Attilio Brilli - Il Viaggiatore Immaginario

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luoghi segreti

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  • Attilio Brilli

    Il viaggiatore immaginario L'Italia degli itinerari perduti

    il Mulino

  • ISBN 88-15-06058-8

    Copyright 1997 by Societ editrice il Mulino, Bologna. vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compre-sa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

  • Indice

    I. Il viaggiatore immaginario p . 7

    II. Itinerari 31

    Le foglie di Vallombrosa 31 La via della divina proporzione 41 Siena e il Re di-Cofani 51 L'aperto e dilettoso calle 60 Il periplo del lago 68 Etruria romanzesca 72

    III. Sermoni di pietra 81

    IV. Luoghi 9 1

    Come l'acropoli di una mistica Atene 91 Smonta Rinaldo a Cagli 96 La citt reliquiario 99 L'arborato cerchio 105 Perugia aerea e tenebrosa 111 Venezia fra gli Appennini 116 Il ventaglio della storia 119 Una citt in simbiosi con le nubi 124

    V. Ciceroni e guide 1 2 9

    Un apologo e un epilogo 1 3 9

    Riferimenti per il viaggiatore 1 4 7

    Indici 1 5 3

  • Capitolo primo

    Il viaggiatore immaginario

    Muoversi o viaggiare? In un'epoca che ha ratificato la dissoluzione del mito del viaggio attraverso l'Italia come un'impareggiabile occasione di piacere e di accrescimento culturale, e che nel contempo ci restituisce una realt am-bientale sempre pi erosa dalla consuetudine, sempre pi offesa dall'invadenza dell'uomo, s da non lasciare che mar-gini esigui all'immaginazione creatrice, questo volume invi-ta il lettore, potenziale viaggiatore, a fruire di quei lembi estremi per riscoprire i percorsi di un tempo e con essi le antiche magie del paesaggio. Ci significa lasciarsi sedurre dalle pagine di quanti ne fecero materia narrativa e dai taccuini di chi intese esercitarvi la propria capacit di ana-lisi. Significa altres instaurare un giuoco di simulazione con un altro genere di viaggio che non sia il nostro, con agi e disagi assai diversi da quelli a cui siamo abituati - o a cui si costretti - con un tempo che non pi il nostro tempo.

    Mentori e guide in questi antichi percorsi della seduzio-ne viaria sono celebri scrittori e viaggiatori provetti. Trami-te la loro voce lontana prendono forma sotto i nostri occhi disincantati i contorni di una realt ambientale per molti aspetti inimmaginabile, i profili bluastri di citt sconosciute a noi forestieri in casa propria, le pratiche dilatorie di un viaggio altrimenti irrevocabile nei suoi incanti inattesi, nella remunerazione delle soste forzate: Quelle rapide e poi quasi a caso recuperate immagini d'una annotazione che fu attenta negli anni, come diceva Gadda nelle Meraviglie d'Italia, quel saper coniugare distanza e desiderio che unico frena l'incauto prorompere degli entusiasmi e per altro ver-so dei rancorosi sarcasmi. Potremmo sostenere allora che questo un viaggio condotto sulle pagine di diari e di guide di viaggiatori d'altri tempi: nulla di pi naturale - diciamo

  • - visto che fra viaggiatori di momenti e culture diverse si da sempre stabilita una tacita connivenza, che Stendhal faceva gli elogi del secentesco Misson: Il voyage del Misson una lettura valida sotto vari aspetti, l'uomo sensato e sagace, superiore a quel branco di sciocchi presuntuosi che hanno scritto diari di viaggio in Italia, e che al momento di partire l'incontentabile Henry James infilava in valigia la guida del Forsyth, vecchia di cento anni. Nel nostro secolo Huxley annuncia al proprio lettore: Tra i vecchi compagni di viaggio che mi hanno arrecato diletto cammin facendo citer quella miniera d'informazioni del Presidente de Brosses..., e continua elencando le opere di Lady Mary Wortley Montague, del musicologo Charles Burney e del visionario Beckford. C' tuttavia fra costoro e il nostro lettore una sostanziale differenza, costituita dal fatto che a quest'ultimo non forse concessa altra forma di viaggio -viaggio come pratica sospesa fra scoperta e invenzione, tat-tica e avventura intellettuale - che non sia quella evocata dalle guide predilette. Il paradosso del viaggiatore immagi-nario nasce infatti con il diffondersi del turismo e si svilup-pa in proporzione ai suoi fastigi organizzativi. C' un'osser-vazione di Sir Philip Sidney - gran sostenitore della valenza pedagogica dei viaggi in et elisabettiana, allorch il viaggio si districa dalla pratica devozionale del pellegrinaggio e dall'ingorda esplorazione di terre lontane - nella quale il paradosso echeggia, non senza sarcasmo, toni ariosteschi: Si sostenuto di recente che il modo migliore di viaggiare sarebbe sulle pagine degli atlanti e dei libri, poich in tal modo si potrebbe prendere visione delle situazioni e dei costumi delle genti, senza mescolarsi alle loro corruzioni: singolare opinione che ben s'attaglia a solinghi reclusi i quali possono viaggiare per il mondo quantunque confinati nelle latebre di una cella. L'allusione all'immaginoso Ariosto quel che rende sapida la citazione di Sidney che per il resto ha perduto - ai nostri occhi - ogni implicazione sardo-nica. Capita spesso di preferire il destino dei reclusi per sovraffollamento di turisti e simultanea, progressiva cancel-lazione di ogni differenza, di ogni caratterizzazione ambien-tale.

  • Come non distinguere ormai fra termini che scandisco-no il divenire e il mutare della pratica itinerante nei secoli e che, pur escludendo gli epigoni del pellegrinaggio e del-l'esplorazione, oppongono il viaggio aristocratico e borghe-se del X V I I e del XVII I secolo alla proliferazione indif-ferenziata, livellata e livellante, del turismo i cui segni premonitori compaiono nella terza decade del XIX secolo? Del viaggio dei secoli passati, connotato da articolate moti-vazioni culturali, esperito con il timbro dell'eccezionalit e ai margini se non nei domini dell'avventura, la gita turistica rappresenta soltanto il doppio grottesco. Giuocando con i paradossi, infatti, potremmo aggiungere che l'era della ve-locit e del comfort ha scoperto con meraviglia la seduzione dei viaggi narrati, il diletto del viaggiatore immaginario confinato nella propria gremita solitudine. Il diffuso inte-resse per la letteratura di viaggio sembra ricordarci infatti che una delle risorse del viaggiatore d'oggi consiste nel fingersi nella mente luoghi e paesaggi descritti da vecchi manuali di viaggio e andarli a visitare sotto le loro impareg-giabili indicazioni. Le vecchie guide turistiche, scrive Huxley, a tal punto antiquate da costituire un documento storico, sono degli eccellenti compagni di viaggio. Ricorre-re a quei desueti consiglieri significa riscoprire alcuni dei percorsi pi suggestivi del nostro paese. Riscoprirli, quel che pi conta, attraverso prospettive multiformi suggerite, nel volgere dei secoli, da altre civilt letterarie, da altre culture della visione. Le inquadrature che ne scaturiscono gettano una luce straniarne su antiche strade - quasi le percorressimo per la prima volta - sulle quali s'addensano per incanto, palpabili e folte, le ombre del passato. Ha scritto di recente Cees Nooteboom in Verso Santiago: Non dimostrabile, eppure io ci credo: nel mondo ci sono luo-ghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamen-te moltiplicati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da l sono ripartiti.

    Che gran parte di quella che James definiva l'adora-bile Italia con le sue larvali presenze e la polvere intatta degli anni, sia non solo radicalmente mutata, bens e in pari tempo trangugiata dall'incuria e dalla devastazione

  • ambientale, rientra in una realt incontrovertibile del no-stro tempo che sembra voler tutto omogeneizzare nella degradazione. Tale realt tuttavia non incide nella finzio-ne su cui fanno leva le pagine di questo volume con le sue descrizioni topografiche e il racconto dei suoi paesaggi. Tuttavia questa finzione non si limita a proporre il senso, il gusto, la memoria di un viaggio talmente improbabile da ritrovare spazio prediletto nelle pagine cinerine degli atlanti o nelle marezzature degli acquarelli. L'idea stessa di riproporre questi itinerari perduti nasce dall'esigenza, oggi avvertita pi che mai, di guardare al paesaggio e alla cultu-ra ambientale - e quindi al viaggio come approccio e stru-mento di conoscenza - con una sensibilit percettiva di-versa da quella abituale. Una consapevolezza capace di stimolare scelte alternative dei percorsi viari grazie all'ot-tica dei viaggiatori del passato, di quanti rimasero affasci-nati dalle delizie dell'Italia. In questo senso il volume intende stimolare una dimensione creativa del viaggio, cos che il lettore, nel momento di abbandonare gli itine-rari abusati, sappia riscoprirne altri perduti da tempo, ma pur sempre disponibili in tratti di inalterata freschezza, sulla scorta di guide rinomate.

    Un'intera serie di categorie pseudo-romantiche di cui parla un sarcastico Enzensberger: il paesaggio incontami-nato, le vaghe suggestioni della storia, la disponibilit di arcaiche reliquie, lo spettacolo del folklore, hanno costitui-to per anni gli ideali del turismo. Annotava gi Leopardi nello Zibaldone: Oggid i viaggi pi curiosi e pi interes-santi che si possono fare in Europa cio nel paese incivilito, sono quelli de' paesi meno inciviliti, cio la Svizzera, la Spagna e simili, che consentono - potremmo aggiungere -la pratica illusoria del viaggio ai margini residui del mito. Persa anche questa ultima possibilit, si continuato a fingere di spostare verso frontiere inesistenti le conquiste itinerarie e si parla ancora di spiagge - ma non pi di vette o foreste - inviolate, ben sapendo che si tratta di una grossolana mistificazione commerciale. In ambito turistico come in tanti altri, d'altronde, ci si comporta come se il mondo fosse infinito, come se potessimo impunemente ag-

    i o

  • gredirlo e devastarlo, sempre pronti a tracciare inedite rotte attraverso mitiche lande e mari sconfinati. Forse giunto il momento di ipotizzare un'interpretazione pi letterale che metaforica del romantico fingersi nuovi spazi oltre la siepe della realt effettuale. Questi luoghi dell'immagina-zione o dell'illusione possono coincidere con gli spazi per-corsi dai viaggiatori di cui parla Huxley, di modo che il viaggio cessi di essere solo uno spostamento nello spazio per diventare anche un'escursione nel tempo e attraverso la storia del pensiero. Pochi anni fa Claude Lvy Strauss scriveva in Tristi tropici: I viaggi, magici cofanetti pieni di promesse di sogno, non ci concederanno mai pi i loro tesori incontaminati, poich la prima cosa che vediamo viaggiando per il mondo la nostra sporcizia, gettata in faccia all'umanit. Anche per questo i libri di viaggio -prosegue Lvy Strauss - creano l'illusione di qualcosa che non esiste pi ma che vorremmo esistesse ancora.

