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rivista di storia contemporanea

aspetti politici, economici, sociali e culturali

del Vercellese, del Biellese e della Valsesia

l’impegno

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporaneanelle province di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”

a. XXIV, nuova serie, n. 1, giugno 2004

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l’impegno

Rivista semestrale di storia contemporanea dell’Istituto per la storia della Resistenzae della società contemporanea nelle province di Biella e VercelliDirettore: Piero AmbrosioSegreteria: Marilena Orso Manzonetta; editing: Raffaella FranzosiDirezione, redazione e amministrazione: via Sesone, 10 - 13011 Borgosesia (Vc). Tel. efax 0163-21564. E-mail: [email protected] al n. 202 del Registro stampa del Tribunale di Vercelli (21 aprile 1981).Responsabile: Piero AmbrosioStampa: Gallo Arti Grafiche, VercelliLa responsabilità degli articoli, saggi, note firmati o siglati è degli autori. Non si re-stituiscono manoscritti, anche se non pubblicati. È consentita la riproduzione di articolio brani di essi solo se ne viene citata la fonte.

Un numero € 7,00; arretrati € 9,00; estero € 9,00; arretrati estero € 10,00Quote di abbonamento (2 numeri): annuale € 14,00; benemerito € 18,00; sostenitore €23,00 o più; annuale per l’estero € 18,00

Gli abbonamenti si intendono per anno solare e sono automaticamente rinnovati se noninterviene disdetta a mezzo lettera raccomandata entro il mese di dicembre; la disdettacomunque non è valida se l’abbonato non è in regola con i pagamenti. Il rifiuto o la re-stituzione dei fascicoli della rivista non costituiscono disdetta di abbonamento a nes-sun effetto.Conto corrente postale n. 10261139, intestato all’Istituto.

Il numero è stato chiuso il 27 maggio 2004. Finito di stampare nel giugno 2004.

In copertina: Roberto Curoso, Omaggio alla Resistenza, dal volume Arte e Resistenza,Biella, Sandro Maria Rosso, 1993.

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea

nelle province di Biella e Vercelli

L’Istituto ha lo scopo di raccogliere, ordinare e custodire la documentazione di ognigenere riguardante il movimento antifascista, partigiano, operaio e contadino nelleprovince di Biella e Vercelli, di agevolarne la consultazione, di promuovere gli studistorici e, in generale, la conoscenza del movimento stesso, anche con l’organizzazionedi convegni, conferenze e con ogni altra iniziativa conforme ai suoi fini istituzionali.L’Istituto è associato all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazionein Italia, in conformità dell’art. 3 L. 16 gennaio 1967, n. 3.

Presidente onorario: Elvo Tempia ValentaConsiglio direttivo: Gianni Mentigazzi (presidente), Luciano Castaldi, Marcello Vauda-no (vicepresidenti), Piero Ambrosio, Mauro Borri Brunetto, Antonino Filiberti, LuigiMalinverni, Luigi Moranino, Enrico Pagano, Angela Regis, Sandro ZegnaRevisori dei conti: Piergiorgio Bocci, Teresio PareglioComitato scientifico: Gustavo Buratti Zanchi, Pierangelo Cavanna, Emilio Jona, Alber-to Lovatto, Marco Neiretti, Pietro Scarduelli, Andrea Sormano, Edoardo Tortarolo,Maurizio VaudagnaDirettore: Piero Ambrosio

Sito Internet: http://www.storia900bivc.it

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presentazione

l’impegno 3

In questo numero

Nedo Bocchio mostra la realtà di un mon-

do in rapido e drammatico mutamento, nel

quale gli Stati Uniti - come la guerra in Iraq

rende evidente - stanno vivendo una pro-

fonda crisi che, originatasi dal vuoto di po-

tere determinato dal crollo dell’equilibrio

fondato sui due blocchi contrapposti, ma-

tura nell’incapacità di accettare l’impossi-

bilità di porsi quale superpotenza unica, alla

luce dell’affacciarsi sulla scena mondiale di

un soggetto politico significativo, anche se

ancora in fieri, quale l’Unione europea.

Maria Ferragatta e Orazio Paggi prose-

guono nella loro analisi dei film che, dagli

anni settanta ad oggi, hanno cercato di rac-

contare la Resistenza, ora con sobrietà e rea-

lismo, ora in maniera fortemente simbolica

ed ideologica, per giungere infine alle opere

qualificate come “resistenti” che, recupe-

rando lo spirito e i valori della lotta partigia-

na, riscoprono l’importanza dell’impegno

civile.

Federico Caneparo continua la sua rifles-

sione sulla posizione assunta dal Pcd’I nei

confronti della situazione internazionale nei

primi anni venti, soffermandosi sul II Con-

gresso del partito e sullo scontro tra le tesi

intransigenti di Bordiga, decisamente con-

trario a qualsiasi alleanza con le forze social-

democratiche, viste come espressione ulti-

ma della reazione, e le posizioni minoritarie

di quanti, in accordo con l’Internazionale

comunista, sostenevano la necessità di a-

dottare la politica del fronte unico, per rag-

giungere l’obiettivo di un governo operaio.

Maurizia Palestro si concentra nuovamen-

te sulle condizioni di vita e di lavoro dei ve-

neti emigrati nelle valli biellesi, mostrando,

attraverso le testimonianze, il clima di osti-

lità che si trovarono ad affrontare, le diffi-

coltà di inserimento nelle fabbriche, la fati-

ca di adattarsi a mentalità e modelli culturali

differenti e i legami che mantennero con la

regione di provenienza.

Cristina Merlo, prendendo in esame le

vicende esemplari di cinque famiglie ebree

vercellesi nel periodo che va dal 1943 al do-

poguerra, aggiunge un altro significativo

tassello alla ricostruzione della vita e degli

eventi di cui fu protagonista la piccola Co-

munità ebraica di Vercelli negli anni di guer-

ra, segnati tragicamente dall’arrivo dei tede-

schi e dalle persecuzioni che ne derivarono.

Bruno Ziglioli, in questa seconda parte

del saggio dedicato ai Cln in Valsesia, af-

fronta il problema dell’appartenenza provin-

ciale della Valsesia che, passata durante la

Resistenza da Vercelli a Novara, con l’impe-

gno di ripristinare lo stato di cose preceden-

te a guerra finita, all’indomani della Libera-

zione si trova ad affrontare le difficoltà am-

ministrative connesse ad una ambigua di-

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presentazione

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stinzione di competenza tra le due province.

Marilena Vittone e Alessandra Cesare in-

dividuano alcuni “sentieri della libertà” nel-

l’area compresa tra basso Vercellese e Mon-

ferrato, teatro di significativi eventi durante

il periodo resistenziale e zona ricca di in-

teresse dal punto di vista naturalistico.

Segue il resoconto del convegno “Guerra

e mass media 2. Da Desert Storm a Enduring

Freedom”, organizzato dall’Istituto lo scor-

so dicembre, che ha riflettuto sull’estrema-

mente delicato rapporto tra i conflitti bellici

e i mezzi di informazione, spesso in tali cir-

costanze sottoposti a censura da parte del

potere politico e da esso utilizzati a fini pro-

pagandistici.

Chiudono questo numero il ricordo di An-

gelo Togna, recentemente scomparso, e la

consueta rubrica di recensioni e segnalazio-

ni.

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attualità

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NEDO BOCCHIO

La caduta di una grande potenza mondiale

Stiamo assistendo al tramonto di un’epoca e non ce ne accorgiamo

Questo articolo non è quello che avreb-be dovuto essere, e il fatto che non lo sia èresponsabilità attribuibile al mondo, nonall’autore. Gli articoli d’analisi soffrono avolte d’afasia e sono più esposti ai ventiquotidiani di quanto non siano disposti adammettere. Si vantano di non essere soggettialla tirannia dell’attualità quotidiana, non-dimeno possiedono certe debolezze di na-tura strutturale. In origine, l’intento era diesaminare un semestre di accadimenti nellacostruzione dell’Unione europea. Un perio-do denso di fatti, di colpi di scena e di rove-sciamenti di prospettive.

