AURELIO PEZZOLA - PAYS MED · 2015-09-22 · di Aurelio Pezzola Questo mio studio sul paesaggio...

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1 SISTEMI ARCHITETTONICI IN FRANCIACORTA _____________________________________ AURELIO PEZZOLA

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S I S T E M I A R C H I T E T T O N I C I

I N F R A N C I A C O R T A

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A U R E L I O P E Z Z O L A

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Immagini fotografiche ______________________

Gruppo Iseo Immagine

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archivio studio d’architettura A. Pezzola

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composizione grafica arch. Chiara Morando

In copertina: Castello Fassati, Passirano

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Una premessa, lunga un trentennio

di Aurelio Pezzola Questo mio studio sul paesaggio architettonico della Franciacorta trova la sua origine nel 1978, quando, studente della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, capitai fortunosamente in un gruppo di ricerca che faceva riferimento alla figura di Lucio Stellario D’Angiolini, rara presenza cosciente e responsabile di una visione urbanistica critica e scientifica. Due del gruppo, gli architetti Marita Baggio e Giovanni Tacchini, mi iniziarono verso una ricerca che oggi sono sempre più cosciente non avrà mai fine. Questo studio nel suo divenire continuamente operante si è rivelato subito uno strumento fondamentale per il mio lavoro di architetto. Ogni volta, quindi, lo studio era destinato ad approfondimenti e verifiche; quando uno scritto o un progetto sembravano definire una sintesi conclusiva della ricerca, nasceva sempre un’occasione o un’incontro per iniziare nuovamente ulteriori approfondimenti. Così alla prima pubblicazione,

“ IL PORTONE DA APRIRE IN FRANCIACORTA ” Sardini Editrice, 1982

fece seguito il progetto di itinerari ciclabili, di percorsi incrociati tra natura, storia, arte e lavoro umano,

“ ALLA SCOPERTA DEL GRANDE MUSEO AMBIENTALE DI FRANCIACORTA ”

Cento3. Numero speciale A.B. Grafo & Associati, 1987

Seguirono successivamente in sequenza: “ APPUNTI PER UN VIAGGIO TRA LE DIMORE

DELLA FRANCIACORTA ” Magazine Franciacorta, 1988

“ PAESAGGIO URBANO DI UN BORGO RURALE” in “ PADERNO FRANCIACORTA DAL MEDIOEVO

AL NOVECENTO ” Gruppo Editoriale DELFO, 2004

“ IL PAESAGGIO COME PALINSESTO.

UN ESPERIENZA PROFESSIONALE: STRATIFICAZIONI STILISTICHE, TIPOLOGICHE, INSEDIATIVE,

IL CASO DELLA FRANCIACORTA ” in “ ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO E

INFRASTRUTTURE ” Direttore del corso prof. arch. Giovanni Tacchini, 2005

(in corso di pubblicazione) L’impegno costante in questi anni, teso a riportare queste comunicazioni in un percorso all’interno delle scuole e dei comuni della Franciacorta è stato una prima risposta a quell’insegnamento dangioliniano che richiedeva alla figura dell’architetto una partecipazione attiva nelle comunità locali, per costruire una nuova coscienza civile. Durante questo viaggio ho anche incontrato delle figure che di volta in volta mi hanno aiutato nelle varie fasi della mia ricerca. A tutte queste sono intellettualmente debitore e devo loro un ringraziamento particolare:

- ad Alessandro Cristofelis per avermi dimostrato la possibilità di dialogare con le pietre; - ad Enrico Mantero per avermi insegnato a cogliere “l’essenza dell’architettura” nelle sue diverse stagioni e per individuarne ogni volta le diverse matrici; - ad Antonio Acuto per avermi esortato a continuare lo studio sui sistemi architettonici della Franciacorta ed ad

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5 ampliarlo per poi confrontarlo anche con altri diversi contesti; - a Renato Job, che ha sempre creduto nell’utilità di questa ricerca, come base indispensabile per una nuova consapevolezza di tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico della Franciacorta. Non solo conservazione del bene culturale, inteso in una visione limitativa, protesa alla sola salvaguardia delle emergenze architettoniche, ma nella sua globalità, guardando al paesaggio come ad un unicum indivisibile dai piccoli episodi, dai dettagli, che concorrono a pieno titolo ad una visione globale ed appagante del paesaggio; - ai dirigenti scolastici, Morena Modenini e Giorgio Bettoni, per il loro impegno di realizzare un preciso rapporto culturale tra scuola e territorio; - a Mario Fosso, per avermi richiamato in facoltà, per continuare a studiare, permettendomi di intraprendere quella prerogativa tutta rogersiana: “di continuare ad imparare insegnando”; - a Giovanni Tacchini, per aver, con pazienza, da sempre contribuito puntualmente ad affrontare e focalizzare i vari aspetti dello studio, ogni volta stimolandomi all’approfondimento di un determinato sistema microurbanistico, che finiva poi con il rivelarsi strategico per il divenire della ricerca. Si tratta di una ricerca, quindi, come un progetto continuo, che di volta in volta si autogenera, gli ultimi scritti della quale sono sempre una rielaborazione ed un aggiornamento di quelli precedenti. L’ultimo lavoro in ordine cronologico è stato redatto in occasione del corso “Architettura del paesaggio e infrastrutture”. La stesura del testo ha coinciso con questo

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6 convegno di Iseo. E’ evidente quindi un’analogia tra i testi, che fissano la ricerca provvisoriamente allo stato attuale. Il giorno della mia tesi di laurea ho ricevuto in dono da un architetto greco, Alessandro Cristofelis, delle immagini fotografiche “per imparare a dialogare con le pietre”. Erano le immagini conclusive del film di Einsentein della Corazzata Potenkin. Sulla scalinata di Odessa, vi sono tre inquadrature a sorpresa di un leone di pietra che dorme, di uno che apre gli occhi e di uno che scatta in agguato. Questa è una tipica costruzione di montaggio, operazione specifica della formalizzazione filmica, che difficilmente potremmo immaginare riproducibile a parole. Ci si rendete conto che semplici parole, spese dalla critica del tempo, come: “Leone Rivoluzionario” oppure “anche le pietre si rivoltano e gridano”, sono banalità artistiche in confronto alla plasticità delle immagini che il montaggio restituisce. Il tentativo dello specifico filmico nel cinema (il montaggio) trova riscontri e analogie in architettura, anche se l’esempio è molto metaforico: il momento della formalizzazione di un’idea in una forma concreta, restituita con concetti poetici. E’ questa forse l’essenza delle architetture che ritroviamo in Franciacorta: un confronto diretto sempre presente con la geografia dei luoghi, un dialogo continuo e segreto con le architetture preesistenti, in grado di far emergere evidenti contaminazioni legate ad una dinamicità di modelli culturali e di matrici architettoniche che lungo antichi itinerari migrano e si trasformano. Così lungo il sentiero dell’architettura ho attraversato tutto un millennio. Dalla valle dell’Oglio ho cavalcato lontano, lontano, fino al Danubio. Il dialogo iniziato con i leoni di pietra è continuato con le pietre che hanno costruito le diverse stagioni architettoniche della Franciacorta.

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Sistemi Architettonici in Franciacorta

di Aurelio Pezzola

I. Matrici antiche e perenni che migrano e si stratificano

II. Il contesto come geografia dei luoghi

III. I muri dei broli, pietre e ciottoli come materia per le prime partiture murarie; primo pathos architettonico, tra selve, paludi e demoni

IV. Lungo antichi itinerari si attestano i primi sistemi architettonici. La Pieve

V. La fortificazione della campagna dai primi recinti all’incastellamento nel paesaggio morenico della Franciacorta. L’origine del borgo medioevale

VI. I primi borghi e le prime regole architettoniche

VII. Le contrade

VIII. Dal piccolo monastero cluniacense alla grande abbazia

IX. Le residenze della prima borghesia imprenditoriale tra Quattrocento e Cinquecento

X. La rifeudalizzazione del paesaggio agrario tra Cinquecento e Seicento

XI. La grande epopea delle ville tra Seicento e Settecento

XII. L’impianto della Controriforma: San Carlo Borromeo e le nuove Parrocchiali

XIII. La Palazzina di villeggiatura tra Settecento e Ottocento

XIV. La cascina e la prima manifattura

XV. L’architettura neoclassica vantiniana

XVI. Dal neogotico alla lunga stagione dell’eclettismo

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Sistemi Architettonici in Franciacorta

di Aurelio Pezzola

I. Matrici antiche e perenni che migrano e si stratificano. La geografia dei luoghi, nella storia della sua fisicità, ci fa comprendere che la Franciacorta trova la sua genesi nei fenomeni naturali del glacialismo. Se pensiamo che già nei graffiti camuni è presente la volontà dell’uomo di far corrispondere a dei “segni” un significato, questo contesto territoriale, attraverso la propria stratificazione storica, è in grado di documentare, in una completezza unica la lunga storia degli insediamenti umani che, partendo da un paesaggio agricolo pastorale, giunge fino alla civiltà industriale. Non essendo per formazione: né storico, né sociologo, né archeologo, né economista, ho preferito iniziare il viaggio da dove le architetture si manifestano non come singole testimonianze, come ruderi o attraverso tracce archeologiche; ma come insediamenti ancora riscontrabili in una loro interezza, come dei veri e propri “sistemi architettonici”. E’ evidente che esiste una storia di lungo periodo importante, che riguarda una preistoria, una protostoria e, per il nostro contesto, una successiva romanizzazione del territorio, tutta costruita sull’impalcato secolare che aveva prodotto ricchezze agricole e commerciali: antiche piste militari est-ovest, che si trasformano in aste

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9 mercantili capaci di intersecare fiumi e itinerari che ci riconducono a nord nei sistemi vallivi. La strada pedemontana è anche una linea di demarcazione tra due diversi paesaggi; è il luogo congeniale per lo scambio e il commercio di prodotti diversi che provengono dalla valle e dalla pianura. Lungo questa direttrice si attestano e si stratificano i sistemi architettonici della Franciacorta. Nella successione di immagini dai monasteri cluniacensi, alle antiche pievi, ai castelli, alle ville rinascimentali, alle nuove parrocchiali con i loro sagrati, alle architetture neoclassiche della meteora vantiniana, fino alle architetture dell’eclettismo – è possibile rintracciare una materia plastica e docile come creta, nelle mani di uno scultore: una rapida espressione d’architettura in grado, secolo dopo secolo, di piegarsi, di flettersi, di curvarsi, di rivestirsi con intonaci, di modificare le cornici che si concludono nel cielo, di compiere metamorfosi e di rigenerarsi con nuove figure, in grado ogni volta, di scolpire il proprio tempo. E’ lecito chiedersi cosa contraddistingue l’architettura di questo contesto da territori vicini, anche confinanti. Per rispondere a questo è necessario ricercare alcuni “valori primordiali”. Una prima lettura dei caratteri originari è possibile osservando il paesaggio, inteso come specifica geografia dei luoghi, come una prima matrice perenne che costruisce “l’eterno presente”.