    Dall'inedita tessitura di alcuni dei pi battuti percorsi di un tempo - moniti silenti di altre vie della storia travolti dalle fragorose autostrade - scaturisce il suggerimento di itinerari dalla straordinaria suggestione evocativa, itinerari da gustare nell'immaginazione, ma in pari tempo da speri-mentare con inventiva e discrezione, quasi proponessero una rilettura itinerante del passato. Ci ancora possibile in un paese come il nostro dove la tradizione artistica ha modellato l'ambiente e l'ha reso preziosamente vario in ogni anfratto, valle seclusa, citt murata. Un paese che an-cora negli anni Venti poteva opporre all'incanto sinistro dei paesaggi celtici, all'orrore delle grandi piramidi del Messico, o all'idolatria gentile dei luoghi del Budda a Ceylon, per dirla con D.H. Lawrence, la dolce tranquillit... l'inti-mit felice delle necropoli etrusche; o che ai nostri giorni offre a sophisticated travellers d'oltre oceano il destro di aprire le loro guide con gli ultimi incanti topografici, d'arte e di paesaggio fra Toscana, Umbria e Marche.

    Memoria e desiderio. Dal sovrapporsi di prospettive scan-dite nel tempo emergono mano a mano, anche visivamente, inquadrature diverse dei medesimi luoghi o di zone conti-

  • gue. Ci soccorre in tal senso una riflessione che Goethe appunta nella biografia dell'amico pittore Philipp Hackert:

    Il fatto che lo sguardo dei viaggiatori sia scaglionato su epoche diverse e che questi instaurino nei confronti degli oggetti approcci e punti di vista diversificati essenziale per chi riflette e chi giudi-ca. Immagini di viaggio appartenenti ad epoche differenti sono da considerare come le cronache di questi oggetti.

    I nostri itinerari verranno quindi ricostruiti attraverso un prezioso mosaico di citazioni scaglionate nel tempo, una composita seconde main tesa ad imbastire la trama narra-tiva di un luogo, di una citt, di un itinerario dimenticato. C' uno straordinario romanzo di Walter de la Mare nel quale le terre che l'eroe visita - un eroe in peregrinazione perenne, naturalmente - e le persone che vi incontra, altri non sono che i luoghi e i protagonisti delle favole, delle storie e dei romanzi della tradizione occidentale. Il nostro viaggio non troppo diverso. Esso ha per il vantaggio di poter essere svolto in pratica in ogni momento con l'avver-tenza di tenere bene a mente che prima del mondo viene il libro, e che sono le opere d'arte e le raffigurazioni topo-grafiche a costruire i paesaggi: il che equivale a riconoscere in ogni momento il primato della finzione. Una finzione ben diversa da quella sperimentata da Goethe, Byron o Proust che, nelle loro visite italiane, coglievano il ritorno a un passato che avevano gi conosciuto nei libri, nelle pitture e in altre fasi della loro esistenza. D'altronde l'interconnessione fra il libro e il viaggio antica e complessa: si pu leggere un viaggio, ma si pu anche viaggiare sui libri. Il legame pi sottile stato colto da Montaigne quando afferma che in viaggio ci si trova nella medesima situazione di coloro che, impegnati nella lettura di un libro, sono colti dal timore che possa finire troppo presto. Come il viaggio colma i vuoti della carta geografica, il libro riempie quelli del viaggio e naturalmente ne attesta a futura memoria - come gli acquarelli topografici di ieri e le foto di oggi - l'effettivo svolgimento. Questo testo vorrebbe fare qualcosa di nuovo e di diverso identificando il libro con il viaggio, e non solo come fuga immaginativa, bens spingendo il turista a riappropriarsi, sia

  • pure nella breve percorrenza di antichi itinerari, del proprio ruolo di viaggiatore, immaginario o effettivo che sia.

    Ha scritto ancora Leopardi: Chi viaggia molto, ha que-sto vantaggio dagli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che essi acquistano in breve quel vago e quel poetico che negli altri non dato loro se non dal tempo. Il piacere pi autentico del viaggio nasce dalla rimembranza, dalla rielaborazione di un'espe-rienza che il tempo dissolve in forme sempre pi consone all'immaginazione. Se andiamo con il pensiero a quei cano-ni del pittoresco sui quali si formato l'occhio del viaggia-tore romantico, ci accorgiamo come la citazione leopardiana costituisca l'epigono di un modo di sentire o di atteggiarsi che, fra Settecento e Ottocento, sgrana nella morsura degli anni la tessitura compatta della visione del mondo: Nel rimembrare e nel raffigurarci da poche fuggevoli linee, le scene che un tempo attrassero la nostra ammirazione, an-nota un teorico del pittoresco come Samuel Gilpin, pu esserci maggior diletto di quanto provammo all'istante.

    Gilpin, Price e da noi Leopardi prefigurano quel singo-lare sdoppiamento che il viaggiatore elabora appieno nel-l'esperienza individuale. Il suo sguardo percepisce i tratti di un paesaggio, di una citt, di un'opera d'arte soltanto attra-verso gli occhi dei viaggiatori di altre epoche. Di costoro egli volge la memoria in facolt immaginativa che, da po-che fuggevoli linee, ricrea l'insieme di una scena. Il suo atteggiamento deriva da una cultura il cui approccio alla realt non ha altro modo d'essere che non sia quello rifles-sivo ed ironico. Eppure io so, dovunque vada, / che un fulgore svanito dalla terra, ha scritto William Wordsworth. La ragione moderna pu ricreare solo in via riflessiva la parvenza dell'intimo, totale rapporto con la natura speri-mentato nella fanciullezza. Nella tradizione del viaggio in Italia, dopo Goethe non sar pi concessa al viaggiatore la possibilit di fondere la conoscenza dei luoghi con la gioia dell'esperienza e l'incanto di tutti i sensi.

    Se scorriamo le voci di quanti, nei secoli, hanno descrit-to un luogo, ci accorgiamo che, a partire dalla stagione romantica, si fa sempre pi insistente la tendenza a citare,

  • da parte dei viaggiatori, quanti ne hanno parlato, subordi-nando a quelle voci lontane la presa diretta della percezione individuale. C' sempre un'alterit la cui citazione accredita la valenza di un luogo e accende l'immaginazione. All'inizio del secolo Edith Wharton fornisce esempi di grande inte-resse per quanti, come lei stessa annota, hanno occhi e orecchi per osservare il miracolo quotidiano del mondo visibile. Nell'accingersi a descrivere un ambiente, suo costume riferirsi a pittori e scrittori che con la loro arte ne hanno rivelata la suggestione. il caso del palesarsi di quella che lei considera una delle pi belle vedute del mon-do: il momento in cui il viaggiatore, calando dalla via di Viterbo, scorge per la prima volta la massa tufacea di Orvieto con le cuspidi d'oro, turrito satellite della storia, levarsi lentamente dal terreno. Nel restituirci la folgorazione di quella veduta, la scrittrice allude alle parole di George Dennis: La prima visione che si ha di Orvieto dalla via di Viterbo fra le vedute pi maestose che ci siano state offerte in Italia, e propone al lettore l'appiglio visivo della tela orvietana di Turner, oggi alla Tate Gallery. Il nostro modo di vedere Orvieto dunque frutto di una serie di rimandi di cui la Wharton costituisce il catalizzatore.

    Lo stesso primato dell'arte sulla natura rientra nel paradigma di un'analisi e di una valutazione eminentemen-te riflessiva dei luoghi. Sostiene ancora la Wharton che l'essenza del paesaggio italiano va colta nei secondi piani e negli sfondi dipinti della tradizione rinascimentale. laggi infatti, dietro i personaggi in posa, paludati o burbanzosi, che la ritualit del primo piano si stempera in vaghissime quanto nitide lontananze. Lo storico dell'arte dovrebbe ri-manere incantato da questa osservazione di un viaggiatore. Essa ci induce a scrutare con occhi nuovi gli sfondi di quadri di Giovanni Bellini o del Giorgione e lasciarvi per-dere l'immaginazione. nei secondi piani di quei dipinti infatti che possiamo presagire la nascita del paesaggio come spettacolo autonomo e in s compiuto, la serena e severa arcadia del Poussin e del Lorenese. Ci si accorge inoltre che proprio attraverso gli squarci pittorici di sfondo - le chiare fiumane e i cieli schietti di Piero della Francesca, le rocce

  • mostruose del Mantegna, i tramonti color vinaccia del Tiziano - che possibile riscoprire e godere con inedita sensibilit il paessaggio italiano nel suo assetto culturale e nel suo mutevole incanto. Certe valli umbre possono ancor oggi incarnare il sogno di Kurosawa che quello di entrare dentro il quadro. Varcare la superficie di un dipinto non significa nel nostro contesto essere accolti dal volo sghem-bo dei corvi e dal mare delle messi in tempesta di Van Gogh, n tanto meno ritrovarsi oltre lo specchio, in un mondo dove tutto appare disposto alla rovescia. Il mondo che ci accingiamo a visitare non si muove, non si anima, non trascolora, ma resta immobile nell'algore d'origine. Di qui un senso di spaesamento iniziale, quasi di indefinibile sor-presa, ma anche di curiosit estrema e di estrema suggestio-ne, perch quelle vallate umbre dalla luminosit ambrata e azzurrina sono il lascito del Perugino alla sua terra. Per noi esso rappresenta il modo migliore per intenderla.

    Si impara a godere della natura attraverso la spettacolarit eclatante o sommessa della pittura di paesaggio, e non vice-versa. E nella veduta infatti che l'infinita gamma di risonan-ze del paesaggio naturale viene filtrata e restituita selet-tivamente in un'icasticit che non solo non sopraff l'osser-vatore, bens lo mette in grado di controllare la scena nei tratti morfologici, atmosferici, perfino meteorologici pi significativi e comunque irriducibili. Ieri come oggi il viag-giatore si pone dinnanzi alla luminosa infinita bellezza del paesaggio naturale portando negli occhi gli esempi dei pit-tori pi amati, le geometriche scansioni di Gauffier, le nu-vole rade e delibate di Valenciennes, le diafane brume di Cozens, le fulgide scaglie di Sargent. Ci facendo egli si comporta come quei pittori americani del secolo scorso i quali, posti con le loro poche armi al cospetto dell'immen-sit muta o fragorosa della natura selvaggia del mondo nuo-vo, sentivano di doversi esercitare sulle cascatelle di Tivoli prima di poter affrontare quelle del Niagara. Il paragone rovesciato lo troviamo non a caso in Chateaubriand, il quale annotava con qualche supponenza nel 1804: Dopo cola-zione una guida mi ha portato sul ponte della cascata dell'Amene: si noti che ho veduto la cataratta del Niagara.

  • L'approccio ad un luogo implica oggi pi che mai la coscienza che sottende in ogni epoca l'idea di viaggio come stimolo conoscitivo, e la consapevolezza che nessuna cono-scenza effettiva di un territorio possibile senza una contestualizzazione storica. S'intende con ci non una ge-nerica ricostruzione del passato, bens la storia della sua scoperta e della sua valorizzazione nell'orizzonte europeo e americano e della sua descrizione da parte di viaggiatori di epoche e culture diverse, del suo imprimersi nell'immagina-rio internazionale.

