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Liceo Cantonale di Lugano 1 Le basi biologiche della comunicazione e del comportamento animale Autismo: cause, sintomi e possibili terapie Lavoro di maturità di: Lorenza Pacchin Docenti responsabili: Prof.ssa Manuela Varini Prof.ssa Lisa Palme Anno 2011/12

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Liceo Cantonale di Lugano 1

Le basi biologiche della comunicazione e del comportamento animale

Autismo: cause, sintomi e possibili terapie

Lavoro di maturità di: Lorenza Pacchin

Docenti responsabili: Prof.ssa Manuela Varini Prof.ssa Lisa Palme

Anno 2011/12

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Immagine copertina: bambino autistico che osserva una farfalla. Il pezzo di puzzle è una tematica ricorrente per

raffigurare l’autismo. Foto modificata da Lorenza Pacchin (www.actiweb.es, gennaio 2012)

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Indice

Abstract .............................................................................................................................................. 5

1. Introduzione ......................................................................................................................... 6

1.1. Scopo .................................................................................................................................... 6

1.2. Definizione di autismo ......................................................................................................... 7

1.3. Principali scoperte sull’autismo nel tempo .......................................................................... 8

1.4. Altre patologie simili .......................................................................................................... 10

2. Svolgimento ....................................................................................................................... 11

2.1. Dati statistici ....................................................................................................................... 11

2.2. Possibili cause .................................................................................................................... 13

2.3. Possibili trattamenti ............................................................................................................ 26

2.4. Quali possibilità di integrazione per le persone autistiche? ............................................... 38

3. Conclusione ........................................................................................................................ 41

4. Ringraziamenti ................................................................................................................... 43

5. Bibliografia ......................................................................................................................... 43

5.1. Sitografia ............................................................................................................................ 44

5.2. Fonte delle immagini .......................................................................................................... 47

5.3. Comunicazioni personali e conferenze .............................................................................. 47

6. Allegati ............................................................................................................................... 48

6.1. Immagini encefalo .............................................................................................................. 48

6.2. Interviste ............................................................................................................................. 50

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Abstract

Con questo lavoro di maturità si sono volute approfondire le cause di tipo genetico e ambientale

dell’autismo, come pure i sintomi, le possibili terapie e le possibilità di integrazione nella società di

persone presentanti tale sindrome.

Dopo un’introduzione generale, che illustra come le ricerche si siano evolute nel tempo e quali siano le

varie tipologie dei disturbi dello spettro autistico, si sono approfonditi i fattori genetici e ambientali che

potrebbero spiegare il motivo di un aumento così sensibile del numero di casi riscontrato negli ultimi

anni.

Riguardo alle cause genetiche vi sono diverse ipotesi, mentre dai risultati di diverse ricerche recenti,

sembra inequivocabile l’influenza negativa di metalli pesanti, a volte presenti nei vaccini per i bambini, in

particolare modo del mercurio.

A questo proposito, da qualche anno, sono infatti stati effettuati, e sono tuttora in atto, molti studi per

determinare se effettivamente vi sia una correlazione tra l’esposizione dei bambini al mercurio, tramite

vaccini, e lo sviluppo dell’autismo nei soggetti, che già presenterebbero una predisposizione genetica a

uno smaltimento inefficace di tali sostanze nocive durante lo sviluppo cerebrale.

Infine, si è esaminato il deficit a livello del sistema dei neuroni specchio e come questo influisca sul

comportamento dei soggetti autistici.

Dopo aver preso in considerazione i fattori che portano allo sviluppo di questo disturbo, sono stati studiati

i diversi metodi di trattamento, sia cognitivi che farmacologici. A questo proposito sono state illustrate

inizialmente tutte le teorie della psicoeducazione (TEACCH, DIR, RDI, ABA classico e ABA moderno),

in seguito il metodo AIT, i vari possibili interventi di tipo farmacologico e infine una nuova tecnica,

ancora in fase di sperimentazione, riguardante la somministrazione di ossitocina e vasopressina, in quanto

ormoni che favorirebbero le interazioni sociali e migliorerebbero la qualità dei rapporti con le altre

persone.

Per quel che concerne le possibilità di integrazione nel mondo del lavoro di persone autistiche è stata

inoltre riportata l’esperienza di Laurent Mottron, professore e psichiatra all’Università di Montreal, il

quale ha integrato nel suo team alcuni soggetti autistici al fine di dimostrare quali pregi queste persone

possano avere e che contributi possano dare, soprattutto in ambiti scientifici e di ricerca.

Oltre alla ricerca bibliografica e alla partecipazione a conferenze specialistiche, sono state effettuate

interviste a educatori e ricercatori attivi nel settore, come pure ai genitori di una ragazza autistica.

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1. Introduzione

1.1. Scopo

Mi sono sempre chiesta cosa avvenisse nella mente di una persona autistica. Alcuni sono riusciti a

descrivere cosa vuol dire: gli autistici percepiscono il mondo come un luogo pauroso e caotico. Venendo

a contatto con uno di essi, possono sorgere diverse domande: “Perché non guarda le persone negli occhi

ed evita il contatto fisico? Perché la sua memoria è così sviluppata?”. O ancora: “Come mai può essere

estremamente abile in alcuni campi, ma poi non è in grado di allacciarsi le scarpe da solo? Com’è il suo

mondo, che sembra privo di emozioni?”.

Sono proprio queste le domande che mi sono posta e che mi hanno spinto a scegliere questo tema. Trovo

che l’autismo sia una sindrome che, per quanto grave possa essere, sia anche affascinante da studiare.

Credo inoltre che avere a che fare con un bambino affetto da autismo e capire il perché dei suoi

enigmatici comportamenti, sia un’esperienza arricchente.

L’argomento ha iniziato a incuriosirmi quanto ho scoperto che il figlio di un nostro conoscente aveva

questo disturbo. Questo fatto mi ha subito colpita molto. Penso che finché non veniamo a contatto con

uno di essi, non ci rendiamo conto di cosa possa voler dire convivere con questo disagio. Perciò ho scelto

di svolgere il mio lavoro di maturità sui disturbi dello spettro autistico.

Le domande a cui vorrei dare una risposta sono innanzitutto, se questo disturbo è causato da un difetto già

a livello del DNA o se si sviluppa in seguito. Ci sono fattori ambientali, come ad esempio sostanze

tossiche, che possono influenzare lo sviluppo di questa patologia? Inoltre, se è effettivamente dato da una

o più mutazioni genetiche, è possibile individuarle prima che si manifestino i comportamenti

caratteristici? Se sì, di che tipo di mutazione/i si tratta?

Oggi sappiamo che l’autismo è una malattia neurologica, che non è data dal comportamento errato dei

genitori verso il figlio, quindi la causa dello sviluppo del disturbo non è psicologica, come si credeva fino

a una decina di anni fa. Questa scoperta ci porta a domandarci se allora ci sia anche in qualche modo una

componente ereditaria. Magari i membri all’interno di una stessa famiglia sono più soggetti a questo

disturbo rispetto ad altri.

Per rispondere a questi quesiti ho deciso in primo luogo di fare delle ricerche di tipo bibliografico sulle

recenti scoperte scientifiche in questo ambito e in seguito di mettermi in contatto diretto con persone del

campo per vedere come la varie mutazioni genetiche si riflettano sul comportamento dei soggetti e sulle

loro capacità e, infine, come si possa eventualmente intervenire per migliorare la situazione, anche se una

completa guarigione al momento sembrerebbe da escludersi.

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1.2. Definizione di autismo

Data l’ampia gamma di sintomi caratteristici della malattia e i diversi gradi di gravità, ciò che noi

chiamiamo genericamente autismo viene definito oggi dalla comunità scientifica come “Disturbi dello

spettro autistico” (ASD: Autistic Spectrum Disorders) (1).

I sintomi dell’autismo appaiono quasi sempre nei primi tre anni d’infanzia. Le prime difficoltà evidenti

riguardano lo sviluppo di rapporti sociali e del linguaggio (l’errore più comune è ad esempio quello di

confondere le persone: l’uso del “tu” al posto dell’”io” o viceversa, dato da una difficoltà a distinguere le

persone), nonché la presenza di comportamenti ripetitivi e compulsivi come rituali e in gran parte un

ritardo mentale (2).

Viste le difficoltà nella formulazione di una prognosi precisa di autismo, spesso viene eseguito un test per

valutare il QI. Ne risulta che i bambini con un quoziente inferiore a 50 sono quasi sempre autistici.

Questo esame si basa sulle parole che un bambino di circa 7 anni è in grado di usare (2). Inoltre più del

75% dei soggetti affetti presenta, se pur a volte in forma lieve, un ritardo mentale, come dimostrò Smalley

già nel 1997 (6).

La gravità dei sintomi dell'autismo varia molto e la maggior parte dei casi tende a migliorare con l'età,

anche se guarire totalmente è praticamente impossibile, trattandosi, sembrerebbe, di un deficit genetico

(1) (3).

I sintomi riguardano tre aree della personalità: comunicazione verbale e non verbale, interazione sociale e

immaginazione o ciò che viene chiamato “repertorio di interessi” (1) (3).

Concentriamoci in primo luogo sull’aspetto della comunicazione: il bambino autistico utilizza il

linguaggio in modo particolare e a volte per noi incomprensibile, nei casi più gravi emette solo gemiti o

appare del tutto muto. Spesso ripete parole o suoni che sente pronunciare. Questo tipo di comunicazione

viene definita “ecocalia” ed è presente nel 50% degli autistici (1) (3).

Per quanto riguarda l’interazione sociale invece, si nota in primo luogo una mancanza di interesse e di

contatto reciproco con gli altri; il bambino tende a isolarsi, spesso in luoghi chiusi e molto piccoli per

estraniarsi dalla realtà entrando in un suo mondo virtuale. Alcune volte può apparire indifferente a certi

stimoli esterni, quasi non li percepisse, mentre altre volte reagisce in modo esagerato ad essi. Spesso,

infatti, i bambini affetti da autismo sono inizialmente diagnosticati come sordi, perché non mostrano

alcuna reazione quando sono chiamati per nome (1) (3).

Ciò che caratterizza una persona autistica è anche la difficoltà ad instaurare un contatto visivo, sostenere

una conversazione o partecipare a giochi in gruppo rispettando il proprio turno (1) (3).

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Infine l’immaginazione o “repertorio di interessi” sono di solito molto limitati. Ad esempio, un

comportamento viene ripetuto in modo ossessivo e si possono osservare sequenze di movimenti

stereotipati (come torcersi o mordersi le mani, sventolarle in aria, dondolarsi, gemere, ecc.). Inoltre, un

soggetto autistico può manifestare un eccessivo interesse per specifici oggetti o parti di essi, in particolare

se hanno forme tondeggianti (1) (3).

Un altro segno è la resistenza al cambiamento, che per alcuni può diventare una vera fobia: la persona può

esplodere in crisi di pianto o di riso, può diventare autolesionista, iperattiva ed aggressiva verso qualsiasi

cosa o persona a lei vicina, se si trova in un posto sconosciuto o se, nei luoghi a lui conosciuti, si

cambiano di posto o si lasciano in disordine mobili, oggetti e simili (1) (3).

1.3. Principali scoperte sull’autismo nel tempo

Il termine autismo fu descritto per la prima volta da Leo Kanner, uno psicologo infantile, nel 1943. La sua

definizione iniziale, basata solamente su 11 casi, fu “un’innata inabilità a forme di usuale contatto

affettivo con le altre persone, biologicamente provata” (1).

Per molto tempo si è pensato che l’autismo fosse la conseguenza di un’errata istruzione da parte dei

genitori e di una madre troppo distaccata, la cosiddetta “madre frigorifero”. Questa teoria persistette dagli

anni 1950 al 1970, durante i quali si sviluppò un forte interesse per questo disturbo da parte di psicologi

di tutto il mondo (H. Markram, K. Markram e T. Rinaldi, 2007).

In seguito, i primi a condividere questa teoria furono gli psichiatri londinesi Tustin e Bettelheim;

quest’ultimo giunse anche a proporre come terapia il distacco completo dalla famiglia, la cosiddetta

"parentectomia" (1).

"Fino a non molti anni fa c'era chi, guidato dalla teoria psicogenica, che attribuiva ai genitori la

responsabilità dell'autismo, consigliava l'allontanamento dei bambini dalle loro famiglie. Con la

confutazione di questa teoria, e bandite le ingiuste accuse ai genitori, sono scomparsi anche gli

"allontanamenti terapeutici", e i genitori sono ora considerati dai medici e dagli psicologi come una

risorsa di grande valore non solo nella fase diagnostica, ma anche in quella riabilitativa" (Surian, 2005)

(1).

Per smentire queste teorie che riponevano le cause dell’autismo nei genitori, nel 1951, Anna Freud e S.

Dann analizzarono un campione di giovani, i quali avevano passato l’infanzia nei campi di

concentramento durante la seconda guerra mondiale. Il risultato del loro studio dimostrò che neppure in

condizioni così critiche di mancanza di affetto era possibile sviluppare la patologia (1).

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Seguirono poi Bernard Rimland e Michael Rutter che, nel 1964, per primi, stabilirono su larga scala che i

genitori di bambini autistici non avevano nulla di diverso da tutti gli altri genitori e iniziarono perciò delle

ricerche sulle cause neurobiologiche di questo disturbo (1).

Dal 1980 si svilupparono notevolmente le ricerche sulle interazioni e i legami con le persone così come le

indagini mediche epidemiologiche, genetiche e di neuroimaging1 che ancora attualmente sono la base

fondamentale degli studi clinici di questo disturbo (H. Markram, K. Markram e T. Rinaldi, 2007).

Oggi, l’autismo è catalogato come un disturbo dello sviluppo mentale, che si manifesta entro i primi tre

anni del bambino e, se non curato, va peggiorando nel corso della vita (H. Markram, K. Markram e T.

Rinaldi, 2007).

Sebbene quindi l’autismo sia ora riconosciuto come malattia genetica e non puramente psicologica,

persistono ancora oggi parecchi studi focalizzati su possibili concause relazionali che determinerebbero

l’attivazione di tale disturbo, in maniera più o meno evidente a seconda del singolo caso (1). La teoria più

accreditata prevede un’influenza di mutazioni genetiche, sia comuni che più rare, e fattori

ambientali.Come mostra la figura 1, l’interazione di questi tre elementi porterebbe allo sviluppo

dell’autismo. (Walsh et al., 2011)

Figura 1: Fattori di rischio per l’autismo.

1 Risonanza magnetica dell’encefalo atta a capirne il funzionamento e individuare le aree attive in determinate

situazioni (Enciclopedia della Medicia, DeAgostini, 2003).

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1.4. Altre patologie simili

1.4.1. Sindrome di Asperger

A differenza dell’autismo, la sindrome di Asperger non presenta ritardi mentali o a livello di linguaggio,

presente invece in circa il 70-75% degli autistici. Il QI (quoziente intellettivo) di queste persone è uguale

se non superiore alla media, tanto che questo disturbo viene anche chiamato “Autismo ad alto

funzionamento” (3).

Sintomi

I soggetti affetti da questa sindrome presentano deficit nelle interazioni sociali, tendenza a isolarsi,

difficoltà ad accettare i cambiamenti, comportamenti ossessivi e ripetuti e un estremo interesse per

argomenti particolari, per esempio la matematica.

Questo disturbo viene diagnosticato più tardi rispetto all'autismo, essendo meno evidente, ma anche in

questo caso persiste per tutta la vita (3).

1.4.2. Sindrome di Rett

È una malattia neurologica, che, contrariamente all’autismo, colpisce prevalentemente le femmine.

Anch’essa si manifesta entro i primi 3-4 anni e colpisce circa una persona su 10.000.

La sindrome prende il nome da Andreas Rett, che ne diede la prima definizione nel 1966 (3).

Sintomi

Si osservano ritardi nel linguaggio e nella coordinazione motoria. La sindrome è spesso associata a un

grave ritardo mentale che, contrariamente all’autismo, va aggravandosi con l’età. Infatti, chi ne è affetto si

ritrova a dipendere dagli altri per tutta la vita.

Fino ai 5 mesi il bambino si sviluppa normalmente, dopodiché subisce un arresto e poi una regressione

delle capacità cognitive fino a quel momento acquisite. Un altro sintomo visibile è l’arresto della crescita

del cranio e la perdita delle abilità motorie e manuali; cominciano inoltre a comparire i primi movimenti

stereotipati come battere le mani e torcersi (3). In molti casi sono anche presenti altre disfunzioni, quali

irregolarità nella respirazione, anomalie riscontrate mediante l'EEG (elettroencefalografia), epilessia

(oltre il 50%), aumento della rigidità muscolare con l'età, scoliosi2 e ritardo della crescita (3).

2 Malattia caratterizzata dalla deviazione laterale della colonna vertebrale associate a rotazione anomala di alcune

vertebre (Enciclopedia della Medicia, DeAgostini, 2003).

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2. Svolgimento

2.1. Dati statistici

L’autismo si manifesta quasi sempre entro i primi 3 anni di vita (H. Markram, K. Markram e T. Rinaldi,

2007).

L’incidenza di questa malattia varia da 2 a 50 persone ogni 10'000 e colpisce indipendentemente persone

di ogni razza, paese o condizione sociale (1) (3).

L'autismo è da due a quattro volte più comune nei maschi che nelle femmine (2).