Alla metà dello scorso dicembre, mentreil semestre di presidenza italiana volgeva altermine, la Conferenza intergovernativa(Cig) avrebbe dovuto approvare la bozza diCarta costituzionale europea. Passo ritenu-to indispensabile e propedeutico a un’Unio-ne che dal 1 maggio sarebbe divenuta uninsieme di venticinque paesi. Ma il semestree la Conferenza, anziché varare un documen-to di grande responsabilità e valenza prepa-ratoria, hanno reso palese lo scontro pro-fondo che da tempo è in atto fra i venticin-que paesi e l’esistenza di almeno tre frontiche intrecciano in vario modo membri anzia-ni e membri entranti. In due mesi abbiamoassistito al rinvio della Carta costituzionale;alla crisi del Consiglio europeo; alla crisi deicriteri regolatori di Maastricht; al palesarsi

di distanze sempre maggiori tra parlamen-to, Commissione e Consiglio; all’avvio divertici tra Francia, Gran Bretagna e Germa-nia che di fatto cortocircuitano le istituzio-ni dell’Unione.

Ancora non si erano depositate le paroledi questi fatti, che il terribile attacco terrori-stico di Madrid ha provveduto a buttare inaria la fragile tregua intervenuta tra gli an-tagonisti, sia riguardo alle vicende costitu-zionali europee sia rispetto allo schieramen-to atlantista e alla sua prima implicazione: laguerra in Iraq. In poche ore, la polvere del-l’attentato ha ricoperto di una pesante col-tre la rispettabilità del governo presiedutoda José Maria Aznar, marcandone a rilievola fisionomia manipolatoria e seppellendo latanto decantata transizione spagnola. Ab-biamo visto affossare il Partito popolare; da-re al Partito socialista una vittoria irrealizza-bile perfino in sogno; rendere indispensa-bili alla maggioranza parlamentare i partitidelle autonomie regionali; e azzerare, appe-na approvato dalle Cortes il nuovo gover-no di José Luis Rodriguez Zapatero, la co-siddetta coalizione della “Nuova Europa”,gruppo di entità statuali variamente assor-tite e tuttavia bastante per sabotare la co-struzione europea e per fornire appoggioacritico alle avventure statunitensi.

Se a questi tratti europei aggiungiamol’andamento dell’economia mondiale e il ro-

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Nedo Bocchio

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vesciamento delle certezze statunitensi, apartire dall’occupazione irachena, ne ricavia-mo un quadro complesso e caotico, densodi crisi e di sviluppi squilibranti.

Un articolo d’analisi - è questa la sua de-bolezza strutturale - si regge a sua volta sulleanalisi e sulle prese di posizione, che signifi-cano ragionamenti di un certo respiro, daparte di personale politico qualificato. Inquesti mesi si è accumulata una quantità im-pressionante di materiale cronachisticomentre si sono rarefatte, se non scomparsedel tutto, le analisi e le prese di posizione conossa robuste; non destinate dunque a peri-re in due giorni sotto l’urto degli avveni-menti. Sugli scaffali giacciono pile di fogli astampa, giornali, riviste, libri. La progressio-ne in altezza è diventata preoccupante. Im-possibile sulla base della cronaca, vale adire del racconto sequenziale dei fatti, ab-bracciare il presente e dare a esso una qual-che forma ricostitutiva della realtà. Così, inattesa di poter prendere le misure agli av-venimenti, non resta che prenderne le distan-ze, sostituendo al dialogo tra le posizioni laforma del ragionamento tra sé e sé; formacerto meno oggettiva, tuttavia necessaria,in certi momenti, per mettere un poco d’ordi-ne a barlumi d’idee e abbozzi di pensamenti.

D’altra parte le linee sono ogni giorno piùmobili e ogni mattina ti svegli trovando unconfine che si è spostato rispetto alla realtàche hai lasciato la sera prima di coricarti. Gliavvenimenti politici stanno subendo un’ac-celerazione straordinaria. Non ce ne rendia-mo conto e non sentiamo la spinta che l’in-visibile motore del mutamento scarica sullenostre inafferrabili storie quotidiane. L’uo-mo occidentale non è un buon analista delpresente e, per quanto ne so, l’uomo orien-tale lo è ancora di meno. Noi siamo in gene-re testimoni inconsapevoli degli avveni-menti e comunque bisognosi di un certolasso di tempo per rivedere e ripensare ciò

che abbiamo vissuto. L’uomo occidentalevede gli avvenimenti del presente con glistessi occhi che hanno visto gli avvenimen-ti passati; e forse, davanti ai fatti dell’oggi,tale condizionamento si presenta in formaancora più accentuata.

L’epoca dalla quale usciamo, l’epoca chesi è chiusa quindici anni orsono, nel 1989, èstata caratterizzata da eventi distanziati neltempo e da un decorso che si svolgeva apasso lento. Mi rendo conto, naturalmente,che davanti a una tavola cronologica taleaffermazione possa essere ritenuta discuti-bile, perfino sbagliata; non credo tuttaviache il senso comune - diciamo il senso co-mune delle persone mediamente informateo, per dirla in termini paludati, delle classidirigenti - abbia dell’epoca un’idea di gran-di e veloci cambiamenti. Se abbracciamo conun solo sguardo gli anni che vanno dal 1945al 1989 - quarantaquattro anni, in praticamezzo secolo senza ragguaglio possibile almezzo secolo precedente - ne cogliamo fa-cilmente la grande lentezza, se non addirit-tura l’immobilismo.

Nei quarantaquattro anni del mondo spar-tito in sfere d’influenza, dell’epoca domina-ta dai blocchi in capo a Usa e Urss, periodiz-ziamo una serie di eventi grandiosi e dram-matici; tuttavia, ora che quindici anni si sonoinframmezzati ridandoci la distanza neces-saria, possiamo affermarlo con qualche cer-tezza: nessuno di quegli eventi aveva po-sto minimamente in forse l’equilibrio politi-co del mondo.

Il concerto - o il condominio, com’è statoanche chiamato in modo forse più proprio -tra le due potenze dominanti, esercitato informe diverse e via via transitato dal con-flitto freddo alla competizione scientifica etecnica fino all’accettazione finale che por-tò alla riduzione dell’armamento nucleare, harappresentato la cifra di quest’epoca. Un’in-tesa sostanziale, basata sulla consapevolez-

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za che se la guerra aveva prodotto la lique-fazione definitiva dell’antico equilibrio trale potenze europee, già ampiamente scon-quassato dal conflitto del 1914-1918, il do-poguerra non avrebbe potuto manifestarealtro spirito che la rigida conservazione dellostato di fatto acquisito al chiudersi delle osti-lità. Sono le nuove forme in cui si esercita ildominio territoriale, più che la carta geogra-fica sulla quale è disegnata la nuova Euro-pa, la vera novità prodotta dal conflitto. Il“sipario di ferro” steso tra le due zone nonne è che la conseguenza logica e indica fisi-camente, avendo azzerato ogni possibileleggerezza politica e dunque diplomatica, illimes del proprio dominio - quel limes cheper un certo periodo le due potenze, e unacerto più dell’altra, s’illudono possa esseretrattato come son propre finage.

Non sembri fuori luogo, per guardare aglieventi di oggi, ripartire da un’epoca chesentiamo remota, e che lo è, in effetti. Se sipensa alla sequenza del 1989-1991, la cadu-ta del “sipario di ferro” - non “cortina”, ma“sipario” - e l’ineluttabile crollo dell’UnioneSovietica, ci rendiamo conto di quanto per-cepiamo distanti dei fatti, che peraltro fon-dano il nostro presente, successi appenaquindici anni fa: vale a dire, il nostro passa-to prossimo. È questo senso acuito della di-stanza temporale che dovrebbe mettercisull’avviso circa la velocità con la quale sistanno presentando, svolgendo e consu-mando gli avvenimenti.