    Echi dal bosco sacro. Gli antichi lo chiamavano genius loci, intendendo con questo appellativo la divinit che pro-tegge un luogo o una citt e che anima la natura. Esso estensione del pi generale genius, o spirito buono o cattivo che, secondo la tradizione, assiste ogni uomo dalla nascita alla morte ispirandone le azioni. Nel'Eneide assistiamo ad una sorta di apparizione della divinit tutelare del luogo. Veleggiando verso l'Italia, Enea costretto da una tempesta ad approdare in Sicilia dove accolto dal troiano Aceste; mentre s'appresta a celebrare i sacrifici in onore del padre, morto nell'isola un anno prima, vede sbucare da dietro l'altare un serpente; allora Enea con maggior devozione riprende le onoranze al proprio padre, / Incerto se fosse un nume tutelare del luogo, o un emissario del genitore. Non meno significativa, anche da un punto di vista rituale, l'altra occasione in cui Virgilio mntova il nume tutelare del luogo. Dopo che Enea giunto in terra laziale, alla foce del Tevere, fatidico approdo della storia di un popolo, si narra: Detto che egli ebbe, d'un frondoso ramo / Si corona le tempie e prega il genio / Del luogo.... Era vitale infatti per gli antichi venire a patti con il genius della localit nella quale si sarebbe svolta, seppur momentanea, la loro esisten-za. In una cultura di tipo animistico tale rapporto emana un'influenza sia fisica che psicologica, determina la scelta del sito, e, nel sito, la disposizione degli edifici, e non meno il loro rilievo simbolico e rituale.

    Il viaggiatore antico vedeva il paesaggio popolato di ricordi eroici che erano congiunti alle tombe degli eroi

  • visibili in ogni luogo. La stessa natura, il fonte, la grotta, la vetta, l'albero, gli apparivano abitati da divinit che attri-buivano forma oggettiva a ci che l'uomo moderno vive in modo soggettivo. L'esperienza artistica degli antichi del pari contrassegnata dal modo di pensare mitologico e reli-gioso. E il pathos mitico che rende degne d'essere viste citt, mura, templi avvolti dalla leggenda, per non parlare dei luoghi sacri legati alla parola oracolare del dio. Dal carattere locale artisti e scrittori hanno sempre tratto ispira-zione e cercato di spiegare i fenomeni della vita e dell'e-spressione artistica, espressione alla quale per secoli si chiesto soprattutto di trasmettere la valenza mitologica di ci che viene rappresentato.

    C' un'affermazione nei Modem Vainters di John Ruskin che si rivela illuminante per comprendere una vasta gamma di interpretazioni di paesaggi e di citt da parte dei viaggia-tori: Quanto pi si perduta l'idea di una precisa presenza spirituale nella natura, tanto pi aumentato il senso miste-rioso di una vita indefinita delle cose. Con la sua intuizio-ne Ruskin coglie l'ultima metamorfosi degli dei antichi che gi il cristianesimo aveva relegato, demonizzandoli, nei fe-nomeni e negli elementi della natura. Sul declinare del seco-lo i paesaggi di Bcklin, di Costa, di Coleman si animano di satiri, di centauri e di ninfe, non solo come notazione colta e riferimento alla memoria classica del paesaggio, ma come intenzione allusiva appunto al vitalismo misterioso della natura e alla sua esaltazione come forza rigeneratrice non disgiunta da una disperata nostalgia, da uno struggente senso dell'esilio. Elementi ricorrenti della pittura di paesag-gio italiano - isole, promontori, antiche dimore, annosi cipressi, statue solinghe, boschi circoscritti nella loro om-brosa ritualit - vengono selezionati da contesti diversi e sottoposti ad una trasfigurazione nostalgica che ne fa i luo-ghi dell'enigma e del mistero. La natura nel suo insieme appare dominata da forze imponderabili, prigioniera della propria malinconia. Sovente la fascinazione che tali elemen-ti esercitano deriva dalla condensazione di tratti paesaggistici e, nel paesaggio, di dettagli della flora e della geologia assolutamente incongrui. Da simili, inattesi accostamenti e

  • contaminazioni - si pensi alle ville di Bcklin che si leva-no da zoccoli tufacei della Campagna romana su grigie marine del settentrione, ai possenti cipressi di villa d'Este disegnati da Hubert Robert, da Fragonard, Inness... ingol-fati dai venti di un misterioso presagio - da tale incongruit, dicevamo, derivano l'atmosfera di attesa e il senso di spae-samento dell'osservatore sospeso fra presente e passato, sogno e realt, stupore e nostalgia.

    Topografia ideale di questa singolare reviviscenza dei miti mediterranei e sopra ogni altro del sentimento panico della natura la Campagna romana, la campagna che fu gi di Poussin e del Lorenese, di Goethe e di Tischbein, con la sua mescidazione di ruvida natura e di decaduta cultura, di ferinit primordiale e di memoria lontana. nel suo ma-linconico e insidioso paesaggio di desolante dolcezza -sino alle soglie del nostro secolo luogo rifuggito dai viag-giatori nel corso dell'estate per la malaria - che, sulla scia di Bcklin, di Mares, di Feuerbach, una serie di pittori sim-bolisti nostrani trasforma le grotte, le piane silenti, le erme alture, i groppi boschivi, i mutili resti archeologici nello scenario ideale per visioni fantastiche nelle quali prendono forma e rivivono antiche leggende.

    Ci sono dei temi topografici ricorrenti come quello del-la villa diruta o abbandonata, e dei grandi parchi ricchi di romitaggi, di ombre cupe e profonde, di lussureggiante e aspra vegetazione - autentiche metafore di un'alterit mi-steriosamente allusiva, di un'interdizione struggente - che costituiscono l'elemento catalizzatore fra pittori e poeti sim-bolisti. stato notato con acutezza che in costoro i luoghi della massima fascinazione confinano con l'ingresso nel-l'Ade, aprono passaggi sotterranei, labirinti dell'io in cui perdersi significa dimenticare da dove e perch iniziato il viaggio. La stessa Isola dei morti di Bcklin anche l'ap-prodo al labirinto della psiche, un labirinto costruito con elementi della topografia geologica, vegetale e architettonica italiana.

    Per quanto vincolati dall'A/c et nunc di un'esperienza individuale effettivamente vissuta e dalla sua trasmissibi-lit, l'interpretazione dei luoghi formulata da una ricchissi-

  • ma tradizione di libri di viaggio che va da Arthur Symons a Andr Suars, intrisa di zone di mistero, di elementi elusivi, di indizi di una numinosit pagana che sembrano sottendere la natura e introdurre all'anima segreta di un luogo.

    Cultori dello spirito del luogo. Il concetto latino di genius loci viene investito fra Otto e Novecento, nella suggestiva interpretazione topografica e letteraria che lo caratterizza, da una sensibilit tipicamente nordica o romantica. Con questo termine s'intende l'atteggiamento culturale di quan-ti avvertono nell'ambiente naturale un modo di rifluire in un passato lontano, nostalgicamente agognato, non come reviviscenza allegorica o storica simulazione, bens come esperienza emotiva. L'atteggiamento romantico verso il pae-saggio proprio di un genere di cultura ambientale che, come quella dei paesi nordici, ricerca nella natura una forza primigenia di rigenerazione. Norberg-Schulz ha restituito in sintesi l'essenza di un tale paesaggio, quel genere di paesaggio, varr appena ricordarlo, che a priori struttura la psicologia di tanti interpreti stranieri della topografia stori-ca italiana:

    Nell'insieme questo ambiente manifesta un mondo mutevole ed enigmatico con ricorrenti e improvvise sorprese. La generale istabilit accentuata dal contrasto delle stagioni e dalla frequenza delle variazioni atmosferiche. Si pu quindi dire che il paesaggio nordico caratterizzato da una indefinita moltitudine di luoghi diversi. Dietro ogni altura, ogni rupe c' un altro luogo: solo ecce-zionalmente il paesaggio si unifica per comporre uno spazio sem-plice e uniforme. Si aggrediti da un esercito di forze naturali, e manca un ordine generale unificante. Quest'atmosfera singolare si riflette nella letteratura, l'arte e la musica dei paesaggi nordici, in cui un ruolo preponderante spetta alle impressioni e alle atmosfere naturali. Le favole sono popolate da abitanti mitici: gnomi, nani, trolli...

    Il genere di rapporto che il viandante istaura con tale paesaggio dunque determinato dall'empata, dalla proie-zione di s nella scena osservata, dalla tendenza a identifi-carsi con il mondo naturale, a intrudersi in esso, nei suoi anfratti, nei suoi recessi in una sorta di comunione affettiva,

  • di immedesimazione erotica e mistica, protettiva e rige-nerante. In questo paesaggio ctonio, mutevole e misterioso, aggrondato e sfuggente, dove ci si rifugia e ci si nasconde, le forze della natura o le loro animistiche personificazioni trasformano il rapporto con l'uomo in una continua inte-razione di elementi. A questa matrice nordica e a questa dimensione magica risale almeno in parte il concetto di genius loci elaborato da Vernon Lee, concetto enigmatico ed elusivo come la natura che lo ha generato e tuttavia cos intenso ed articolato che in esso vibrano ancora le corde dell'empata romantica, della tendenza emotiva a proiettare le proprie angosce e i propri desideri nella scena osservata. Ma per Vernon Lee, come per tanti viaggiatori sentimen-tali, questo lasciarsi riassorbire nella natura, nel contesto ambientale visitato, un atto sempre pi raro, sempre pi irrealizzabile. Da qui i caratteri ombrosi, perfino ironici, del suo genius loci, divinit tipicamente elusiva. La pi struggente raffigurazione che ne ha dato deve il proprio inimitabile fascino, la propria sconfinata malinconia al trascolorare della stessa empata nei colori dell'irrevocabilit:

    Mi ricordo come se fosse ieri - quasi l'avverto ancora - la sottile trafittura dell'azzurro oltremarino delle colline oltre la Liz-za, allorch le scorsi per la prima volta, trentotto anni fa; quell'inconfondibile colore azzurro di contro al cielo eburneo del-la sera si identificava, e addirittura diventava, diciamo cos, il colore del desiderio dell'inaccessibile, del congedo da ci di cui si troppo brevemente goduto.

    L'indubbia suggestione di brani come quello citato -riferito a Siena - non esime il viaggiatore odierno dal consi-derarli al rango di manifestazione di rara sensibilit indivi-duale coltivata in una temperie culturale ben definita. Tut-tavia brani topografici simili, la stessa formulazione di spi-rito del luogo forniscono una lezione di molto pi sottile pertinenza. Non si pu non riferirsi alla discrezione con la quale viene elaborato il concetto stesso di identit del luo-go, pena il lasciar degradare tale concetto a mero bozzettismo o peggio ancora a formula prototuristica. In tale ambito si tratta di captare tale identit in un ritroso ed evanescente

  • nume tutelare fatto della sostanza del nostro cuore e della nostra mente, della romantica proiezione psicologica di s che estasiata e stupita prende possesso della scena.

    Pu apparire paradossale che si parli del paesaggio ita-liano - nitido, classico, armonioso - attraverso un atteggia-mento che gli estraneo; che se ne investa il fulgore e la geometria con le ansie e i desideri di un animo che nel paesaggio cerca soprattutto un'interazione emotiva. Non sufficiente rispondere che, almeno nel nostro caso, sono appunto i viaggiatori forestieri a filtrare la visione della realt ambientale italiana attraverso uno schermo struttura-tosi altrove, a contatto di realt ambientali diverse. Aldous Huxley consigliava ironicamente ai viaggiatori del nord, stupiti e frastornati dalla fulgida luminosit mediterranea e dal predominio dell'ocra e della creta, di ricomporre anche in Italia i verdi meandri del settentrione inforcando occhiali dalle lenti colorate. Certo , comunque, che alla obiettiva presenza di inglesi, tedeschi, francesi del nord, fiamminghi, americani gotici e puritani, tutti con i loro modi di legge-re il paesaggio, dovremo aggiungere altre e pi articolate ragioni culturali.