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10II. Il contesto come geografia dei luoghi. La roccia

madre, che a nord costruisce lo scenario della catena alpina, determina un impalcato parallelo all’alba e al tramonto del sole, con il quale ogni progetto d’architettura deve necessariamente confrontarsi; è un primo allineamento che determina vincoli e rispetti progettuali. Questa linea di demarcazione, questa sponda nei confronti della pianura, come una costa nei confronti del mare, diventa e costruisce per il paesaggio lombardo-veneto, delle vere e proprie “sacre sponde”, nel ruolo storico che esse avevano come riviera di un mare antico. Questo impalcato strutturale, costituito dalla catena alpina, risulta ben visibile dalla bassa pianura; risalendo dal mantovano, o dal cremonese, l’ampio campo prospettico dell’immensa orizzontalità della pianura si infrange sulla muraglia verticale dei monti, generando un’immagine che ben configura la geografia dei luoghi di questa fascia pedemontana. I ghiacciai, con il dono dell’acqua, alimentano i fiumi che, lungo i sistemi vallivi, scorrono nei laghi. Come in un grande progetto idraulico, questi bacini naturali, raccolgono e accumulano le acque necessarie all’irrigazione della grande pianura. Il territorio della Franciacorta si configura delimitate dal corso di due fiumi, il Mella a ovest della città di Brescia e dall’Oglio che, con la sua insenatura valliva, segna il confine con il territorio bergamasco, lungo la convalle del Sebino, caratterizzato dall’impronta dei colli morenici e del monte Orfano. Ai margini della catena prealpina, l’onda dei depositi dei ghiacciai si è pietrificata nei colli morenici, creando una diga naturale a fondo lago, determinando una zona di territorio leggermente sopraelevata che investe parte della fascia asciutta pedemontana. Nel sottosuolo scorre l’acqua

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11che riaffiorerà più a sud, lungo la linea dei fontanili e delle risorgive, così da tracciare nella pianura un altro segno parallelo alla catena alpina che determinerà una linea di demarcazione, fondamentale nella storia del paesaggio agrario lombardo. Divisione non solo fisica, geografica, ma strutturale, economica, sociale. E’ ovvio che la fascia irrigua porti più fertilità e ricchezza alle campagne: è qui che si insedia la grande proprietà fondiaria, strutturata dal salariato, mentre più a nord, nella fascia morenica, il territorio è suddiviso e frazionato in piccole proprietà, organizzato con contratti mezzadrili. Alla diversa dimensione e struttura del fondo, corrisponde una diversa commisurata dimensione tipologica della cascina. Una linea di demarcazione, quella dei fontanili e delle risorgive, contrappone due diversi paesaggi: quello a sud nella bassa, caratterizzato da grandi cascinali, e quello lungo la fascia pedemontana, in Franciacorta, caratterizzato da piccole cascine. Le colline moreniche, come un muro di un brolo gigante, delimitano un grande semicerchio, generando due spazialità teatrali come “natura agri”; una concava, “un anfiteatro”, un invaso, verso nord, verso il Sebino, verso la breccia valliva che si conclude sullo scenario della catena alpina e una convessa a sud, come una passeggiata sopraelevata verso l’orizzonte lineare dell’immensa pianura, delimitata sullo sfondo dal profilo della catena appenninica. Questa duplice visione del paesaggio, verso le Alpi e verso la pianura, costituì un punto di vista prediletto dei pittori romantici di fine ‘700 ed inizio ‘800. L’opera del Basiletti, testimoniava le valenze forti di questo sito, tanto dal punto di vista ambientale che da quello architettonico.

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12Peraltro, è interessante notare come ci sia una doppia interpretazione dell’ambiente da parte dei viaggiatori del Settecento: quanti scendevano in Italia attraversando le Alpi, arrivavano nella fascia dei laghi, ricevevano una prima sensazione di paesaggio “italiano” dagli elementi endemici propri della mediterraneità e, per contro, quanti risalivano dalla pianura, provavano la sensazione di trovarsi ai piedi di un paesaggio alpino. Questa situazione di centralità tra diverse “geologie” umane e geografiche, tra zone asciutte ed irrigue, tra la direttrice delle maggiori città pedemontane e i percorsi verso le valli attraverso gli antichi itinerari della transumanza, caratterizzava la Franciacorta come un’area di contatto tra diverse realtà culturali: ai piedi della civiltà Camuna e nel bel mezzo tra Venezia e Milano. L’insenatura valliva nord-sud del Sebino, come un fiordo, è anche un canale del vento, dove il ritmo metodico delle brezze, ideali per la vela, crea le condizioni ottimali per il trasporto delle merci, dalla valle alla pianura. E’ quindi la natura dei luoghi all’origine delle città porto, delle città scambiatrici, delle città mercato, come Pisogne, Lovere, Iseo e Sarnico, a far assumere alla Franciacorta con Rovato, un’area di centralità degli scambi nord-sud, dei diversi prodotti agricoli e artigianali. Il grande emiciclo morenico e il veloce percorso pedemontano lungo un margine frastagliato, caratterizzano la linea di demarcazione pedemontana. Qui anche il tracciato rigoroso e razionale della centuriazione dovrà assumere un disegno che si plasmerà contro la forza sinuosa di questa impronta preesistente. Questo ruolo di centralità, tra un sistema di piste parallele alla pedemontana e di percorsi che dalla pianura salgono verso le valli, sono la premessa di un fitto sistema di borghi policentrici che ruotano intorno alle città

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13scambiatrici, generando situazioni di popolamento in una zona asciutta, che trovano una risposta oltre che a questi fatti macrourbanistici, a ragioni riscontrabili nel patrimonio tipologico insediativo della cascina e della sua struttura, ideate come investimento destinato a durare nel tempo per diverse generazioni: patrimonio architettonico configurato e rilevabile nel grande spessore delle partiture murarie, nella presenza sistematica dei volti al piano terra, nella costruzione dei pozzi.

III. I muri dei broli, pietre e ciottoli come materia per le prime partiture murarie; primo pathos architettonico, tra selve, paludi e demoni. E’ questa geografia dei luoghi così esclusiva e singolare del paesaggio lombardo dove se da una parte i ghiacciai portano “il dono dell’acqua”, dall’altra la terra contiene il “dono della materia”; è questa terra morenica che sembra offrire all’uomo “la materia”: nel rito del dissodamento dei campi si ripulisce la terra e si traggono come in un raccolto sassi e ciottoli. La morfologia delle pietre levigate dai ghiacciai, i sassi delle morene, la loro resistenza e compattezza, il loro farsi muri bonificatori del fondo agrario, il loro farsi case e campi stabili, sono la caratteristica del contesto. Sono insiemi di questi ciottoli arrotondati e lisci, come microsculture di Erry Moore, che costituiscono i grandi pieni delle muraglie di confine dei broli e delle brede; muri che si trasformano in case medioevali, in rocche, in castelli e pievi. Sassi e ciottoli recuperati nell’opera di bonifica del territorio sono anche i materiali che costruiscono e riorganizzano i margini di un paesaggio agrario nei secoli XI-XIII, caratterizzato dai campi chiusi in prossimità di

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14piccoli borghi e dagli impalcati sopraelevati delle ripe, nella riorganizzazione dei percorsi e delle geometrie dei nuovi campi, sottratti alle selve. I muri dei broli, nella loro funzione di recinto costruiscono un margine tra campo chiuso e campo aperto: al campo chiuso corrisponde un fondo specializzato in vigneti, frutteti, orti; al campo aperto seminativi e cereali inferiori come il miglio, il panico, la segale, l’orzo. L’immagine suggestiva dei muri merlati, visibili a Gussago, a Rodengo e a Erbusco, trovano la loro ragione nel costruire un’impalcatura pergolata, necessaria alle colture specializzate all’interno del brolo, manifestando anche in queste semplici costruzioni quella capacità architettonica di conciliare utilità e bellezza. Sono quindi i sassi e le pietre l’elemento base che costruiscono un primo pathos architettonico; così l’impiego di alcuni ciottoli, uniti in singoli mosaici, compongono un campionario di esperienze cromatiche espresse in una diretta crescita organica connaturata al proprio sito. Si generano variazioni sensibili, segnate dalla diversa geologia del sito, dalla vicinanza di una specifica cava, diversificando il muro di un borgo da quello confinante, come alcune sfumature dialettali che cambiano non appena ci si sposti da un paese all’altro. Così, come il linguaggio dialettale ha una sua unicità con molteplici sfaccettature, l’impalcato di queste prime architetture organiche è legato da una comune cultura materiale che produce murature contraddistinte dalla diversa fisicità dei contesti. Nel territorio della Franciacorta questa diversità si manifesta in due fasce: quella settentrionale lungo il percorso pedemontano, e quella meridionale, ai piedi delle

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15 morene. La prima è caratterizzata da un sistema di cave locali di pietra e medolo, lungo l’itinerario: Cellatica, Gussago, Rodengo, Valenzano, Ome, Monticelli, Provezze, Provaglio e Iseo; la seconda, tra le morene e la pianura, tutta costruita sul recupero del ciottolo alluvionale, da Castegnato, Paderno, Passirano, Bornato, Cazzago, Rovato, Coccaglio, Cologne, Erbusco, Adro, Capriolo e Corte Franca. Queste diverse zonalità, che coincidono anche con le diverse pigmentazioni delle sabbie e delle calci, caratterizza il momento della costruzione come atto di un generarsi inscindibile dalla particolarità delle terre e dei luoghi. La comprensione delle prime dimore va rapportata a quel paesaggio medioevale fatto di pievi, castelli e contrade, circondato da “selve e paludi”. Una festa popolare straordinaria legata al rapporto tra le “oscure selve” e “luminoso campo”, tra “paradiso e inferno”, era la festa che ogni cinque anni si teneva il 15 agosto a Paderno. Dove la pala della Madonna condotta in processione usciva dal castello, baluardo difensivo del paese e percorrendo tutte le vie, cacciava il diavolo in fondo alla “Contrada delle Selve” (diventata poi nella tradizione popolare contrada del diavolo) come per rispedire il demone nell’oscurità infernale delle selve. «Alla Palazzina, come in ogni altra casa, chiesa o recinzione lungo le strade dei dintorni, le murature furono costruite connaturandole al luogo in ciottoli alluvionali. Le più antiche, incorporate nell’ala maggiore della casa, si potrebbero far risalire al primo formarsi dei campi sottratti alla foresta, alle origini della festa di fine inverno, di cui la casa non doveva essere estranea, trovandosi nei pressi del luogo sacro, dove i contadini celebrarono un mistero cresciuto nell’anima, man mano che abbattevano gli alberi e aumentava la paura del sacrilegio.

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16Di lontano, d’un tratto fermo sulle agili zampe stava a guardare i poderosi tronchi divelti e le intricate fronde che ne erano state il vello vigoroso. Minaccioso gigante, ottuso caprone dagli occhi cavi, grinzosi come cortecce d’albero, lo spirito delle selve, simile ad un vento impetuoso, si era poi dileguato. Ma per notti e notti lo si era udito belare il proprio dolore e il rabbioso sentimento della vendetta. Se non si fosse placata, l’ira del Dio avrebbe privato uomini e terra di ogni fertile umore. Del sacro timore i contadini serbarono ancestrale memoria fino a settant’anni fa e rinnovarono ad ogni primavera un esorcismo sensuale, una festa, che sopravvisse anche alla sostituzione d’identità del Dio oltraggiato…». (ENRICO JOB, La Palazzina di villeggiatura, Palermo, Sellerio Editore) IV. Lungo antichi itinerari si attestano i primi sistemi architettonici. La Pieve. La Pieve inizia a diffondersi dal IX secolo con i Carolingi e i Franchi. La Diocesi si divide in circoscrizioni a capo della quale c’è la Pieve. La Pieve è la grande parrocchia delle campagne intorno alla quale si riunisce il popolo fedele di più borghi che si identifica nella specificità della Pieve. La strada pedemontana è quindi una linea di demarcazione tra due diversi paesaggi; è il luogo congeniale per lo scambio e il commercio di prodotti diversi che provengono dalla valle e dalla pianura. Lungo questa direttrice si attestano le pievi. Gli insediamenti delle Pievi di Palazzolo, di Erbusco, Coccaglio, Bornato, Gussago e Iseo con la loro giacitura est-ovest, rimarcano l’importanza di questa strada.

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17Le Pievi, queste grandi moli di pietra disposte ordinatamente lungo la strada, assumono, oltre alla loro funzione religiosa, un ruolo di matrice architettonica nel tracciare con la loro giacitura est-ovest, un ideale parallelismo per la costruzione dei nuovi edifici, tutti rigorosamente allineati sullo stesso asse. La Pieve assume quindi per il popolo il significato di una sorta di “casa madre”. L’essenza dell’architettura di questa opera è espressa dalla facciata, che pietrifica all’esterno la sezione interna dell’aula unica e il profilo si infrange nel cielo con le falde rasate, mostrandone tutta la potenza volumetrica, costruendo di fatto un riferimento e una regola costruttiva. L’orditura lignea della copertura, le pietre e i pezzi speciali, perfettamente squadrati, impiegati negli angoli degli edifici, o per la torre campanaria, determineranno dei sistemi costruttivi che ritroveremo sistematicamente nel patrimonio edilizio. La Pieve è quindi il riferimento ordinatore di un paesaggio architettonico. Nella sua funzione specifica, il grande tempio ad aula unica costruisce la cornice delle cerimonie religiose e il percorso cristiano si focalizza nell’architettura della pieve, dal battesimo alla sepoltura, mentre i grandi slarghi posti attorno al campo santo segnavano la centralità e la focalità dell’architettura nell’attestarsi anche come spazialità mercantile nei confronti dei piccoli borghi limitrofi. La Franciacorta è un insieme di piccoli borghi che iniziano con l’attestarsi intorno alle pievi e che, successivamente, finiranno con il consolidare sempre più le città scambiatrici, le città mercantili, come Gussago e Rovato, e le città porto, come Iseo.