È passato un solo anno da che si credevao si faceva mostra di credere che le guerresi possano concludere contando i giorni oal massimo le settimane. Già nei mesi chehanno preceduto la guerra in Iraq, e più an-cora nei successivi, era palese un senso diaccresciuta velocità, salvo che questa acce-lerazione la si era voluta riferire al singoloavvenimento. Era stata interpretata qualeaccelerazione dell’evento guerra: una pro-

prietà, accanto a molte altre, attribuita al-l’imparagonabile superiorità tecnica statu-nitense. La velocità di penetrazione e i tem-pi di occupazione del territorio iracheno era-no stati descritti quale manifestazione di unaforza che troverebbe i propri limiti nei solifattori organizzativi interni, nella resistenzameccanica dei mezzi e nella resistenza fisicae psichica degli uomini. Le stesse perdite invite umane, si era notato, erano state di pocosuperiori agli incidenti mortali che media-mente vengono conteggiati nel corso dellemanovre annuali. Insomma, incidenti sullavoro. È per questa ragione che, messe inquesto modo le cose, dovevano essere con-siderate di tipo accidentale anche le perditesubite dai militari del Regno Unito. Un acci-dente che nella colorita imprecazione delcomandante britannico suonava: “Fate ces-sare il fuoco a quei cowboy impazziti”.

Incuranti di un avvertimento ben più stra-tegico - o filosofico, se si preferisce - delsemplice maledire degli invasati che sparan-do a casaccio su tutto ciò che si muove tistanno uccidendo gli uomini, gli apologetidell’incommensurabile forza statunitensehanno continuato a presentarci quali mira-bolanti realizzazioni della scienza e della tec-nica prototipi di macchine belliche, in generevolanti, e di protezioni e di protesi con cuiequipaggiare i combattenti, figure ormai ex-tra terrene, realizzazioni bioniche. Il sugge-rimento è manifesto e vuole presentare co-me realizzato il dominio della scienza e dellatecnica. Da questa parte, dice il messaggio,il futuro sta incorporando definitivamentepassato e presente. A questo futuro non cisono alternative possibili. Noi abbiamochiuso la storia.

Come sempre, la realtà è impietosa: bus-sa alla porta e in termini crudi annuncia cheil nostro vecchio e caro mondo è cambiato.Il vecchio caro mondo degli statunitensi, edi tutti coloro che credono all’eternità della

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superpotenza unica, è rappresentato essen-zialmente da un arsenale militare immenso eipertecnologico. La guerra in Iraq, ma a vo-ler essere svegli i segni si sono manifestatia partire dai bombardamenti di Belgrado, nel1999, sta mostrando che la loro forza milita-re, eccedente di molte volte la reazione chepuò trovarsi a dover fronteggiare in qualsia-si parte del mondo, risponde agli stessi cri-teri che presiedevano al confronto atomicotra le due ex superpotenze in condominio,quando i due blocchi avrebbero potuto an-nientarsi reciprocamente molte volte. Lecannoniere volanti e i bombardieri invisibilisono, senza dubbio, macchine efficientissi-me e nondimeno inutili in guerre di guerri-glia in ambiti popolati.

A partire dal loro debutto nella secondaguerra mondiale, gli Stati Uniti hanno avu-to il dominio in campo aeronavale, ma nonla preminenza nelle forze di terra. La guerrain Iraq ha definitivamente dimostrato che laforza militare statunitense ha nell’esercitoil suo tallone d’Achille, e ha confermato chetale gap è elemento costitutivo della poten-za statunitense. Arsenale immenso e tecno-logia esasperata dovrebbero servire al ri-sparmio di uomini. Ma se risparmiare uomi-ni sta alla base di ogni filosofia militare, lasuperpotenza unica è dominata dal terroredi sacrificare uomini. La capacità di accet-tare il “sacrificio di sangue”, fattore primonella possibilità di allestire difesa e offesa,non risulta essere nelle disponibilità degliStati Uniti d’America.

È però interessante notare come le due exsuperpotenze, agli antipodi nel sapere ac-cettare il “sacrificio”, abbiano finito per con-vergere nella comune visione di una guerracombattuta da macchine. Una dimensionevirtuale della guerra, dove il soldato, tecni-co al servizio delle tecnologie, è sposses-sato della sua dimensione di uomo e ridot-to al rango di macchina.

Proprio in Iraq è emerso come le filosofiee le dottrine militari che sostanziano la stra-tegia e la tattica degli Stati Uniti e della GranBretagna siano radicalmente diverse e in-compatibili. Cura dell’uomo, educazione,formazione, addestramento e decentramen-to del comando da parte britannica; grandimasse in movimento, ipertecnologia, centra-lizzazione assoluta del comando perfino alivello di piccole operazioni tattiche da partestatunitense. Quello americano è ancorasempre lo schema impiegato nella secondaguerra mondiale: artiglieria di grosso cali-bro, bordate a volontà, massiccio dispiega-mento di mezzi blindati. Di fronte alla forzaasimmetrica mobile ed evanescente dell’av-versario, l’esercito statunitense risulta schiac-ciato dal peso e dal volume del suo stessoapparato. A chi abbia saputo snebbiarsi lavista dalle mitizzazioni delle grandi masse,la potenza statunitense si sta svelando intutta la sua impotenza.

A un anno dalla proclamata cessazione deicombattimenti, i cronisti parlano di “StatiUniti impantanati” ed evocano, con similemetafora, il fantasma della guerra vietnami-ta e l’umiliante uscita dal conflitto simboleg-giata dallo sgombero di militari e civili da unaSaigon prossima a essere conquistata daicarri di Hanoi. Ma è una metafora apparente,poiché l’analogia che propone è infondata.Non di pantano si dovrebbe parlare, ma disabbia che, penetrando per ogni dove, grip-pa gli organi in movimento. L’impantana-mento limita i movimenti, li imprigiona; lapolvere di sabbia acceca, rende difficolto-so il respiro, lima i denti. Se all’immaginariodegli statunitensi si presentasse quest’al-tra metafora, non potrebbero che ricavarnela preveggenza della fine. Inimmaginabileche una superpotenza possa mantenere ilproprio rango di unica e solitaria con caninie molari ridotti alla radice.

Sembra molto strano che risulti complica-

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to comprendere come gli Stati Uniti abbia-no potuto uscire dal Vietnam umiliati, e an-che traumatizzati, eppure non sconfitti; ecome nella situazione odierna possano ri-solvere la propria presenza in Iraq non umi-liati, ma sconfitti e aborriti.

La differenza rispetto agli anni sessantae settanta è che allora c’era l’altro condomi-no. Era proprio il mondo spartito tra due su-perpotenze, e dunque immodificabile, a ren-dere non concreta, immateriale la sconfittadegli Stati Uniti. In Vietnam si replicava ciòche già era successo in Corea: la superpo-tenza americana al tavolo da gioco militareperdeva molto, ma nell’amministrazione dicondominio il gioco risultava a somma zero.Il ripiano della perdita era questione inter-na alla proprietà condominiale occidentale.Questione politica e ovvio costo politicosono cosa interna al blocco occidentale.

In modo non dissimile sono giudicabili leavventure dell’Unione Sovietica, Afgani-stan compreso. È l’avventura afgana cheabbatte il blocco orientale e la superpoten-za sovietica? Certo che no. Così come il casovietnamita si scarica e si compensa all’in-terno degli Stati Uniti e tra questi e le socie-tà politiche del blocco, il caso afgano si sca-rica e si compensa nel proprio blocco. L’Urssperò - e questa è la differenza rispetto agliStati Uniti - non ha più tempo davanti a séper recuperare la perdita al gioco; questo,tuttavia, l’Unione Sovietica non poteva sa-perlo.