Analizzando i casi di autismo nei gemelli omozigoti, il 60% di essi risultano entrambi affetti; ciò indica,

probabilmente, una componente genetica (2). Tuttavia non può trattarsi dell’unico fattore scatenante,

altrimenti, a rigor di logica, il 100% dei casi studiati svilupperebbe l’autismo (1) (3). Si ipotizzano,

perciò, anche altre concause di tipo ambientale durante lo sviluppo (1).

Un altro dato, che dimostra il fattore genetico dell’autismo, è il fatto che, all’interno di una famiglia che

presenta già casi di disordini dello sviluppo, il rischio di esserne affetti è significativamente più alto (2).

Alcuni casi di autismo sono stati spesso associati ad altri disturbi del sistema nervoso: epilessia, sclerosi

tuberosa, sindrome di Rett, sindrome di Down, sindrome della rosolia congenita, malattia da

citomegalovirus, fenilchetonuria e sindrome dell'X fragile (1) (3).

Contrariamente a una cinquantina di anni fa, la psicoanalisi ha abbandonato molte teorie riguardanti le

cause dell’autismo (3).

Ciò non esclude però l’utilità di un intervento psicologico che coinvolga tutta la famiglia al fine di

migliorare la condizione del soggetto autistico (1).

Inoltre, il grafico 2 mostra l’aumento del numero di autistici negli ultimi 10 anni negli Stati Uniti. Tale

statistica sembrerebbe smentire la teoria che l’autismo sia dovuto solo a fattori genetici, altrimenti non

avrebbe dovuto verificarsi un incremento così significativo.

Grafico 2: Aumento del numero di soggetti

autistici diagnosticati dal 1975 al 2009 negli

Stati Uniti.

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Ora, le conclusioni che se ne possono trarre sono due. La prima è che semplicemente, fino a pochi anni fa,

molti casi non venivano diagnosticati per mancanza di conoscenze. La seconda è che questa malattia sia

provocata non solamente da cause genetiche, ma anche da fattori ambientali, come possibili virus o

sostanze nocive. Per quanto riguarda questa tesi, sono tutt’ora in corso parecchie ricerche tossicologiche, i

cui risultati verranno presi in considerazione nei seguenti capitoli.

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2.2. Possibili cause

2.2.1. Genetiche

Gli studiosi Folstein e Rutter (1977) si sono occupati dell’aspetto ereditario dell’autismo analizzando i

casi di autismo all’interno delle stesse famiglie con soggetti affetti e non. Hanno ad esempio riscontrato

casi di genitori e figli entrambi autistici, anche se è raro che un soggetto con tale disturbo abbia un

bambino. Essi hanno così concluso che l’autismo sia dovuto a lesioni post-nascita abbinate ad una

predisposizione genetica, mentre hanno quasi del tutto escluso la sola ereditarietà della sindrome (6).

Un’ipotesi, largamente confermata, è che la sindrome dell’X fragile3 sia un elemento che predispone allo

sviluppo dell’autismo (Bianchi, 1998).

Sono numerosi gli studi a livello genetico, che cercano delle mutazioni comuni a tutti i soggetti autistici.

Finora però, i risultati ottenuti non sono abbastanza soddisfacenti da poterne dedurre una regola generale

e scientifica (6).

Alcuni di questi studi sono stati eseguiti da Elena Maestrini, International Molecular Genetic Study of

Autism Consortium (2001), come anche da Yu et al. (2002), Weiss et al. (2009), Kilpinen et al. (2009),

Spence et al. (1985), Lopreiato and Wulfsberg (1992), Vincent et al. (2006), Moessner et al. (2007), Kim

et al. (2008), Cusco et al. (2009), Trikalinos et al. (2006), Liu et al. (2001), Alarcon et al. (2002) e Yonan

et al. (2003). I dati ottenuti da tutti questi studi però non sembrano essere molto concordanti tra loro. Essi

mostrano infatti mutazioni a livello di singole basi azotate sia all’interno di geni che in regioni

intergeniche dei cromosomi 1, 2, 5, 6, 7, 8, 16, 19, 20, 21, 22 e del cromosoma X.

Oltre alla grande discrepanza tra i dati, ciò che ancora lascia perplessi persino i ricercatori stessi sono le

basse percentuali dei risultati ottenuti che variano infatti da una frequenza di mutazione minima di 1% a

una massima di 12% nei soggetti autistici (6).

Una delle ipotesi più accreditate finora è quella dell’autismo da fenilchetonuria o iperfenilalaninemia,

malattia genetica che causa l’assenza di un enzima in grado di convertire l’amminoacido fenilalanina

nell’ormone tiroxina. Non avvenendo questa conversione, nel soggetto si accumulano eccessive quantità

3 La sindrome dell’X fragile (FraX) deriva da una mutazione nella regione finale del cromosoma X a livello di un

gene chiamato FMR1. Questa malattia provoca un ritardo mentale ed è presente in un maschio ogni 4000 (15).

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di tale amminoacido, che provoca in particolar modo ritardi o disabilità mentali e i classici sintomi

dell’autismo (Montanari, 2000).

Esistono inoltre atri tipi di mutazioni genetiche, che sembrerebbero determinare una maggiore sensibilità

ai fattori ambientali a rischio. È il caso, ad esempio, del gene C4B (complement component 4B: Chido

blood group), il cui allele mancante renderebbe il soggetto particolarmente sensibile alle esposizioni da

mercurio, come verrà esposto in seguito nel paragrafo sulle cause ambientali (9).

2.2.2. Ambientali

Gli studiosi sono convinti che l’influenza di fattori genetici per lo sviluppo di disturbi dello spettro

autistico è stata sovrastimata (12) e molte persone non accettano più la semplicistica spiegazione che

molti casi, fino a 15 anni fa, non venivano diagnosticati, mentre ora si riconoscono, poiché i

comportamenti caratteristici sono molto visibili ed è discutibile che gli specialisti, fino a così pochi anni

fa, abbiano potuto trascurarli (9).

Un’ “epidemia”, come molti la definiscono, di tipo genetico è impossibile. Bisogna quindi esaminare più

attentamente i possibili fattori ambientali per capire le cause dell’autismo, così che i nuovi casi si possano

trattare correttamente se non addirittura evitare (12).

I principali fattori ambientali che sembrerebbero causare l’insorgere di questa malattia sono la nascita

pretermine con un peso particolarmente basso, una forte mancanza di vitamina D durante la

gravidanza (1), nonché l’anzianità dei genitori, in particolar modo del padre, infatti l’aumento del

rischio è da attribuire a mutazioni genetiche nello sperma, più elevate in base all’età (5).

In questi ultimi anni si sono poi sviluppate diverse teorie, che sostengono che l’autismo sia anche dovuto

all’esposizione a sostanze tossiche, elementi chimici dannosi (mercurio, alluminio, piombo e altri

metalli pesanti) o infezioni virali.

Il periodo più sensibile a queste sostanze è la gravidanza e i primi mesi di vita, in quanto il feto o il

neonato è molto vulnerabile e non presenta ancora un sistema immunitario abbastanza sviluppato.

Tali tossine vengono assorbite molto facilmente dal cervello, che spesso non riesce a eliminare, e

innescano così lo sviluppo dei disturbi dello spettro autistico (5).

Le ricerche degli ultimi anni sono andate via via concentrandosi sulle possibili correlazioni tra vaccini e

autismo (12).

L’elemento che ha portato allo sviluppo di questa ipotesi è che l’aumento dei casi di autismo corrisponda

all’aumento delle vaccinazioni, fenomeno evidenziato da più studiosi e associazioni, come la National

Autism Association o il Dr. A. Wakefield nel marzo 1998 (9).

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Quest’ultimo ha riportato nella sua pubblicazione del 1998 molti casi, in cui la tempistica tra la

somministrazione di vaccini e l’apparizione dei primi sintomi tipici dell’autismo, sembra non lasciare

dubbi riguardo alla correlazione tra di essi. L’immediata reazione alla pubblicazione di questi articoli è

stata negativa, sono comparse molte pubblicazioni che smentivano e sostenevano l’opposto, criticando gli

studi di Wakefield. A seguito di ciò, sono però state iniziate molte ricerche, diverse delle quali sono

tuttora in corso (9).

La Medicines Control Agency statunitense ha supportato e sostiene tuttora le ricerche di Wakefield per

far luce su questa tematica (9).

La Food and Drug Administration (FDA), sempre degli Stati Uniti, ha riportato diversi casi di sintomi

autistici apparsi subito dopo la somministrazione di alcuni vaccini contenti mercurio (ad esempio contro

l’influenza, il tetano, l’epatite B o altri ancora) a cui i bambini, in età compresa tra 1 e 6 mesi, sono stati

sottoposti (11).

Negli studi risalenti al 1985 il numero di autistici negli Stati Uniti era stimato a 1 su 2'500, nel 1995 è

aumentato a 1 su 500 e nel 2001 ha raggiunto 1 caso su 250 (Weintraub Karen, 2011). Il grafico 3 mostra

questi dati per quanto riguarda la situazione in California.

Grafico 3: Aumento dei casi di autismo in California in correlazione all’aumento di vaccini contenenti mercurio dal

1985 al 1998.

I dati statistici recentemente pubblicati dall’ASH (Office of the Assistant Secretary of Health), del

dipartimento della salute degli Stati Uniti, mostrano che ogni anno 35'000 bambini sviluppano disfunzioni

permanenti al cervello a causa dei vaccini (16).

Ma perché i vaccini sembrerebbero essere così potenzialmente dannosi?

Al giorno d’oggi i bambini in America ricevono 21 vaccinazioni nei primi 15 mesi (13) e la maggioranza

di essi, dai primi contro l’influenza a quelli introdotti nel 1985 al 1990 contro l’epatite B, spesso

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contengono alluminio e in particolare mercurio a livelli potenzialmente tossici (11). Parte di queste

sostanze, le più tossiche, vengono utilizzate durante la produzione e, a fine processo, vengono filtrate e

quasi completamente eliminate, ma molte altre, come soprattutto il mercurio, sono utili per la

conservazione del vaccino e vengono quindi introdotte alla fine della fabbricazione. Ciò avviene poiché,

essendo prodotti in dosi massicce dalle maggiori multinazionali, i vaccini necessitano di poter essere

conservati anche per diversi mesi (12).

Come noto, il mercurio è una sostanza non radioattiva tra le più tossiche al mondo ed è dannosa in

particolare durante lo sviluppo del cervello umano (7). Malgrado ciò, esso è contenuto in plastiche PVC,

dentifrici, cera per pavimenti, mascara e altri trucchi per il viso (11).

Tale sostanza si può trovare sotto svariate forme:

Hg2+

, mercurio inorganico, presente in natura

Hg-R, mercurio organico (legato ad atomi di carbonio):

1. mHg, metilmercurio. Convertito da alcuni batteri, entra nella catena alimentare in dosi

sempre maggiori a causa del fenomeno del bioaccumulo. A noi arriva per lo più dal pesce

che mangiamo.

2. eHg etilmercurio, sintetizzato in laboratorio, infatti non esiste in natura, usato

inizialmente come fungicida (11).

È nella forma di etilmercurio, che viene impiegato per la produzione di Thimerosal (TMS), sostanza usata

unicamente per la conservazione di vaccini e formata per il 49.6% appunto da eHg (Bernard et al., 2001).

Essendo risaputo che il mercurio è molto tossico, la quantità permessa in un vaccino non dovrebbe

superare i 0.5 mg (Midthun et al., 2001), purtroppo però spesso ogni dose ne contiene in media 25 mg

(11). Inoltre un bambino dovrebbe venir sottoposto nei primi 6 mesi al massimo a 3 mg di mercurio,

quantità che si sta cercando di raggiungere oggi, ma fino a pochi anni fa purtroppo i bambini, nei primi

sei mesi, ne ricevevano circa 187 mg. Arrivare a una somministrazione massima di 3 mg significherebbe

una riduzione di oltre il 98% (Midthun et al., 2001).

Recentemente, nel marzo del 2011, la rivista Natural News ha pubblicato un articolo di Aaron Ethan A.

Huff, in cui si sostiene che gli effetti tossici del TMS sono stati nuovamente confermati nella review

effettuata dalla professoressa Jose Dorea e i dai suoi collaboratori dell’Università delle scienze della

salute di Porto Alegre (Brasile), e pubblicata nel febbraio 2011. L’analisi di innumerevoli studi, effettuati

sia su modelli murini, che su culture di cellule nervose umane, dimostrerebbero infatti i seri danni al

cervello dovuti all’esposizione al mercurio, e quindi al TMS, e la sua connessione con i disturbi dello

spettro autistico nei bambini, nonché i danni causati ai neuroni (Dórea et al., 2011).

Lo studioso S. Bernard e il suo team della ARC Research di Cranford (New Jersey, USA) sono stati quelli

che si sono focalizzati maggiormente su questa teoria. Come risultato dei loro studi, essi hanno scritto un

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approfondito articolo (Bernard et al., 2003), nel quale si mette in relazione lo sviluppo dell’autismo con

l’intossicazione da mercurio (HgP). Sono stati esaminati tutti gli aspetti di entrambi i disturbi e il

parallelismo tra i due è risultato essere molto evidente. Vediamo quindi i principali sintomi che le due

sindromi hanno in comune (9).

In primo luogo, in entrambi i casi, vengono intaccate le capacità del soggetto, come ad esempio disordini

del movimento, mancanza di coordinazione, difficoltà nel rimanere seduti correttamente, deficit nella

comprensione e nell’elaborazione di discorsi, confusione mentale e mancanza di concentrazione (12), ma

in secondo luogo ne risente anche il rapporto con gli altri attraverso lo sviluppo di un’estrema timidezza,

indifferenza, rifiuto del contatto fisico, desiderio di restare soli, irritabilità e aggressività (Bernard et al.,

2001).

Altre correlazioni tra i due disturbi sono il fatto che l’intossicazione da mercurio, così come l’autismo, è

molto più presente nei maschi, con un rapporto di circa 1:4, spesso è presente un’ipersensibilità alla luce

(fotofobia) e danni all’udito e non da ultimo, come stimato dai ricercatori Gillberg e Coleman, il 35-45%

dei soggetti autistici sviluppa l’epilessia, malattia che caratterizza anche le intossicazioni da mercurio

(Bernard et al., 2001).

Gli autistici sono più soggetti ad avere asma, allergie, elevati livelli di immunoglobuline di classe G e M.

Similmente le persone affette da HgP hanno dimostrato atipiche reazioni allergiche o autoimmuni, asma e

anche alti livello di IgG e IgM (Bernard et al., 2001).

È anche possibile però, che il contenuto in mercurio dei vaccini vada a sommarsi a quello già presente

nell’individuo, perché trasmesso dalla madre durante la gravidanza (Bernard et al., 2001).

Infatti molti pesci e molluschi contengono metilmercurio, proveniente dalle acque inquinate, in grandi

dosi a causa del bioaccumulo. Questa sostanza viene assorbita facilmente dal tratto gastrointestinale,

inoltre questo metallo pesante allo stato gassoso è in grado di attraversare la placenta e una volta entrato

nelle cellule del feto, viene trasformato nella sua forma cationica Hg2+

, con cui si legano i gruppi

solfidrici (-SH) di enzimi e proteine. Una volta assunta la forma ionica, difficilmente viene eliminato (9).

L’organo che accumula più mercurio di tutti è il cervello. I neuroni tendono poi ad essere un po’

inefficienti nei meccanismi di eliminazione di tale metallo ed è per questo, che dal cervello difficilmente

viene espulso.

È soprattutto nello sviluppo di questo organo, che il mercurio agisce negativamente, dando origine a

danni permanenti, infatti interferisce con la migrazione e la divisione cellulare (Bernard et al., 2001).

Come detto precedentemente, il mercurio organico si lega alle molecole solfidriche, impedendo varie

funzioni della cellula, tra cui l’ossidazione dei composti sulfurei e l’assorbimento di solfati nell’intestino

e nei reni. I bambini autistici mostrano difficoltà proprio in questi processi, oltre ad avere bassi livelli di

solfati nel sangue (Bernard et al., 2001).

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Inoltre, anche la mielinizzazione4 è un processo essenziale per lo sviluppo del cervello. Infatti, i nervi

possono trasmettere impulsi in maniera ottimale solo se sono ricoperti di mielina, che mantiene integro il

segnale elettrico, lo velocizza e ne evita la dispersione. Se la guaina mielinica viene a mancare, il flusso

del messaggio nervoso può essere interrotto, esattamente come avviene nella sclerosi multipla (9).

Nel 1988, Dietrich et al. dimostrarono, attraverso risonanza magnetica del cervello di bambini tra 1 e 36

mesi, che quelli con un ritardo mentale o altri disturbi cerebrali avevano un sviluppo incompleto della

mielina (9).

È utile ribadire che la parte prefrontale del cervello ha una profonda influenza sui comportamenti umani

e, dopo che un individuo è stato vaccinato, il mercurio contenuto nel Thimerosal potrebbe possibilmente

danneggiare i neuroni di questa area cerebrale a tal punto da influenzare il comportamento e le capacità di

apprendimento. Esso, infatti, favorisce l’infiammazione dei tessuti e la reazione allergica a proteine

antigeniche esterne, deteriorando anche le membrane plasmatiche dei neuroni dove la mielina non è

sufficientemente presente (9).