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18V. La fortificazione della campagna dai primi recinti all’incastellamento nel paesaggio morenico della Franciacorta. L’origine del borgo medioevale. I villaggi preesistenti si sono attestati e spesso trovano un riferimento policentrico nella Pieve. Alcune di queste piccole realtà, come Borgonato e Timoline, fanno riferimento a proprietari che costruiscono dei borghi nel periodo Carolingio. Dal X secolo in poi e nei due secoli successivi si costruisce in una fitta rete l’incastellamento del paesaggio. Nel XI secolo diventa un vero e proprio sistema murato e il borgo si affianca al castello, trovando in esso un’immediata protezione. Tra XI e XII secolo tutti i villaggi si trovano affiancati ai castelli, e i pochi borghi privi di castelli si trasformano in una vera e propria struttura incastellata. La storia di lungo periodo ci racconta di come questo territorio, proprio per essere attraversato da piste e itinerari che univano le principali città del nord, da Aquileia a Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano, fu oggetto di secolari invasioni e incursioni. Questo doveva avere generato e consolidato una linea di demarcazione difensiva del territorio, rilevabile dal fitto sistema di rocche e castelli costruito principalmente lungo i due itinerari. Il primo era insediato lungo l’itinerario est-ovest, Brescia-Bergamo, che dalla città attraversava Paderno, Passirano, Bornato, Cazzago, Rovato, Coccaglio, Spina, Erbusco, Capriolo, Palazzolo; mentre il secondo sistema difensivo era posto lungo la valle dell’Oglio, dal ruolo strategico di Palazzolo a Mussiga, Capriolo, Vanzago, Paratico, per poi continuare lungo il Sebino a Clusane e Iseo. A questo sistema si opponevano, sulla sponda bergamasca,

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19Tagliuno, Caleppio, Rampino, Mentecchio, Trebecco, Merlo e Sarnico. Chiaramente l’incastellamento in forme differenziate è presente in tutti i borghi, anche in alcune case sparse nella campagna, dove, come annota nel “Le Dimore Bresciane” Fausto Lechi «costruire un castello sarebbe stato troppo impegno e poi non era necessario; al piccolo signore bastava una torre nella quale asserragliarsi». L’idea di un ricovero sicuro perdurerà per tutto il quattrocento, fino all’inizio del cinquecento. Il Crescenzio nel suo “De Agricoltura”, tradotto per Francesco Sansovino in Venezia nel 1564, consiglia infatti, ancora, al padrone isolato in un fondo, di munirsi almeno di una torre nella quale «si possa ritirare con i lavoratori» riproponendo quindi nella campagna l’esempio collaudato del coevo palazzo-fortezza cittadino. Il villaggio si affianca alla rocca o al castello trovando in esso un sicuro rifugio temporaneo; queste abitazioni sono insediate sul tracciato principale, generando la crescita del borgo lungo la strada e trovando nel castello e nel suo spazio di pertinenza, l’elemento e lo spazio fisico che si diversificano dall’agglomerato urbano. Coccaglio esprime questo tipo di insediamento. Il castello di Paderno è l’espressione di un insediamento più complesso, dove le abitazioni si dispongono, da una parte lungo le direttrici principali, e dall’altra su una maglia secondaria che permette di raggiungere velocemente la rocca difensiva, che è, con la piazza, centro fisico e di attività dell’agglomerato. Il castello e la rocca sono un po’ come la città medioevale, insediati nelle posizioni più adatte per il controllo del territorio, alcune volte sfruttando anche leggeri dislivelli, come nel caso di Passirano, altre volte, invece, diventano insediamenti che caratterizzano lo spazio circostante per

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20la capacità di instaurare con il territorio una relazione spaziale, come nel caso della fortezza della Spina-Cologne. Vi è, comunque, al di là di queste osservazioni sulla tecnica degli insediamenti, una certa gerarchia tra rocca e castello, tra castello e castello. Nel castello di Rovato, nelle sue case ponte, nelle sue strade porticate, nelle sue botteghe e all’esterno nel suo borgo agricolo, si legge l’aspirazione di questo accampamento difensivo a farsi città del territorio circostante. Il castello, con la sua configurazione, con il grande recinto quadrangolare, con le torri d’angolo, con il rivellino, il ponte d’ingresso, il fossato, la piazza d’armi, le grandi murature piene, i contrafforti, le bastionature, determinerà una struttura tipologica che sarà in grado di influenzare sia il panorama delle ville del cinquecento che alcune costruzioni dell’eclettismo, come vedremo successivamente. VI. I primi borghi e le prime regole architettoniche. La resistenza materica, biologica delle costruzioni, determina un necessario rinnovo edilizio delle murature che ci permette di leggere in sequenza stratigrafica le diverse stagioni architettoniche. Questo rinnovo edilizio ciclico, che coincide con i diversi periodi storici e culturali, è rilevabile negli edifici religiosi sistematicamente ogni due secoli. Alle Pievi edificate dalla cultura e rinascita Carolingia nel secolo IX, fa seguito il romanico del XI secolo, mentre nel XIII secolo si costruiscono le prime Parrocchiali all’interno del borgo murato. Solo nel XV secolo si darà luogo al rinnovo edilizio e al rifacimento delle antiche

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21Pievi, per concludersi puntualmente due secoli dopo con la Controriforma di San Carlo Borromeo (come avremo modo di approfondire nei capitoli successivi). E’ evidente che il tema del rinnovo edilizio coinvolgeva di volta in volta anche gli edifici del borgo, e la ricca stratificazione degli edifici pubblici religiosi contaminava e accresceva, di conseguenza, una cultura materiale dell’edificare, che secolo dopo secolo si era sempre più raffinata. Così il sapiente impiego di alcune pietre d’angolo, modellate per sottolineare i punti più importanti di un edificio, sono la trasposizione di un linguaggio colto dell’architettura in una sua rappresentazione dialettale. Alla sapienza costruttiva dell’edificare muri in pietra corrispondono strategiche logiche insediative: nella scelta altimetrica del sito per la costruzione dei castelli, nella distribuzione policentrica di borghi trovando lungo i segni della centuriazione dell’appoderamento i fili per il tracciamento delle nuove case, sia lungo le direttrici storiche est-ovest, sia specialmente lungo la strada pedemontana prolungando gli assi nord-sud, sottolineando una connessione diretta con le valli. Le contrade che risalgono verso nord, di Gussago, Padergnone, Mertignago, Saiano, Badia, Sergnana, Provezze, sottolineano l’attestarsi di queste frazioni lungo gli itinerari della transumanza, lungo i sentieri che dalle pendici della riviera conducevano agli alpeggi. Questi edifici lineari insediandosi ortogonalmente alla strada nord-sud mantengono un parallelismo con tutti gli edifici posti sulla strada est-ovest, sfruttandone rigorosamente l’asse eliotermico. Nel periodo medioevale, i sistemi architettonici già presenti delle pievi, dei monasteri, dei castelli e delle contrade, ci mostrano come i sassi e le pietre siano

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22l’elemento base delle prime architetture che ben identificano il paesaggio della Franciacorta. Osservando quello che doveva essere “l’unicum” di questo paesaggio, così come doveva apparire nel periodo medioevale, sembra quasi che la “Natura naturans” abbia suggerito precise regole architettoniche, riscontrabili in analogie sostanziali, tra la dimensione domestica della dimora o i volumi eccezionali di un castello, o di una chiesa ad aula unica; come per esempio i profili di questi edifici che finivano sempre rasati, senza gronde aggettanti, soprattutto nei fianchi est-ovest, evidenziando la razionalità della costruzione nei confronti del paesaggio naturale, sottolineando il peso del volume nella delicata conclusione con il cielo. Dettagli e valori primordiali che hanno in gran parte coinvolto le sensibilità artistiche, dai pittori dal Settecento ai post-macchiaioli. VII. Le contrade. Abbiamo visto come le contrade che risalgono verso nord rimarchino i segni della centuriazione romana e sottolineino l’attestarsi di queste frazioni lungo gli itinerari della transumanza. Queste sono le contrade più antiche, che costruivano nelle loro logica insediativa un sistema architettonico in totale armonia con le architetture delle Pievi. L’incastellamento del paesaggio aveva invece finito con il consolidare delle contrade lineari lungo l’asse est-ovest, con la strada a nord e un lotto gotico a sud, perimetrato da muraglie. Questo sistema insediativo costruisce un impalcato urbano che caratterizza lo scenario dei borghi della Franciacorta, dove spesso queste contrade lineari si deformano sinuosamente per ricalcare l’impronta delle balze moreniche (come Bornato e Villa Erbusco). Le contrade nelle loro vicissitudini storiche sono state 35.

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23oggetto di considerevoli trasformazioni dovute alle crescite e alle espansioni che si autogenerano all’interno dei lotti gotici, spesso legate all’esigenza funzionale ed alle necessarie integrazioni di nuove spazialità. Questo avverrà principalmente dall’Ottocento in poi con il consolidamento all’interno della cascina della trattura del baco da seta. . Fino a tutto il periodo settecentesco le costruzioni si erano sempre riedificate sul sedime di impianti preesistenti, con costruzioni di portici nuovi, in aggiunta all’abitazione, ed in rari casi con sopralzi di solai e di logge per cambiamenti di destinazione d’uso, come nel tema della palazzina di fine Settecento, inizio Ottocento che si stratifica sul sedime di impianti medioevali preesistenti, esprimendo con la costruzione del nuovo manufatto la volontà di incastonare una palazzina per la residenza borghese in continuità con gli insediamenti rurali che caratterizzavano la contrada. Questo uso commisurato del suolo, nel senso più profondo di risparmio del territorio, permetteva agli impianti e quindi al paesaggio urbano di relazionarsi in modo ideale nei confronti del paesaggio agrario. Le mappe napoleoniche sottolineano come sia ancora visibile all’inizio dell’Ottocento l’impianto delle contrade storiche. Nella lunga muraglia piena sul lato nord si aprono gli ingressi delle case e le piccole finestre alte del piano terra mostrano la chiusura verso la strada carraia, consentendo la ventilazione degli edifici da nord a sud. Il fronte meridionale completamente aperto con portici e logge evidenzia l’assunto di un impianto inequivocabile nei confronti della geografia dei luoghi, sia nella giacitura degli edifici paralleli e chiusi verso la catena alpina a nord, sia nelle strutture aperte miranti alla massima esposizione solare lungo l’asse eliotermico a sud.