La regola aurea valevole nell’epoca deiblocchi è: equilibrio mondiale immutabileuguale a cambiamenti politici statuali impos-sibili. Finché qualcosa capita. E non è unmutamento d’equilibrio avvenuto sul cam-po. Non misurano, i due contendenti, unaforza sconfitta e una forza vincente. In modomisterioso, il blocco orientale collassa e lasua forza in capo, l’Urss, si affloscia comesvuotata di ogni energia. È collasso econo-

mico oppure politico? Entrambe le cose. Tut-tavia, quale ne sia la causa non lo potremocapire se non abbandonando le spiegazio-ni fattuali, che non spiegano nulla, ed er-gendoci nell’iperuranio della metapolitica.

Ora, l’autentico confronto tra le due su-perpotenze mondiali è avvenuto attorno aquel tema chiamato “sviluppo della scienzae della tecnica”, che ha rappresentato il leit

motiv del secolo XX e la sua ossessione pa-ranoica e del quale la corsa allo spazio neha rappresentato l’aspetto delirante.

Funzionarie del dominio della scienza edella tecnica, le due superpotenze hanno mi-surato le rispettive metodologie nel servireil feticcio. La metodologia sovietica si è sem-plicemente rivelata rigida e antiquata, inca-pace di comprendere la natura dei cicli - eco-nomici, demografici, sociali - e di controllarli;cioè di manipolarne gli andamenti naturali espontanei in conformità agli imperativi delsecolo industriale. La critica spietata mos-sa dagli economisti della scuola di von Mi-ses, vale a dire il fondatore della teoria eco-nomica liberista - e non già, come ci si po-trebbe attendere, dai teorici di opposta par-rocchia - agli “ingegneri sociali” dell’econo-mia statunitense, gli “ingegneri della Fed”,i “manipolatori criminali”, permette di com-prendere l’esatta natura di ciò che va inte-so per “servire la tecnica”.

Secondo i teorici vonmisiani, le manipo-lazioni del ciclo prodotte da mister Green-span e soci - solo ultime in ordine di tempodi una serie storica iniziata con la grandedepressione - tendono al crollo dell’econo-mia mondiale. Ridurre praticamente a zero ilcosto del denaro per drogare il consumo,spingendo le famiglie all’indebitamento percomprare ciò che altrimenti non comprereb-bero, è per l’appunto un esempio di “mani-polazione criminale”. Manipolazione cheistituisce un ciclo completamente fasullodove l’indebitamento personale si raddop-

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Nedo Bocchio

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pia nel doppio indebitamento dello Stato(corrente e commerciale), nella creazione didenaro (dollari) fasullo, nello scambio diquesto denaro con merce buona. Scenariocatastrofico la cui tranquilla recita è sottogli occhi di tutti. Recita che due economistiamericani, Bill Bonner e Addison Wiggin,riassumono con una battuta efficace e digrande spettacolo: “Gli americani hanno lapresunzione di diventare ricchi comprandocose che non si possono permettere. I cine-si credono di arricchirsi vendendo cose agente che non è in grado di pagarle. Entram-bi si stanno mettendo nei guai”. Battuta chegli europei dovrebbero correggere in: “Cistanno mettendo nei guai”.

Allucinazioni apocalittiche? Non c’è cheda stare a vedere. Chi vivrà vedrà.

C’è tuttavia un altro grandioso spettaco-lo che ci sta passando dinanzi agli occhi. Percoglierlo dobbiamo spostare lo sguardo dal-l’economia, sulla quale siamo focalizzati, aifattori più generali di potenza. È una rappre-sentazione alla quale poche volte nella sto-ria si ha il privilegio di assistere. La rappre-sentazione della caduta di una grande po-tenza mondiale è qualcosa che assume l’an-damento romanticamente maestoso di ungrande concerto. Quello che noi vediamorappresentato giorno dopo giorno è lo svol-gersi della crisi di potenza degli Stati Unitid’America. Una crisi di tutti i suoi fattori: mi-litare, industriale, finanziaria. E ciò che stasuccedendo in Iraq ne è la pura manifesta-zione sensibile. Certo, è crollata l’UnioneSovietica, ma l’Unione Sovietica non ha mairaggiunto la potenza statunitense e non èmai divenuta una grande potenza industria-le. Al termine della seconda guerra mondia-le, quando Usa e Urss assumono l’egemo-

nia dei rispettivi blocchi, la condizione e lastoria dei due stati non avrebbe potuto esse-re immaginata più diversa.

Di fronte al colosso industriale transatlan-tico, già da cinquant’anni assoluta potenzamondiale in grado di produrre e di venderela metà di tutti i beni in circolazione sul pia-neta, dimorava un impero dal territorio scon-finato e con popolazione largamente anal-fabeta. All’improvviso, la potenza dall’im-menso territorio e dall’immensa miseria - trale due guerre, l’Urss poteva contare su unaproduzione industriale superiore dell’1,4 percento all’Italia, inferiore del 2,4 per cento allaFrancia, della metà rispetto al Regno Unitoe di un terzo della Germania - si trova a spar-tire il mondo con la potenza espressa daltrionfo dell’era industriale, la cui ricchezza,in quel 1945, è semplicemente immensa.

Se l’Unione Sovietica siede alla pari al ta-volo della spartizione, è grazie a tredici mi-lioni di morti, un carnaio di proporzioni gi-gantesche, sacrificati per la difesa della pro-pria terra e per la conquista di mezza Europa.Al termine del conflitto, e prima che le sto-rie siano accomodate ai soliti fini propagan-distici, i grandi sanno che la vincitrice dellearmate germaniche e della guerra sul conti-nente europeo è la potenza dall’immensoterritorio.

Come spesso capita, a tanta diversità nelfarsi delle storie individuali corrisponde unastretta affinità caratteriale. Venivano alla ri-balta mondiale e ne prendevano il coman-do due potenze autistiche1, intimamente la-cerate tra isolazionismo e espansionismo.Giovane e dominata da spiriti animali l’una;antica e votata al culto del nichilismo l’al-tra. Due attori agitati da demoni che sapran-no tenere sotto controllo per conservare ciò

1 Uso questo termine nell’accezione corrente di pensiero o percezione regolata dai desi-deri e bisogni personali piuttosto che dalla realtà oggettiva.

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che la storia e la sorte ha dato loro in ammi-nistrazione.

La solitudine in cui si è trovata la super-potenza unica ha ridestato i demoni. I de-moni non sanno e non possono stare soli oforse sono demoni proprio perché pretendo-no di contrapporsi sempre e comunque adaltri demoni. Forse è per questa ragione chelo stesso concetto di superpotenza unicamondiale è un nonsenso logico. La poten-za si definisce misurandone la reazione a unapotenza contrapposta. È vitale per una po-tenza avere di fronte a sé un’altra potenza.Il progetto d’integrazione europea, conce-pito, nato e cresciuto come progetto funzio-nale e perciò stesso inesistente sul pianodell’autonomia politica, si trova ad assolve-re, contro la propria natura, contro la pro-pria volontà, al ruolo di potenza continenta-le. Il vuoto non si confà alla politica. Quan-do si crea un vuoto qualche forza primor-diale vorrà colmarlo. È così che gli antichis-simi demoni di Europa si stanno risveglian-do. Sono molto intorpiditi, ma dovranno ne-cessariamente destarsi.

