisi, nel 1210, sulla pubblica piazza i cittadini maiores e minores, messi insieme dallo zelo di Francesco, fanno un patto di pace: aboli­scono tutte le prestazioni, tutti i diritti feudali dentro il territorio del comune: gli antichi padroni riceveranno un rimborso e conserveranno il titolo di pro­prieta. A Bergamo fu il domenicano Guala a redigere la carta delle liberta alia quale si rifecero i comuni Iombardi nel rivendicare l'emancipazione dalle vec­chie servitu.

Questo moto di crescita e insieme il prodotto e la causa della trasformazio­ne dei rapporti di produzione; ma anche il prodotto e Ia causa della trasforma­zione culturale. Le Universita si organizzano sullo schema delle corporazioni delle Arti e Mestieri diventando sempre di pili autonome nei confronti dei po­teri sovrastanti della chiesa e del sovrano. Lo stesso termine di Universitas vie­ne derivato dalle corporazioni (Universitas vuol dire, appunto, corporazione) e solo a partire dal 1221 diventera specifico per la 'corporazione degli insegnan­ti e dei discenti'. L'universita e come uno Stato dentro lo Stato, con gerarchie proprie e proprie magistrature. Questa solida autonomia giuridica assicura ai­le universita anche una liberta di dibattito e di conseguenza un grande presti­gio, dentro la cristianita, anche per quanto riguarda i giudizi di ortodossia del­le opinioni. Va da se che lo spirito corporative diventa non di rado spirito di casta del tutto ostile all'ammissione dei magistri di altra provenienza. A Pari­gi, ad esernpio, i magistri erano tutti clerici. Ecco perche l'Universita di Parigi lotto per un decennio contro la pretesa degli ordini mendicanti d'avere anche peri propri membri cattedre di insegnamento. Ci voile l'autorita del Papa per­che, nel 1259, l'ingresso fosse aperto a magistri come il francescano Bonaven-tura o il domenicano Tommaso. .

Dietro le ragioni di casta ci sono, ~d attizzare la diffidenza per maestri cosi nuovi, anche ragioni d.i ordine 'sociale. Gli ordini mendicanti, come sopra si e detto, sono organici al12r crescita e alle dialettiche della citta. La loro cultura si sviluppa a diretto contatto con i nuovi ceti intenti al commercio e al lavoro, sui quali ha molta incidenza la protesta espressa da quei movimenti che saran­no detti ereticali contro una chiesa gravata dal fasto e dal potere e dunque lontana dalla norma evangelica. Negli ordini mendicanti l'appello al Vangelo diventa un punta di partenza per una cultura nuova, che consenta alia chiesa di riconquistare il ruolo egemonico che i tempi nuovi le stavano togliendo. Ma

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11- La metamorfosi della cristianita 0 377

la nuova egemonia non e quella della spada che distrugge gli eretici (vi aveva fatto ricorso in modo spietato Innocenzo III), e quella della parola, anzi della ragione, riconciliata con lo stato di vita di chi lavora, di chi vive la responsabi­lita della famiglia e delle attivita pubbliche. Insomma la nuova cultura deve insegnare a contemplare il mondo non solo alla luce di Dio, causa prima, rna anche alla luce delle 'cause seconde', che rientrano sotto il dominio conosciti­vo e pratico dell'uomo. E l'istanza laica, che sorge ormai nelle coscienze.

Su queste faticose germinazioni di novita passa un vento di profezia che at­traversera l'intero secolo, portando con se le nubi e i fulmini, rna anche le pri­mavere dell'annuncio apocalittico. II secolo della razionalita, della misura umana, dell'armonia architettonica e anche il secolo che non riuscira a libe­rarsi della profezia di Gioacchino da Fiore (1145-1202), morto. proprio alle so­glie del Duecento, nel 1202. Secondo il monaco calabrese, si e ormai alle soglie della terza eta, I 'eta dello Spirito Santo, successiva a quell a del Padre e a quel­la del Figlio. Nel suo libro Concordanza fra il Nuovo e il Vecchio Testamento egli descrive la terza eta, il cui inizio, secondo i suoi calcoli complicati, avreb­he dovuto cadere attorno a! 1260. Infatti Ia misura di ognuna delle tre eta era di 1260 anni: tanti ne erano passati da Adamo a Cristo, tanti ne sarebbero pas­sati da Cristo alia nuova era, l'era della Spirito Santo.

Il primo stato fu quello in cui fummo sotto il dominio della Iegge, il se­condo quello in cui siamo sotto il dominio della grazia, il terzo - che atten­diamo imminente - quello in cui ci sara elargita una grazia anche maggio­re, secondo Ia testimonianza di Giovanni: Egli ci elargl grazia su grazia. II primo stato visse nella conoscenza, il secondo nel possesso della sapienza, il terzo vivra nella perfetta intelligenza. I! primo fu il tempo dell'obbedienza servile, il secondo di quella filiale, il terzo sara l'epoca della liberta. I! pri­mo visse nei flagelli, il secondo nell'azione, il terzo vivht nell'estasi della contemplazione. II primo trascorse nel timore, il secondo nella fede, il terzo trascorrera nell'amore. II primo fu l'eta degli schiavi, il secondo dei liberi, il terzo sara quello degli amici. II primo fu il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo sara !'eta dei fanciulli. II primo fu illuminato dal chiaro­re delle stelle, il secondo dalla luce dell'aurora, nel terzo risplendera il me­riggio.

L'utopia di Gioacchino dette forma e legittimita spirituale al filo rosso del­la contestazione antiecclesiastica, che i Papi (a cominciare da Innocenzo III che fece condannare Gioacchino nel Concilio lateranense nel 1215) tentarono a piu riprese di interrompere.

Con Celestino V, l'eremita Pietro di Morone diventato Papa, sembro che il sogno dei seguaci di Gioacchino diventasse realta. Ma quando Celestino, inorridito dalle esigenze del mestiere di Papa, abdico e si ritiro nel suo eremo, Ia delusione divenne disperazione ed anche ferocia terroristica, come nel caso di fra Dolcino nella Valdossola, condannato al rogo nel 1307. Uno degli aspetti del gioacchinismo e Ia richiesta di autonomia da parte dei laici, ormai insoffe­renti del monopolio clericale e monastico in tutti i campi, anche in quello del­la vita culturale e spirituale. A questa. richiesta rispondera, come vedremo su­bito, la scolastica nei suoi momenti piu significativi, come quello di Tommaso

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d' Aquino. La teocrazia non era solo un ideale di assolutismo papale, era anche la veste sacra di una ideologia politica dalle linee programmatiche molto rigi­de. La prima di queste linee e, come si e gia detto, la difesa dell'assetto feuda­le contra le nuove forme di vita inaugurate dalla borghesia cittadina. Un'altra e la chiusura della cristianita su se stessa, con un rapporto di radicale antago­nismo, la crociata, con gli eretici interni e con gli infedeli esterni. Un'altra e l'integrazione dell'ordine temporale entro quello spirituale, secondo una certa lettura della Citta di Dio di Agostino. E finalmente, ed e questa la linea pro­grammatica che ora piu ci interessa, la subordinazione dell'esercizio della ra­gione al primato della fede in tutte le giurisdizioni del sapere.

Nel corso del Duecento nessuna di queste linee programmatiche riesce ad avere la meglio sui movimento concreto della societa. Ormai la cristianita di tipo teocratico e un involucra troppo stretto ai moti spontanei della vita, alla esigenze piu incontestabili di una ragione fattasi sempre piu esterna alla clau­sura del magistero monastico.

Un simbolo. e piu che un simbolo, di questa emergente laicita e Federico II si Svevia (1194-1250) gia pupilla di Innocenzo III, poi re di Sicilia e, dal 1220 imperatore del Sacra Romano Impero. Della sua corte di Palermo egli, che nel 1224 aveva fondato l'Universita di Napoli da contrapporre a quella troppo 'pontificia' di Bologna, fa un libero foro culturale dove, in un clima di laica tolleranza, si incontreranno i ·rappresentanti di due opposti mondi spirituali, i cristiani e gli islamici e perfino le vittime delle crociate ecclesiastiche, come i trovatori albigesi fuggiti dalla Provenza. Da questa splendida capitale di confi­ne partono le provocazioni piu feconde alla cristianita, in cui avranno subito debita udienza. B da Palermo che i Commenti di Averroe, tradotti in latina, giungono a Parigi; e a Palermo che !'Islam none piu l'impero del male rna e uno splendido universo culturale nel quale si muovono, come in casa propria, il matematico Leonardo Fibonacci (1170-1240) e l'enciclopedico Michele Scoto, infaticabili mediatori fra la florida civilta islamica e quella un po' ibernata del mondo latina. E cosi che Aristotele, il filosofo per eccellenza, dopa aver con­quistato i sapienti dell'Islam, si introduce con effetti dirompenti nella cittadel­la della cultura cristiana.

11.2 La mediazione arabo-ebraica. L' Aristotele conosciuto nel mondo latina era stato, fino alle soglie del Duecento, 1' Aristotele logico e anche questa nei li­miti che venivano detti della Logica vetus, della vecchia Logica, comprendente l'Introduzione di Porfirio, le Categorie e J'Interpretazione di Aristotele e i Com­menti di Boezio. Era stato questa il ridottissimo corpus aristotelico su cui si era accesa la disputa degli universali (10.5). E nei primi decenni del Duecento che il mondo latina viene a trovarsi dinanzi ad un Aristotele sconosciuto e piu anco­ra ad un universo filosofico che, al di fuori della cristianita, aveva fuso in se l'antica eredita greca e gli apporti iraniani e indiani, insomma un vera e pro­prio Katai del sapere. A far crollare la parete di separazione tra i due mondi (una parete che finora era stata varcata solo in nome della guerra santa) contribui paradossalmente anche la conquista di Costantinopoli, avvenuta, per una diversione truffaldina della IV crociata, nel 1204: ne nacque un effimero Impero latina d'oriente che comunque favori l'emigrazione di molte opere, an­che di Aristotele, verso 1 'occidente.

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Ma il confronto tra i due mondi non avvenne semplicemente per mezzo dei libri. Gia nei secoli precedenti. a partire da Gerherto di Aurillac, divenuto pa­pa Silvestro II (t 1003), per arrivare a Michele Scoto, che abbiamo visto alia cor­te di Federico, e ad Adelardo di Bath, attivo e appassionato pellegrino in ter­ra islamica in cerca di opere arabe e greche da tradurre, come gli Elementi di Euclide, lo scambio non fu solo di libri rna di ideali di vita, di metodi di ricer­ca. di indipendenza di giudizio.

Fu in questo periodo che l 'occidente apprese non solo molti ritrovati arabi cfell'arte marinara, rna molte a1tre innovazioni, a cominciare da1 mulino a ven­to, venuto dall'Iran, che permise di sgravare i servi della gleba dal ruolo di unica forza energetica. A facilitare questa spirito di comunicazione ebbero molta importanza due centri cu1turali, la cui funzione istituzionale fu proprio il travaso tra le due culture.

- Salerno era stata la sede, fin dal secolo X, di una famosa scuola di medici­na. Data la presenza nelle sue mura di una consistente colonia di greci e di ebrei, la citta divenne sede preferita di intellettuali impegnati a stabilire con­ta tti fra culture diverse, come Costantino I' Africano ( 10 15-1087), originario di Cartagine, di formazione araba, che dopo essere stato al servizio dei re Nor­manni si ritiro a Montecassino e finalmente a Salerno, svolgendovi un immen­so lavoro di traduzioni dal greco e dall'arabo, soprattutto di opere mediche e scientific he.

Non diversa fu la funzione di Toledo, in Spagna, dopo che Alfonso VI, nel 1005, con l'aiuto della spada del Cid, la riconquisto alia cristianita. La citta ri­mase di popolazione mista e divenne ben presto, dal punta di vista culturale, una citta di frontiera in cui fecondissimi si fecero gli scambi. II Vescovo Rai­mondo (1126-1151) organizzo addirittura un noleggio di traduttori. Fu merito dei traduttori toledani se le piu significative opere della cultura araba e greca (se ne sono calcolate 92) vennero rese accessibili in lingua latina.

Nei primi decenni del Duecento, l'isolamento culturale della cristianita era dunque praticamente finito. La Iotta fra Federico II e il Papato rifletteva sugli alti livelli istituzionali il conflitto tra le due anime del tempo, quella dell'ar­roccamento della cristianita dentro i suoi confini, nel nome dell'intransigenza, e quella della sua apertura al dialogo in tutte Ie direzioni e in tutte le forme che favorissero il rispetto del principio dell'universalita della ragione e della scienza.

A questo riguardo e eloquente il fatto che a fornire aile Universita latine, specie alia maggiore di loro, quella di Parigi, i temi dell'insegnamento ed an­che la soluzione delle questioni piu ardue siano pensatori arabi e giudei che avevano sperimentato la difficolta di conciliare le verita di fede a quelle di ra­gione.

Prima di dire del ruolo preminente avuto dagli arabi nell'introdurre nei centri nevralgici della cristianita il pensiero aristotelico e giusto ricordare l'apporto degli ebrei, di cui largamente si valse la cultura universitaria del Duecento. Mentre I 'occidente cristiano riserbo agli ebrei l'umiliante segrega­zione nei ghetti, all'interno della umma musulmana essi ebbero norma1mente un certo spazio di liberta di cui si valsero per assimilare la cultura araba. In-

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fatti non si e mai estinta, entro la stessa area linguistica, una cultura giudaica con le sue differenze specifiche.

Fu anche grazie ad un'opera di Avicebron (1020-1070), ebreo di Malaga, vis­suto a Saragozza, che i latini poterono conoscere la tradizione neoplatonica. Scritta in arabo, !'opera venne tradotta in Iatino col titolo di Fans vitae (Fonte della vita) e fu largamente usata nel medioevo, anche per il suo linguaggio e i suoi temi chela fecero ritenere da molti come un'opera cristiana. II tema cen­trale di A vicebron e quello delle relazioni metafisiche tra Dio e il mondo. La sua soluzione, vincolata al dogma della creazione, ispirera, come vedremo, an­che i filosofi francescani. Secondo lui tutte le sostanze, anche quelle spirituali, sono composte di materia e di forma, eccetto Dio, Volonta suprema che si tra­smette aile creature come impulso reciproco tra materia e forma.

Di molto maggiore infl~enza sulla scolastica occidentale fu !'ultimo grande pensatore ebreo del medioevo, Moise Maimonide, nato a Cordova nel 1135, vis­suto prima a Fez poi in Palestina e finalmente al Cairo, dove finl col diventare medico della corte del Sultano. lnfatti, oltre che la filosofia egli esercito l'astronomia e la medicina secondo l'ideale enciclopedico del suo maestro Ari­stotele. Nella sua opera piu famosa, La guida dei perplessi (Doctor perplexo­rum), egli si pone contra chiunque, giudeo o musulmano che sia, parta dalla rivelazione per raggiungere verita che sono di loro natura alla portata della ragione. Essendo una sola, cioe Dio, la radice remota tanto della rivelazione che della ragione, e impossibile che le verita dei due ordini siano tra loro in contraddizione. Se la contraddizione c'e, essa e imputabile al cattivo uso della ragione. Si prenda ad esempio la verita rivelata della non eternita del mondo, e cioe della sua origine per creazione. Essa contrasta con la tesi aristotelica dell'eternita del mondo. Mae proprio questa tesi che, ad una analisi razionale, si dimostrera senza fondamento. Se il credente stara fermo al suo dogma di fe­de senza la pretesa di dimostrarlo, il filosofo sara costretto dalla ragione a ri­conoscere che Ia tesi opposta al dogma non e dimostrabile.

Ci sono invece verita che possono essere conosciute sia per fede che per ra­gione, come l'esistenza di Dio, a sostegno della quale Maimonide ritiene valide le prove razionali elaborate da Aristotele. Per quanta riguarda invece la natu­ra di Dio, la ragione umana non e in grado di conoscere nessuno dei suoi attri­buti: il suo itinerario e quello della teologia negativa, con una sola eccezione: con la mediazione dell'intelletto attivo, una emanazione divina si espande nella ragione e nell'immaginazione di alcuni uomini, i profeti, ai quali incombe la missione di conciliare i conflitti e di guidare l'umanita verso la pacifica e per-fetta convivenza. L'intelletto attivo, secondo Maimonide, e !'ultima delle dieci · 1

intelligenze; mentre le altre nove presiedono aile rispettive sfere, esso sta tra ! il cielo della luna e i quattro elementi. L'intelletto attivo e una sostanza unica e separata, a se stante; quello dell'uomo e solo un intelletto passivo, forma corruttibile del corpo. Ma questa corruttibilita non e assoluta: con l'accogliere il patrimonio accumulato nell'intelletto attivo, l'uomo puo sviluppare in se un suo intelletto acquisito (10.13) e cjoe una particolare modificazione positiva dell'intelletto passivo, una modificazione che non si cancellera del tutto quan-do con la morte dovra riunirsi, come goccia nel mare, all'Intelletto attivo, solo immortale, come tutti gli esseri celesti.

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II -La metamorfosi della cristianita 0 381

Queste tesi di Maimonide entreranno in forza nella problematica universi­taria del mondo Iatino, condizionandone lo sviluppo. Non si dimentichi comun­que che per il mondo ebraico l'importanza di Moise Maimonide non e solo quella del suo piu grande hlosofo. Egli resta ancor oggi lo straordinario mae­stro che ha iridicato agli ebrei, dispersi in un mondo sociologico a !oro estra­neo e ostile, la via da seguire per restare fedeli alia Legge.

Nell'altra sua gtande opera, La ripetizione della Iegge, Maimonide fa un bi­lancio sintetico e ordinato di ambedue le fonti della morale ebraica, Ia Legge e il Talmud, fornendo risposte a tutti i problemi posti dalla condizione di «esi­liato» in cui viveva l'ebreo .. lmportante Ia soluzione su come reagire all'imposi­zione di convertirsi: una conversione forzata, accompagnata da una segreta fe­delta alla Legge, non puo essere peccato agli occhi di Dio. Ne tennero canto si­curamente,_ in terra di Spagna, i 'marrani' sotto il Regno dei 're cattolici', co­me lui, Maimonide, ne aveva tenuto canto quando Cordova, Ia sua citta natale, venne occupa ta dai fana tici Almohadi.

Maimonide e il prima ad usare il termine Cabbala nel sensa di insegnamen­to esoterico, che svela Ia verita velandola e la vela nella svelarla, in un gioco di allusioni, di parole cifrate che solo l'esperto puo capire. Di per se il termine significa 'tradizione' e di fatti il contenuto dell'insegnamento cabbalistico e la dottrina trasmessa in opere di incerta datazione, Ia piu importante delle quali e Sepher letsirah (!/ libra della creazione) del VI secolo, secondo alcuni del IL

II mondo vi viene spiegato con le lettere dell'alfabeto ebraico in combina­zione con i numeri, da to che Dio lo formo creando prima i numeri e poi le co-s e. un po' come il Dio pitagorico. ·

11 piu importante dei 'cabbalisti', secondo alcuni addirittura il fondatore, fu il rabbino francese Isaac ben Abraham, vissuto a cavallo fra il XII e il XIII secolo. Di poco posteriore e il documento letterario piu importante della cab­bala spagnola, lo Zohar (splendore), che Ia critica moderna attribuisce a Mose di Leon. Inutile entrare nel groviglio dei simboli alfabetici e numerici di cui e tessuta anche questa opera. II sensa vera dalla Cabbala e forse una reazione alle pretese razionalistiche, .come quella di Maimonide, dinanzi al mistero del mondo e di Dio. La sapienza vera e altrove, dicono i cabbalisti, e si raggiunge per altre vie. L'influenza della cabbala fu notevole in occidente, come ci capi­tera di rilevare piu volte.

11.3 II trionfo di Aristotele. Alberto Magno. La penetrazione di Aristotele in occidente, avvenuta per vie cosi varie e cosi numerose, ebbe come suo risul­tato, agli inizi del Duecento, che la questione della accettabilita o meno della filosofia peripatetica divenne la questione numero uno tra quelle dibattute nelle universita e nella chiesa. II dibattito non fu solo di natura accademica. La metamorfosi sociale di cui abbiamo detto aveva prodotto un incremento di soggettivita critica, di esigenza razionale e di richiesta di autonomia. La ragio­ne, rimasta assorbita nei modi d'essere della fede religiosa, postulava, con maggiore o minore docilita, la fine della stato di tutela, il riconoscimento dell'eta adulta. E Aristotele era la 'ragione', nel sensa che la sua filosofia era un prodotto dell'uomo senza nessun ausilio soprannaturale. Platone, per quan­to anteriore a Cristo, era troppo teologo, e perfino troppo profeta perche la

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cristianita lo sentisse cosi altro da se. Oltretutto il neoplatonismo aveva finito per apparentare Platone al mondo monastico di cui la sua Accademia era stata un lontanissimo preludio. Aristotele arrivava senza insegne sacre, addirittura nei Commenti degli infedeli, e dunque con un connotato negativo aggiunto. I Commenti per eccellenza, quelli di Averroe, saranno conosciuti nel 1230, rna si conoscevano gia, oltre all'Enciclopedia di Avicenna, di ispirazione aristotelica, molte altre opere arabe o ebraiche in cui Ia filosofia di Aristotele era, a vari ti­toli, largamente presente. Nel XII secolo divenne accessibile la Logica nuova (11.2), insieme a molte opere di scienze naturali, compresa Ia Fisica. Durante la prima meta del Duecento entrarono nel patrimonio delle opere accessibili Ia Metafisica e l'Etica a Nicomaco.

I nuovi soggetti sociali che cercavano una cultura adatta alle !oro responsa­bilita o comunque al Ion) spirito di iniziativa avevano dunque tra le mani gli strumenti appropriati allo scopo. Proprio nei primi decenni del secolo erano nati i due ordini mendicanti il cui senso, nel quadro sociopolitico che abbiamo descritto, non era Ia conservazione del vecchio mondo monarchico-feudale, era Ia promozione, nella continuita della fede cristiana, di un mondo nuovo im­prontato alla liberta, sia pure nel senso ridotto che questa ideale poteva avere in quel secolo.

Ma mentre i francescani avevano per la filosofia una diffidenza preventiva, sia perche essa costituiva pur sempre un'attivita preclusa ai minores della so­cieta, sia perche introduceva la dialettica, cara ai gentili, in una vita di fede in cui invece doveva primeggiare l'amore, i domenicani si mostrarono piu pronti a cogliere le grandi possibilita che venivano offerte alia chiesa con le nuove dottrine. I francescani si trovavano meglio nel vecchio linguaggio simbolico caro ai monaci agostiniani ed ai cultori della filosofia platonica. Nel Cantico di Francesco il sole, il vento, il fuoco, l'acqua sono frate sole, frate vento, frate fuoco e sorella acqua: Ia !oro vera natura e di significare i rapporti invisibili tra Dio e la sua creatura prediletta. La natura insomma resta come un arcana sillabario che solo Ia fede decifra. E invece per l'aristotelico il sole e sole, il vento e vento, il fuoco e fuoco, l'acqua e acqua: ogni elemento va compreso nella sua natura. Lo dira con chiarezza Tommaso d' Aquino:

il filosofo considera nelle creature cio che e !oro proprio secondo la !oro natura; per esempio, nel fuoco il suo movimento verso l'alto; il credente considera in esse cio che e !oro proprio in quanto si riferiscono a Dio, per esempio considera che esse sono create da lui, che gli sono sottoposte e via dicendo.

Ma il 'filosofo', quando ne parlava Tommaso, non c'era, stava proprio na­scendo con lui, tra mille contrasti. Le universita erano in mano ai magistri, che avvertivano nell'aristotelismo una minaccia alla !oro egemonia. Nel 1210 il concilio di Sens, da cui dipendeva Parigi, proibi di usare come libri di testo i Libri naturales di Aristotele. Nel 1215 Ia proibizione fu estesa alla Metafisica. La condanna venne ribadita, con attenuazioni, nel 1231 da Gregorio IX, che af­fido ad una commissione una revisione dei Libri naturales. La commissione ti­ro aile lunghe e nel frattempo le o?ere di Aristotele venivano tranquillamente

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usate fino a che, nel 1255, l'Universita di Parigi le adottera ufficialmente come libri di testa. Un mutamento del genere non sarebbe stato possibile se l'ordine dei domenicani non avesse avuto uomini come Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. II trionfo dell'aristotelismo e, piu propriamente, il trionfo dell'auto­nomia della ragione nei confronti della teologia fu soprattutto opera lora.

II merito di Alberto Magno* e di avere introdotto nel dibattito filosofico le . questioni che saranno svolte con straordinario acume dal suo discepolo Tom­maso. None il caso di entrare in modo analitico nei contenuti della sua dottri­na. Bastera dare rilievo a due aspetti formali del suo sapere enciclopedico:

1. Il prima e la netta distinzione dei due ambiti, quello della ragione e quel­lo della fede. In virtu del lora dis tin to fondamento « le case teologiche non si accordano con le cose filosofiche nei loro principi, perche Ia teologia e fondata sulla rivelazione e non sulla ragione». Questa riconoscimento di principia si accompagna ad un riconoscimento storiografico in quanta egli unisce esplici­tamente all'ammirazione per Aristotele, che diventa quasi Ia personificazione stessa della ragione, anche quella per gli arabi che si sono fatti tramite dell'aristotelismo, come Al-Farabi (10.10) e Avicenna (10.11). Questa delimita­zione delle competenze della filosofia e della teologia taglia il nodo della tradi­zione agostiniana, che riteneva possibile dimostrare con argomenti umani le 'ragioni necessarie' che stanno alla base degli eventi di salvezza. Si ricordi il Cur Deus homo di sant'Anselmo (10.4). Se ci sono, quelle ragioni necessarie so­no inaccessibili all'uomo. Per la prima volta, come fa notare Etienne Gilson, appare Ia distinzione tra cio che e dimostrabile e cio che non lo e, una caratte­ristica tipica del pensiero moderno, che nellimitare se stesso, prende coscien­za del proprio valore e dei propri diritti.

2. Nel farsi volgarizzatore dell'enciclopedia scientifica aristotelica, Alberto esprime una sua passione intellettuale che non si esaurisce nel principia che «solo l'esperienza da la certezza». Egli e un osservatore che pratica il metoda sperimentale, anche se resta impigliato in una visione magico-astrologica del mondo. Ma questa componente irrazionale, come vedremo, non sara assente nemmeno nei pionieri della scienza moderna. In ogni caso e con lui, studioso dei minerali e degli animali, che i 'lapidarl' e i 'besti._arl' in uso nel medioevo

Alberto detto Magno nasce da una famiglia di piccola nobilta sveva, studia a Padova ed entra nel 1223 nell 'ordine dei domenicani. Nel 1228 e lettore di teologia a Colonia dove si occupa anche di ricerche naturali, dal­la mineralogia all'astronomia. NeZ 1244 e maestro di teologia a Parigi, do­ve per un triennia, dal 1245 al 1248, e suo alunno Tommaso d'Aquino, che diverra in seguito suo collaboratore anche nell'organizzare i programmi culturali dell'ordine.

Dopa un lungo periodo nel quale le questioni di governo lo distolgono dalle sue attivita di insegnamento, riprende il suo ruolo di maestro nel 1267 a Colonia, dove muore nel 1280. Tra le sue opere: una Parafrasi di Aristotele con lo scopo di rendere intelligibile ai Latini il « filosofo»; Ia Summa de creaturis e una Summa theologiae.

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cambiano di sensa. Sebbene avvolto in un involucra ancora ingenuo, Alberto ha il profilo dei grandi ricercatori del Cinquecento. Non a caso l'umanista francese Lefevre q'Etaples lo annovera con Aristotele e Salomone fra i «tre grandi geni>> del genere umano.

Tommaso d' Aquino

11.4 Fede e ragione. Secondo uno dei suoi massimi interpreti, Domenique Che­nu, il pensiero di Tommaso d'Aquino* si muove lungo due assi distinti che si in­trecciano di continuo: il prima e Ia fiducia attiva nella ragione; il secondo e i1 riferimento costante alla natura. La riscoperta della cultura greca, fatta al di fuori della via araba, si risolse in lui in una appassionata ricerca del modo con cui incarnare la parola di Dio nel tessuto della ragione (logos) e nella causalita della natura (physis), senza nulla detrarre all'autonomia dell'una e dell'altra. Dominava allora, nonostante i sussulti razionalistici, come quello non dimenti­cato di un Ahelardo, e le provocazioni 'blasfeme' dell"anticristo' Federico II, I 'impostazione agostiniana dei rapporti tra fede e ragione che aveva come pre­supposto, da nessuno contestabile senza rischio d'eresia, la debolezza intrinse­ca della ragione, resa incapace dal peccato originale di raggiungere i suoi stes­si obiettivi senza l'ausilio della fede. Il progetto di Tommaso, un progetto mes­so in atto in quella grandiosa cattedrale del pensiero che e Ia Summa theolo­giae, era di un ardimento che non e facile misurare come si deve.

I filosofi greci, e tra di essi Aristotele, divenuto «intelligibile ai Latini>>, ave­vano messo in mano ai teologi un armamentaria logico molto adatto a esporre le 'ragioni delle cose', rna appunto per questa molto incline a respingere le certezze di fede in zone estranee alia ragione, nella sfera di opinioni soggetti­ve, tanto inconfutabili quanta indimostrabili. Una fede cosi ridotta ai margini dell'uomo non avrebbe avuto piu nessuna presa effettiva sulla realta umana ora che, entrate in deperimento le rudimentali forme della produzione agrico­la, prendeva piede la struttura produttiva cittadina vincolata ai calcolati fina­lismi della ragione. La questione che ormai si poneva non era del genere di quella, tutto sommato accademica, degli universali, era la questione di fonda sulla idoneita della fede cristiana ad avere piedi e mani per agire sullp vita collettiva. In una fase storica in cui le 'arti' meccaniche si mettevano in grado di umanizzare il cosmo, i problemi erano gia, in fonda, quelli che si porranno con piu violenza due secoli dopo, nell'eta dell'umanesimo quattrocentesco. An­che allora ci si rivolgera alia saggezza degli antichi e, come vedremo, con un esito complessivo che sara la liquidazione stessa della cristianita.

Quella di Tommaso e, invece, una risposta interna alla cristianita e tuttavia perenne, proprio perche comprensiva delle ragioni autonome della crescita umana, della logica commisurata a quelle che allora si chiamavano 'cause se­conde'.

Alia base della risposta tomista non c'e solo l'innovazione epistemologica

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operata da Alberto (11.3); c'e l'adozione della logica aristotelica quale struttu­ra nativa e quindi universale della mente. Di piu, c'e l'opzione di fonda, che ri­mane sottintesa, dell 'unicita dell 'orizzonte dell 'essere, che comprende in se sia Dio che le case e dentro il quale non si possono dare due verita tra lora incon­ciliabili. Per giungere a tanto Tommaso dovette farsi strada tra due opposte

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Tommaso nasce nel 1221 nei pressi di Aquino, a Roccasecca, in que! Regno di Napoli che in quegli anni era attraversato, anche per impulso di Federico 1!, da non poche correnti innovative, in conflitto col sistema feu­dale. lnizia i suoi studi nell'abbazia di Montecassino e li prosegue nella universita di Napoli, fondata da Federico in contrapposiz.ione a quella di Bologna, molto 'pontificia'. A diciannove anni decide di entrare nell'ordi­ne dei domenicani, con violenta reazione dei suoi, data il carattere 'sov­versivo' di quella famiglia religiosa. La vocazione di Tommaso e del tutto omogenea a quello che sara il suo straordinario compito intellettuale: il compito di riconciliare la fede cristiana con la ragione e di inglobare in una medesima tradizione dell'uomo razionale anche l'insegnamento del pagarw Aristotele.

A vent 'anni e a Parigi, alunno di Alberto Magno, che lo conduce con se a Colonia. Tomato a Parigi vi ottiene, nel 1256, la licenza d'insegna­mento. Dal 1259 al 1268 Tommaso soggiorna in ltalia, incaricato dal suo ordine di organizzare gli studi e utilizzato dai Papi come consigliere teo[~ gico. In questa periodo insegna in varie citta italiane, da Anagni a Viterbo, e stringe rapporti di collaborazione con alcuni confratelli, come Guglielmo di Moerbecke, che traduce per lui, direttamente dal g1·eco in latina; alcune opere di Aristotele. NeZ 1268 lorna a Parigi, chiamatovi da accese dispute sui grandi temi dell'uomo e dei rapporti tra fede e cultura, dispute nelle quali emerge per sottigliezza e virulenza Sigieri di Brabante (12.1), l'arist~ telico averroista.

Nel 1272 lorna in ltalia perche il suo Ordine gli ha data l'incarico di organizzare uno Studium generale e il nuovo re di Napoli, Carlo d'Angio, intende servirsi di lui per riorganiz.zare l'Universita. ll 7 marzo 1274, men­tre e in viaggio verso Liane, dove lo ha chiamato Gregorio X che vi ha inau.gurato u.n concilio, muore improvvisamente nell 'abbazia di Fossano­va, poco piu che cinqu.antenne.

Era stato un lavoratore indefesso. Anche durante i suoi spostamenti era riu.scito a portare avanti opere di gran mole. lmportanti i suoi com­menti ad alcune opere di Aristotele, in cui si ispira, si, alla parafrasi aristo­telica del suo Maestro, Alberto, ma con questa di nuovo: i suoi commenti sana letterali, tutti tesi a ritrovare il sensa reale del testa. Uno sforzo di comprensione che gia dice malta sui suo modo di intendere la filosofia.

Le sue opere piu importanti sono la Somma contra i gentili, scritta tra il 1269-1273 per i suoi confratelli in missione presso i Mori e la Somma teologica 'ad usa dei principianti', cominciata nel 1269 e rimasta incom­piuta.

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obiezioni. incarnate in uomini e in scuole: quella averroistica rappresentata da Sigieri e quella agostiniana rappresentata dai irancescani e in modo parti­colare da Bonaventura. Secondo i primi, non si da che un'unica forma di sape­re, quella filosofica, ne si da altra verita che quella di ragione. Secondo gli al­tri, non c'e che un solo sapere, quello teologico, basato sull'autorita della Pa­rola di Dio: anche le cosiddette verita di ragione non possono essere conosciu­te senza il sussidio della fede. La novita epistemologica costruita da Tommaso comporta i seguenti principi:

- la ragione e Ia fede sono due modi distinti del conoscere, il prima basato sull'evidenza e Ia dimostrazione, il secondo sulla rivelazione e cioe sull'autori-ta di Dio; ·

- !'ambito specifico della ragione e quello che ha per base la conoscenza sensitiva e per vertice le verita metafisiche, queUe che stanno al di qua dell'ambito proprio della fede, come l'esistenza di Dio o l'immortalita dell'ani­ma. In questa sensa Ia filosofia e 'ancella della teologia' perche raggiunge quelle conoscenze che sono i presupposti necessari della teologia. Ad esempio: Ia verita teologica che Dio e in tre persone presuppone Ia verita filosofica che Dio esiste: ' - il metoda della ragione, che consiste nel giungere, a partire da cose gia

conosciute, alla conoscenza di cose che erano sconosciute (il sillogismo aristo­telico), puo essere applicato anche all'interno di queUe verita che si sono ac­colte per fede. Prendiamo una verita che Ia rivelazione ci consegna e che noi accogliamo con libero assenso: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono Dio. La ragione arriva a stabilire che essi sono una sola natura in tre persone. La teologia e dunque una vera e propria scienza, quanta al metoda;

- il sapere filosofico e quello teologico sono sottoposti al principia di non contraddizione per cui, dato che i dogmi sono assolutamente certi, se una pro­posizione filosofica e contraddittoria a un dogma, essa e sicuramente falsa e come tale va rigettata;

- la ragione, sebbene autonoma, ha nella fede non solo una salvaguardia rna anche l'indicazione degli obiettivi verso i quali dirigersi, che sono poi le stesse verita rivelate da Dio. Anche in questa sensa Ia filosofia e ancella della teologia.