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24Chi abitava queste case, con le finestre dei piani superiori a nord, si relazionava con il margine pedemontano e trovava nel monte Guglielmo, spesso innevato, un punto focale. Mentre a sud i portici e le logge si affacciavano su un cortile, aperto verso un piccolo brolo, un’ortaglia, posta ad una quota inferiore dove questi piccoli broli digradavano in continuità con i grandi broli delle ville che nei secoli successivi avevano saputo incastonarsi sapientemente tra il paesaggio urbano preesistente e il paesaggio agrario circostante, creando un’aggiunta pregevole al corpo storico. Questo sguardo a sud, questa vista oltre i broli delle ville, si concludeva nella sua massima profondità prospettica nel paesaggio agrario dell’immensa pianura. Alla razionalità insediativa di questi impianti corrispondeva una sapienza costruttiva che tramandata di generazione in generazione aveva accumulato una cultura materiale millenaria in grado di produrre manufatti di grande qualità in cui si conciliano ammirevolmente utilità e bellezza. Rilevante l’uso del vòlto, sistematicamente presente nelle contrade lineari di Paderno, come efficace sistema di controventatura, per garantire nel tempo la capacità di durata del manufatto ma anche del capitale-lavoro in esso investito. Il rigoroso impianto strutturale delle contrade, sembra generato da esperienze di popoli che hanno attraversato eventi sismici. In questa storia di lungo periodo viene spontaneo chiedersi come fossero le dimore primitive. Le vòlte più antiche, quelle semplici a botte a tutto sesto, sono spazi scultorei, dove è talmente avvertibile il peso della materia che ricordano più una cavità naturale che uno spazio architettonico. L’antica dimora ricomponeva con le sue vòlte una sorta di

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25 “caverna”, un ventre primordiale come memoria dei primitivi insediamenti; allo stesso modo del bimbo smarrito che cercando rifugio in una tana, torna inconsapevolmente al grembo materno. E’ probabilmente partendo da vòlte di questo tipo, che avevano resistito e superato eventi sismici, che si è andato moltiplicando successivamente l’uso di esse nella legatura degli edifici rilevabili sistematicamente nei piani terra delle contrade. VIII. Dal piccolo monastero cluniacense alla grande abbazia. Il sistema architettonico delle Pievi aveva consolidato la Franciacorta come un’area di contatto tra diverse culture, in questa zonalità strategica nel costruire centri nodali capaci di scambiare lungo direttrici est-ovest ma anche nord-sud, che troviamo l’attestarsi intorno al 1100, del sistema monastico cluniacense; da San Paolo D’Argon nella fascia bergamasca a Provaglio e Rodengo in Franciacorta. I monaci cluniacensi introducono nuove tecniche nella bonifica, nel recupero, nella semina; sono maestri nel controllo delle acque, sono praticamente in grado di operare una significativa trasformazione del paesaggio agrario, che comporterà mutazioni fondiarie e alimentari, ma anche un nuovo sistema di scambi. I due principali insediamenti in Franciacorta, quello di Provaglio e di Rodengo, testimoniano bene due differenti momenti che queste architetture rappresentano, il passaggio dal piccolo monastero cluniacense alla grande abbazia. Il Monastero di San Pietro in Lamosa riassume la fase iniziale dell’insediamento cluniacense, nel percorrere il piccolo chiostro all’interno si avverte la matrice

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26domestica del Peristylium di una domus romana. L’impianto della Badia di Rodengo, nella sua ricca stratificazione secolare, mostra la capacità che il monastero ha avuto nel relazionarsi con un ampio territorio della Franciacorta; nel costruire un fitto sistema di cascine e di conventi creando piccoli centri organizzativi all’interno dei centri abitati e nuovi cascinali in campagna, per una nuova gestione razionale del lavoro sul territorio. Si innescano relazioni tra cascinali, conventi, monasteri di campagna, monasteri di città. All’immagine simbolica della Pieve si sostituisce l’immagine monumentale del monastero nella campagna di Rodengo, caratterizzato da più corti, chiuse a chiostro. Tutto il complesso sembra voler rimarcare, con la sovrapposizione dei percorsi, con le crocere, la duplice relazione di un impianto che si attesta lungo il rivo del Gandovere sull’insenatura dell’antica via dei mulini e dei magli, all’incrocio con la via dei sistemi conventuali che conduceva nella città di Brescia a Santa Giulia. Come per le Pievi e i castelli, anche il monastero con la magnificenza dei suoi spazi, la grande sequenza delle infilate prospettiche, i portici e le logge dei chiostri come gallerie distributive, strade coperte e grandi spazialità in duplice altezza, granai, cantine, ghiacciaie per lo stoccaggio e la conservazione dei prodotti agricoli; tutto concorre a generare il monastero come modello architettonico che si rifletterà di conseguenza nel patrimonio edilizio.

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27IX. Le residenze della prima borghesia imprenditoriale tra Quattrocento e Cinquecento. Nel Quattrocento il palinsesto della Franciacorta è costituito da una forte presenza monastica che aveva sempre più accumulato ricchezze dal recupero dei terreni paludosi e dalle selve; è dall’afflusso, lungo gli antichi itinerari della transumanza, di una prima classe borghese che si insedierà in questo territorio rincorrendo le fortune raggiunte dai monasteri. Questa nuova classe imprenditoriale quattrocentesca, da un lato vuole sostituirsi agli antichi insediamenti monastici, dall’altro, usa l’essenza dell’architettura dei monasteri per disegnare le nuove facciate delle proprie abitazioni. L’ordine compositivo all’interno del chiostro, con un percorso porticato al piano terra ed una loggia aperta, sovrapposta, al piano superiore, viene proiettato all’esterno caratterizzando i prospetti di queste nuove dimore. Sono praticamente le sezioni interne dei chiostri dei monasteri che si ribaltano all’esterno a costruire i prospetti di questa nuova classe imprenditoriale. L’architettura monastica è quindi una matrice di queste nuove architetture, cui suggerisce con le loggette aperte al piano superiore un impalcato compositivo che caratterizzerà anche una serie di edifici semi-pubblici, dove avvenivano scambi e integrazioni funzionali legate al mondo della produzione. Proprio per la posizione strategica di questo territorio anche questo sistema architettonico è diffuso in tutti i borghi del contesto e partecipa ampiamente all’impalcato che costruisce la ricca stratificazione architettonica della Franciacorta.

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28X. La rifeudalizzazione del paesaggio agrario tra

Cinquecento e Seicento. Il veneziano Alvise Cornaro riporta in un suo scritto che « in verità l’agricoltura del retrare (cioè del recupero dei terreni paludosi) è la vera alchimia per ciò che si vedde che tutte le grandissime ricchezze dei monasteri e di qualche privato cittadino si sono fatte per questa via, e non solamente si vede le private persone, ma le città esser fatte grandi e potenti per questo mezzo. Non era il Mantovano palude? » Si interroga il Cornaro, « non era il Ferrarese il medesimo? Il paese di Ravenna e di Cervia? ». Questa consapevolezza ormai secolare che dai cluniacensi alla borghesia quattrocentesca aveva testimoniato la capacità di trarre ricchezze dalla campagna, unita alla grande trasformazione urbanistica operata dalla Repubblica Veneta nel territorio, intervenendo con grandi opere idrauliche, con una prima razionale sistemazione della rete stradale e l’introduzione di nuove specie vegetali come il gelso e il riso, offrirono una grande opportunità al capitale veneziano di stanziarsi in terraferma. In questo periodo storico, il cinquecento, l’esempio di Venezia che sposta nell’entroterra i propri investimenti, costituisce la premessa agli insediamenti delle ville nella campagna. Così come la nobiltà veneziana aveva idealmente trasportato il palazzo del Canal Grande nell’entroterra veneto, con il sistema delle ville del Palladio, la nobiltà bresciana si decentra tra i borghi del paesaggio agrario della Franciacorta. Le matrici dei palazzi che costruiscono la “Magnifica Città”, migrano e si trasferiscono in campagna. La villa è il centro direzionale della grande manifattura agricola, ma è anche il luogo dove si contempla direttamente il

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29risultato di un intenso lavoro: spesso l’impianto delle ville è posto in luoghi sopraelevati, (come nei casi di Calino, Bornato, Cazzago, Erbusco), dove questi grandi volumi basamentati formano in un vasto raggio paesistico, una sorta di aereo sistema insediativo. Le nuove architetture delle ville si sovrappongono nel paesaggio all’immagine dei castelli, la loro architettura aperta sostituisce il volume pieno e chiuso delle rocche difensive; alla matericità delle grandi muraglie grigiastre in ciottoli e pietre si contrappone la nuova luminosità dell’intonaco; in luogo del piccolo podere vicino al villaggio o al monastero, in luogo delle selve e delle paludi che costruivano la scenografia naturale circostante il castello, si stratifica un nuovo paesaggio agrario organizzato dalla villa. La costruzione delle ville nella campagna della Franciacorta aprirà una stagione architettonica che dall’inizio del Cinquecento giungerà alla fine del Settecento. Questo lungo periodo si configurerà in un fitto sistema di insediamenti, caratterizzato da molteplici fasi architettoniche proprio perché sono diverse le matrici che di volta in volta concorrono alle nuove forme progettuali. Così mentre le nuove dimore del Quattrocento con portici, logge e colombaie sembrano germinare dalle matrici dei monasteri, il panorama edilizio del Cinquecento apparirà fortemente legato all’immagine del castello, nella sua essenza volumetrica, nei grandi pieni delle facciate, nelle torri laterali, nei contrafforti e nei ponti d’ingresso, nei basamenti, nei fossati. Esempio significativo l’insieme architettonico di palazzo Porcellaga a Rovato. Le numerose architetture presenti nel paesaggio della Franciacorta in questo primo periodo mostrano il loro ancoraggio alla matrice del castello e costituiscono di fatto anche la testimonianza di un contesto architettonico

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30in grado di dialogare con le proprie preesistenze. Successivamente, nel Cinquecento avanzato e nel Seicento, l’influenza della villa palladiana, nella sua composizione più classica, contaminerà anche il repertorio architettonico della Franciacorta. L’espressione colta del palazzo sente il bisogno di uno spazio immediato che rifletta nell’ambiente naturale le raffinate composizioni delle facciate. Il giardino costituisce quindi una ribalta necessaria alla espressività della nuova dimora, diventando al contempo architettura. Qui le matrici si diversificano: in alcune ville è evidente la contaminazione palladiana del corpo centrale con le barchesse, come in villa Lechi a Erbusco e in villa Calini a Cologne; in altre è più visibile l’impalcato gradonato e ascensionale del rinascimento toscano e romano, come in villa Togni e palazzo Richiedei a Gussago, e in palazzo Bettoni a Cazzago. La tipologia della villa spesso si apre sulla grande proprietà, disegnando prospettive che costruiscono un nuovo paesaggio, come i viali che si diramano da villa Lechi a Erbusco, la scalinata di villa Rossa a Bornato o le belle linee prospettiche che salendo la collina collegano Palazzo Fassati alla Tesea nell’area di Passirano. I nuovi caratteri insediativi sperimentati nelle ville venete; con il loro insediarsi lungo le vie d’acqua, integrandosi con un progetto idraulico dal quale trarre utilità e decoro (come nelle ville palladiane l’acqua scorreva nelle cucine, nelle lavanderie, nelle scuderie, nei laghetti-peschiera, nelle fontane, nei giardini e nei broli): tutto questo rappresentò per la villa di fine Cinquecento inizio Seicento un nuovo modello insediativo. E’ interessante notare come una descrizione di Agostino Gallo del 1569, parlando della propria residenza di Poncarale nel bresciano, illustra tutte le scenografiche

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31spazialità che compongono la nuova residenza all’interno di un trattato che, sembra preso a prestito dai progettisti del tempo. «Avendo il giorno seguente pranzato messer Giovanni Battista Avogadro con messer Cornelio Ducco sotto la loggia accanto alla porta del giardino, e volendo ragionare ancor dei piaceri della villa, partiti i servi, gli parve d’incominciare. Ora che così soli abbiamo finito di mangiare, mi sarà caro che voi messer Cornelio mi diciate ciò che vi è parso di quanto avete veduto dopo i ragionamenti di ieri; perché poi intendo di parlarvi di cose, che di tempo in tempo faccio in questa villa. CORNELIO: non posso se non lodare la musica, la modestia, e i ragionamenti che ieri ho sentito dai vostri compagni; e non meno le belle stanze, i giardini e peschiere che mi faceste vedere nella terra. Lodo poi la strada del mulino, che stamane abbiamo goduto con la bellezza che ella porge per essere dritta, lunga, e da ogni lato vaga d’ombra, accampata da quel soave mormorio che fa l’acqua della Mora continuamente nel fare correre velocemente sei ruote, che servono al mulino, alla rasica e alla macinatoria. Lodo alla stessa maniera tutto questo territorio, per esser dotato di tante buone cose. Onde è degno meritevolmente, che egli sia chiamato; il bel borgo di Poncarale. GIO. BATTISTA: avendovi da dire più cose, è bene che da qui ci alziamo, e che andiamo sotto a quell’alta quercia, dove godremo la grotticella di bei lanzi, e colonnata da gelsomini. CORNELIO: io vi seguirò fino in cima al monte Baldo (se così bisognasse) per udire le vostre parole, che molto mi allettano. GIO. BATTISTA: che dite voi, così andando, in questo

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32pergolato, vi pare che egli sia posto, e fabbricato con ragione? CORNELIO: vi giuro, e senza alcuna adulazione, che io non so d’ove ve ne sia uno di lunghezza simile, di larghezza, di altezza e di bellezza. GIO. BATTISTA: nello stesso modo che cosa vi pare di questo orticello, che l’accompagna tutto a mezzogiorno con questa bella prospettiva? CORNELIO: chi non dovrebbe ammirare benissimo l’artificio che avrete usato nell’aggiustare le tante belle casse di cedri, di limoni, e di aranci; e non meno i bei vasi pieni di mortella, di maggiorana, di basilico, di garofani, di viole e di altre erbe gentilissime e odorifere, che non una cosa alcuna ne impedisce l’altra, ma neanche i viali ben slegati? GIO. BATTISTA: possa che ragionando così siano pervenuti a capo; senza che entriamo nella sala di questa colombaia, fermiamoci un poco in mezzo a questa porticella, poiché l’occhio nostro trapassa questo pergolato, la loggia, il cortile, e vede quanti passano di rimpetto alla porta per il via. CORNELIO: certamente che questa è una prospettiva ammirevole. GIO. BATTISTA: poi che l’abbiamo gustato, e considerato quanto è bella, e lunga questa vista, voltiamoci in su andando dietro a questa peschiera così ragionando passo per passo, e considerando di mano in mano la bellezza di questi alberi fruttiferi piantati a misura, e la meravigliosa vaghezza di questi posto pieno di tante diversità di fiori bellissimi; ammirando grazie a Dio la moltitudine di pesci che si riposano in così bell’ordine sotto l’ombra di quella vigorosa siepe. CORNELIO: pare che questi pesci si siano così disposti per guardarci, come se aspettassero qualche cosa da noi.