Questo, naturalmente, è il mio sentimentoed è il modo in cui so e voglio guardare alpresente, e dunque cedo volentieri il campodi fronte al rimescolamento di parole che inquesti giorni, celebrando l’allargamento aventicinque dell’Unione europea, ci raccon-ta come essa sia una costruzione politicauscita da chissà quale disegno strategico.Non c’è stato e non c’è mai stato alcun dise-gno strategico. L’Unione europea a venti-cinque non è la conseguenza di una strate-gia e non è l’approdo di un progetto politi-co. È un’idea casuale dei primi anni novan-ta contemporanea di un paio d’altre ideealtrettanto casuali (l’unificazione tedesca el’euro); idee dettate da reazioni istintive del-le élites politiche; scatenate dal corso peresse imprevisto e imprevedibile degli avve-nimenti; sollecitate da culture personali e di

ambiente; culture che affondavano le pro-prie radici in un humus prebellico e dalle nonrassicuranti ideologie tardo ottocentesche.Due personaggi soprattutto dominarono lascena: Helmut Kohl e François Mitterrand,personaggi tanto fortunati in vita e nelle lo-ro azioni, quanto privi di qualsivoglia pro-spettiva strategica, interamente dominati daltrionfo del proprio essere e apparire. Nelvuoto di pensiero, di prospettiva e di stra-tegia degli anni novanta, è nata casualmentel’Unione europea che dovrebbe essere po-tenza, ma che non sa come e perché e so-prattutto non vuole esserlo.

Intendiamoci, dal caso possono nasceregrandi soggetti politici. Anzi, è sicuro chein assenza del concorso benefico del casoo della sorte o del fato, chiamiamolo comevogliamo, i grandi e i piccoli disegni politiciresteranno disegni. Bisognerà tuttavia stu-diare al di fuori di ogni ideologismo qualisiano state le spinte e quali interessi geopo-litici abbiano indotto gli Stati Uniti d’Ame-rica, alla fine del secondo conflitto, a mette-re in campo gli aiuti per lo sviluppo e l’im-pianto di cooperazione e integrazione, dopoaver vagheggiato per l’Europa un futuroesclusivamente rurale. Uno schema, appres-so a un conflitto, replicato in ogni dove; eancora oggi il tentativo in corso in Iraq nonè che l’ennesima copia del vecchio schemaapplicato alla Germania, al Giappone, ai seidell’Europa, e oggi riproposto nel “Piano peril Grande Medio Oriente”.

Siamo a un passaggio cruciale. Ci trovia-mo di fronte allo sconvolgimento degli even-ti, una sorta di ribellione sotterranea all’or-dine. È il ripresentarsi di un’altra potenzasullo scenario occupato dall’unica superpo-tenza mondiale che sollecita e produce lamoltiplicazione degli eventi. Non è il casodi smerciare ciò che ancora non c’è. L’Unio-ne europea è una potenza in fieri e non sap-piamo se mai si risolverà a essere una poten-

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Nedo Bocchio

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za reale. Cionondimeno, il conflitto è di giàscoppiato, e benché si tratti di una tensionemolto controllata, esso è meno rituale diquanto lo fosse, un tempo, tra le due ex su-perpotenze in condominio.

Il conflitto da rituale diveniva spietatosoltanto all’interno del proprio campo, nel-la propria pertinenza condominiale. È persi-no banale ricordare le rivolte di Berlino, Poz-nam, dell’Ungheria, della Cecoslovacchia,di Danzica e poi della Polonia. È meno ba-nale ricordare il conflitto che diede agli Sta-ti Uniti il controllo definitivo del proprioblocco, nello stesso momento in cui l’Urssvi era accreditata dell’autorità di diritto e difatto a massacrare gli ungheresi. Questoconflitto si chiama crisi di Suez.

Di fatto, le due parti di mondo in capo alledue superpotenze non sono mai diventateson propre finage, i loro propri spazi ammi-nistrativi. Non è privo di interesse, soprat-tutto oggi che si pretende d’inventare sudue piedi nuove potenze mondiali, notarecome un dominio ferreo, indiscutibile e irre-versibile, sia stato esercitato dalle due su-perpotenze solo nella vecchia Europa e a undecennio dalla fine della guerra. Questo èun particolare che non si vuole ricordare: ilpieno dominio, le due potenze lo ottengo-no solo a partire dal 1956, con la crisi di Suez,chiudendo all’angolo con manovra combi-nata Francia e Regno Unito, le potenze re-sidue del vecchio equilibrio mondiale. È qui,sul canale che mette in comunicazione MarMediterraneo e Oceano Indiano, che in cin-que mesi si gioca il monopoli mondiale. An-cora, in quel frangente si presentavano dueopzioni possibili: due soli padroni oppureun equilibrio articolato su due grandi poten-

ze e due medie potenze in grado di contem-perare le formidabili spinte al cambiamento.

Agitando l’imperativo ideologico dellosmantellamento coloniale, Usa e Urss fron-teggiano Francia, Regno Unito, Israele.

Certo, a rileggerla ai giorni nostri quellacrisi rivela da parte di Francia e Regno Unitoun’ingenuità sorprendente. Le due mediepotenze, ancora debolmente coloniali, cre-dono di poter reagire alla violazione, da partedell’Egitto di Gamal Abdel Nasser, dei tratta-ti internazionali e del compromesso firmatoappena due anni prima, con l’uso diretto del-la forza. Credono di poter contare, nel con-tenimento dell’espansionismo nazionalisti-co nasseriano, sul tacito assenso degli Sta-ti Uniti e sul non-intervento dell’Urss.

Non s’erano ancora accorti, i due governi,che la distruzione del diritto internazionaleaveva prodotto decenni di significativi casie che l’ultima istanza di cui potevano preoc-cuparsi le due superpotenze era proprio ilrispetto del diritto internazionale. Per riaf-fermare e garantire il diritto alla navigazione(tra l’altro, Nasser aveva vietato il transitoalle navi di Israele, divieto che cadrà solonel 1979), intervengono occupando i portiprincipali del canale. A quel punto la reazio-ne.

Mentre i sovietici minacciano brutalmen-te Gran Bretagna e Francia2, gli americaniscatenano una furiosa speculazione sullalira sterlina in tutte le borse mondiali. Inpochi giorni la resistenza dello scacchiere èpiegata; il ministro Harold Mac Millan rife-rirà in parlamento che la difesa della sterli-na è costata 279 milioni di dollari, “il 15 percento del totale delle nostre riserve”.

Il Regno Unito, che non s’era ancora ri-

2 “Ci sono paesi - scrive il maresciallo Nikolaj Bulganin, primo ministro dell’Urss, al pre-sidente del Consiglio francese Guy Mollet e al primo ministro britannico Anthony Eden, il5 novembre 1956 - che non hanno bisogno d’inviare delle forze navali o aeree sulle costedella Gran Bretagna, ma possono utilizzare altri mezzi, come dei missili”.

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preso economicamente dalla guerra, impe-dito nell’uso del canale per i trasporti di pe-trolio e i commerci con l’Asia (gli egiziani,affondando del naviglio, bloccano il canaleper alcuni anni), sollecitato alla collabora-zione atlantica da un prestito americano diun miliardo di dollari, cede, si allinea, abban-dona gli ultimi scampoli di impero e si inven-ta, da allora, il ruolo di fedele amico degliStati Uniti.

Quanto alla Francia, la crisi di Suez (sonoi francesi a subire il maggiore danno imme-diato, essendo i primi azionisti della Com-pagnia del Canale) si aggiunge a una seriedi incontri, chiamiamoli eufemisticamentenon fortunati, con la superpotenza america-na. Al momento, i deboli governi della quartarepubblica non osano nemmeno recrimina-re. Due anni dopo, con il ritorno alla politi-ca di Charles De Gaulle, la sconfitta di Suezsarà allineata al rifiuto americano, avvenu-to due anni prima, di prestare aiuto alle trup-pe francesi assediate e poi massacrate aDien Bien Phu, e agli aiuti e alle esortazionialla lotta - così affermano i francesi - che gliemissari statunitensi non hanno mai fattomancare ai movimenti anticoloniali di Alge-ria, Tunisia e Marocco.