11.5 La teologia naturale. Un cosi equilibrato (rna anche fragile!) rapporto tra fede e ragione non poteva certo conciliarsi con la dottrina aristotelica, sia quella trasmessa in occidente dai falasifa islamici, sia quella autentica resa ac­cessibile per via diretta dalle traduzioni dal greco. Si puo dire che l'aristoteli­smo di Tommaso e, nei punti nodali, una nuova creazione, imposta, proprio come il metoda voleva, dalle pregiudiziali delle verita di fede. Ma a tale scopo Tommaso non modifica il sistema aristotelico dall'esterno, per semplice corre­zione derivata dall'ossequio alia verita di fede, rna dall'interno e cioe per via di ragione, costruendo, a partire da premesse aristoteliche, una 'teologia natu­rale', cioe fondata su argomenti di ragione.

Si ricordera come nella metafisica aristotelica (5.8-12) tutto il dinamismo della realta, dalla materia prima all' Atto puro, avesse come sua struttura cau­sale il rapporto tra potenza e atto: Ia forma e atto della materia, Ia materia e

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potenza alla forma. Tommaso, con una variazione di fondamentale importan­za, vede nelle sostanze materiali una doppia composizione: quella, prettamente aristotelica e or ora ricordata, di materia e forma e l'altra di essenza e di 'atto d'essere', cioe d'esistenza. L'essenza di una cosa non e solo la sua forma, e la forma e la materia nella loro composizione quale appare all'intelletto (l'uomo, ad esempio, e un animale razionale) e che puo essere pensata a prescindere dal fatto che esista o meno. L'essenza e possibilita ad esistere e solo con l'atto d' esistere l' essenza entra nell' ordine dell' essere.

Per quanto riguarda le sostanze spirituali (gli angeli) aile quali la scuola agostiniana attribuiva la composizione di materia e forma, Tommaso pone anch'esse sotto la struttura metafisica della potenza e dell'atto: ciascuna dies­se e una specie a se (e a causa della materia che una specie si moltiplica; la so­stanza spirituale e per detinizione una forma pura senza materia) e come spe­cie a se e semplice possibilita ad esistere: il passaggio dalla possibilita all'atto, dall'essenza all'essere, richiede l'intervento di una causa superiore.

L'aver posto fra l'essenza e l'esistenza il nesso che c'e tra la potenza e l'atto ha permesso a Tommaso di liberarsi da ogni forma di platonismo, come quel­la, ad esempio, di Avicenna, per il quale l'esistenza era un 'accidens' dell'es­senza, la quale e quella che e indipendentemente dal fatto che esista 0 meno. Per Tommaso non si da una essenza fuori dall'atto di esistere, il quale non e dunque accidentale in rapporto ad una determinata essenza, e il suo stesso at­to di compiutezza. Insomma le sostanze non stanno, in quanto essenze, in un mondo di idee, e in quanta cose reali, nel mondo dell'essere; sono soltanto nel mondo dell'essere, a partire dal quale l'intelletto puo determinare le loro es­senze. II passaggio dall'essenza all'esistenza richiede l'intervento di quell'unico essere in cui essenza ed esistenza coincidono e cioe Dio. A differenza di tutte le altre sostanze, che non sono l'essere rna lo hanna ricevuto, Dio e l'essere nel senso che e lo stesso atto di esistere, la cui azione propria e di produrre l'esi­stenza e non come atto secondo, alia maniera di Plotino (8.3), rna come effetto. In altri termini, mentre negli altri esseri l'esistere e altra cosa che l'essenza, ne deriva da essa rna suppone una causa trascendente, esterna .all'essenza, <<egli e il solo essere la cui essenza e la stessa sua esistenza». E questo illuogo ontologico in cui il punta d'arrivo della teologia razionale si incontra col pun­to di partenza della teologia rivelata.

L'Essenza di Dio, scrive Tommaso nella Somma contra i gentili, e il suo essere. Di cosi sublime verita Mose fu ammaestrato da Dio, quando chieden­do egli al Signore: «Semi diranno i figli di lsraele: quale e il suo nome? che cosa rispondero io?>>, il Signore rispose: «lo sono colui che sono. Dirai cosi ai figli di Israele: Colui che e che mi ha mandata a Voi (Esodo III, 13-14). Mostro cosi che il suo nome proprio e questo: Colui che e.

Ora qualsiasi nome e posto per significare !a natura o essenza di una co­sa; onde rimane chiaro che lo stesso essere di Dio e la sua essenza o natura.

11.6 L' esistenza di Dio. Ma proprio perc he l' essenza di Dio si identifica con Ia sua esistenza, proprio perche l'esistenza non e accidentale nei confronti dell'essenza, rna ne e lo stesso principio costitutivo, sara vano voler dimostra­re che Dio esiste a partire dall'idea che ne abbiamo. Solo dopo aver dimostra-

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to che Dio esiste sara possibile comprendere quale sia la sua essenza. Tomma­so non ritiene valido l'argomento ontologico di sant'Anselmo (10.4), appunto perche non ha sense> per lui un discorso sulle essenze fatto a prescindere dall'esistenza. Cio che e primo nell'ordine dell'essere, Dio, e ]'ultimo nell'ordi­ne del cohoscere.

L'impianto epistemologico di Tommaso, come subito vedremo, e a posterio­ri. La via a Dio e gia tracciata virtualmente nella dottrina appena esposta del rapporto tra essenza ed esistenza nelle sostanze finite: il passaggio dalla possi­bilita di esistere all'atto di esistere non puo avvenire se non per intervento di una causa superiore, e cioe, in ultima istanza, di un essere che, per rendere canto della propria esistenza, non rimandi ad altro che a se stesso, cioe Dio. Attorno a questa robusto asse ontologico, Tommaso costruisce le sue note cin­que vie, che hanna rappresentato, per secoli, 1 'eredita piu preziosa del sapere scolastico.

l. Come ci attesta l'esperienza, il divenire e passaggio dalla potenza all'at­to, passaggio che presuppone l'esistenza di un altro essere in atto. Per accen­dere una fiamma ci vuole il fuoco; per avere un uomo ci vuole un uomo. E se quest'altro essere gia in atto e a sua volta un essere che diviene, bisognera ri­salire ad un altro essere e cosl. via fino a che non si giunga ad un essere che e Atto senza potenza, cioe Atto puro. L'Atto puro e il 'motore immobile' che tut­to muove senza muoversi e cioe che causa il divenire universale senza diveni:r:e lui stesso.

2. Nel suo insieme la realta none che un ordine di cause delle quali ciascu­na e insieme causa ed effetto. Risalendo da effetto a causa si dovra arrivare ad una causa prima e cioe ad un essere che non e effetto, di nessuna causa, per­che altrimenti, se si prolungasse Ia catena all'infinito negando che ci sia una causa prima, si verrebbe a sopprimere tutte le cause intermedie.

3. Gli esseri si distinguono, astrattamente, in 'possibili', o contingenti, e ne­cessari. L' essere contingente e quello che non ha in se la causa di se stesso e dunque, proprio per questa, c'e, rna poteva non esserci e non ci sarebbe stato se non ci fosse stata Ia causa che lo ha posto. Ecco perche il contingente si di­ce anche possibile. L'essere necessaria e quello che ha in se Ia causa di se stes­so e pertanto non puo non esserci. Ebbene, le case che noi conosciamo sono contingenti, non hanna in se la ragione di se stesse e percio rimandano ad un essere che sia ragione di se e di tutte Je case.

4. In tutte le cose che rientrano nella nostra esperienza c'e una gradazione di perfezioni - ad esempio delle perfezioni trascendentali: banta, verita, bel­lezza- che ci permette di giudicarle come piu o meno perfette, il che implica necessariamente l'esistenza di un essere perfetto che possegga tutte le perfe­zioni allo stato puro e di cui tutti gli altri esseri partecipino.

5. L'esperienza ci mostra molti esseri non intelligenti che pure agiscono per un fine. Ora l'agire in vista di un fine e la caratteristica degli esseri dotati di intelligenza. Allora si dovra ammettere una intelligenza suprema che ordina tutte le cose di natura verso un fine.

Di queste cinque prove la terza e tratta da Maimonide (11.12), la quarta e platonica, le altre tre sono desunte dalla fisica aristotelica. Ma non in modo pedissequo. L'aristotelismo subisce in Tommaso una trasmutazione radicale

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anche su questo punto nodale della metafisica. Mentre Aristotele si preoccupa solo di mostrare il Primo Motore o la Prima Causa o la Prima Intelligenza nel­la catena degli effetti che ne derivano, Tommaso considera la causa universa­le, che produce dal nulla, in modo istantaneo, senza dare nessun rilievo all'eternita o all'inizio temporale dell'azione creatrice. Cio che importa nel de­finire l'atto originale di Dio come atto creativo non e tanto il fatto che Dio ha tratto le cose dal nulla (il nulla e un puro 'ente di ragione' e non causa mate­:iale, spiega Tommaso), quanto i1 fatto che le cose che diciamo create dipendono m modo totale dall'essere incondizionato, il quale invece e quello che e, indipen­dentemente dal iatto che le cose ci siano o meno. Tra il mondo e Dio non c'e necessita reciproca. Dio e necessaria al mondo, rna il mondo non e necessario a Dio: questo vogliamo dire quando diciamo che Dio crea liberamente.

La dottrina della creazione, basata su simili premesse, ha in Tommaso sin­golari sviluppi. Dominava, nel suo tempo, la visione 'esemplaristica' del rap­porto natura e Dio e cioe la visione che da Platone era arrivata al medioevo tramite l'agostinismo e anche tramite Ia filosofia araba ed ebraica. Secondo l'esemplarismo, l'intero universo delle cose, perfino nei !oro accidenti, e cau­sato dalla forza esemplare delle idee eterne, che Dio assume come modello della sua potenza creativa. Per Tommaso il rapporto tra le creature e il creato­re e sostanzialmente quello della partecipazione all'essere. E. Dio che comuni­ca l'essere alle creature ed e Dio che le mantiene nell'essere. Ma sarebbe una detrazione all'opera di Dio negare aile cose naturali una autonomia causativa: esse sarebbero a dir poco inutili e come tali non potrebbero certo narrare la gloria di Dio. La natura diventa in Tommaso e, per suo tramite, in larga parte della cultura dell'ultimo medioevo, l'insieme delle cause seconde aile quali oc­corre riferire i fenomeni per comprenderli e sulle quali bisogna far leva per governarli. E. facile capire le conseguenze, su altri ordini, di questa articolazio­ne della base metafisica della realta.

11.7 L'antropologia. Attraverso Aristotele Tommaso ha dunque ripulito la natura da ogni sovrastruttura mistica, da ogni soggezione a influssi extramon­dani. Per lui il mondo e mondo e va compreso innanzitutto mediante le cause mondane. Analogo e l'esito che, mediante l'aristotelismo, Tommaso raggiunge nella comprensione dell'uomo. L'agostinismo del tempo attribuiva all'uomo una pluralita di forme, quella vegetativa, ad esempio, e quella sensitiva e final­mente quella razionale. Gli agostiniani ponevano tra !'anima razionale e il cor" po una 'forma' del corpo (forma corporeitatis) per meglio garantire l'immorta­lita dell'anima razionale: quando muore il corpo, muore anche la sua forma che pero e quella corporea non quella razionale, che e di sua natura immorta­le. Sappiamo gia i rischi rappresentati dall'operazione antropologica di Aver­roe: ogni individuo ha la sua forma sostanziale mentre invece l'intelletto passi­vo e unico per tutti gli uomini, separato dunque dalla sorte del singolo indivi­duo. Proprio in diretta polemica con queste ed altre soluzioni Tommaso afferma:

nell'uomo non vi e altra forma sostanziale all'infuori dell'anima raziona­le e per essa l'uomo non solo e uomo, rna altresi animale e vivente e corpo e sostanza ed ente.

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Questa dell'anima razionale come unica forma del corpo e una delle tesi di Tommaso che suscitarono piu aspre polemiche anche all'interno dell'Universi­ta di Parigi. L'obiezione piu corrente era che se davvero l'anima razionale fos­se la forma del corpo, allora, per la legge del sinolo, morto il corpo anche !'anima dovrebbe ritenersi morta. Tommaso risponde che l'anima razionale as­solve, si, nel corpo le funzioni dell'anima vegetativa e di quella sensitiva, rna ne assolve anche una, quella appunto razionale, che si pone oltre la corporeita, la trascende. L'anima none dunque totalmente immersa nella corporeita e per quanto di sua natura tenda al corpo come alla propria pienezza, essa ha in se la consistenza ontologica della sostanza, o rneglio di una 'sostanza incompleta', che, scioltasi dalla materia, e in grado di sopravvivere anche se in strutturale nostalgia della corporeita. Come si vede, anche qui il risultato e di aver messo l'uomo con i piedi in terra, anima e corpo, anche se con una sua parte, !'ani­ma, omogenea all'eternita.

Nonostante questa sua consanguineita con le sostanze eterne, l'anima non gode di nessuna particolare illuminazione: Tommaso respinge «con reverenza» la dottrina agostiniana della illuminazione (8.17). L' oggetto vero dell'intelletto umano non sono le essenze eterne, sono le essenze connesse con la real ta ma­teriale e che, per processo astrattivo, danno luogo, nell'intelletto, paragonato aristotelicamente alia lavagna cancellata, al concetto, prima di tutto al concet­to di 'essere'. I gradi del processo astrattivo si susseguono secondo la dinami­ca del passaggio dalla potenza all'atto: i sensi che sono in potenza al sentire, passano all'atto nella sensazione per opera del sensibile esterno; unificate dal 'sensoria esterno' le sensazioni formano il 'fantasma', l'immagine dell'oggetto interno, la quale contiene in se, in potenza, l'intelligibile. L'intelligibile e in po­tenza ad essere inteso cosi come, correlativamente ad esso, l'intelletto umano e 'in potenza' (passivo o possibile) ad intendere. Per opera dell'intelletto attivo l'intelligibile, da una parte, e l'intelletto possibile dall'altra passano all'atto nella intellezione concettuale. Usando i termini intelletto passivo e intelletto attivo abbiamo toccata una delle grandi questioni del medioevo. Tommaso vi entra in pieno. Polemizzando soprattutto contro Averroe, o meglio contro la corrente averroistica capeggiata da Sigieri (12.1), impone dialetticamente una soluzione che e, ancora una volta, nel sensa della semplificazione razionale.

L'intelletto passivo, egli dice, e una funzione dell'anima come forma del corpo cosi com'e funzione dell'anima l'intelletto attivo, che smaterializza l'im­magine sensibile in modo che la specie intelligibile in essa contenuta attui la potenzialita dell'intelletto passivo. II processo conoscitivo e dunque interno ad ogni singolo soggetto, contra gli averroisti che poneva~o fuori del soggetto ambedue gli intelletti, e contro gli agostiniani che sostituivano l'intelletto atti­vo con l'illuminazione divina. L'uomo ha in se tutte le cause delle proprie atti­vita umane, prima fra tutte quella del conoscere.

11.8 Morale e politica. Animale razionale, l'uomo si trova al punto di con­tatto e di compenetrazione tra due universi, quello spirituale e quello materia­le, e vi si trova non come strumento di forze estranee a se, rna come artefice del proprio destino. Nell'involucro di un linguaggio medioevale, c'e nell'antro­pologia di Tommaso un ricco contesto di intuizioni nelle quali non e difficile

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presentire il clima dell'umanesimo quattrocentesco. La liberta dell'uomo, o meglio, per usare il linguaggio proprio di Tommaso, il 'libero arbitrio' e neces­sariamente interno alla lex aeterna, alla legge eterna, posta da Dio, che volge ogni essere verso il proprio bene. L'uomo non puo non perseguire il proprio bene; anche quando 'pecca', egli pecca perche elegge un bene particolare al po­sto di un bene piu conforme alla misura assoluta posta da Dio. A muovere la volonta e l'oggetto proposto dall'intelletto, rna la volonta si muove alia scelta mediante un processo libero che la mette in grado di pronunciare un giudizio. Come si vede, libera autodeterminazione e necessita si intrecciano saldamente, nel libero arbitrio dell'uomo. Le determinazioni necessarie al perseguimento della finalita posta dalla legge eterna, dinanzi alia quale non si da liberta, l'uo­mo le trova all'interno della legge natura, che altro non e se non la legge eter­na di Dio cosi come si partecipa ad una creatura razionale. E la ragione infatti che, sulla base delle finalita della legge di natura, ci porta a distinguere cio che e da fare da cio che e da evitare, in rapporto aile circostanze di tempo e di luogo. Questa mediazione personale della legge naturale e opera della coscien­za (synderesis) e cioe di una disposizione permanente, in cui pero molto conta l'educazione, a formulare giudizi e a creare quelle abitudini buone che si chia­mano virtu. Prima delle virtu e la prudenza, seguita dalla forza, dalla tempe­ranza e dalla giustizia. La giustizia che e la sommita della vita morale si con­nette con la superiore giustizia di Dio, che si comunica all'uomo con le tre vir­tu teologali o soprannaturali; fede, speranza e carita. La piu importante delle virtu soprannaturali, la carita, anima, nel cristiano, l'intero organismo delle virtu naturali, non sopprimendone l'autonomia e i fini, rna anzi corroborando­le e aprendole agli orizzonti superiori della vita divina.

Secondo il modulo aristotelico la vita sociale riproduce lo schema della struttura dell'uomo, ne e come la naturale proiezione. Non e la convenzione umana e nemmeno la necessita derivata dal peccato, come voleva Agostino, rna e la stessa natura dell'uomo a far nascere lo Stato.

L'uomo e per natura un animale sociale; quindi gli uomini, nello stato di innocenza, sarebbero vissuti in societa.

scrive Tommaso, legittimando anche qui le forme naturali di crescita dell'uo­mo, a prescindere dalle sue finalita eterne. Alla base di questa convivenza c'e il diritto naturale, che e un riflesso della legge eterna del creatore e che deve restare il punto di riferimento dirimente per tutte le leggi positive: un concet­to, che, attraverso la neoscolastica del 1500, diventera la premessa prima del giusnaturalismo secentesco. E proprio in ba:se a que! diritto che la vita asso­ciata deve rispondere al criterio sommo del bene comune. La sovraniHi e di Dio, rna in concreto e gestita dalla moltitudine, Ia quale, per ragioni di ovvia opportunita, la delega ad uno perche governi in nome di tutti. Tommaso insiste sulla coincidenza tra il bene comune e il bene particolare, coincidenza. che e garantita solo se a tutto si antepone il bene comune. In questo egli segue Ari­stotele, rna lo segue per sottolineare un limite in questa subordinazione dell'individuo alle leggi del gruppo: <d'uomo none ordinato alla comunita poli­tica con tutto se stesso e con tutto cio che ha ... L'uomo nella sua totalita e or-

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dinato a Dio». Principia fondamentale, che sara di continuo rievocato anche nei tempi recenti per porre un limite aile ingerenze dello statalismo.

In questa affermazione della trascendenza ontologica della persona in rap­porto allo Stato si innesta il discorso, tipicamente medioevale, sui due poteri. II bene comune implica in se una gerarchia di beni particolari, con al vertice quelli dello spirito. Per raggiungere i beni superiori non basta la societa civile, occorre quella societa delle anime che e la chiesa. Le regole che devono gover­nare i rapporti tra le due societa sono analoghe a quelle che regolano, nell'uni­co individuo umano, la vita dell'anima e quella del corpo. Certo la chiesa deve rispettare i principi propri su cui si regge la societa civile, rna, in ragione del­la superiorita dei fini che persegue e assicura, la chiesa ha il diritto, per Iegge divina, di insegnare agli Stati quale e il vero bene dell 'uomo e, se il caso, di scomunicare e di deporre i principi che si oppongono a tale diritto. Queste tesi sono sostenute in un'opera avviata da Tommaso col titolo di De regimine prin­cipum e portata a termine da un suo discepolo, che ne accentuo l'inclinazione teocratica, sbilanciando in modo unilaterale la dottrina che sta al centro dell'opuscolo, quella della distinzione e della relativa autonomia dei due ordi­ni, il naturale e il soprannaturale.

La scolastica francescana

11.9 Agostino contro Aristotele. Quando giunse a Parigi la notizia della mor­te di Tommaso d'Aquino, la Facolta delle arti, nella cui giurisdizione rientrava­no le scienze della natura, mando le sue condoglianze al generale dei domeni­cani. La Faculta di teologia, invece, si mostro molto riservata. Era stato per impulso di Tommaso che la Facolta delle arti aveva inserito nei suoi program­mi molte opere di Aristotele, con la conseguenza che di tanto in tanto vi esplo­devano questioni pili o meno gravi sul rapporto tra ragione e fede. E di tali questioni approfittava l'ala averroistica dei seguaci di Aristotele per far passa­re la teoria della 'doppia verita'. Di qui lo stato di allarme contro Aristotele, nella Facolta di Teologia. A tenerlo vivo erano soprattutto i francescani, che andavano ripetendo il motto del loro primo maestro, Alessandro di Hales: «Si deve credere ad Agostino piuttosto che al filosofo>>. Il filosofo era, naturalmen­te, Aristotele. II Vescovo di Parigi, Stefano Tempier, che gia nel 1270 aveva condannato le tesi averroistiche, si decise, anche su pressione del Papa Gio­vanni XXI, a condannare una silloge di 219 tesi insegnate alla Facolta delle ar­ti, con l'interdizione di insegnarle nell'ambito dell'Universita parigina. Fra queUe tesi ce n'erano alcune insegnate sia da Sigieri che da Tommaso d'Aqui­no. La condanna e del 7 marzo 1277: il 18 aprile dello stesso anno l'arcivesco­vo di Canterbury proibi che si insegnassero ad Oxford una trentina di tesi spe­cificamente tomiste. L'attacco era tanto piu' temibile in quanto a resistere all'ingresso di Aristotele nell'Universita non era stato soltanto il ceto retrivo dei magistri secolari, era stata anche l'altra meta della chiesa mendicante, quella francescana. I due 'mendicanti' Tommaso e Bonaventura erano riusciti

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a restare avversari e insieme amici, contenendo le proprie diversita dentro la cor.nice di un progetto comune di rinnovamento. Ma al di la dei loro atteggia­menti soggettivi c'era, e ben visibile, l'inconciliabilita delle loro opzioni di fan­do per quanta riguarda il ruolo della ragione nella vita di fede. Una inconcilia-

. bilita che si risolse in un paradosso storico. Infatti tra i due ordini visti alle loro origini, quello piu ricco di slancio innovativo, riguardo alia societa esi­s ten te e sopra ttu tto all a chiesa teocra tic a, era il francescano, il cui impegno fu, almena nella generazione di Francesco, una polemica anticulturale, che di necessita diventava normalmente rinuncia alia vita ecclesiastica. «Parisi, Pari­si; tu ne·hai distrutto Assisi», canteranno in seguito gli ostinati nostalgici del Poverelio. I domenicani, dediti per statuto originario allo studio e alia predica­zione e dunque anche alia vita sacerdotale, sembravano del tutto inquadnibili nelhmmagine vigente della chiesa. Ebbene, la scelta della 'filosofia del cuore' porto i francescani ad accomodarsi ben presto alle strutture della chiesa ge­rarchica e ad occupare senza disagio le cattedre delle universita e gli scanni dei conclavi e dei concili. La scelta della ragione fece invece della tradizione domenicana, nella sua forma tomistica, un grande evento umanistico, la cui fe­condita avrebbe germogliato piu nel futuro remota che in quello immediato.

La linea francescana sarebbe risultata, nell'irrimediato, vincente anche per Ia forza e l' originalita dei suoi rappresentanti, tra i quali ricordiamo, in antici­po, Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo Occam. Ma proprio su quella linea si svolgera fino agli estremi la pregiudiziale antirazionale che in Bonaventura era rimasta contenuta nella moderazione. L' idea di fonda di Bo­naventura e la riduzione di ogni esperienza autenticamente umana alia con­templazione mistica: le arti, come dice il titolo di una sua opera, vengono ri­dotte sotto il principia teologico e questa, a sua volta, mediante un itinerario in cui il primato non e della ragione, e del cuore, viene risolto nell'atto con­templativo, dove ogni parola perde di sensa perche perde di sensa l'esercizio della ragione. Questa divario fra ragione e realta, se sui vertici contemplativi e come occultato dalla gloria dell' estasi, non appena si discende verso la realta finita e molteplice potrebbe trasformarsi o nel vuoto della scetticismo o nell'alternativa del sapere puramente empirico, spoglio di ogni pretesa metafi­sica. E cosi avverra.

11.10 Bonaventura: fede e ragione. Prendere posizwne sull'opportunita o meno di aprire le porte dell'Universita di Parigi all'aristotelismo era un modo indiretto per prendere posizione sulla possibilita o meno di una filosofia auto­noma, all'interno della visione teologica della realta. Come sappiamo, il me­dioevo, fino a! Duecento, non ha fatto che ripetere, 'sia pure con numerose va­rianti, la soluzione che al problema aveva dato Agostino (8.16), soluzione che non implicava, e vera, il dispregio della ragione, rna ne sottolineava la debolez­za, · derivata dal peccato di origine, e di conseguenza sottolineava anche la ne­cessita della fede per sostenerla e integrarla in se: senza la fede, la ragione era inetta perfino per i suoi propri obiettivi.

L'Aristotele che Bonaventura* aveva studiato a partire dal 1235 frequen­tando le Arti di Parigi era ancora l'Aristotele 'arabo' che in alcuni punti nodali entrava in attrito con le verita della fede, come nella dottrina dell'eternita del

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mondo o in quella del potere delle sfere celesti nel determinare gli eventi del mondo. La posizione di Bonaventura non fu di radicale avversione all'aristote­lismo, del quale anzi si servi, sia pure con cautela: il maestro della sapienza­cosi egli scrive - e Platone, delle scienze naturali e Aristotele, di ambedue Agostino. Fra gli storici c'e anche chi ha considerato Bonaventura come colui che ha preparato la strada a Tommaso d'Aquino nell'opera di cristianizzazione del 'filosofo'. La tesi none piu condivisa, rna e bene ricordarla perche non si dia peso eccessivo all'immagine di un Bonaventura platonico contro un Tom­maso aristotelico. Tommaso era anche lui contro Sigieri e contro ogni lettura di Aristotele che intendesse detrarre qualcosa al primato della teologia. Ma, come abbiamo visto, questo primato non era compromesso dal riconoscimento delle cause seconde e quindi di quella ragione naturale che ha nelle cause se­conde l'oggetto suo proprio e che, attraverso di esse, puo risalire alla cono­scenza della Causa prima. Bonaventura era rimasto invece del tutto interno all'opzione francescana che aveva avuto nel Cantico delle creature il suo 'mani-

Bonaventura nasce nel 1217 (data insicura) a Bagnoregio, nel viterbese, dove gia si e diffusa la fama dei fatti e delle parole di Francesco d'Assisi. Il padre lo invia a Parigi per compiervi gli studi. A Parigi ci sono gia da qualche anna i francescani e c'e soprattutto Alessandro di Hales, un mae­stro secolare che nel1236 si fa francescano anche lui, dando inizio ad una questione che agitera per piu di vent'anni l'universita parigina: e lecito ap­partenere nella stesso momenta a due societa, quella della comunita reli­giosa e quella universitaria? La questione giuridica in realta ne nasconde un'altra che tocca l'immissione nella roccaforte culturale di uomini e di idee che favoriscono il declino del vecchio ordine sociale. Anche Bonaven­tura (il suo nome, prima della vestizione religiosa, e Giovanni di Fidanza) decide di farsi francescano. lnsegna nell'universita di Parigi dal 1248 al 1257, dapprima commentando la Bibbia e finalmente, daL1253 a/1257, teo­logia. NeZ 1257 diventa generale dell'ordine e come tale intraprende una operazione organizzativa e culturale quanta mai coraggiosa (e quanta mai discussa): la piena integrazione del suo ordine religioso nella struttura cle­ricale della chiesa (lui stesso diverra cardinale) e La transizione dalle for­me pauperistiche originarie aile forme monastiche che Francesco aveva tanto combattuto. Per meglio estirpare La resistenza a questa svoLta egli scrive una vita ufficiale di Francesco facendo distruggere tutte le altre. Le sue innovazioni, approvate dal capitola di Narbona nel1260 fanno di lui il secondo fondatore dei francescani. La sua stessa teologia non e che una trasposizione in un grandioso sistema razionale dell'intuizione mistica che sta alla base del francescanesimo: il primato dell'amore sul sapere.

Tra le sue opere ricordiamo Il commentario aile sentenze, La scienza di Cristo, Il mistero della Trinita, tutte edite attorno al 1254; il Brevilo­quio del 1257; Riduzione delle arti alla teologia del 1255 e finalmente la piu importante Itinerario della mente in Dio. Muore nel1274 (lo stesso an­na della morte di Tommaso d'Aquino) a Liane mentre vi presiede, a nome del Papa, il concilio ecumenico.

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festo' mistico-filosofico. I fenomeni della natura e della vita sono 'vestigi' di una presenza, hanna il lora vera sensa nella lora capacita di rimandare ad al­tro: frate sole e Iodato perche porta «Significatione» dell'Altissimo. E. qui, in questa lora proiezione simbolica, il sensa ultimo delle case. E c;osi, per quanta riguarda il conoscere, la ragione umana non ha una vera e propria autosuffi­cienza. Un primo limite la tocca anche quando si muove nell'ambito suo pro­prio: se si comporta con autosufficienza, tenendosi paga di se e senza guarda­re oltre, e cioe verso il mondo rivelato dalla fede, essa procede barcollando e cade totalmente in errore. In secondo luogo la ragione e limitata dalla sua stessa collocazione dentro l'articolata struttura epistemologica: prima viene Ia fede, poi la ragione e finalmente Ia visione beatifica di Dio. La ragione sta in mezzo, sia in quanta e strumento della fede in cerca della comprensione di se stessa, sia in quanto senza l'illuminazione interiore del Verba non avrebbe ac­cesso a que! mondo delle idee che fornisce al conoscere le categorie universali. A suo modo, il successore di Francesco clava adempimento alle rampogne del Maestro contra la ricerca del sapere e alia sua esaltazione dell'amore come unica via di salvezza.

Ma la 'filosofia' bonaventuriana obbediva, piu o meno coscientemente, ad esigenze politiche. Come generale del suo ordine la sua teologia gli clava piena legittimita nel perseguire la sottomissione dei suoi frati aile disposizioni della chiesa; come cardinale egli era in grado di sostenere le ambizioni teocratiche messe gHt a dura prova dalla insubordinazione di Federico II, rna tutt'altro che morte. La chiesa sta all 'impero come la teologia sta all a filosofia. Nella tradi­zione agostiniana, che Bonaventura ridusse ad un sistema aggiornato, l'impero non ha dinanzi alia chiesa nessuna vera e propria au tonomia. E cosi la filoso­fia dinanzi al sapere teologico. In questa sensa quella di Bonaventura fu una filosofia che, come dira Hegel della propria, alzo il suo vola come la civetta, nel momento del crepuscolo, nel momenta cioe del crollo definitivo dell'ideolo­gia teocratica.

11.11 Bonaventura: l'itinerario della mente. L'antiaristotelismo di Bona­ventura, si diceva, non e assoluto. Per quanto riguarda la fisica egli si colloca in pieno nella tradizione aristotelica. Ogni sostanza, anche quella non corpo­rea, e composta di materia e forma. Nell'uomo il corpo ha Ia sua forma, che non e !'anima razionale: questa a sua volta ha una sua materia che non e il corpo. Ecco perche quando il corpo muore l' anima, essendo sostanza comple­ta, sopravvive. Quel che Bonaventura non sa perdonare ad Aristotele e il suo rifiuto della dottrina delle idee, che lungo il medioevo agostiniano viene tra­sformata nella dottrina dell'esemplarismo e cioe della rassomiglianza ontologi­ca tra le cose e gli esemplari eterni contenuti nella mente di Dio. Senza questa nesso, come sarebbe possibile riconoscere nel mondo una Provvidenza che vol­ge al bene il corso delle cose? Non si cadrebbe in una visione deterministica di tipo arabo che stringe il creato dentro Ia morsa della causalita delle sfere celesti?

In Bonaventura l'esemplarismo era oltretutto il presupposto metafisico piu idoneo a rendere ragione della scelta di vita, della sequela di Francesco: Ia vi­ta non e che un viaggio verso Dio in mezzo a creature il cui unico vera valore

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e di riflettere in se gli esemplari eterni. Per Bonaventura il mondo e «COme uno specchio pieno di luci». Cercare quali siano le leggi necessarie che gover­nano dall'interno il mondo delle cose e cedere ad una vana curiosita.

I «filosofi naturali>> conoscono la natura <<solo per see non come impronta di Dio>>. Ebbene, la conoscenza della natura <<per se>> e compito della ratio irzfe­rior, della ragione inferiore, mentre la conoscenza della natura come impronta di Dio e compito della ratio superior, della ragione superiore. La ragione infe­riore produce la scienza, l'altra la sapienza. Il sapere e utile, dice Bonaventu­ra, per giungere alia sapienza che e presso Dio, <<altrimenti lo studio e perdita di tempO>>. II torto di Aristotele e d'aver fatto della scienza una forma autosuf­ficiente di sapere, legittimando, per dire cosi, la catastrofe del peccato origina­le a causa del quale l'uomo si e fatto incapace di contemplare Dio, tanto e im-

. puro l'occhio della sua mente. Solo con Ia grazia divina, che si ottiene attra­verso Ia penitenza, l 'uomo ritrova in se la sua parentela con la Trinita (la struttura psicologica dell'uomo - essere, sapere, amore - riflette in se l' esemplare eterno di Dio uno e trino) e la forza per compiere il viaggio verso il suo vero fine.

In questo viaggio, come abbiamo appena detto, il primo passo si muove nel­la fede in Dio, }'ultimo si compie quando, sorpassa to ogni confine razionale, si entra, per forza d'amore, nell'unione con Dio. Nel suo libro piu importante Bo­naventura descrive le tappe di questo viaggio, che dal punto di vista soggettivo e un cammino dalla sensazione all'estasi (con sei scansioni, correlative alle sei potenze dell'anima: senso, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza, api­ce della mente); dal punto di vista oggettivo e una ricognizione della realta se­condo la sua diversificata connessione con Dio, che nel mondo corporeo e pre­sente <<per vestigia>>, nell'uomo pensante e presente «per immagine>>, nelle real­ta metafisiche e presente «per similitudine». Non si dimentichi che gli atti del conoscere sono, a .}oro volta, interni ad una illuminazione che viene anch' essa da Dio. L'approdo nella contemplazione estatica non crea nessuno stacco nei confronti delle precedenti fasi del conoscere, nel senso che Dio e gia presente, come si e detto, in ciascuna di esse. Anzi, il senso di ogni grado del conoscere e proprio nell' at to mistico in _cui, trovandosi a faccia a faccia con Dio, vengono meno all'uomo le parole e i concetti.

Bonaventura aveva scritto il suo ltirzerario prima di ingaggiare le sue batta­glie in seno all'Universita parigina. Lo compose nel 1259, alla Verna, in un luo­go segnato dall'evento mistico delle Stigmate di Francesco. Da lassu egli vede­va la cristianita minacciata non solo dai ghibellini che rigettavano la teocrazia politica, rna anche dagli aristotelici che rigettavano la teocrazia cui turale. A Bonaventura non fu concesso il dono, che ebbe Tommaso, della percezione del­la novita dei tempi; II suo tempo era quello degli esemplari esterni al mondo, nei quali, per definizione, non giunge nessuna ombra di mutamento.