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33GIO. BATTISTA: voi appunto non vi ingannate di questo che dite. Che se fosse qui il nostro delfino vedreste stupendi atti che egli farebbe, e non per altro, che per avere del pane. CORNELIO: dunque voi avete in questa peschiera un delfino? Quasi non lo posso credere. GIO. BATTISTA: la verità è che qui abbiamo una carpa grossa e forte di 50 libbre: il quale la chiamiamo delfino, e egli intende così, e viene; perciocché, siccome per natura ogni delfino si compiace di stare appresso agli uomini, così questo pesce matto gode di stare ove ode, o vede gente; e generalmente fa questo, quando verso sera corre qua e là, prendendo il fresco per modo di gioco: perché mentre dura l’eccessivo caldo non compare, ma dimora laggiù (come credo) in certe caverne, quasi in capo alla peschiera… ». (AGOSTINO, GALLO, Le venti giornate d’agricoltura et dé piaceri della villa, Brescia, 1569) XI. La grande epopea delle ville tra Seicento e Settecento. “Le Dimore Bresciane” di Fausto Lechi, dedicate al seicento e settecento, testimoniano bene, come questi due secoli diano continuità a quella grande epopea di ville rinascimentali che avevano investito e caratterizzato tutto il cinquecento. E’ uno straordinario e ricchissimo sistema architettonico che invade, travolge e trasforma tutti i borghi della Franciacorta. Si costruisce nel territorio un fittissimo palinsesto architettonico e stilistico, difficilmente rilevabile per quantità e qualità in altri contesti territoriali. E’ evidente che una così ricca stratificazione architettonica e stilistica che dura per più di tre secoli, dia luogo, secondo diverse realtà microurbanistiche, a una

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34serie di particolari sfumature e riflessioni, tutte convergenti, nel mostrare come questo sistema architettonico sia in grado di creare un grande valore aggiunto al corpo storico e architettonico preesistente. Abbiamo visto come “la villa” nel cinquecento in Franciacorta sia fortemente condizionata dalla matrice del “castello” e solo nel seicento il tema della villa viene affrontato e risolto secondo intenzioni più auliche, generando configurazioni progettuali che sono in continuità con il sistema delle ville Palladiane; ne costruiscono testimonianze significative: Palazzo Lechi già Martinengo a Erbusco, Villa Duranti a Coccaglio, Palazzo Soncini già Fenaroli a Provezze, Villa Togni già Averoldi a Gussago. Per l’insediamento della villa, come riporta con chiarezza Ruggero Boschi nel suo capitolo “L’architettura della villa nel Veneto del Cinquecento” (Agostino Gallo, in Cultura del Cinquecento): «Si sceglieranno posti rilevati e non a fondo valle, non vicino ad acque stagnanti o zone umide, sia per motivi di salute sia per la conservazione dei grani; bisognerà evitare le zone d’ombra e le zone troppo soleggiate e soprattutto tenere a mente le considerazioni già svolte per le città perché, afferma Palladio con una similitudine sorprendente e significativa «la città non sia altro che una certa casa grande, e per lo contrario la casa una città piccola» sottolineando così la caratteristica complessa della sua concezione della villa come codificazione di un atteggiamento già spontaneamente sperimentato e realizzato. Un atteggiamento che, secondo il Palladio, altro non è che il ritorno agli schemi antichi e la riproposizione della casa agreste vitruviana che lo stesso riporta come descrizione e come grafico alla fine del suo secondo libro.

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35La villa del Cinquecento diviene quindi il centro dominante di tutto l’ambiente che da naturale si va trasformando in costruito sottoposto ad una profonda azione «civilizzatrice»; gli elementi della natura, topografia, vegetazione, acqua, terreno, tutto viene modificato secondo principi architettonici in senso lato con lo scopo, nel suo complesso, di proporre una impressionante e clamorosa autorappresentazione dell’uomo esaltante con grandi virtuosismi la sua padronanza sulla natura. Così come nella minuziosa opera di dominio relativa al giardino (architettonico), al brolo, alla casa, ma alla stessa campagna si manifesta la concezione antropocentrica rispetto all’universo: l’attrezzatura dell’ambiente diventa la rivendicazione di un totale rinnovo celebrativo destinato alla pubblica e privata rappresentazione del privilegio». Questo schema della villa Palladiana, nella sua struttura tipologica di villa – barchessa – cascina, viene ripreso in Fanciacorta nel seicento in maniera differenziata. Tutte queste ville, stanziate in zone collinari, hanno al loro intorno, o nelle immediate vicinanze, delle cascine, spesso già esistenti nel borgo. Questo sistema più articolato e decentrato richiede meno imponenza alla villa. Nelle zone pianeggianti la definizione dei patti agrari richiede invece un accentramento di funzioni nella villa che assume così le dimensioni imponenti, quasi un borgo; è il caso della Baitella tra Ospitaletto e Castegnato. Un’altra significativa trasformazione microurbanistica che il sistema delle ville è in grado di operare in un borgo al piano è lungo la strada che dalla piazza castello scende verso la nuova parrocchiale a Paderno, generando una duplice capacità di disegnare nuove assialità prospettiche, in grado di rinnovare un paesaggio e di ribadire una continuità con tutto il copro storico, architettonico e

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36urbanistico preesistente. Tutte queste architetture riprendono un parallelismo con l’impianto storico delle contrade e del castello a nord, ma anche con la nuova parrocchiale a sud; ribadiscono la giacitura est-ovest dell’edificio, ripropongono i nuovi ordini architettonici dei portici con sovrastanti gallerie chiuse al piano superiore, rigorosamente orientate verso la massima esposizione solare. La sequenza di questi palazzi genera una “via nuovissima”, la contrada Gabbiano, che sottolinea la grande epopea delle ville nel territorio. I portali monumentali d’ingresso incorniciano le nuove spazialità dei cortili, dei giardini, dei grandi broli, incastonandosi sapientemente tra il paesaggio urbano e quello agrario preesistente. L’impianto rigoroso delle contrade con i propri lotti gotici, contraddistinti dai muri che delimitano i campi chiusi dei piccoli broli, crea una cucitura ideale con i grandi broli delle nuove ville; anche se in scala diversa trovano un’analogia con le mura delle città storiche nell’essere recinto di un paesaggio costruito, pietrificato, nel segnare un margine con il paesaggio agrario. Abbiamo già sottolineato come il periodo delle Ville dal cinquecento in poi segni il passaggio dall’uso della pietra a vista all’intonaco, di come la schema tipologico preso a prestito dai monasteri del portico al piano terra e di loggette aperte al piano superiore si trasformi riproponendo al primo livello una galleria chiusa, una “camminata” coperta e protetta che conduce alle camere. Un ulteriore rilievo, riscontrabile nel seicento e nel settecento, è la diffusione dell’uso della pietra di Rezzato, di Botticino, ben più resistente alle intemperie rispetto al calcare di Sarnico. Segno evidente di un’ulteriore contaminazione veneta, dove con la chiarezza della pietra

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38bianca si dava maggior risalto alla profondità delle ombre dei portici e delle logge. Esiste comunque una linea di demarcazione preferenziale dove i borghi che gravitano nelle vicinanze del Sebino lungo i corsi d’acqua dell’Oglio o delle seriole, come Palazzolo e Rovato, continueranno a usare la pietra di Sarnico. XII. L’impianto della Controriforma: San Carlo Borromeo e le nuove Parrocchiali. La genialità di San Carlo Borromeo è proprio quella di rispondere alla nuova scenografia urbana delle ville e dei giardini, contrapponendosi con nuovi edifici religiosi all’interno di ogni borgo. Le nuove spazialità dei sagrati che restituiscono sacralità al nuovo Tempio. In analogia con i nuovi muri intonacati delle ville, che avevano sostituito le muraglie dei castelli, le stesse muraglie pietrose e sabbiose delle Pievi vengono rinnovate dal luminosissimo intonaco in marmorino dei nuovi templi. Le grandi moli bianche dei nuovi templi, innervate dalle grandi paraste verticali, si sostituiscono all’immagine antica delle Pievi, delle cappelle di campagna, delle chiese all’interno dei castelli. Le nuove parrocchiali costruiscono nel territorio una nuova scenografica bastionatura architettonica, visibile dal teatro “natura agri” delle morene, dove le torri campanarie di Cazzago, Calino, Santo Stefano, Bornato, Erbusco, Rovato, Passirano, Camignone e Paderno si esibiscono in un concerto globale, diretto dalla focalità della Madonna del Corno dall’alto di Provaglio. Questo sistema architettonico, di un Sacro Monte tutto orizzontale in Franciacorta, così caro all’ideazione di San

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39Carlo Borromeo, ricollega queste architetture al sistema delle parrocchiali lombarde. Si determina un dialogo immediato tra i nuovi prospetti dei palazzi e le nuove facciate barocche delle parrocchiali; tra i giardini delle ville e le nuove spazialità dei sagrati. Questa visione, che conferisce alle pietre il dono della parola e alle architetture la capacità del dialogo a distanza, genera singolari testimonianze. A Erbusco la nuova parrocchiale si incastona tra il castello e le nuove ville, riprendendo un parallelismo con l’antica Pieve, generando una nuova piazza-sagrato ad una quota rialzata nei confronti della viabilità, dove il recinto verde, come un campo traslato dal paesaggio agrario, assume nel suo isolamento un valore metafisico. A Cazzago, come ad Erbusco, la nuova parrocchiale è incastonata nel castello, tra le nuove ville; ma qui l’antica chiesa della “Madonna del Castelletto” all’interno del recinto difensivo, circondata da un fossato e accessibile solo tramite un ponte elevatoio, viene, alla fine del cinquecento, completamente riprogettata, ribaltando il proprio impianto, invertendo il luogo dell’abside con la nuova facciata, il fossato con la nuova spazialità della piazza-sagrato, per mostrarsi al borgo con una rinnovata immagine architettonica, di nuovo tempio e autonoma parrocchiale. A Paderno l’architettura di Antonio Marchetti, con la parrocchiale nel 1748 e la successiva sistemazione microurbanistica del sagrato, rialzato nei confronti della contrada, conferisce al borgo padernese l’aggiunta di un’ulteriore pregevole fatto urbano, generando un nuovo “unicum architettonico” rappresentato dal percorso che unisce la sequenza delle nuove ville alla piazza-sagrato in virtù della quale la grande mole bianca della facciata si apre alla luce.

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40XIII. La Palazzina di villeggiatura tra Settecento e Ottocento. Il quadro del Basiletti, con la sua attenzione paesaggistica da Villa Ducco verso la campagna di Rodengo esprime bene come la villeggiatura corrisponda all’antica vita agreste, della bellezza del sito, dei suoi caratteri climatici: in realtà, almeno per tutto il cinquecento, gli aspetti produttivi rivestono un ruolo primario dove l’unità significativa tra posto di abitazione e posto di produzione e l’unicità tra proprietario, datore di lavoro, ospite, determinano un altrettanto significativo rapporto tra agricoltura, architettura, arte e natura. Sarà verso la fine del settecento che alcune utopie di quel secolo si cristallizzano nell’edificio come la Cà Palazzina, isolata a sud nella campagna di Paderno, progettata dall’abate Giovanni Confortini da Virle. Un unico edificio dove si vivevano una serie di integrazioni funzionali con la compresenza di una residenza borghese, temporanea, stagionale, affiancata alla struttura della cascina. Il modello aulico della villa dei secoli precedenti diventa un’influenza sfumata, una contaminazione garbata; sono ancora compresi in questi progetti il colto linguaggio dialettale delle case fatte con i ciottoli e gli stilemi classici delle nuove dimore, ormai ampiamente diffuse sul territorio. Il tema dei portici e delle gallerie costituisce un grande artifizio per dotare i vecchi edifici di una nuova veste, capace di mostrare a tutti la grande armonia raggiunta: in queste case non c’è uno stile predominante del seicento o del settecento, c’è la grande capacità di dialogare con i periodi storici precedenti e con le culture di contatto con questa area: quella camuna, quella lombarda, quella veneta. Ne germina un’architettura autonoma, un qualche cosa di simile al viso di una persona che reinterpreta nelle proprie caratteristiche somatiche tutte le etnie precedenti.