    Lezioni di paesaggio. Il paesaggio italiano sul quale si esercita questa singolare ricerca di s in effetti un contesto composito che, nella successione di scenari che hanno da sempre incantato i protagonisti del viaggio in Italia, alterna il romanticismo selvaggio delle Alpi, alla luminosit abbacinante della laguna veneta, alla forza tellurica della terra napoletana. Su questi elementi estremi della configu-razione ambientale i viaggiatori a noi pi vicini nel tempo hanno privilegiato la sua dimensione pi ricorrente e unita-ria che il paesaggio classico, quel genere di configurazione che non schiaccia colui che l'osserva, n per altro verso l'attrae nei propri imperscrutabili anfratti; che non lo sovra-sta, n l'assorbe.

    Dinnanzi al paesaggio classico - modello specifico fino quasi alla fine del secolo sono i colli romani, sostituiti poi dalla modulazione collinare tosco-umbra - il riguardante portato per istinto a mantenere una distanza razionale che

  • non consente interazioni emotive. infatti la totale, lucida intelligibilit dei suoi elementi, la ben definita successione di colli e di valli, l'armoniosa scansione di coltivi e di lotti, a riconciliare l'uomo e l'ambiente in un sereno rapporto di parit. Collocandosi "di fronte" alla natura - osserva an-cora Norberg-Schultz - l'uomo classico riduce il paesaggio a una veduta, infatti raramente questi - il paesaggio - viene usato nel senso nordico di entrare nella natura. Il connu-bio fra uomo e natura si esprime invece nell'esercizio del-l'agricoltura, che accentua la struttura del paesaggio come addizione di luoghi individuali, relativamente indipen-denti. Il genius loci del paesaggio classico si manifesta so-prattutto nei luoghi naturali ben definiti e ulteriormente sottolineati dalle amorose cure dell'uomo.

    Una pagina di Joseph Roth sulla Provenza rappresenta in termini affatto tecnici, eppure rapsodicamente esaustivi, i caratteri salienti del paesaggio classico e l'influenza che essi hanno su chi vi abita, in contrasto con il suo ambiente nativo di impronta romantica:

    Daudet, il grande narratore provenzale, ha osservato acuta-mente che il sole cocente fa sembrare pi grandi gli oggetti. La luce forte getta ombre forti e aumenta il contrasto tra la parte illuminata del paesaggio e quella in ombra. Il sole amplifica e moltiplica i dettagli. Nei paesi nebbiosi, dove il sole pallido, i dettagli si perdono ed come se il cielo profondo e pesante schiacciasse tutto ci che si protende verso l'alto. H o sempre attraversato paesi nebbiosi. Ogni mio viaggio stato una lotta contro i misteri nascosti e inesplorati del paesaggio. Attraversan-do le bellezze della natura, ne ho sentito sempre l ' inaff idabil it, quella che nel linguaggio antropomorfico si chiama insidia degli elementi. Qui per la prima volta ho viaggiato con piacere. Sono riuscito a capire la felicit degli uomini che senza timore si ab-bandonano al loro cammino. Nulla di terribile poteva colpirli strada facendo. Di una cosa soltanto sentivo la mancanza: del bosco. S, il bosco non c'era. Mancava la dolce umidit e il canto segreto dei boschi. I boschi sono i segreti di un paesaggio. Que-sto un paesaggio senza segreti.

    Il paesaggio classico non fatto per ospitare entit um-bratili e misteriose, n soggiace a divinit folgoranti e

  • annichilataci. Esso vive dell'interazione intellettuale o ma-teriale con l'uomo e dunque in un rapporto che sempre razionale - che poco ha a che fare con l'empata del paesag-gio romantico. Non un caso infatti che la veduta come genere pittorico, la veduta classica che dal Lorenese giunge fino a Inness, si sia esercitata prima sull'opulenza del pae-saggio collinare del Lazio - Tivoli, Albano, il lago di Nemi, i castelli - , con il suo sapiente alternarsi di spazi rurali o arcadici, di macchie selvatiche, di ruscelli e di borghi fra quinte d'alberi o di rocce, e poi in quella pi sobria e misurata del paesaggio della Toscana e dell'Umbria nella recuperata memoria dei pittori senesi e dei grandi quat-trocentisti. Un'ulteriore dimensione intellettuale del pae-saggio del centro Italia infatti la sua godibilit che po-tremmo definire intertestuale, la sua scoperta riflessa in quanto immagine speculare di quei pittori - Ambrogio Lorenzetti, il Sassetta, e poi Masaccio, Piero della France-sca - che ne rivelarono la molteplice eppur fortemente caratterizzata essenza. Sin d'ora necessario tenere a mente che, a partire dai viaggiatori romantici, ci si riferisce alle relazioni di viaggio e alle descrizioni letterarie o figurative dei paesaggi in termini di verifica, di confronto con i model-li che promossero il viaggio o che ne predisposero i sugge-stivi richiami. Il confronto pu di volta in volta assumere toni assai diversi, dall'amabile ironia jamesiana, alle geremiadi di quanti rimpiangono paradisi perduti. In questo momen-to, e in rapporto al paesaggio classico, ricorderemo un'in-teressante testimonianza del pittore inglese William Hilton che evidenzia i caratteri luministici delle vedute assai prima che la citazione del divino Claude divenisse un luogo retorico. Annota nel proprio diario lo Hilton:

    In Italia la luce e l'ombra sono molto pi intense di quanto lo siano in Inghilterra; la luce ha un riverbero intenso e giallo, le ombre sono pi o meno azzurre allorch vi si riflette il cielo; ma sovente, quando la luce viene riflessa da un oggetto caldo, l'ombra forte e densa ed ha il medesimo effetto dei dipinti del Guercino. Al momento non sono riuscito a scoprire la luminosit azzurrognola con cui i maestri danno corpo alla distanza; Claude , come pensa-vi, irreprensibile nel dipingere il cielo e i monti lontani.

  • Testimonianze pittoriche come questa di Hilton han-no il non secondario merito di ricordarci che il genius di un luogo parla nella sua pi profonda autenticit la medesima lingua per uomini di culture e di epoche diverse.

    Uno dei primi interpreti di questo genere di assetto am-bientale, capace di coglierne la natura pi vera in termini di paesaggio classico, John Addington Symonds che l'os-serva da Montepulciano, nel cuore della campagna senese. Sono pagine, le sue, nelle quali si rispecchia non solo quel genere di rapporto con l'ambiente che abbiamo definito razionale, bens il bisogno stesso di analizzare la fascinazione intellettuale che ne promana. Innanzi tutto Symonds de-scrive il proprio punto di avvistamento costituito - pro-prio il caso di dirlo - da un topos classico nella letteratura di viaggio:

    Salimmo sulla torre del Palazzo del Comune e ci trovammo a duemila piedi d'altezza sul livello del mare. Il panorama, nel suo genere, il pi bello che abbia mai visto in ogni altro luogo, compresa la Toscana, terra'dal paesaggio ricco di vedute panora-miche e zone storicamente rilevanti...

    Poi la volta dell'analisi descrittiva del paesaggio, pausa-ta, obiettiva, distesa, nella quale chi guarda sembra delibe-ratamente spogliarsi di ogni sentimento individuale, di ogni traccia culturale estranea a quel luminoso contesto:

    Il fascino di questo panorama composto da molti elementi diversi, ingegnosamente mescolati, cos da attrarre molteplici e diverse sensibilit: il senso di grandezza, di spazio, di bellezza naturale e il senso di pathos umano, quella facolt profonda e interiore che chiamiamo senso storico e che non trova definizioni. Per primo viene l'immensit dello spazio circostante: uno spazio suddiviso, in ciascun arco della circonferenza, in sezioni di circa cinquanta miglia, delimitate da scene di bellezza squisitamente pittorica comprendenti lontane catene montuose, nubiformi, con cristalli appenninici azzurro cielo, circoscriventi paesaggi di bel-lezza raffinata nei dettagli, sempre mutevoli, diversificantesi conti-nuamente in particolari di interesse peculiare, dove l'occhio o la memoria possono indugiare. Il secondo punto in ordine d'impor-tanza, in questo spazio immenso, riguarda in modo preponderante

  • l'immaginazione per la sua mera vastit e l'ampiezza dell'atmosfe-ra, un'immaginazione che concilia tutte le variet di forme e colori in un'unica melodia sotto il cielo sconfinato, fatta di note singole, di fiumi, di laghi, colline, citt con antichi nomi storici. Giacch l, nella bruma mattutina, si estende il Trasimeno in tutta la sua maestosa lunghezza, con isole e cittadelle, ancora vagheggiarne lo scontro tra le armate romane e le legioni cartaginesi. Il lago di Chiusi disposto come una gemma ai piedi delle colline ricoperte di boschi cedui che nascondono i resti di un popolo scomparso, vissuto in Toscana. Il corso del l 'Amo ha origine molto lontano, l dove si trova Arezzo, attorniata da brulli altopiani. E laggi ai nostri piedi scorre il maggior affluente del Tevere, la Chiana. L si trova il canale che drena le sue sorgenti nella palude che Leonardo voleva prosciugare...

    Lo straordinario esempio di Symonds resta comunque un'eccezione quanto a distacco intellettuale, a controllo di un'immaginazione che non naufraga nel territorio circo-stante, in questa irripetibile mappa tosco-umbra colta voi d'oiseau dalla torre di Montepulciano. Le descrizioni topo-grafiche e ambientali dell'epoca, viceversa, elaborano una artificiosa dilatazione dei margini di ambiguit e di mistero estranei per tradizione a questo genere di paesaggio. La ricorrente predilezione per i momenti crepuscolari dalla luminosit palpabile e indefinita o dall'irreale accensione cromatica degli orizzonti e dei cieli, o per le stagioni inter-medie ove pi varia e mutevole diventa la luce, ha come fine ricorrente quello di attutire la nitida scansione spaziale e di sgranare nell'indefinito - secondo una tecnica gi in parte impiegata dalla categoria del pittoresco - la scena rap-presentata e di moltiplicarne l'elusivit. Una certa ora del giorno, una data luce, una particolare condizione ambienta-le possono creare impensati effetti atmosferici o di satura-zione luministica nei quali avvertiamo, come per prodigio, emergere i segni distintivi del genius loci. Ogni paesaggio agreste o urbano tende a erogare, in particolari condizioni atmosferiche pi che in altre, la propria natura pi vera.

    Non appaia una concessione eccessiva allo psicologismo il dire che un paesaggio, una veduta, una scena urbana pos-sono essere goduti con maggiore intensit in una data ora del giorno o inx una certa condizione meteorologica, poich

  • ci significa cogliere, se non addirittura scoprire, nella satu-razione onnicomprensiva della luce, l'intensit di alcuni suoi tratti caratteristici e inconfondibili. Ricorda infatti Kenneth Clark in uno dei suoi tipici periodi aforistici:

    I fatti diventano arte attraverso l'amore che li unifica e li eleva ad un livello superiore della realt; nel paesaggio questo amore che tutto avvolge espresso dalla luce... Pochi artisti sono stati capaci di questo amore universale che abbraccia ogni ramoscello, ogni pietra, il dettaglio pi insignificante come la prospettiva pi vasta, e che pu essere raggiunto soltanto con profonda umilt.