La scienziata Vijendra K. Singh ha pubblicato uno studio nel 2001 riguardante il vaccino MMR (contro

morbillo, rosolia e orecchioni), contenente alte dosi di mercurio, in cui riporta che esso attiva la

produzione di alti livelli di anticorpi, causanti reazioni autoimmuni. Questi “auto-anticorpi”

attaccherebbero la mielina, che ricopre gli assoni dei neuroni portando così a disfunzioni simili alla

sclerosi multipla. Nonostante ciò, molte persone sono in grado di smaltire in tempo tali anticorpi, Singh

ha invece trovato la loro presenza nell’80% dei soggetti autistici. La conclusione che ne è stata tratta è che

l’autismo potrebbe essere causato anche dalla risposta neuro-immune al vaccino (10).

Anche il Dr. A. Wakefield, gastroenterologo al Royal Free Hospital di Londra, ha studiato gli effetti del

vaccino MMR e ha scoperto che esso aumenta la permeabilità dell’intestino permettendo a molte sostanze

tossiche di essere assorbite ed entrare così nel sistema circolatorio. Una volta nel sangue le tossine

arrivano al cervello dove danneggiano i tessuti e possono causare lo sviluppo dell’autismo (10).

Wakefield ha collegato questa scoperta al fatto che quasi tutti i bambini autistici hanno un intestino molto

permeabile e sviluppano problemi gastrointestinali anche gravi, come l’indigestione, e in alcuni casi

anche danni al fegato (10).

Sempre Wakefield e il suo team, in un loro studio svoltosi all’Università di Londra, hanno riportato una

serie di casi di 12 bambini con ASD (Autism Spectrum Disorders) e malattie gastrointestinali. Questi

bambini, sottoposti al MMR, hanno mostrato una perdita di linguaggio, di capacità acquisite e di interesse

4 Processo di formazione della guaina mielinica, una sorte di strato isolante, attorno all’assone neuronale, il quale

viene così avvolto dalla membrana delle cellule di Schwann, senza le quali il neurone sarebbe privo di ogni

funzionalità (Enciclopedia della Medicia, DeAgostini, 2003).

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dopo un periodo di apparente normalità. Cinque di questi bambini hanno infatti anche avuto una reazione

immunologica anomala (febbre, polmonite, delirio) (9).

Anche il DPT (vaccino contro difterite, tetano e pertosse) è stato al centro di numerose ricerche. Appena

uscito sul mercato statunitense, questo vaccino presentava concentrazioni troppo elevate di conservanti e

adiuvanti come il TMS e molti bambini ne hanno sofferto, è stato infatti poi adeguato ai parametri

obbligatori, ritenuti accettabili dalla FDA (Food and Drug Administration) (9).

I primi sintomi di una reazione al DPT da parte di bambini (tutti tra i 3 e i 9 mesi) sottoposti al vaccino

erano convulsione, febbre alta e diarrea. Visitati da pediatri e sottoposti all’EEG5 e visita

neuropsichiatrica, non è stato diagnosticato però niente di particolare, ma addirittura si è somministrato

loro il richiamo del vaccino per tentare di stabilizzare la situazione (9).

Visto poi il progressivo deterioramento, i bambini sono stati sottoposti ad analisi cromosomiche, TAC e

RMN encefaliche6 e studi per malattie metaboliche. I danni al cervello si sono poi però rivelati

permanenti (9).

Le seguenti informazioni sono state tratte da Midthun et al., 2001.

Sempre con lo scopo di andare più a fondo di questa ipotesi, la FDA ha creato un questionario per i

genitori dei bambini che hanno sviluppato l’autismo dopo essere stati vaccinati. Lo scopo dell’intervista

era di raccogliere informazioni riguardo la diffusione dei casi, le caratteristiche cliniche, la genetica

famigliare, i potenziali fattori rischio, i vaccini somministrati, il tempo trascorso tra la vaccinazione e la

comparsa di sintomi e la rapidità del peggioramento.

Parallelamente a questo sondaggio, la FDA sta anche svolgendo ricerche in laboratorio atte a studiare lo

sviluppo di topi neonatali sottoposti al TMS.

La FDA riconosce i possibili danni provocati dal mercurio presente nel TMS e supporta l’idea di ridurre

l’esposizione dei bambini a questo metallo, ed è per questo che ha incoraggiato per molti anni lo sviluppo

di nuovi vaccini senza questa sostanza.

Ricollegandoci alla problematica dell’autismo, la dottoressa Jill James ha eseguito un esperimento

particolare. Nei capelli si concentrano alcune sostanze tossiche che il nostro corpo espelle, la dottoressa

ha così pensato di analizzare i capelli di bambini autistici confrontandoli con quelli di bambini sani e i

risultati hanno mostrato che nei soggetti autistici la concentrazione di mercurio era nettamente minore ai

valori normali, il che potrebbe significare, che in questi soggetti questa sostanza rimane accumulata

nell’organismo e non viene facilmente espulsa (7).

5 Elettroencefalografia: tecnica che, grazie all’uso di elettrodi, registra le attività encefaliche ed eventuali anomalie

elettriche (17). 6 TAC: Tomografia assiale computerizzata. RMN: risonanza magnetica nucleare. Sono due tecniche, la prima

radiodiagnostica, la seconda che sfrutta le proprietà magnetiche delle cellule, che, mediante uno specifico

programma informatico, permettono di ottenere immagini di sezioni assiali di un corpo, o come in questo caso

dell’encefalo, anche inferiori a 1 cm oppure, rielaborando i risultati nel modo corretto, si possono ottenere anche

riproduzioni tridimensionali (Enciclopedia della Medicia, DeAgostini, 2003).

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Molti altri studi, sempre di questo genere, sono stati e sono tuttora condotti per approfondire meglio

questa teoria, comunque già molto accreditata.

Se essa si rivelerà corretta, si ipotizza la possibilità che i bambini autistici potranno migliorare la loro

condizione se sottoposti a una cura per la rimozione del mercurio. Una completa guarigione è purtroppo

quasi da escludersi e anche un cambiamento in positivo potrebbe avvenire solo nel caso in cui i danni non

siano permanenti. I ricercatori Dr. Jane El-Dahr, Dr. Amy Holmes e Dr. Stephanie Cave hanno già

applicato una terapia di questo genere a 152 bambini autistici e i risultati, per quanto non ancora del tutto

scientificamente provati, sono comunque promettenti. Infatti, essi mostrano che il 73% dei soggetti

sottoposti al trattamento sono in effetti migliorati, sia in ambito salutare che psicologico e di interazioni

sociali. Si è notato inoltre che la terapia ha avuto un effetto più marcato sui bambini più piccoli che sugli

adolescenti (7).

Questa ipotesi però non si può comunque applicare alla totalità dei casi di autismo, poiché esistono

soggetti affetti dal disturbo mai sottoposti a vaccini. Come già evidenziato, è perciò possibile che in gioco

ci siano diversi fattori, dalle predisposizioni genetiche, all’influenza di altre possibili sostanze che, se

sommate tra loro, possono diventare tossiche o magari avere un effetto negativo sinergico (7).

Inoltre, per far sì che un’intossicazione da mercurio o altre sostanze inneschi lo sviluppo dei disturbi dello

spettro autistico, sembra che sia necessaria comunque una predisposizione genetica (7).

Studi genetici infatti, hanno messo in evidenza come nei soggetti autistici manchi spesso un allele nel

gene C4B (complement component 4B: Chido blood group), tale gene è di fondamentale importanza

principalmente nella protezione contro i virus. I bambini autistici potrebbero quindi non essere stati in

grado di sopportare in maniera appropriata i vaccini, che hanno così innescato una cascata di eventi

portando all’accumulo di mercurio e a danni permanenti e sviluppo di ASD (9).

2.2.3. Neuroni specchio

L’apparato dei neuroni specchio è stato scoperto inizialmente nelle scimmie già nel 1991 (M. Fabbri-

Destro e G. Rizzolatti, 2009). Questo sistema è stato localizzato da Rizzolatti nell’area premotoria della

corteccia (vedi allegati, figura A), nella quale si è osservata un’attività dello simile sia quando la scimmia

stessa eseguiva un movimento che quando lo osservava fatto da altri (S. Bookheimer et al., 2005).

Subito dopo una simile zona è stata individuata anche nell’essere umano. Nel 2001 si è scoperto che il

sistema dei neuroni specchio presenta, anch’esso come il resto dell’encefalo, un’organizzazione

somatotopica7 (M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Prima di questa grande scoperta però, già nel 1954, due studiosi, Gastaut e Bert, provarono che il -ritmo,

un dato che mostra l’attività dell’area motoria corticale, oltre a desincronizzarsi durante l’esecuzione di

7 Tipo di organizzazione secondo la quale ad ogni specifica area del cervello corrisponde un’area o un organo del

corpo (18).

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un movimento, come già risaputo, si desincronizzava allo stesso modo pure durante l’osservazione di un

movimento fatto da altri. Dopo la scoperta dei neuroni specchio questo esperimento è stato ripetuto e più

volte confermato (M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Figura 4: Aree nell’encefalo corrispondenti al sistema

di neuroni specchio.

rosso: area parietale dei neuroni specchio

giallo: area frontale dei neuroni specchio

La funzione prima del sistema dei neuroni specchio è quella di percepire le azioni compiute da altri come

proprie (L. Cattaneo, M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Essendo i neuroni specchio alla base dei motoneuroni, un movimento eseguito da altre persone attiva i

neuroni della corteccia motoria nella parte corrispondente al movimento osservato (M. Fabbri-Destro e G.

Rizzolatti, 2009).

È stato inoltre provato che molti neuroni specchio dell’area F5 sono in grado di rispondere a stimoli

uditivi nello stesso modo che a quelli osservati (L. Cattaneo, M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Per provare che l’attività dei neuroni specchio è legata unicamente all’osservazione e non al fatto di

compiere in prima persona un movimento è stato svolto un esperimento, il quale ha mostrato che, ad

individui senza arti superiori, un movimento delle mani osservato fa comunque attivare i neuroni specchio

corrispondenti come in qualsiasi altra persona (L. Cattaneo, M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Oltre all’osservazione, i neuroni specchio possiedono la funzione importantissima di prevedere e capire

l’intenzione e il perché di un dato movimento (L. Cattaneo, M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Il sistema dei neuroni specchio è legato all’interpretazione delle azioni così come ad altri processi

cognitivi sociali quali imitazione, teoria della mente, linguaggio ed empatia (A. Hamilton e V. Southgate,

2008).

È stato provato che lesioni sia temporali che permanenti ai neuroni specchio causano difficoltà

nell’imitazione di certe azioni (A. Hamilton e V. Southgate, 2008).

Ma questo sistema non è responsabile solamente di osservare, interpretare ed di imitare movimenti, bensì

sembrerebbe anche in grado di comprendere lo stato emozionale degli altri (S. Bookheimer et al., 2005).

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Infatti uno studio di brain imaging ha dimostrato che quando un individuo osserva emozioni in altre

persone si attivano due strutture, la corteccia cingolata o giro del cingolo (vedi allegati, figura B) e il lobo

dell’insula (vedi allegati, figura C), come se le stesse personalmente provando. Anche questo tipo di

reazione rientra nel campo dei neuroni specchio (L. Cattaneo, M. Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Il primo studioso che si è interessato all’attivazione dei neuroni specchio nei soggetti autistici e quindi ad

eventuali anomalie di questo sistema è stato Oberman nel 2005 (F. Andersson, C. Barthélémy, J. Cottier,

C. Destrieux e J. Martineau, 2010).

Egli ha esaminato il -ritmo sopracitato in bambini affetti da autismo durante l’osservazione di un

movimento eseguito da altri e non ha riscontrato variazione alcuna.

Grafico 5: Desincronizzazione del -ritmo durante l’osservazione di un movimento.

Come si può notare nel grafico 5, nei soggetti normalmente sviluppati (primo grafico) il -ritmo ha subito

una variazione già prima che nei soggetti autistici (secondo grafico), che non sono stati in grado di

prevedere il movimento che la persona osservata stava per compiere.

Da questi risultati è nata la teoria secondo la quale i disturbi dello spettro autistico sono da attribuirsi a

una disfunzione dei neuroni specchio, tale teoria è conosciuta come “broken mirror” (M. Fabbri-Destro e

G. Rizzolatti, 2009).

Diversi studi hanno rilevato che i bambini affetti da autismo mostrano una scarsa attività a livello dei

neuroni specchio, specialmente nell’area frontale inferiore (IFG). L’intensità con cui questi neuroni si

attivano si è scoperto essere inversamente proporzionale alla gravità dei sintomi nel campo sociale e della

comunicazione. (S. Bookheimer et al., 2005)

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In uno dei numerosi esperimenti condotti riguardo a queste ipotesi si sono paragonati due gruppi, uno con

persone normalmente sviluppate e uno con persone affette da autismo. È stato riscontrato che in entrambi

i gruppi è presente una robusta attività nell’area visiva della corteccia, nell’area premotoria e motoria del

viso (vedi allegati, figura A) e nell’amigdala (vedi allegati, figura B). Ciò indica che anche i bambini

autistici erano in grado di percepire le espressioni osservate, la differenza era però che non mostravano

attività a livello dei neuroni specchio, in particolare nell’area degli opercoli (vedi allegati, figura C) (S.

Bookheimer et al.2005).

Quando ai due gruppi è stato chiesto di imitare le espressioni facciali osservate, entrambi ne sono stati in

grado, ma con due “strategie neuronali” diverse tra bambini autistici e non. I bambini senza disturbo

sentono direttamente le emozioni viste grazie ad un meccanismo che coinvolge i neuroni specchio e il

sistema limbico. Questo meccanismo non è attivo nei bambini affetti da autismo che imitano le facce

osservate attivando solo l’area del cervello destinata alla vista e quella ai muscoli facciali, senza

realmente sentire le emozioni (S. Bookheimer et al., 2005)

Cattaneo et al., nel 2007, ha eseguito un esperimento molto importante per testare la capacità di

comprendere le intenzioni e lo scopo di un movimento altrui nelle persone autistiche. Egli ha analizzato

due campioni, il primo con soggetti autistici, mentre il secondo con persone normali. Ad entrambi è stato

chiesto di osservare un uomo prendere un biscotto per mangiarlo. I risultati hanno mostrato che nei

bambini normali, si sono attivati i muscoli per l’apertura della bocca già nella fase iniziale

dell’esperimento, cioè mentre prendeva in mano il biscotto. Al contrario, nei bambini autistici, questa

attivazione è intervenuta solo al momento in cui il biscotto è arrivato alla bocca. Da questo semplice

esperimento si deduce quindi che esistono due livelli importanti nel sistema dei neuroni specchio: il

livello elementare che permette di comprendere quello che l’altro fa, il cosa (in questo caso prendere il

biscotto), e il livello elaborato che permette di comprendere il perché di un’azione (in questo caso per

portarlo alla bocca). I bambini affetti da autismo sembrerebbero comprendere le azioni solo a livello

elementare, senza essere in grado di prevedere e comprendere lo scopo finale di un determinato

movimento. È quindi il livello delle intenzioni che sarebbe danneggiato o assente nell’autismo (M.

Fabbri-Destro e G. Rizzolatti, 2009).

Ciò che ancora oggi lascia perplessi molti studiosi riguardo a questa teoria dei “broken mirrors” è che i

bambini autistici, se ciò viene loro richiesto esplicitamente, sono in grado di imitare movimenti o

espressioni osservate; questo dato sembra quindi smentire la teoria di un danno ai neuroni specchio,

altrimenti ciò non avverrebbe. Il fatto che i bambini autistici possano imitare, ma tendano a non farlo

senza consegna suggerisce che questa difficoltà possa avere origine da un problema di interazione con gli

altri e non da una disfunzione neuronale (A. Hamilton e V. Southgate, 2008).

È inoltre vero che esperimenti molto accurati hanno dimostrato una ridotta attività nelle regioni dei

neuroni specchio delle persone autistiche, ma rimane ancora da provare se un danno neuronale a livello di

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tale sistema sia la causa prima di questo disturbo. Esiste infatti la possibilità che una mancanza di

attenzione sociale o di comunicazione possa portare ad anomalie in suddette aree cerebrali come effetto

conseguente (A. Hamilton e V. Southgate, 2008).

Altri elementi coinvolti nei disturbi dello spettro autistico mostrano alcune anomalie a livello di strutture

cerebrali individuate attraverso TAC8 e risonanze magnetiche

9 (D. Amaral et al., 2011) come nel caso del

seguente esperimento. Queste malformazioni non sono tuttavia riconoscibili alla nascita, ma diventano

evidenti già a partire dal primo anno di vita (N. Hadjikhani, R. Joseph, J. Snyder e H. Tager-Flusberg,

2006).

Lo scopo del test in questione, in particolare, era di misurare lo spessore della corteccia nei soggetti

autistici e relazionarla con i sintomi comportamentali sociali.