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42Questa specificità architettonica, che si era palificata sulla propria storia intorno alla fine del XVIII secolo, costituisce un primo uso sapiente delle ricche culture precedenti, stratificate nel territorio e traccia una continuità ideale tra storia e architettura. «Negli ultimi anni del Settecento, l’abate Giovanni Confortini da Virle, architetto o “marangon de muro”, come usava dire da queste parti, acquistò dei campi attorno ad un antico cascinale ormai fatiscente, che opportunamente ingrandito e rinnovato avrebbe costituito il nucleo di un’invidiabile proprietà…Non pensava ad una casa dove trascorrere tutto l’anno, come poi toccò a Giovanna, alle figlie e alle nipoti di lei, ma ad un complesso agricolo del quale riserbarsi una parte per i mesi della buona stagione, e godervi i piaceri degli studi, della lettura, della caccia, della conversazione con gli amici delle case vicine, sovrintendere al lavoro dei contadini e, al momento del ritorno in città, riscuotere la propria rendita. Era quel che si intendeva allora per villeggiatura….Considerò necessario che la sua abitazione mostrasse verso il cortile, verso il luogo del lavoro contadino, la propria cultura umanistica, sia pure senza prevaricazioni architettoniche. Nella parte di casa che si era riserbata, le tre campate successive ai loggiati contadini cedono ad un aspetto diverso, chiudendosi ai piani superiori e trasformandosi nel portico sottostante in tre arcate a sesto ribassato, sostenute da due lesene e due colonne dorico-toscane. Ma è come se, proseguendo la scansione degli alti pilastri della struttura agricola primaria, a questa fosse stata sovrapposta una facciata dal fragile valore scenografico, una veste in più, appunto delle eterne necessità umane. In una ideale continuità delle cadenze rustiche, tra il vuoto dei loggiati e l’aperta campagna, l’esile sovrastruttura si

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43isola con il risalto discreto, conveniente al ruolo che Confortini attribuiva a se stesso, di illuminata mediazione tra vita agricola e natura….». (ENRICO JOB, La Palazzina di villeggiatura, Palermo, Sellerio Editore) Come una miniatura di una villa veneta, ideata due secoli dopo, alla fine del settecento, questa “palazzina di villeggiatura” diventerà un vero e proprio sistema architettonico in Franciacorta nel segnare un rinnovo urbano delle contrade e del corpo storico del borgo. XIV. La cascina e la prima manifattura. Il paesaggio agrario che noi vediamo è paesaggio umanizzato, trasformato dal lavoro umano, utilizzato come risorsa per la produzione alimentare. La cascina assume in sé la complessità del vivere dell’uomo in relazione con il paesaggio agrario, essendo la cascina la sua casa, ma anche il luogo del lavoro. Al variare delle attività che si svolgono sul campo nell’arco dell’anno, cambia l’utilizzo degli spazi all’interno della cascina, coinvolgendo anche i luoghi destinati all’abitazione. L’uso frammisto degli spazi è una necessità essenziale per il compimento del lavoro. Si potrebbe pensare alla cascina come una “fabbrica” dove tutti i componenti familiari prendono parte al ciclo produttivo con ruoli e funzioni diversificate: una piccola parte del prodotto viene consumata all’interno e la parte rimanente è destinata al mercato. La struttura della famiglia “patriarcale”, legando le varie generazioni fra di loro, garantiva una continuità sia al ricambio della manodopera, sia al mantenimento dell’unità della proprietà; era la condizione che meglio trasmetteva l’esperienza culturale e materiale. La cascina era un luogo importante per l’acculturazione

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44della popolazione. La trasmissione degli aspetti culturali, di quei fatti essenzialmente legati a delle pratiche di vita e di lavoro, costituisce il portato di “cultura materiale” che permette la continuità e il consolidamento della società contadina. Negli aspetti del vivere e del lavoro quotidiano si ritrovano concretizzati quei momenti culturali per cui, cercando di capire le relazioni che si instaurano tra i diversi manufatti, oggetti, strumenti di lavoro, possiamo ritrovare lo spessore culturale che caratterizzava la continuità civile di questa società. La cascina, oltre che luogo della produzione e delle relazioni familiari, con le implicazioni che già queste funzioni hanno fra di loro, è anche luogo delle relazioni sociali più in generale. Basti pensare alla frammistione funzionale dell’uso del portico, da luogo di lavoro, a deposito, a luogo della vita associata, delle feste, delle sagre, del banchetto nuziale. Nella costruzione di un borgo agricolo, la corte rappresentava la corrispondenza della piazza nella costruzione della città, come spazio per lo svolgimento di attività collettive. Durante le processioni mariane l’immagine sacra sostava per un certo tempo sotto il portico, situato lungo un itinerario e, alla sera, essa radunava a sé la comunità di tutti i fedeli. La pratica religiosa diventava un momento di rafforzamento dei legami sociali, instaurando una unità tra i diversi componenti della comunità; il portico si trasformava, per pochi momenti, nell’aula unica di una chiesa all’aperto. E’ significativo come nel Catastico Bresciano il “fuoco” venga assunto quale simbolo dell’unità familiare; in esso il numero delle famiglie del borgo viene censito in base al numero dei fuochi. La sua presenza all’interno della cascina caratterizzava

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45l’ambiente della cucina divenendo il mezzo per la cottura dei cibi, tanto che il fatto culturale che contraddistingue le varie civiltà è la modalità di cottura del prodotto alimentare. Il fuoco si trovava però anche nelle camere che, nel periodo dell’allevamento del baco da seta, prima fonte di guadagno, diventavano gli ambienti in cui trovare la giusta temperatura per la sua crescita. Altri manufatti, quali il “pozzo“ e il “forno” costituirono quegli elementi che permisero una relativa autonomia alla sussistenza della famiglia, entrando a far parte, assieme alla coltivazione dell’orto, di quell’economia domestica che utilizza le risorse nel modo di minor dispendio. L’“orto” , e più ancora il brolo, rappresenta il luogo dove si sperimentano nuove colture arboree e foraggere, che successivamente potranno essere messe a coltivazione nel campo aperto; divenendo il prototipo dell’orto botanico del XVII secolo. L’orto era quindi il luogo privilegiato della coltivazione delle essenze arboree da frutta di maggior ricchezza, compresa la vigna. Maritando la vite con il gelso si faceva assumere alla zona lombarda un suo aspetto caratteristico, di uso promiscuo del suolo. Anche il paesaggio agrario, quindi, si caratterizzava per la presenza dei filari di gelso, posti ai margini del campo. I sassi provenienti dal dissodamento dei campi costituivano, dopo essere stati selezionati nella loro misura, l’elemento principale per la costruzione sia dei muri di chiusura dei broli, sia dei muri a secco dei terrazzamenti in collina che della casa e delle pavimentazioni in ciottoli. Il mattone, la Pietra di Sarnico e il medolo locale squadrato venivano invece impiegati nelle parti dell’edificio dove era richiesta una certa precisione, quindi nei pilastri, negli angoli degli edifici, nella finitura delle finestre e nei davanzali. Sono gli elementi particolari a definire l’espressione

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46dell’edificio. I “vòlti”, che si ritrovano in maniera sistematica al piano terra nelle cascine della fascia pedemontana, per l’utilizzo del mattone e per la sua durata nel tempo, rappresentano un investimento per le generazioni future, una volontà di trasmettere il patrimonio materiale e culturale. Le cascine, che si organizzano in successione lungo le contrade, utilizzano il vòlto come sistema di controventatura dando così garanzia di resistenza contro eventuali scosse sismiche. Il suo uso caratterizza la cascina e la stalla, , luoghi della produzione per eccellenza. E’ con i capitali provenienti dal lavoro agricolo che si costruiscono in Lombardia, a partire dalla seconda metà dell’800, le basi per una prima industrializzazione. Le attività che si svolgono all’interno della cascina costituiscono il primo laboratorio dove si sperimentano i modi di produzione industriale, permettendo l’accumulazione dei capitali. Si pensi all’importanza che ha rivestito l’allevamento del baco da seta, nella fascia pedecollinare lombarda, per l’avvio e la diffusione dell’industria tessile. L’allevamento del baco comportava una organizzazione funzionale degli spazi, sia interna alla cascina, sia rispetto alle colture praticate. Nei mesi primaverili le camere, per la loro temperatura costante, diventavano il luogo adatto ad ospitare il baco, trasformando i solai in camere da letto. In estate, quando il baco veniva tolto dalle camere, che riacquistavano la loro funzione, l’allevamento proseguiva sulla loggia, che veniva chiusa con un frangisole, subendo a sua volta una trasformazione. Mentre la prima fase di lavorazione del bozzolo, la “trattura”, veniva svolta nella cascina, le fasi successive, costituite da lavorazioni di trasformazione del bozzolo

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47quali “torcitura” e “filatura”, avvenivano all’interno delle “filande”, prime vere fabbriche. Come per l’allevamento, il lavoro nelle filande era svolto dalle stesse donne che, dopo la raccolta dei bozzoli, si spostavano nelle fabbriche. Tale integrazione sottolinea come i fatti di prima industrializzazione fossero strettamente legati al tradizionale lavoro svolto nelle campagne. Da questa società operosa provengono la manodopera e la materia prima che hanno consentito la prima struttura industriale. Come l’acqua ha determinato i primi insediamenti di mulini e magli, l’attestarsi dei monasteri, la rivoluzione del paesaggio agrario operata dalla villa, così è la rete idrica a localizzare questi primi insediamenti industriali. Questi stessi insediamenti, forse proprio perché così vicini a noi nel tempo, vengono oggi ingiustamente trascurati, ma essi costituiscono un vero e proprio sistema architettonico, basti pensare al ruolo monumentale del filatoio di Rovato, sulla diramazione della Fusia; oppure allo straordinario sistema industriale generatosi nella città di Palazzolo. Così, come nel periodo medioevale, il torrente Gandovere, aveva generato nella valle di Ome un sistema di torri, mulini e magli; nell’ottocento lungo l’Oglio e le seriole si attestano una serie di edifici che costruiscono l’impalcato dell’archeologia industriale. L’attestarsi di questi edifici protoindustriali ed industriali trasforma i borghi in città, che diventano i nodi principali del sistema produttivo, accrescendo quelle integrazioni culturali già caratterizzate in precedenza dai mercati. Il crocicchio delle integrazioni funzionali che rappresenta la città è tradotto in architettura da edifici che si attestano in punti strategici, sormontando, come dei ponti, le vie principali, con broletti e strade porticate, come rileviamo sistematicamente a Pisogne, a Iseo, a Rovato, a Palazzolo.

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48XV. L’architettura neoclassica vantiniana. Il Basiletti pone il suo cavalletto nel bel mezzo dell’anfiteatro morenico orientandolo verso il fondale scenografico del Sebino; lungo la strada pedemontana che da villa Ducco guarda la campagna di Rodengo verso la città; nella valle dell’Oglio guardando verso Sarnico e Paratico, verso la parte conclusiva del Sebino. In questi quadri non traspare la sola attenzione paesaggistica, piuttosto la capacità di osservare un territorio come rilettura dei caratteri originari. Vi troviamo riassunti i fatti significativi della geografia dei luoghi, l’anfiteatro morenico, la conca del Sebino, il fiume Oglio, la strada pedemontana verso Brescia, verso Bergamo, verso i monti innevati della valle. Il paesaggio come giacimento di una ricca stratificazione architettonica, dai castelli alle ville alle nuove parrocchiali ai piccoli borghi che si alternano come punti equilibrati in un nuovo paesaggio agrario. C’è quindi nel Basiletti la capacità di rilevare il paesaggio come palinsesto, dalla lettura di un territorio che si è continuamente rivoluzionato e autogenerato, la consapevolezza che questo sarà in grado di ospitare future architetture. E’ la premessa per le architetture della meteora vantiniana. Con l’edificio della piazza del mercato a Rovato, Rodolfo Vantini (1792-1856) mostra la capacità di aggiungere al corpo storico della città, nuove architetture in grado di scolpire il proprio tempo. La piazza ai margini del castello, nel luogo dell’antico rivellino propone una spazialità che diventa il nuovo centro cittadino. Le ville che si sono costruite nel paesaggio con i portici al piano terra, le gallerie al piano superiore, il coronamento dell’edificio con cornicioni, la stessa villa palladiana con i suoi timpani centrali e le sue barchesse, determinano una delle matrici di questo progetto.