    Anche in questo, Symonds aveva colto il senso generale del paesaggio toscano e aveva evocato vaghissimi filtri di bruma non per aggiungere ambiguit, ma per attenuare l'eccessivo rigore di un ambiente percepito in termini di assoluta lucidit intellettuale:

    La notte aveva cessato di piovere; il mattino era limpido e l'atmosfera era resa trasparente dalle nubi che s'allontanavano a squadroni disordinati in direzione del mare agitato. Eppure pro-prio questo il tempo nel quale il paesaggio toscano esprime al meglio la propria bellezza. Quelle immense distese di altopiani cinerei e ondulati necessitano della particolare luminosit di un sole offuscato, il colore che assumono le cose all'ombra delle nubi, e della delicatezza perlacea dei vapori esalanti, per privarli di una troppo arcigna severit.

    A oltre mezzo secolo di distanza, nel suo Spirit of Place Lawrence Durrell ha definito il viaggio in relazione al pae-saggio una specie di scienza delle intuizioni. Avrebbero concordato con lui quanti, in questo lasso di tempo, si sono occupati della descrizione dell'anima di citt e di luoghi, da Rudolph Borchardt che sa far parlare il paesaggio e la storia come se fossero l'uno la concrezione dell'altro, a Walter Benjamin che nelle Immagini di citt ritrova un'arcana in-nocenza dello sguardo. E con quella definizione avrebbe concordato il gi citato Joseph Roth intento a cogliere nelle Citt bianche della Provenza l'infanzia dell'Europa. Tut-tavia a partire dall'allusiva vaghezza dei viaggiatori fin de sicle il concetto di spirito del luogo venuto acquisendo

  • anche una propria funzionale determinazione. Con esso oggi s'intende il carattere dominante e unitario attraverso il quale si presenta un luogo, owerossia il genere di rapporto che ha saputo intessere con lo spazio e con il tempo: Quando una citt affascina per il suo carattere distintivo - annota Norberg-Schultz - vuol dire che la maggior parte dei suoi edifici intrattiene un rapporto analogo con il cielo e la terra: ossia essi sembrano esprimere una forma di vita comune, delle affinit nell'essere al mondo; ne nasce un genius loci che consente l'identificazione umana.

    Viaggi di ritorno. Osservava con ironia Gian Carlo Roscioni recensendo La mente del viaggiatore di Eric J . Leed, che quanto pi sprovveduto, tanto pi lontano vuole andare il turista. All'albergo di Maury incontrai una signora americana cos stordita da un'indigestione di viag-gi, scriveva Christopher Isherwood nel 1949, che pareva non sapere nemmeno dove fosse, dove fosse stata o dove dovesse andare... Ben presto avremo una generazione che conoscer i principali aereoporti del mondo e niente altro. L'era del post-turismo ci ha anche insegnato che la sensa-zione di vuoto, di irritazione, di delusione che accompagna i grandi viaggi intercontinentali, invariabilmente caratteriz-zati da generale omogeneizzazione di luoghi, civilt, costu-mi, ha creato nei pi accorti il bisogno di un viaggio di ritorno. Ritorno alle origini, cio, verso il cuore del vec-chio mondo l dove si pu trovare ancora quanto stato disperso o stato dimenticato sulle rotte del turismo globa-le. Un viaggio che in pari tempo riconquista dell'iniziativa e del gusto individuali, e riscoperta dell'agio come unica possibilit di evocare lo spirito del luogo, di partecipare ai pensieri di personaggi sconosciuti, vissuti in mondi e in tempi che non possono essere nemmeno lambiti da quelli in cui viviamo. Si tratta di far propria l'amabile consuetudine del flneur jamesiano, del viaggiatore solitario, ironico e appassionato, e svincolarsi dalla consuetudine del viaggio come ineludibile scadenza e ossessionante rito di consumo. Straordinario viaggiatore sedentario, Sainte-Beuve aveva previsto con largo anticipo la natura coattiva del turismo

  • organizzato: E bene organizzare i viaggi come la guerra, scriveva nei suoi appunti su un viaggio in Italia, e non lasciare un sol giorno di riposo al soldato.

    Giunto a Finisterra do Sul, dove il mondo - il vecchio mondo - prende congedo, Jos Saramago annota: Il viag-gio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narra-zione. Quando il viaggiatore si seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "non c' altro da vedere", sapeva che non era vero. La fine di un viaggio solo l'inizio di un altro. L'inizio di ogni altro viaggio, compreso quello di ritorno, richiede naturalmente il tatto e la discrezione di cui abbiamo a lungo parlato, insieme al gusto della finzione, l'estremo ricatto dell'immaginazione creatrice. Il pensiero corre al modo in cui Durrell coglie lo spirito di uno dei paesaggi pi autenticamente ancestrali per la cultura occi-dentale:

    La maggior parte dei viaggiatori vanno troppo in fretta. Prova solo per un attimo a sedere sulla grande pietra che l'ombelico dell'antico mondo greco, a Delfi. Non porti domande, ma rilassati e sgombra la mente. Questo strano oggetto dalla forma di anfora giace in un campo rigoglioso sopra il tempio. Tutto azzurro e odoroso di salvia. I marmi emettono bagliori gi sotto. Due aquile volteggiano lievi lievi nel cielo, simili a due barche lontane, remiganti sull'immenso mare violetto. Dieci minuti di questa specie di quie-ta, intima identificazione ti dar la nozione del paesaggio quale non riceveresti da un ventennale studio di antichi testi.

    Da un luogo particolarmente legato alla tradizione del-l'homo viator medievale, dall'ospedale di Santa Maria della Scala a Siena che nella sala del Pellegrinaio accoglieva i viandanti della Francigena, ci viene un monito che non riguarda direttamente il viaggiatore appassionato di cui abbiamo delineato il profilo e cercato di recuperare l'iden-tit, bens una pratica turistica nella quale lui stesso coinvol-to e con la quale non pu non dover fare i conti. Si tratta di un monito a tutela del fragilissimo e periclitante paesaggio culturale del vecchio mondo e dell'Italia in particolare con le sue sorprendenti arche di storia. Ce lo d Giancarlo De Carlo

  • nel momento in cui l'imponente complesso del Santa Maria della Scala sta per essere volto in spazio museale e area espositiva. Per il turista, la visita all'antico ospedale diverr ancora pi difficile, dice De Carlo, il quale prosegue:

    Ma io penso che i turisti debbano ricominciare a guadagnarsi le cose che visitano; altrimenti si estingueranno non solo le citt e le cose da visitare, ma la stessa idea di turismo, fino a pochi anni fa associata allo scegliere connaturato con la curiosit e alla fatica connaturata con lo scoprire. L'unica difesa nei confronti di un consumo frenetico e irreparabile delle citt e delle cose da visitare, nel costringere il turismo a scegliere e a faticare.

    Itinerari perduti, itinerari ritrovati. Nelle pagine che seguono il lettore si trover dinnanzi una serie di itinerari e di luoghi che gli ammiccano come altrettanti ineludibili inviti. Si sarebbero potuti rinvenire altri percorsi e altre localit di non minor seduzione. Quelli che sono stati inclu-si rappresentano comunque dei momenti emblematici nella storia della scoperta del nostro paese, ricalcati ora su seg-menti del viaggio in Italia, ora su antiche traiettorie della diplomazia e della mercatura, ora infine sulle zigzaganti galoppate dei primi cavalli meccanici. In quanto momen-ti esemplificativi si avranno quindi percorsi a lungo svilup-po e itinerari assai pi limitati, brevi detour svolti nei dintorni di una citt o nella citt stessa a memoria di antiche e irrecuperate suggestioni. Non poi detto che il ritrovamen-to di un bandolo non dischiuda le porte di altri viaggi e di altri incantamenti. Gli stessi itinerari del fatidico viaggio italiano, congelati in duratura stereotipia fra il X V I I e il X I X secolo, conobbero un radicale mutamento subito dopo l'unit d'Italia, cos che T.A. Trollope pot annotare: Non c' paese che sia stato visitato da un cos alto numero di forestieri come l'Italia; eppure nessun altro paese europeo, neppure la Spagna, rimasto profondamente sconosciuto e negletto in tante sue parti. Agli inizi del nostro secolo Rudolph Borchardt acuiva il paradosso annotando: L'Ita-lia dei nostri avi, da quando le ferrovie l'hanno resa inacces-sibile, diventata, come tutti sanno, uno dei paesi pi sco-nosciuti d'Europa. Alla fine degli anni Cinquanta, Ales-

  • Sandro Parronchi vedeva nell'Autostrada del Sole una gi-gantesca pista ai cui lati non ci sar tempo per intravedere l'inizio di deviazioni possibili. Ancor oggi che si recla-mizzano, seppure in maniera goffa e approssimativa, itine-rari alternativi e centri minori, nulla pu essere dato per scontato. E poi bisogna vedere come si visitano i luoghi, quali guide si scelgono, quali fantasmi si evocano.

  • Capitolo secondo

    Itinerari

    Le foglie di Vallombrosa

    Fa ancora presa sull'immaginario la suggestione degli eremi e dei santuari nascosti fra le pieghe silvestri del-l'Appennino toscano, luoghi di lontana e multiforme sacralit collegati tuttavia da un unico itinerario devozionale che per il turista europeo e americano, e soprattutto per quello britannico, ha avuto da sempre un'eccezionale valenza paesaggistica e naturalistica. Oggi potremmo quindi inserirlo fra i principali percorsi ecologici; e a buon diritto, visto che sin dal XVIII secolo il percorso montano che da Vallombrosa conduce a Camaldoli e quindi alla Verna deve la sua noto-riet all'essere un sentiero verde, tracciato nel cuore delle pi belle foreste dell'Italia centrale, e un'esplorazione silva-na che mantiene al viaggio il gusto dell'avventura.

    Per il viaggiatore la visita a Camaldoli e alla Verna in genere connessa a quella del monastero pi vicino a Firen-ze, che Vallombrosa. Proprio Vallombrosa ha costituito per il viaggiatore di cultura britannica un richiamo intenso e profondo dovuto ai versi che compaiono in uno dei mo-menti cruciali del poema nazionale inglese, il Paradiso per-duto di John Milton, nel quale le nature angeliche appaiono fitte come le foglie di Vallombrosa. Citando quel termine di paragone il viaggiatore rende omaggio alla memoria del giovane Milton che compiva il Grand Tour nel 1638 sostan-do a lungo a Firenze, ove faceva visita a Galileo. Proprio nel corso della sosta fiorentina, Milton aveva avuto modo di effettuare un'escursione a Vallombrosa; lo ricorda ancor oggi una targa commemorativa nella foresteria del monaste-ro benedettino.

    A Vallombrosa, da cui prende avvio il nostro itinerario,

  • si soleva - e naturalmente ancora oggi si suole - giungere da Firenze. La gita a Vallombrosa infatti prevista da tutte le guide fiorentine del Settecento e dell'Ottocento. Da qual-che tempo i viaggiatori cominciano a portarsi nella vallata dell'Arno e ad avvedersi che in Italia ci sono ben altre cose da osservare oltre le citt capitali... Ora piace, come dicesi, pellegrinare a' santuari. Partendo da Firenze si visita per qualche giorno Vallombrosa, indi Camaldoli, poi l'Alvernia, culla dei francescani..., cos annotava il tedesco Theodor Hell nel 1841 , cogliendo un preciso mutamento nei costumi di viaggio, il gusto dell'inedito e di una pi marcata specifi-cit culturale.

