Atelier. I Luoghi Del Pensiero e Della Creazione - La Repubblica 12.05.2013

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LA DOMENICA 32 DOMENICA 12 MAGGIO 2013 l l l a a a   R R R e e e p p p u u u b b b b b b l l l i i i c c c a a a L’immagine I luoghi della mente fatti di carte e pennelli C’ è un luogo affascinante della mente che ha però una sua concreta topografia, muri e soffitti come i castelli interiori de i mistici seicenteschi, ma con un sovrappiù di stru- menti per trastulli con la fantasia (pennelli, stilografiche, fogli, macchine da scrivere, barattoli colorati, tubetti…) che a quelle algide costruzioni difettavano. È l’atelier, lo studiolo dove il pittore, lo scrittore, il musicista si segregano per dare libero corso alla fantasia, «riflesso speculare dello spazio interno» del suo abitatore, «singolare sinte si fra il fuori e il dentro, fra il mentale e il corporeo». Elisabetta Orsini, frequentatrice dei territori della filoso- fia, ce lo racconta in un bel volumetto (in uscita anche in versione francese:  Atel ier. Lieux de la pensé e e t d e la création, Mimesis France), che è in realtà una raffinata e godibile ricognizione sulle modalità della crea- zione artistica, anzi: sulla maniera in cui alcuni artisti hanno descritto il processo creativo, parlando di se stessi o magari di altri. Il tutto corredato di un ricchissimo corollario iconografico, quasi un libro parallelo, per colmare le nostre curiosità di lettori e le nostre brame voyeuristiche. Nell’ottica dell’autrice, l’atelier non è però solo il luogo fisico del lavoro creativo, «architettura dell’architettare», ma soprattutto un ogget- to dinamico, una successione di modalità e procedime nti che presiedono alla nascita dell’opera, per cui vediamo Balzac che si sveglia a mezzanotte e scrive in tonaca bianca e cappuccio, a ribadire la sacralità che per lui riveste quel gesto. Per Kafka, lo spazio della scrittura — a lungo coincidente con la cameretta dai ge- nitori — è un maniero che bisogna difendere dalle incursioni de i familiari, ma soprattutto dei rumori con cui essi violentano l’aria (a leggere le sue annotazioni, ce l’immaginiamo nel pieno della Quinta strada al- l’ora di punta, e invece vive in un ridente appartamentino d ietro piazza della Città Vecchia). Kafka è un so- litario, scrive nelle ore della notte d opo essersi ripreso dalla giornata lavorativa alle Assicurazioni. Il suo so- gno di studiolo è «il locale più interno d’una cantina vasta e chiusa». Ma quel rituale di silenzio e solitudi- ne, reiteratamente snocciolato alle donne della sua vita, è anche una maniera per impedire che esse colti- vino oltre il desiderio di vi vere con lui, impedendogli quel rapporto a due — in fon do così ben riuscito — con la scrittura. Questo almeno fino a che non appare Dora… Robert Luis Stevenson immaginava invece il suo studio ideale come una grande stanza con cinque ta- voli: uno per la scrittura, uno per i libri di consultazione, uno per le bozze da spedire, uno con le carte geo- GIUSEPPE DIERNA  A telier Kafka lo sognava in fondo a “una cantina vasta e chiusa”, quello di Bacon era “una discari ca”. Mirò aveva un armadio zeppo di pupazzetti e Klee una cassetta piena di simboli fantastici .  E se so pr a la sc ri va nia di Calvino troneggiava il poster di Snoopy, su quella di Gide  st av a ap pe sa la ma sc he ra di Le op ar di . In un libr o  gl i ar ti st i ra ccon ta ti at tra ve rso le pr op rie of fic in e cr ea tiv e Al lavoro 1 2 3 4

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DOMENICA 12 MAGGIO 2013

llaa   RReeppuubbbblliiccaa L’immagine

I luoghi della mentefatti di carte e pennelli

C’è un luogo affascinante della mente che ha però una sua concreta topografia, muri e

soffitti come i castelli interiori dei mistici seicenteschi, ma con un sovrappiù di stru-menti per trastulli con la fantasia (pennelli, stilografiche, fogli, macchine da scrivere,barattoli colorati, tubetti…) che a quelle algide costruzioni difettavano. È l’atelier, lostudiolo dove il pittore, lo scrittore, il musicista si segregano per dare libero corso allafantasia, «riflesso speculare dello spazio interno» del suo abitatore, «singolare sintesi