Se la vicenda di Suez farà della Gran Bre-tagna l’alleato più stretto degli Usa, nei fran-cesi ristabilirà uno storico sentimento di av-versione e diffidenza verso l’alleato d’oltre-oceano. Con De Gaulle e la quinta repubbli-ca, il sentimento si sostanzierà in storia stu-diata nelle accademie militari e nelle Gran-des Écoles, dunque patrimonio delle élites,a partire da un fondamentale, quanto misco-nosciuto fuori della Francia, primo atto del1942, quando due colpi di revolver e una fu-cilazione “spiegarono” agli americani sbar-cati in Nord Africa che la Resistenza fran-cese non aveva una buona opinione dell’am-miraglio François Darlan e di Pierre Pucheu,due voltagabbana che dal governo di Vichy

erano passati al servizio dei nuovi potenti.“Spiegazione” che, un poco più avanti, val-se a togliere di mezzo anche il generale HenriGiraud, nazionalista “franciste” ma non “vi-chyste”, uomo di Roosevelt e sostituto diDarlan nel ruolo di governatore pro-ameri-cano del Nord Africa e per alcuni mesi co-presidente del Comitato di liberazione na-zionale accanto a De Gaulle.

Israele, privato della possibilità di transi-tare nel canale e nel golfo di Akaba per at-traccare a Eilat, dichiarato da Nasser nemi-co da sterminare, ne trarrà la conclusione chela propria sopravvivenza dipende soltantodalla propria supremazia militare nell’area.

L’Egitto di Nasser ne uscirà indiscussovincitore, padrone del canale che aprirà echiuderà alla navigazione a suo piacimen-to, potere d’arbitrio che gli sarà garantitodall’ala protettrice sovietica, benché l’ideo-logia nazionalista panaraba fosse mortalenemica dell’ideologia internazionalista. Loproveranno sulla loro pelle i comunisti egi-ziani, incarcerati e posti fuori legge; ma lemosse della superpotenza sovietica - cosìcome l’omologa occidentale che sulla que-stione del canale manifesterà un interessatodisinteresse - non sono certo determinatedalla protezione dell’ideologia. Nella crisi diSuez, ciò che andavano cercando era il rim-piazzo, in ogni luogo in cui ancora avesse-ro un ruolo, delle due potenze ormai debol-mente coloniali e tuttavia ancora esistenti.

È in un mondo rimesso in moto dal con-flitto che l’Unione europea è divenuta, sa-bato 1 maggio, un’istituzione composta daventicinque paesi membri. Bisogna brinda-re, cercando di afferrare qualche brandellodi spirito europeo. Il quarto movimento dellasinfonia n. 9 di Ludwig van Beethoven, , unbrano del quale, l’“Inno alla gioia”, è l’innoeuropeo; la sinfonia n. 3 “Renana” di RobertSchumann; “Má vlast”, ciclo di sei poemisinfonici di Bedrich Smetana; il “Concerto

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per violoncello e orchestra in si minore” diAntonin Dvorák: se uno spirito europeo esi-ste, è indubbiamente nella musica che essosi è depositato. Brindare mentre si ascolta-no brani che più di altri rimandano a culturee a fondamenti comuni, e incrociare le dita.

Questa alla quale si brinda non è l’Euro-pa e nessuno dovrebbe confondere un con-tinente, un’area geografica chiamata Euro-pa, con un’entità di tipo più o meno statua-le. Dovremmo vietarci di confondere e scam-biare, come se le due cose fossero tutt’uno,l’Unione europea, o domani chissà quale al-tra costruzione, con l’Europa. Dovremmoimporcelo come imperativo di non caderenella malattia totalitaria nazionalistica, pe-nosamente ottocentesca, che fa della peni-sola italiana “la Repubblica italiana” e poinientemeno che “l’Italia”; e di quel territo-rio che va dal Reno ai Pirenei ne fa “la Répu-

blique française” e poi “la France”, conquel profondo arrotamento di gola di “er-a-

en” che faceva del generale Charles de Gaul-le una Marianne con baffi alta due metri edalle inequivocabili, e peraltro brutte, carat-teristiche maschili.

E così via per ogni terra che fin dall’anti-chità abbia avuto la ventura di vedersi ap-pioppato un nome. Che poi è successo - co-me in effetti è successo alla Polonia e allaGermania, all’Austria, all’Ungheria, alla Ro-mania, alla Grecia, alla Jugoslavia, alla Sviz-zera, alla stessa Francia e all’Italia e a tuttoquanto ha un nome in questo continenteeuropeo - che il territorio sotto la giurisdi-zione statuale sia cambiato, ed è successoche lo Stato abbia fatto trasloco, e questonon ha significato niente e le terre che primanon avevano mai avuto quel nome sono sta-te rinominate, come se da sempre avesseroportato quel nome. La Polonia si è spostatain qua e in là nel corso dei secoli e ancoraalla fine della seconda guerra mondiale. Chesia una giurisdizione, cioè il finage, che de-

nota la Repubblica polacca è sicuro. Ma chele terre ora sotto la giurisdizione della Re-pubblica polacca e un tempo sotto altra giu-risdizione; e che questo andare una voltadi qua e un’altra di là, un po’ in su e un altropo’ in giù sia, tutto questo, “la Polonia”, nonè solo logicamente incomprensibile, è pro-fondamente stupido, e giacché la storia è lìa dimostrarcelo, fonte di innumerevoli guai.

“Vyšehrad” s’intitola il primo poema di“Má vlast”, “La mia patria”. Vyšehrad è unarupe sulla quale un tempo si ergeva - forse- la mitica rocca dell’altrettanto mitico prin-cipe Premysl che regnava con la principes-sa Libuše sulla Boemia. Leggende, dunque.Sulla rupe vi è ora, ed è realtà, il cimitero na-zionale di Praga, dove hanno trovato sepol-tura i grandi della patria boema. BedrichSmetana vi è lì sepolto e onorato. Lo sguar-do, dall’alto di Vyšehrad, corre libero sullacittà, sui suoi colli, la montagna bianca, ilcastello. Ai piedi di Vyšehrad scorre la Vlta-va, la Moldava, titolo del secondo poemadel ciclo. Dall’alto di Vyšehrad lo sguardocorre libero sulla storia; la storia d’Europa.

Nelle narrazioni mitiche che costruisconole idee di nazione, probabilmente non vi è,in misura tanto conscia quanto nelle narra-zioni boeme, la consapevolezza che si trat-ta, appunto, di leggende; e che si tratta, conquelle narrazioni, di dare base fantastica auna creazione tanto reale, concreta e perva-siva quant’è uno Stato, tuttavia camuffan-dola come nazione. Perché, il bello è questo:ciò che sappiamo esistere nel concreto lochiamiamo Stato, ma ciò che non esiste senon nel mito e nella fantasia lo chiamiamonazione. È esattamente per questo motivoche lo Stato sarà pur soffocante, ma ci ga-rantisce; mentre la nazione, dolce raccontofantastico, ci ammazza. Nessuno chiameràalla guerra in nome dello Stato; ma è nel sa-cro nome della nazione, entità inesistente,che si compie il sacrificio.

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Quelle terre che stanno attorno a Praga eche si chiamano Boemia, e quelle a Est, chia-mate Moravia, attualmente sono giurisdizio-ne della Repubblica ceca. La grande fortu-na della Repubblica ceca è di non possede-re un nome che la identifichi. Anche se ca-pita di leggere una bruttura quale Cechia,questo è un nome e una cosa che non esi-ste e le terre che compongono la Repubbli-ca non possono che essere chiamate Boe-mia e Moravia, il nome delle antiche provin-ce dell’Impero austro-ungarico.

Nel costruire o nell’allargare - secondo illinguaggio che si pretende neutro e nient’af-fatto politico - l’Unione europea, bisogne-rà sempre far correre il nostro sguardo sulleterre di quelle due antiche province. Tuttele storie europee hanno avuto lì il loro de-butto. D’altra parte, è quello il centro d’Eu-ropa. Qualcuno vuole che sia Roma la cittàdove si firmerà - se mai si firmerà - la Cartacostituzionale. Altri vorrebbero che fosseMadrid, in omaggio alla terribile prova sop-portata con l’attentato terroristico di mar-zo. Ma quando ripercorreremo le storie cheil caso o il fato o chissà quale dio ha volutoche iniziassero nella provincia boema, e inPraga, capitale dell’impero degli imperi e deiregni e dei principati, hanno trovato il loropunto d’approdo, si capirà perché una giu-risdizione che si chiama Unione europea nonpuò che avere in Praga la sua capitale.