    L'itinerario degli eremi era stato comunque gi traccia-to da altri grandtourist, non di rado sospinti dal desiderio di diversificare un percorso troppo rigido ed ossequiente ver-so la consuetudine. Peter Beckford, aristocratico inglese di rara sensibilit topografica, illustra nel 1785 la strada per giungere al convento di S. Giovanni Gualberto. Ci ricorda Beckford che da Firenze si arrivava a Pontassieve con agio, ma che da l in poi era necessario proseguire a cavallo o a dorso di mulo, affidandosi a una guida. Paterno, luogo selvatico come il resto del territorio, la tappa adatta per rifocillarsi e riprendere fiato. Per tutta la strada si resta stupiti dell'aspra grandiosit dello scenario boschivo rotto da rocce, precipizi, cascate e dall'immensa montagna che posa lo sguardo altezzoso su tutto ci che la circonda. Una foresta di castagni immette in un bosco di abeti e alla fine si giunge al convento che si leva su un prato, attorniato dal-l'anfiteatro boschivo.

    Prima di parlare della sacralit e del fascino del luogo e del suo paesaggio, ascoltiamo Frances Trollope, acutissi-ma viaggiatrice, la quale ci rammenta che fin verso la met del secolo scorso il mezzo pi ricorrente per trasportare i visitatori da Pelago o da Paterno - sempre sulla via pro-veniente da Pontassieve - era la treggia, una specie di canestro di vimini fissato su un paio di stanghe che, a mo' di pattini, strusciano per terra, essendo trainate da bovi. La salita al convento si rivelava alquanto lunga e scomoda per il beccheggio impresso alla treggia dal passo solenne

  • dei bovi e per le scosse dovute alla natura accidentata del terreno.

    La nostra guida, Peter Beckford, ci fornisce una veduta d'insieme di Vallobrosa improntata ai canoni dell'estetica settecentesca. Muovendo dal convento e dai prati circo-stanti lo sguardo si porta su boschi e montagne che sembra-no sfidare l'arte in un progressivo, nitidissimo ampliarsi dell'orizzonte. Da qualunque parte si volgano gli occhi, si incontrano vedute che incantano: La natura disegna a per-dita d'occhio, per mezzo degli abeti dalle lunghe rame, il profilo del paesaggio. Grandiose le vedute verso la Verna, Camaldoli e i monti della Romagna. Deliziose si rivelano quelle pi prossime grazie alla variet della valle dell'Arno, di modo che uno scenario selvatico si trova a contrasto con una pi gentile e sfumata fuga prospettica.

    Sono questi gli anni in cui Vallombrosa diventa un luo-go prediletto dai pittori e questa eredit ancor oggi percepibile e si rivela il miglior correttivo ad un senso di struggente malinconia che coglie il viandante occasionale. Nel 1798 un giovane allievo di Valenciennnes, Antoine-Laurent Castellan, riferisce che solo agli artisti era concesso di prolungare il soggiorno a Vallombrosa per motivi di studio. Costoro alloggiavano nelle celle del convento e di buon mattino solevano salire fino all'eremo del Paradisino dalla cui terrazza si gode una vista di eccezionale estensione e bellezza. Nascono in questo periodo le tele atmosferiche di Louis Gauffier, nelle quali il paesaggio geometrico e cristallino, scandito nella tersa quiete dalle losanghe dei prati e della peschiera e racchiuso entro la cupa chiostra delle abetaie, acquista nei primi piani toni amabilmente narrativi con gli scambi d'informazione e gli addii fra i frati e alcuni viaggiatori, probabilmente inglesi, biondi ed ele-ganti nelle giacche scivolate, gli stivali e gli immancabili guanti. Le tele luminose di Gauffier non sono le uniche testimonianze figurative del modo in cui gli stranieri hanno percepito l'abbazia e il suo paesaggio, poich ad esse si aggiungono, quasi negli stessi anni, i disegni di Fabre e quelli di Hackert.

    Di grande interesse poi la colonia di artisti americani

  • che fissano i propri atelier a Vallombrosa nel secondo Otto-cento, dal pittore Thomas Cole, allo scultore William Wetmore Story e al figlio di lui Julian Russell. Proprio a William, fine letterato, dobbiamo la prima guida in inglese del posto, uscita a Edinburgo nel 1881 : Vallombrosa non mite o priva di temperamento: silenziosa, selvaggia, solitaria, appartata, ora gentile, ora furiosa, secondo l'umore della stagione, pronta a corrispondere a ogni sentimento o passione....

    Da questo paesaggio rimase incantata Edith Wharton. Nel primissimo Novecento vi giungeva da Firenze attraver-sando col treno, come lei stessa dice, quello che avrebbe potuto essere uno sfondo delicatamente inciso del Mantegna. Alla stazione di S. Ellero si usava lasciare il treno per affi-darsi a una piccola funicolare il cui motore ansimante, raf-freddato da lunghi rabbocchi d'acqua, spingeva il visitatore a balzelloni su per la collina. Un'annotazione della scrittrice americana, nel corso della salita, lascia trasparire il filtro attraverso cui suole leggere il paesaggio: La campagna si dispiegava sotto di noi con quella precisione impeccabile di dettagli che conferisce agli scenari dell'Italia centrale un curioso aspetto preraffaellita, come se fossero stati disegna-ti da una mano votata alla precisione ma incapace di creare l'effetto generale. Dopo il villaggetto di Saltino con il suo Hotel Milton, si proseguiva a dorso di mulo fino all'ampia conca erbosa dove gli alberi si fermano lasciando spazio al convento e ai suoi edifici.

    Da Vallombrosa a Camaldoli, ieri e in gran parte oggi, l'itinerario diventa un autentico pellegrinaggio naturalistico. Frances Trollope ce ne fornisce una descrizione quanto mai suggestiva, intrisa di toni avventurosi e di rustici diletti, tipici di un vero trekking appenninico. Via via che risale i monti sopra Vallombrosa, la nostra viaggiatrice scopre ve-dute sempre pi ampie, fino a scorgere in lontananza Fi-renze e a discernere il duomo e il campanile!. Poi la morfologia del paesaggio cambia quasi d'improvviso e il cammino prosegue fra rocce e precipizi fino al passo della Consuma, passo al quale il viaggiatore d'oggi giunge con assoluto agio in automobile. Da qui si usava scendere in

  • carrozza fino al paese di Pratovecchio tramite una comoda barrocciabile. Una volta rifocillati, si ripartiva a cavallo verso Camaldoli. L'apparizione del grande complesso conventuale dopo una lunga e faticosa ascesa, viene descrit-ta dalla Trollope in termini di assoluta attualit topografica. Siamo di fronte a un paesaggio analogo a quello di Vallombrosa, dice la nostra guida, ma il contrasto s'annun-cia qui pi repentino. Avvicinandosi infatti a Vallombrosa, l'ultimo tratto di strada si snoda attraverso un fitto bosco ceduo che, per quanto produca un effetto straordinario, non pu essere paragonato al mondo arido di pietre schistose da cui si scende a Camaldoli, n per il contrasto a cui d luogo, n per la subitaneit della metamorfosi:

    Non appena i nostri cavalli lasciarono il fianco scosceso della montagna ci ritrovammo in un'agevole strada che conduceva ai vasti edifici del convento. La cascina con i pascoli ubertosi, il lucente e melodioso ruscello, i noci maestosi e i magnifici boschi nella curva della valle che s'allungava fra gli imponenti Appennini ammantati di foreste, formavano un quadro che mi fece sgranare gli occhi.

    Il grande complesso dei monaci bianchi di S. Romualdo si trova in un anfratto racchiuso dalle montagne e ai suoi piedi scorre un torrente che al tempo dei nostri viaggiatori azionava una segheria. Quanti giungono a Camaldoli so-spinti dall'amore della natura, dalla devozione o dalla sem-plice curiosit, vengono attratti dalla chiesa e dalla spezieria. Agli inizi del nostro secolo, il console inglese a Livorno, Carmicael, ci ha lasciato un'interessante descrizione del Grande Albergo di Camaldoli, quando Camaldoli era una summer resort di respiro cosmopolita, frequentata in estate da diplomatici stranieri e dall'aristocrazia fiorentina e ro-mana. Su in alto, al di sopra del monastero, ad un'ora di cammino attraverso fitte foreste di pini che lo circondano, sorge il romitorio dove gli eremiti camaldolesi vivono in celle separate, ben distinti dai monaci. Cos come appare oggi, l'eremo conta circa venti celle che paiono casine, divi-se l'una dall'altra da vialetti lastricati alla maniera di un villaggio. Ogni cella ha una minuscola cappella e un orato-

  • rio con il suo altare, una stanza con il letto contro la parete, un piccolo corridoio e una legnaia. Accanto a ogni cella c' un appezzamento di terreno utilizzato a giardino e a orto.

    Recarsi da Camaldoli alla Verna significa svolgere sotto gli occhi l'intera mappa del Casentino, la valle chiusa. Essa si presenta al viaggiatore come una conca valliva deli-mitata torno torno dal possente gruppo del Monte Falterona, dal Pratomagno, dall'Alpe di Serra e da quella di Catenaia e dischiusa a sud, verso Arezzo, da una strettoia che lascia libero sfogo all'Arno. In mezzo la conca comprende una piana relativamente stretta alla quale fa da immediato ri-scontro la fascia delle colline sovrastate da alte montagne. sulle une e sulle altre che sono andati ad arenarsi i vascelli della storia: borghi, rocche, conventi, torri, badie. E una bella mappa del Casentino cos domestico ma cos aperto, risentito come un'ossatura e cos poetico, ci viene offerta da Pietro Pancrazi che, in un linguaggio ricco di echi, abi-tato, ne rileva la configurazione generale:

    Quando fummo al valico della Consuma ci s'aperse d'un tratto alla vista tutta la valle del Casentino, dal Falterona al Pratomagno e laggi alla Verna, con davanti il giogo di Camaldoli e il Poggio Scali, e per le coste i fumetti delle carbonaie o delle pievi, e in basso, nella valle ancora in ombra, 0 Solano, l'Archiano e li ruscelletti, che tra i loro pioppi vanno a finire in Arno a spina di pesce, e le case del Borgo alla Collina, di Poppi e Bibbiena, rilevate dall'om-bra in una luce pi chiara.

    Alla chiusura della valle nei confronti delle terre limi-trofe e al senso d'incantata sorpresa che coglie chi in essa s'affaccia, ha contribuito per lunghissimo tempo, insieme alla configurazione naturale della zona, la mancanza di una vera e propria rete viaria. La barrocciabile casentinese, vale a dire una strada percorribile da veicoli da trasporto e da carrozze, viene iniziata solo nel 1786 dalla parte di Pontas-sieve verso la Consuma. Dopo alterne vicende, il suo comple-tamento avviene nel 1818 . A quella data tuttavia si conti-nuava a guadare l'Arno, l'Archiano, il Corsalone che vengo-no scavalcati da ponti solo nel 1840. Percorrere il Casen-tino vuol dire per i suoi scopritori viaggiare in una duplice

  • dimensione, in quella dello spazio e in quella della storia. Il fondovalle sinuoso dell'Arno (oggi deturpato in pi punti da insediamenti industriali e commerciali), la solitaria gibbosit delle colline, l'imponenza di sconfinate giogaie e di annose foreste sono tutte entit intrise di miti che hanno fatto di questo complesso vallivo e montano un crogiuolo di voci, di storie, di leggende. Su tutto domina una sorta di sospensione del tempo. Sulla regione che risponde al nome di Casentino la natura ha sparso i suoi frutti con prodiga mano, offrendo agli amatori d'arte e di storia una sorgente inesauribile di sensazioni dolci e profonde, scriveva un viaggiatore francese agli inizi del secolo. E ci che costi-tuisce l'incanto segreto delle opere d'arte che s'ammirano in Casentino, che non hanno mai abbandonato il luogo dove l'artista volle che fossero. qui pertanto che vorrei condurre il viaggiatore preso dal desiderio dell'incognito e del misterioso.