11.12 Lo sperimentalismo di Oxford. I frati francescani, arrivati in Inghil­terra nel 1228, avevano messo su uno studium anche ad Oxford, nel contesto di quell'Universita, che, anche per essere piu periferica, godeva, nei confronti di quelle del continente, di una maggiore liberta di orientamento e di contatti culturali. Nonostante la proibizione di Roma, i 'libri naturali' di Aristotele vi

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J avevano Ilbera circolazione, come pure pm diretti e piu intensi vi erano gli scambi con la cultura araba, anche perche lo studio della lingua dell'Islam vi era abbastanza coltivato. La. tradizione filosofica dominante a Oxford era di stampo platonico, rna senza quei legami con l'agostinismo monasticoche nel continente orientavano la lettura di Platone verso sbocchi di carattere misti­co-contemplativo e, in ogni caso, verso il disinteresse per le ricerche naturali­stiche. Ad Oxford, invece, piu che le arti del trivia avevano importanza queUe del quadrivio (geometria, aritmetica, musica, astronomia), che sono le arti del­la quantita ed hanna come orizzonte il mondo fisico. Platone none solo il teo­rico delle idee, e anche il teorico della struttura matematica dell'universo, che e il presupposto indipensabile per lo studio scientifico dei fenomeni.' L'eredita platonica fruttifico ad Oxford appunto nella ricerca naturalistica, contribuen­do ad imprimere all'indole stessa del pensiero inglese quella tendenza pram­matica che non verra piu meno.

Decisivo all'instaurazione di questa indirizzo fu il magistero di Roberto Grossatesta (1175-1253), un francescano morto Vescovo di Oxford, nel 1253, con addosso Ia scomunica inflittagli dal Papa Innocenzo IV, contra la cui con­dotta aveva inveito con ostinazione. Roberto fu tra l'altro un grande tradutto­re (a lui si deve la traduzione in latina dell'Etica a Nicomaco) e un organizzato­re di traduzioni. Con lui Oxford divenne una piccola Toledo. Ma la sua rilevan­za e nell'indirizzo che seppe imprimere alia filosofia della sua universita. Fu lui a compiere con coerenza il trapasso dal platonismo alia ricerca empirica. II vantaggio di questa partenza platonica, non e solo nel ruolo che l'antico mae­stro attribuiva aile matematiche, rna e anche nell'uso che Roberto fa della no­zione di forma, che in lui equivale a quella di essenza. In quanta forma del corpo, la corporeita non e, come in Aristotele, l'atto nella materia destinato a dissolversi non appena la materia si corrompe. La curporeita e la forma che il corpo deve ricevere per essere corpo e per pater ricevere a sua volta altre for­me. Nel discorso di Roberto questa accentuazione platonica della corporeita distinta dal corpo si trasforma in una straordinaria intuizione: la corporeita in se considerata, e cioe a prescindere da questa 0 quel corpo, e la luce:

Ia luce infatti si diffonde di per se in ogni parte cos! che da un punto di luce subito si genera una grande sfera, se non si oppone un corpo opaco.

L'intuizione di Roberto ha il conforto dell'autorita della Bibbia, nella quale il «fiat lux» e il prima atto del Creatore. L'universo none che un punta lumi­noso che genera da se, per dilatazione, l'infinita varieta delle case.

Sarebbe improprio anche un semplice accostamento tra Ia metafisica di Roberto e la fisica contemporanea, che identifica la materia con l'energia. Ma e corretto invece sottolineare l'estro creativo che, nei confronti -del rissoso mondo parigino, dimostra, gia nel suo iniziatore, la scolastica empirica al di la della Manica.

11.13 Ruggero Bacone. Ci vuole un po' di sforzo per collocare nella scuola francescana anche Ruggero Bacone*, tale e la sua spregiudicatezza e soprat­tutto tale e Ia sua ammirazione per il potere messo in mana all'uomo dalla

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' scienza. Nel suo genio irregolare riescono a convivere l'ideologia teodatica, sia pure rinnovata, e il rigetto piu totale delle forme tradizionali della scolasti­ca, queUe che stavano trionfando a Parigi e che a lui sembravano vuote ciarle. Forse e nel giusto chi vede anticipato nell'antico Bacone i tratti che daranno un profilo al Bacone del Seicento, Francesco, padre spirituale della scienza moderna. Piu sicuramente e nel giusto chi riconduce quei tratti agli influssi, in certa misura documentabili, della profezia di Gioacchino da Fiore . (11.1) Non si dimentichi che, secondo la cronologia gioacchinita, la 'terza eta' doveva cominciare attorno al 1260, proprio negli anni della piu fervida attivita creati­va di Ruggero, sciolto per poco dal bavaglio delle regole francescane di Bona­ventura. Gia nel proemio del suo Opus maius sono chiaramente enunciate le fi­nalita 'pratiche' della sua filosofia: la chiesa, saldamente in mano al pontefice, dopo aver integrato in se, secondo la linea teocratica, anche le funzioni civili della societa e dopo aver riformato se stessa mediante 1 'adozione delle regale del sapere che Ruggero sta per esporre, potra affrontare tutti gli infedeli, con­vincendoli, proprio in forza della evidente superiorita, della sua verita. Nessu­na distinzione tra verita rivelata e verita razionale: la verita e una sola e da prova di se con la straordinarieta dei suoi effetti sul piano pratico. Le arti del­la magia e i calcoli dell'astrologia sono presentati da Bacone come strumenti di stupefazione, come una taumaturgia di tipo moderno, dovuta cioe non ad immediati interventi celesti, rna a programmate operazioni umane. Ecco la nuova crociata capace di conquistare il mondo. Non quella delle armi, rna quella della scienza e la guerra da combattere. Vibra nel discorso di Bacone la stessa passione che animera i futuri pionieri del colonialismo illuminato. II so­gno di Bacone e, sotto involucri cristiani, il sogno dell'occidente che conquista

Nato attorno al 1214, Ruggero Bacone cresce nell'ambiente di Oxford dominato dall'insegnamento di Roberto Grossatesta. La sua formazione avviene nell'intreccio di influenze le piu diverse. Dal1230 al 1247 e a Pari­gi dove, dopo aver studiato le arti, diviene commentatore di Aristotele nel 1240. Ha contatti con i grandi maestri del momenta, come Alessandro di Hales e Alberto Magno, sui quali pero formula giudizi sprezzanti. Dopo una parentesi di soggiorno in lnghilterra (1247-1250), torna a Parigi dove nel 1257 diventa francescano. Una scelta infelice, almena per questa: le nuove costituzioni volute da Bonaventura fanno divieto ai frati di «comu­nicare» (noi diremmo di pubblicare) le loro opere ad altri. Lo salva dal for­zato silenzio l'amico Guido Fucoldi, divenuto Papa Clemente IV, che gli chiede con lettera ufficiale di inviargli quanta ha in animo di scrivere. Na­scono cosi, quasi d'impeto, /'Opus maius, l'Opus minus e l'Opus tertium Morto il Papa ne/1268, la sua vita si fa difficile: una proposizione tra quel­le condannate dal Vescovo di Parigi nel1277 (11.9) riguarda l'astrologia da lui sostenuta. Vive gli ultimi anni praticamente in stato di prigionia, ma senza interrompere la sua attivita creativa: ll Compendium studii theolo­giae e dello stesso anno della sua morte, il 1292. Ma la data e significativa­mente solo ipotetica.

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il mondo non con la bruta forza, rna con l'eccellenza inconfutabile del suo sa­pere e delle opere tecniche partorite da quel sapere. Anche quando tratta della magia Bacone lo fa per cogliere quanta nella magia prelude all'ardimento fau­stiano della scienziato: «tutto cio che e oltre il modo di operare della natura e dell'arte, o non e umano o e falso e pieno di inganni». Sono straordinarie le case che si possono realizzare «con le risorse e gli accorgimenti dell'ingegno solo»:

Si possono costruire mezzi per navigare senza rematori ... Si possono co­struire carri che si muovano senza cavalli ... Si possono ancora costruire del­le macchine per volare, fatte in modo che l'uomo segga al centro dello stru­mento manovrando un qualche congegno, per cui delle ali, costruite ad arte, battano !'aria come fanno gli uccelli volando ...

E stato detto che in Bacone c'e troppo Jules Verne. II rilievo non e comun­que una critica. Il Verne del Duecento doveva affidarsi per intero alla propria immaginazione e doveva sfidare, consapevole del rischio, Ia cultura dominante del suo tempo.

Contra questa cultura Bacone non si limito certo a scrivere qualche pagina avveniristica. Egli si sentiva diverso dagli autori delle grandi Summae, per due ragioni. La prima era la fedelta estremistica al tema agostiniano della teo­crazia e dell'unita della verita: ogni potere e in mana alia chiesa; nessuna rea­le distinzione tra verita di fede e verita di ragione. La seconda e il rifiuto dell'ideale contemplativo del sapere. 11 sapere e ordinato alia comune utilita, altrimenti esso e ozioso e come tale da combattere. Una tesi che lo ricollega, in qualche modo, all'intuizione originaria del suo ordine francescano.

Questa finalita pratica del sapere e simmetrica alia sua origine, che e l' esperienza:

noi abbiamo tre mezzi di conoscenza: l'autorita, l'esperienza e il ragiona­mento; rna l'autorita non ci fa sapienti se non ci da ragione di quanto affer­ma; e j! ragionamento per parte sua non puo distinguere il sofisma dalla di­mostrazione, salvo che le sue conclusioni non siano verificate dalle opere certificatrici dell'esperienza ... Accade tuttavia che nessuno ai nostri giorni ha cura di questa metoda, o piuttosto che questo non e praticato se non in que! che ha di basso e di indegno dello studio del sapiente. Per questo tutti, o quasi, i segreti della scienza sono ignorati dalla massa di colora che si danno al sapere.

Bacone scriveva cosi l'anno stesso della sua morte, nel suo Compendium. 11 suo tentativo di riforma del sapere era fallito. Ma lo aveva affidato al futuro, nelle sue opere. Quella riforma infatti ha due strumenti privilegiati: la filolo­gia e la matematica, per l'appunto gli strumenti che Bacone vede trascurati dal suo tempo, che ignora il greco e le lingue orientali e ignora le matemati­che, almena nella lora portata speculativa.

La filologia apre l'accesso alia conoscenza vera della Scrittura. Per Bacone la Bibbia e qualcosa di piu di un libra religioso, e il codice santo di una rivela­zione originaria che riguarda l'intero universo della scibile anche di quello dei

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filosofi. Per leggere adeguatamente la Scrittura occorre certo lo strumento della filosofia, rna occorre anche la conoscenza delle lingue (Bacone si era pro­posto di rivedere la traduzione latina della Bibbia, ormai corrotta), della mate­matica, deU'ottica e in genere di tutte le scienze.

Alla concezione della 'sapienza unitaria' delle origini si collega la dottrina baconiana della illuminazione. Sono tre le vie che Dio ha lasciato agli uomini perche le percorrano in vrsta della salvezza: l'illuminazione primitiva, data' a tutti senza distinzione di cultura o di religione; l'illuminazione interiore, che e, secondo l'insegnamento di Agostino, la condizione stessa delle nostre cono­scenze universali; l'illuminazione riservata da Dio agli antichi patriarchi e ad alcuni dotti, investiti di compiti profetici.

Anche la tesi baconiana della necessita delle matematiche per la conoscen­za del vero ha una sua base biblica: Dio, dice il testo sacro, ha creato tutto se­condo il giusto 'peso' e la giusta 'misura'. Che l'universo sia costruito secondo linee, angoli e figure appare chiaro a Bacone, che aveva accettato la grandiosa intuizione di Roberto Grossatesta: il mondo non e che l'espansione di un nu­cleo luminoso. Ebbene: l'espansione del nucleo avviene in modo geometrico. Ecco perche· la matematica e « la porta e la chiave delle scienze».

Nonostante questa intuizione destimita ad un grande futuro, la concezione baconiana dell'esperienza rimane, tutto sommato, ingenua: e l'esperienza che tutto verifica e tutto controlla, rna non ha ancora inventato il modo di verifica­re e di controllare se stessa. Proprio per questo l'altra grande intuizione scien­tifica di Bacone, che cioe la conoscenza sperimentale ha come suo sbocco !'in­dustria manuum, !'industria delle mani, rimase senza reali sviluppi.

A suo modo questo francescano irregolare aveva dato adempimento a quan­to il santo di Assisi stabill nella regola e ribadl. nel Testamento: <<io lavoravo con le mie mani, come voglio lavorare e come voglio fermamente che lavorino gli altri frati. .. e quelli che non sanno, imparino». Solo che per Francesco il la­voro era anche un modo di vivere in solidarieta con i minores, con la gente umile e povera. In Bacone, «!'industria delle mani» e gia interna ad un proget­to di potenza che la trasformera in una nuova forma di dominio dell'uomo sull'uomo. La tecnica e in Bacone il vero modo per trasformare l'intelletto spe­culativo in intelletto pratico. In parole piu chiare, formulate dall'altro Bacone, quello del Seicento, e il modo per trasformare il sapere in potere.

L'Islam nel XIII secolo

11.14 II declino culturale dell' Islam. Con la morte di Averroe ( 1198) «qual­co sa e finito, scrive uno specialista di primo piano, Henri Corbin, qualcosa che non poteva piu vivere !'Islam, rna che doveva orientare il pensiero eurO. peo>>. Questo trapianto islamico in terra europea fu il cosiddetto averroismo Iatino. In occidente l'averroismo significo, come gia si e detto e come diremo piu diffusamente nel prossimo capitolo (12.1), la laicizzazione della metafisica

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e, con la metafisica, dell'etica e d~lla politica, una laicizzazione che d'altronde anche la Scolastica ortodossa, come quella di Tommaso d' Aquino, aveva a suo modo, e cioe per via di sottilissimi equilibri, realizzato. L'istanza laica di Aver­roe rimase nell'Islam senza sviluppi. «Il futuro del pensiero islamico e ben simboleggiato, scrive ancora il Corbin, dall'episodio di Ibn 'Arabi che osserva il giumento su cui era caricato il feretro di Averroe bilanciaro da un sacco di libri» (10.13). L'immagine-simbolo traduce per contrasto il senso della vita spe­culativa e scientifica dell'oriente islamico tradizionale: <<una scienza divina che trionfa sulla morte».

Chiusa !'eta dei falasifa, il pensiero islamico si riassesta sulle proprie fonda­menta coraniche e si svolge secondo i modi stabiliti da Avicenna, non dall'Avi­cenna lettore di Aristotele, rna dall'autore della Filosofia orientale che fa dell'Oriente Ia patria degli Spiriti (10.11). ·

Questa chiusura dell'Islam su se stesso si spiega anche con le vicende che in questi secoli esso sta vivendo dal punto di vista sociale e politico. La pr~ gressiva perdita dell'unita politica, sostituita appena dal senso di appartenen­za all'Umma, che, come si e visto (9.10), non coincide con una entita geografi­camente o istituzionalmente determinabile, modifica Ia mappa dei centri pr~ pulsori di cultura. A causa di un processo che ha inizio proprio nei secoli che stiamo studiando, le 'capitali' del sapere si spostano. Ecco perche, nelle ep~ che che corrispondono al nostro Rinascimento e ai secoli di formazione degli stati nazionali europei, non saranno pili i paesi che si affacciano al Mediterra· neo a fornire i punti aggreganti dell'intellettualita musulmana. L'unica ecce­zione sara naturalmente Istanbul, in quanto capitale dell'impero ottomano. Ma anch'essa non svolgera affatto il ruolo di Damasco nel primo secolo di conqui­sta arab~islamica, o del Cairo all'epoca dei Fatimidi o delle citta di Spagna nell' Alto Medio Evo. Saranno invece !'Iran e !'India a costituire i punti pili ne­vralgici in senso culturale, mentre sara piuttosto !'Africa (o !'Europa orientale) a rappresentare la continuita dell'espansione islamica in senso religi~ s~ politico.

In corrispondenza di questo spostamento dell'asse culturale islamico dall'occidente all'oriente, dal Mediterraneo all'Iran e all'India, viene meno la feconda osmosi tra Islam e cristianita. II flusso di produzione proveniente dal mondo musulmano verso occidente si va affievolendo; !'interesse peri prodotti dei paesi islamici diminuisce in quanto vanno mutando le domande della s~ cieta europea; la reciprocita di scambio, gia cosl problematica nel medioevo, sta diventando inesistente, con Ia conseguenza che l'occidente puo formarsi dell'Islam una immagine a suo uso e consumo, l'immagine di un mondo chiuso in se stesso, arroccato nella difesa di tradizioni assurde. Da parte sua invece il mondo musulmano ha continuato a creare, nei modi idonei alia propria indole, senza dar peso al giudizio dell'occidente. Insomma niente di pili fuorviante per la comprensione dell'Islam che l'adozione di un punto di vista univoco nel cui raggio stabilire comparazioni e giudizi di valore. Per chiarire il concetto pos­siamo servirci di un esempio 'storico'. II fenomeno delle crociate, che ha cosi segnato la storia dell'Europa ed ha determinato Ia fissazione di una serie di schemi di analisi nei confronti di una realta 'altra' rispetto alia nostra, e stato vissuto in islam come 'trauma' solo localmente, cioe nelle regioni direttamente

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coinvolte nel fenomeno; rna non e diventato ne paradigmatico di una volonta occidentale prevaricatrice, ne strumento per una verifica dei propri valori me­diante il confronto con quelli occidentali, ne mezzo per una crisi di coscienza. Questa 'asimmetria' di autocoscienza storica ha perfetto riscontro nel settore specifico della storia del pensiero. Sembrerebbe di importanza decisiva in que­sta settore l'originalita di un pensatore, Ia novita di una dottrina. Senza tra­passi qualitativi non si da storia, rna immobilita. Invece nell'Islam, almeno fi­no a tempi vicini a noi, l'importanza di un'opera o di una scoperta non e nel suo essere 'nuova', e nel suo collocarsi in una linea ideale che ha ad un suo estremo il Corano, o un qualche elemento religioso che al Corano si collega, e all'altro estremo l'applicazione di quanto il libro contiene o la scoperta per­mette. I due estremi sono collegati da una serie, possibilmente ininterrotta, di 'autorita' che fanno fede del fatto che da un lato le implicazioni religiose sono state soddisfatte e che dall'altro si e di fronte ad uno sviluppo di cio che era gia in nuce nel Corano, sviluppo che, grazie all'imitazione delle 'autorita', vie­ne anch'esso mantenuto, dal punto di vista del metodo, coerente con il princi­pia religioso.

Questo atteggiamento che i musulmani hanno variamente teorizzato ha in larga misura condizionato il giudizio occidentale sulla loro produzione sia scientifica che filosofica. Il caso della valutazione dell'apporto islamico al ba­gaglio filosofico e scientifico greco e, a questo proposito, l'esempio pili tipico; considerandosi trasmettitori, non innovatori del pensiero greco, i musulmani avrebbero ridotto la loro funzione a un transfert quasi solo meccanico di con­cezioni e di idee, cui nulla avrebbero apportato di originale. Condizionati co­me siamo da questo giudizio, per noi la storia del pensiero musulmano in ge­nere si arresta al Medio Evo, e, nell'ipotesi pili aperta, ricomincia nel momen­ta in cui 1 'Islam entra in contatto con 1 'occidente sul proprio terreno, quando cioe prende il via l'avventura coloniale europea in terra d'Islam. None casuale quindi che la data della rinascita islamica sia emblematicamente, come vedre­mo a suo tempo, quella della spedizione napoleonica in Egi tto ( 1798).

11.15 La scienza e il diritto. I settori in cui, fedele al proprio punto di vista, !'Islam si e mantenuto vitale anche dopo i suoi secoli d'oro, sono quelli nei quali l'aspetto applicativo e pragmatico ha la meglio sulla elaborazione teori­ca: la scienza e il diri tto.

Le scienze rimangono in attivo, anche se non ci sono scoperte sensazionali in senso modemo. Il prototipo dello scienziato islamico e al Biruni (973-1030) le cui opere di storia, di cronologia, di religione comparata, di matematica e di

Tav. 11 - I 'falasifa' Quella che noi siamo soliti chiamare 'filosofia ara­ba' e sol~anto un capitola della storia del pensiero islamico e precisamente que! capztolo che comprende una serie di filosofi, da al-Kindi ad Averroe, che ~anna_ pasta alla base della lora riflessione le opere dei due grandi fi­losofz greet, Platone e Aristotele. Per questa vengono chiamati falasifa Ma il pe~siero islamico non si esaurisce con la lora parabola, durata quattro secolz. -

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astronomia ebbero larga circolazione anche in occidente. Dopo essere stato al seguito di Mahmud nella conquista dell'India. eg:li scrisse sul 'nuovo mondo' un li bro che non ebbe I 'uguale nel Medioevo. In esso insieme a non poche in­tuizioni in fatto di scienza naturale, Biruni raccoglie il massimo di conoscenze possibili sull'India, creando cosi un modello di studio unitario su di un paese e su di una civilta osservati non da estraneo, rna con vera simpatia. Tra la sag­gezza indiana, la tradizione pitagorico-platonica e la mistica dei sufi musulma­ni c'e, per Biruni, una piena armonia. Non meno importanti sono i suoi tratta­ti di matematica, astronomia, astrologia, disciplina questa in cui egli, come Avicenna in medicina, resto un maestro fino al nostro Rinascimento. L'esem­pio di Biruni fece scuola per i secoli successivi, nel sensa che rese predomi­nante il modello di un sapere unitario in cui teologia, filosofia e scienza sono tra !oro complementari, anzi l'una condiziona l'altra.

Basti ricordare Nafis (t 1288), che nel suo commento alle opere mediche di Avicenna offri una descrizione della circolazione minore del sangue che antici­pava di qualche secolo un'analog:a descrizione fatta da Serveto nel XVI sec. Questa interrelazione tra ricerca teorica e applicazione pratica e ancora piu vistosa nel campo delle scienze matematiche.

Non meno fecondo, e, nella cultura islamica del tempo, il settore giuridico. Quando si considera in modo sbrigativo il mondo musulmano come legalista non si pone mente che, in una realta socioreligiosa retta dall'unita della fede, e Ia legge che permette il passaggio dall'unita alla molteplicita e viceversa e la Iegge che concilia in se cia che su altri piani e diverso e antitetico. II diritto e, nella storia musulmana, un campo di inesausta sperimentazione pratica e teo­rica che ha permesso all'Islam di superare il tendenziale immobilismo per adattarsi ai contesti piu diversi sulla linea del tempo e su quella dello spazio. La storia e li a dimostrarlo. II mondo musulmano rimane antico nella sua aspi­razione all'unita, rna ha subito contestazioni interne e ha registrato scontri esterni reagendo aile une e agli altri con sapienti adattamenti. II che indica forse che il passaggio da 'antico' a 'moderno' nel mondo islamico sarebbe av­venuto in tempi diversi dai nostri e in forme a noi estranee, rna sarebbe avve­nuto, anche senza l'intervento violento dell'Europa nella sua dimensione colo­niale.

II canale piu importante per operare trasformazioni, aggiornare metodi e concezioni, inserire nel proprio bagaglio ideale concetti nuovi e appunto il di­ritto. I musulmani sono soliti teorizzare che la perfezione sta nell'imitazione di una autorita indiscussa, fissata una volta per tutte in un determinato mo­menta storico e in particolari meccanismi giuridici. Ma la !oro prassi ha segui­to vie contrarie.

Sono proprio i secoli che vanno dal XII-XIII al XIX quelli in cui comincia a svolgersi in modo creativo Ia potenzialita di rinnovamento insita nel sistema giuridico islamico: dal califfato si passa agli Stati, che non hanna dimensione 'nazionale' come da noi, rna che si ritagliano in forme sovra-nazionali e che ri­solvono i problemi della dinamica sociale in modi fortemente innovativi rispet­to al modello rappresentato dall'epoca del Profeta e dei primi califfi. E un pro­cesso che avra le sue punte piu esplicite ed interessanti proprio nell'impero ot­tomano. A tali innovazioni 'giuridiche' corrisponde, evidentemente, una para!-

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lela revisione dei concetti che hanna uno spessore filosofico, come Stato, etnia, popolo, persona, ecc. Tale revisione richiede innanzitutto la rilettura del data teologico e la definizione teologica del concetto e delle sue implicazioni per ar­rivare poi ad una formulazion~ filosofica di carattere generale da cui puo na­scere quell'adeguamento operativo giuridico che incide sul reale attraverso la continuWt - e non la rottura - con la tradizione. E infatti un teologo, Ibn Taymiyya (t 1328) che apporta unavera rivoluzione nei concetti del potere e della Stato che il potere dovrebbe rappresentare. Negando la validita di una accumulazione quantitativa di n.ozioni sui data della Rivelazione, egli ritoma alle fonti e cosi facendo formula il ruolo della Stato in termini socialmente avanzati: se non c'e opposizione, bensi integrazione, tra religione e Stato, allo Stato tocca realizzare gli obiettivi religiosi, tra cui la giustizia sociale e il be­nessere dei sudditi, funzioni queste ben _piu intrinseche, secondo Ibn Tay­miyya, alla concezione islamica della Stato di quanta non lo sia la teoria del califfato unitario. E infatti a Ibn Taymiyya che si rifanno tutti i teorici politici musulmani contemporanei, di qualunque tendenza politica o setta islamica.

11.16 II monismo mistico di Ibn' Arabi. I1 pieno ritorno dell'Islam a se stes­so, una volta conclusa la parabola dei falasifa, e rappresentato da Ibn 'Arabi*, la cui autorWt fu straordinaria durante la sua vitae tale restera anche dopa la sua morte, affidata alla risonanza di numerose opere, tra le quali di particola­re ricchezza il Libra delle teofanie divine e il Libra delle gemme della sapienza.

La prima delle due opere e in forma di dialogo. Interlocutori sono i grandi pensatori dell'oriente che hanna preceduto Ibn 'Arabi. Al centro c'e l'idea dell'unita dell'Essere, che fa da cerniera tra la riflessione di fede, al cui culmi­ne c'e il Dio della rivelazione, e la riflessione filosofica, al cui culmine c'e l'Es­sere. II monismo teologale e quello ontologico sono l'uno necessaria all'altro. Ma se cosi e, se cioe l'unita del Principia assoluto non ammette nessuna om­bra di dualismo, che posto hanna gli esseri che sono altri da Dio? Gli esseri al

Ibn 'Arabi nasce a Murcia nell165 da una famiglia di giureconsulti, e si sposta giovanissimo con i suoi a Siviglia, divenuta, sotto gli Almohadi, un centro di vita intellettuale e spirituale. Gia avviato ad un brillante avveni­re di studioso e di alto funzionario, a venti anni egli abbandona tutto per seguire Ia 'via' della perfezione, alia scuola dei maestri piu famosi. Prima della 'conversione' aveva avuto contatti anche con Averroe, amico di fami­glia, ma Ia vid di Averroe non era la sua, non era quella che Allah gli ave­va rivelato e che egli intendeva percorrere utilizzando i vivi testimoni del­la iradizione coranica. Come avverra venti anni dopa a Francesco di Assi­si, la scelta di Ibn 'Arabi provoc~ sia in Andalusia che in Africa del Nord aspre reazioni da parte di un ambiente culturale dominato dal legalismo e dal ritualismo. Ibn 'Arabi decide ne/1202 di recarsi in Media Oriente, dan­do inizio cosi ad una peregrinazione che avril termine solo quando, nel 1224, fissera per sempre Ia sua dimora a Damasco dove morira nel 1241.

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di fuori di Dio sono i 'luoghi' in cui Egli si manifesta, sono gli 'specchi epifani­ci' della divinita. Si evita cosi il panteismo, nel sen so che le case in tanto sono esistenti in quanta fondate sull'Atto che le porta all'esistenza. Questa Atto e inerente al ritmo epifanico- al 'sospiro di Dio', dice Ibn 'Arabi- e quindi non va confuso con la natura propria di ciascuna cosa, che invece e dotata di una sua distinzione e di una sua autonomia. La creazione none mai compiuta: il 'sospiro di Dio' non viene mai meno, anche se si alterna alla divina inspira­zione; ritirandosi il respiro di Dio, le case rientrano nel nulla. Pur non avendo un'alterita ontologica in rapporto a Dio, i mondi a lui esterni, dalla materia inorganica all'Intelletto supremo, sono come il teatro in cui l'Ineffabile creato­re svolge i suoi mirabili giuochi, sono come le variazioni d' om bra nel quadro di un artista. Conoscere Dio vuol dire comprendere queste epifanie, risalendo dall'una all'altra verso l'Essere assohitamente incondizionato e percio non no­minabile: un itinerario che rassomiglia a quello descritto, mezzo secolo dopa, da san Bonaventura (11.11). Esso e riservato agli iniziati. Chi non ha l'iniziazio­ne deve attenersi alla legge di Mat>metto. Solo 1 'iniziato sa che tutte le religio­ni hanna il lora sensa unico nell'amore di Dio e dunque sboccano in un'unica vera religione.

Nell'altra delle due opere ricordate, il Libra delle gemme della sapienza, il progetto ardito di Ibn 'Arabi e di ricondurre l'insegnamento dei profeti biblici citati nel Carano nel confine del monismo ontologico. Questa trasposizione dal profetico al filosofico e talmente radicale che i personaggi biblici sembrano di­ventare soltanto cifre simboliche di concetti metafisici. Solo che, per il nesso tra ontologia e principia teologale, la sapienza metafisica non e altra cosa dal­la sapienza comunicata dal Logos, principia del sapere, rna anche principia di profezia e di santita.

Non fa stu pore che Ibn 'Arabi, il piu grande pensatore della tradizione del sufismo, abbia suscitato appassionati entusiasmi e violenti scandali fin nel suo tempo. C'e in lui un respiro universale, vorremo dire ecumenico, che supera di gran lunga gli schemi culturali sia dell'Islam che della cristianita del medioevo.

II pensiero indiano attorno al sec. XIII

11.17 Le scuole shivaite. Fu negli ultimi secoli del prima millennia della no­stra era che le sette shivaite si organizzarono in vere e proprie scuole filosofi­che destinate a larga diffusione durante i secoli successivi e ad una notevole influenza nella spiritualita dell'India moderna. Ci limitiamo a ricordarne alcu­ne e precisamente quelle nelle quali la combinazione tra devozione religiosa e riflessione filosofica ha data, a nostro giudizio, risultati piu originali.

1. La piu antica si fa risalire ad un mitico Lakulin che sarebbe vissuto nell'India settentrionale agli inizi dell' era cristiana. Essa viene denominata pa­shupata ed ha come testi sacri un insieme di opere che vanno da queUe di La-

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kulin a quelle di Madhva, del sec. XIII. Al centro della dottrina pashupata, che attinge largamente al razionalismo delle scuole nyaya-Vaisesika (9.14), c'e la netta distinzione fra Dio da una parte e il mondo fenomenico dall'altra. Shiva diviene cosi il supremo reggitore del cosmo, anzi la causa efficiente di esso, rna non la sua causa materiale. Manella setta, a dispetto del razionalismo filo­sofico, hanno sempre avuto molta voga comportamenti stravaganti (come ghi­gnare, danzare, dir cose senza senso) per meglio accentuare il distacco dalla vita mondana.

2. Lo shivaismo del Kashmir, noto anche come dottrina del 'riconoscimento in Shiva', sorse come organico sistema filosofico intorno al IX sec. d.C., per opera di Vasugupta - autore degli Shivasutra - al quale viene attribuito 11 merito di aver trasformato la metafisica dualistica, predominante allora tra gli shivaiti, in un monismo di grande raffinatezza filosofica che trovo validi prosecutori in alcuni maestri come Somananda (IX sec.), Vtpaladeva (X sec.) e Abhinavagupta (XI sec.). Lo sviluppo dello shivaismo kashmiro si arresta dopo il sec. XIII anche a causa dell'invasione islamica.

A differenza del vedanta shankariano- secondo cui l'unica realta compete all' Assoluto impersonale ed indifferenziato (Brahman), mentre il mondo della molteplicita none che vana apparenza- lo shivaismo del Kashmir considera reale anche il mondo fenomenico in quanta oggettivazione del pensiero divino. In altri termini, tutta la realta e Shiva, il quale si manifesta contemporanea­mente sia come sommo principia trascendente e assoluto, sia come multifor­me varieta di esseri materiali e spirituali. Se egli riposasse sempre in se stesso come unita indifferenziata, la sua liberta creatrice sarebbe limitata. L'oggetti­vazione del suo pensiero nel mondo fenomenico esprime appunto la inconteni­bile e dinamica forza creatrice (shakti) attraverso cui Dio manifesta la propria infini ta pienezza.

Nello slancio della sua imperscrutabile ed illimitata liberta, non c'e nulla che Shiva non possa essere o fare: egli arriva perfino ad oscurare la propria coscienza infinita, a dimenticare e perdere se stesso tramite il potere della sua forza magica (maya), alienandosi in molteplici esseri individuali per poi ritro­varsi di nuovo integra e puro nella propria d.ivina completezza, per scoprire anzi che quest'ultima non era mai venuta meno.

Partendo da tali premesse metafisiche, la soteriologia dello shivaismo ka­shmiro s'incentra sull'atto di riconoscimento attraverso cui ogni singolo indi­viduo deve prendere coscienza di essere in realta Shiva. Le anime si sentono li­mitate e prigioniere finche non riconoscono in se la luce di Shiva, che si e vo­lontariamente oscurata in un singolo essere per esprimere la propria infinita liberta e per ritrovarsi di nuovo ancor piu splendente. Il riconoscimento dell'identita fra se e Shiva elimina l'ignoranza che lega alla ruota del Karma e abolisce i limiti individuali, portando illiberato ad una completa identificazio­ne con Shiva in tutta la sua pienezza, manifesta e immanifesta.

3. Lo shaiva-siddhanta nacque probabilmente nello stesso periodo dello shi­vaismo kashmiro. Questa scudla- il cui momenta aureo fu nella meta del sec. XIII - e tuttora fiorente in India, e comprende una letteratura molto vasta: fra i suoi maggiori esponenti menzioniamo Meykanda (XIII sec.), Arulnandi e Vmapati (XIV sec.).

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Elaborando filosoficamente la concezione pashupata, lo shaiva-siddhanta distingue tre realta separate, coesistenti ab eterno e interconnesse tra loro: il «Signore» (pati), cioe Dio; gli «animali» (pashu), cioe le anime individuali, com­prese nella categoria di cia che e cosciente (cit); il « legame» (pasha), ossia il mondo materiale privo di coscienza (acit).

Shiva lega le anime con le catene dell'individuazione (anava-mala), del kar­ma (karma-mala) e del mondo materiale (maya-mala). La sua energia dinamica (shakti) agisce sulla materia della maya in modo tale che, attraverso una serie di progressive limitazioni, le anime - pur avendo una natura diversa da quel­la della maya - vengono imprigionate nei confini spazio-temporali di un de­terminato individuo. Dio, dunque, sebbene distinto dalle altre due realta (cit e acit, ossia anime coscienti e materia incosciente) le pervade e le dirige secondo i suoi poteri (shakti) di volonta, conoscenza e azione.

Nella concezione del sistema shaiva-siddhanta, l'onnipotenza divina e parti­colarmente accentuata: non sorprende quindi che, come la prigionia delle ani­me e opera dell'attivita di Shiva, cosi anche la loro liberazione avvenga per grazia divina. Le anime liberate, pero, non si fondono con Shiva: possiedono una natura diversa da Lui, mantengono la propria individualita in uno stato di paradisiaca contemplazione della magnificenza divina.