Bisognerà ricominciare a costruire narra-zioni. Nemici giurati del concetto stesso dinazione, dovremo saper riprendere miti eleggende per fondare il vivere comune, matuttavia contro la nazione. Per questo Praga,che è stata capitale virtuale di un impero al-trettanto virtuale, è già di per sé un mito. L’u-nica forma nella quale ci riesce di pensare

un’Unione europea che riesca a esercitareuna giurisdizione sulle terre europee è laforma dell’impero: un impero che per ora cirimanda a quella costruzione informe cheincoronava i suoi imperatori a Praga, si chia-mava pomposamente Sacro romano impero,non aveva nulla di sacro e meno ancora diromano, non imperava affatto e i suoi fina-

ges, e perfino i suoi limites, erano estrema-mente fluidi.

Bisognerà tornare a far correre per le ter-re d’Europa il toro con la giovane in groppa,per avere la fantasia e il coraggio di un’im-presa che al momento ci appare tanto lonta-na da ogni concreta possibilità. Bisognerà,per esempio, sconfiggere grandi e piccolinazionalisti. Certo, anche i piccoli, insignifi-canti eppure reali e boriosi. Al momento, nelcastello che fu dell’imperatore risiede VaclavKlaus, presidente della Repubblica ceca. Ilgiorno precedente all’allargamento, giornod’entrata nell’Unione anche del suo paese,il presidente si è recato in piazza San Vence-slao per presentare ai giornalisti un suo li-bro contro l’integrazione europea e per re-criminare contro quello che chiama “un car-rozzone burocratico e sovranazionale”.

A chi gli ha ricordato che comunque, es-sendo il presidente, non avrebbe potuto esi-mersi dall’esporre la bandiera blu stellata,serafico ha risposto: “Non credo proprioche esista una bandiera della Ue al castel-lo”. In quello stesso istante, ci possiamoscommettere, il toro che porta in groppa lagiovane Europa era lanciato al galoppo lun-go le rive della Vltava, nella vallata in cui sieleva la collina del castello. Che strane sto-rie contorte. È proprio per questo che Pra-ga è la capitale dell’impero.

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PAOLO CEOLA

Il Labirinto

Saggi sulla guerra contemporanea

Napoli, Liguori, 2002, pp. X-384, € 20,00

Il Novecento ha visto convivere forme primitive di violenza con nuovi esperimentidi ingegneria sociale e con spettacolari progressi nel settore della tecnologia belli-ca. Tutto questo ha comportato un’accentuazione del carattere labirintico della guer-ra, nella quale si intersecano, in un groviglio inestricabile, aspetti sociali, psicologi-ci, tecnici e strategici. È proprio sulla complessa matassa di tali fattori che il volume,suddiviso in saggi, si concentra, partendo dalla prima guerra mondiale per arrivarefino ai recenti attentati terroristici.Il primo saggio vuole essere un panorama a grandi linee della storia delle guerre delNovecento, alla ricerca di costanti ed elementi di novità rispetto al passato: i con-flitti mondiali, la guerra fredda, l’evoluzione tumultuosa della tecnologia militare. Ilsecondo e il terzo saggio cercano di illustrare la situazione atomica nei suoi carat-teri essenziali e nella sua evoluzione, dalla dissuasione nucleare classica alle “guer-re stellari”, dalla proliferazione nucleare ai tentativi di disarmo e di controllo dellearmi nucleari. Il quarto e il quinto contributo si occupano rispettivamente di guerrachimica-biologica e di guerriglia; il sesto saggio, dedicato al militarismo, cerca diavvicinare il lettore agli aspetti più oscuri della professione militare. “Scenari”, ilsettimo saggio, contiene riflessioni su conflitti o prospettive politiche di stretta con-temporaneità, dalla fine della guerra fredda al Kosovo, dal Vietnam alla guerra delGolfo. Vi sono trattate anche le tematiche del diritto e delle istituzioni internazionalie della cosiddetta “guerra umanitaria”, che tante polemiche continua a suscitarenell’opinione pubblica. Infine l’appendice è dedicata all’analisi di alcuni film parti-colarmente significativi per la conoscenza della guerra. Conclude l’opera una vastabibliografia comprendente molte decine di volumi, articoli su riviste e contributi re-periti nella rete Internet.Il volume - un viaggio lucido e appassionato nella guerra contemporanea - ha l’obiet-tivo di fornire un’analisi scientificamente corretta, in un linguaggio accessibile alpubblico medio, nella convinzione che proprio il lettore non addetto ai lavori mainteressato e curioso abbia diritto a un’informazione lontana dalle semplificazionispesso interessate di tanta pubblicistica corrente.

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saggi

l’impegno 17

Se la vicinanza cronologica alla guerrarende film come “Roma città aperta” e “Pai-sà” più “veri”, consentendo di riprodurre ilsentimento di quei momenti, anche a scapi-to di una impostazione rigorosamente criti-ca, man mano che ci si allontana temporal-mente vien meno la spontaneità di quelleprime opere, lasciando il posto ad una visio-ne che, se pur storicamente accettabile, re-sta però meno convincente.

Indubbiamente è difficile saper coniuga-re cinema (inteso come arte e tecnica) e pa-

thos come nella lezione rosselliniana. Ce lodimostra Ken Loach quando decide di af-frontare un avvenimento per molti versi si-mile a quello della Resistenza italiana, laguerra civile di Spagna, in “Terra e libertà”(1995).

Coerente con la sua estetica, Loach giraun film politico, di impostazione marxista,completamente dentro la storia e non più im-merso nella realtà contemporanea a lui tan-to cara. Il superstrato ideologico finisce pe-rò per semplificare la problematicità dell’av-venimento, che a sua volta è trasfigurato inun exemplum di lotta di classe. L’approcciodel regista inglese alla guerra civile spagno-la (sembra strano a dirsi, trattandosi di un

cineasta che ha mostrato nella logica anali-tica una delle sue doti migliori) è apparente-mente di tipo romantico, nostalgico per il ’36e per la sua carica messianica rimasta incom-piuta. Ma Loach non si ferma solo alle ra-gioni del cuore. “Chi scrive la storia control-la il presente” - ha più volte dichiarato al-l’uscita del film1. Ecco allora la vera lezionedi “Terra e libertà”: recuperare l’esperienzadel passato per credere di poter cambiare (inmeglio) il corso delle cose. Non a caso il re-gista insiste su una forte poetica dell’entu-siasmo che supera le sofferenze, i lutti, le dif-ficoltà, e che porta a credere che le speran-ze un giorno si realizzeranno.

Loach finisce per perdersi in una visionestorica esteriormente ingenua che gli impe-disce di affrontare criticamente l’avveni-mento, al punto che nel film gli unici momen-ti analitici sono le immagini documentaristi-che di repertorio sulla guerra civile di Spa-gna, le lettere, le fotografie e gli stralci di gior-nale ritrovati dalla nipote tra le cose di Da-vid Carne dopo la sua morte, che servono arecuperare il sentimento della memoria. Unaingenuità comunque voluta, se il protago-nista in una lettera alla fidanzata Kitty giun-ge a scrivere: “Se qui avessimo vinto avrem-

MARIA FERRAGATTA - ORAZIO PAGGI

Dal cinema resistenziale al cinema resistente

Miti e poetiche filmiche dal dopoguerra a oggi

II parte

1 EMANUELA MARTINI, “Chi scrive la storia controlla il presente”, in “Cineforum”, n. 348,ottobre 1995, p. 50.

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Maria Ferragatta - Orazio Paggi

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mo cambiato il mondo”. È questo il nodofondamentale per Loach: cambiare il mon-do ora per non rendere inutili le lotte del pas-sato. Ma l’efficacia della sua rappresenta-zione questa volta risulta forzata, troppo vo-lutamente di parte.