Ne è risultato che molte aree sono significativamente più sottili nei soggetti autistici, inclusa la parte degli

opercoli (vedi allegati, figura C), l’area inferiore frontale, il lobo parietale e quello temporale (vedi

allegati, figura D), proprio le aree corrispondenti al sistema dei neuroni specchio, come si può vedere

nella figura 6. (N. Hadjikhani, R. Joseph, J. Snyder e H. Tager-Flusberg, 2006)

Uno spessore minore si è trovato anche nelle parti riguardanti la produzione e il riconoscimento di

espressioni facciali (lobo medio temporale, vedi allegati, figura D) e le aree coinvolte nelle relazioni

sociali (area prefrontale, vedi allegati, figura A) (N. Hadjikhani, R. Joseph, J. Snyder e H. Tager-

Flusberg, 2006).

È però utile notare che la sottigliezza della corteccia cerebrale rilevata non è necessariamente correlata

con il livello di QI (N. Hadjikhani, R. Joseph, J. Snyder e H. Tager-Flusberg, 2006).

Le differenze di spessore della corteccia osservate potrebbero essere il risultato di anomalie formatesi

durante lo sviluppo del feto, ad esempio errate migrazioni e proliferazioni di neuroni e densità cellulari.

Le conoscenze attuali non sono però ancora in grado di determinare se le differenze anatomiche

riscontrate sono causa o conseguenza delle anomalie comportamentali (N. Hadjikhani, R. Joseph, J.

Snyder e H. Tager-Flusberg, 2006).

8 Tomografia assiale computerizzata: tecnica radiodiagnostica recente che, mediante uno specifico programma

informatico, permette di ottenere immagini di sezioni assiali di un corpo anche inferiori a 1 cm oppure, rielaborando

i risultati nel modo corretto, si possono ottenere anche riproduzioni tridimensionali della parte del corpo di interesse

(Enciclopedia della Medicia, DeAgostini, 2003). 9 Tecnica che sfrutta le proprietà magnetiche delle cellule del nostro corpo. I segnali captati dall’apposito

apparecchio vengono computerizzati ed elaborati fino ad ottenere risultati simili a quelli della TAC, ossia dei piani

assiali molto sottili (Enciclopedia della Medicia, DeAgostini, 2003).

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Figura 6: Assottigliamento della corteccia del cervello di persone autistiche rispetto a un cervello di persone

normalmente sviluppate.

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2.3. Possibili trattamenti

2.3.1. Psicologici

Al momento l’unico modo per trattare i bambini è l’applicazione sistematica della terapia del

comportamento con la collaborazione dei genitori, detta anche psicoeducazione (2).

Nei casi più gravi di autismo, nei quali il bambino non parla nemmeno, bisogna iniziare la logoterapia il

prima possibile. Se per i soggetti affetti anche da ritardo mentale la terapia è più difficile, quelli con un QI

nella norma o superiore rispondono in modo più evidente ed efficace alla psicoterapia (2).

Il risultato degli interventi educativo-comportamentali appare più efficace tanto più il bambino è piccolo.

La terapia è basata su un trattamento strutturato, intensivo e conforme all’individuo singolo, per la

maggior parte incentrato su linguaggio e interazioni sociali (3).

Date le difficoltà nel capire le regole dell'interazione, sono molto utili i cosiddetti “social skill training”,

cioè metodi legati alle abilità sociali che hanno lo scopo di insegnare al soggetto a mantenere il contatto

visivo e interpretare il linguaggio del corpo dato dalle emozioni dell’interlocutore (3).

Altre terapie come la ‘pet therapy’, la musicoterapia e l’ippoterapia hanno invece l’obiettivo di ottenere

miglioramenti dal punto di vista educativo, cognitivo, comportamentale, ma anche emozionale (3).

Per quanto riguarda la sindrome di Rett non esiste un trattamento risolutivo, ma solamente una terapia che

ritarda l’avanzare della disabilità motoria e comunicativa (3).

Il tipo di terapia adottata è sempre costruito su misura per ogni singolo paziente a causa dell’enorme

variabilità dei sintomi da individuo a individuo. È però necessario sapere che una guarigione totale è

praticamente impossibile (1).

Il National Research Council ha pubblicato alcune “linee guida di intervento sull’autismo”, nelle quali

sostiene che “non esiste un unico intervento che vada bene per tutti i bambini, per tutte le età e che possa

rispondere in modo soddisfacente alle singole esigenze”. Il trattamento però può dare i suoi frutti

attraverso “il coinvolgimento della famiglia durante il percorso e la definizione di obiettivi ai quali

seguirà la verifica”.

Nei casi più gravi di disturbi dello spettro autistico, nei quali la persona ha serie difficoltà recettive e di

comunicazione a livello del linguaggio vengono utilizzate le cosiddette tavole di comunicazione o più

semplicemente il computer (1).

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L’intervento da parte di psicologi nei casi di autismo è da intendersi, al giorno d’oggi, come una forma di

sostegno psicoeducativo sia per il bambino che per i genitori che hanno la possibilità di imparare come

sostenere e gestire possibili situazioni critiche e valutare i vari aspetti funzionali e disfunzionali del figlio

(1).

Da quando l’autismo è stato riconosciuto come una malattia vera e propria sono stati creati svariati

metodi di terapia.

Tutti i metodi qui esposti provengono da un’intervista rilasciata dalla dottoressa Loredana Lembo, esperta

di autismo e analista comportamentale, il 28 aprile 2009 all’associazione Io Cresco (19).

Il primo, e ormai superato, è il TEACCH, ovvero Treatment and Education of Autistic and Related

Communication-Handicapped Children, ideato negli Stati Uniti negli anni ’70 dal dott. Schopler. Tale

terapia si basa in particolar modo sull’apprendimento di tipo visivo attraverso immagini e viene svolto in

stretto rapporto educatore/bambino. Questo trattamento però si è rilevato essere troppo lacunoso negli

aspetti sociali e relazionali.

Il secondo è il DIR, Developmental Individual Difference Relationship Based Intervention, creato più

recentemente negli anni ’80 sempre in America dal Prof. Greespan, il quale considerava l’autismo una

malattia biologica. Tale metodo mira a ristabilire il contatto affettivo interpersonale ed è perciò svolto

principalmente dai genitori. Il programma prevede di seguire il bambino in giochi e attività di suo

interesse sostenendolo e incoraggiandolo. Questo tipo di approccio è più indicato per i bambini in età pre-

scolare.

Il RDI (Relationship Development Intervention) nato nel 1990 grazie al dott. Gustein, si basa

sull’intervento dei genitori mediante attività ludiche e giochi di ruolo per migliorare, più che le abilità

cognitive, gli aspetti comunicativi. Questa terapia si concentra maggiormente sui ragazzi adolescenti,

focalizzandosi in particolare sugli aspetti relazionali e di convivenza sociale.

Il più conosciuto e utilizzato rimane però comunque l’ABA, Applied Behaviour Analysis, il quale è però

più rivolto alla fascia infantile dai quattro ai dodici anni. Questo metodo, a differenza di tutti gli altri,

offre una raccolta sistematica e attendibile di dati attraverso piccole prove o verifiche che il bambino deve

svolgere a intervalli regolari di tempo. Ciò permette di avere un controllo maggiore sui progressi

avvenuti, gli obbiettivi vengono considerati raggiunti se si ottiene come minimo l’80% delle risposte

corrette. Queste verifiche servono anche a testare cosa e quanto rimane ancora da migliorare.

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L’ABA classico, delineato da tre psicologi - Baer, Wolfe e Risley - nel 1968, si basa sulla teoria del

rinforzo elaborata dallo psicologo Skinner nel 1938, nella quale viene presentata la cosiddetta three-term

contingency: A-B-C.

A = Antecedent, una consegna da eseguire.

B = Behavior.

C = Consequence, ossia il rinforzo se il comportamento era corretto.

Durante il trattamento vengono programmati piccoli compiti con difficoltà crescente che il bambino deve

svolgere, dopodiché sarà “premiato” con un rinforzo se è riuscito a svolgerli correttamente. Inizialmente

era prevista anche una punizione blanda se il bambino commetteva un errore, che però oggi è stata

abolita. Il rinforzo aumenta la probabilità che il bambino ripeta il comportamento corretto. Esso può

variare da oggetti o giocattoli concreti, utilizzati all’inizio, a gratificazioni più astratte come lodi verbali o

accesso a nuove attività, sfruttati però solo più avanti nel percorso. Inoltre, l’efficacia del rinforzo è

influenzato da vari fattori: immediatezza, contingenza, differenze individuali, varietà, intensità e

frequenza.

Questo metodo è molto rigido, viene svolto in rapporto 1:1 (educatore-bambino) e nei casi più estremi si

arriva a una terapia di 35-40 ore a settimana.

L’ABA moderno, detto anche AVB (Appield Verbal Behavior), è invece meno strutturato e rigoroso,

benché la teoria di base rimanga sempre quella del rinforzo di Skinner. Esso infatti si concentra

maggiormente sul linguaggio sia verbale che del corpo, mira all’eliminazione delle stereotipie e al

miglioramento delle abilità sociali. Inoltre viene svolto in diversi ambienti, quali la famiglia o la scuola,

nonché all’aria aperta. La validità di questo metodo è data dal fatto che è possibile applicarlo a tutte le

varie tipologie di autismo adattando la cura al grado di gravità, nonché ad altri disordini quali sindrome di

Asperger o di Rett.

2.3.2. Metodo AIT

Le informazioni contenute nel seguente paragrafo derivano da una conferenza tenuta all’Ospedale Civico

da Sophie Chastel, operatrice del metodo AIT a Verona, il 26 novembre 2011, in occasione della giornata

cantonale sull’autismo, organizzata da Elisabeth Dova, presidente dell’associazione Autismo Svizzera

Italiana.

Il metodo AIT (Auditory Integration Training) è stato ideato nel 1982 dal dottor Guy Bérard dopo svariati

studi su più di 8'000 casi.

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Secondo Bérard i problemi uditivi possono condizionare negativamente il comportamento, il metodo da

lui elaborato ha quindi lo scopo di stimolare, riequilibrare e rafforzare l’udito attraverso l’ascolto di

musica o di particolari suoni e di conseguenza migliorare sia il sistema uditivo che il comportamento del

soggetto.

Prima di tutto, è necessario esaminare i deficit qualitativi dell’udito, da non confondere con quelli

quantitativi (tra cui la sordità).

I deficit qualitativi più comuni sono le distorsioni di suoni e la ricerca selettiva (frequenze gravi percepite

come acute e viceversa).

Ma, nei soggetti autistici, spesso è presente anche la lateralità uditiva, ossia la percezione di determinati

suoni solo con l’orecchio destro e altri solo con l’orecchio sinistro. Poiché l’orecchio sinistro è più

distante dall’area del linguaggio e dell’udito nel cervello, questo fenomeno causa parecchi problemi, ad

esempio la parola “so-le” può essere percepita come “le-so”, in quanto le due sillabe vengono udite

separatamente, una con un orecchio, l’altra con l’altro orecchio ed arrivano così al cervello con velocità

diverse.

Un altro disturbo uditivo è l’iperacusia relativa, ossia un’estrema sensibilità a certe frequenze.

Considerando il fatto che ogni lettera ha una sua frequenza, a dipendenza se si tratta di consonanti sorde,

consonanti sibilanti o vocali, l’iperacusia relativa può portare alla percezione errata di certe parole, ad

esempio “sento” invece di “vento”.

Questi deficit hanno come conseguenza, oltre al ritardo nella percezione e alle evidenti difficoltà di

comprensione, anche errori nel linguaggio o nell’ortografia, una parlata estremamente lenta e, nei casi più

estremi, anche balbuzie o dislessia. Tutto ciò ha effetti negativi sul rendimento scolastico e sulle abilità di

apprendimento. L’incapacità di percepire e comprendere abbastanza rapidamente una frase porta i

soggetti autistici a una perdita del contesto e quindi a un isolamento.

Durante i suoi test per determinare le iperacusie relative nei soggetti autistici, il Dottor Bérard ha scoperto

una stretta correlazione tra certe ipo- o ipersensibilità a determinate frequenze e alcuni comportamenti.

Ad esempio una particolare sensibilità alle frequenze di 2'000 e 8'000 Hz corrisponde all’autolesionismo,

mentre alle frequenze di 1'000, 1'500 e 8'000 Hz alla depressione, come si può osservare nella figura 7.

Altri comportamenti che trovano una connessione a specifiche frequenze sono l’emotività, l’amnesia,

l’aggressività, la dislessia e altri ancora. Secondo Bérard quindi, è proprio grazie a questo legame che il

trattamento dell’udito può migliorare anche il comportamento e lo stato emotivo.

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Figura 7: Grafico di un esame dell’udito, la colonna di sinistra indica l’orecchio sinistro, mentre la colonna di destra

indica l’orecchio destro. La seconda riga mostra i risultati dopo il trattamento. Si può notare come le linee siano più

regolari, meno spezzate e i picchi a 1'000 e 8'000 siano spariti.

Nei soggetti autistici l’elaborazione di stimoli uditivi è spesso alterata e discontinua. Alcuni sono in grado

di cogliere frequenze o livelli bassissimi di decibel che la gente comune non sente. In questi casi si parla

di iperudito che spesso porta a percepire i suoni più comuni come dolorosi, il che spiegherebbe perché

molti soggetti autistici si tappano spesso le orecchie.

Ma esiste anche una forma di ipoudito, ossia una sorta di sordità, in cui i suoni percepiti non vengono

elaborati a livello dell’area uditiva nel cervello. Questo fa sì che la persona stessa sia molto rumorosa nel

muoversi, nel parlare e via dicendo.

Purtroppo, molto spesso, negli autistici, sono presenti le due forme di ipo e iperudito

contemporaneamente, così che un soggetto un momento si tappa le orecchie perché sente troppi rumori e

l’istante successivo si mette a urlare lui stesso. Ovviamente non è un problema a livello del timpano, ma è

il cervello che diventa improvvisamente insensibile o ipersensibile agli stimoli uditivi.

Un'altra problematica uditiva presente nell’autismo è il cosiddetto “rumore bianco”, ossia un rumore

interno e costante, descritto dai soggetti a volte come una sirena, a volte come un motore o il ronzio di un

frigorifero.

L’addestramento uditivo mira ad abituare il soggetto ad ogni frequenza mediante l’ascolto intensivo di un

particolare tipo di musica (personalizzata a seconda di ogni singolo caso). La terapia si basa su tre

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parametri fondamentali: l’intensità, la frequenza e la durata; e prevede quindi 20 sedute di ascolto di 30

minuti l’una, concentrate in 10 giorni consecutivi. I miglioramenti nell’udito e la diminuzione

dell’iperacusia sono visibili da subito, mentre per i miglioramenti comportamentali bisogna attendere da

due settimane a un mese. La terapia è inoltre ripetibile, ma conviene aspettare circa sei mesi, di solito

sono necessarie da una a quattro sedute.

I miglioramenti a livello comportamentale influiscono positivamente sulla capacità di sopportare e filtrare

i suoni, sulla coordinazione motoria, sul rendimento scolastico, la lettura e il linguaggio, sul nucleo

famigliare, sulla capacità di mantenere l’attenzione, ma anche di spostarla rapidamente da un contesto

all’altro senza focalizzarsi sui dettagli. Gli aspetti più importanti sono però forse una maggiore

integrazione sociale, più autocontrollo e un aumento della disponibilità e della collaborazione durante la

psicoeducaizone.

Grazie a questi miglioramenti, dopo il trattamento AIT, i bambini autistici hanno una maggiore possibilità

di essere trasferiti in classi normali. Per valutare la validità dei risultati ottenuti sono stati eseguiti

parecchi test, a corto, medio e lungo termine, che mettevano a confronto un gruppo sperimentale, che ha

seguito la terapia con un gruppo di controllo. Un test di questo genere è stato svolto proprio dal dottor

Bérard nel 1982 su più di 8000 casi; altri studi invece sono stati pubblicati nel giornale dell’American

Speech-Language-Hearing Association dai dottori Bernard Rimland e Stephen Edelson, dell’ Autism

Research Institute della California nel 1991 e dalle dottoresse Dana Monville et Nickola Nelson della

Western Michigan University nel 1994. Da questi studi è emerso che i disturbi sensoriali diminuiscono

del 75% in sei mesi, l’iperattività del 55%, mentre la capacità di mantenere l’attenzione aumenta del 30%.

Ci sono varie ipotesi riguardo al perché un miglioramento nel campo uditivo possa migliorare anche il

comportamento. Si pensa che, grazie alla terapia, avvenga una reale modifica a livello delle aree del

cervello, anche per questo è bene aspettare qualche mese prima di un eventuale secondo intervento.

Inoltre, la musica, studiata in modo da variare continuamente e non poter essere per nulla prevedibile,

mantiene il cervello in un costante stato di attenzione e può quindi aumentarne la plasticità.

Attualmente si sta progettando, negli USA, uno studio per far luce sui cambiamenti biochimici cerebrali

del metodo AIT, così che si possano determinare le vere cause di questi miglioramenti.

2.3.3. Farmacologici

Per controllare o diminuire alcuni sintomi dell’autismo ed evitare un aggravamento della situazione si

possono utilizzare diversi tipi di farmaci che mirano a varie problematiche. Bisogna comunque tenere

presente che la cura farmacologica va sempre abbinata a una terapia psicologica appropriata e che una

completa guarigione è da escludersi (3).