4. La scuola dei vira-shaiva - chiamata anche linf!,ayat poiche essi venerano la potenza creatrice di Shiva sotto la forma simbolica di un fallo (linga)- fu fan­data da Basava nel XII sec. ed ebbe fra i suoi piu autorevoli esponenti Revana­rya (XIV sec.), Mahalingadeva (XV sec.) e Shripati (XVI sec.).

L'impostazione filosofica di questa setta e un 'monismo differenziato' (vi~ sheshadvaita) che vede in Shiva l'unica e suprema realta, capace di generare la molteplicita del mondo fenomenico e delle anime in virtu della propria intrin­seca forma creatrice (shakti). E Shiva stesso che - grazie all'azione della shak­ti - aliena da se parte della propria sostanza divina, scindendosi da un lato in un Signore dei Mondi (lingasthala) e dall'altro in una molteplicita di anime in­dividuali (angasthala), separate da Lui e invischiate nel mondo della materia. Esse pero possono coltivare la bhakti (abbandono devozionale a Dio) unico mezzo per superare la scissione originaria e ritornare a Shiva.

Shakti e bhakti sono due facce della .stessa medaglia: la prima e l'azione creatrice (pravitti) attraverso cui Dio si proietta nella molteplicita del mondo fenomenico; la seconda e la non-azione (nivritti) attraverso cui la particella di­vina imprigionata in un individuo (ossia l'anima) recide i vincoli del proprio coinvolgimento mondano e ritorna al Signore.

Nonostante la consustanzialita fra Shiva e le anime, queste ultime, una vol­ta liberate, non si dissolvono completamente inDio, rna mantengono una trac­cia di individualita che permette loro un eterno scambio personale di amore beatifico con Shiva.

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II pensiero cinese attorno al sec. XIII

11.18 II neoconfucianesimo: le due scuole di Ch'eng Hao e di Ch'eng Yi. Svilup­pando le speculazioni cosmologiche di Shao Yung e di Chang Tsai (10.18) il neo­confucianesimo giunge a prima maturazione filosofica con due diverse scuole, la Scuola della Spirito Universale e la Scuola dei Principi Universali, fondate (e questa e davvero una curiosita cinese) da due fratelli, Ch'eng Hao e Ch'eng Yi, vissuti nel sec. XL La prima scuola fu iniziata da Ch'eng Hao (1032-1085), svi­luppata da Lu-Chiu-yuan ( 1139-1193) e portata a massimo compimento da Wang Shou-jen (1473-1529). L'altra ebbe inizio con Ch'eng Yi, rna fu Chu Hsi (1130-1200) a conferirle la piena maturita filosofica. Di lui, che restera il mae­stro per eccellenza della Cina 'moderna, parleremo nel prossimo capitola ( 12.20-23).

I fratelli Ch'eng Hao e Ch'eng Yi, come si e detto, prendono entrambi, le masse dai precedenti cosmologi confuciani e in particolare da Chang Tsai, se­condo il quale esiste una sostanza-energia (ch'i) che pervade'"'"futte le cose, rego­landone nascita e morte secondo i ritmi alterni ed eterni di condensazione/ra­refazione (yin/yang). II ch'i e «identico al respiro umano, e nasce incessante­mente da se stesso per propria spontaneita ( ... ) Gli uomini sono immersi nel ch'i come pesci nell'acqua». Grazie alia teoria di condensazione/rarefazione del ch'i, Chang Tsai aveva spiegato la nascita e la sparizione delle cose, rna non la molteplice varieta delle loro forme: perche un fiore l).asce fiore e, come tale, diverso da una foglia o da un sasso?

·Per risolvere questa problema, Ch'eng Yi e Ch'eng Hao si rifanno alle spe­culazioni delle Appendici al Libra delle Mutazioni, dove si menziona l'esistenza di molteplici tao, da intendersi qui come tutti i diversi principi formali univer­sali che, alia maniera delle idee platoniche presiedono alle singole categorie delle cose esistenti, come i li dei neoconfuciani.

Secondo Ch'eng Yi- che si occupo diffusamente di questa problema- le cose esistenti si differenziano in varie categorie in virtu del fatto che la sostanza-energia cosmica (ch'i) si condensa di volta in volta secondo l'impronta di diversi principi universali (li); una foglia, per esempio, e foglia e non altro perche in essa il ch'i differenziato si condensa in conformita con lo specifico li della categoria 'foglia'. A questa punta sorge un interrogative: i li sono Princi­pi Universali oggettivamente reali, che trascendono le singole manifestazioni empiriche, oppure appartengono aile soggettive attivita categorizzanti di uno Spirito che si rappresenta all'interno di se medesimo tutta la realta fenomeni- · ca? Su questa dilemma (che riecheggia analoghe controversie vissute proprio in quegli anni nelle universita cristiane attorno al problema degli universali, 10.5) si confronteranno le due opposte scuole neo-confuciane, la prima con tendenze realistiche, la seconda con tendenze idealistiche.

Secondo l'idealismo di Cheng Hao- da cui prende le masse la Scuola del­la Spirito Universale - i li sono categorie della Spirito Universale attraverso cui esso si rappresenta la realm del mondo fenomenico, la quale dunque si ri­solve totalmente in essi. II Tao (inteso qui come insieme di tutti i li) e imma­nente al ch'i e indissolubilmente legato ad esso nella indivisibile totalita della

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Spirito Universale (hsin). Principi formali e sostanza materiale non sono che due aspetti dello Spirito uno e indiviso.

Invece secondo Ch'eng Yi- che fondo la Scuola dei Principi Universali- i li, pur dando forma alla omogenea sostanza-energia (ch'i), possiedono, al di la di essa, un'esistenza autonoma in seno al Tao trascendente ricalcando dunque una distinzione simile a quella tracciata dalla filosofia ellenistica fra nous (o logos) e physis (o yle). ·

Riassumendo quanto si e detto finora, ogni cosa esiste per il condensarsi della sostanza-energia cosmica (ch'i) in conformita con determinati principi formali trascendenti e universali (li) i cui antecedenti sono da ravvisare nei va­ri tao delle Appendici all'/ King. Da queste ultime Ch 'eng Yi riprende anche la distinzione fra «cio che e entro le forme» (cioe il ch'i e gli oggetti da esso formati) e «cio che al di la delle forme» (ossia il mondo ideale dei li immateria- · li). Ogni cosa esistente deriva dunque dall'interazione fra principi universali (li) e sostanza materiale (ch'i). I li sono eterni, completi e sempre uguali a se stessi, non aumentano ne diminuiscono, indipendentemente dal fatto che nell'universo materiale - soggetto alle leggi del tempo - possono esistere o meno concrete manifestazioni fenomeniche dei vari principi universali. Il loro mondo e «vuoto, senza nulla in esso, e nello stesso tempo pieno di tutto».

La coscienza della fondamentale unita che abbraccia ogni essere favorisce nell'uomo lo sviluppo dell'amore universale (jen), che per Ch'eng Hao costitui­sce il fine ultimo degli uomini e si identifica con la vita (sheng). Quando, al contrario, la coscienza della fondamentale unita di tutte le cose si offusca e si contrae nella percezione egoica di un 'io' singolo, individuale e separato da tutto il resto, lo fen diminuisce e scompare, insie111e con tutta la vita psicofisi­ca: la mortalita e dunque frutto dell'incapsulamento in una falsa concezione egoica.

In altri termini l'uomo si trova di fronte a un bivio: o resta imprigionato nell'ottica frammentata del proprio 'io' individuale, limitato e separato dal re­sto del mondo- e quindi soggetto alla morte- oppure espande la coscienza oltre gli angusti confini del proprio 'io', nella immortale consapevolezza di es­sere uno con il Tutto e da esso inseparabile. In questa direzione conduce lo sviluppo dell'amore universale (jen). Coltivando lo jen, si distrugge l'illusione di un 'io' individuale, trascendendone i limiti attraverso la comunione con la «grande virtu del Cielo e della Terra, consistente nel dare e mantenere vita».

Scrive Ch' eng Hao:

Lo jen e cio che ci unifica al Cielo e alia Terra {. .. ) Chi possiede jen e, senza differenza alcuna, uno con tutte le cose.

Rettitudine (yi), correttezza (li), saggezza (chih) e buona fede (hsin) sono tutte jen. Giungere a comprendere questa verit:a e svilupparla con sincerita (ch'eng) e attenzione (ching): questo e tutto ( ... ) Mencio diceva che tutte le co­se sono complete dentro di noi. Dobbiamo riflettere e comprendere che le cose stanno realmente cosi, questa comprensione e fonte di immensa gioia.

Secondo Ch'eng Hao, dunque, da un punto di vista metafisico tutte le cose sono un'unita, e l'amore universale o la compassione di cui parla Mencio non fanno che esprimere la coscienza di questa unita. Quando tale consapevolezza

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si offusca per l'insorgere di desideri egoistici individuali, l'uomo si trova in un mondo frammentato e sofferente. Deve allora ricordare che tutte le cose sono interconnesse: una volta compresa l'unita inscindibile fra se e il Tutto, deve te­nere costantemente viva la coscienza di questa unita, agendo con sincerita (ch'eng) e attenzione (ching). Non bisogna dunque sforzarsi di raggiungere l'unita: essa e sempre presente, anche se offuscata dall'ignoranza dell'ego, che non puo scorgerla. Basta semplicemente rimuovere il velo che ci preclude la coscienza della vera realta. Da ·questo punto di vista, la regola aurea della con­dotta umana secondo Ch'eng Hao e ching, che assomma in se il significato di 'attenzione', 'consapevolezza' e 'fervore': tale virtu, fulcra di ogni crescita spi­rituale, consiste nel mantenere ininterrottamente un'acuta e vigile coscienza di tutto cio che accade, senza la minima distrazione (e come tale si riallaccia aile pratiche buddhiste del satipatthana e del ch'an). Attraverso la costante coltivazione di ching, ogni aspetto della realta viene inglobato in un unico flus­so di consapevolezza che - esteso fino ai suoi limiti estremi - risveglia l'in­tuizione dell'unita di tutte le cose, fino alla fusione dell'individuo con il Tao, l'armonia indivisa del Tutto.

Scondo la visione idealistica di Ch'eng Hao, dunque, grazie allo sviluppo dell'attenzione cosciente l'individuo giunge ad identificarsi con l'unita dello Spirito Universale che comprende e trascende al tempo stesso ogni essere, ogni opposizione fra materia concreta e forma astratta, fra ch'i e Tao. La per­fezione spirituale deriva da una presa di coscienza, non dallo sforzo verso un'azione esterna.

Una volta raggiunta la stabile identificazione con il Tutto, il saggio provera ancora emozioni umane, rna esse saranno adeguate aile situazioni oggettive, come qualsiasi altro evento naturale, non piu nutrite da proiezioni mentali soggettive:

Le emozioni del saggio secondano !a natura delle cose; egli non ha em~ zioni personali. Ne consegue che nulla e meglio, per l'uomo superiore, dell'essere impersonale e del rispondere aile cose, cosi come esse vengono, con !a massima spontaneita ( ... )

Quando un saggio e soddisfatto, e Ia presenza dell'oggetto che realmente gli fa piacere. Quando il saggio e adirato, e proprio perche gli sta di fronte l'oggetto della sua ira. Quindi Ia gioia o ]'ira del saggio non dipendono dalla sua mente, rna dalle case.

In altri termini, il saggio vive totalmente nel presente: la sua mente non trattiene residui d'ira e di gioia quando la situazione esterna e mutata e percio il suo stato e di suprema leggerezza, equanimita e pace. Le emozioni vengono ac­colte e lasciate andare come la pioggia, il sole, le stagioni o qualsiasi altro evento della natura, senza mai intaccare lo sforzo immutabile di pura consape­volezza libera e infinita. Anche per Ch'eng Yi il fulcra della crescita spirituale consiste nell'attenzione cosciente (ching), rna l'iter spirituale dell'uomo differi­sce da quello descritto da Ch'eng Hao, in conformita con le diverse premesse metafisiche del suo sistema. Scrive Ch'eng Yi:

Nell'educarsi abbiamo bisogno di attenzione (ching); col procedere della conoscenza, abbiamo bisogno di una maggiore estensione della stessa.

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E appunto su come viene intesa tale 'espansione' che divergono le concezio­m delle due scuole neo-confuciane.

Secondo l'idealismo di Ch'eng Hao, lo sviluppo di ching porta ad una esten­sione della consapevolezza umana fino alia totale identificazione con la co­scienza cosmica indifferenziata dello Spirito Universale, che abbraccia e tra­scende al tempo stesso ogni essere particolare ed individuato.

Per Ch'eng Yi, invece, estendere la coscienza significa elevare la mente umana dalla consapevolezza del piano fenomenico a quella degli astratti prin­cipi universali (li) che ne determinano le- molteplici forme:

L'attenzione cosciente (ching) serve per rettificare quanto e entro noi stessi. Da questa disciplina interiore deriva uno stato di vacuita (haii), per cui la mente risulta priva di ogni pensiero non adeguato alla realta delle co­se (li) ( ... ) Rendere i propri pensieri sinceri dipende dall'estensione della co­noscenza (chih chih) e l'estensione della conoscenza dall'investigazione delle cose (ko wu) ( ... ) Ogni cosa ha·il proprio principia (li) che deve essere studia­to esaurientemente.

Mentre per Ch'eng Hao la mente 'rettificata' tramite l'estensione della co­noscenza e l'investigazione della realta si identifica con una consapevolezza universale ed indifferenziata, capace di abbracciare ogni forma particolare, per Ch'eng Yi essa si fonda sulla distinta coscienza dei principi universali {lt) che informano la realta, a somiglianza delle idee platoniche. Investigare una qualsiasi cosa particolare porta dunque per Ch'eng Hao a trascenderla nella coscienza indifferenziata dell'Unita del Tutto, per Ch'eng Yi a discernere il corrispondente principio universale e poi ad intuire tutti gli altri li contenuti nella mente.

La mente di ogni singolo individuo e lo spirito del Cielo e della Terra; il principia di ogni singola cosa e il Principio di tutte le cose.

Nonostante le divergenze metafisiche e metodologiche, dal punto di vista etico-esistenziale l'ideale umano di Ch'eng Yi non e molto dissimile da quello del fratello Ch'eng Hao:

In uno specchio lurninoso un bell'oggetto produce una bella immagine mentre un oggetto brutto ne riflette una brutta. Ma lo specchio in se non ha ne simpatie ne antipatie. Ci sono alcune persone che, offese a casa loro, sfo­gano la propria rabbia per la strada, rna l'ira del s2ggio si manifesta solo come conseguenza della natura delle cose, non gli appartiene quindi come qualita caratteristica. L'uomo superiore e padrone delle cose; l'uomo dappo­co ne e schiavo.

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Sommario. La sintesi tomistica non fu, com'e sembrata in seguito, l'approdo concor­de del pensiero medioevale. A contrastarla, dall'interno dell'aristotelismo, furono gli averroisti, il cui rnassimo esponente fu Sigieri di Brabante (12.1). Alcuni punti saldi tra essere necessaria e essere contingente vengono negati dal misticismo assoluto del do­menicano Eckhart nel quale scompaiono i confini tra Essere e Nulla, tra intelletto divi­no e intelletto umano (12.2). Piu che alla metafisica o alla mistica si affida aile risorse della logica Raimondo Lullo, promotore di un ardito progetto dr enciclopedismo ecume­nico (12.3).

Una nuova sintesi e quella proposta da Duns Scoto, nell'intento di conciliare le due tradizioni tomistica e francescana. Nella sua metafisica si introduce la dimensione del­la storicita (12.4). Punto centrale della dottrina scotista e la proporzione tra l'intelletto umano e l'essere, senza necessita del passaggio attraverso il sensibile, anche se la via induttiva e necessaria per dimostrare che l'Essere esistc (12.5). Ma la vera originalita di Scoto e nella dottrina dell'individuazione: correggendo Tommaso e Aristotele, egli affer­ma l'intelligibilita dell'individuo come tale. Il mondo della ragione cessa di essere una trama di essenze e diventa un insieme sterminato di individui (12.6). Le essenze non so­no piu la mediazione necessaria tra Dio e mondo, che viene creato senza che il creatore sia condizionato da nient'altro che dalla propria volonta (12.7).

Il volontarismo scotista ha sviluppi radicali in qucllo di Guglielmo Occam, che arri­va a fare dell'ordine dell'universo un ordine di nomi imposti aile cose dalla volonta dell'uomo (12.8). L'unica conoscenza valida e dunque quella intuitiva, che ci mette in rapporto diretto con le cose, mentre quella astrattiva si muove sui concetti. che sono 'finzioni' della volonta. L'universale e una 'finzione' (12.9), il cui senso e di esprimere una intenzionali ta dell' intelletto (12.1 0). E 'finzione' anche la nozione di cssere, che non puo applicarsi dunque validamente a Dio e all'uomo. Dio diventa filosoficamente inco­noscibile; solo la fede ce ne da la conoscenza. E cosi non c'e una verita universale su cui poggia l'ordine morale. II fondamento di questo e il decreto di Dio, la sua volonta (12.11). Come l'ordine cosmico cosi anche l'ordine politico e in Occam uno specchio in frantumi. La chiesa non e un potere accanto o contro quello imperiale: la sua Iegge e la parola di Cristo che le chiede umilta e poverta (12.12).

II Trecento si apre con il sogno teocratico di Bonifacio VIII, rna le istituzioni somme. della cristianita, il papato e l'impero, non rispondono piu alla nuova dialettica tra lena­zioni ne alla nuova complessita sociale (12.13). Testimone non intenzionale di questo de­clino e anche Dante Alighieri, che sostiene la distinzione dei due poteri, rna in realta ri­vendica, anticipando i tempi moderni, la laicita dell'ordine politico e la responsabilita civica della coscienza individuate (12.14). L'analisi politica torna ad occuparsi, al di fuo­ri dei quadri universalistici, del suo oggetto specifico, e cioe della fonte del potere, del rapporto tra morale e politica e cosi via. Egidio Romano, che pure e un teocratico, fa uso di argomenti che preludono all'assolutismo moderno. Per Giovanni da Parigi la chic­sa deve rientrare det tutto dentro i confini del diritto comune (12.15). Mae con Marsilio da Padova che il discorso politico riconquista, sui modello di Aristotele, un impianto to­talmente laico (12.16).

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Nel periodo rispondente al nostro Trecento, !'Islam e politicamente in pieno disfaci­mento. Il centro della sua vita culturale si sposta in area sciita, e precisamente in Iran, anche se il massimo pensatore del periodo, Ibn Khaldun, a cui si deve in assoluto la pri­ma filosofia della storia, sorge nel Maghreb (12.17). Di due secoli anteriore rna fecondo in questa periodo e il pensiero di Suhrawardi, a cui si deve il risveglio della tradizione esoterica avicenniana. L'occidente e ormai lontano (12.18).

Sotto !'influenza della cultura cinese emergono in Giappone alcune correnti buddiste di impianto mol to original e. come lo Zen, l'amidismo e la setta di Nichiren (12. 1 9).

In Cina trionfa la Scuola dei Principi Univer~ali nella grandiosa sistemazione che ne aveva data Chu Hsi e che, resa ufficiale dal potei·e, restera, per secoli. i1 punto di riferi­mento dell'identita culturale cinese (12.20-21).

Fuori o contro Ia sintesi

12.1 II razionalismo di Sigieri. Solo agli inizi dell'eta modema, quando le cir­costanze interne ed esterne condurranno la chiesa cattolica a stabilire e a difen­dere una piu rigida coscienza di se, la sintesi di Tommaso d' Aquino sara pre­sentata come il luogo storico risolutivo di tutti i precedenti contrasti, una spe­cie di definitiva cattedrale del sapere a cui avevano posto mano cielo e terra. Ma ormai e evidente, anche agli storiografi cattolici, il carattere apologetico di questa memoria storica. Si e gia vista (11.9) come nell'Universit:a parigina, at­torno al 1270, la tensione tra la Facolta delle arti e quella di teologia fosse ai limiti della rottura. I Maestri delle arti, anche per merito di Tommaso d' Aqui­no, avevano concesso nei loro programmi una larga parte alle opere di Aristo­tele - l'Organon, la Fisica, l'Etica, la Metafisica - e si imbattevano percio in molte questioni estranee aile sette arti perche riguardanti temi di spettanza della Facolta di teologia. Paradossalmente, proprio perche non era di compe­tenza della Facolta delle arti decidere se una tesi fosse o no d'accordo con la Rivelazione, le questioni di tal genere venivano lasciate in sospeso, senza il va­glio della censura ecclesiastica. In pratica si apriva cos! il libero accesso alia dottrina della doppia verita, attribuita piu o meno fondatamente ad Averroe (1 0.13). Ma la reazione della Facolta di teologia, dominata, nonostante il presti­gio dell'aristotelico Tommaso d'Aquino, dalle tendenze agostiniane, non poteva mancare. E fu una reazione tendenzialmente sommaria, non del tutto in grado di percepire la diversita tra la dottrina tomistica dell'autonomia relativa della ragione e la tendenza averroistica che invece alia ragione attribuiva un'autono­mia assoluta. I sostenitori di questa razionalismo in nuce venivano detti allora sbrigativamente averroistae. II lora non era un vera e proprio movimento, an­che se il regime persecutorio cui furono sottoposti ebbe l'effetto di rinsaldare le lora file e di esaltare la leadership del piu importante di loro, Sigieri di

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Brabante* che pago, pare addirittura con il sangue, l'ostilita dei teologi. Fu Ernesto Renan, nel secolo scorso, a designare questa movimento cultu­

rale come 'averroismo latina', termine per la verita piuttosto pleonastico dato che, come si e vista, nell'area islamica Averroe non ebbe una vera e propria di­scendenza (10.13; 11.14). La penetrazione degli averroisti dentro le mura della cittadella universitaria dovette essere piuttosto minacciosa se Alberto Magno intervenne·, nel 1270, con un suo trattato Sulle quindici tesi per confutare al­cune posizioni eterodosse circolanti nell'ambiente parigino e soprattutto tra gli averroisti. Scomparsi sia Alberto Magno che Tommaso, l'ostilita crebbe a tal punta che nel 1277 il Vescovo di Parigi Stefano Tempier (11.9), gia autore nel 1270 di una condanna delle tesi averroiste, cedendo alla richiesta del Papa Giovanni XXI si decise a vibrare un secondo colpo: stese un sillabo di 219 pro­posizioni insegnate alia Facolta delle arti, che avevano, a suo giudizio, come comun denominatore l'identificazione tra realta, intelligibilita razionale e ne­cessita. La 27a, ad esempio, dice che «Ia causa prima none in potere di far esi­stere mondi diversi da questa e pertanto nega Ia contingenza del creato e vi in­troduce i caratteri della necessita». Era una tesi direttamente confutata da T ommaso d' Aquino. Ma tra le 219 tesi ce n' era no alcune insegna te tan to da Si­gieri quanta da Tommaso. Esse furono tutte condannate. Comunque l'eco della condanna non dovette durare a lungo se Dante Alighieri, nel canto X del Para­diso (vv. 136-138) colloca alia sinistra di Tommaso « ... la luce eterna di Sigieri I che leggendo nel vico degli strami I sillogizzo invidiosi veri».

Sigieri di Brabante. Di Sigieri, nato verso il 1240, abbiamo notizia per la prima volta intorno al 1266 a proposito di alcuni disordini avvenuti nell'Universita di Parigi, dove tra i maestri delle arti ricopre un pasta di prima piano. Le vicende piu significative della sua attivita letteraria sana legate all'averroismo latina. Non mol to. tempo dopa l'intervento di Alberto Magno nel dibattito sull'averroismo con lo scritto De quindecim proble­matibus (Sulle quindici tesi), l 'Arcivescovo di Parigi Stefano Tempier, sul fi­nire del 1270, pone !ermine aile molte confutazioni in atto con la condan­na di alcune tesi costitutive dell'averroismo parigino. Da questa momenta Sigieri rimane la personalita piu significativa negli ambienti che proseguo­no ['opera di diffusione dell'averroismo. Quando, pochi anni dopa, nel 1277, una seconda e piu grave condanna colpisce nuovamente gli averroi­sti della studio di Parigi, Sigieri viene citato dall'inquisitore di Francia Si­mon du Val, perche si presenti per rispondere dell'accusa di eresia. Ri­mangono piuttosto oscure le circostanze che lo conducono nel corso di al­cuni anni a seguire nei suoi spostamenti la corte papale di Roma, in veste di prigioniero, fino a che, nel1484, chiude in modo violento la sua esisten­za. Tra le opere di Sigieri ritenute autentiche, le piu importanti sana: L'eternita del mondo (De aeternitate mundi), L'intelletto (De intellectu), L'anima intellettiva (De anima intellectiva), Illibro della felicita (Liber de felicitate).

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II 'vico degli strami' e la francese rue du. Fouarre, dove aveva sede la scuola di filosofia; gli 'invidiosi veri' sono le verita che procurarono odio a chi li ave­va dimostrati con i suoi sillogismi. Comunque, agli occhi del poeta non c'era nessuna incongruenza che a tessere l'elogio di Sigieri fosse lo stesso Tommaso d' Aquino. L'azione culturale del filosofo brabantino appariva infatti come so­stanzialmente omogenea a quella di Tommaso d'Aquino, che era stata di piena abilitazione della ragione umana all'interno dell'universo della fede e, pili in generale, di fondazione dell'autonomia delle realta terrene nei confronti delle finalita soprannaturali della vita privata e collettiva. A questa progetto di ra­zionalizzazione della realta, Sigieri aveva apportato il contributo di un nuovo rigore metodologico, legato al principia che gli oggetti di indagine sono loro a dettare i modi dell'indagine e chc dunque gli oggetti naturali vanno indagati secondo ciiteri naturali. Quando lo colpi la condanna del 1277, erano numero­si gli alunni che lo seguivano nel 'vico degli strami', sicuramente anche in ra­gione della singolarita del suo aristotelismo, improntato in modo ancora molto pedissequo ai commenti di Averroe. Di questa averroismo provocatorio faceva­no parte alcune tesi, come quella sull'eterna periodicita degli avvenimenti e degli esseri, che comporta l'insignificanza dell'azione di Dio sui corso delle ca­se e degli eventi; o come la dottrina dell'anima intellettiva separata, eterna, unica per la specie umana e percio unita aile anime individuali solo in modo estrinseco e temporaneo. Pare che, specie su questi punti, Sigieri abbia avuto una evoluzione, forse anche per merito delle confutazioni di Tommaso d'Aqui­no. Nel suo ultimo insegnamento egli ammette infatti che dascun'anima pos­siede sia l'intdletto attivo che quello passivo; che ciascun individuo umano possiede una sola forma sostanziale, in cui la yita biologica, la sen.sibilita, l'in­tellezione sono niente pili che tre facolta distinte; che l'eternita del mondo non e dimostrabile; che la liberta umana puo sottrarsi alia causalita ciclica.

La stessa evoluzione in senso ortodosso Sigieri l'avrebbe vissuta circa la questione della doppia verita, cne nell'ultima fase del suo insegnamento non viene pili presentata come legittima coesistenza di due posizioni tra loro non conciliabili, una della ragione, l'altra della fede, rna piuttosto come due solu­zioni diverse date al medesimo problema, delle quali pero solo quella della fe­de va intesa come vera, in rapporto alla quale quella di ragione sopravvive sol­tanto come ipotesi, dato che il principia soprannaturale ha posto inizio ad un ordine nuovo, non soggetto aile leggi razionali.

Se e fondata questa ricostruzione dell 'evoluzione del pensiero di Sigieri, il suo razionalismo si sarebbe addirittura capovolto in fideismo, al primato della ragione egli av::-ebbe ~:.;;stituito quello della fede, vincendo in 'ortodossia' lo stesso Tommaso, fermo difensore dei diritti della ragione. Ma a prescindere dall'effettiva evoluzione del suo pensiero personale, quel che ha storicamente pesato e I 'insieme delle sue tesi che portava in se il germe di una visione total­mente naturalistica del mondo, anche del mondo dell 'uomo, stretto anche lui nella ruota della necessita e totalmente riducibile aile dimensioni mortali del­la corporeita. Quando l'averroismo come un torrente carsico rlapparira nella cornice dell 'umanesimo italiano (II.l.14), la sua indole razionalistica sara mol­to piu robusta e meno indifesa nei confronti delle censure ecclesiastiche.

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12.2 II misticismo di Meister Eckhart. Le prevaricazioni dei razionalisti, storicamente accertabili come quelle dell'averroismo, o presunte, come quelle di Tommaso d' Aquino, davano incentivo ad alcune tendenze il cui sbocco sa­rebbe stato il rigetto del primato della ragione. Tra queste tendenze primeg­giavano quell a del misticismo, rappresentata da Meister Eckhart*, e quell a del nominalismo, di cui diremo ampiamente in questo stesso capitola. Mentre 11 nominalismo arresta Ia ragione al di qua della frontiera dell'universale, su cui invece non solo secondo i realisti, rna anche secondo i concettualisti la ragione e in grado di attestarsi, e riduce il concetto a pura denominazione di ordine pratico (10.5), il misticismo si accampa al di la di quella frontiera, secondo la linea tradizionale della teologia negativa che da Agostino (8.16) in poi, attra­verso lo pseudo-Dionigi (9.6), aveva sviluppato il tema dell'inadeguatezza della ragione a conoscere Dio in modo positivo. Ma in questa tradizione, a cui anche san Bonaventura era rimasto fedele, era pur sempre Ia ragione che tracciava a se stessa i propri limiti e rinunciava a se stessa consapevolmente, per lasciar li­bero spazio ad una conoscenza intuitiva superiore, si, rna non contraria ai po­teri suoi propri. Pur nella varieta delle posizioni che, all'interno di questa tra­dizione, si erano avvicendate e a volte combattute, due erano i punti fermi mai messi in discussione: la distanza infinita tra il Creatore e le creature, tra l'Es­sere in se e gli esseri partecipati, tra il necessaria e il contingente; l'esemplari­smo che, indicando negli esseri creati le 'idee' di Dio da lui liberamente realiz~ zate, esclude tanto il dualismo quanto _il monismo e lascia aperta alia ragione la via per raggiungere Dio senza identificarsi con Lui.

Ma quando viene messo in forse il potere della ragione di cogliere e di esprimere le forme del reale e quando si trascurano le nozioni dell' essere e delle cause del divenire, allora si attenua la disciplina concettuale che tiene a freno gli impulsi oscuri di cui il misticismo diventa facilmente tributario. Non

Giovanni Eckhart. Giovanni nasce intorno al 1260 ad Hochheim (Tu­ringia), entra a far parte dell'ordine domenicano e conduce i suoi studi a Strasburgo e a Colonia. Alcune testimonianze lo vogliono scolaro di Alber­to Magno. Ricopre importanti cariche nell'ordine svolgendo un'intensa at­tivita di studio e d'insegnamento. Molti dei suoi scritti infatti nascono de­stinati alla predicazio.J:Je e all'insegnamento, attivita che egli svolge in piu di una citta europea. Fra il 1300 e il 1311 insegna all 'Universita di Parigi, successivamente dirige Ia scuola teologica di Strasburgo. ll misticismo eckhartiano si avvale dei contributi neoplatonici della pseudo-Aeropagita e di quanta a meta de{ XIII secolo Guglielmo di Moerbecke aveva tradotto da Proclo. Nel 1326 viene accusato di eresia. Secondo l'uso del tempo, si appella al pontefice. La morte lo sorprende nel 1327. Due anni dopo il Pa­pa Giovanni XXII condanna ventotto delle sue tesi. Gli scritti di Maestro Eckhart comprendono molte opere esegetiche, prediche e trattati in lingua tedesca. Lo scritto teologico-filosofico piu importante e !'Opus tripartitum (!'Opera in tre parti). Profonda e duratura sara !'influenza esercitata dal suo pensiero sulle correnti mistiche tedesche del XIV e XV secolo.

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e un caso se nei primi decenni del Trecento si moltiplicano le esplosioni mille­naristiche e sempre piu numerosi si fanno i profeti e le profetesse, gli indovini e i maghi che suscitano o convogliano la superstizione delle masse.

E su questa sfondo che va collocato Meister Eckhart. Nella sua forma lette­raria Eckhart non si differenzia dagli scolastici del suo tempo, rna nelle sue argomentazioni rivela un vigore deduttivo che fa pensare piuttosto ai grandi metafisici moderni, tipo Spinoza. Egli imposta il tema dei rapporti tra Dio e le creature prendendo le mosse dall'analisi del concetto di 'essere' che, ed e qui l'originalita eckhartiana, e attribuibile a Dio in modo univoco. E cioe: solo all'essere di Dio conviene per sua natura il privilegio dell'esistenza infinita; fuori di Dio, non si da esistenza, dato che cio che e fuori dalla causa prima e anche fuori dall'essere. Ogni essere creato, come l'uomo o l'albero, ha, si, una sua essenza diversa da quella di Dio, rna l'esistenza in virtu della quale l'essen­za e, non gli appartiene in proprio. Ogni essenza esiste solo nell'esistenza di Dio, la quale e da intendere come il primo principia formale in base al quale hanno esistenza le forme proprie di ogni essere creato. Di qui Ia fame del divi­no diffusa in tutte le creature, di qui Ia vanita dell'amore riversato sulle crea­ture, dato che esse, al di fuori dell'essere di Dio, non sono. Rigorosamente in­tellettualista (l'essenza di Dio e l'intendere) Eckhart traccia una via a Dio nella quale la forza che conduce alia meta non e l'amore, e l'intellezione. Creato a immagine di Dio, l'uomo ne ripete in se l'intellezione sussistente e increata: e qui Ia scintilla divina che egli porta nascosta in se. Il principia antropologico su cui inerisce la Grazia e l'intelletto: l'uomo.e gradito a Dio principalmente perche lo sa e nella misura in cui lo sa. A diversita della scuola francescana, che ripone nell'atto di amore, piu che nell'atto di intendere, la somiglianza dell'uomo con Dio e il suo ingresso nell'unione con Lui, il domenicano, fedele in questa alia tradizione del suo ordine, privile!!ia sia in Dio che nell'uomo !a funzione intellettiva: nella Trinita, Dio-Padre e I 'intelligenza, mentre il Figlio e la vitae lo Spirito e l'essere. E tra l'intelligenza di Dio e quella dell'uomo la li­nea di demarcazione si attenua fino a scomparire, in una coincidenza dei due intelletti che guadagno ad Eckhart l'accusa di panteismo. Egli resto sempre consapevole dell'ambiguita del suo linguaggio, un'ambiguita non superabile proprio perche, pe.r definizione, l'unione tra l'uomo e Dio, che e il senso di tut­te le cose, si pone al di la della linea concettuale, in quella suprema semplicita nella quale gli stessi concetti di Essere e di Nulla appaiono come lasciati aile spalle perche subalterni al mondo della molteplicita. Il risultato pratico di questa dottrina mistica, le cui ascendenze neoplatoniche sono evidenti, e nell'esaltazione della docilita dell'uomo in rapporto a Dio che tutto opera. Se perfetta, questa docilita non e che il riflesso dell'identita di se col nulla, alia quale approda il fedele nel suo itinerario verso Dio: l'esistenza di Dio e il prin­cipio formale dell'esistenza delle cose, il che viene a dire che solo Lui esiste e che I 'uomo e un aggregato di particolarita, ciascuna delle quali e un non essere.