    Se c' una sensazione dominante che accompagna il viaggiatore in questa zona quella di non sentirsi mai solo. C' sempre qualcuno che gli sussurra all'orecchio: una voce suadente si confonde al fremito del bosco, un'altra all'ac-ciottolo del sentiero; un'altra ancora si perde con l'ultimo refolo di vento. Sono le voci degli eroi, fondatori ed eponimi, protagonisti di una autonoma mitologia: dei grandi della spiritualit, S. Romualdo e S. Francesco, dei membri della turbolenta prosapia dei conti Guidi, degli umanisti della corte medicea, degli artisti, dei falsari, dei barattieri, dei monaci, delle badesse... Non a caso quasi un secolo fa una fine interprete dello spirito del luogo apriva il suo libro sul Casentino rammentando il sorbo di Porciano capace di rimandare l'eco purissima di suoni e di voci. Anche l'occhio resta soggiogato dalla composita bellezza di questi luoghi, come ha insegnato il luminoso Philipp Hackert nel primis-simo Ottocento traendo diletto colmo d'orrore dalle fo-reste casentinesi e dai botri della Verna. Valli e monti han-no cristallizzato la propria mitologia in favolose emergenze, nel Sasso Spicco della Verna e nel Castello d'Orlando di Chiusi, nella Torre de' diavoli di Poppi e negli abetoni di Camaldoli, per non dire del patrimonio di leggende e di

  • novelle ad esse collegate. L'arte e la storia sembrano sboc-ciare dai muri dei paesi e dei cascinali catturando il riguar-dante in una specie di vertigine temporale. E in questi termini che D'Annunzio narra del ritrovamento, nell'estate del 1902 a Certomondo, di una terracotta robbiana che gli provoca un senso di spaesamento epifanico:

    Odo il mio gran cuore: e quasi l'anelito della campagna che si cuoce al sole di settembre in un lento martirio estatico, e il com-pianto eguale delle cicale che si estinguono nella stagione estinta; e l'intermesso favellio del vento fra chiostro e cantina, fra sagrestia e fienaia... E il vento mi porta la voce della mia madre, il mio nome nomato dalla mia madre...

    Oggi con quelle antiche voci altre s'affollano all'orec-chio del viaggiatore. Sono le voci delle voci: parole e frasi di quanti ricordano chi li precedette in anni lontani diffon-dendo l'eco della valle in tutto il mondo. Grazie a questi medium d'eccezione possiamo cogliere pi di un aspetto inedito del fascino di questa valle riproposta in sorprenden-ti inquadrature e prospettive.

    La lunga ascesa al monte della Verna stata descritta dai cultori della leggenda francescana con accenti di appas-sionato misticismo. Al viaggiatore che vi si dirige dal paese di Bibbiena, ricordiamo la sintetica ma efficace scansione vedutistica di Paul Sabatier, il calvinista che nel 1893 scris-se la pi fortunata biografia francescana. Dopo aver illu-strato le coltivazioni attorno alle rive dell'Arno coi gelsi e gli ulivi, trascorre ai declivi pi dolci coi campi di grano interrotti da prati e da boschi di querce e di castagni; pi in alto ancora passa a elencare il pino, l'abete e il larice e infine la nuda roccia. Prosegue Sabatier:

    Fra tutte le cime ce n' una che attira una particolare attenzio-ne. E la Verna. La si direbbe un immenso monolite caduto dal cielo. In effetti si tratta di un masso erratico arenato lass come l'arca di No in vetta all'Ararat. La massa di basalto, tagliata a picco da tutti i lati, culmina in un pianoro di pini e di faggi giganti a cui s'accede da un'unica via.

    rimasto sempre vivo il culto per i romitori nei quali si

  • possono sperimentare i segni conclamati, tangibili del volto primigenio della natura. Essi costituiscono l'altro volto, quello mistico, del culto pagano che le viene tributato per antica tradizione. qui che santi come Francesco fecero la profonda conoscenza dei misteri della natura, delle sue leggi inflessibili, delle sue tentazioni, una natura che inve-stirono di un afflato religioso in quanto manifestazione del Dio. Il bothros, la grotta votiva della grande madre, con tutta la sua carica simbolica e rituale, rivive nella topografia dei romitori medievali come la grotta di S. Francesco e il Sasso spicco della Verna. Sono appunto questi i luoghi che il misticismo estetizzante di un Sabatier o di un Johann Joergensen sent come manifestazione di santit espressa attraverso una natura dal volto ctonio, tellurico, minaccio-samente periclitante.

    In termini non molto differenti aveva descritto la Verna Joseph Forsyth nel primissimo Ottocento, con accenti foscoliani ante litteram e una conclusiva annotazione sul primato dell'arte dal sapore quasi liberatorio nei confronti della suggestione intensa del luogo:

    Qui regna il volto terribile della natura: una montagna roccio-sa, una rovina degli elementi frantumati, dilaniati, ammassati in sublime sconvolgimento; precipizi coronati a sommo da boschi annosi, oscuri, d'incubo; nere fenditure nelle rocce dove la curio-sit rabbrividisce alla sola idea di sporgersi; caverne spiritate cui le croci miracolose conferiscono rinnovata santit; lunghe scale scol-pite nel vivo sasso che ti riportano alla luce del giorno. Questo scenario si trova a disposizione del pennello di Philipp Hackert, il prussiano che il riflusso dell'arte ha condotto dalla terra dei Van-dali a deliziare l'Italia coi suoi paesaggi.

    Nel museo di Essen c' un bel dipinto di Hackert in cui due viaggiatori - un uomo e una donna - escono stralunati, riparandosi gli occhi, dalla grotta di S. Francesco, dopo una misteriosa discesa nelle nere viscere della terra. Cento anni dopo, nel 1912 , un quadro naturale cos terribile non avreb-be dissuaso l'intrepida Edith Wharton dall'ascendere il sa-cro monte in automobile, dalla parte di Pieve S. Stefano. Lo riferisce lei stessa in una lettera a Bernard Berenson:

  • Alle undici di sera stavamo ancora pencolando su vertiginosi precipizi nel cuore degli Appennini, incapaci sia di tornare indie-tro che di andare avanti. Un bifolco scaric l'automobile dei baga-gli che gett alla rinfusa su un carro. Altri suoi compari ci venivano dietro muniti di pietre con le quali rincalzavano le ruote posteriori sulle salite pi ripide. Raggiungemmo il cancello del convento alle undici e mezza e ci volle un'altra mezz'ora per svegliare i frati.

    Il giorno seguente la Wharton sarebbe ripartita facen-do calare l'auto con le funi sul versante opposto, quello del Casentino.

  • La via della divina proporzione

    Pi di un segno testimonia una certa disaffezione nei confronti delle guide tradizionali, professionalmente im-peccabili e sempre pi asettiche. Lo dimostrano, tra gli altri, alcune recenti pubblicazioni turistiche apparse in vari paesi europei e negli Stati Uniti, complici William Weaver e Muriel Spark, nelle quali sembra rivivere un gusto rtro per la saggistica topografica e di viaggio. E come se alla domanda: Dove andare?, o: Come arrivarci?, si rispondesse ci-tando Henry James o Andr Suars, piuttosto che la guida Michelin o quella del Touring Club.

    Al di l del recupero di una gloriosa tradizione turistico letteraria che annovera Goethe e Stendhal, genera non poca sorpresa che in queste pubblicazioni si suggerisca, e non in un solo caso, come itinerario fra i pi raffinati ed esclusivi quello che conduce alla ricerca di Piero. Si ha la sensazio-ne che la sua citt natale, Borgo San Sepolcro, e la sua conca valliva, l'alta valle del Tevere, siano assurte da qualche tem-po a meta privilegiata di un turismo colto e consapevole. Con tutta la loro reticenza e lo scontroso riserbo, lo sono sempre state per motivi di antica data.

    Basta ripercorrere con la mente il sinuoso itinerario che si snoda fra Arezzo, Monterchi, Borgo San Sepolcro, e quindi la Massa Trabaria e l'alto Metauro, per evocare suggestive annotazioni di viaggiatori illustri di ieri e dell'altro ieri sul paesaggio, la topografia1, l'arte; annotazioni attraverso le quali si diffusa l'eco di Borgo San Sepolcro e della sua civilt artistica. Naturalmente l'intensit e la fluttuazione di questa eco legata soprattutto al nome e all'opera di Piero della Francesca e alla sua tarda, ma folgorante riscoperta. Che poi la visitazione delle opere di Piero a fianco dei primi viaggiatori che ne furono attratti, avvenga in maniera contestuale alla scoperta della sua incantevole vallata, rien-tra negli impliciti suggerimenti di un pittore che, unico nella storia dell'arte - e per questo lo prendiamo come referente topografico - ha costantemente messo in scena la propria terra quale icona esemplare dell'umana dimora. Ancora non molti anni fa Leslie Gardiner - fine scrittore

  • scozzese - concludeva la descrizione del primo corso del Tevere osservando:

    Il f iume passava come una collana intorno ai mulini e alle abbazie in rovina e alle collinette gobbe, coronate di bastioni, che sbucavano dal verde del bosco. Erano quelli i miei ricordi; ma forse avevo fatto confusione fra le reminiscenze personali e il Tevere dipinto da Piero della Francesca.

    In effetti il paesaggio naturale e quello topografico della Val Tiberina, riflessi nello specchio delle culture di viaggia-tori lontani, ci vengono riproposti in maniera talmente ine-dita che, anche a chi ne abbia una certa conoscenza, appaio-no familiari ma incredibilmente remoti ad un tempo, ferma-ti in una sorta di immobilit stupefatta. E come se vi si fosse posato per sempre lo sguardo impassibile del suo figlio pre-diletto.

    Non intendiamo con questo parlare soltanto dell'alta valle del Tevere, perch andare in cerca di Piero significa seguirne le orme scrinando oltre l'alpe, oltre la Massa Tra-bara, sino a giungere alla favolosa corte montefeltresca di Urbino ove Piero lavor a lungo e dove oggi si possono ammirare la Flagellazione e la Madonna di Senigallia; o da Urbino prendere viceversa le mosse del cammino inverso, insieme a qualche ambasceria o salmodiante compagnia di pellegrini reduci dalla Santa Casa di Loreto, lungo la valle dell'alto Metauro ombreggiata di roveri possenti e punteg-giata di paesi dall'intatta compagine rinascimentale: Fer-mignano, Urbania (l'antica Castel Durante), Sant'Angelo in Vado, Mercatello, Borgo Pace e di nuovo i contrafforti di Bocca Trabaria... Un itinerario - diciamo subito - ancor oggi relativamente intatto da gustare con gli occhi di Mon-taigne o di un celebre redattore di guide del XVII secolo, il tedesco Furttenbach, che furono fra i primi a descriverlo.

    Ma riprendiamo il nostro itinerario che da Arezzo porta verso Borgo San Sepolcro. Nessun altro viaggiatore forse, al pari Edward Hutton, ha colto il senso di naturale riserbo, di ovattata esclusione che caratterizzano l'alta valle del Tevere rispetto ai grandi tracciati turistici:

  • Se si valicano i monti oltre Arezzo e si viaggia nella nitida bellezza delle colline toscane che hanno qualcosa di non toscano -una morbidezza, un incantamento che si trovano solo in Umbria -e alla fine si giunge nella valle del Tevere, ci si imbatte in una minuscola citt ai piedi del Monte Maggiore dell'Appennino cen-trale...