fra il fuori e il dentro, fra il mentale e il corporeo». Elisabetta Orsini, frequentatrice dei territori della filoso-fia, ce lo racconta in un bel volumetto (in uscita anche in versione francese: Atelier. Lieux de la pensée et de la création, Mimesis France), che è in realtà una raffinata e godibile ricognizione sulle modalità della crea-zione artistica, anzi: sulla maniera in cui alcuni artisti hanno descritto il processo creativo, parlando di sestessi o magari di altri. Il tutto corredato di un ricchissimo corollario iconografico, quasi un libro parallelo,per colmare le nostre curiosità di lettori e le nostre brame voyeuristiche. Nell’ottica dell’autrice, l’ateliernon è però solo il luogo fisico del lavoro creativo, «architettura dell’architettare», ma soprattutto un ogget-to dinamico, una successione di modalità e procedimenti che presiedono alla nascita dell’opera, per cui

vediamo Balzac che si sveglia a mezzanotte e scrive in tonaca bianca e cappuccio, a ribadire la sacralità cheper lui riveste quel gesto. Per Kafka, lo spazio della scrittura — a lungo coincidente con la cameretta dai ge-nitori — è un maniero che bisogna difendere dalle incursioni dei familiari, ma soprattutto dei rumori concui essi violentano l’aria (a leggere le sue annotazioni, ce l’immaginiamo nel pieno della Quinta strada al-l’ora di punta, e invece vive in un ridente appartamentino dietro piazza della Città Vecchia). Kafka è un so-litario, scrive nelle ore della notte dopo essersi ripreso dalla giornata lavorativa alle Assicurazioni. Il suo so-gno di studiolo è «il locale più interno d’una cantina vasta e chiusa». Ma quel rituale di silenzio e solitudi-ne, reiteratamente snocciolato alle donne della sua vita, è anche una maniera per impedire che esse colti-vino oltre il desiderio di vivere con lui, impedendogli quel rapporto a due — in fondo così ben riuscito —con la scrittura. Questo almeno fino a che non appare Dora…

Robert Luis Stevenson immaginava invece il suo studio ideale come una grande stanza con cinque ta-voli: uno per la scrittura, uno per i libri di consultazione, uno per le bozze da spedire, uno con le carte geo-

GIUSEPPE DIERNA 

 Atelier 

Kafka lo sognava in fondo a “una cantinavasta e chiusa”, quello di Bacon

era “una discarica”.Mirò aveva un armadiozeppo di pupazzetti e Klee una cassetta

piena di simboli fantastici. E se sopra la scrivaniadi Calvino troneggiava il poster di Snoopy, su quella di Gide

 stava appesa la maschera di Leopardi. In un libro gli artisti raccontati attraverso le proprie officine creative

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DOMENICA 12 MAGGIO 2013llaa   RReeppuubbbblliiccaa 

grafiche e l’ultimo — geniale accortezza — sempre «tenuto sgombro per l’occorrenza». Perché l’ispirazio-ne non è solo impellente, ma spesso anche tremendamente ingombrante.

Manipolati post mortem, distrutti (come quello di Breton, sminuzzato nelle aste pubbliche) o trasloca-

ti d’ufficio (Bacon), l’atelier è un luogo recintato, isolato e magico. Scrive Mirò: «Entro nel mio atelier e so-no avvinto dal magnetismo… un tubo di colore sta lì per terra e mi attira». Il suo centro geometrico è il ca-valletto, il tavolo, la scrivania ma — essendo questa, a detta di Italo Calvino, «un po’ come un’isola» — infondo «potrebbe essere qui come in un altro paese».

Perché, spiega l’autrice, l’atelier è «l’artista stesso, còlto nell’istante della creazione», per cui SebastianMatta, novello Re Sole, poteva dichiarare: «Lo studio sono io!». L’atelier è allora Chatwin stesso sulla stra-da col taccuino in mano, o «l’immaginaria quercia di Orlando» alla cui ombra — nel romanzo di Virginia Woolf — il protagonista compone il suo poema, mentre lo studiolo di Corot non potrà che essere quel-l’angolo di prato in cui è fotografato, dove sono i ferri del mestiere (scatola dei colori, pennelli, cavalletto eseggiolino) a delimitare e rinominare lo spazio.