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Inoltre, come noto, non esiste un medicinale specifico per l’autismo. I trattamenti farmacologici si

limitano infatti a curare altri disturbi, quali in particolare l’epilessia, la mancanza di attenzione o

l’iperattività, che rimangono comunque marginali rispetto al problema principale (3). L’aggressività ad

esempio è trattata con i butirrofenoni (2). Spesso molte famiglie non tengono presente questo fatto e

tendono a sostituire la psicoeducazione unicamente con medicinali, il cui consumo è difatti aumentato

notevolmente negli ultimi anni (comunicazione personale, Elisabeth Dova).

Per quanto riguarda la sindrome di Asperger, anche in questo caso le cure mirano solamente a disturbi di

tipo comportamentale, quali ad esempio l’iperattività trattata spesso semplicemente con antipsicotici o

ansiolitici (3).

Per la sindrome di Rett invece i farmaci si concentrano sui disturbi a livello motorio, ad esempio i

dopamino-agonisti, tra cui la bromocriptina e la lisuride che hanno dato esiti positivi; sul piano

respiratorio e per le crisi epilettiche, ad esempio il naltrexone contro la produzione di beta-endorfine o i

più comuni antiepilettici (3).

Fino ad ora sono stati diversi gli approcci farmacologici proposti sia per migliorare i problemi

comportamentali associati all’autismo, isolamento e riduzione della comunicazione, sia per agire

direttamente sulle cause di questo disturbo. La maggior parte delle esperienze terapeutiche analizzate, per

lo più proviene dagli Stati Uniti, dove indagini epidemiologiche attestano che i trattamenti farmacologici

vengono utilizzati in circa il 50% delle persone con autismo. Un elemento che ostacola l'uso di farmaci

nell’autismo è però l'ampia variabilità clinica delle persone affette; esiste infatti la possibilità che un

medicinale risulti efficace in un soggetto e non in un altro, o addirittura peggiori la situazione o determini

la comparsa di effetti collaterali (Visconti, 2011).

Negli ultimi anni si è sviluppato anche un altro metodo, in particolare in risposta alla teoria riguardante i

vaccini e l’intossicazione da metalli pesanti o altri composti chimici tossici. Questa terapia viene detta

chelazione. Attraverso un’iniezione per endovena si cerca infatti di eliminare tali sostanze dal corpo. Si

tratta però di un metodo ancora sperimentale; sono parecchie le persone contrarie, poiché finora non si è

riusciti a trovare la sostanza giusta in grado di eliminare solo le molecole desiderate. Al contrario, con la

chelazione vengono espulsi anche altri composti, quali vitamine o sali minerali, essenziali per il nostro

corpo e che quindi bisognerebbe somministrare/reintrodurre nuovamente in seguito (comunicazione

personale, Elisabeth Dova).

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2.3.4. Ossitocina

Le informazioni del seguente capitolo sono state tratte principalmente da Braida et al., 2011.

Negli ultimi anni, è andata sviluppandosi una teoria che considera l’ossitocina e la vasopressina ormoni in

grado di migliorare la comunicazione e i comportamenti stereotipati. Questa tesi si basa sull’osservazione

di un alterato funzionamento del sistema ossitocinergico e sul riscontro di livelli insufficienti di questo

peptide nel liquido cerebrospinale di soggetti affetti da disturbi ossessivo-compulsivi, schizofrenia e

autismo. I dati a disposizione mostrano una disfunzione nel processo di sintesi dell’ossitocina o

un’inattivazione dell’espressione del recettore.

Recentemente sono quindi stati intrapresi i primi studi per valutare l’influenza dell’ossitocina sul

comportamento umano.

Figura 8: Struttura molecolare dell’ossitocina.

L’ossitocina (Ot, figura 8) viene prodotta nell’ipotalamo e secreta nella circolazione dall’ipofisi, il suo

principale effetto è quello di stimolare le contrazioni dell’utero durante il parto e la produzione di latte nei

mesi seguenti (Imperatore, 2011).

Questo ormone ipofisario è strettamente legato alla vasopressina (Avp), altro ormone anch’esso prodotto

nell’ipotalamo, il quale ha invece il compito di regolare il riassorbimento idrico renale e la pressione

sanguigna.

Insieme, questi due ormoni hanno inoltre il ruolo fondamentale di regolare diversi aspetti del

comportamento sociale, migliorando i disturbi relazionali e cognitivi, soprattutto in età prepuberale (13).

L’ossitocina agisce per diminuire i messaggi nervosi provenienti dall’amigdala, area del cervello che

trasmette impulsi conseguenti alla percezione di un potenziale pericolo. L’ormone in questione smorza

questi segnali evitando così un costante stato di ansia e paura (Woeller, 2011).

Esso infatti ha un ruolo nel processo di decifrazione del contesto sociale, delle espressioni facciali e degli

stati emotivi di chi ci circonda, nonché nel creare un contatto visivo, distinguere volti nuovi da quelli

famigliari e promuovere rapporti sessuali. Tutto ciò aumenta la fiducia negli altri, la generosità, l’empatia

e l’altruismo.

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La vasopressina invece media comportamenti tipicamente maschili, come l’aggressività, e ha effetti

regolatori sulla memoria e sull’ansia.

Tutte le funzioni di questi due ormoni sono brevemente riassunte nella figura 9, la parte superiore si

riferisce al comportamento, mentre quella inferiore alle risposte fisiche.

Figura 9: Effetti dell’ossitocina (Ot) e della vasopressina (Avp).

Nonostante la stretta correlazione tra i due ormoni è importante notare che la maggior parte degli studi atti

a chiarire la loro influenza sul comportamento dei soggetti autistici viene svolta principalmente

sull’ossitocina.

Studi sugli animali

I primi studi per verificare l’attendibilità di questa teoria sono stati svolti su animali, in particolare

utilizzando modelli murini, topi geneticamente modificati, privi del recettore dell’ossitocina nel sistema

nervoso centrale (13).

La mancanza di tale recettore fa sì che questi animali mostrino alterazioni nel campo della memoria,

nonché una ridotta capacità cognitiva, caratteristiche tipiche anche della sintomatologia dei disturbi dello

spettro autistico (13).

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Figura 10: Insieme di neuroni di topi normali (Oxtr+/+) e topi geneticamente modificati in cui non è presente il

recettore per l’ossitocina (Oxtr-/-). I punti azzurri sono i nuclei delle cellule, i contatti eccitatori sono rossi e quelli

inibitori verdi.

Come si può vedere nella figura 10, il rapporto tra contatti eccitatori e contatti inibitori nei neuroni dei

topi OxtR-/- è maggiore rispetto a quello nei topi OxtR+/+, il che indica un anomalo stato di estrema

eccitabilità nei soggetti presentanti questa mutazione (13).

Studi condotti da tre università di Milano (Statale, Bicocca e Politecnico) con a capo la ricercatrice Bice

Chini hanno evidenziato come questi animali mutanti non socializzino con altri soggetti della stessa

specie. In più, non si sono mostrati in grado di distinguere un topo già incontrato da uno sconosciuto,

elemento che suggerisce un’estrema rigidità cognitiva e resistenza al cambiamento. I ricercatori hanno

anche notato che questi murini geneticamente modificati sono più aggressivi e, se trattati a minime dosi

con farmaci convulsivanti, essi rispondono con crisi epilettiche. Come visto in precedenza, l’epilessia è

frequentemente associata all’autismo (13).

Il topo viene molto sfruttato in questo genere di esperimenti perché, pur non possedendo aree cerebrali

direttamente comparabili a quelle dell’uomo, presenta un elevato tasso di interazioni sociali e

comunicazione mediante ultrasuoni, fenomeno che rende facilmente studiabili le interazioni tra individui.

I topi maschi a cui è stato eliminato il recettore dell’ossitocina, hanno mostrato evidenti deficit nel

riconoscimento e nella memoria sociale, aumentata aggressività e una sensibile diminuzione delle

vocalizzazioni ultrasoniche, deficit che sono però stati facilmente eliminati dalla somministrazione

intracerebrale di ossitocina direttamente nell’amigdala mediale.

Anche gli studi effettuati su animali dalla ricercatrice Jennifer Bartz, della Mount Sinai School of

Medicine, hanno dimostrato che l'ossitocina svolge un ruolo essenziale in molti comportamenti, tra cui le

relazioni tra genitore-figlio e la memoria sociale (14).

Oxtr +/+ Oxtr -/-

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Studi sull’uomo

I primi risultati ottenuti invece da studi svolti direttamente su soggetti autistici o con sindrome di

Asperger hanno dimostrato che la somministrazione di ossitocina riduce la frequenza di comportamenti

stereotipati e migliora la capacità di identificare espressioni facciali ed emozioni, ma soprattutto aumenta

il grado di interazione sociale e il contatto visivo con gli interlocutori. Gli effetti benefici si sono notati sia

immediatamente dopo la somministrazione, sia dopo un lasso di tempo di due settimane.

La professoressa Elissar Andari, dell’Institut des Sciences Cognitives di Lione (Francia), durante uno

studio, ha chiesto ad alcuni soggetti autistici di inalare una speciale miscela di gas contente ossitocina e

poi di sottoporsi a due test per valutare se e come l’ormone avesse alterato il loro comportamento

(Imperatore, 2011).

Il primo test consisteva nel simulare un gioco con una palla al computer con tre avversari virtuali. Dopo

l’inalazione, i 13 partecipanti si sono dimostrati molto più capaci nello stabilire un’interazione con gli

avversari rispetto ai soggetti che avevano ricevuto un placebo. Nel secondo test, invece, ai 13 soggetti è

stato chiesto di visionare immagini di volti per valutare la loro abilità nel sostenere uno sguardo. “Sotto

l’effetto dell’ossitocina, pazienti con autismo ad alto funzionamento, vale a dire con un QI nella norma e

buone capacità cognitive, rispondono in maniera più significativa agli stimoli relazionali e manifestano un

comportamento sociale più appropriato. L’ossitocina, inoltre, aumenta selettivamente il tempo di

attenzione ad una regione socialmente informativa del volto, come gli occhi.” È stata questa la

conclusione della professoressa Andari al termine del suo studio (Imperatore, 2011).

Un altro studio in doppio cieco10

è stato condotto da Jennifer Bartz, la quale ha sottoposto soggetti affetti

dal morbo di Asperger a dosi di pitocina (ossitocina sintetica) o placebo (soluzione salina) per quattro ore

(14).

Durante queste quattro ore, i pazienti sono stati monitorati con grande attenzione per verificare eventuali

variazioni dei comportamenti ripetitivi stereotipati, tipici del disturbo. Effettivamente nel gruppo di

verifica è stata rilevata una significativa riduzione dei comportamenti patologici durante la

somministrazione (14).

Nel gruppo placebo invece non è stato riscontrato alcun cambiamento. Questo suggerisce un’effettiva

influenza dell’ossitocina nella diminuzione dei sintomi riscontrati (14).

E' stato anche verificato l'effetto di questo ormone sulla cognizione sociale. Le persone autistiche spesso

non sono in grado di percepire gli stati emotivi degli altri mediante espressioni vocali o facciali, anche in

questo caso si sono avuti risultati interessanti (14). Ogni partecipante ha ascoltato una sequenza parlata

registrata con varie intonazioni di voce, esprimenti gioia, frustrazione, rabbia etc. Ognuno ha quindi

cercato di identificare le emozioni che stava ascoltando. Quelli che avevano ricevuto ossitocina sono stati

in grado di mantenere le loro capacità di riconoscimento emozionale fino a due settimane dopo

10

Metodo di studio scientifico, atto a valutare l’efficacia di una sostanza o di un farmaco, in cui né il paziente, né il

medico sanno se ricevono/somministrano il vero farmaco o un placebo. Questo tipo di test vuole evitare che il

risultato venga in qualche modo influenzato dalle conoscenze che si hanno in proposito (1).

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l’esperimento, laddove invece quelli che avevano ricevuto il placebo non hanno riportato alcun

cambiamento (Woeller, 2011).

Il fatto che la somministrazione di ossitocina e vasopressina sia in grado di migliorare molti deficit tipici

dell’autismo, quali in particolare l’interpretazione delle emozioni, il mantenimento dello sguardo e i

comportamenti stereotipati, indica come il sistema Ot/Avp sia altamente plastico. Tale caratteristica è

determinante e di fondamentale importanza per il successo di un trattamento di questo tipo (13).

La maggior parte delle informazioni dei seguenti paragrafi sono state tratte da Woeller, 2011.

Concludendo, l’ossitocina come intervento biomedico è già disponibile nelle farmacie sotto forma di

iniezione e spray nasale ed è generalmente usato una o due volte al giorno, o quando serve per far fronte

all’aumento di paura o ansia.

Questo ormone è considerato un potenziale trattamento biomedico per l’autismo, in particolare per

individui con disinteresse sociale, paura, ansietà e carenza di fiducia negli altri. Inoltre, la capacità

migliorata grazie all’ossitocina della ricognizione facciale può essere importante per una più normale

interazione sociale e per lo sviluppo delle relazioni interpersonali.

I ricercatori sono consapevoli che sono necessarie ulteriori ricerche, anche in relazione ai possibili effetti

collaterali dell’uso dell’ossitocina, in particolare nei bambini.

Come per ogni altro medicinale infatti, specialmente quando si tratta di chimica ormonale, vanno prese

alcune precauzioni. E’ importante riconoscere che gli ormoni hanno effetti profondi su tutto il corpo e

possono portare ad altri cambiamenti psicologici. L’ossitocina ha inoltre influenza sui livelli di sodio, così

come su quelli di glucagone e dell’insulina, altri ormoni che influenzano i livelli di zucchero nel sangue.

Probabilmente l’uso prolungato di prodotti come l’ossitocina necessitano di un monitoraggio attraverso

analisi periodiche del sangue per verificarne i livelli.

In ogni caso, l’effetto positivo che l’ormone ossitocina genera nel campo dei contatti e delle relazioni

sociali è al momento di grande interesse e preannuncia la possibilità di un impiego di questo peptide nella

cura di malattie neuropsichiatriche, o dello sviluppo, caratterizzate da problemi relazionali e socioemotivi

(Braida et al., 2011).

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2.4. Quali possibilità di integrazione per le persone

autistiche?

L’integrazione delle persone autistiche nella nostra società sembrerebbe particolarmente problematica,

questa non è però l’opinione di Laurent Mottron, professore e psichiatra all’Università di Montreal,

nonché ricercatore specializzato in neuroscienze cognitive. Egli ha lavorato con otto persone autistiche

che ha integrato nel suo gruppo di ricerca per le loro qualità intellettuali e personali. Nessuno di loro è un

savant11

, sono tutti “normalissimi autistici”, come da lui definiti. Qui di seguito sono riportate le sue

esperienze e analisi a riguardo, pubblicate nell’articolo “The power of autism” del 3 novembre 2011 nella

rivista Nature: international weekly journal of science, volume 479.

Secondo questo ricercatore gli autistici meriterebbero più possibilità di integrazione, infatti nove soggetti

su dieci non hanno un lavoro ‘normale’ e quattro su cinque dipendono dai genitori anche da adulti.

Mottron critica il fatto che i molti vantaggi che una persona autistica può apportare in un determinato

campo non sono mai riportati nei criteri di diagnostica.

Molti programmi educazionali, inoltre, cercano di sopprimere i comportamenti giudicati sbagliati e

spingono il soggetto a seguire una linea di apprendimento ben specifica, senza tener conto del modo in

cui un autistico può apprendere le cose o del fatto che certi aspetti, come l’estrema attenzione dei dettagli,

possano rivelarsi positivi, soprattutto nei campi scientifici, di ricerca o tecnologici. Infatti molti studi,

menzionati nell’articolo di Mottron, hanno dimostrato che la maggior parte delle persone autistiche hanno

capacità superiori alle persone comuni per quanto riguarda compiti come osservare e apprendere

immagini complesse o progettare e manipolare strutture in tre dimensioni.

Il cervello delle persone autistiche presenta un’attività molto più elevata nell’area della vista, anziché del

linguaggio come nelle persone “normali”. Questa diversità è vista però sempre solo in maniera negativa.

Il ricercatore, il suo gruppo e altri ancora tendono a considerare l’autismo come una variante della specie

umana. Essi infatti ritengono queste variazioni genetiche un possibile adattamento evolutivo, non un

errore della natura, che avrebbe dovuto essere corretto.

Secondo Mottron, nel valutare l’intelligenza di un soggetto autistico, si dà troppa importanza alla

componente verbale e quindi queste persone vengono troppo spesso sottovalutate. Secondo lui, infatti, il

linguaggio non dovrebbe essere preso in considerazione come metro di misura dell’intelligenza in sé, ma

sarebbe necessario trovare altri metodi di comunicazione, che permettano una valutazione più oggettiva,

esattamente come avviene con un persona sordomuta, il cui grado di intelligenza non viene influenzato

dal deficit.

Il test Raven’s Matrices, detto anche test delle matrici progressive, va proprio in questa direzione. Tale

esame è atto a misurare l’intelligenza non verbale per mezzo di immagini da completare secondo una

11

Soggetto con una o più particolari abilità super sviluppante, malgrado un ritardo mentale. Le capacità più

frequenti riguardano il campo delle arti (disegno e musica), della matematica o della meccanica (1).

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sequenza logica con difficoltà crescente. La risoluzione di questo test mostra le capacità di osservazione,

interpretazione e analisi (1). Non essendo necessarie le capacità di espressione verbale, infatti, le persone

autistiche, in questo caso, ottengono regolarmente risultati migliori in maniera più rapida, come si può

vedere nel grafico 11.