    Della strada tortuosa che da Arezzo conduce in Val-tiberina parla con gusto topografico Thomas Adolphus Trollope nel 1862. Lo ricordiamo sia perch il suo itinera-rio, con l'indicazione dello svincolo per Monterchi, quello indicato dalle guide americane a cui facevamo sopra riferi-mento, sia perch rimasto ancor oggi sostanzialmente immutato. Trollope lascia Arezzo da una porta urbica che fronteggia direttamente le montagne; dopo aver superato le colline del preappennino ed aver colto una stupenda veduta di Arezzo e dell'alta valle dell'Arno che prosegue oltre la citt, si affaccia su di un nuovo scenario dapprima caratterizzato dalla aridit dei monti e quindi sorpren-dentemente variato: Una brusca discesa ci condusse sulle rive di un fiumicello che s'apriva il corso serpeggiante attra-verso una lunga serie di gole boscose fino al Tevere. Si chiama Cerfone e merita di essere ricordato per l'insieme di rocce, di boschi, di acque e di monti, attraverso i quali la strada svolge il proprio percorso. La strada segue la vallata del Cerfone sino al bivio per Citt di Castello verso cui provvisoriamente ci dirigiamo. Vicino al punto in cui la vallata confluisce in quella pi ampia del Tevere, si leva un cocuzzolo isolato, dalla curiosa ubicazione, che reca a som-mo la cittadina murata di Monterchi. La strada gira attorno al cocuzzolo rasentandone il basamento prima di prosegui-re lungo la valle tiberina, offrendo al viaggiatore una serie di vedute di questo paese collinare assai pittoresco, scorto da inquadrature diverse e con sfondi variati. Vi si trova naturalmente anche un altro e pi importante motivo di sosta che la Madonna del parto di Piero della Francesca, custodita nella cappella del cimitero: il simbolo stesso della vita che germoglia nel luogo della morte.

    Il nostro itinerario ci riconduce al bivio sopracitato sulla via per Borgo San Sepolcro - la citt di Piero - che la

  • nostra pi immediata destinazione. Dell'alta valle del Teve-re nel suo insieme ci offre una splendida veduta a volo d'uccello - colta dal colle di Citerna, sopra Monterchi - lo storico britannico G.M. Trevelyan:

    Quest'ansa del grande fiume, dove esso lascia la culla montana, ha un effetto particolare sull'immaginazione, perch la valle, larga parecchie miglia, attraverso cui scorre, unisce la freschezza alpestre alla ricchezza e alla vastit d'una popolosa campagna... e nella fitta rete di viti che ricopre la pianura corre la linea delle alberete che ombreggiano il corso del Tevere, limpido fiume dai mulinelli azzurri e argentei. Tutto il panorama era visibile dall'antico borgo murato di Citerna, il cui torrione in rovina sormonta un colle rivestito di oliveti e circondato da tre parti da affluenti del Tevere.

    Un tempo si giungeva a Borgo San Sepolcro da Arezzo per una strada diversa da quella indicata dal Trollope. Si tratta di un tracciato anche oggi perfettamente percorribile in rara solitudine, passando per Anghiari. Al Furttenbach Borgo San Sepolcro appariva a distanza, forse da Anghiari stessa, - siamo nel 1607 - in maniera analoga a come l'aveva dipinta Piero sullo sfondo del Battesimo di Cristo e a come la vediamo noi stessi:

    Davanti alla locanda e per tre miglia di cammino, c' una strada dritta e pianeggiante che o f f re una bella prospectiva e per-mette di vedere il Borgo Santo Sepolcro davanti a s, che una citt abbastanza grande con una fortezza su di un'altura la quale, con il territorio fin'ora percorso, appartiene al Granduca di Firenze.

    La singolare immutabilit topografica del centro valtiberino nel suo contesto territoriale perdura sin oltre gli anni Cinquanta del nostro secolo, allorch al viaggiatore che vi giunge dalla piana di Anghiari o dalle pendici dell'Alpe, si presenta in maniera non dissimile da come appare nelle pitture pierfrancescane o in una tavoletta votiva del Museo Civico di Sansepolcro: Una cittadina avvolta dalle mura, posta in una vasta e pianeggiante vallata attorniata dalle colline, per dirla con le parole di Huxley del 1925; Una piccola citt raccolta con i propri tetti rossi e rugosi entro bastioni cadenti come si rivela a H.V. Morton nel 1957.

  • Una lunga stasi topografica a cui contribuisce l'intatto cor-so del Tevere che a Morton risuona ancora gorgogliante fra i sassi nel lungo corso verso Roma, non diverso da come l'aveva scorto Montaigne presso l'omonimo ponte che scavalca acque limpide e belle.

    Della configurazione della citt si suole cogliere i tratti pierfrancescani nella pacatezza delle simmetrie e nella rego-larit della pianta. C' chi elogia i palazzi di bella misura rinascimentale, chi le fughe prospettiche delle strade ani-mate da gibbose colline, chi infine enfatizza il severo riser-bo paesano nel protendersi come granai del duomo e del palazzo delle Laudi.

    Delle opere di Piero che San Sepolcro custodisce, la Re-surrezione, assumendo il linguaggio dell'araldica locale, divenuta lo stemma della citt per la maniera icastica in cui narra una storia messa in atto secoli addietro dal suo appel-lativo. Il collegamento emblematico fra San Sepolcro e la Resurrezione, quali parti integranti di una medesima storia, stato colto dal forestiero consapevole del proprio itinera-rio e dal pi ignaro viandante. Non sorprende allora che testimonianze quasi coeve - per quanto sottese da diversi intendimenti - si riferiscono al Cristo in termini acconci ad una divinit pagana, ad un effettivo genius loci, sia che si tratti del Cristo silvano e quasi bovino che Longhi assimi-la ad un torvo e rustico manente umbro, oppure della grandiosit selvaggia e senz'anima che non si pu non prendere per volont di vivere, di cui parla Albert Camus o all'eroe di Plutarco a cui lo paragona Huxley.

    Per quanto lo si depuri da ogni residuo letterario, il Cristo della Resurrezione non abdica del tutto ad una pro-pria funzione totemica sull'alta valle tiberina, perch quella valle e quel borgo divengono per un attimo, al cospetto del riguardante, metafora del mondo intero. E allora a questa funzione totemica - nonch alla divina proporzione attra-verso cui si esprime il carisma divino - che dobbiamo l'in-condizionata ammirazione, la ridondanza di epiteti che ac-compagnano la storia critica del dipinto.

    La tutela pierfrancescana su San Sepolcro attestata dall'iconografia rituale di altre grandi opere: dalla Ma donna

  • della Misericordia che raccoglie le comunit sotto il proprio manto, alla Madonna del parto della vicina Monterchi, al giovane Ercole che nella sua casa narrava i nuovi miti dell'umanesimo prima che Isabella Stewart Gardner se lo portasse nel Nuovo Mondo. Una tutela simbolica che, nel-l'ottica dello spettatore, non difficile intrawedere anche in una cifra pi segreta nella singolare ricorrenza con cui il Borgo e la valle del Tevere compaiono in vari dipinti di Piero. Da quei fondali emerge con grande freschezza pitto-rica, ma anche con straordinaria lucidit topografica, l'ite-rato profilo della sua cittadina - gli stessi campanili, le stesse porte, le medesime case, la medesima rocca - e con esso la specularit fluviale e la gibbosit collinare e montana del paesaggio della valle del Tevere che racchiude a conca l'antico insediamento di Egidio e di Arcano, i pellegrini fondatori della citt.

    Una citt ed una valle che si proponevano a Piero non come ambientazione del proprio romanzo familiare, bens, innanzi tutto, quale exemplum di serena, ideale topografia classica, luogo emblematico suggerito dalla celeberrima epistola di Plinio il Giovane con il riferimento alla propria villa in Tuscis. La descrizione di Plinio nella lettera a Domizio Apollinare, cos suggestiva nel cogliere l'essenzia-le bellezza del luogo nei termini di un felice atemporale microcosmo, dettava essa stessa la maniera di fingersi in termini pittorici e topografici il contesto ambientale valtiberino:

    Proveresti un grande diletto se riguardassi questa regione dal-l'alto dei colli: ti parrebbe infatti di scorgere non delle terre, ma un quadro dipinto con incredibile maestria; da tanta variet, da cos felice disposizione gli occhi traggono diletto ovunque si posino.

    La valle del Tevere, nella quale Piero ambienta nume-rose scene rituali, un esempio straordinario di sintesi umanistico-cristiana. Il modello umanistico dell'ideale bel-lezza ambientale, dell'anfiteatro vallivo elevato a metafora di microcosmo in s compiuto, si popola di segni che allu-dono ad altre storie. Nella simbologia iconografica il primo

  • corso del Tevere si confonde con quello del Giordano e stabilisce un nesso tipicamente umanistico e premonitorio fra storia pagana e storia cristiana nella sua tessitura valliva di destini diversi e pur sempre complementari. La citt, infine, che compare sullo sfondo dei dipinti - dal battesimo al San Gerolamo, alla Nativit - restituita in una sorta di cristallizzata identit, il simulacro del sepolcro di Cristo e dell'eredit lasciata agli uomini; la cittadina nata per cu-stodirne la memoria ed il nome.

    Fra l'alta valle del Tevere e la valle del Metauro, la Massa Trabaria si presenta come uno spartiacque di note-vole imponenza. Ascesa e discesa sono incantevoli per la va-stit dei panorami che dischiudono, ora sulla valle tiberina umbra e toscana, ora sull'alto corso del Metauro, anche se l'odierno tracciato in parte si discosta da quello percorso da Montaigne o dal Furttenbach il quale scrive:

    Discendemmo quindi il monte, e con gran periglio dovemmo restare in sella, poich a piedi non saremmo stati in grado, con le nostre sole forze, di sollevare le gambe dal fango; talvolta i cavalli perdono i ferri e si ha paura di cadere poich il sentiero in certi punti non pi largo di due piedi e alle falde del monte ci sono acque cos impetuose che, quando piove, impossibile guadare il fiume.

    La strada attuale di Bocca Trabaria - un tracciato na-poleonico ben progettato e tale da non far mai correre effettivi pericoli, secondo il giudizio dello storico d'arte britannico G.P. Konody che vi transitava nel 1910 con una White Steam da trenta cavalli - semmai assimilabile al percorso dei grandi appassionati della storia urbinate, dal Dennistoun dei Memoirs of the Dukes of Urbino, al poeta irlandese W.B. Yeats che vi fantasticava di feudi e di castelli.

    I paesi che lo stesso Piero attraversava per recarsi a Urbino o per tornare a casa dalla corte montefeltresca, e che dopo di lui hanno visitato i suoi primi estimatori e grandi collezionisti americani - basti qui citare le annota-zioni di Dan Fellows Platt, uno dei mecenati del Metropolitan Museum di New York - conservano ancor oggi l'aria incan-tata dei secoli andati. l'atmosfera rarefatta che cogliamo in alcune pagine di Vernon Lee che s'era inerpicata ad

  • Urbino nel 1883 in compagnia di Joseph Pennell - un ame-ricano illustratore di libri di viaggio - rimanendone affasci-nata a tal punto di imbastirvi un racconto di grande interes-se topografico:

    Sant'Angelo, Castel Durante, Mercatello, Fossombrone... nomi di villagg