Ma il vero linguaggio mistico si svolge nel versante delle immagini a cui preferibilmente si affida. L'anima dell'uomo e come un castella, cosi dice Eck­hart, un castella nel quale Dio risiede come ospite. E Lui che in noi ama se stesso, conosce se stesso, generando nell'anima la totale indifferenza per tutto cio che non e Lui, e cioe il totale distacco ascetico da ogni cosa mondana. A

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questo punto Dio e !'anima non sono che una sola cosa. Tra le proposizioni di Eckhart, condannate nel 1329 da Giovanni XXII, c'e infatti anche quella in cui e detto che «noi ci trasformiamo totalmente inDio». La questione se egli sia o no un panteista non si e piu chiusa.

Certo e che l'impulso eckhartiano a risolvere totalmente e senza residui la 'natura naturata' nella 'natura non naturata' per usare l'antico linguaggio di Scoto Eriugena (9.8), sta alle origini della speculazione tedesca, sia di quella teologica (di impronta antirazionalistica), che, attraverso i discepoli del grande mistico, Johann Tauler (1300-1361) e Enrico Suso (1295-1366), condurra a Lu­tero, sia di quella metafisica (di impronta panteistica) che, attraverso Nicola Cusano, condurra ai grandi sistemi dell'idealismo romantico dell'ottocento.

12.3 La Grande Arte di Raimondo Lullo. L'universita di Parigi (e in modo subalterno le altre della cristianWt) era come una cittadella che, in un modo o in un altro, richiamava in se, per vagliarle e controllarle, tutte le forme e tutte le tendenze del pensiero. Nessun magistero, nemmeno quello del Papa, poteva di fatto esercitarsi se non aveva ricevuto legittimazione da questa centrale dell'intelligenza. Ma non tutto restava chiuso nelle maglie di questo monopo­lio. Le mura della cristianita cominciavano a crollare. La spinta verso orizzon­ti piu larghi, verso contatti diretti con altre culture, non seguiva soltanto le rotte ardimentose del commercio, come quella di Marco Polo. Anche lo zelo missionario, specie -di ispirazione francescana, stava cercando alternative fe­conde aile crociate. Come per suo con to aveva fatto Francesco d' Assisi, nel 1216, molti altri, animati da spirito di dialogo, per stabilire rapporti di pacifico confronto con l'Islam aprirono varchi significativi nella parete di separazione tra la cristianita e l'altro mondo. Fra questi pionieri dell'ecumenismo cultura­le primeggia il terziario francescano Raimondo Lullo* (1233-1316), il 'dottore illuminato' che aveva conosciuto nella sua natia Majorca le tre culture, l'ara­ba, l'ebraica, la cristiana. Dopo la conversione, si propose di favorirne l'unifi-

Raimondo Lullo. Raimondo nasce a Palma di Maiorca nel1235, vive al­ia corte di Giacomo II d'Aragona finche si converte alia vita religiosa in­torno al 1265 dopa un'esistenza dedita alle mondanita. Si dedica intera­mente alla conversione dei mu.sulmani, dei quali conosce a fonda la cultu­ra e la lingua. Ne nasce una vasta produzione di opere a carattere apologe­tico. Intorno a/1286 inizia una lunga peregrinazione che lo porta in molte citta con l'intento di propagandare i risultati rlei suoi studi. Lo troviamo impegnato successivamente a Parigi, a Tunisi, a Napoli, in Oriente. La leg­genda vuole che la sua morte sia avvenuta in terre lontane (la Tunisia) e proprio per mana di colora ai quali il suo pensiero e la sua opera a lu.ngo si sono votati: sarebbe stato infatti lapidato dagli Arabi, nel 1315. Le sue opere abbracciano molti campi del sapere, da quello della logica a quello della matematica, della fisica e dell'astronomia. Tra i molti scritti di logi­ca il piit importante e l'Ars compendiosa inveniendi veritatem (l'Arte bre­ve per trovare la verita) del 1271.

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cazione in una verita 'cattolica' che fosse davvero universale, anche secondo le regole della ragione. Il fascino da lui esercitato almena per tutto il Trecento ebbe certo anche altre ragioni oltre che quella della sua dottrina: fu lui il pri­mo a far 'parlare ieologia e filosofia' ad una lingua che non fosse il greco o il Iatino; fu lui il prima grande viaggiatore culturale dell'Europa; fu lui il primo 'enciclopedico moderno'. E non vanno trascurati altri aspetti della sua perso­nalita e della sua vita. Prima della conversione era un estroso trovatore (inCa­talogna aveva ottenuto ospitalita l'arte poetica di Provenza) e rimase, dopo la sua dedizione alla vita ascetica, un fecondo creatore di poesia lirica. Anche le circostanze della sua scelta eremitica entrarono a far parte di un leggendario ascetico che nel secolo scorso fu sfruttato, a sostegno delle proprie tesi, da Schopenhauer: rapito dalla bellezza di una genovese, Ambrosia de Castello, la insegui a cavallo fin dentro la chiesa. Ottenuto da lei un appuntamento, ella gli scoprl il seno divorato dalla cancrena. Sconvolto· da questa esperienza, si volse ad altre bellezze non contaminabili. None invece leggenda rna storia che egli abbia abbandonato a 25 anni la moglie e due figli per vivere in solitudine. E tuttavia la sua vena amorosa rimase, trovando nutrimenti anche nella tradi­zione araba, in particolare in quella dei sufi, come documenta il suo poema Li­bra dell'amico e dell'amato, una specie di breviario mistico. Conobbe diretta­mente, sui testi · originali, al-Ghazali, di cui tradusse la logica, Avicenna e so­prattutto Averroe, contro il cui aristotelismo, ancora vivo tra i seguaci di Si­gieri, combatte durante i suoi soggiorni a Montpellier e a Parigi. Questa sua versatilita davvero ecumenica lo porto a farsi promotore, durante il concilio di Vienna del 1311, della creazione di cattedre di arabo e di ebraico a Roma e neUe universita, con lo scopo di preparare missionari capaci di recarsi senza armi nelle terre degli infedeli. Di tale versatilita sono documento le 120 opere che gli si attribuiscono, in Iatino, in catalano e in arabo.

La fama di Lullo ha attraversato i secoli, soprattutto per il suo progetto di una logica universale o meglio di un'arte del ragionamento, adatta ad essere applicata ad ogni forma della scibile. Un sogno, questo, che risorgera spesso, come in Cartesio o come in Leibniz, che di Lullo era conoscitore ed estimato­re. Lullo denomino il suo progetto A rs magna, la Grande Arte, perche in so­stanza consisteva in una tecnica adatta a stabilire alcuni gruppi di principi ge­nerali (per la precisione diciotto: nove relativi aile perfezioni di Dio, e nove re­lativi ai rapporti reciproci tra gli esseri contingenti) nei quali fossero contenu­ti i prindpi di ogni scienza. Si trattava quindi di una logica strumentale, diver­sa da quella di Aristotele. Questa infatti era l'arte della dimostrazione, mentre quella di Lullo vi:>leva essere l'arte della scoperta, come egli dichiara espressa­mente agli inizi della sua opera:

Poiche ogni scienza possiede principi propri, diversi dai principi delle al­tre scienze, l'intelletto desidera ed esige che ci sia una scienza generale ri­guardante tutte le altre scienze, con principi generali nei quali i principi delle altre scienze particolari siano implicati e contenuti come il particolare nell'universale.

Lullo seguiva la tradizione platonico-agostiniana sugli universali e percio

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era convinto che le qualita primordiali, sia quelle relative a Dio sia quelle rela­tive agli esseri creati, fossero insieme il fondamento dell'ordine logicoe il fon­damento dell'ordine reale. I diciotto prindpi generali di cui si e detto rispon­devano appunto alia serie dei dati elementari su cui si esercitava la logica combinatoria. La Grande Arte consiste infatti nel combinare quei prindpi se­condo regale ben definite (il Lullo le fornisce in una tabula strumentalis, para­digma strumentale) in cui le c·ombinazioni dei segni designano alia maniera al­gebrica le combinazioni delle idee. Le combinazioni si distribuiscono secondo tre cerchi concentrici- Dio, l'Uomo, il Mondo- le cui armonie vengono mes­se in evidenza da tavole sinottiche e geometriche. C'e da dubitare che un simi­le armamentaria logico servisse davvero per scoprire verita nuove. La sua im­portanza e piuttosto nella fiducia che rivela e ispira sulla possibilita della mente umana di mettere ordine nelle conoscenze e pili ancora sulla corrispon­denza tra questa ordine mentale e l'ordine reale, corrispondenza che e il pre­supposto stesso della scienza moderna. In questa sensa, il vero tempo di Lullo e quello del Rinascimento. Non a caso, a lui si rivolgera il massimo dei filosofi umanisti, Nicola Cusano.

Duns Scoto

12.4 Una nuova sintesi. La formazione di Duns Scoto* cadde nel periodo successivo alia condanna del 1277 (11.9), che aveva segnato un momentaneo

Giovanni Duns Scoto. Giovanni nasce intorno al 1266 a Maxton in Sco­zia. La sua formazione culturale si svolge all'interno dell'ordine francesca­no del quale entra a far parte giovanissimo nel 1281. Termina i suoi studi ad Oxford. Figura di prima piano sia a Parigi che ad Oxford, dai suoi con­temporanei viene definito doctor subtilis (dottore sottile) per sottolineare le sue dati analitiche ed il particolare carattere del suo filosofare teso alia 'distinzione' e all a 'enumerazione '. Nel 1303 il suo soggiorno parigino viene bruscamente interrotto: avendo preso posizione a favore di Bonifa­cio Vlll ne! confli{to contra il sovrano Filippo il Bello, e costretto a lascia­re la citta. L'esilio sara breve e l'anno successivo, grazie all'intercessione del Generale dell'ordine, viene nominata maestro presso l'Vniversita pari­gina, dove insegna teologia per un periodo di due anni. Soggiorna ad Ox­ford dal1305 al1306 e a Colonia, dove l'ordine lo ha inviato e dove muore nel 1308. Nonostante che [a sua vita si concluda precocemente egli fascia un 'importante e vast a produzione filosofica. I suoi scritti pit£ importanti sono i due Commenti aile sentenze di Pietro Lombardo, uno tenuto ad Ox­ford, l'altro a Parigi e i Commentari ad Aristotele.

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decline della corrente aristotelico-tomista e la ripresa di quella agostiniana, Ia cui cittadella era nell'ordine francescano. L'ambizione di Scoto fu di ridurre ad armenia l'eredita di Tommaso e quella di Bonaventura. Le nozioni fonda­mentali che Tommaso, desumendole da Aristotele, aveva messo a fulcro del suo sistema erano quella che identifica Ia materia di una sostanza con Ia sua possibilita ad esistere (11.5), e quella dell'analogia, secondo cui l'idea di essere si puo predicare tanto di Dio quanto delle creature, con un contenuto in parte uguale e in parte diverse. In base al principio dell'analogia l'intelletto umano puo ascendere dal mondo dell' esperienza sensibile a quello di Dici, altrimenti irraggiungibile. Gli agostiniani ritenevano inaccettabili le due nozioni aristote­liche. Secondo loro la materia none la pura possibilita ad esistere, e essa stes­sa esistente in atto e costituisce l'imperfezione delle sostanze, le quali aspira­no, per impulse d'amore, ad unirsi alle realta superiori, queUe spirituali. Ed e nella realta suprema, Dio, che tutte le cose finite trovano il senso di se, perche nella mente di Dio hanno sede gli eterni esemplari e perche in Dio hanno fon­damento i predicati trascendentali che possono attribuirsi in modo univoco a lui e a tutte le creature. Duns Scoto mira a conciliare le due posizioni. Dei to­misti rifiuta la tesi di materia come possibilita ad esistere e quella di analogia; e degli agostiniani la tesi che a tenere compatto l'universo sia l'aspirazione d' am ore e la tesi che il nesso tra gli esseri finiti e Dio abbia fondamento nella esemplarita delle idee eterne. Se il suo progetto fosse riuscito il giovane fran­cescano avrebbe davvero operate la sintesi delle due anime della scolastica medioevale. Nella realta il senso della sua impresa fu di accelerare il trapasso dalla scolastica ai nuovi tempi da cui sarebbe nato il pensiero moderno.

A favorire il distacco di Scoto dalle due correnti fu anche il fatto che il suo aristotelismo derivava non da Averroe rna da Avicenna, del' quale predilesse e sviluppo la tesi (10.11) che l'intelletto umano ha come suo primo oggetto l'es­sere in quanto essere e non, come sosteneva l'aristotelico Tommaso, la sostan­za sensibile nella sua individualita. Se e vero che non possiamo ascendere all'intelligibile se non partendo dal sensibile, cio e dovuto non ai limiti intrin­seci del nostro intelletto, rna alia sua condizione storica, conseguente al pecca­to originale. E a causa di quella colpa che quanto di diritto e nelle competenze dell'intelletto umano non lo e di fatto: distinzione di gran peso nel pensiero scotista. Aristotele ignorava tanto la caduta dell'uomo quanto la promessa di­vina di una sua elevazione, attraverso il Cristo, ad un ordine superiore alla na­tura, l' ordine soprannaturale. Alla luce della rivelazione cristiana, la condizio­ne dell'uomo si fa intelligibile solo se riferita a tre eventi storici - la creazio­ne, la caduta, la redenzione- che si riflettono in essa secondo tre-viani tra lo­ro intersecati: la natura decaduta, come dire lo stato reale dell'uomo, la natu­ra pura, cioe quella 'di diritto' nella quale Dio aveva posto Adamo, Ia sopran­natura, e cioe l'ordine a cui la natura, restituita a se stessa, e stata elevata: un ordine il cui fine ultimo e la visione beatifica di Dio. Sarebbe stolto chiedere ad Aristotele quel che egli non poteva conoscere. L'uomo di cui egli tratta e l'uomo decaduto, che non riesce a superare le cose sensibili se non nel concet­to, il quale, per astrazione, offre delle cose le essenze intelligibili. Non poteva il 'filosofo' rendersi conto che l'uomo cosi com'e, e sul quale egli ha ragionato, e al di sotto della propria natura, in una situazione che gli impedisce di realiz-

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zare per intero le proprie possibilita, anzi perfino di percepire il proprio fine. E su queste premesse che, secondo Scoto, prendono chiara determinazione

le due giurisdizioni del sapere: quella filosofica e quella teologica. I filosofi hanno ragione nel sostenere che la naturae buona e nulla le manca di cio che e necessario all'uomo, ma essi ignorano che di fatto Ia natura non e piu se stessa ne puo recuperare se stessa se non si fa ricettiva di un ordinamento piu alto, quello a cui puo condurla non la sua causalita attiva, ma solo l'iniziativa di Dio.

12.5 L'univocita dell'essere. Paradossalmente, mentre con simili premesse sembrerebbe intercettato alia ragione ogni passaggio ad un sapere metafisico distinto da quello teologico, Duns Scoto, scansando le sabbie mobili del fidei­smo a ·cui i francescani erano sempre esposti, riconosce che il primo oggetto della conoscenza umana e l'essere in quanto essere, secondo l'insegnamento di Avicenna sopra ricordato. E vero che Avicenna non avrebbe potuto discernere nemmeno lui Ia capacita dell'intelletto umano a varcare Ia frontiera del sensi­bile se, per quanto musulmano, non avesse avuto indirettamente qualche lume della vera fede, e tuttavia questa della proporzione tra l'intelletto umano e l'essere e una verita propriamente filosofica, dimostrabile con argomenti che sarebbero validi anche senza alcun sostegno della Scrittura. Certo, Ia nostra metatisica e imperietta, come d'altronde lo e la nostra teologia, la quale, per quanto abbia Ia dignita di scienza speculativa, non e in grado di esserlo fino in fondo, dato che, nello stato in cui siamo, Ia speculazione su Dio non sbocca, come di per se dovrebbe, nella visione di Lui, ma nella fede. E credere non e vedere!

Le conseguenze della tesi scotista che pone alle origini del conoscere l'idea dell'essere, sono di grande importanza. La prima di esse e l'autonomia della metafisica non solo dalla teologia ma anche dalla fisica e dalla logica. La se­conda e che, in base all'univocita del concetto di essere attribuito a Dio o alle cose di qualsiasi grado, l'universo e pervaso da una razionalita senza fratture, nemmeno quella frattura tra l'ordine delle essenze astratte e l'ordine delle co­se individuali che e un limite non valicabile dell'aristotelismo. L'oggetto pro­prio dell'intelletto e, secondo Scoto, l'essere, considerato come intelligibile e come esistente, e non solo come esistente di fatto, ma come esistente mera­mente possibile. Ovunque l'essere si trovi, e omogeneo a se stesso e determina realta univoche, dotate cioe di que! comune valore che e il valore di essere o di esistere. II concetto di essere conviene propriamente a cio che realmente e: la distinzione tra essenza ed esistenza e solo formale, vale cioe solo nella men­te che la oper~. L'ess~re di per se e solo l'esistente in atto. Dio ha l'essere in quanto e quello che e, la creatura solo per partecipazione. Tra l'essere in se e gli esseri per partecipazione c'e, si, oggettivamente una distanza infinita, ma tra !'uno e gli altri c'e un che di comune, ed e appunto Ia 'ragione formale' di esistere: dal punto di vista reale, il !oro rapporto e di analogia, come dire di rassomiglianza, ma dal punto di vista logico il rapporto e, come si e spiegato, di univocita.

Ma che forse dall'immediatezza dell'idea di essere assoluto e possibile de­durre Ia certezza della sua esistenza? Secondo Scoto, l'idea di essere, nella no-

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stra condizione decaduta, e talmente generica che non se ne puo dedurre cio che conviene all'essenza di Dio, compresa l'esistenza, cos! come none possibi­le dedurre dall'idea generica di figura geometrica le proprieta di un triangolo. Alia pari di Tommaso, Scoto non ritiene utilizzabile l'argomento anselmiano.

Anche per lui la dimostrazione dell' esistenza di Dio si fa a posteriori, sebbe­ne i suoi argomenti abbiano, in confronto aile cinque vie di Tommaso (11.6), un taglio piu ontologico che cosmologico. L'itinerario induttivo dalle creature alia natura di Dio non puo certo varcare i confini dell'analogia. E tuttavia, lo slancio contemplativo di Scoto, una volta approdato all'idea analogica dell'es­senza di Dio e dopa aver sottolineato la differenza tra la nozione metafisica di essere e la nozione teologica di Essere onnipotente, sviluppa con grande ric­chezza le implicazioni del dogma trinitario, in particolare 'quelle che toccano il rapporto tra intelligenza e volonta. Secondo la tn1dizione agostiniana, Dio si definisce piuttosto come volonta che cm;ne intelligenza. Ma Scoto si rivela an­che qui particolarmente sottile (doctor subtilis: cosi verra denominato) nell'evita­re i rischi delle opposte polarizzazioni. Pur accentuando la sovrana liberta del­la volonta di Dio, nel sensa che essa non puo essere determinata da niente di estraneo a se (voluntas est voluntas, la volonta e volonta), egli osserva che in Dio la volonta non puo andare contra l'intelligenza, la quale a sua volta da niente altro puo essere determinata che dall'essenza. Insomma Dio non potreb­be volere cio che e contra la sua stessa essenza. La sua non e la volonta di un despota, non va contra ragione. Solo che la sua ragione sorpassa le nostre ra­gioni: ecco perche nel versante su cui le creature finite si muovono none tan­to l'intelligenza quanta la volonta il principia prima da cui esse devono sentir­si dipendenti. II bersaglio costante della teologia di Scoto e il 'necessaritari­smo' aristotelico, cos! come era stato riproposto dal 'maledetto Averroe'. II mondo non sta a Dio come la conclusione di un sillogismo deduttivo, non e una conseguenza necessaria della divina essenza. C'e, rna avrebbe potuto non esserci. E viceversa, un itinerario che parta dalle creature per risalire a Dio e rischioso perche implica l'idea di una continuita tra il relativo dell'esistente e l'assoluto dell'essere. Nell'assumere quale oggetto proprio della metafisica il motore immobile della prima sfera, Averroe faceva dipendere la metafisica dalla fisica, che e la scienza del movimento creato .. Invece Avicenna fa della metafisica la scienza dell'Essere, ed e percio capace di risalire all'essere prima senza trarre argomenti dalla struttura di un mondo che e contingente, c'e, rna, a differenza di Dio, avrebbe potuto non esserci.

12.6 La dottrina dell'individuazione. Una delle proposizioni cond,mnate nel 1277 nel 'sillabo' di Tempier suonava cos!: «Dio non puo conoscere il partico­lare. Se il sensa non esistesse, l'intelletto distinguerebbe l'uomo dall'asino rna non Socrate da Platone>>. Tommaso d' Aquino si era adoperato per uscire dall'essenzialismo gnoseologico di Aristotele, rna con risultati poco convincen­ti. Anche per lui, fedele in questa ad Aristotele, l'intelletto puo giungere a co­gliere solo la specie infima e cioe quella piu prossima all'individuo: riguardo a Socrate o Platone, l"umanita'; riguardo a quest'asino, l"asinita'. Arrestandosi alle soglie dell'individuo come tale, l'intelletto non soffre di nessun vuoto co­noscitivo data che nella specie infima e contenuto tutto quanta negli individui

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merita di essere conosciuto. Essi infatti si distinguono gli uni dagli altri sol­tanto, dice Tommaso (11.7), nella 'quantita', e cioe in un attributo della mate­ria, al quale e dovuta la divisione numerica della specie in individui.

Scoto non e soddisfatto di questa soluzione. A suo giudizio, l'individuo, e cioe l'esistente, ha la medesima intelligibilita che Aristotele attribuisce alla specie e solo alla specie. Ogni unita (e l'individuo e una unita indivisibile) ha fondamento in un principia proprio, determinato, positivo che non puo essere risolto ne in quella forma specifica (l'umanita, l'asinita) che l'intelletto attri­buisce a tutti gli individui della specie e nemmeno nella materia, che e di sua natura, come Aristotele insegna con chiarezza, un principia di indeterminazio­ne, non certo di individuazione. Non dunque nella forma, non nella materia, ne nel lora 'sinolo' risiede I 'individuazione che contrassegna gli esseri esi stenti. Essa si aggiunge alia forma specifica senza confondersi con essa (all'umanita, all'asinita), la concretizza e la completa fino a farla essere «questa cosa qui»: haec res.

I discepoli di Scoto chiameranno il principia di individuazione haecceitas, ecceita. L'ecceita e, potremmo dire, l'essenza dell'individuo in quanto indivi­duo, un'essenza che non puo essere dedotta da.ll'essenza specifica che la con­tiene: cia che fa di me questa individuo non puo essere dedotto dalla specie umana a cui appartengo. Lo stesso si dica degli individui tutti di cui consta l'universo. In quest'uomo e in quest'asino l'entita singolare (la lora ecceita) e l'entita specifica (l'umanita, l'asinita) esistono distinte, si, rna solo formalmen­te e cioe in modo tale che l'universale ha il suo fondamento concreto nel sin­golare, indipendentemente dall'atto dell'intelletto che lo comprende. Ogni uo­mo ha la sua umanita e ogni asino la sua asinita: la specie universale si pre­senta all'intelletto segnata dalla singolarita e solo in virtu di astrazione puo es­sere ridotta a concetto universale. Non che l'intelletto parta dal singolare per arrivare all'universale: esso parte dalla specie comune e indeterminata che gli offre, in un sol momenta, il singolare (l'ecceita) a cui di fatto appartiene e l'universale a cui e disponibile per la sua stessa indeterminazione. Insomma la singolarita e l'universalita entrano ]'una e l'altra nell'ambito della medesima intelligibilita. La ricchezza di questa analisi dell"esistente' sara riconosciuta nel nostro secolo dai maestri dell'esistenzialismo. Restando all'epoca in cui Scoto visse, dominata da una specie di spostamento sismico verso una visione del mondo basata non sulle essenze, rna sulle sostanze individuali, e facile sco­prire nella dottrina dell'individuazione il prima sintomo di dissolvimento del 'sistema' metafisico: il cosmo non sara pili una trama di essenze, rna un insie­me sterminato di ind~sidui, ciascuno dei quali irriducibile all'altro.

12.7 II primato della volonta. Anche per altra via, secondo molti, Scoto ha promosso il dissolvimento del sistema metafisico medioevale, quella del 'vo­lontarismo' e cioe della dottrina del primato della volonta sulla ragione, sia in Dio (e abbiamo gia visto in che sensa), sia nell'uomo. II volontarismo di Scoto non e quello di Occam di cui stiamo per occuparci. Quel che preme a Scoto e di dare solido fondamento alia liberta, sia alia liberta con cui Dio crea e go­verna le cose, sia alia liberta con cui l'uomo e in grado di corrispondere a Dio. Si tratti di Dio o si tratti dell'uomo, que! che importa e, per Scoto, mettere al

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sicuro l'idea di liberat da ogni contagia della 'necessWt' insegnata dagli aristo­telici di linea averroistica. Come non e libero il corpo grave che cade verso terra, cosl. non e libero l'amore platonico che spinge le anime verso il loro luo­go naturale, il Bene in se. All'eros greco Scoto oppone l'agape cristiana, che e l'amore con cui Dio vuole il bene delle creature e l'amore con cui i beati del cielo, godendo di Dio, non cessano di volere liberamente la sua volonta. Ecco perche egli ripone il fine ultimo dell'uomo non nel contemplare Dio, rna nell'amarlo: due attivita supreme che sembrerebbero coincidere rna che invece comportano, all'interno di una medesima pienezza, la subordinazione del vole­re all'intendere o viceversa. Il carattere proprio dell'intelletto e che esso viene determinato dal suo oggetto: intelligere est pati, dicevano gli aristotelici: inten­dere e subire un'azione dall'esterno. Ma se e vera che nel suo atto prima l'in­telletto e determinato dall'oggetto del conoscere, nella dinamica del processo conoscitivo, nel quale si intrecciano pensieri oscuri e pensieri distinti, la vo­lonta ha un peso determinante: e essa che interviene per imporre concentra­zione o distrazione, per rafforzare o indebolire gli atti conoscitivi e le loro concatenazioni. In ultima istanza, e la volonta che muove l'intelletto. «Niente altro che la volonta e causa totale della volonta nella volonta». Come all'origi­ne del mondo sta un atto libero, quello del Creatore, cosl. la causa determinan­te del destino dell'uomo e il suo atto libero. La volonta che nel contesto delle facolta e quella cui appartiene di amare, ha dunque il primato tanto nell'ordi­ne dell'esistenza delle cose che in quello della conoscenza. Questa primato non comporta nessuna indulgenza verso il despotismo arbitrario di Dio ne verso lo spontaneismo irrazionale dell'uomo. Per Scoto non si da autentico atto di vo­lonta se non quando colui che vuole, nell'istante stesso in cui vuole, puo volere altrimenti, puo scegliere cioe tra una varieta di 'possibili' offerti dall'intelletto.

Se si mettono in rapporto tra lora le tre dottrine scotiste sulla contingenza del mondo, sulla condizione decaduta dell'uomo storico, e sui primato della volonta, ci e possibile disegnare uno spazio culturale profondamente diverso da quello della grande scolastica del Duecento. Nel mondo di Scoto gia si sta formando un clima di relativita, gia fermentano i germi della storicismo. Ad esempio, nel definire quali siano i prindpi del diritto naturale stabilito da Dio, Scoto distingue quelli assoluti, e quelli relativi alla condizione umana, la quale a sua volta si distingue in condizione storica in senso assoluto, derivata cioe dal peccato di origine, e' in condizione storica in sensa proprio, relativa cioe ai diversi momenti di tempo. Prima del peccato, tutte le case (eccetto le donne, dice Scoto, prendendo le distanze da Platone, perche esse non sono cose) erano in comune, dopo il peccato, eccetto il caso della vita conventuale, e stata per­messa la spartizione dei beni. II diritto di proprieta non ha dunque per fonda­menta nessuna natura in se considerata. Alle origini c'e la volonta di Dio che ha stabilito alcune leggi invece che altre. Non che le abbia stabilite per arbi­trio, rna avendo creato quest'ordine di case invece che un altro, ne conseguono alcune leggi che appunto per questa diciamo naturali. Ma come esse, in una creazione diversa, sarebbero state diverse, cos! anche sui piano storico posso­no verificarsi circostanze in cui certe leggi di natura possono consentire delle modificazioni. E il caso della poligamia, che in certe situazioni del passato (o anche del futuro: in caso di catastrofe, ad esempio) e stata consentita da Dio.

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Come si vede, le premesse metafisiche e antropologiche di Scoto favoriscono una duttilita di fronte al concreto che non era pensabile nell'universo dedutti­vo degli aristotelici del Duecento. A livello dei grandi temi, quella di Scoto fu davvero, a suo modo, una latta della liberta contra la necessita.

Guglielmo Occam

12.8 La 'logica dei moderni'. L'opera di Guglielmo Occam* conduce all'estremo !'idea di tondo che, come abbiamo vista, aveva ispirato il pensiero della famiglia francescana in antagonismo co11 quella domenicana. Quando egli nasce, Bonaventura e Tommaso sono gia morti da quindici anni, Raimon­do Lullo e Ruggero Bacone, !'uno cinquantenne e l'altro settantenne, conduco­no avanti la !oro battaglia su temi che restano, tutto sommato, marginali al grande dibattito che nell'ultimo scorcio del Due e nella prima meta del Tre­cento assorbe tanto i maestri delle facolta universitarie quanta i pastori della chiesa. L'idea che apertamente o meno si agitava nel cuore del dibattito era quella della onnipotenza di Dio, seriamente compromessa, cosi pensavano i francescani, dai seguaci del pensiero aristotelico e arabo. La difesa dell'onni­potenza di Dio comportava la subordinazione dell'intelletto alia volonta, inDio e nell'uomo, e l'intelligibilita non solo dell'essenza rna anche dell'individuo. Fu questa il sensa della battaglia filosofica di Scoto che Occam prosegui svilup­pandone fino al limite le implicazioni. Il risultato di questa sviluppo fu, nella tradizione d'occidente, il crollo dell'edificio del pensiero medioevale e l'inizio della filosofia moderna.

Al centro della rivoluzione occamista c'e la trasposizione di tutti i proble­mi, anche di quelli metafisici, in termini logici: «che la stessa logica, cosi Oc­cam apre la sua Expositio aurea, sia il modo e la regola delle scienze». La logi­ca di cui egli parla none quella aristotelica, e quella allora detta 'dei moderni' (logica modernorum) inaugurata da Abelardo e largamente diffusa nelle scuole del Trecento. Si trattava di una specie di 'grammatica speculativa', volta a defi­nire il fondamento del significate delle parole e le proprieta dei termini logici nel lora rapporto con i termini grammaticali. II sapere - questa Ia tesi dei 'moderni' - consiste in proposizioni, e cioe in connessioni tra soggetti e predi­cati, che si presentano in forma scritta, o in forma orale o in forma mentale. II termine ha un sensa che gli viene dal suo essere stato impasto per significare una cosa; rna prima della significatio c'e la suppositio e cioe l'adozione del ter­rnine per la cosa di cui esso e il segno e della quale tiene il posto nella propo­sizione. Prendiamo tre proposizioni orali: "L'uomo e una parola di due sillabe»; «l'uomo corre»; <d'uomo e una specie». Nella prima proposizione, il termine uomo rappresenta il suono che e stato proferito: e la supposizione ma­teria/e. Nella secunda desi~ma uno qualunque de)lli individui reali: Pietro, Lui­gi, ecc. che esso rappresenta: e Ia supposizione persona/e. Nella terza. esso rap-

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presenta qualcosa di comune a quegli individui: e la supposizione semplice. Nella supposizione personale il termine uomo e il 'sostituto' di un oggetto

concepito astrattamente che puo essere attribuito a pili soggetti. Lo stesso, e a fortiori, si dica della supposizione semplice. La conoscenza dunque ha come suo contenuto il segno che sta al posto della cosa, e sta al posto della cosa per decisione della volonta. L' ordine dell'universo non e dunque, a ben pensare,

Guglielmo di Occam. Guglielmo nasce ad Ockham nella contea di Sur­rey in Inghilterra intorno al 1290. NeZ 1318 studia ad Oxford forse per di­ventare Magister. L'anno 1324 segna un periodo difficile nella sua vita: viene citato a comparire di fronte alla corte papale di Avignone, perche al­cune delle sue dottrine vengono giudicate sospette di eresia. La sua perma­nenza ad Avignone dura quattro anni, il tempo necessaria perche una ap­posita commissione possa eliminare le tesi, oggetto di sospetto, contenute nel Commentario delle Sentenze, peraltro gia divulgato e discusso.

NeZ 1326 cinquantuno proposizioni tratte dal Commentario vengono ~ondannate. Guglielmo e trattenuto ad A vignone, anche se non viene pro­nunciata nei suoi riguardi alcuna condanna per eresia. E in questa clima che avviene il suo incontro con Michele da Cesena, generale dell'ordine francescano, convocato anche lui presso Avignone in seguito alle preoccu­pazioni ·des tate nel pontefice dalle tensioni interne all'ordine francescano.

· Guglielmo dimostra interesse per l'opposizione dottrinale mossa al ponte­fice da Michele sul lema, assai dibattuto in quel periodo, della poverta francescana. Guglielmo aderisce alle posizioni di Michele da Cesena. Nell'aprile del 1328 viene redatta dal generate francescano una dichiara­zione di protesta contra tutte le disposizioni prese da Giovanni XXII con­tra l'ordine ftancescano: tra le firme figura quella di Guglielmo di Occam. NeZ maggio della stesso anno, contra la proibizione del papa di allontanar­si da Avignone, Guglielmo fugge con Michele da Cesena cercando protezio­ne presso Lodovico il Bavaro, prima a Pisa, poi a Monaco di Baviera (1330). Fino alla morte, avvenuta a Monaco nel1349, Guglielmo rimarra fe­dele alia sua opposizione al papato avignonese e alla causa dell'ordine francescano. II suo soggiorno tedesco coincide con un ampliamento della sua attivita letteraria, che dal campo della filosofia e della teologia si spo­sta a quello della politica. Molti sono i suoi scritti, prima fra tutti per im­portanza il Commentario alle sentenze, inoltre i Sette libri di Quodlibeta (Problemi qualsiasi), su argomenti t'.iri di natura filosofica e teologica, la Summa dell'intera logica, trattato logico. Numerose sono inoltre anche le opere a carattere politico, parte delle quali dirette contra il pontefice Gio­vanni XXII, tra cui si ricordano: L'opera dei novanta giorni, dedicata al tema della poverta, il Compendia degli errori del papa Giovanni XXII. Le opere scritte successivamente al 1338 sono dedicate ai rapporti tra potere temporale e potere spirituale: il Trattato sul potere imperiale, il Dialogo tra maestro e discepolo, Sul potere papale ed imperiale.

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che l'ordine posto dall'uomo nello stabilire i termini sostitutivi delle cose. Le categorie aristoteliche non sono, come presumeva il filosofo, modi di essere, sono modi di pensare e piu precisamente sono modi di cui si serve Ia volonta per rendere comunicabile tra uomo e uomo l'esperienza. E qui Ia novita fonda­mentale dell'occamismo: nella separazione tra la realta come e in se e i termi­ni o i segni con cui Ia esprimiamo.

12.9 La gnoseologia. L'universo e fatto, dunque, Secondo Occam, di 'cose' singolari, contingenti, giustapposte, che si possono cogliere solo in quella for­ma di conoscenza che egli chiama intuitiva, distinguendola dalla conoscenza astrattiva. L'intuizione puo essere sensibile o intellettuale, a seconda che colga le cose sensibili o le intelligibili, del genere di quelle che sperimentiamo in noi stessi, come gli atti di volonta o d'intelletto, Ia gioia, Ia tristezza e cosi via. La conoscenza astrattiva si riferisce invece non aile intuizioni rna ai rapporti tra le intuizioni.