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50Il Vantini curva questo edificio in un grande emiciclo, curva portico, facciate e cornicione dando vita ad una scenografia teatrale, sottolineata dal piano inclinato della piazza come un basamento naturale dell’edificio, analoga allo scavo dei mercati di Traiano a Roma, seconda matrice che partecipa al progetto. La centralità dell’edificio è caratterizzata da una grande porta che ha il ruolo di ricostruire, enfatizzando, il momento d’ingresso alla città storica. Questa nuova porta neoclassica incornicia lo scorcio prospettico della strada che sale verso il centro storico, è un’analogia che si ricollega immediatamente alla scena centrale del Teatro Olimpico del Palladio, ulteriore matrice che concorre nel progetto vantiniano. Tutta questa architettura si configura come una grande opera scultorea che conferisce a Rovato la centralità di una città mercantile che, con il suo nodo ferroviario, consoliderà il ruolo di città della Franciacorta. Mentre la piazza di Rovato, per la sua plasticità, per l’uso del marmo di Botticino nelle pile del portico, per la luminosità del suo intonaco è ancora riconducibile a una matrice veneta, nella piazza di Iseo, nell’edificio della Pretura e del Municipio, l’uso predominante della pietra di Sarnico che intelaia con il suo bugnato tutto l’edificio, conferisce una schietta appartenenza al contesto del Sebino e della Valle. In questo edificio la Pretura e il Municipio posti strategicamente al piano superiore, lasciano libero il piano terra: un basamento vuoto in doppio ordine rispetto ai portici preesistenti della piazza, in modo che il piano inclinato della piazza, come l’alveo di un fiume, finisca naturalmente nella centralità di questo edificio, e possa continuare sfociando a lago. La matrice di questo progetto sono i broletti delle città storiche. Queste architetture vantiniane ci mostrano la capacità di un architetto di estraniarsi anche dalla questione dello

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51“stile”, in questo caso neoclassico, e di mostrare la capacità di dialogare con le preesistenze architettoniche. Opera dell’architetto Salimbeni, l’Accademia Tadini di Lovere, traccia una continuità ideale con gli edifici vantiniani di Rovato e Iseo, costruendo la traccia principale di un itinerario che attraversa il sistema architettonico Neoclassico nel territorio. Il portico lineare, la “stoà”, nell’Accademia Tadini, diventa broletto a Iseo, si curva e si flette a Rovato. Dopo il decreto Napoleonico emanato il 12 giugno 1804, una operazione di polizia urbana, vede le città di Verona e di Brescia tra le prime ad approntarsi alla costruzione di cimiteri extra moenia. Il “cimitero” come luogo di esilio dei morti, un nuovo luogo di meditazione e rimembranze, non solamente di lutti individuali, ma corale testimonianza di una comunità verso i propri figli illustri. Dal patrimonio monumentale dell’antichità classica, all’ombra dei cipressi, con la pietra di Botticino come polvere di sabbia lunare, la meteora vantiniana costruisce la nuova “città del silenzio”. Un viale piantumato a cipressi conduce ad una piazza verde, semicircolare, che abbraccia tutto il prospetto delle mura della città di pietra bianca; il luogo dei “nuovi sepolcri”. Una muraglia longitudinale costruita da un grande portico posto su un basamento, una reinterpretazioni della Stoà Ateniese ritmata dal Vantini con edifici a pianta centrale, che si susseguono in sequenza prospettica; la chiesa centrale, le porte laterali, le cappelle terminali. Il Faro, collocato al centro del recinto interno, diviene l’elemento culminante della grande composizione neoclassica. E’ un momento commemorativo dedicato a tutti i defunti, composto da una colonna dorica di sessanta metri di

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52altezza, coronata da una lanterna, “riproposta fantastica del faro Alessandrino”, circondata alla base da un portico circolare. C’è un rapporto immediato con il portico che costruisce l’abside della chiesa cimiteriale, un dialogo a distanza tra questa “colonna metafisica” e la città, teso a diventare punto di riferimento visivo. Il Vantiniano, è quindi la rivisitazione neoclassica dell’antico Camposanto Pisano, inteso come luogo dove convivono le sepolture, i monumenti dei cittadini illustri e le memorie cittadine. Questa città del silenzio diventa quindi con le sue gallerie scultoree, con le sue architetture, un monumento, un museo. La costruzione di questa “città del silenzio” impegnerà il Vantini tutta la vita; l’architettura cimiteriale vantiniana trovò comunque significativi campi di applicazione anche in provincia. A Salò, come sottolinea Lionello Costanza Fattori, il Vantini contrappone al golfo della vita il golfo del silenzio; la salma viene trasportata in barca, dalla città dei vivi alla città dei morti, segnando nel tragitto sulle acque del lago il passaggio ideale tra la vita e la morte. Come il basamento di una limonaia, ne scaturisce una necropoli a gradoni, paralleli alla riva del lago, per una lunghezza di cento metri; i muri esterni sottolineano la sezione dell’architettura; i morti riguardano la loro città, il loro lago; i folti cipressi diaframmano e velano la candida scena riflettendosi nelle acque del lago sottostante. L’architettura monumentale del cimitero bresciano si è dissolta per far spazio ad una predominante geografia dei luoghi, per il trionfo del miglior Romanticismo. Il Cimitero di Rezzato, come quello di Salò, è adagiato su un piano inclinato, il fondale scenografico è chiuso da una figura semicircolare che tiene al centro la cappella

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53cimiteriale. La figura semicircolare spesso sperimentata dal Vantini, trova una esaltante applicazione nel cimitero di Pisogne, dove una serie di gradoni incastonati nella collina costruiscono una scena teatrale nei confronti del Sebino, le scale laterali e la sequenza prospettica di cappelle a pianta centrale, costruiscono, con tutto l’insieme, una grande unitaria scenografia architettonica. Lo schema del cimitero di Brescia sarà invece adottato dal Vantini, in scala ridotta, nei paesi di Rovato, nelle contrade di Lodetto e Duomo, nei comuni di Pralboino e di Travagliato. In quest’ultimo, come ricorda Lionello Costanza Fattori parlando del Cimitero di Travagliato, sottolinea come gli ordini rimanendo per sempre neoclassici, in qualche particolare ed in qualche rapporto, assumono un sapore vagamente orientale, anticipando di alcuni buoni decenni, i motivi dei cimiteri di fine secolo, di gusto ormai liberty. E’ il preludio alla lunga stagione dell’eclettismo. XVI. Dal neogotico alla lunga stagione dell’eclettismo. Nella seconda metà dell’Ottocento avrà inizio il lungo periodo dell’eclettismo, ove il tema a seconda del luogo, o della committenza, diventa il pretesto per confrontarsi invece con i diversi periodi architettonici, più per sfoderare le proprie capacità compositive che un reale confronto con le preesistenze, si alternano quindi in una successione storica le stagioni: neogotiche, neoromantiche, neomedioevali, neorinascimentali, neobarocche, liberty; un percorso che coinvolge diverse generazioni di architetti: dai Tagliaferri, al Tombola, al Dabbeni, all’opera del Sommaruga a Sarnico. In tutte queste figure che si alternano, compare con la rivisitazione stilistica dei periodi storici una serie di nuove

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54matrici, che a seconda dei casi e in modo differenziato trovano la loro origine in Francia, Inghilterra e Austria. Il personaggio di maggior prestigio è Antonio Tagliaferri (1835-1909) che studia alla scuola di Rodolfo Vantini. E’ nel panorama bresciano di questo periodo, come ricorda Valerio Terraroli nel descrivere il Tagliaferri, “il vero e proprio nume tutelare e genius loci sia nell’elaborazione architettonica di gusto eclettico, sia nelle problematiche relative al restauro”. Frequenta a Milano l’accademia di Brera (1856-1859) dove, essendo in seguito attivo contemporaneamente a Brescia e Milano, intesse fitti rapporti con l’ambiente di Boito e Beltrami e della Scapigliatura. Una straordinaria preparazione tecnica, una ricca cultura figurativa acquisita all’Accademia e dallo studio degli stili storici, evidenziando una figura poliedrica capace di giocare su tutti i tavoli dello stile e di impersonare l’immagine dell’architetto eclettico in grado di costruire ex-novo come un antico e di ridare al passato la brillantezza, la freschezza e lo splendore del presunto stato originario. Vanno ricordate la villa per il Ministro Giuseppe Zanardelli a Maderno sul Garda e la villa per i nobili Fenaroli a Fantecolo in Franciacorta. Si tratta in ogni caso di travestimenti ritenuti necessari al luogo geografico e paesaggistico e alla venustà che l’edificio in sé deve suggerire allo spettatore, o come nel caso del castellino Tonelli a Coccaglio, anche dell’emozione romantica che l’insieme scenografico è in grado di determinare. In villa Fenaroli a Fantecolo (1890) la zona padronale affaccia verso la campagna e viene realizzata in stile quattrocentesco toscano. Si leggono chiaramente gli intenti insieme filologici e decorativi del Tagliareffi, intesi a coniugare il rispetto del modello storico di riferimento

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55con una ricchezza di dettagli negli intonaci, nelle modanature e nelle rifiniture, vicine a un gusto più variamente eclettico e moderno. L’anonimo architetto (probabilmente lo stesso Tagliaferri) che opera nella campagna di Rodengo Saiano e Paderno, genera un sistema architettonico tutto intelaiato da una veste Neogotica, con la sistemazione microurbanistica di Villa Maria, della Rocca sulla collina, della Monticella, di Casa Piotti a Rodengo, con la ricostruzione della parte orientale del castello a Paderno, in quel periodo impegnato anche nella ristrutturazione di un’antica casa in contrada San Gottardo, ideando un nuovo telaio strutturale in doppio volume, operando un coraggioso salto di scala, enfatizzando l’assunto insediativo dell’impianto preesistente, riproponendo una nuova spazialità porticata a sud, come essenza dell’architettura del borgo. Molto più giovane, ma meritevole di stare in una continuità ideale nel panorama architettonico bresciano, dopo il Vantini e il Tagliaferri, è la figura di Egidio Dabbeni (1873-1964). Nei suoi edifici, le pietre del Cidneo sembrano franate al piano, per essere ricomposte con grande maestria in nuove architetture. I suoi progetti sono costruiti con muri e pietre della nostra città, delineando la continuazione di un processo storico. Come sottolinea Paolo Ventura nella guida “Itinerari di Brescia moderna”, «architetto dell’emergente imprenditoria bresciana del novecento, dei Pisa, dei Togni, dei Beretta. Per essi progettò case padronali, case d’affitto, fabbricati industriali, nei quali seppe governare l’unitarietà del progetto architettonico nei suoi aspetti compositivi, strutturali e tecnologici». Dalla Bottega d’Artista dello studio Tagliaferri, che, diplomato a Brera, soleva dipingere ad acquarello con grande maestria in prima persona le prospettive dei suoi