Grafico 11: Risultati di test per la misurazione dell’intelligenza di

persone autistiche e non-autistiche a confronto. Le colonne azzurre

si riferiscono a test di tipo verbale, mentre l’ultima, in grigio,

mostra i risultati del Raven’è Matrices Test.

Si può notare come nelle persone autistiche ci sia un grande scarto tra risultati di test che comprendono

l’espressione verbale (prime tre colonne) e quelli delle Matrici di Raven (ultima colonna, in grigio). Se è

richiesto l’uso del linguaggio, i risultati non superano il 50-60%, mentre nel test di Raven arrivano al

90%. Le persone non autistiche, al contrario, conseguono risultati più o meno simili in tutti i tipi di test.

Laurent Mottron riporta l’esempio di Michelle Dawson, affetta da autismo, con la quale lavora da più di

dieci anni. Michelle lo aiuta ad elaborare rapporti e risultati di ricerche che hanno condotto insieme,

inoltre ha una grande capacità cognitiva: impara tutto quello che legge con grande facilità.

Il ricercatore spiega come spesso la parte più difficile dell’integrazione dei soggetti autistici nel mondo

del lavoro è quella di capire quale sia il giusto lavoro. Ci sono infatti sempre più organizzazioni che,

attraverso specifici test, sono in grado di indirizzare queste persone verso il settore più adatto alle loro

capacità. È il caso di Aspiritech, nell’Illinois, The Danish company Specialisterne, Specialist People

Foundation e altre ancora.

Spesso le persone autistiche sono più adatte a lavori scientifici per il loro interesse nelle strutture, nei

numeri, nei meccanismi e nella geometria. Lo dimostra ad esempio il famoso caso di Temple Grandin,

persona autistica che, a causa del suo bisogno emotivo di essere confinata in un ambiente molto ristretto

per sentirsi protetta nei momenti di ansia e alla sua capacità di immedesimarsi negli animali in situazioni

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di stress, ha elaborato in primo luogo una “macchina per gli abbracci” per sé stessa, e in seguito un

sofisticato sistema di percorso per portare le mucche al macello senza che queste fossero in uno stato

perenne di agitazione.

Il fatto di focalizzarsi su un argomento o un oggetto in particolare può essere vantaggioso per analizzare

in dettaglio una determinata problematica da risolvere.

Gli autistici sono in grado di percepire molte informazioni contemporaneamente, hanno spesso

un’eccezionale memoria e immagazzinano nella loro mente tutti i dati rilevati durante una ricerca. Ciò è

molto utile in campo scientifico. Inoltre, questi soggetti basano le loro conclusioni unicamente sui fatti,

non si spingono mai oltre quanto osservato, sono quindi quasi infallibili e certamente molto accurati, ma

ciò implica che per arrivare a un risultato ci sia bisogno di molti dati e questo può essere svantaggioso dal

lato pratico della ricerca. Il fatto che gli autistici rimangano così attaccati ai fatti concreti garantisce

inoltre che i risultati non siano influenzati da nessun secondo fine, ad esempio di profitto, di

pubblicazione delle scoperte o di carriera, fattori che invece incidono purtroppo su molti altri ricercatori.

In conclusione il progetto di Laurent Mottron vuole dimostrare come le persone autistiche hanno bisogno

di opportunità e supporto più che di programmi educazionali prestabiliti (L. Mottron, 2011).

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3. Conclusione

Lo scopo iniziale di questo lavoro era capire cosa spinge i soggetti affetti da autismo a comportarsi in

determinati modi, quali sono le differenze rispetto ad una persona normale, a cosa può essere dovuta

questa sindrome e infine quale sia il modo migliore per aiutare chi ne soffre.

Di risposte sicure e certe ce ne sono ancora relativamente poche, negli ultimi anni gli studi a riguardo

sono aumentati notevolmente.

Per quanto riguarda le ricerche sulle possibili variazioni genetiche che causano lo sviluppo dell’autismo

non si è ancora trovato niente di certo. I risultati finora riscontrati sono stati l’identificazione di tante

mutazioni isolate a livello di quasi tutti i ventitré cromosomi, sia a livello di geni sia nelle zone non

codificanti del DNA, nulla però di realmente significativo. Non si è ancora scoperto un gene specifico cui

attribuire la causa di questo disturbo, come probabilmente molti si aspettavano. Ciò conferma l’ipotesi per

ora più accreditata, ovvero che l’autismo sia dovuto a una serie di fattori, anche esterni, cui si è sottoposti,

e non solo a mutazioni genetiche.

A tal proposito, tra le cause ambientali finora ipotizzate, la più avvalorata sembra essere quella

riguardante un’intossicazione di mercurio contenuto principalmente nei vaccini e forse anche altri metalli

pesanti. Benché sia ormai una decina d’anni che sempre più ricercatori svolgono degli studi a riguardo,

non si è ancora arrivati ad una conclusione certa, ma tutti i dati e i risultati ottenuti portano in questa

direzione e il nesso sembra sempre più evidente. Riconoscere che la presenza di questo metallo nei

conservanti dei vaccini possa essere una delle cause di un aumento così spropositato del numero di

persone autistiche negli ultimi anni è sicuramente sconvolgente e molto grave. D’altra parte però ciò

permetterebbe, oltre che a una maggiore conoscenza del disturbo, di controllare il fenomeno e in seguito

sviluppare delle possibili cure a riguardo.

I trattamenti presi in esame spaziano dalla classica psicoeducazione a metodi farmacologici ancora in fase

di sperimentazione.

Le terapie cognitive elaborate nel corso degli anni sono svariate, ma molto simili tra loro in quanto tutte

hanno principalmente lo stesso obiettivo, ossia di migliorare le capacità, la comunicazione e i rapporti

interpersonali di queste persone. Un metodo di questo tipo non è prescrivibile e ugualmente indicato per

tutti, ma bisogna sempre adattarlo al singolo soggetto e alle sue maggiori difficoltà; inoltre ogni qualvolta

viene applicato lo si può completare e perfezionare in base all’esperienza al fine di migliorare sempre

l’efficienza e i risultati ottenuti. I metodi di psicoeducazione sono quindi in continua evoluzione.

La cosa più importante per riuscire ad ottenere i progressi più ampi è quella di iniziare subito queste

terapie cognitive. Infatti appena sorge il sospetto che il bambino possa essere autistico, anche se non se ne

ha ancora la certezza, si consiglia di intraprendere subito la psicoeducazione.

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Inoltre altrettanto importante è l’applicazione intensiva e continua del metodo, dedicando al soggetto

parecchie ore tutti i giorni.

Per quel che concerne le cure farmacologiche non esistono medicamenti specifici per l’autismo, ma

soltanto per i disturbi ad esso collegati, come ad esempio l’epilessia, l’iperattività, l’aggressività e simili.

Per questo motivo bisogna prestare attenzione e non farne un uso spropositato, come in realtà sta

avvenendo negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti. Essi devono essere un supporto alla

psicoeducazione nei casi in cui l’autismo è particolarmente grave ed è necessario tenere presente che non

risolvono il disturbo alla base, ma ne curano solamente alcuni sintomi marginali.

Molti studi recenti si sono occupati dell’effetto di ormoni quali l’ossitocina e la vasopressina sul cervello

degli autistici. Questi due ormoni sembrano infatti avere un influsso molto positivo sul comportamento di

queste persone, specialmente per quanto riguarda le interazioni sociali e le relazioni, sia con famigliari

che con persone sconosciute; inoltre placano l’aggressività e aumentano la capacità di riconoscere le

emozioni e gli stati d’animo altrui.

La maggior parte delle ricerche effettuate finora però sono state svolte su cavie animali, e i risultati

derivati da somministrazione di ossitocina alle persone autistiche sono ancora pochi, ma già promettenti.

Il vantaggio di questo metodo di terapia, se verrà confermato efficace, consiste nel fatto che si tratta di

ormoni e, benché una cura ormonale abbia diversi effetti collaterali, rimane pur sempre un trattamento più

naturale senza nessuna somministrazione di sostanze estranee al corpo e spesso più invadenti.

Il metodo AIT, tuttora abbastanza sconosciuto, si basa su uno studio del dottor Guy Bérard che mette in

stretta correlazione i deficit del sistema uditivo con i comportamenti di un soggetto autistico, poiché,

secondo Bérard, una percezione distorta dei suoni presenti nell’ambiente in cui ci troviamo influisce

negativamente sul nostro modo di agire e sulle nostre capacità. La terapia consiste quindi nel

miglioramento dell’udito al fine di eliminare alcuni movimenti stereotipati e alcuni stati d’animo negativi,

come aggressività, depressione, mancanza di concentrazione e altri ancora. Il metodo AIT si svolge

sull’arco di una settimana con una serie di sedute intensive, durante le quali il paziente è invitato ad

ascoltare musiche e suoni particolari, creati su misura per il suo caso.

In conclusione si è prestata attenzione agli aspetti etici e alle difficoltà di integrazione che questa

sindrome comporta. A tal proposito è stato riportato un esperimento svolto da Laurent Mottron,

professore e psichiatra all’Università di Montreal, il quale ha cercato di inserire nel suo gruppo di ricerca

alcuni soggetti autistici, soprattutto per dimostrare che essi hanno molte capacità e per vari aspetti

possono rivelarsi addirittura più bravi di molte altre persone normodotate, grazie proprio al loro interesse

estremo per determinati argomenti che li porta ad approfondirli minuziosamente.

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4. Ringraziamenti

Si vuole ringraziare in primo luogo le professoresse Manuela Varini e Lisa Palme per l’aiuto e il sostegno

datomi durante lo svolgimento di questo lavoro, in particolare Manuela Varini per tutto il materiale

fornitomi, le correzioni e le osservazioni.

Un ringraziamento va inoltre a Evelyne Thommen, professoressa e dottoressa specializzata in psicologia

dell’infanzia, a Emmanuelle Rossini-Drecq, ergoterapista, ricercatrice e professoressa alla SUPSI (Scuola

Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) e al dottor Antoine Buetti, dell’Università di Zurigo,

per le informazioni e il materiale da loro ricevuto.

Si ringraziano infine Elisabeth Dova e Michelangelo Policastro, educatori al centro Autismo Svizzera

Italiana di Locarno, nonché Peter e Liliana Leuzinger, genitori di Irene, per le interviste.

Da ultimo un grazie particolare alle molte persone che mi hanno fornito contatti, sostenuto e dato preziosi

consigli durante tutto il lavoro.

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5. Bibliografia

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5.1. Sitografia

(1) www.wikipedia.com (marzo e novembre 2011)

(2) www.msd-italia.it/altre/manuale/ (marzo 2011)

(3) www.gli-argonauti.org/bma/ (marzo 2011)

(4) www.thoughtfulhouse.org/tech-labs/disabilities/autism.php (marzo 2011)

(5) www.iwatson.com/autismo/cause-dell-autismo.html (aprile 2011)

(6) www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed (luglio 2011)

(7) www.whale.to/vaccines/jepson.html (luglio 2011)

(8) www.news-medical.net/health/DNA-Methylation (settembre 2011)

(9) www.healing-arts.org/children/holmes.htm (settembre 2011)

(10) www.vaccinationeducation.com/autism.html (settembre 2011)

(11) www.safeminds.org (settembre 2011)

(12) www.naturalnews.com (settembre 2011)

(13) www.cnr.it (settembre 2011)

(14) www.molecularlab.it (settembre 2011)

(15) www.xfragile.it (settembre 2011)

(16) www.hhs.gov (agosto 2011)

(17) www.neurologia.it (settembre 2011)

(18) www.brainmindlife.org (novembre 2011)

(19) www.iocresco.it (luglio 2011)

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5.2. Fonte delle immagini

Figura 1: Bolton Patrick, Elsabbagh Mayada, Walsh Pat e Singh Ilina. Ottobre 2011. In search of

biomarkers for autism: scientific, social and ethical challenges. Nature: international weekly journal of

science (12, ottobre 2011. Macmillan Publishers (www.nature.com, novembre 2011).

Grafico 2: Weintraub Karen. Novembre 2011. Autism, Counts. Nature: International weekly journal of

science (479, novembre 2011). Macmillan Publishers (www.nature.com, novembre 2011).

Grafico 3: www.medbunker.com (settembre 2011).

Figura 4: Fabbri-Destro Maddalena e Rizzolatti Giacomo. Settembre 2009. Mirror neurons: from

discovery to autism. Experimental Brain Research (200, pp. 223-237, settembre 2009). Springer.

Grafico 5: Fabbri-Destro Maddalena e Rizzolatti Giacomo. Settembre 2009. Mirror neurons: from

discovery to autism. Experimental Brain Research (200, pp. 223-237, settembre 2009). Springer.

Figura 6: Hadjikhani Nouchin, Joseph Robert, Snyder Josh e Tager-Flusberg Helen. Settembre 2006.

Anatomical differences in the mirror neuron system and social cognition network in autism. Cerebral

cortex (16, pp. 1276-1282, settembre 2006). Oxford University Press.

Figura 7: www.ait-chastel.net (novembre 2011).

Figura 8: Imperatore Lucia. Febbraio 2011. Autismo e socialità: ossitocina per migliorarla.

www.psicozoo.it, settembre 2011.

Figura 9: Braida Daniela, Busnelli Marta, Chini Bice, Parenti Marco, Ripamonti Silvia e Sala

Mariaelvina. Maggio 2011. Ossitocina, vasopressina e autismo: nuovi target e strategie terapeutiche.

Rapporti dell’Istituto Superiore di Sanità. Le Scienze Web News - Scientific Magazine (www.lswn.it,

ottobre 2011).

Figura 10: www.cnr.it (settembre 2011).

Grafico 11: Mottron Laurent. Novembre 2011. The power of autism. Nature: international weekly

journal of science (479, novembre 2011). Macmillan Publishers (www.nature.com, novembre 2011).

5.3. Comunicazioni personali e conferenze

Chastel Sophie, operatrice AIT, conferenza “Disturbi sensoriali” svolta il 26 novembre 2011.

Dova Elisabeth, educatrice

Policastro Michelangelo, educatore

Leuzinger Peter e Liliana, genitori di una ragazza autistica

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6. Allegati

6.1. Immagini encefalo

Figura A: Area prefrontale, area motoria e corteccia motoria primaria.

Da R. Seeley, T. Stephens, P. Tate, Essentials of Anatomy & Physiology,

www.labiologiaumana.altervista.org (agosto 2011).

Figura B: Giro del cingolo e amigdala.

Da www.physislog.net (gennaio 2012).

Area

prefrontale

Area

premotoria

Corteccia motoria

primaria

Amigdala

Giro del

cingolo

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Figura C: Gli opercoli sono formati da parti dei lobi frontale, temporale e parietale che costituiscono un

coperchio per l'insula. In questa immagine rappresentano la parte rimossa.

Da www.wikipedia.com (agosto 2011).

Figura D: Lobo temporale e lobo parietale.

Da Neil Campbell, Jane Reece, Eric Simon e Martha Taylor, 2008, Immagini della biologia (vol. C), ed.

Zanichelli.

Lobo

temporale

Lobo

parietale

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6.2. Interviste

6.2.1. Intervista a Elisabeth Dova e Michelangelo Policastro (ASI)

Intervista a Elisabeth Dova, presidente del centro Autismo Svizzera Italiana (ASI), in presenza di

Michelangelo Policastro, educatore.

Com’è organizzato il centro? Quanti collaboratori avete?

Siamo sette collaboratori e due volontari.

Il centro è pensato per il tempo libero, i ragazzi infatti arrivano qui soprattutto il sabato e la domenica o

durante le vacanze, ma è aperto anche gli altri giorni. C’è la possibilità di rimanere qui a dormire e

abbiamo una cucina per preparare da mangiare.

Il centro è relativamente piccolo per far sì che i ragazzi si trovino a proprio agio. Per aiutarli a ritrovarsi

abbiamo delle fotografie che indicano i percorsi da seguire o cosa c’è all’interno di ogni stanza. Dei

cartellini con scritte o immagini indicano cosa contiene ogni cassetto o armadio. Molti ragazzi hanno

problemi di comunicazione e, se devono recarsi da qualche parte, spesso non lo esprimono e non lo

chiedono. Le indicazioni che trovano, li aiutano così ad orientarsi e trovare ciò che serve loro. Abbiamo

appeso anche immagini su un cartellone, chiamato “agenda” che indicano cosa devono fare, ad esempio

“lavarsi le mani”, “chiudere la porta”, “spegnere la luce”, in modo che non dimentichino niente.

Quali sono le attività principali e come impostate il programma giornaliero?

Come detto, il centro occupa i ragazzi durante il loro tempo libero, perciò svolgono attività di

intrattenimento come pittura, lavori manuali (candele, lavoretti con il legno, carta pesta, ecc), cucinare,

giochi al computer e così via. Tutte le attività sono comunque però atte a migliorare le loro capacità.

Lavori di questo tipo infatti richiedono concentrazione e capacità di seguire un ordine logico dei vari

passaggi. Inoltre si ottiene un prodotto finale concreto che aiuta sia loro a vedere ciò che hanno prodotto,

sia noi a vedere i diversi risultati raggiunti. Per quanto riguarda i giochi al computer sono anche essi

costruiti su misura, ad esempio per migliorare il riconoscimento di espressioni facciali, sentimenti e altro

ancora. Una di queste applicazioni è basata sulla ricerca del professore ricercatore, Simon Baron Cohen,

psicologo britannico. Partendo dall’interesse degli autistici per i mezzi di trasporto è stato creato un

cartone animato volto ad insegnare i sentimenti. Il film è formato da 16 brevi sequenze e in ognuna di

esse viene rappresentato un sentimento.