Ebbene, la conoscenza intuitiva e Ia prima tra le due, non solo perche il particolare viene conosciuto prima dell'universale, rna perche e l'unica cono­scenza che ci mette a contatto col reale e ci permette di stabilire se esso esista o no, quali sono le qualita propriamente sue e- quali no. Essa non e appena il punta di partenza della conoscenza' sperimentale, e ne piu ne meno che la co­noscenza sperimentale nel suo atto compiuto. L'altra conoscenza, quella astrattiva, si fonda sulla prima sia per mettere in evidenza i tratti comuni a piu cose individuali, sia per considerare un aspetto della realta a prescindere dal fatto che esso esista o no, e cosi costruire le proposizioni universali in cui consiste Ia scienza. Resta inteso, pero, che queste proposizioni sono 'finzioni' dell'intelletto che si applicano all'oggetto in quanta 'rappresentato' e non in quanta esistente realmente.

II genere espresso dal predicato non designa una identita reale tra cose di­verse, designa una semplice comunanza di segno tra di !oro. Come Abelardo, Occam afferma il carattere individuale e indivisibile del reale (10.6}, rna in questa affermazione va al di Ia di Abelardo, in quanta esclude dal reale ogni presenza dell'universale come distinto dalla sua realta individuale. Egli rifiuta percio il realismo in tutte le sue forme, a cominciare naturalmente da quello platonico, riproposto dalla corrente agostiniana, che si contenta di duplicare le cose con­notandole, data Ia loro funzione esemplare,· del termine di 'idea'. Contra i pla­tonici hanna ragione gli aristotelici: il mondo reale basta a se stesso ed e al suo interno, non al di sopra, che vanno ricercate le leggi che lo governano. II torto degli aristotelici e dei !oro seguaci arabi non e di aver fatto dell'essere l'oggetto della metafisica, e di averlo collocato dentro gli individui rna senza accorgersi che ·nell'individuo l'essere si singolarizza, si riduce all'esistente, proprio a quell' esistente-individuo che ci e dischiuso dalla conoscenza intuiti­va. Duns Scoto aveva con testata la distinzione reale pasta da Aristotele tra l' es­se essentiae e !'esse existentiae, tra l'essenza e l'esistenza, tra l'universale e l'in­dividuale, rna aveva salvato Ia distinzione formate, quella che ha fondamento nel soggetto conoscente. La distinzione formale lasciava in qualche modo so­pravvivere, nell'ordine oggettivo, una differenza tra la natura indeterminata e l'ecceita. Anche questo residuo di realismo viene rigettato da Occam. Tra il

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fatto di pater essere attribuito a pili soggetti (definizione dell'universale) e il fatto di non pater essere attribuito a pili soggetti (definizione dell'individuale) c'e una contraddizione che non consente nessuna mediazione. Dalla contraddi­zione non si esce che negando senza mezzi termini l'universale: il concetto e estraneo aile case come il suono delle parole con cui si chiamano.

12.10 II nominalismo occamista. Sembrerebbe di pater dire, a questa pun­to, che per Occam il concetto non e niente piu che un suono di parola, un fla­tus vocis, come voleva Roscellino (10.5). Ma il sottile dialettico non accetta di far gruppo con i nominalisti puri, secondo i quali niente c'e di universale per natura e niente c'e di universale per istituzione arbitraria dell'uomo, cioe al modo stesso in cui, per convenzione, una parola e universale. In questa secon­do sensa l'universale esiste, per Occam. Solo che il suo luogo di esistenza e lo spirito dell'uomo e il suo modo e quello di una intentio animae, di una inten­zionalita che si esprime mediante un determinate segno riferito alle case. Oc­cam distingue una intenzione prima, quella inerente ad una parola che designa una cosa e una intenzione seconda, quella inerente ad una parola che designa non una cosa, rna i segni delle case e le lora reciproche relazioni. A che si ri­duce insomma l'universale? Ad una parola che funge da sostituto mentale (da 'supposizione', come si e detto sopra) delle case, da simbolo, da etichetta con cui classificare gli individui o i nostri punti di vista sugli individui senza pe­raltro pater prendere contatto effettivo con essi. Non facciamo normalmente uso, forse, di schemi mentali da noi stessi costruiti per meglio accogliere ed intendere Ia realta? Per quanta sottile, c'e dunque una differenza tra Occam e i nominalisti alla Roscellino: per lui l'universale non e una pura finzione, e una qualita reale del soggetto, un atto dell'intelletto, teso (intentus) verso l'og­getto, un atto a cui corrisponde o potrebbe corrispondere qualche cosa che nell'ordine della realta gli rassomiglia.

Ma questa realta extramentale non potrebbe anch'essa dissolversi nella pu­ra inconsistenza? 0 quanta meno restare del tutto inconoscibile, priva com'e di un nucleo essenziale proporzionato ai concetti della mente? Interrogativi come questi nasceranno nel futuro. Occam rimane fermo nella convinzione dell'esistenza della realta esterna in base alla sua dottrina della conoscenza in­tuitiva che, come si e vista, e per lui una conoscenza pili vera di quella astrat­tiva. E tuttavia non c'e dubbio che la gnoseologia di Occam porta in se una in­vincibile tendenza verso il soggettivismo. Fondata com'e sull'universale astrat­to (o, come lui dice, sulla 'supposizione semplice') la scienza non ha nessuna presa sulla realta: le leggi, le cause, i ~neri e le specie non sono che segni, senza vere e proprie relazioni con le case a cui si riferiscono. Per quanta si muova, l'intelletto umano si muove dentro una trama di rappresentazioni che non hanno mai contatto col reale in se, al punta tale che Dio potrebbe - cosi Occam, anticipando quelle che saranno le posizioni degli occasionalisti (II.S.ll) - suscitare in noi una conoscenza intuitiva senza nessun bisogno che ci sia, presente ai nostri sensi, 1 'oggetto corrispondente.

12.11 La fine della metafisica. Come ogni altra nozione, anche quella di es­sere e una costruzione della mente. Diventa dunque non solo impossibile far-

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ne, alia maniera di Scoto, la nozione cerniera, in virtu della sua univocita, tra il mondo della molteplicita e la realta di Dio, rna anche usarne come di una nozione analogicamente applicabile aile realta sensibili e all'essere assoluto, secondo il metodo tomistico del passaggio dalle creature al Creatore. Dio di­venta del tutto inaccessibile alla ragione, nel senso che non possiamo dedurne l'esistenza a partire dall'idea che ci facciamo di lui e nemmeno indurla a parti­re dall'esperienza della catena delle cause e degli effetti. L'idea che ci faccia­mo di Dio non ha nessuna intrinseca necessita, visto che la sua origine e l'arti­ficio e visto che la serie dei fenomeni che noi denominiamo effetto e causa po­trebbe benissimo essere una serie infinita, senza necessita di fermarsi ad una causa prima. Indimostrabili, alia pari della sua esistenza, sono gli attributi con cui la tradizione scolastica riteneva possibile una conoscenza analogica di Dio. I molti attributi perdono totalmente di senso una volta che siano applicati alia perfezione di Dio, assolutamente semplice. Quando attribuiamo a Dio l'infinita, 1' onniscienza, la giustizia e cosi via, noi non possiamo fondare que­sta descrizione dell'essenza di Dio su nessun argomento. Di Dio conosciamo solo quanto ci viene rivelato per fede. La ragione come tale non puo superare Ia soglia dell'agnosticismo. AI di la di quella soglia, c'e anche un'altra verita metafisica, quella dell'anima, intesa come principio spirituale non corruttibile. Alia pari dell'esistenza e della natura di Dio e della creazione del mondo, an­che l'immortalita dell'anima e una verita di fede, non di ragione.

E vero, sl., che, una volta accettata per fede l'onnipotenza di Dio, se ne po­trebbero dedurre, per via di ragione, non poche verita relative all'uomo e al mondo fisico. Ma Occam, coerente con i propri principi, rifiuta di applicare all'azione di Dio qualsiasi Iegge, fosse pure quella, a cui faranno ricorso i me­tafisici del Seicento, che Dio sceglie sempre le vie piu semplici. Non c'e nessu­na 'ragione' che possa vincolare a se la volonta di Dio. La teologia tradizionale poggiava su due pilastri: Ia ragione divina, quale fondamento della ragione delle cose; Ia ragione umana, capace, proprio perche partecipe della ragione divina, di condscere Ia ragione delle cose. II 'rasoio' di Occam recide anche questi vincoli, su cui si tenevano simmetricamente salde Ia compagine delle idee e quella delle cose.

Infatti, non avendo Ia nostra ragione nessun fondamento oggettivo ne nelle idee eternamente presenti nella mente di Dio, ne nelle essenze immanenti aile cose, ogni passaggio dal finito all'infinito, dal relativo all'assoluto e intercetta­to, sia nell' ordine del conoscere che nell' ordine dell' agire. I prind pi basilari del duplice ordine, compresi i trascendentali Essere, Vero, Buono, non sono che costruzioni umane. La nostra volonta si trova a dover agire senza determi­nazioni oggettive, rimessa aile proprie stesse risorse che sono di una liberta da nulla limitata. Nell'assenza di una 'verita in se' e cioe di un Bene in se, la forza obbligante ricade totalmente nella volonta di Dio. L'omicidio, il furto, l'adulterio sono comportamenti cattivi per ragioni estrinseche e cioe per deci­sione di Dio, il quale, non soggetto a nessuna ragione e nemmeno ad una sua essenza, avrebbe potuto comandare l'odio invece dell'amore, cosi come avreb­be potuto incarnarsi in un asino invece che in un uomo.

La differenza ira il bene e il male poggia su di un semplice decreto di Dio, che di per se avrebbe potuto creare un ordine contrario a quello esistente. Lo

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stesso si dica dell' ordine metafisico: tutte le cose, essendo l' effetto di un atto libero del creatore, sono contingenti, in se stesse e nei loro rapporti reciproci. Niente di necessaria nell'essere ciascuna quello che e, ne nel sistema di rela­zioni che le lega tra loro. Cade nel nulla, cosi, la trama della necessita che era il punto d'appoggio della ragione metafisica, i cui passaggi logici sono guidati appunto dalla legge della necessita. Vista nei suoi termini ultimi, la realta non e altro, da una parte, che l'adorabile rna incomprensibile onnipoteriza di Dio, e, dall 'altra, un insieme di innumerevoli individui che sono conoscibili so !tan­to per intuizione, rna non consentono nessuna rappresentazione sistematica, fuori che quella che la volonta decide di costruire per ragioni pratiche e che proprio per questo non riflette il vero essere delle cose. Confrontato con quel­lo di Scoto il volontarismo di Occam e davvero assoluto, cosi come assoluto e in lui, nei riguardi della realta ultrasensibile, il ruolo della fede, dato che essa esclude di sua natura la mediazione della ragione teologica.

12.12 II pensiero politico. Le vicende biografiche di Occam sembrano tra­scrivere, sul piano dei fatti vissuti, il destino dell' ordine cosmico che fino al suo secolo era stato come lo specchio in cui il contemplativo amava osservare se stesso e Dio. Ormai lo specchio si e spezzato e con lo specchio si sono in­frante le armonie celesti e quelle terrene. Esponente del gruppo dei francesca­ni irriducibili, fattosi paradossalmente, in nome di Madonna Poverta, avvocato dell'imperatore contro i Papi, 'fra Guglielmo' segue Lodovico il Bavaro nelle sue peregrinazioni ispirandogli l'intransigenza antipapale, a cui per suo conto rimane fedele anche nei momenti in cui l'imperatore si mostra disposto a trat­tativa. Nel sostenere, contro le ingerenze del Papa, la piena autonomia dell'Im­pero, Occam e convinto di mettere in atto la sua strategia di una riforma della chiesa, fondata sulla Scrittura e, come lui dice, sull' «evidenza della ragione». Proprio in base alla Scrittura e alla ragione, Occam rifiuta di sottomettere «la fede trasmessa da Cristo e dagli apostoli» aile pretese di correzione da parte di tiranni che <<per la pili grande sventura dell'universo, cosi egli scrive nel Breviloquium, si vantano di sedersi sui trono di Pietro».

Il vero bersaglio di Occam non sono i papi, e la concezione teocratica della chiesa che ha generato tante sventure, sia alla comunita dei credenti che alla comunita civile. Il Papa non e un dominator rna un ministrator: attribuirgli, ad esempio, l'infallibilita e cadere nella peggiore delle eresie. Le promesse di Cri­sto sulla sua presenza indefettibile riguardano la chiesa nel suo insieme, la <<totalita dei fedeli>>, alia quale tocca, con l'aiuto dell'imperatore, provvedere a riformare, secondo la legge evangelica.; le dottrine, le scritture, i costumi della visibile comunita cristiana. Anche qui si fa valere in Occam il primato della fe­de, come egli lo intende, e cioe senza nessuna premura di mettere in armonia fede e ragione. Una volta infranta la conciliazione fra fede e r:agione, obiettivo primo della sintesi tomistica, Occam si trova a fare sue, per un verso, le posi­zioni averroistiche della doppia verita, rna per l'altro, avendo rigorosamente ridotto }'ambito del sapere razionale nei confini dell'intuizione sensibile ed avendo esaltato, nella sfera sua propria, la sufficienza della fede a se stessa, egli si e lasciato aile spalle l'intera problematica connessa sia al tomismo che all'averroismo Iatino e ha costruito le premesse delle grandi svolte che - sia

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nella chiesa, con Lutero, sia nella cultura in generale, con la rivoluzione scien­tifica - si sarebbero avverate due secoli dopo.

Un'evidente implicazione politica della dottrina occamista sui rapporti fra ragione e fede e infatti il ripudio di quella che era stata la pietra di volta della cristianita medioevale e cioe la corresponsabilita tra i due supremi poteri, quello spirituale e quello temporale, comunque poi venissero determinati i rapporti tra l'uno e l'altro. E proprio la nozione di potere che Occam espelle dalla visione della chiesa, la cui unica legge e la parola di Dio. Per quanta ri­guarda la sfera visibile dell'esistenza, tutto rientra nella giurisdizione del pote­re civile, e cioe, in concreto, dell'imperatore. E qui Occam cessa di essere un rivoluzionario perche fa sue le tesi ghibelline Secondo Je quali )'impero e nato prima della chiesa e fu trasmesso dai Romani ai Franchi e finalmente ai Ger­mani. La sovranita dell'imperatore e del tutto autonoma da investiture di ori­gine spirituale: chi la esercita, ne risponde direttamente a Dio.

E bene ricordare che Occam non ha mai affrontato in modo sistematico questi temi, che pure furono al centro della cultura del suo secolo. Di qui al­cune incertezze nel ricostruire le sue tesi politiche. La sua riflessione traeva alimento, piu che da esigenze sistematiche, da indignazioni morali che mal si conciliavano con l'insegnamento di Francesco d' Assisi a cui peraltro il france­scano Guglielmo si rifaceva. Fu proprio sulla spinta di questa passionalita che egli si trovo, nella sua Iotta contra il papato, fianco a fianco con Marsilio da Padova, del quale non condivideva l'aspirazione apertamente averroistica. Le persecuzioni da parte del Papato, invece che turbarlo, alzavano il tono della sua perorazione della pura fede, cosi sufficiente a se stessa che si sarebbe sal­vata dalla contaminazione mondana favorita dal papato, anche se a vivere la sua verita fossero rimasti, con lui, qualche 'ignorante' e qualche 'vecchierella'. Quando il papa Clemente VI nel 1349 voile riconciliarsi col gruppo dei france­scani dissidenti, Guglielmo, che ne era stato un leader, era morto da poco, non sappiamo se pienamente riconciliato col suo ordine. Ed anche quest'ombra contribuisce a dargli il profilo del testimone di un tramonto, piu che del profe­ta di un'aurora.

II tramonto del Medioevo

12.13 II crollo delle istituzioni universali. Nei primissimi anni del Trecento, due sommi rappresentanti del medioevo, Duns Scoto e Dante Alighieri, presso a poco coetanei, sono impegnati nella composizione dei lora capolavori, !'Opus oxoniense e la Divina Commedia. E proprio il caso di applicare una famosa immagine: l'uccello di Minerva, la civetta, prende il vola sui calar della sera. E cioe le sintesi piu compiute della spirito del medioevo nascono quando ormai il medioevo e in declino. Che sia in declino lo mostrano, proprio in quegli anni, le vicende della massima istituzione della cristianita medioevale: le ambizioni

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teocratiche di Bonifacio VIII (1294-1303) si capovolgono nella 'cattivita avigno­nese' (1309-1378) e cioe nella spostamento della sede di Pietro in terra di Fran­cia, fuori dei confini di quel Sacra Romano Impero che alla fantasia di Dante appariva ancora come un <<termine fisso di eterno consiglio». Bonifacio VIII, salito sulla cattedra di Pietro dopa che se ne era ritirato con orrore l'asceta Celestino V, aveva ritenuto possibile dare attuazione all'egemonia papale che da piu di due secoli i suoi predecessori avevano perseguito, convinti che sui primato anche politico dei papi poggiasse la pace dell'universo. Un solo Dio, una sola cristianita, un solo Papa: il genio deduttivo del medioevo aveva qui il suo asse portante. L',asse aveva un suo punta di frattura la dove di necessita si doveva innestare un'altra istanza autoritaria, quella dell'imperatore, titolare indiscusso del potere temporale. Secondo la formula di Papa Gelasia (492-496) « sono due le potesta dalle quali e retto principalmente questa mondo: auctori­tas sacrata pontificum et regalis potestas, Ia sacra autorita dei papi e il potere regale>>. La distinzione e insieme la convergenza dei due poteri erano i punti fermi della visione politico-religiosa del medioevo. Il dissidio nasceva, senza pregiudizio per la cornice del quadro, quando si trattava di stabilire quale fos­se, nella determinazione concreta della legittimita e degli ambiti dei due pote­ri, la suprema istanza dirimente. Possiamo distinguere, su questo punto, tre tappe diverse nello svolgimento delle teorie teocratiche, prima che, nel Trecen­to, entrassero in totale collisione con la realta delle cose.

1. Il Dictatus papae (1075) di Gregorio VII, l'atto di nascita della teocrazia, stabilisce il primato giuridico del papa in un contesto storico particolare: quello in cui gli imperatori, per un privilegio invalso nel secolo precedente, si arrogano il compito di scegliere e di consacrare i vescovi, trasformandoli in feudatari e quindi integrandoli, con totale manomissione del loro compito pa­storale, nella piramide della organizzazione politica. La questione viene risolta con un compromesso nel concordato di Worms (1122), che riconosce alla chie­sa la piena liberta nello scegliere e nel consacrare i vescovi.

2. Con la bolla Venerabilem (1202), l'altro grande papa teocratico, Innocenzo III, rivendica il diritto della chiesa di pronunciarsi nella scelta dei candidati alla carica di Imperatore. Il contesto e mutato ormai, perche la cristianita, che si estende anche oltre i confini del Sacro Romano Impero, segue linee di cre­scita non piu subalterne all'impero: basti pensare aile monarchie di Francia e di Inghilterra. Il papa assegna a se stesso il compito di supremo giudice nelle vertenze internazionali, basando questa sua pretesa su di uno specioso argo­menta: i patti vengono sanciti con giuramenti, e cioe dinanzi a Dio, rna il vicario di Dio suJ.ia terra e il papa, dunque tocca al papa farsi vindice visibile dei patti.

3. La bolla Unam Sanctam (1302) di Bonifacio VIII riesuma gli argomenti teocratici in un orizzonte ormai totalmente diverso. Intanto, come membro della famiglia Caietani prima, e poi come sovrano dello stato pontificio, Boni­facio VIII si era lasciato coinvolgere in uria politica particolaristica che mal si conciliava con le sue proclamazioni di universale premura per l'umanita. Nei fatti egli si comportava come uno dei principi della nostra penisola; basti ri­cordare il suo contrasto con Firenze, governata dai Bianchi: fu lui a favorire il golpe dei Neri di cui fu conseguenza l' esilio di Dante. In secondo luogo, il po­tere politico con cui egli dovette confrontarsi non era piu quello imperiale, era

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quello della nuova monarchia francese, retta da Filippo il Bello (1268-1314). Ma soprattutto era cambiata Ia societa, perche la piramide feudale dei tempi di Gregorio VII era stata messa a soqquadro dallo sviluppo e dalle conseguenti autonomie del ceto borghese, nato dalle nuove forme di economia e dalla mol­tiplicazione dei ruoli professionali. Per constatare con chiarezza le implicazio­ni di questo cambiamento basta osservare quanto avviene, in questi primi anni del Trecento, nella Francia dei Capetingi. Non essendo possibile fondare il po­tere del re di Francia su inesistenti investiture imperiali o pontificie, i legisti ligi alla monarchia elaborano una dottrina che riconduce l'investitura al popo­lo. Vedremo tra poco come agli stessi argomenti, del tutto sciolti da pregiudi­ziali teologiche, dovranno far ricorso i difensori del potere imperiale. E non si tratta di pure astuzie giuridiche. La societa europea non entra piu nell'ambito teocratico. Avviene fin d'ora quel che avverra in maniera piu larga nel secolo successivo, secondo il pronostico di Nicola Cusano: «Come i principi divorano l'impero cosi il popolo divorera i principi». II popolo e il nuovo soggetto che si introduce nelle vecchie dispute e chiede soluzioni nuove.

Anche le universita rivendicano, dinanzi alia Santa Sede, la loro autonomia, perche sempre pili interne agli orizzonti nazionali, con non poco danno, e do­veroso dirlo, per la !oro liberta amministrativa e culturale. Contro gli antichi (antiqui), fossero tomisti o scotisti, si sollevano i moderni (nominates, termini­stae, moderni) che, alla maniera di Occam, e spesso con maggiore radicalismo, sottraggono la ragione al vincolo della fede e la volgono all'esercizio della ri­cerca empirica e della critica delle tradizioni.

I luoghi di elaborazione della nuova cultura saranno sempre pili i centri mercantili d'Italia, di Francia, dei Paesi Bassi e della stessa Germania, nei quali affluira una ricchezza d'altra natura che quella in cui trovava sostegno la feudalita fondiaria, ecclesiastica o laica, una ricchezza che porta con se for­me di organizzazione del tutto nuove- si pensi aile Arti fiorentine- che pre­suppongono e incentivano una nuova razionalita. L'umanesimo e aile porte.

In apparenza antagonista alia chiesa teocratica, l'impero ne segue in realta le sorti, perche esso altro non e che il secondo apparato della christianitas, con questa di proprio, che il suo universalismo non ha mai avuto vero signifi­cato al di fuori del mondo germanico. La spedizione di Arrigo VII (1310-1313) in Italia, miseramente fallita, desto !'ultima fiammata dell'utopia ghibellina: quando il giovane imperatore mori avvelenato a Buonconvento, il papa era 'pri­gioniero' nel suo castella di Avignone, una prigione scandalosamente aurea.

Ma il ludibrio del papato non giovava affatto alle sorti dell'impero, ormai sempre pili remoto dalla coscienza comune. Inutilmente Lodovico il Bavaro (1287-1347) tento di ricostruirne la solidita e il prestigio circondandosi di intel­lettuali di prim'ordine, come Occam e come Marsilio da Padova. Le lotte con chi gli contendeva il titolo imperiale e il braccio di ferro con i Papi (Giovanni XXII lo scomunico) lo costrinsero a continue peregrinazioni. I sogni di gran­dezza avevano in lui, nonostante l'oltranzismo laico dei suoi illustri consiglie­ri, un vincolo nostalgico con l'ideologia originaria del Sacro Romano Impero: nel 1328 in Roma si fece incoronare imperatore in nome del popolo romano ed elesse per suo conto un antipapa, Niccolo V. Dopo la sua morte, il successore Carlo VI emano la Bolla d'oro (1356), che escludeva per sempre ogni ingerenza

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del papa nell'elezione dell'imperatore: da allora, le due istituzioni avrebbero affrontato separatamente il proprio destino. Del resto la chiesa, prostrata dal­la lunga stagione avignonese e lacerata da reiterati scismi interni, avra ben al­tri problemi da affrontare che quelli derivati dal Dictatus di Gregorio VII.

12.14 L'utopia di Dante Alighieri. Fu proprio per disporre gli animi ad ac­cogliere Arrigo VII come un inviato da Dio per ristabilire la pace nella cristia­nita, anzi nel mondo, che Dante Alighieri (1265-1321), sviluppando tesi che ave­va gia esposto nel suo Convivio, scrive il piu organico dei suoi trattati, la Mo­narchia. Niente di veramente originale nel pensiero del grande poeta. Anche per lui, com' era nella tradizione aristotelica rinnovata da Tommaso d' Aquino, i due poteri, quello temporale e quello spirituale, hanna fondamento nei due fini che l'uomo e chiamato a realizzare: la felicita temporale e la felicita eter­na.

Per questa furono necessarie all'uomo due guide, in relazione al suo du­plice fine, e cioe il Sommo Pontefice, che, secondo la verita rivelata, condu­cesse gli uomini alla vita eterna e l'Imperatore che, secondo gli insegnamen­ti dei filosofi, indirizzasse il genere umano alia felicita in questa vita.

Ma mentre - proprio in base a questa duplice fine, di cui uno e assoluto, perche riguarda l'eternita, l'altro e relativo, perche interno al tempo - Tom­maso stabilisce, dopo la distinzione, anche la subordinazione del temporale al­lo spirituale, Dante rifiuta ogni soggezione dell'Imperatore al papa, fuori che quella puramente reverenziale che «Un figlio primogenito deve avere peril pa­dre». Quanta all'autorita, e ben chiaro che quella del «Monarca temporale di­scende in lui senza alcun intermediario, dal Fonte dell'autorita universale>>. E siccome il senso unitario del destino dell'uomo sulla terra e la pace, tocca all'Imperatore, dotato di autorita politica, coordinare e tradurre in realta le aspirazioni del genere umano. La chiesa non ha compiti politici nemmeno indi­retti. Piu che, come qualcuno ha pensato, alle influenze del dualismo averroi­stico tra verita di fede e verita filosofica, l'antitemporalismo di Dante si rifa esplicitamente alla consegna evangelica di Gesu, che ha voluto la sua chiesa sgombra di ogni ricchezza e di ogni potere terreno. Le invettive dantesche con­tra la donazione di Costantino, che lego la chiesa, con un atto illegittimo, al gravame terreno del potere politico e la sua esaltazione della poverta di Fran­cesco d'Assisi come qualita che doveva essere della chiesa, sposa di Cristo, fanno di Dante un testimone singolare della linea ecclesiologica francescana, che avra nd Trecento il suo avvocato intransigente, lo abbiamo gia visto, ·in Guglielmo Occam. In sostanza, non erano lontani dal vero quei teorici della laicita della politica che in questi ultimi secoli hanno additato in Dante un lo­ro precursore. La sua perorazione dell'autorita imperiale, infatti, piu che co­me anacronistica devozione per una forma politica priva ormai di aderenza al­Ia storia, va intesa come affermazione del principia formale su cui e fondata la potesta politica che e l'«insegnamento dei filosofi», come dire la ragione. L'impero, per Dante, piu che una realta geografica e la fonte di tutti i poteri subalterni, alternativa a quella che Innocenzo III aveva ritenuto di poter riven­dicare al papato.

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Ma in un secondo senso il grande testimone del Medioevo moribondo e an­che un profeta che allude a tempi nuovi. La sua Commedia proietta sui grande schermo della escatologia cristiana la vicenda della coscienza umana in viag­gio verso la propria redenzione. Il papa e l'imperatore non sono che ministri di un ideale, duplice e indivisibile, di pace terrena e celeste, rna il protagonista di questo ideale e il singolo uomo che Iotta in solitudine contro le insidie del male ed e, anche come singolo, responsabile del destino universale dell'umani­ta. La modernita di Dante e in questo respiro niente affatto 'monacale', rna pubblico e universale, con cui l'individuo soffre, ama e Iotta dentro la storia di tutti. Lo strettissimo nesso tra il privato e il pubblico, tra salvezza dell'anima e salvezza del mondo, tra giustizia morale e giustizia politica fa di Dante un uomo aperto al futuro, nel senso che domina in lui la passione per la costru­zione della ci tta dell'uomo. In questo senso, l' altro grande poeta i taliano delle origini, Francesco Petrarca, anche lui coinvolto nelle vicende del crollo delle istituzioni, rna interamente chiuso nel cerchio delle sue vicende interiori e pa­go della sua capacita di specchiarsi nelle trasparenze dell'an.ima e nel trascolo­rare delle stagioni, e meno moderno o meglio e pili congeniale a quel tipo di modernita che identifica l'autenticita dell'uomo col vivere ai margini della sto­ria. Ne diremo qualcosa proprio in apertura del secondo volume.

12.15 L'intellettuale come operatore ideologico. L'anacronismo di Dante e, formalmente, nel fatto che egli ancora assume la distinzione gelasiana (12.12) come adatta ad inquadrare una problematica che ormai ha ragioni di fatto to­talmente nuove. Il contrasto fra Bonifacio VIII e la monarchia francese e poi il lungo esilio della Curia romana in terra straniera favoriscono la radicalizza­zione estremistica delle tradizionali posizioni, rna anche la presa di coscienza che ormai i rapporti tra sacerdotium e imperium vanno impostati in modo nuovo. E cosi avviene, infatti, lungo il secolo. La riflessione e il pubblico dibat­tito si allontanano sempre piu dagli orizzonti delle utopie universalistiche e si concentrano su quelli che saranno in seguito i temi tipici del discorso politico, come Ia forma con cui organizzare il potere, la base della sua legittimita, i suoi rapporti con l'ordine morale e cosi via. In qualche modo si ritorna al mo­dulo aristotelico, in cui l'oggetto politico era visto nei confini della sua specifi­cita, senza interferenza con quadri d'esistenza di altra natura. Nasce cosi la fi­gura che oggi diremmo del 'politologo', del pubblicista che mette Ia sua rifles­sione e la sua penna al servizio di una causa concreta, con minore o maggiore liberta di giudizio e di comportamento, rna sempre a diretto contatto con levi­cende pubbliche, se non addirittura con gli stessi suoi protagonisti.

Pur nel quadro della tematica teocratica, fa uso di uno spregiudicato ari­stotelismo il massimo consigliere di Bonifacio VIII, il cardinal Egidio Romano (1247-1316). La sua opera De ecclesiastica potestate (Del potere ecclesiastico: pubblicata soltanto nel 1908) e talmente simile in alcuni passi alia bolla Unam Sanctam da far supporre, essendo i due scritti dello stesso arino, che anche il documento pontificio sia di mano del cardinale giurista. II trattato di Egidio, di impianto deduttivo, prende le mosse dal principio aristotelico che, secondo natura, cio che e inferiore deve essere regolato da cio che e superiore, il mate­riale dallo spirituale. Come nei cieli i movimenti dei corpi sono governati da

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intelligenze motrici, cosi «in terra tutti i poteri terreni dovrebbero essere gover­nati e diretti dall'autorita spirituale ed ecclesiastica e specialmente dal papa».

L'altro concetto chiave del trattato e quello del dominio. Il 'dominio', e cioe il possesso dei beni e del potere, e un mezzo il cui valore dipende dal fine per cui e usato. L'unico fine degno dell'uomo e quello della salvezza eterna, per la quale la chiesa e la via necessaria. Ne deriva che ogni dominio trae legittimita dalla santificazione di cui la chiesa e ministra. Chi non ha il battesimo, Rd esempio, non ha titolo legittimo di dominio: se ne ricorderanno i conquistadO­res spagnoli quando prenderanno possesso delle proprieta degli indios col pre­testa che, essendo i possidenti senza battesimo, i loro beni erano totalmente disponibili al primo occupante purche battezzato. Per lo stesso motivo, la sco­munica del papa annulla ogni patto o contratto connesso a] dominio, si tratti di un matrimonio o della corona regale. Questo assolutismo teocratico trova il suo pieno sigillo nella teoria della plenitudo potestatis: gli argomenti di Egidio preludono a quelli che nel seicento saranno usati in difesa della monarchia as­soluta. La potesta e piena quando e in grado di fare a meno di ogni collabora­zione, anche di quella di cui ordinariamente fa uso. Una simile potesta ce l'hanno soltanto Dio e il Papa, che di Dio e vicario in terra. In quanto tale, egli si serve dei vescovi, rna potrebbe anche farne a meno. Il Papa e fans juris, fon­te del diritto, nel senso che ogni legge trova legittimita in lui, che, per suo con­to, e al di sopra di ogni Iegge.

Molto piu rigoroso era l'aristotelismo di Giovanni da Parigi (1260-1306) che, pur essendo un domenicano, prese le difese di Filippo il Bello. Intanto, libe­randosi da indebite commistioni di finalismi tra loro diversi, egli riconosce, si, l'universalita della chiesa rna afferma che il potere politico concreto none mai universale, e sempre particolare. Il potere temporale c'era prima che la chiesa ci fosse e dunque le basi della sua legittimita non possono poggiare su princi­pi o su realta derivate dalla Rivelazione. Fedele in questo alia tradizione dome­nicana, Giovanni ripone la validita di un governo politico nella qualWt etica delle sue scelte. Con simili premesse era naturale che Giovanni da Parigi ripu­diasse la tesi di Egidio sul diritto del Papa anche sui beni temporali degli indi­vidui e dei principi. Anche se la chiesa ha sicuramente bisogno, contro quanto affermano i 'valdesi', dei beni materiali, non ha su di essi nessun dominio ri­servato: nei loro confronti essa e soggetta alle leggi poste dall'autorita tempo­rale. E cosi e senza fondamento la tesi sulla plenitudo potestatis del papa, non solo riguardo alla sfera direttamente politica, rna anche all'interno della chic­sa. La pienezza di potere risiede nella chiesa in quanto comunita. Altrimenti, dove andrebbe a rifugiarsi il potere durante l'intervallo tra la morte di un. pa­pa e l'elezione del successore:1

Quel potere e nella chiesa intesa come una 'corporazione': ecco perche un papa indegno puo essere anche deposto da un Concilio.

12.16 Marsilio da Padova. L'autorita dei Pontefici non era pili in grado di porre un argine ad una coalizione intellettuale cosi prestigiosa e cosi aggressi­va, che contava tra i suoi leaders, oltre che Giovanni da Parigi, anche Dante Alighieri e Guglielmo Occam. Giovanni XXII, che aveva scomunicato i france­scani intransigenti, del cui gruppo faceva parte Occam, nel 1329 fece gettare

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12- Il tramomo del Medioevo 0 439

pubblicamente alle fiamme dal suo legato Bertrando Dal Poggetto la Monar­chia di Dante. Due anni prima era stata la volta di Marsilio da Padova*, che a Parigi, nel 1324, aveva pubblicato il Defensor pacis. Sotto la minaccia della condanna ecclesiastica, effettivamente pronunciata nel 1327, egli fuggi da Pari­gi per trovare rifugio presso l'imperatore Lodovico il Bavaro, che proprio in quegli anni cercava ogni via per ottenere la corona imperiale. Le tesi di Marsi­lio erano fatte al suo scopo: la malinconica scenografia romana dell'incorona­zione del 1328 (12.13) si ispiro largamente al Defensor pacis. Quando il Bavaro, incalzato dagli angioini, nonostante la sua corona, dovette riguadagnare la Germania, aveva al suo seguito oltre che Marsilio anche Guglielmo Occam, i due massimi intellettuali del tempo. Evidentemente la scomunica non aveva pili gli effetti che ebbe quando ne fece uso, contra un altro imperatore, il papa Gregorio VII. Dei due intellettuali, accomunati nella lotta antipapale, Occam era in buona misura ancora radicato nelle passioni religiose del medioevo (il suo rigetto della chiesa ricca e potente si nutriva anche ad una limpida vena francescana). Marsilio, sebbene monaco, era pili radicalmente laico e proprio per questa in largo anticipo sui tempi.