Ma, data l’indubbia vicinanza della creazione artistica col gioco, lo studiolo dell’artista è a suo modo an-che una stanza dei giochi, «il luogo appartato e segreto ove tornare a giocare con i loro giocattoli del pen-siero», come sembrano confermare i due Pinocchi che Manganelli tiene in piedi sulla sua scrivania, o l’ar-madio a giorno nello studio di Miró, con ninnoli, pupazzetti, animali fantastici, o certi arredi che attornia-no Paul Klee.

Nel percorso delle immagini si disegnano storie personali, destini d’artista. C’è Gide che lavora sotto al-la maschera mortuaria di Leopardi attaccata alla parete. Sul tavolo di Céline c’è una tazza vuota, una mol-letta per stendere i panni, un pappagallo e un paio di cartelline con dei fogli: il libro lo scrittore lo tiene sul-le ginocchia. C’è Thomas Mann trentenne seduto a una solida scrivania, sullo sfondo una solida bibliote-ca borghese, e dietro alle spalle la porta ben chiusa, mentre Kandinskij se ne sta davanti a uno scaffale pie-no di barattoli dei suoi colori, come un farmacista o un ragazzino che giochi al piccolo chimico. Hemingway è di quelli che scrivono in piedi («quasi imbozzolati in un atteggiamento che non permette abbandono almondo circostante, ma che impone una forma di vigile autocontrollo»), con la portatile poggiata sul ri-

piano della libreria, sotto allo sguardo imbalsamato di un’antilope.L’atelier di Bacon a Londra, una vecchia rimessa ristrutturata, è il regno del caos, e quindi robusta fontedi ispirazione. Quando vi invita i l nuovo compagno, lo avverte di vivere «in una discarica». Esagerava? No.Le foto sembrano dargli ragione: insieme ai pennelli infilati dentro scatole di fagioli e a tappeti di fogli digiornale, s’intravedono mucchi di variegato pattume. Ma solo da quel disordine (che «è forse una buonaimmagine di ciò che succede dentro di me») lui può produrre i suoi quadri, perché «se tutto ciò deve tro-vare un ordine, è sulla tela che questo avviene». Dopo la sua morte l’intero atelier fu smontato e trasferitoin una galleria dublinese. Ogni cosa venne etichettata e impacchettata: soffitti, pareti, porte, e anche la pol-vere che il pittore talvolta utilizzava per sporcare il colore.

 Agli antipodi di tale guazzabuglio, c’è la stanza da lavoro di Calvino nei primi anni a Parigi, dalla linea-rità quasi costruttivista. Una scrivania subissata di fogli e, sulla parete, il poster di Snoopy-scrittore nel pro-prio atelier creativo (il rosso tettuccio della sua cuccia), davanti alla macchina da scrivere, ma ancora fer-mo al suo straordinario incipit: «Era una notte buia e tempestosa». Calvino lo ricorderà, quel poster («unemblema della mia condizione, un ammonimento, una sfida»), in uno dei capitoli finali di Se una notte d’inverno un viaggiatore , romanzo che inizia invece in uno spazio simmetrico rispetto allo studiolo del-l’artista: la stanza del lettore, dove questi — che ha appena comprato l’ultimo libro di Calvino che anchenoi stiamo leggendo — con una ritualità non inferiore a quella dell’autore (silenzio, porta chiusa, atten-zione alla disposizione della luce, quasi fosse un caravaggesco) si appresta a sfogliarlo. Non sarà mica chei due spazi non sono che una doppia variante della stessa scatola sonora nella quale — come scriveva Cal-vino dellaVisione di sant’Agostino di Carpaccio — «si registrano le oscillazioni dei sismografi»?

© RIPRODUZIONE RISERVATA 

IL LIBRO E LE IMMAGINI

Le foto sono tratte da Atelier. I luoghi del pensiero e della creazionedi Elisabetta Orsini (Moretti & Vitali, 308 pagine, 18 euro)1.Lo studiodi Bacon nella vecchia rimessa londinese2.Hemingway in piedicon la portatile sulla libreria3.L’atelier di Morandi nella casa estivadi Grizzana: la natura morta è fotografata da Berengo Gardin4.Paul Klee nel 1924 a Weimar 5.Pasolini nel suo studio-casadi Chia fotografato da Dino Pedriali6.L’atelier di Munch, 19257.Gide al lavoro: appesa alla parete una maschera di Leopardi8.L’armadio di Mirò9.Céline e il pappagallo Toto a Meudon, 1957

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