Per un mese, un gruppo di ragazzi autistici con QI normale ha guardato ogni giorno tre sequenze. Dopo

questo lasso di tempo si sono ottenuti grandi risultati nel riconoscimento dei sentimenti altrui.

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Tornando alle attività che vengono svolte nel nostro centro, esse dipendono in primo luogo da come i

ragazzi arrivano al centro al mattino, infatti è molto importante il momento dell’accoglienza durante il

quale, se necessario, si calma il ragazzo da eventuali crisi. Inoltre, non sempre è possibile svolgere le

attività fino alla fine, infatti alcuni ragazzi riescono a mantenere la concentrazione e svolgere un

determinato compito per un quarto d’ora al massimo, dopo di che bisogna cambiare attività se no c’è il

rischio che si rifiutino di continuare e vadano in crisi.

Il programma è in generale già ben definito e, nel limite del possibile, è da rispettare alla lettera, infatti

possibili cambiamenti all’ultimo minuto possono causare crisi anche gravi. Per indicare il programma

della giornata vengono anche qui usate delle immagini sia esplicite (il pranzo, la cena, la passeggiata,…),

che implicite (ad esempio i giorni indicati con un delfino sono quelli in cui il ragazzo può bere una Coca

Cola). Quando un’attività è stata svolta, i ragazzi dovrebbero ricordarsi di riporre il biglietto

corrispondente in una busta, in modo che sia chiaro che quell’attività è stata svolta e terminata.

Quale è il ruolo dei famigliari? Organizzate attività anche con loro?

Ospitando i ragazzi durante il loro tempo libero il nostro scopo è anche quello di “alleggerire” la famiglia.

Non sempre infatti è facile prestare attenzione a una persona autistica ininterrottamente e, soprattutto, se i

genitori sono già un po’ anziani, questo compito può risultare faticoso e stancante.

Con i famigliari si organizzano cene regolarmente, ma anche su loro specifica richiesta, mentre questa

estate abbiamo svolto una colonia in cui erano presenti cinque famiglie.

Gruppi di auto-aiuto non ne organizziamo, perché è sempre difficile riunire le famiglie e molto spesso

non è così facile che certi aspetti vengano discussi insieme. Penso che sia più semplice parlare in modo

informale durante un’uscita oppure durante un’attività proposta alle famiglie.

Che genere di ragazzi ospitate? (Numero, fascia d’età, grado di gravità del disturbo,…)

Accettiamo qualsiasi età, da bambini piccoli ad adulti e di qualsiasi grado di autismo, dai ragazzi con la

sindrome di Asperger ai casi più problematici. Se loro stiano qui poche ore, tutto il giorno o addirittura

anche la notte, dipende principalmente dalla necessità della famiglia, da quanto per loro sia indispensabile

il sostegno di un centro, perché magari troppo anziani, troppo stanchi o troppo impegnati non riescono a

prendersi cura del figlio a tempo pieno.

È quasi impossibile classificare ogni singolo individuo secondo il tipo di sintomi e i comportamenti,

infatti un ragazzo può sembrare apparentemente molto autosufficiente e senza bisogno di costanti

attenzioni, ma poi scoppia in improvvise crisi molto violente. Per questo, spesso, è necessaria la presenza

constante di un educatore.

Essendo la gamma dei disturbi dello spettro autistico molto ampia è importante tenere conto del loro

autismo per formare dei gruppi che funzionino. Nel centro ospitiamo un massimo di 5 ragazzi e

normalmente sono seguiti uno a uno.

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Cosa ne pensa delle varie teorie circa le cause dell’autismo? (mercurio, genetica, neuroni

specchio,…)

Al giorno d’oggi è ancora tutto molto allo stato di ricerca. Non ci sono ancora grandi certezze.

Sicuramente alla base, un fattore genetico al quale vengono ad aggiungersi fattori scatenanti ed è una

certezza: il loro cervello è diverso dal nostro.

Personalmente credo che le teorie riguardo al mercurio come una delle possibili cause scatenanti, siano

vere e fondate. Il numero di casi, in cui la somministrazione di tale metallo, avvenuta per mezzo di

vaccini, e l’apparizione del disturbo coincidono temporalmente. Il numero di casi sono troppo elevati per

poter essere semplici coincidenze. Inoltre, tutte le ricerche atte a smentire questa teoria sono state eseguite

dai grandi colossi farmaceutici, che forniscono i vaccini in questione e che quindi hanno tutto l’interesse a

poter continuare la loro produzione.

Altri fattori ambientali possono pure essere delle cause.

Qual è, normalmente, l’evoluzione di una persona affetta da autismo?

In generale, l’autismo viene diagnosticato attorno ai due anni di vita, ma i primi sintomi appaiono già

prima e spesso i genitori se ne accorgono. Purtroppo i pediatri non sempre prestano sufficiente

importanza al fenomeno oppure si limitano a rassicurare la famiglia. In ogni caso, in media un genitore si

rivolge a cinque specialisti, prima di riuscire a ottenere le dovute attenzioni e avere una diagnosi.

Una volta diagnosticato, bisogna intervenire il prima possibile e in modo intensivo.

Le persone autistiche hanno una forte resistenza al cambiamento, essi non vogliono cambiare perché si

trovano bene e provano sicurezza nel loro mondo, caratterizzato da situazioni conosciute. Ciò che

conoscono è confortante per loro, così come il compiere delle stereotipie o il fissare un oggetto possono

essere comportamenti che hanno effetti calmanti. Cercare di eliminare questi atteggiamenti

rimpiazzandoli con nuovi comportamenti può inizialmente metterli in crisi. Se però ci si riesce è un

successo. Essi si ambientano nel nuovo stato e si accorgono di stare meglio. Poi però non vogliono più

uscire da questa nuova situazione e così via, quindi per ottenere dei miglioramenti bisogna sempre

spingerli e convincerli a rompere l’abitudine e allontanarsi da ciò che conoscono.

Negli ultimi anni si stanno studiano diversi filmati del primo anno di vita dei soggetti autistici per cercare

di trovare dei comportamenti tipici che permetterebbero di diagnosticare l’autismo ancora prima.

Infine, è utile ricordare che, siccome comunque ognuno ha caratteristiche diverse, non esiste né una

terapia né una struttura ottimale per tutti.

Quali sono i possibili miglioramenti? Si ottengono spesso cambiamenti significativi?

I progressi sono senza dubbio possibili. Chiaramente, prima si interviene, più ampi sono i miglioramenti,

per questo si cerca di diagnosticare l’autismo sempre più presto, al massimo entro due anni, ma con nuovi

metodi e test si può identificare già entro il primo anno di vita, anche se la grande regressione avviene in

genere attorno ai 24 mesi.

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Inoltre, i progressi sono più facilmente ottenibili se la persona ha comunque un QI normale, pur essendo

autistico; se invece è presente anche un ritardo mentale è più difficile intervenire.

L’intervento psico-educativo dovrebbe iniziare subito e avere un programma intensivo di minimo 15 ore

settimanali.

Nel nostro centro abbiamo un signore di 44 anni, che è arrivato qui da poco. Egli non ha mai seguito una

terapia, infatti al momento del suo arrivo era estremamente difficile comunicare con lui e rifiutava

qualsiasi attività gli venisse proposta. Ora, invece, è già più aperto ed è in grado di mantenere la

concentrazione su quello che sta facendo, ad esempio dipingere, anche se magari solo per 15/30 minuti.

Quali sono le terapie che secondo lei portano a risultati migliori?

Un intervento psico-educativo con un programma intensivo e ben pianificato. Oggi i due metodi più

riconosciuti sono ABA e il modello teacch.

PECS è un metodo che insegna la comunicazione.

Anche la logopedia può essere utilizzata se sono presenti difficoltà nel linguaggio, ed è spesso il caso.

L’ergoterapia è anche un intervento molto importante. Oggi si sa che le persone affette da autismo hanno

grossi problemi sensoriali che riguardano: l’udito (una persona autistica spesso non distingue la

lontananza dei suoni, mettendo sullo stesso piano ad esempio il suo interlocutore e un aereo in

sottofondo), la vista (ipersensibilità alla luce, difficoltà nel riconoscere i volti, disturbi di messa a

fuoco,…) e il tatto (i vestiti possono essere fastidiosi o anche dolorosi e può esserci un’ipo- o

ipersensibilità al contatto, anche a dipendenza del momento). Con l’aiuto dell’ergoterapia, si possono in

un qualche modo “regolare” i sensi.

Per quanto riguarda i farmaci, a mio modo di vedere, si usano con troppa leggerezza, soprattutto perché

non esiste un medicinale specifico per l’autismo. I farmaci sono da usare solo in casi estremi, quando

bisogna bloccare gravi crisi, diminuire l’iperattività o contenere altri disturbi come ad esempio l’epilessia.

Complementi alimentari possono dare dei risultati. La dieta alimentare priva di glutine e caseina per certe

persone autistiche può avere effetti molto positivi. Alcuni di loro, infatti, hanno una permeabilità

dell’intestino e queste sostanze, attraversandolo, arrivano al cervello dove influiscono negativamente.

La chelazione, altra terapia, è un metodo ancora sperimentale, che consiste nell’eliminare i metalli

presenti nel nostro corpo attraverso iniezioni di una sostanza chimica specifica. Purtroppo però non

vengono eliminati solo i metalli pesanti, ma anche altre sostanze indispensabili per il nostro corpo, che

devono perciò venir somministrate nuovamente. Esistono tanti pareri diversi su questo trattamento, sia in

positivo che in negativo.

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6.2.2. Intervista ai coniugi Leuzinger

Peter Leuzinger, 66 anni, glaronese, è sposato ed è padre di tre figlie: le due maggiori, di 40

rispettivamente 38 anni, sono sposate; Irene, di 32 anni, soffre di sindrome autistica a basso

funzionamento, con ritardo medio.

La famiglia ha abitato dapprima a Basilea, poi a Vicenza. Da otto anni vive in Ticino e cioè da quando il

padre è andato in pensione a 58 anni per esigenze famigliari: aiutare la moglie che non ce la faceva, senza

più forze e speranze.

Sono stati momenti difficili, immagino.

Abbiamo passato periodi molto brutti, i medici non sapevano cosa fare. Le istituzioni non erano in grado

di dare risposte adeguate e competenti sulla patologia o sulla sindrome. Gli istituti avevano, o meglio

hanno - purtroppo mi vedo costretto a usare il presente, perché è ancora oggi così - una funzione

generalistica, la formazione del personale permette di dare assistenza unicamente a chi non è autonomo, e

in Svizzera non ci sono scuole dove il personale viene specificamente formato per le esigenze specifiche

di persone autistiche.

Il problema è chi si occuperà di Irene dopo di noi. Le altre figlie hanno la loro famiglia e lei non ha

ancora un ambiente dove poter vivere autonomamente, per ora si tratta di una quotidianità imposta da altri

come per tutte le persone con disabilità.

La mente di queste persone funziona in modo diverso: mancano dei neuroni specchio, il soggetto non

imita, non impara, ci vuole quindi un certo tipo di intervento mirato.

Ora è possibile leggere la mente tramite neuroimaging e risonanza magnetica e tutto ciò è meraviglioso,

ma richiede competenze specifiche che spesso mancano. Chi fa le diagnosi? Un pediatra, per quanto

bravo sia, non è in grado e non può prendersi la responsabilità. Se manca la diagnosi cosa si può fare? Si

aspetta a 6/7 anni ed è a scuola che si comincia ad accorgersi del problema, prima non si dà molto peso, si

dice che il bambino è pigro, che ci vuole pazienza. La figura di neuropsichiatra infantile esiste solo

all’estero, centri diagnostici qui da noi non ce ne sono. E siccome non puoi fare interventi specifici, tutto

si complica.

Quando vi siete accorti?

Già a tre mesi. Rifiutava il seno, e per questo motivo hanno eseguito delle diagnosi di infezione alle vie

urinarie (che poi si è rivelata essere solo una contaminazione avvenuta per errore in laboratorio), rifiutava

il cibo, anche il biberon in seguito, e non si capiva perché, bisognava imboccarla forzatamente.

A 4/5 mesi sembrava sorda: se passava un aereo, se cadeva una padella, lei non reagiva, non sussultava, il

pediatra diceva che sarebbe potuta anche essere effettivamente sorda. E Irene continuava a rifiutare il

cibo.

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Intanto il tempo passava perché sono procedure lunghe: prima l’infezione, poi aspetti i risultati, poi prendi

un altro appuntamento, fai la cura, ricontrolli...

E così siamo arrivati a 5 mesi e mezzo e l’abbiamo portata dal pediatra primario dell’ospedale. Egli ha

detto che era una bambina particolare, ci hanno convinti così, e noi intanto notavamo la diversità rispetto

alle altre due figlie, non era possibile, l’abbiamo riportata una seconda volta. Allora il pediatra ha fatto un

paio di test: dapprima l’ha lasciata cadere sul tavolo e lei non ha reagito a paracadute, allargando mani e

piedi come tutti i bambini, è caduta come un sacco di patate; poi le passava la matita davanti agli occhi e

lei non la seguiva con lo sguardo, non la afferrava; in seguito la chiamava da dietro a destra e a sinistra,

con voce acuta o grave, e lei non girava la testa. Questi sono i primi 4/5 elementi della check-list

distribuita a tutti i pediatri del cantone.

Hanno così finalmente capito che c’erano seri problemi. Allora ci hanno mandato dal neuropsichiatra

infantile in un centro apposito. Egli ha dichiarato che si trattava di ritardo psicomotorio.

Abbiamo iniziato così la terapia in questo centro, due volte alla settimana, con stimoli psicologici e fisici

che poi noi dovevamo continuare a casa.

Avete notato altre anomalie?

Non camminava neanche (ha iniziato a 18 mesi e mezzo), e anche dopo, quando sapeva farlo, continuava

a stare seduta, dondolandosi, sbavando e a guardarsi le mani. Noi avevamo il compito di interrompere

questi comportamenti e stimolarla con qualcosa di diverso. A casa ci avevano fatto disporre varie scatole

e ciotole con diversi stimoli (riso, pasta, sabbia, sassi,…) per attivare il cervello e stimolare i sensi, quello

che normalmente un bambino fa da solo quando tocca tutto, butta tutto in giro, per capire come funziona

il mondo. Irene non faceva queste cose spontaneamente, bisognava stimolarla forzatamente,

artificialmente. Ad esempio, per imparare ad abbassare la maniglia della porta c’è voluto un anno e

mezzo.

Poi a tre anni abbiamo iniziato la logopedia per farle imparare a soffiare anziché sbavare. Ad esempio,

soffiare le candele, che è un semplice movimento che anche i bambini di un anno fanno, lei non era in

grado di farlo, e se non soffi non sai parlare. Per non sbavare e ingoiare la saliva usavamo una cicca

legata a un filo che lei mandava giù: ha imparato, ma a volte ancora adesso, mentre parla, spruzza un po’,

anche se non sempre, dipende dall’agitazione.

Le sorelle l’hanno stimolata moltissimo giocando spesso con lei; secondo mia moglie se Irene ora è a

questo punto, deve dire grazie a loro.

Da parte nostra abbiamo sempre favorito gli incontri con i suoi coetanei, organizzando merende, per

esempio, e abbiamo continuato a farla esercitare per tutta l’infanzia, tanto che, con la stimolazione

intensiva, ha continuato a progredire.

È riuscita così a iniziare le elementari normalmente, a sei anni.

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A questo punto dell’intervista il papà mi mostra delle sue foto e mi fa notare lo sguardo smarrito,

assente, la faccia imbronciata, raramente sorridente, come quando una persona è persa nei suoi pensieri.

Ancora adesso, anche se sa guardare le persone negli occhi, lo fa molto poco, e spesso parla senza

fissare l’altra persona.

E lei, signora, ha incontrato delle difficoltà particolari?

Era un problema nel vestirla, rifiutava il contatto, facevo una fatica enorme, si toglieva i vestiti, era un

continuo dimenarsi. A 8 mesi è successa una cosa stranissima: l’avevo in braccio, ha tentato di prendere

la mia testa e mi ha detto “mamma!”, ma poi si è bloccata! La prima volta che di sua spontanea volontà

mi ha dato un abbraccio, aveva 11 anni. Mi ha detto: “Ti voglio bene mamma”.

Da sola non sapeva organizzare il gioco, ancora oggi ci vuole sempre la presenza di qualcuno che la

stimoli. Ha però comunque imparato a leggere e scrivere come gli altri, con lo stesso ritmo. Ma di sua

spontanea volontà non legge. L’unico interesse enorme che ha è per il calcio perché alle elementari aveva

compagni quasi solo maschi. Gli educatori ci hanno detto di assecondare questo interesse. Sempre con un

insegnante di sostegno ha imparato anche a fare operazioni e a risolvere semplici problemi.

Bisognava però costringerla, perché continuava a muoversi e la capacità di concentrazione durava poco.

Poi ha fatto le medie, però in Italia l’insegnante di sostegno cambiava tutti gli anni, con un percorso più

strutturato avrebbe forse imparato di più.