Cia si spiega anche con la sua appartenenza alia corrente averroistica dell'aristotelismo che, come si e visto, dominava la Facolta delle arti di Parigi, dove egli aveva insegnato insieme al massimo rappresentante all'averroismo parigino, Giovanni di Jandum. Senza dire che anche l'universita di Padova, do­ve aveva studiato, era per suo canto un focolaio averroistico molto importan­te, forse il secondo d'Europa. La teoria della doppia verita sgombrava il cam­po a Marsilio da ogni problematica sui rapporti tra poten:· spirituale e potere temporale. Quello della fede, e dunque quello della chiesa, e un mondo cosl 'diverso' che, in rapporto a quello terreno dello Stato, non pone esigenze di ar­monizzazione o di confronto dialettico: e semplicemente non esistente. Ma sic­come di fatto la chiesa costituisce un motivo costante di discordia nella socie­ta civile, si tratta - cos! ragiona Marsilio - di mettere in chiaro la questione una volta per sempre. E a questo scopo quale via migliore che rifarsi alia Poli· tica di Aristotele e precisamente a quella sua parte che tratta delle cause delle rivoluzioni e delle discordie civili? Naturalmente Aristotele non poteva preve­dere che tra queste cause ci sarebbe stata la presenza della chiesa teocratica. Marsili a si presenta come co lui che integra l' opera del filosofo precristiano, adottando lo stesso metodo, quello dell'analisi della societa civile intesa come

Ma,rsilio da Padova. Marsilio Mainardini nasce intorno al 1275 a Pado­va dove studia medicina e si dedica alla filosofia naturale. Per circa un biennia (1312-1314) riveste la carica di rettore dell'Universita parigina. Per­sonalita di prima piano nel conflitto che si svolge in quegli anni tra il pa­pato avignonese e Ludovico il Bavaro, prende posizione a favore dell'impe­ratore tedesco, divenendorze consigliere, e rimane al suo seguito per tutta la vita, godendone la protezione e la fiducia. Al 1324 risale il Defensor pa­cis (Il difensore della pace), ritenuta l 'opera di filosofia politica piu impor­tante nel Medioevo.

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440 0 12 -ll tramonto del Medioevo

comunita autarchica, e cioe dotata di principi suoi e di sue proprie leggi. Pili che il Sacro Romano Impero, Marsilio sembra avere sott'occhio Ia citta comu­nale del medioevo, di dimensioni non diverse, d'altronde, da queUe della citta conosciuta e teorizzata da Aristotele. In ogni caso le conclusioni raggiunte da Marsilio nell'esame dell"essenza' della politia erano assumibili per qualun­que realta sociale 'autarchica', si trattasse del comune italiano, della monar­chia francese o dell'impero di Lodovico il Bavaro. Quali che siano le sue di­mensioni territoriali, lo Stato e una forma di convivenza umana dotata di pie­na autosufficienza, libera da ogni subordinazione a finalita trascendenti. La pace (non dimentichiamo il titolo dell'opera) dello Stato va affidata, come vole­va Aristotele, pili aile leggi che alla volonta mutevole degli uomini. Il soggetto legislativo e la universitas civium, la totalita dei cittadini.

II legislatore o la causa prima ed efficiente della legge, e il popolo o l'in­tero corpo dei cittadini o la sua <<parte prevalente», mediante la sua elezio­ne o volonta, espressa con parole nell'assemblea generale dei cittadini, che comanda che qualcosa sia fatto o non fatto nei riguardi degli atti civili uma­ni, sotto la minaccia di una pena o punizione temporale.

In questa definizione, di cui e inutile sottolineare Ia modernita, meritano di essere additati alcuni momenti fondamentali, oltre che quello della sovranita popolare che si esprime attraverso un potere legislativo. Il potere esecutivo (pars intrumentalis seu executiva) e di secondaria importanza per Marsilio. Es­so e comunque subordinato alla volonta della assemblea cittadina. Equivalente dell'assemblea e per Marsilio Ia 'parte prevalente' (pars valentior) che potrebbe essere - gli interpreti sono discordi - o l'insieme dei maggiorenti, in cui si esprime quello che a Firenze si chiamava il 'popolo grasso' o pili semplicemen­te Ia 'maggioranza' numerica dell'assemblea. Piu importante e la definizione della Iegge come disposizione munita di sanzione penale. Facendo nascere Ia Iegge, «in quanta misura degli atti umani civili>>, non e misurata, in ultima punitive, Marsilio prelude a quello che oggi si chiama positivismo giuridico: la Iegge «in quanta misura degli atti umani civili>> non e misurata, in ultima istanza, da nulla, nemmeno dal 'diritto naturale', inteso tomisticamente quale espressione della Iegge eterna divina, e trae validita dal suo carattere coattivo. Dio rende efficaci le sue leggi con la minaccia di una punizione eterna; lo Sta­to con la minaccia di una punizione terrena. Che la chiesa pretenda di emana­re leggi che traggono la !oro autorita da Dio e possono, alla pari di quelle poli­tiche, essere imposte coattivamente, ecco un assurdo logico che Marsilio riget­ta in modo risoluto.

Da un punta di vista razionale - e in politica non c'e che questa punto di vista - il clero cattolico non e che una forma storica di sacerdozio, il quale a sua volta, nella struttura dello Stato, none che un ceto tra gli altri, come quel­lo dei commercianti o degli agricoltori, anche se il suo fine e di provvedere al­Ia felicita ultraterrena. E percio esso e in tutto e per tutto soggetto alle leggi della Stato, nel senso che non ha una giurisdizione sua. Marsilio non discono­sce il carattere divino della rivelazione di Cristo. Ma la fede nella rivelazione non comporta affatto l'esistenza di una gerarchia clericale, comporta soltanto l'esistenza della comunita dei fedeli, che, agli occhi di Marsilio, coincide empi-

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12 - L 'Islam alia fine del Medioevo D 441

ricamente con la stessa comunW:t civile. I rapporti fra le due istituzioni, chiesa e Stato, una volta ricondotte a riconoscere la fonte di ogni sovranita nella co­muni ta civica, da una parte, e in quell a di fede dall' al tra, cessano di essere problematici. La struttura gerarchica della chiesa e per Marsilio di origine storica. Di diritto non le compete nessuna autorita. L'autorita e della comuni­ta dei fedeli la cui parte prevalente (valentior pars) e il concilio ecumenico. Spetta al concilio ogni decisione, sia riguardo alia veri ta di fede che riguardo alla disciplina dei costumi. A convocare il concilio, come pure a rendere esecti­tive le sue deliberazioni, provvede il governo secolare. Ed e qui the il limpido teorema di Marsilio perde di coerenza, rimescolando quel che appariva chiaro e distinto. E che, figlio in questa del Medioevo, egli continua nel concreto ad identificare il cittadino col cristiano, la comunita civica con la comunita di fe­de. Identificazione che porta con se rischi ancora maggiori di quelli derivati dalla convivenza di due potesta supreme. Uno di questi rischi, di cui Marsilio

. e consapevole, e insito nel contrasto oggettivo tra l'universalita della chiesa e il particolarismo della Stato, si tratti dell'impero o del comune italiano. Come puo una chiesa sopranazionale provvedere a se stessa e ai propri compiti sen­za una riorganizzazione sua propria? II concilio generale, convocato dall'auto­rita civile (e quale?) e un evento, non una istituzione stabile. In un periodo in cui si stanno formando, con una profonda spinta verso l'autonomia, gli stati nazionali, le tesi di Marsilio agivano nel sensa della frantumazione della cri­stianita. II suo se.colo e anche quello di John Wycliff ( 1330-1384) e di Jan Huss (1369-1415) che, in Inghilterra e in Boemia propugneranno una riforma della Chiesa basata sull'idea della comunita dei fedeli quale soggetto supremo nella vita di fede e nella disciplina dei costumi. L'utopia della repubblica christiana­rum si e gia spenta e gia sta nascendo la societa laica. Tutto secondo gli auspi­ci di Marsilio, eccetto in un punta fondamentale, che era stato il tema di fonda della sua opera, quello della pace. L'eta delle chiese nazionali sara l'eta delle guerre di religione che, in un certo sensa, il medioevo aveva ignorato.

L'Islam alia fine del Medioevo

12.17 Dalla storia alia filosofia della storia: Ibn Khaldun. Durante il Tre­cento (VIII secolo dell'Egira) l'Islam attraversa una crisi dalla quale uscira, ad opera dei Turchi, profondamente trasformato rna senza piu quel primato cul­turale di cui aveva goduto durante il nostro Medioevo. Ad occidente, in Spa­gna, gli Almohadi non riescono piu a resistere alia reconquista cristiana: agli inizi del secolo non resta in mana islamica che la citta di Granada, che verra espugnata nel 1492. Ma gli assalti che piu minacciano l'Islam vengono da al­trove, vengono dai Mongoli, eredi del sogno imperiale di Gengis Khan. Durante il Duecento. essi invadono in ondate successive l' Asia Minore; nel 1258 conqui­stano Bagdad e due anni dopa Damasco. Frenati dai Mamelucchi di Egitto essi si insediano nell'Iran e nelle regioni confinanti fino a che, appuntcrnel Trecen-

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to, l'assalto non riprende con Tamerlano. Ma in quest'ultima fase i Mongoli non sono piu degli avversari, perche hanno adottato la religione islamica, sia pure in modo superficiale ed opportunistico. Contra i Mongoli infatti sono or­mai sul piede di guerra anche i Turchi (nelie mani dei quali sara la sorte poli­tica dell'Islam moderno) oltre che i Mamelucchi d'Egitto. In questo periodo, avendo i Mongoli. see Ito lo sciismo contro il sunnismo (9.11 ), si consolida la di­versita deli'Iran in seno alla umma. E da questa momenta che l'Iran diviene quasi del tutto sciita.

In un tempo di cosl. radicali rivolgimenti sorge la figura di Ibn Khaldun*, il primo vero 'filosofo della storia' che si conosca. Trascurato dai suoi contem­poranei, sono stati gli occidentali dello scorso secolo a scoprirlo e a riproporlo ai musulmani in una luce piuttosto mistificante, e cioe come anticipatore di Machiavelli o di Vico e addirittura della visione materialistica della storia.

L' originalW1 di Ibn Khaldun si condensa quasi esclusivamente nei Prolego­meni. Considerata a parte, la Storia Universale ripete moduli tradizionali salvo che nella sezione dedicata al Maghreb, cioe a] mondo dell'esperienza diretta di Ibn Khaldun, dove si manifesta in pieno la sua potenza di analisi. Le tesi dei Prolegomeni sono invece di una sconcertante modernita.

Innanzi tutto, per la prima volta viene assegnato alla storiografia il compito della ricerca scientifica dotata di un suo proprio statuto epistemologico. Ibn Khaldun non chiama in causa il disegno metastorico in uso presso i teologi d'occidente e d'oriente. La storicr e opera degli uomini e delle strutture am­bientali e sociali in cui essi si trovano ad agire. L' oggetto della storiografia so­no i fatti umani nella loro oggettiva consistenza, al di fuori di ogni pregiudi­ziale finalistica. La loro intelligibilita e nel contesto delle cause che li producono.

Nasce cosi una 'scienza nuova', per usare il termine inventato tre secoli do­po da Giambattista Vico, che e lo studio degli eventi storici a partire dalla so­cieta naturale dell'uomo e dalla concatenazione che innesta la loro particolari­ta in un tutto che li contiene. Spiegare i fatti col.ricorso alia religione non ha senso: e Ia religione che invece trova il suo senso nelia spiegazione razionale dei fatti. La concatenazione causale percorre alcune tappe: la coesione di san­gue e di interessi che sta alla base di un gruppo sociale; l'evoluzione del grup-

Ibn Khaldun. JVasce a Tunisi da famiglia andalusa nel 1337. La sua ri­flessione filosofica rise11te della stato di disgregazione in cui si trovava af­lora ii Maghreb, cioe l'occidente nordafricano dell'lslam. Dopa una inten­sa attivita diplomatica e politica, si ritira ncl 1372 i11 una fortezza solitaria per comporre un'opera grandiosa, i Prolegomeni ad una sua Storia uni­versale (Kitab El-Ibar). Tornato a Tunisi, l'entusiasmo dei giovani per le sue idee gli procura tale ostilita da parte dei conservatori che si decide a cercar rifugio al Cairo, dove per quattordici anni insegna con grande suc­cesso, rivede la sua monumentale storia e l'arricchisce di un'Appendice. NeZ 1400 incontra, come ambasciatore, il mongolo Tamerlano che sta per conquistare Damasco. Muore, in questa clima di catastrofe, un a11no dopa Tamerlano, nel 1406.

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po secondo una dinamica che da corpo alla sua volonta di potenza; la conqui­sta del potere da parte del gruppo. La religione si inserisce in questo processo senza vera efficacia causale perche essa e del tutto dipendente da condizioni di ambiente geografico e climatico e da condizioni sociali. E, diremmo noi, una sovrastruttura. II suo compito e di fornire una legittimazione ideale al tra­passo dalla elementare solidarieta eli un gruppo alla sua conquista del potere. Niente di strano che con simili idee Ibn Khaldun rimanesse ai suoi tempi un isolato. II suo vero tempo, nei parametri occidentali, sarebbe stato il secolo eli Auguste Comte e di Karl Marx.

12.18 Suhrawardi e l'avicennismo persiano. Se in occidente Averroe ebbe la meglio su Avicenna, in oriente egli fu quasi del tutto ignorato (11.14) mentre Avicenna sta aile origini _eli tutto lo svolgimento del pensiero orientale che avra il suo centro nell'Iran e il suo maestro maggiore in Suhrawardi. Si e gia detto a suo tempo (10.11) che l'aspetto piu fecondo del pensiero di Avicenna non fu quello che dette vita all'avicennismo latino e che fa di lui uno dei mas­simi falasifa, fu la sua dottrina iniziatica esposta nella Filosofia orientale, ope~ ra quasi completamente pereluta. Che cosa fosse per Avicenna !'Oriente lo sap­piamo elai suoi tre Racconti mistici, il cui tema comune e il viaggio verso una regione che non si trova nelle nostre mappe e che egli denomina appunto 'Oriente'. In uno di ques ti racconti, a far da guida al filosofo in viaggio verso la patria della sua anima e un Angelo. L' Angelo, che e poi una sola cosa con l'Intelletto attivo, conduce il filosofo oltre la soglia che ne Averroe ne nessun altro pensatore fiducioso nella semplice ragione riusciranno mai a sorpassare. E questo il punto critico della tradizione avicenniana che, dilatando al massi­mo il divario tra saggezza filosofica e sapienza mistica, destera allarme non solo nel trascurabile gruppo dei filosofi convinti del primato della ragione, rna anche e soprattutto nei tutori del dogma islamico. L"Oriente', infatti, sta oltre la barriera dei dogmi, in quanto esso e lo spazio in cui !'anima si mette in rap­porto diretto col Pleroma divino. Siamo, come si vede, sulla linea pura del su­fismo e delle correnti esoteriche dell'area sciita (9.13).

La corrente calda dell'avicennismo non e mai venuta rneno. Quando le vi­cende storiche spegneranno ogni altro focolare, rimarra acceso quello iranico, in cui, come in un crogiuolo, erano giunte a fusione eredita le piu diverse, quel­la persiana preislamica, quella dei neoplatonici cristiani giunti in Persia dalla Siria dopo la chiusura della Scuola d' Atene (9.6), i fermenti gnostici (7.11) e magari i riflessi della vicina India. Il momenta in cui prende inizio questa pri­mato iranico e quello successivo all'invasione mongola, e dunque nei sec. XIII e XIV. Esso e dominato dall'irradiazione di Suhrawardi (1155-1191), nato nell'Iran, cresciuto alia scuola dei rnaestri avicenniani e morto in Siria nel 1191, all'eta di 36 anni. Per quanto amico del figlio del grande Saladino non pote sfuggire alia morte violenta (i musulmani lo chiamano anche l'Ammazza­ta): i dottori della Iegge, impauriti da questo giovane arcangelo che aveva sor­passato la soglia del dogma, lo condannarono a morte per eresia.

La sua opera principale, intitolata avicennianamente Teosofia orientale, vuole essere intenzionalmente una riesumazione della sapienza dell' Antica Per­sia nel quadro di pensiero della rivelazione coranica.

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Esisteva presso gli antichi Persiani, scrive Suhrawardi, una comunita che era diretta da Dio; da lui furono guidati alcuni sapienti. E Ia !oro subli­me dottrina della Luce, dottrina di cui peraltro testimonia l'esperienza di Platone e dei suoi predecessori, quella che ho risuscitato nel mio libro inti­tolato Teosofia orientale e nessuno mi ha mai preceduto in un simile dise­gno.

Le figure dominanti, 'i guardiani del Logos'. sono, nella Teosofia di Suhra­wardi, l'antico Hermes della tradizione iniziatica egizia, Zaratustra e Platone («l'Imam della Sapienza, il nostro maetro Platone»). E., al completo, l'ecumeni­smo culturale che, durante l'umanesimo italiano del Quattrocento, dettera pa­gine entusiastiche ai platonici fiorentini che avevano accolto nella lora citta l'insegnamento del bizantino Gemisto Pletone.

Il tema dell'opera di Suhrawardi, scritta in arabo e in persiano, e la visione dell'universo di tipo gerarchico alia maniera neoplatonica, con la differenza che le idee sono personificate in Angeli, secondo l'antico schema di Zaratustra. Le sfere angeliche sono disposte secondo una scansione discensiva della Luce fino alla sua totale immersione nelle Tenebre. Dalla Luce delle Luci procede l'essere della Luce: tra l'uno e l'altra intercorre la relazione che c'e fra l'Aman­te e l' Amato. Questa struttura diadica si riproduce a tutti i livelli della scala dell'universale, lungo la quale tenta la sua salita l'anima dell'uomo, preso dal­la nostalgia della sua Patria, della Luce delle Luci, dell'Oriente. L'emanazione discensiva della Luce da luogo a quattro gradi diversi: le Intelligenze pure, le Luci che reggono un corpo, l'insieme delle sfere celesti e degli elementi sublu­nari e finalmente il mundus imaginalis, il mondo dell'immaginazione, in cui si trovano, nella stato sottile, le forme sussistenti di tutte le cose.

Questa dottrina dell"intermondo', intermediario trail mondo della pura lu­ce e il mondo sensibile, avra grande fortuna nell'Islam perche riesce a dar fon­damento al valore conoscitivo delle immagini e delle visioni profetiche. E. pro­prio qui la diversita fra l'occidente e l'oriente: il prima ha perduto i contatti con l'intermondo, l'altro vi riconosce la propria vera patria. Scrive Henri Cor­bin: «Suhrawardi mori esattamente sette anni prima di Averroe. Nella stesso momenta dunque in cui nell'Islam occidentale il «peripatetismo arabo» trova­va la sua epressione estrema nell'opera di Averroe - ecco che in Oriente, e precisamente in Iran, l'opera di Suhrawardi apriva la nuova via che tanti pen­satori e spirituali imboccheranno fino ai nostri giorni. Furono proprio le ra­gioni che provocarono il fallimento e la scomparsa dell'avicennismo latina, quelle che al contrario determinarono la persistenza dell'avicennismo in Iran, rna dall'orizzonte di questa avicennismo l'opera di Stihrawardi, in un modo o nell'altro, non sara mai assente».

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12- Il buddismo giapponese attorno al sec. XIV 0 445

II buddismo giapponese attorno al sec. XIV

12.19. Originalita del pensiero giapponese. Nel periodo che va dal sec. XII al sec. XIV, il relativo isolamento politico-sociale dagli influssi della cultura cinese favori nel Giappone l'emergere di atteggiamenti filosofico-religiosi piu marcatamente originali, che si andarono concretizzando nell'affermazione di tre principali correnti buddiste: lo zen, l'amidismo e la setta di Nichiren. Le prime due, pur derivando da analoghe scuole cinesi (10.17), si arricchirono di nuovi significati culturali; la terza rappresenta invece un fenomeno completa­mente originale. In tutte, comunque, hanno modo di manifestarsi alcuni tratti salienti dello spirito giapponese: un atteggiamento di semplifica:zione e concre· tezza, un marcato interesse per l'inserimento della prassi religiosa nella realta socio-politica e un'inclinazione all'autoritarismo gerarchico, che si esprime so­prattutto nel rapporto maestro-discepolo e nelle polemiche intersettarie. Ri­guardo a queste ultime, particolarmente vivace fu il dibattito - in cui e evi­dente una simmetria con la controversia tra protestantesimo e chiesa-cattolica - sulla contrapposizione (gia presente nel buddismo cinese) fra tariki e jiriki. Tariki ('merito altrui') indica la convinzione secondo cui la salvezza e raggiun­gibile solo tramite un potere esterno al fedele, ossia la grazia elargita dai vari buddha e bodisattva del pantheon mahayanico: gli esponenti maggiori di que­ste tendenze sono gli amidisti. Secondo il pensiero jiriki ('merito proprio'), in­vece, e possibile ottenere la salvezza con le sole proprie forze: e questa in par­ticolare la posizione dello zen.

1. Introdotto in Giappone fin dal 729, lo zen (termine equivalente al dhyana indiano e al ch 'an cinese) ebbe un'espansione nuova nel secolo XII per opera del monaco Eisai (1141-1215) fondatore della setta rinzai. Nelio zen il ch'an ac­quisto la misura mentale e pratica dell'indole nipponica. Suo obiettivo fu di condurre I' individuo, senza ness una preoccupazione dottrinale, alia vera pa­dronanza di se. Rientravano nel metodo i procedimenti di meditazione con i quali la coscienza arriva ad identificarsi con l'universo intero e a diventare in­differente ad ogni timore e ad ogni speranza. Questa solidita interiore none fi­ne a se stessa: il suo scopo e di far fronte, in maniera attiva, ai tumulti della vita con azioni audaci, intrepide e calme. Nel caso dello zen rinzai, la cura per la concentrazione, la ferrea disciplina e l'atteggiamento positivamente energi­co nei confronti della vita mondana riscossero particolare successo negli am­bienti dei samurai, che presero spunto da questo ind\rizzo per elaborare una propria etica cavalleresca (bushido). Da parte sua, lo zen imparo ad usare an­che le arti marziali come via (do) per la concentrazione e l'illuminazione.

Il fulcro della pratica zen e costituito dalla seduta meditativa (zazen) in cui, grazie ad un silenzio del pensiero indotto dalla coltivazione del raccoglimento interiore, la mente, liberandosi dai filtri delle concettualizzazioni, entra in uno stato di vacuita e giunge a vedere le cose «cosi come sonO>>, aprendosi alla per­cezione intuitiva della propria natura originaria, ossia all'illuminazione (sa tori).

Nell'indirizzo rinzai, accanto alia zazen si trova anche la pratica del koan,

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446 D 12- ll buddismo giapPonese attorno al sec. XIV

un dialogo volutamente paradossale, privo di senso logico, la cui soluzione -faticosamente cercata attraverso Ia meditazione e il confronto col maestro -presuppone da parte del discepolo l'abbandono del pensiero discorsivo come strumento per cogliere la verita e lo sviluppo di una nuova facolta intuitiva.

Mentre l'indirizzo rinzai insiste molto sullo sforzo per raggiungere determi­nati risultati meditativi (kensho, satori), la scuola soto - che costituisce l'altra grande corrente dello zen giapponese - insiste invece sulla «pura e semplice pratica del sedere in meditazione» (shikantaza) in completa sintonia con l' hie et nunc, senza pensare ad alcun risultato futuro: infatti l'illuminazione e gia presente, basta solo saperla scorgere.

Fondatore della scuola soto fu Dogen (1200-53), forse il piu grande pensato­re giapponese, dimorato a lungo in Cina, il quale- in linea con il piu puro in­segnamento del buddismo mahayana- insisteva sul fatto che ognuno gia pos­siede in se l'illuminata natura del Buddha, rna una mente offuscata da conce­zioni errate non riesce a rendersene conto.

La pratica consiste quindi nell'abbandono di ogni idea di conseguimento e nel calarsi nella pienezza del momenta presente, per scoprirvi quella illumina­zione che, senza rendersene conto, il meditante aveva da sempre posseduto co­me sua intrinseca natura originaria. Perci6 nella concezione di Dogen la prati­ca non e piu un mezzo per raggiungere qualche meta futura, e fin dall'inizio espressione diretta e immediata della illuminazione. Allora ogni piu pkcola azione quotidiana - come disporre fiori, servire il te e fare giardinaggio - se compiuta con gratuita, cura e attenzione, diventa occasione di pratica e con­temporaneamente espressione della buddhita. Non per nulla in molti casi il Iampo del satori e sopraggiunto improvviso e inaspettato durante le piu umili attivita quotidiane. L'illuminazione non va 'raggiunta' o 'costruita' (che, anzi, ogni sforzo per afferrarla si trasforma automaticamente in un ostacolo), rna scoperta di momento in momento nel presente, perche e sempre a portata di mano, se sol tanto la mente cessa di alimentare i filtri, concettuali con cui si scherma dalla realta cosi com'e. Grande fu l'influsso dello zen nella vita e nel­la cultura giapponese che ne deriv6 - nel romanzo, nel gusto del diario inti­ma, nel teatro No e piu in genere in molti aspetti del comportamento quotidia­no improntato alla concentrazione - tratti singolari che avrebbero trovato un loro fecondo investimento nell'attuale fase tecnologica. Fu nel sec. XIV che lo zen raggiunse in Giappone, per opera di Muso Soseki (1275-1351), un'organiz­zazione centralizzata di tipo nazionale.

2. Il Giappone e anche l'area geografica in cui l'amidismo (10.15) conobbe Ia sua maggiore fecondita--(10.17). Nel 1175, Honen Shonin (1133-1212) fonda un grande ordine amidista - tuttora esistente - detto della 'Terra Pura' (Jo­do). Secondo la sua concezione filosofica, l'uomo non pu6 salvarsi con le sole proprie forze: deve completamente affidarsi alla grazia di Amitabha, ripetendo continuamente una semplice formula sacra- facile per chiunque- che ne in­voca il nome.

Il bene, espressione dell' essenza dell' essere, e reale, mentre il male non e che un suo involucra che non riesce a contaminarlo. Dal male ci si distacca per semplice rinnegamento. L'essenza delle cose si identifica con l'essenza uni­versale, che e il Corpo Mistico di Amitabha, il quale le ama tutte come se stesso.

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12- Cina: Ia sintesi confuciana di4initiva 0 447

II male non corrode questa universale realm buona; a farlo nascere e l'ignoranza; per farlo morire basta sconfessarlo.

Da questo sfondo dottrinale la pieta amidista trae accenti che assomigliano straordinariamente a quelli della pieta cristiana. «Che importa - dice Honen - che i nostri corpi fragili come la rugiada si sciolgano qua e la ed evaporino nel niente, dato che le nostre anime si ritroveranno un giorno nel medesimo giardino del loto, nel Paradiso?» .

. Ancora pili radicalmente orientato verso il primato della fede sulle opere fu Shinran (1173-1262), un discepolo di Honen. Honen aveva detto: «Se saranno salvati i cattivi, a maggior ragione saranno salvati i buoni »; ribaltando para­dossalmente tale affermazione, Shinran esclamera: «Se si salvano i buoni, a maggior. ragione si salveranno i cattivi», intendendo con questo sottolineare che i 'buoni', accecati dall'autocompiacimento, rischiano spesso di confidare troppo nella propria virtu (jiriki), laddove il 'cattivo', consapevole della sua malvagita, puo accorgersi pili facilmente che per l'uomo l'unica via praticabile e quella di un'umile fede nel potere salvifico esterno di Amida (tariki).

Con accenti spesso provocatori, Shinran insiste continuamente sui fatto che la salvezza viene concessa soltanto per grazia di Amida, e non ha quindi niente a che fare con le opere dell'uomo, il cui unico compito e quello di ab­bandonarsi con fede al Buddha.

Evidenti appaiono le convergenze fra la setta jodo e illuteranesimo, soprat­tutto per quanto concerne il primato della fede sulle opere, l'inserimento della religione nella vita laica e il contributo storico apportato da ambedue alia for­mazione del moderno spirito mercantile.

3. La setta fondata da Nichiren (1222-82) costituisce - come si e detto -una creazione originale del buddismo giapponese, senza alcun precedente cine­se. Monaco dotato di indole pugnace ed intransigente (pass<'> molti anni in pri­gione), Nichiren fu molto critico nei confronti della religione buddista ufficia­le, di cui rifiutava soprattutto la tendenza ad adorare le molteplici immagini del Buddha e dei Bodhisattva contenute nel pantheon mahayana. A questa spe­cie di idolatria politeistica egli contrapponeva l'esclusiva venerazione del Bud­dha storico Shakyamuni, da attuarsi tramite la continua ripetizione di una for­mula sacra, intesa come primario veicolo di salvazione per tutti i devoti.

Nella setta di Nichiren, ancor pili che in altri movimenti buddisti giappone­si, si attuo uno stretto legame fra fervore religioso e azione socio-politica, anti­cipando quello che diverra uno dei tratti salienti della cultura giapponese. Gruppi di suoi seguaci ci stanno diffondendo oggi anche in occidente.

Cina: Ia sintesi ·confuciana definitiva

12.20. La 'filosofia perenne' della Cina: Chu Hsi. Se in deroga alle semplici regole cronologiche collochiamo l'esposizione del pensiero di Chu Hsi (1130-1200) nel capitolo di chi usura della storia· del pensiero antico, e perche di fatto

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la dottrina di Chu Hsi, mentre per un verso fa da grandioso epilogo della tra­dizione confuciana, per l'altro, in ragione della sua vitalita, appartiene all' oriz­zonte moderno, dato che, come riconosce lo storico cinese contemporaneo Fung Yu Ian, essa «rimase l'unico sistema di filosofia veramente influente sino all'introduzione in Cina della filosofia occidentale, avvenuta or sono poche de­cine d'anni». E fu proprio a partire dal sec. XIV, precisamente dal 1313 che i commenti di Chu Hsi ai classici saranno (e lo resteranno fino al nostro secolo) i testi ufficiali per i concorsi pubblici. Come si e detto (11.17), Maestro Chu (cosi viene anche chiamato) apparteneva a quella Scuola dei Principi Universa­li (Li-haUeh, o anche scuola dei Li) che era stata avviata da Ch'emg Yi (11.17) per integrare nella tradizione confuciana gli apporti del taoismo e del buddi­smo. Lo stesso Chu Hsi era stato allevato nel buddismo, rna a 24 anni scelse la

·via confuciana nella quale impegno, salvo alcuni incarichi politici, tutta la sua vita, la sua straordinaria erudizione enciclopedica, il suo stile in cui si univa­no la chiarezza, la duttilita e la vivacita polemica. Le sue opere costituiscono una specie di Summa non solo del sapere filosofico, rna di tutto lo scibile, si­mile in questo ad Aristotele, al quale infatti viene paragonato anche per l'ege­monia che il suo pensiero ha esercitato per secoli nel suo paese. Per la stessa ragione potremmo paragonarlo all'indiano Shankara o al teologo cattolico per eccellenza, Tommaso d' Aquino. E giusto comunque ammettere che la sua ge­nialita si espresse non nel creare nuove visioni filosofiche, rna nel ridurre ad ordine sistematico quanto la tradizione confuciana e, accanto e contro di essa, le altre tradizioni filosofiche, soprattutto il buddismo, avevano in precedenza espresso. I suoi numerosi commenti alle opere classiche (fondamentali quelle ai Dialoghi di Confucio e al Mencio) e i suoi scritti piu personali (come la Rae­colla di meditazioni e il Significato fondamentale delle mutazioni) furono per decreto imperiale adottati come libri di testo per la preparazione agli esami di stato, fornendo cosi la interpretazione ufficiale dei Quattro libri su cui si basa­va l' ortodossia imperiale.

Il tratto caratteristico dei neoconfuciani e quindi anche di Chu Hsi e nel superamento dei limiti prammatici e moralistici del primo confucianesimo, nel duplice intento di dare all'insegnamento dell'antico maestro una sistemati­cita logica e soprattutto un fondamento metafisico. Quest'ultimo non poteva esser fornito che dal buddismo indiana. E difatti nella sua costruzione metafi­sica Chu Hsi fece uso del buddismo con la stessa abilita con cui Tommaso d'Aquino, mezzo secolo dopo, si servira dell'aristotelismo.

12.21 Chu Hsi: Ia metafisica. Sulla linea della Scuola dei Principi Universa­li, Chu Hsi parte dalla tesi che per ogni classe di esseri esiste un corrispon­dente principia universale (li):

Cio che e 'al,di la delle forme', tale da essere senza forma o corpo, e li. Cio che e 'entro le forme', in modo da possedere forma e corpo, e una 'cosa'.

I li sono al di fuori del tempo e preesistono alle cose, potendo essi sussiste­re anche senza di esse.

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12 - Cina: la sintesi confuciana definitiva D 449

I li ci sono anche se non ci sono le cose. In tal modo ci sono dei li speci­fici rna non le cose che ad essi corrispondono ( ... )I /i ci sono sempre, il che significa che sono eterni.

Come in un qualsiasi oggetto concreto (peres. un pennello) interagiscono i principi universali di vari li specifici (i li del legno, delle setole, ecc.) integrati dall'azione di un li piu generale (il li, appunto, del pennello), cosi anche tutti i li esistenti si integreranno in un unico li universale, il Principia dei principi, il modello ultimo della realta intesa come un Tutto, che Chu Hsi chiama T'ai chi o Realta Ultima (letteralmente: 'Grande Trave di Sostegno'):

Ogni cosa ha un fine ultimo che e !'ultimo li. Cio che abbraccia e unifica il li del Cielo e della Terra e di tutte le cose e Ia Realta Ultima (T'ai chi).

Ma questa idea di Principia primo non e univoca, nel senso che il T'ai chi (che noi potremmo tradurre col termine Essere) e, Secondo Chu Hsi, il passag­gio all'atto del Wu chi, che qualcuno traduce col termine Non-essere rna in modo improprio, dato che esso e piuttosto l'Essere in potenza, e lo stato pri­mordiale di assoluta indeterminazione, da non identificare col Nulla, in quan­to contiene in se potenzialmente tutte le determinazioni, prima fra tutte quella del T'ai chi, dell'Essere reale. II T'ai chi e Ia chiave di volta del sistema di Chu Hsi. Esso e infatti simultaneamente il principia cosmologico, e cioe la nebula­sa da cui deriva il cosmo; e il principia ontologico, in· quanto e presente in ogni cosa che e; e il principia logico, in quanto nella intelligenza umana diven­ta idea costitutiva del conoscere: e infine e il principia morale, in quanto e il dettame innato della coscienza umana. Piu che al Vuoto dei buddisti, dunque, esso va assomigliato all'Essere della filosofia occidentale.

Se da un lato il T'ai chi e pura trascendenza, totalita di tutti i li, dall'altro esso e immanente ad ogni singolo essere: a ciascuna cosa nell'universo concre­to inerisce non solo il li specifico della sua particolare categoria, rna anche la Realta Ultima (T'ai chi) nella sua indivisibile interezza:

C'e un'unica Realta Ultima che viene ricevuta dalle singole cose di tutte le categorie. Tale realta ultima e accolta da ciascun oggetto intera ed indivi­sa. E. simile alia luna che risplende nei cieli e di cui, nonostante sia riflessa nei fiumi, nei laghi e sia visibile ovunque, non possiamo certo dire che sia molteplice.