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56edifici, allo studio nuovo efficiente e moderno di Egidio Dabbeni, laureato in ingegneria a Roma e del suo socio geometra (perito agrimensore) Francesco Moretti, collaboratore in uno studio professionale che nel momento del massimo sviluppo contava varie decine di disegnatori. L’eclettismo del Tagliaferri si ispira prevalentemente al Neogotico, al quattrocento toscano; ai castelli lombardi, il Dabbeni preferisce sperimentare forme neorinascimentali, per costruire libere reinterpretazioni del Classicismo Barocco, fondendo motivi compositivi Liberty e innovazioni strutturali come il calcestruzzo armato e la prefabbricazione. Se il primo eclettismo è ancora legato ad un riferimento storico nazionale come si riscontra nel repertorio architettonico del Tagliareffi nei suoi rimandi al gotico, al medioevo e al Rinascimento toscano, nell’opera del Dabbeni oltre all’intrinseco dialogo con il barocco esiste anche un riferimento culturale più ampio; un’espressione culturale più contemporanea, più europea; un riferimento per le soluzioni plastico volumetriche agli edifici viennesi, per soluzioni di superfici che avevano assemblato il linguaggio liberty. In questo linguaggio c’è un processo catartico con altri architetti lombardi importanti; Egidio Dabbeni (1873-1964) quindi a Brescia, come Luigi Angelini (1884-1969) a Bergamo, Aldo Andreani (1887-1971) a Mantova, Mario Cereghini (1903-1966) a Lecco e Gianni Mantero (1897-1985) a Como. Giuseppe Sommaruga a Sarnico, trova nella famiglia Faccanoni una committenza illuminata, che gli permetterà di costruire un sistema di ville a lago, un asilo e un mausoleo. Dal 1907 al 1912 Sarnico diventa un laboratorio per le sue architetture e la testimonianza di

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57come la sua grande capacità compositiva sia in grado di operare nei confronti delle matrici antiche, delle metamorfosi e di rigenerarsi con nuove figure; trasformando lo spazio del portico in una sala vetrata, traslando il portico in una barchessa a lato, che unisce l’ingresso pedonale dalla strada alla casa, generando una nuova stoà, con un sovrastante percorso pergolato, che conquista la vista del lago. Oppure, in un altro progetto, traslare il portico dal sedime dell’edificio e appoggiarlo alla sua facciata principale, creando al piano superiore una terrazza a lago, riprendere i volumi verticali della torre per conquistare con l’altana una visione sopraelevata sul Sebino. Strade pergolate sopraelevate, terrazze, altane e bouwindows, sono tutti artifizi messi in campo per costruire e generare un nuovo rapporto con il paesaggio. Queste case guardano sull’altra sponda il grande volume pieno del Castello di Clusane, e sembrano concludere un viaggio che ha attraversato in una rapida espressione dell’architettura dieci secoli di storia. Tutta questa ricca stratificazione ci documenta come l’avvicendarsi di queste architetture sia sempre stato in grado di scolpire il proprio tempo; operando, di volta in volta, delle trasgressioni, dei salti di scala, delle innovazioni tipologiche; ha saputo coltivare un rapporto costante e tracciare una continuità con le proprie preesistenze storiche, rimarcando una continuità tra storia e architettura.

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Nota conclusiva Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi. L’allarme, il pericolo pasoliniano, lanciato in “Scritti Corsari” Acculturazione e Acculturazione si è, purtroppo, radicalmente verificato. L’industrializzazione, con i suoi modelli consumistici, ha diffuso un’opera di omologazione in tutto il territorio, distruggendo ogni autenticità e concretezza. Il sistema, che non concepisce altre ideologie che quelle del consumo, non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende cha da uno spostamento dalla città al paese, seguendo le nuove piste viabilistiche, ci si fermi prima all’IKEA e poi all’OUTLET. La logica distorta ha voluto la costruzione di capannoni, supermercati, case, ovunque, senza applicare il minimo risparmio di territorio, che equivale a paesaggio; siamo riusciti, in un contesto caratterizzato da autentici borghi storici, a costruirne uno “falso”, in stile antico. Pare vi siano raggruppati i principali stilisti dell’abbigliamento. La campagna all’intorno della grande abbazia non meritava né questo onore né questo disdoro. «Sono copie, rifatte in un materiale volgare, gonfio, molle; collocate a caso su piedistalli, danno al malinconico Canapo l’aspetto d’un angolo di Cinecittà, dove si è ricostruita per un film l’esistenza dei Cesari. Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi»…«Il minimo restauro imprudente inflitto alle pietre, una strada asfaltata che contamina un campo dove da secoli l’erba spuntava in pace, creano l’irreparabile. La bellezza si allontana; l’autenticità pure». (MARGUERITE YOURCENAR, “Memorie di Adriano”) Ovunque andiamo, non esiste più una visione globale e appagante del paesaggio. E’ necessario sfoderare nuove progettualità e nuove idee urbanistiche, che abbiano la volontà e la forza di andare in controtendenza, che siano in grado di manifestarsi come necessarie alternative culturali, che siano, in sintesi, capaci di generare nuova cultura.

Per la costruzione di una “nuova cultura”, occorre risalire alle radici dei comportamenti presenti e ricercare dei fatti rilevanti dell’occupazione del suolo, che hanno determinato delle trasformazioni. Tutti questi sistemi architettonici; i monasteri, i castelli, i borghi, le ville, le cascine, le filande, le fornaci, assieme ai fatti di storia partecipata, oggi, spesso trascurati, dovrebbero riemergere, avere spazio, essere messi in evidenza nella loro interezza di significato, rifunzionalizzati nella nuova cultura. Bisogna, quindi, che di tutto si prenda possesso, attraverso memoria e cultura, passato e storia.

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Immagini

1. Fotogramma – leone di pietra che dorme 2. Fotogramma – leone di pietra che si sveglia 3. Fotogramma – leone di pietra in agguato 4. Le pietre si fanno case. Prospetto sud casa medioevale nel

castello di Paderno (disegno pastello - acquerello di A. Pezzola)

5. Le pietre si fanno case. Prospetto est casa medioevale nel castello di Paderno (disegno pastello - acquerello di A. Pezzola)

6. Johannes Pesato, Carta della Lombardia in cui è data ampia evidenza alla Franciacorta, 1440

7. Affreschi della chiesa di Santo Stefano a Rovato; in evidenza nel particolare il profilo dei colli morenici

8. Carta dell’utilizzazione del suolo della Franciacorta, 1981/1982, redatto in scala 1:25.000 (A. Pezzola, A. Pasqualini, V. Turra)

9. Rilievo dei sistemi architettonici in Franciacorta e progetto degli itinerari ciclabili, 1982 (A. Pezzola, A. Pasqualini, V. Turra, R. Tomirotti)

10. Vista dell’anfiteatro morenico, verso il Sebino 11. Vista dell’anfiteatro morenico, verso il Sebino 12. Faustino Joli, (1814-1876), vista dalle morene al Monte

Guglielmo 13. Luigi Basiletti, (1780-1859), vista dalle morene al Monte

Guglielmo 14. Camignone: paesaggio endemico di mediterraneità 15. Paderno: “come un’imbarcazione pietrificata per magia nel

momento in cui, superata l’ultima onda, la placida marea l’avrebbe portato a riva”

16. L’insediamento di Erbusco, contenuto dal profilo dei muri dei broli

17. L’insediamento di Cazzago, contenuto dal profilo dei muri dei broli

18. Muro di recinzione di un brolo nella parte meridionale della Franciacorta, Cazzago

19. Particolare muratura in acciottolato della fascia meridionale della Franciacorta, Cazzago

20. Sinuosità dei muri dei broli lungo la fascia pedemontana, Rodengo Saiano

21. Particolare muratura in pietrame della fascia pedemontana, Rodengo Saiano

22. Provaglio, pietre e cave locali nella costruzione del Monastero

23. Abside della pieve di Erbusco 24. Parte absidale del Monastero di San Pietro in Lamosa 25. Pieve di S. Andrea, Iseo 26. Luigi Basiletti, il castello di Brescia nella visione

ottocentesca 27. Il castello di Iseo in una visione di fine ‘800 28. Casa a torre isolata nella campagna di Provezze 29. Casa a torre alla Sergnana, Provaglio 30. Il castello di Iseo 31. Il castello di Paderno, fianco est 32. Il castello di Passirano 33. Il castello di Clusane 34. I fianchi rasati dei case nei profili est-ovest 35. Insediamento a Corneto, Rodengo Saiano 36. Cascina in contrada delle Selve, Paderno 37. Contrada a Padergnone, Rodengo Saiano 38. Case nella campagna tra Camignone e Fantecolo 39. Case in contrada Sergnana, Provaglio 40. Capanna unica e abside nell’allineamento est-ovest della

chiesa di S. Michele a Rovato 41. Capanna unica e abside con aggiunta di navata laterale nel

Monastero di San Pietro in Lamosa a Provaglio 42. Vista dell’Abbazia Olivetana da sud, Rodengo Saiano 43. Fronte principale dell’Abbazia Olivetana sull’itinerario

proveniente dalla città, Rodengo Saiano 44. Chiostro interno dell’Abbazia Olivetana, Rodengo Saiano 45. Palazzo Secco d’Aragona, Bornato

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6146. Luigi Basiletti, 1833, vista da Villa Ducco a Camignone 47. La balza morenica, basamento naturale di Palazzo Maggi a

Calino 48. Palazzo Giordani, Camignone di Passirano 49. Palazzo Maggi, Calino 50. Palazzo Porcellana, Rovato 51. Castello di Clusane, vista del ponte di ingresso 52. L’antico castello diventa basamento del nuovo, Palazzo

Orlando a Bornato 53. Facciata e terrazza sopraelevata di Palazzo Orlando a

Bornato 54. Palazzo Secco d’Aragona, Bornato 55. Palazzo Covi, Cellatica 56. Galleria del piano superiore di Palazzo Covi, Cellatica 57. Portico di Palazzo Covi, Cellatica 58. I giardini terrazzati e i giochi d’acqua nella scenografia di

Palazzo Richiedei a Gussago 59. Scalinata di Villa Rossa a Bornato 60. Villa Lechi, Erbusco 61. Villa Calini, Cologne 62. Villa Lechi, Erbusco 63. Palazzo Secco d’Aragona, Bornato 64. Palazzo Sandrinelli a Paderno; il cortile e il giardino 65. Palazzo Baitelli – Oldofredi, Paderno 66. Sistemazione microurbanistica del sagrato della

Parrocchiale di Paderno 67. Palazzo Oldofredi, Paderno 68. La Parrocchiale di Capriolo 69. La Parrocchiale di Erbusco, con la piazza sagrato 70. La Parrocchiale di Cazzago 71. La Parrocchiale di Paderno, con la piazza sagrato 72. La Palazzina – Casa Job, nella campagna di Paderno 73. Modello della palazzina di villeggiatura incastonata in una

contrada storica 74. Configurazione della matrice del palazzo nella miniatura

della palazzina di villeggiatura 75. Villa Rovetta, Sale di Gussago 76. Portico di Villa Rovetta

77. Villa Oldofredi – Ferlinghetti, Provaglio 78. Vista del cortile di Villa Oldofredi – Ferlinghetti, Provaglio 79. Cascina nella campagna di Camignone di Passirano 80. Cascina in contrada delle Selve a Paderno 81. Planimetria del filatoio ad acqua di Rovato con in evidenza

le quattro grandi ruote 82. Particolare del filatoio ad acqua per la torcitura della seta 83. Organizzazione portuale del comune di Palazzolo 84. Fabbrica nell’acqua, Palazzolo 85. Strade porticate a Pisogne 86. La farmacia nel crocicchio di Pisogne 87. arch. Rodolfo Vantini, disegno della Piazza di Rovato 88. Il portale della piazza vatiniana 89. Planimetria area castello a Rovato, configurazione per il

restauro della piazza vantiniana (A. Pezzola, S. Belotti) 90. Piazza Cavour a Rovato, foto storica 91. Piazza Iseo, foto storica 92. Luigi Dellera, disegno ad acquerello dell’Accademia Tadini,

Lovere 93. arch. Salibmeni, Accademia Tadini, Lovere 94. Il Vantiniano, cimitero di Brescia 95. arch. Rodolfo Vantini, cimitero di Pisogne 96. Dettaglio di ingresso casa vantiniana a Brescia 97. Dettaglio di ingresso casa Sommaruga a Sarnico 98. arch. Antonio Tagliareffi, Villino Tonelli, Coccaglio 99. arch. Antonio Tagliareffi, Villa Fenaroli, Fantecolo 100. Fronte neogotico Villa Maria, Rodengo 101. Fronte neogotico casa in contrada San Gottardo a Paderno 102. arch. Antonio Tagliareffi, Villa Fenaroli a Corneto,

Rodengo Saiano 103. arch. Giuseppe Sommaruga, Villa Pietro Faccanoni poi

Passeri, Sarnico 104. arch. Giuseppe Sommaruga, Villa Luigi Faccanoni,

Sarnico - Predore 105. arch. Giuseppe Sommaruga, Villa Giuseppe Faccanoni,

Sarnico 106. Vista dell’Abbazia Olivetana, Rodengo Saiano