Mandarla a scuola con un insegnate di sostegno al suo fianco è stato utile?

Abbiamo capito più tardi che non era quello di cui aveva bisogno. Irene doveva imparare a essere una

persona autonoma, a gestire una casa, piuttosto che imparare matematica, italiano e altre nozioni. Se

avessero puntato di più su questo aspetto, quando la mente era ancora elastica, avrebbe imparato di più

ciò che erano le vere necessità della vita, piuttosto che le competenze intellettuali. Ma effettivamente non

c’era tempo per tutto, le cose da farle fare erano talmente tante e il nostro obiettivo era che imparasse a

leggere e a scrivere, al momento ci sembrava più importante. Abbiamo capito solo più tardi che la

capacità di autonomia era più importante.

Ha frequentato anche due anni di scuola superiore, poi si è capito che non era il caso di insistere.

Irene si pone domande su ciò che la circonda? Comunica i propri pensieri sulla vita?

Irene ha una fissa per l’altezza: per lei le persone devono essere tutte alte, perché tutti le dicevano “come

sei bella alta, diventerai alta come il papà”. Era un problema vestirsi d’estate, mettere i pantaloni corti

significava diventare piccola (il papà ha l’impermeabile dell’esercito lungo, lei vuole sempre che lo metta

in modo da sembrare più alto). Sono un problema di operatori bassi, non li accetta, non vuole svolgere

attività con loro, continua a parlarne a casa il sabato e la domenica, teoricamente lo sa che è irrilevante,

ma ha il bisogno impulsivo di continuare a dirlo. C’era un periodo in cui con la mamma (che è bassa) non

usciva più di casa. In Italia andava bene, perché la sua statura era nella media, ma qua in Svizzera era

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convinta che era una mamma piccola e se passava vicino una persona alta le dava una sberla, perché per

Irene era come se la mamma fosse soffocata da questa passante. Lei vuole una mamma giovane, alta e

bella, continua a rimproverarle anche delle rughe, probabilmente perché ha paura della morte.

Infatti, ha capito il concetto di morte solo a 19 anni, quando ha visto morire di infarto la nonna in casa e

l’ha vista seppellire con i propri occhi. Prima andava ai funerali, ma non capiva realmente cosa

succedesse. Ogni tanto realizza: “muoiono anche i giapponesi”, “anche i gatti!”. Un altro esempio è la

differenza uomo - donna: entrambi hanno occhi, naso, bocca, come possono essere diversi? Siamo uguali,

com’è possibile?

Per certe cose quindi ha molta maturità, per altre meno.

Prima di venire in Svizzera, i genitori si sono interessati alle diverse opzioni per aiutare Irene. Hanno

optato per l’Istituto di Loverciano, che ha indirizzi di apprendistato per disabili e ha permesso a Irene di

diventare assistente di cucina in una casa per anziani. Siccome le piace cucinare, ha frequentato questo

corso come interna, dormendo lì la settimana; poi il weekend veniva dalla nonna a Morbio, dove la

famiglia abita attualmente. Il papà, che lavorava ancora a Vicenza, veniva a trovarla.

E come è andata?

Ha imparato a tagliare le verdure, ad affettare… Il primo anno è andato tutto benissimo, il secondo,

invece è arrivata una ragazza più brava e Irene è andata in crisi. Ha fatto un’involuzione anche per un

abuso di un cuoco (poi licenziato). Noi, come genitori, questo fatto l’abbiamo saputo dall’altra ragazza,

Irene l’ha detto solo alle sorelle. La stessa cosa è successa in un altro istituto dove, in uno spogliatoio

unico per maschi e femmine, un ragazzo normale, che per un incidente non ha più la voce, ma comunque

carino fisicamente, ha abusato di lei. Irene non è stata in grado di reagire alle avances, l’idea del contatto

fisico così intimo lo rifiuta. Ha un grande desiderio di maternità, ma ha capito che non ce la farebbe: è

una questione che la manda ancora oggi in crisi.

E ora?

Lei è in grado di svolgere tutto in teoria, ma le manca la concentrazione, si distrae. Preparare il risotto, per

citare un caso specifico, non arriverebbe alla fine da sola, se non è seguita, quindi ha tuttora un deficit di

attenzione. Ma anche di ascolto, non sai mai se il messaggio è arrivato, bisogna stare molto attenti alla

formulazione della domanda. Ad esempio, se le si chiede “vuoi uscire a passeggiare sì o no?”, lei

risponde di no anche se vorrebbe, perché è l’ultima cosa che ha sentito. Questo però l’abbiamo scoperto a

nostre spese. Non esiste il “forse”, l’ipotesi non esiste, quella cosa avverrà sicuramente. Magari per farla

contenta, le promettevamo cose che non si avveravano e poi era una tragedia. È importante che gli

educatori lo sappiano. Un altro esempio: nel centro di Locarno le hanno parlato di un appartamento prima

di esserne in possesso, l’hanno portata a vederlo, lei è da tanto che chiede un appartamento con qualcuno

perché si sente sola, poi non l’hanno ottenuto e per lei è stato un disastro.

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È comunque positivo che voglia stare con qualcuno, è stata talmente abituata in questo senso. Per certi

versi è una forma di autismo al contrario! Però queste persone devono essere dello stesso livello: se sono

meno bravi, sta male per loro (prova empatia), e lei resta sola di nuovo; se invece sono più brave, il senso

di frustrazione de di inferiorità emerge.

È già successo?

Il primo anno all’Istituto Loverciano come aiuto cucina, le piaceva perché c’era gente. Ma il lavoro era

sempre quello e Irene si è stufata: tagliare, pelare, tagliare, pelare, tagliare, pelare, tagliare, pelare,…

Voleva girare le fettine in padella, mettere il sale, impanare, ma i ruoli sono rigidi…non la lasciavano.

Alla fine andava in tilt, gridava per strada, piangeva a casa prima di andare al lavoro. Abbiamo fatto

riunioni con il capocuoco ma non hanno accettato di farle fare qualcosa in più, lei era addetta alle verdure

e basta! E poi parlano di integrazione… Ad esempio, un giorno c’era il pesce da impanare, dovevano

preparare 45 filetti e c’era una signora addetta a questo lavoro, Irene le ha chiesto se poteva provare e lei

le ha detto di no, cosa le costava fargliene impanare 5? Irene sarebbe stata contenta per tutto il giorno. Poi

le hanno promesso di poter far girare le luganighette, il giorno prima era tutta esaltata, il giorno giusto è

partita 40 minuti prima da casa per girarle! Non gliele hanno fatto girare: è tornata a casa in lacrime…

Irene è una persona già fragile, queste cose poi si ripercuotono sul suo stato psicofisico e di conseguenza

su tutta la famiglia. Ha subito troppe ferite di questo genere in tutta la sua vita.

Allora abbiamo cambiato completamente settore, siamo andati in un centro ricreativo dove facevano le

ceramiche (pittura, decorazioni,…), lei non è molto creativa, ma ha imparato molto, sa usare bene i colori.

Là ha cominciato con piatti grandi da dipingere, poi è passata a piccole ciotole. E queste le ha rifiutate,

non si sa perché, magari ha visto qualcun altro che era più grave che svolgeva quel compito e questo per

lei significava essere regredita, diceva “È un lavoro per andicappati!”. Lì non lo capivano, la prendevano

come ribellione e un capriccio, lei scappava.

Perché avveniva? Perché non conoscono abbastanza l’autismo. Se gli educatori fossero meglio informati

capirebbero meglio

Allora cosa avete fatto?

Ci siamo mossi, abbiamo fatto il possibile e l’impossibile, cercando di informare le associazioni, è un

mondo più vasto di quello che si pensi, molti non hanno la diagnosi di autismo, ma ci sono!

Se non vengono capiti mostrano ribellioni, aggressività contro gli altri e contro se stessi: non si capisce il

perché, però si pensa che siano capricci e giù pillole. Irene, che sa parlare, può risultare antipatica perché

dice in faccia ciò che pensa, ad esempio dice “Non devi essere disabile.”, sembra senza cuore, ma in

realtà lei vuole capire il perché, intende dire che le dispiace che l’altra persona sia disabile.

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In prima media ha iniziato a rendersi conto della sua diversità e ha incolpato la madre perché è uscita

dalla sua pancia, l’ha aggredita: “È colpa tua.” diceva, pensa ancora così delle altre mamme, non capisce

che non è colpa di nessuno e che nessuno desidera che il proprio figlio nasca così.

Ha fatto comunque progressi enormi, noi ad un certo punto speravano addirittura in una sua autonomia.

Purtroppo, però, questo non è avvenuto, non ce la fa, manca di capacità nell’organizzarsi e coordinarsi

nelle varie sequenze, come ad esempio cucinare. Fatica nella successione delle operazioni, non si ricorda

di farle tutte o basta una minima distrazione perché smetta e pianti lì tutto. Teoricamente lo sa fare, ma in

pratica no, ormai rifiuta di esercitarsi anche perché è troppo grande e l’abbiamo bombardata di troppi

esercizi. Ad esempio, le equazioni o altri aspetti della matematica con il senno di poi si potevano

risparmiare ed esercitare di più la sua automonia.

Altre problematiche con le quali vi siete dovuti confrontare?

Noi siamo molto credenti e Irene crede che la gente vada in cielo. Che senso ha contraddirla, se questo la

manderebbe in crisi? Molti operatori dicono la loro, dicono che non è vero, insistono per aver ragione. Ad

esempio, quando le hanno detto che dopo essere morti è tutto finito, lei è andata in crisi, ha sempre

creduto che la nonna la aspettasse in cielo. Imbattersi in queste persone che la contraddicono, la manda in

crisi. Un altro esempio è quello della Juve (di cui lei è patita): è davvero indispensabile mettersi a

disquisire sul fatto che il Milan sia meglio? Che senso ha? Non puoi chiudere un occhio e tacere? Se però

non si conosce il problema è ovvio che magari viene normale e spontaneo dire e insistere su ciò di cui si è

convinti anche se è diverso da quello che pensa lei. Bisogna quindi conoscere meglio la problematica e

sapere che imporre la propria idea su di lei può risultare catastrofico e spesso non è indispensabile. Il fine

è quello del permettere il loro benessere e quindi agire di conseguenza, basta non contraddirli se sono

convinti di una cosa.

A tale proposito il padre ci tiene a precisare cosa ne pensa del concetto di integrazione e perché secondo

lui questo termine è inappropriato se si tratta di persone con disabilità.

Integrarsi significa conformarsi a un modo di essere, se una persona ce la fa, lo fa spontaneamente come

gli stranieri che si conformano alla cultura del luogo. Se uno può, lo fa automaticamente, se non ce la fa

non lo si può obbligare, è sbagliato costringere una persona a fare quello che decido io. Quindi con i

disabili non si deve parlare di integrazione. Se a un autistico dà fastidio la radio, non lo si può obbligare a

integrarsi in un ambiente con la radio sempre accesa. In questo caso, l’integrazione diventa una violenza

alla persona che non riesce ad adattarsi alla situazione ambientale. Non per capriccio, ma per motivi ben

fondati che bisogna capire.

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Ad esempio, un piatto con più cibi (patate, pasta, piselli tutto insieme) non lo mangiano gli autistici, è

inutile continuare a dare loro questo piatto dicendo “prima o poi lo mangerà”, il loro modo di vedere le

cose è diverso, li si fa star male a forzarli, non star meglio. Magari istintivamente viene normale spingerli,

ma un educatore non dovrebbe farlo o almeno dovrebbe sapere dov’è il limite. Si ritorna al fatto che a

volte mancano di formazione. Si può continuare a proporre, ma non forzare, può arrivare il momento in

cui l’autistico desidera provare, ad esempio a mangiare tutto in un piatto unico invece che in tre separati.

Siamo noi che dobbiamo adattarci al loro modo di essere, non sono loro che devono adattarsi, perché

questo non possono farlo. Non possiamo pretendere che siano come noi.

Se si continua a pretendere dall’autistico cose che non sa fare, a un certo punto scoppia, e dato che non è

in grado di esprimersi e comunicare il disagio, reagisce andando in escandescenza, o con aggressività, un

po’ come chiunque quando è infuriato. Ma in questi casi si dice che “Loro non sanno stare alle regole!

Non imparano niente. Così non si può continuare!” poi spesso li si seda con farmaci, il 90% delle persone

negli istituti è sedata?! È la soluzione più facile, ma in realtà non raggiungi l’obiettivo di farli star bene e

tutelare la loro salute.

Cosa ne pensa degli istituti, in generale?

Istituti? Sono per qualsiasi tipo di disabilità, si risolvono i problemi accontentando tutti con il pranzo

caldo e un lavoretto da svolgere. Ecco quello che si fa nella maggior parte dei foyer. In Ticino non c’è

nessun progetto educativo di vita vero e proprio, e se c’è, i genitori non vengono informati o interpellati.

Noi non abbiamo mai ricevuto una telefonata quando c’era un problema con Irene, magari li avremmo

potuti aiutare, invece non è mai successo. Avremmo voluto che l’educatore chiamasse dicendoci “Irene fa

così e cosà, cosa dobbiamo fare?”. Invece l’unica volta che è successo ci hanno detto: “Irene non si può

gestire”, “Non ne possiamo più”. Le persone non sono da gestire, sono da aiutare. Per farle star bene, non

per renderle uguali a noi. Aiutarle dove non ce la fanno, non imporre ad esempio una passeggiata se non

ne hanno voglia, e in questo caso si dice che si ribellano e non si integrano! E poi si somministrano

nuovamente psicofarmaci. Il fatto che sia un problema più psichico che fisico sembra quasi autorizzarli a

forzarli, invece, ad esempio, non si obbligherà mai a correre una persona con la gamba rotta.

Sempre per restare in tema, un venerdì al centro di ceramica Irene non voleva fare le pulizie: “Sei una

bambina che deve sempre fare i capricci!” le ha detto l’educatrice. Invece i ragazzi potrebbero fare quello

che hanno piacere a fare perché non sono lì come dipendenti di una filiale, è un laboratorio dove le

persone con disabilità vanno per star bene, fare progressi, non per lavorare.

C’è poi un altro problema: l’Assegno per Grandi Invalidi. Nessuno in Ticino in 7 anni (2000-2007) è

passato da un grado di disabilità alto a uno medio, da uno medio a uno lieve o da uno lieve a grado zero.

Ciò significa che non ci sono stati miglioramenti? Si può quindi dire che le cose funzionano?

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Concludendo, il padre propone il percorso ideale di educazione per persone con disabilità.

0-4 anni: dopo la nascita di un bambino, il pediatra dovrebbe, già al quarto-quinto mese, fare un controllo

seguendo la check-list dei primi comportamenti tipici di un ritardo o una sindrome. In Italia e in Francia si

fa obbligatoriamente, qua non ancora. Inoltre, se con questo test si vedono dei problemi neurologici, non

si sa in che centro diagnostico portare il bambino per far svolgere test più approfonditi. Un centro di

diagnosi dovrebbe comprendere 4-5 medici e 25 pedagogisti dell’età evolutiva. Una diagnosi precoce non

può essere fatta da un solo medico, in quanto comporta molta responsabilità, dovrebbe essere una équipe

di persone con varie specializzazioni a effettuarla. Inoltre, non basta una sola analisi, un neonato

dovrebbe essere sottoposto a tre o quattro diagnosi, dilazionate su lungo tempo.

Stabilita una disfunzione motoria o mentale, si traccia un progetto e si inizia la riabilitazione e la terapia.

Dopo tre settimane il bambino dovrebbe essere rivisto per riconferma o meno della diagnosi, in modo da

modificare o continuare il progetto di riabilitazione. Bisogna notare, che la terapia non è svolta

principalmente dai pedagogisti, ma soprattutto dai genitori in quanto sono i soli a essere quasi sempre in

contatto con il bambino. Il pedagogo dovrebbe insegnare al genitore cosa fare e come eseguirlo.

Il problema che ne deriva è che se non si fanno degli interventi sufficientemente precoci, si arriva poi a

una situazione che necessita di in un’assistenza a vita nella fase adulta, questo in più comporta molti costi

supplementari. Si ha paura di spendere all’inizio, senza pensare che questi soldi magari si

recupererebbero a lungo termine, oltre al fatto di tutelare in modo corretto la salute di queste persone.

5-18 anni: la riabilitazione si continua con altri ritmi e in più c’è il progetto di crescita e sviluppo. Aiutare

a comunicare è la cosa fondamentale, così si può esprimere più facilmente il disagio e tutto diventa più

facile. Favorire la comunicazione permette di elaborare la capacità di connettere e sviluppare problemi.

Qua bisognerebbe avere personale competente e formato.

18 anni in poi: si continuano gli interventi menzionati e in più si comincia una formazione per un’attività

specifica. Se le persone autistiche imparano un lavoro, l’autostima sale, bisogna però insegnare ciò che

già piace loro, perché se è qualcosa che non va loro a genio e non riescono bene, li si fa star male e la loro

autostima scende. Farli regredire o ammalare obbligandoli a fare qualcosa che non riescono a svolgere

non è infatti lo scopo. Se è per farli abituare a nuove situazioni, allora potrebbe andare bene, però a questo

punto dovrebbe essere un lavoro più graduale, ad esempio sull’arco di molti anni.