Come si e detto, il lie l'agente immateriale che tr.avasa nell'ordine dell'esi­stente la forma di tutti gli esseri, che gia esistevano in potenza in seno al T'ai chi, di cui il li svolge la funzione di razionalita immanente nell'universo. E in­somma come il Logos degli stoici. Ogni cosa ha il suo li, che dunque puo esse­re nominate sia al singolare che al plurale. Difatti l'insieme di tutti i li costi­tuisce un'armonia unitaria che e il Li universale, il quale e, a sua volta, una sola cosa col T'ai chi. E viceversa: pur essendo uno ed indivisibile, il T'ai chi e totalmente in ciascun essere, a causa del Li, e cioe del principia formale per cui un essere e quello che e. Gli esseri nascono e muoiono, rna il loro li specifi­co e il T'ai chi come principia che unifica tutti i li non subiscono mutamento,

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alla maniera dell'atto puro aristotelico che unifica in se le forme, e del Somma Bene platonico che unifica in se le idee.

12.22 Chu Hsi: Ia cosmologia. Le cose consistono dunque, anche per Chu Hsi, di materia mutevole e di forma immutabile. Con questa di diverso, pen), in confronto alla grande metafisica greca, che la materia esisteva in potenza fin da principia nel Wu-chi, e cioe nell'assoluta indeterminatezza primordiale, ed e stato illi che l'ha fatta emergere dalla potenza all'atto, cos!. come Ia guida nella sua multiforme evoluzione. Scrive Chu Hsi:

Nell'universo ci sono i li e ch'i. I li costituiscono il Tao, che e 'a] di Ia delle forme'; esso e Ia sorgente donde le cose traggono esistenza. Ch'i e l'in­sieme degli strumenti che sono 'entro le forme'; esso e i1 mezzo materiale attraverso cui si producono le cose. Per questa ragione uomini e cose, allor­che vengono prodotti, devono ricevere il li per avere Ia propria natura (hsing); devono anche ricevere ch'i per acquistare Ia propria forma corpo­rea.

In quanta concretamente esistenti e materiali, le cose costituiscono una condensazione di ch 'i; in quanta espressione di certe categorie formali, esse si plasmano secondo i li; potrebbero dunque definirsi complessivamente come una condensazione di ch 'i secondo Ia struttura dei li:

Non v'e li senza ch'i, ne ch'i senza li.

II mondo dei puri li e - come si e detto - immutabile, eterno, al di la del tempo e della spazio. Ma in esso, fra gli altri archetipi universali, sono anche contenuti i li del moto e della quiete, situati di per se al di la di moto e quiete in virtu della loro natura immateriale; una volta congiunti con il ch 'i, possono pen) rendere quest'ultimo soggetto a quiete (Yin) o moto (Yang):

Mentre Yang e in moto e Yin in quiete, Ia realta ultima none ne in moto ne in quiete, rna ci sono i li del moto e della quiete. Questi li sono invisibili e si manifestano a noi solo quando ci siano il moto di Yang e la quiete di Yin.

Dalla interazione di Yin e Yang nascono poi i cinque elementi, e da questi l'universo manifesto. Il ch 'i non e propriamente cio che noi diciamo materia, e cioe una realta corporea per se stessa inerte. In cinese ch 'i vuol dire 'soffio', 'energia'. Il ch 'i e infatti sia l'estensione corporea che cade sotto i sensi, sia lo slancio vitale che dall'interno sospinge l'estensione corporea nelle sue trasfor­mazioni, secondo il duplice ritmo di Yin e Yang.

Come tutte le cose esistenti, anche un uomo concreto e formato dall'inter­secarsi di un principia universale o li (in questa caso la natura umana comune a tutti gli uomini singoli) con una sostanza materiale o ch'i (ossia il corpo fisi­co), che lo individualizza, collocandolo nella spazio-tempo e rendendolo unico, diverso da tutti gli altri.

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Per Chu Hsi il li della natura umana e fondamentalmente buono e comune a tutti: rna il ch'i contingente di ciascun individuo pua essere piu o meno pu­ro: la sua maggiore o minore trasparenza rende piu o meno visibile nei singoli uomini l'originaria bonta della natura umana universale, che, pur albergando indistintamente in ognuno, pua risultare variabilmente occlusa dalle impurita materiali del ch'i:

Quelli che ricevono un ch'i chiaro sono i saggi, la cui naturae come una peri a che giace in acque fred de e lim pi de; quelli che ricevono un ch 'i torbi­do, sono i folli e i degenerati, la cui natura e simile ad una perla che giace in acque fangose.

Dunque lo spirito dell'uomo, ossia la sua facolta cosciente (hsin) nasce dall'interazione fra la natura umana universale (li) e la contingente costituzio­ne fisica (ch'i). Analogamente a quanto si e gia detto a proposito della quiete e del moto, anche il li della consapevolezza costituisce un principio astratto che di per se non pua essere consapevole; soltanto quando interagisce con il ch'i condensato in un corpo umano pua dar luogo alia facolta cosciente, capace di sentire e pensare.

12.23 Chu Hsi: l'etica. Da quanto si e detto risulta chiaro che l'educazione dello spirito (hsin) costituisce il fattore cruciale per ricondurre alia sua origi­naria purezza la 'perla' della natura umana, purificandola dal 'fango' del desi­derio (jen yu) e dell'egoismo (sen yu): il primo distoglie la mente dal Puro Esse­re Universale volgendola verso oggetti secondari; il secondo crea l'illusione che esista un 'io' individuale separato dagli altri. Comunque sia, al di la di questa ostruzione, esiste in ogni essere umano la perla della Realta Ultima (T'ai chi) nella sua indivisibile interezza: e quindi in ogni uomo esistono anche (sebbene celati nell'oscurita dell'incoscienza) tutti i principi universali delle cose (h) che compogono il T'ai chi che tutto abbraccia, unifica e trascende al tempo stesso.

II metodo di realizzazione spirituale elaborato da Chu Hsi e simile a quello di Ch'eng Yi e si fonda sull'attenzione cosciente (ching), unita all'estensione della conoscenza (chih chih) tramite l'investigazione delle cose (ko wu). L'at­tenzione cosciente (ching) consiste nell'osservazione continua di ogni fenomeno psichico e fisico, al fine di risvegliare la ininterrotta e intensa consapevolezza di ogni aspetto della realta. L'assiduo esercizio di questa presenza mentale espande e intensifica la conoscenza umana, rendendola capace di investigare le cose, in modo da scoprire i principi universali sottesi ai molteplici fenomeni dell'universo (risalendo, per esempio, dalla percezione delle singole foglie par­ticolari all'idea astratta di foglia): per Chu Hsi, l'investigazione delle cose, si­gnifica «Cercare 'cia che e al di la delle forme' attraverso 'cia che e dentro le forme'», ossia risalire dal particolare all'universale, dal concreto all'astratto.

Attraverso questo processo, l'uomo non soltanto acquista una maggiore co­noscenza delle cose, rna anche - e soprattutto - purifica la propria mente, rendendo manifesta la luce dei principi universali in essa calati. Grazie all'in­vestigazione delle cose, propiziata dall'esercizio dell'attenzione cosciente

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(ching), il saggio vede sempre piu chiaramente l'interconnessione di tutti i principi universali a livelli gradualmente piu elevati di astrazione, realizzando una progressiva estensione della propria conoscenza, fino ad intuire l'Unita del Tutto (T'ai chi) in un Iampo d'improvvisa illuminazione (ming):

Lo studioso, di fronte aile cose che nel mondo sono separate, deve, per mezzo dei li che e gia in grado di intendere, procedere sino ad ottenere una coscienza esauriente degli altri li, e in tal modo sforzarsi di estendere la propria conoscenza sino al limite estremo; Quando ci si sia esercitati a lun­go, giungera finalmente un giorno in cui si svelera la completa comprensio­ne del Tutto. Ci sara allora una perfetta comprensione della moltitudine delle cose esteriori e interiori, sottili e grossolane, e ogni atto della mente sara caratterizzato da una completa illur:pinazione.

Appaiono evidenti le analogie fra l'iter spirituale proposto da Chu Hsi e quello di Platone, specialmente per quanto concerne la teoria della remini­scenza.

La dottrina morale di Chu Hsi deriva anch'essa, per deduzione, dalla fun­zione del li nella sfera del comportamento dell'uomo, dove il li diventa norma etica. II bene e Ia conformita dell'azione ·con la ragione universale. La Iegge che comanda la virtu ai cittadini e Ia stessa che comanda il moto delle sfere celesti. Se illi equivale alla natura, allora possiamo dire che in tutti gli anima­li, come voleva Mencio, la naturae buona. Ma un uomo e il risultato dell'unio­ne tra il li e un ch 'i piu o meno opaco, piu o meno docile alla norma del li: ci sono dunque uomini meno buoni di altri. La vita morale sara una conquista di un ch 'i sempre piu trasparente nei confronti dei li. Questo compromesso tra pessimismo e ottimismo documenta bene il carattere sostanzialmente eclettico del pensiero di Chu Hsi. Netta e invece la sua posizione di rigetto di qualsiasi interpretazione religiosa del senso della vita. Non c'e ne premio ne castigo do­po Ia morte: il premio e il castigo sono immanenti all'esistenza terrena. Del re­sto non c'e nessun Dio personale che presieda alla natura e alla storia. La ra­zionalita che promana dal Tai-chi e si ramifica nella moltiplicazione del li e un Logos impassibile e impersonale che contiene i mutamenti del tutto come all'interno di un teorema e che, chiuso il ciclo dello sviluppo, rientra anch'es­so nella Indeterminatezza originaria (Wu-chi) dalla quale tutto riemergera per un nuovo ciclo. Possiamo dunque dire che Ia visione della storia nel piu gran­de dei neoconfuciani e razionalistica ed atea e tale e rimasta, con appena qual­che variante, la tradizione che ha svolto il suo pensiero fino agli inizi del no­sti'o secolo. Se si tiene conto che il confucianesimo nella interpretazione di Chu Hsi e stato fino al marxismo maoista la dottrina ufficiale dell'impero su cui per Iegge dovevano formarsi le burocrazie sara facile capire I 'incidenza che esso ha avuto nel destino del suo paese.

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Indice analitico

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I numeri in neretto indicano le pagine in cui si parla dell'Autore in maniera specifica e quelli in corsivo la pagina in cui si trova la sua scheda biografica.

Abelardo, Pietro, 335, 345, 346-349, 346, 351, 353, 354, 355, 384, 427, 429

Abhinavagupta, 407 Abramo, 8, 246, 321, 325 Abubacer, 361 Abu Bakr, 321, 328 Abud Yazid Bastami, 329 Adalberone, 338 Adelardo di Bath, 356, 379 Aeropagita, vedi Dionigi (Pseudo) Agnone, 102 Agobardo, 319 Agostino di Tagaste, 232, 235, 267,

268, 272, 276, 278, 284, 286, 290, 294-303, 304, 312, 313, 315, 331, 342, 347, 351, 353, 357, 378, 391, 392, 393, 394, 400, 417

Agrippa Menenio, 27, 214 Alarica, 302 Alberto Magno, 373, 375, 381-384, 383,

385, 398, 415, 417 Alcibiade, 109, 112, 113 Alcidamante, 106 Alcuino da York, 308, 318, 319 Alessandro di Afrodisia, 326, 357, 360 Alessandro di Hales, 392, 394, 398 Alessandro Magno, 12, 83, 93, 151,

174, 178, 184, 185, 186, 187, 212, 214, 220, 222

Alfonso VI, 379 Algazel, vedi Ghazali-al

Ali, 328 Alighieri, vedi Dante Alighieri Alipio, 296 Ambrogio di Milano, 276, 296, 297 Ambrosia de Castello, 420 Amenofi IV, 1, 12, 15-16 Aminta (re), 151 Ammonio Sacca, 268, 269, 285, 286,

291 Amos, 44, 45 Ananda, 221 Anassagora, 50, 55, 79, 83-86, 83, 87,

99, 103, 109, 191, 330 Anassarco, 214 Anassimandro, 50, 52, 53, 82, 85, 145,

161 Anassimene, 50, 52, 53, 71, 81, 161 Anastasio (papa), 293 Andronico, 153, 165, 168 Anito, 108,109,111,116,122 Anselmo di Aosta, 335, 341-344, 342,

345, 348, 352, 383, 388 Antifonte, 106, 110 Antigono Gonata, 185, 186, 208, 213 Antistene, 116, 117, 118, 119, 123, 142,

157, 196 Antonino Pio, 257 Apollonio di Perge, 190 Apollonio di Tiana, 284 Arato, 208, 209 Arabi Ibn, 364, 374, 375, 401, 405-406,

405,

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456 0 lndice analitico

Arcesilao, 184, 214, 216-217, 218, 219 Archimede, 184, 190 Archita, 66, 123, 130 Aryadeva, 305 Aria, 291 Aristarco di Sarno, 189, 209 Aristippo, 116, 117, 119, 175 Aristofane, 101, 103, 192 Aristosseno, 107 Aristotele, 28, 50, 63, 68, 74, 78, 84,

85, 87, 114, 116, 125, 129, 142, 143, 149, 150-183, 151, 153, 184, 185, 186, 187, 189, 190, 191, 192, 194, 196, 198, 206, 207, 213, 214, 224, 233, 234, 260, 264, 271, 272, 277, 278, 279, 285, 288, 310, 316, 326, 331, 332, 335, 340, 341, 345, 346, 348, 350, 352, 353, 354, 355, 356, 357, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 373, 375, 378, 380, 381, 382, 383, 384, 385, 389, 391, 392, 393, 394, 395, 396, 397, 398, 401, 402, 413, 414, 420, 421, 422, 424, 425, 429, 439, 440, 448

Arrigo VII, 435, 436 Arulnandi, 407 Asanga, 268, 305, 306, 307, 334 Asclepiade, 191 Ashari al-, 327 Asoka (re), 184, 213, 220, 222, 265, 266 Aspasia, 83 Astrolabio, 346 Asvagosha, 334 Atanasio, 291 Aubenque, Pierre, 178 Augusto, 235, 236 Averroe, 322, 335, 356, 358, 360, 361·

364, 362, 374, 375, 378, 382, "389, 390, 400, 401, 402, 403, 405, 414, 415, 416, 420, 422, 424, 443, 444

Avicebron, 380 Avicenna, 322, 335, 356, 358, 358-360,

361, 363, 375, 383, 387, 401, 403, 404, 42~ 422, 423, 424, 443

Avieno, 208 Bacone, Francesco, 398 Bacone, Ruggero 373, 375, 393, 397-

400, 398, 427 Barth, Karl, 236 Basava, 408 Basilide, 241, 258, 285 Basilio di Cesarea, 267, 289, 292 Becket, Tommaso, 355 Benedetto da Norcia, 289, 313, 338 Berengaria, 340 Bernardo di Chartres, 352, 353, 355 Bernardo di Chiaravalle, 335, 339,

349, 350, 351 Bertrando Dal Poggetto, 439 Bianchi, Ugo, 242 Bione, 191 Biruni-al, 402-403 Bodhidarma, 369 Boezio, Severino, 308, 309, 310-311,

315, 340, 348, 353, 378 Bonaventura (san), (Giovanni di Fidan­

za), 373, 374, 375, 376, 386, 392, 393-396, 394, 398, 406, 417, 422, 427

Bonifacio VIII, 374, 375, 413, 421, 433, 434, 437

Buddha Gotamo, 1, 16, 17, 37-40, 38, 56, 66, 67, 72, 185, 213, 221, 226, 265, 266, 268, 305, 306, 307, 369, 370, 446, 447

Buonarroti Michelangelo, vedi Miche-langelo

Calcidio, 354 Calieno, 269 Callia, 102 Callicle, 135 Callimaco, 191 Callistene, 151 Camus, Albert, 233 Canakya, vedi Kautilya Candragupta, 220 Carlo d' Angio, 385 Carlo il Calvo, 319 Carlo Magno, 308, 309, 318, 319, 336 Carlo Martello, 321 Carlo VI, 435 Carmide, 112, 121 Carneade, 184, 185, 214, 217, 218-220,

229, 231, 234 Cartesio, 343, 365, 420

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Cassiodoro, Magno Aurelio, 308, 311-312

Catone, 212, 187, 219, 229, 230, 232 Cefalo, 102 Celestino V (Pietro di Marone), 374,

377, 434 Celso, 278, 283, 284 Cercida, 191 Cerdone, 259 Cesare, Caio Giulio, 233, 234, 235 Chang Tsai, 372, 409 Ch'eng Hao, 374, 409-412 Ch'eng Yi, 374, 409-412, 448, 451 Chenu, Dominique, 384 Chin, 226, 227, 370, 375 Chou, 22, 26, 28, 9~ 222 Chuang-tzu 22, 185, 223, 225 Chu Hsi, 375, 409, 414, 447-452 Cicerone, Marco Tullio, 195, 208, 214,

217, 218, 219, 228, 230, 231, 233-235, 265, 296, 302, 310, 355

Ciro II, 42, 93 Claudio Tolomeo, 190 Cleante, 203, 208, 209, 212, 217 Clemente di Alessandria, 258, 267,

284-286, 294, 348 Clemente IV (Guido Fucoldi), 398 Clemente VI, 433 Cleomene, 213 Cleone, 102 Clitomaco, 217 Colombano, 314 Comte, Auguste, 443 Confucio 16, 17, 20, 21, 22, 24, 26-28,

26, 49, 61, 90, 92, 223, 225, 370, 371, 448

Corbin, Henri, 400, 401, 444 Corisco, 123 Cornuto, 209 Cosroe, 281, 325 Costantino, 185, 222, 255, 257, 277,

283, 291, 295, 318, 436 Costantino l'Africano, 379 Cratete, 118 Cratilo, 118, 130, 144 Creso, 53 Crisippo, 203, 204, 205, 209, 211, 212,

Jndice analitico 0 457

214, 218 Cristo, vedi Gesu di Nazareth Critone, 113 Crizia, 105, 106, 107, 109, 121 Cusano, Nicola, 419, 421, 435 Cuvier, Georges, 170 Daishi, 333 Damascio, 277, 281 Dante Alighieri, 88, 315, 350, 374, 375,

413, 415, 433, 434, 436-437, 438 Daria I 0

, 220 Daria III 0

, 220 Darwin, Charles, 3, 170 David, 45 Demetrio di Battriana, 222 Demetrio Falereo, 188, 192, 193 Demetrio Poliorcete, 186, 188, 193 Democrito, 55, 79, 84, 86-90, 87, 99,

103, 106, 146, 163, 170, 192, 193, 194, 195, 196, 198, 201, 330

Diocleziano, 313 Diogene, 118 Diogene Laerzio, 66, 86, 150, 193, 194,

196, 204, 214, 217 Dione, 123, 124 Dionigi I 0 il Vecchio, 119, 123 Dionigi Il 0 il Giovane, 123, 124, 138 Dionigi 1' Aeropagita (pseudo), 278,

308, 31~316, 317,319, 32~ 353,417 Dagen, 375, 446 Dolcino (frate), 377 Droysen, Johann Gustav, 185 Dumezil, Georges, 29 Duns Scoto, Giovanni, 375, 393, 413,

421-427, 421, 429, 430, 432, 433 Eckhart, (<<Meister») Giovanni, 375,

413, 417, 417-419 Efrem (sant'), 281 Egidio Romano, 413, 437, 438 Einstein, Albert, 76 Eisai, 445 Eloisa, 346, 347 Empedocle, 55, 79-83, 80, 84, 87, 105,

106, 132, 145 Enesidemo, 214 Enoch, 237 Enrico II, 355

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458 0 lndice analitico

Epicuro, 184, 191, 192, 193-203, 193, 207, 210, 215, 216, 217, 220, 228, 232, 233, 270, 330

Epifanio, 293 Epitteto, 203, 213 Eraclio, 279 Eraclito, 16, 17, 23, 24, 50, 55, 69-72,

69, 73, 81, 82, 83, 85, 103, 105, 120, 129, 130, 141, 144, 207

Erasistrato di Chio, l 90 Eratostene, 190 Ermia, 123, 151 Erodoto, 53, 63, 99, 100, 102, 103, 105,

182, 193, 195 Erofilo di Calcedonia, 190 Eronda, 191 Eschilo, 65, 99, 100, 101, 139, 191 Esiodo, 55, 62-63, 63, 72, 73, 74, 99,

103, 139, 140, 194 Etelberto, 314 Eubulide, 117 Euclide, 189, 279, 280, 326 Euclide di Megara, 116, 117, 121, 123,

130, 157 Eucrate, 102 Eudemo, 191 Eudosso di Cnido, 163, 190 Euripide, 83, 99, 100, 101, 106, 191 Eusebio di Cesarea, 257, 295 Eustochio, 270 Eutiche, 310 Eutifrone, 112 Ezechiele, 46, 93, 94 Fabio Pittore, 187 Farabi, al-, 335, 356, 357, 358, 359, 360, 383, 403 Federico Il0 di Svevia, 375, 378, 379,

384, 385, 395 Fibonacci, Leonardo, 378 Fichte, Johann Gottlieb, 306 Fidia, 58, 99 Filippo (apostolo), 254 Filippo il Bello, 421, 434, 438 Filippo II, 151 Filita, 191 Filodemo, 199, 202 Filolao, 66

Filone, 228, 238:239, 272 Firmico Materno, 276 Francesco di Assisi, 349, 375, 376,

382, 393, 394, 395, 396, 400, 405, 419, 433, 436

Freud, Sigmund, 223 Fucoldi, Guido, vedi Clemente IV Fu-Hsi, 19 Fung Yu Ian, 448 Galeno, 326, 355 Galileo, 154, 160, 163, 190 Gallo (san), 314 Fulberto, 346 Gaunilone, 343 Gelasio (papa), 434 Gemisto Pletone, 444 Gengis Khan, 375, 441 Genserico, 295 Gerberto di Aurillac (Silvestro II-

papa), 356, 379 Geremia, 44, 45, 93, 94 Germanico, 208 Gesu di Nazareth, 38, 107, 228, 236,

238, 242-262, 267, 282, 283, 285, 286, 287, 289, 290, 292, 296, 297, 301, 303, 313, 317, 318,_ 324, 325, 340, 341, 344, 349, 350, 377, 381, 394, 413, 422, 432, 436, 441

Ghazali-al, 335, 360, 362, 403, 420 Giacobbe, 246 Giacomo II d' Aragona, 419 Giamblico, 267, 276-278, 279, 280 Gilberto de la Porree (Porrettano),

353, 355 Gilberto da San Vi ttore, 345 Gilson, Etienne, 383 Gioacchino da Fiore, 373, 375, 377,

.398 Giotto, 375 Giovanni Damasceno, 308, 316-317 Giovanni (evangelista), 247, 248, 252,

254, 377 Giovanni di J andum, 439 Giovanni da Parigi, 413, 438 Giovanni di Fidanza, vedi Bonaventu­

ra Giovanni di Salisbury, 353, 355, 356

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Giovanni XXI, 415 Giovanni XXII, 417,419,428,435,438 Girolamo (san), 286, 293, 347 Giuliano (imperatore), 277, 278, 283 Giustiniano, 267, 281. 287, 309, 313,

325 Giustino, 228, 256-257, 258, 260, 281,

348 Gordiano III, 269 Gorgia, 99, 100, 103, 104, 106, 109,

117, 118, 128, 135 Gregorio Magno, 312-314 Gregorio di Nazianzo, 267, 289, 292 Gregorio di Nissa, 267, 289-290, 292,

319 Gregorio VII, 339, 341, 349, 350, 374.

434, 435, 436, 439 Gregorio IX (papa), 375, 382 Gregorio X (papa), 385 Grossatesta, Roberto, 373, 375, 397,

298, 400 Guglielmo di Champeaux, 354, 347,

351 Guglielmo di Conches, 354 Guglielmo di Moerbecke, 385, 417 Hallaj-al, 329 Hammurabi, 8 Han, 227, 370, 371 Han Cheu, 333 Han-fei-tzu, 226 Harnack, Adolf, 283 Hegel, Georg, 24, 53, 72, 280, 395 Hiuen Tsang, 306 Hobbes, Thomas, 226 Honayn, 326 Honen Shonin, 375, 446, 447 Hsun-tzu, 185, 226 Huss, Jan, 441 Innocenzo III, 374, 378, 434, 436 Innocenzo IV, 397 Ipazia, 267, 276, 279 Ippia, 106 Ippocrate, 102, 326, 355 Ireneo, 258, 261 Isaac ben Abraham, 381 Isacco, 246 Isaia, 16, 17, 44, 45, 93, 94, 237

!ndice analitico 0 459

Isidoro di Siviglia, 308, 311-312 Isocrate, 123 Isvarakrishna, 304 Jaeger, Werner, 150, 174 !Teremias, Alfred, 10 Jonas, Hans, 242 Kanada, 329 Kaniska, 265, 334 Kant, Immanuel, 155, 306, 343 Kautilya (Canakya), 184, 220, 221 Khaldun, Ibn, 414, 441-443, 442 Kindi-al, 356, 357, 402, 403 Kingsley, Charles, 279 Lakulin, 406, 407 Lao-tse, 17, 22, 24, 49, 225 Lattanzio, 295 Leconte de Lisle, 279 Lefevre d'Etaples, 384 Leibniz, Gottfried Willhelm, 420 Leonardo da Vinci, 81 Leone Isaurico, 314 Leone IV, 292 Leonzio, 201 Leucippo, 87 Licofrone, 106 Licone, 108 Licurgo, 213 Linnea, 3, 170 Lisicle, 102 Li Ssu, 226, 227 Lodovico il Bavaro, 428, 432, 435, 439,

440 Luca (evangelista), 254, 259 Lu-Chiu-yiian, 409 Lucrezio Caro, 195, 198, 203, 228, 232-

233, 235 Lukasiewicz, Jan, 204 Luigi VII, 339 Lullo, Raimondo, 413, 419-421, 419,

427 Lutero, Martin, 249, 327, 419, 432 Luzi, Mario, 279 Machiavelli, Niccolo, 137, 178, 221,

226, 442 Macrobio, 276 Madhva, 368, 375, 407 Mainardini, vedi Marsilio da Padova

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460 0 lndice analitico

Mahalingadeva, 408 Mahinda, 222 Mahmud, 404 Maimonide, Moise, 373, 375, 380, 381,

388 Maometto, 308, 317, 320-329, 406 Mamun-al, 326 Mani, 296 Manlio Teodoro, 296 Mansur, vedi Giovanni Damasceno Manzoni, Alessandro, 183 Marcione, 228, 241, 259 Marco (evangelista), 254 Marco Aurelio, 203, 257, 276, 301 Marco Polo, 102, 375, 419 Mario Vittorino, 276, 296 Marsilio da Padova (Mainardini), 413,

433, 435, 438-441, 439 Marx, Karl, 86, 443 Massimilla, 260 Maurya, 184, 220, 221, 222 Mates, Benson, 204 Matteo (evangelista), 254 Meceneo, 193 Meykanda, 407 Meleto, 108 Melisso di Sarno, 78, 79, 84 Menandro, 191, 222 Mencio (Meng-tzu), 26, 92, 185, 222-

224, 225, 226, 227, 410, 448, 452 Mendelejev, Dmitrij Ivanovic, 81 Menes, 12 Meng-tzu, vedi Mencio Metrodoro, 201, 202, 203 Michea, 45 Michelangelo Buonarroti, 50 Michele da Cesena, 428 Montano, 228, 259, 260, 262 Mose, 257, 285, 287, 324, 387 Mo-ti, vedi Mo-tse Mo-tse, 55, 90-92, 223, 224 Muhammad, vedi Maometto Muso Soseki, 446 Nafis, 375, 404 Nagarjuna, 268, 305-306, 307, 331, 334 Nagasena, 222 Nausifane, 193, 194, 201

Nearco, 79 Nestorio, 279, 292, 310 Niccolo V, 435 Nichiren, 375, 414, 445, 447 Nicia, 102 Nicomano, 151 Nietzsche, Friederich, 59 Nimbarka, 368 N umenio, 269 Occam, Guglielmo, 375, 393, 413, 425,

427-433, 428, 435, 436, 438, 439 Olimpiodoro, 276 Omero, 60, 63, 70, 72, 73, 101, 103,

140, 194, 284 Orazio, 119, 185 Origene, 258, 267, 277, 283, 285, 286-

288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 297, 319

Osea, 45, 94 Ottone di Sassonia, 336 Ovidio, 249 Panezio, 203, 228, 230-231, 232, 234,

295 Panteno, 285, 286 Paolo Diacono, 319 Paolo di Tarso, 193, 208, 243, 247,

248, 249, 251, 252, 255, 256, 259, 283, 294, 297, 315

Parmenide, 23, 73, 74-77, 78, 79, 80, 81, 83, 87, 89, 103, 104, 120, 130, 131, 143, 167, 270

Pascal, Biagio, 298 Patanjali, 268, 304, 305 Patrizio d'Irlanda (san), 314 Peguy, Charles, 279 Pelagio, 301, 313 Pericle, 79, 80, 83, 85, 98, 100-101,

102, 103, 105, 106, 112, 135, 137, 140, 147, 192

Perseo, 213 Petrarca, Francesco, 437 Pier Damiani, 341 Pietro Abelardo, vedi Abelardo Pietro di Morone, vedi Celestino V Pietro il Venerabile, 346 Pietro Lombardo, 421 Pindaro, 128, 178

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Pipino (re dei Franchi), 318 Pirrone, 184, 192, 214-216, 217, 219 Pisistrato, 60 Pitagora, 16, 17, 50, 55, 66, 66-69, 70,

79, 80, 81, 83, 97, 105, 129, 177, 202 Pitocle, 193 Platone, 1, 2, 12, 27, 63, 66, 67, 68, 74,

77, 85, 100, 103, 108, 109, 111, 114, 116, 117, 118, 120, 121-148, 149, 150, 154, 155, 156, 158, 161, 166, 167, 171, 174, 176, 177, 178, .180, 181, 182, 184, 190, 196, 202, 209, 214, 217, 231, 233, 234, 237, •257, 260, 264, 267, 268, 269, 271, 277, 281, 284, 285, 288, 290, 291, 294, 295, 297, 298, 302, 310, 315, 320, 326, 333, 342, 346, 347, 348, 350, 354, 355, 356, 357, 358, 362, 368, 381, 389, 394, 397, 402, 424, 444, 452

Plotino, 268-276, 269, 277, 281, 282, 283, 286, 294, 295, 296, 303, 304, 315, 326, 387

Plutarco, 186, 194, 197, 229, 279, 285 Polibio, 228, 230, 231 Policrate, 66, 67 Polignoto, 203 Pompeo, 231, 233, 234 Ponticiano, 296 Porfirio, 267, 268, 269, 275, 276-278,

279, 283, 284, 310, 345, 378 Posidonia, 203, 204, 228, 231-232, 234 Possidio, 295 Prasastapada, 329 Prassitele, 58, 62, 99 Prisciano, 281 Priscilla, 260 Proclo, 68, 267, 277, 278, 279-281, 315,

417 Prodico, 106 Protagora, 99, 100, 103, 104, 105, 106,

108, 109, 135, 144, 147, 234 Rabelais, Franr;ois, 309 Raimondo (vescovo), 379 Ramakrisna, 30 Ramanuja, 336, 367-368 Renan, Ernesto, 415

lndice analitico D 461

Revanarya, 408 Riccardo di San Vittore, 352 Roberto (monaco), 349 Rodolfo d'Asburgo, 375 Roscellino, 345, 347, 430 Rousseau, Jean Jacques, 223 Rumi (poeta persiano), 375 Sakiamuni Gotamo, vedi Buddha Saladino, 443 Sallustio, vedi Saloustio Salomone, 45, 237, 245, 384 Salonina, 269 Saloustio, 278, 279, 282 Santideva, 305, 306 Saul, 45 Scevola, Quinto Mucic, 232 Schopenhauer, Arthur, 420 Scipione l'Emiliano, 230, 231 Scoto Eriugena, Giovanni, 308, 309,

319-320, 336, 345, 356, 419 Scoto, Michele, 378, 379. Seleuco, 185 Seneca, 203, 212, 214, 265, 301 Senocrate, 190, 193, 217 Senofane, SO, 73-74, 79, 141, 216 Senofonte, 107, 119 Serse, 100, 220 Serveto, Michele, 404 Sesto Empirico, 104, 214, 217, 218,

219, 220 Sfero di Boristene, 213 Shankara, 308, 331-333, 334, 364, 365,

367, 368, 369, 448 Shao Yung, 371, 372, 409 Shinran, 375, 447 Shriharsa, 364, 365 Shripati, 408 Siddharta Gotamo, vedi Buddha Sigieri di Brabante, 375, 385, 386,

390, 392, 394, 413, 414-416, 415, 420 Silla, 153 Silvestro II (papa), vedi Gerberto di

Aurillac Simpliciano, 296 Sinesio, 276, 279 Siriano, 277, 279 Siuan, 223

Page 476: Balducci, Ernesto-Storia Del Pensiero Umano. Volume Primo. 1 3-Cremonese(1986)

462 0 lndice analitico

Siun-tse, vedi Hsun-tzu Socrate, 65, 77, 83, 98, 99, 100, 101,

103, 105, 106, 107-115, 108, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 134, 135, 142, 148, 154, 159, 176, 193, 206, 209, 217, 221, 222, 228, 231, 248, 270, 349, 424

Sofocle, 65, 99, 100, 101, 191 Sofronisco, 108 Salone, 54, 99 Somananda, 407 Speusippo, 190 Spinoza, Benedetto, 418 Stefano di Alessandria, 279 Stilpone, 117 Stratone, 188 Suhrawardi, 375, 414, 443-444 Sung (dinastia), 375 Suso, Enrico, 419 Taymiyya Ibn, 374, 405 Talete, 49, 50, 52, 53, 80, 81, 161 Tamerlano, 442 Tang, 370 Tauler, Johann, 419 Taziano, 257 Teilhard De Chardin, Pierre, 4 Tempier, Stefano, 375, 392, 415, 424 Teocri to, 191 Teodorico (della scuola di Chartres),

353, 354 Teodorico (re degli Ostrogoti), 310,

311 Teodoro, 123 Teodosio (il Grande), 276, 292 Teofilo, 293 Teofrasto, 151, 170, 178, 191, 198, 217 Tertulliano, 229, 260-262, 277, 282 Timone, 184, 214, 215, 216, 217, 219 Toynbee, Arnold, 7 Tolomeo, Claudio, 163, 185, 188, 190,

279, 326 Tommaso d'Aquino, 254, 298, 315,

317, 342, 343, 347, 364, 373, 375, 376, 377, 382, 383, 384-392, 385, 392, 394, 395, 396, 401, 413, 414, 415, 416, 417, 422, 424, 425, 427, 436, 448

Trasillo, 126 Trasimaco, 105, 106, 110, 135 Tucidide, 99, 102, 230, 233 Ugo di San Vittore, 351-352 Umapati, 407 Utman, 321 Utpaladeva, 407 Valdo, Pietro, 376 Valentiniano III, 276 Valentino, 241, 258, 285 Valmiki, 262 Varrone Atacino, 208 Varrone, Marco Terenzio, 232, 310 Vasubandhu, 306, 307 Vasugupta, 407 Vasumitra, 265 Vatsyayana, 329 Verne, Jules, 399 Viasa, 262 Vico, Giambattista, 60, 442 Virgilio, 228, 230, 235, 236 Wang Shou-jen, 409 Weber, Max, 221 Wieger, Louis, 24 Wyclif, John, 441 Wilamowitz, Ulrich, 127 Yii, 19 Zaratustra, 2, 16, 17, 41-43, 41, 56, 66,

97, 131, 277, 444 Zeller, Eduard, 118 Zenone di Cizio, 184, 192, 203, 205,

208, 209, 210, 212, 213, 216, 217, 223

Zenone di Elea, 77-78, 79, 84, 87, 90, 103, 106, 117, 130, 163

Zenone (imperatore d'Oriente), 325 Zoroastro, vedi Zaratustra