Al contrario, secondo due cineasti radi-cali come Jean Marie Straub e Danièle Huil-let, solo attraverso la tecnica dello strania-mento (intesa come non coinvolgimento del-lo spettatore nell’intreccio narrativo) e il re-cupero totale dell’immagine si può riprodur-re la Storia nella sua intatta verità.

In “Fortini/Cani” (1976) riprendono conlunghi piani sequenza le Alpi Apuane con ipaesi di Marzabotto, Bergiola, San Leonar-do, senza nessun commento ai fatti del set-tembre 1944. Una voce fuori campo si limitaa ricordare che questi comuni hanno rifiu-tato di accordare la grazia a Reder, colpevo-le dei massacri avvenuti su questi monti. Ciòche conta sono il paesaggio e la macchinada presa che diventano testimoni silenziosidel passaggio della Storia: quelle montagne,quelle valli, quei villaggi hanno visto corre-re il sangue, hanno assistito ai combatti-menti, hanno direttamente conosciuto il do-lore e ora la mdp li filma, riproducendo inte-riormente la loro esperienza.

Odorano più di Resistenza queste imma-gini che non quelle di molti altri film che stra-volgono la realtà in obbedienza al plot nar-rativo. La narrazione, invece, deve essereannullata perché altrimenti rischia di divo-rare le immagini, sostengono Straub e Huil-let. Così, per porre al centro della loro visio-ne estetica l’imago come momento epifani-co, tutto viene sottratto, non solo l’intrec-cio, ma anche il sonoro. Non vi è infatti nes-sun commento musicale (che finirebbe peralterare la necessaria astrazione dello spet-tatore) nella panoramica delle Alpi Apuane,si sentono unicamente i suoni in sottofon-do, il cinguettare degli uccelli, le voci uma-

ne in lontananza, il rintocco delle campane.In questo modo la forma spaziale diventatempo, inglobando contemporaneamentepassato e presente, consentendo di supe-rare la distanza dall’eccidio e dalla lotta par-tigiana del ’44 e di penetrare totalmente nellarealtà di quegli anni.

Straub e Huillet ritornano a parlare di Re-sistenza nel 1978 con il film “Dalla nube allaResistenza”. Se nel precedente “Fortini/Ca-ni” l’intellettuale toscano Franco Fortini erail nume tutelare, qui lo è invece Cesare Pave-se. La prima parte infatti si basa sui “Dialo-ghi con Leucò”, mentre la seconda è una tra-sposizione fedele e al tempo stesso persona-le de “La luna e i falò”. Apparentemente citroviamo di fronte all’epos pavesiano, congli dei che discorrono tra loro o con Nutoche racconta la guerra partigiana a cui hapartecipato, come se ci fosse un invisibilefilo conduttore tra i due testi e il film. In re-altà ancora una volta Straub e Huillet stra-volgono la narrazione attraverso l’utilizzodel mezzo cinematografico, rifiutandosi difilmare l’orrore, in quanto non vi sono imma-gini che possono descriverlo nella sua es-senza. Esse vengono sostituite dallo scher-mo buio e dai silenzi, simboliche metaforedella crudeltà della guerra. Il paesaggio delleLanghe, come quello delle Alpi Apuane, dalmomento che ha visto, diventa il vero prota-gonista, il testimone di ciò che è successo,che nessuna parola, di per sé limitativa, po-trà mai raccontare o definire.

Rispetto a “Fortini/Cani”, “Dalla nube allaResistenza” risulta opera più politica nellasua critica al potere, sia che esso sia rappre-sentato dagli dei sia dai padroni, in entram-bi i casi sistemi gerarchici fondati sull’ingiu-stizia, che ricordano quelli di “Salò o le 120giornate di Sodoma” di Pasolini, di fronte aiquali è necessario che l’uomo si rivolti. Que-sto è dunque il messaggio dei due cineasti:resistere sempre contro ogni forma di pote-

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Dal cinema resistenziale al cinema resistente

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re, in quanto la Resistenza del ’43-45 non èuna parentesi storica conclusa, ma devecontinuare contro i piccoli e grandi imperia-lismi dell’oggi, per giungere all’affermazio-ne di una libertà vera. In tal modo il loro cine-ma diventa esteticamente e stilisticamenteresistenziale in opposizione al formalismocorrente e conformista.

L’idea del “resistere” è infine proposta in“Sicilia!” (1999), trasposizione cinematogra-fica di “Conversazione in Sicilia” di Vittori-ni, dove, dietro la semplicità del viaggio ini-ziatico del protagonista nella sua terra d’ori-gine, culminante nell’incontro con la madre,si delinea con fermezza la denuncia dell’op-pressione e della sofferenza a cui è sottopo-sto l’uomo e contro le quali è vitale opporsi.Con un procedimento filmico mai documen-taristico e una recitazione straniata, Straube Huillet innalzano così il concetto di resi-stenza a livello universale, estendendolo atutta l’umanità.

Il 1976 non è solo l’anno di “Fortini/Cani”,ma anche di “Novecento” di Bernardo Ber-tolucci. Più che parlare di Resistenza il filmconcentra l’attenzione sulla lotta di classe,sull’avvento del fascismo, sull’opposizionesocialista-comunista, attraverso il raccontodelle vicende di due famiglie della pianuraemiliana, una padronale, i ricchi Berlinghie-ri, l’altra contadina, i Dalcò. Anche se nonsembrerebbe centrale, la lotta di liberazio-ne, a ben guardare, assume risvolti simboli-ci che a poco a poco diventano fondamen-tali nella dialettica ideologica di quest’opera.

Nella prima sequenza dell’“Atto I”, am-bientata il 25 aprile 1945, vediamo un parti-giano che, canticchiando, torna a casa feli-ce. La guerra è terminata, i tedeschi sonostati sconfitti, nulla lascia presagire un’im-minente tragedia. Invece, all’improvviso, daalcuni cespugli sbuca un fascista che conun mitragliatore falcia di netto il giovane.Metaforicamente Bertolucci dichiara che la

Resistenza non è terminata, che non ha por-tato al riscatto sociale tanto sognato dal po-polo, che si deve ancora lottare. In questomodo attualizza politicamente la lotta parti-giana: nel 1976, con il Pci ai suoi massimistorici, la realizzazione della vittoria comu-nista poteva essere finalmente possibile.Credendo in questo, Bertolucci con “Nove-cento” contesta, nemmeno tanto velatamen-te, la teoria del compromesso storico di Ber-linguer, dicendo che, se si vuole spezzareuna volta per tutte la tirannia dei padroni,questo è il momento di agire senza compro-messi di nessun genere. Le sue posizioni,ben accolte dai giovani militanti della Fgci,furono invece criticate dai dirigenti comuni-sti, che accusarono il film di approssimazio-ne storica. Comunque sia al cineasta di Par-ma non interessa la Resistenza come guerradi liberazione dallo straniero e dal regime fa-scista, ma come rivoluzione sociale capacedi invertire il corso della storia.

Sempre all’inizio dell’“Atto I”, ai contadi-ni che decidono di dare la caccia all’uomoche ha ucciso il partigiano si aggrega un ra-gazzetto, Leonida, che vuole e ottiene unfucile con cui poter ammazzare pure lui qual-che fascista. Si allontana però subito dalgruppo e si dirige direttamente nella casa delproprietario terriero, che fa suo prigionieropuntandogli addosso la canna del fucile.Quando questi gli chiede che cosa pensa delsuo padrone, il ragazzo risponde: “Non cisono più padroni”. Ecco il senso della Re-sistenza per Bertolucci: la fine dei padroni,il trionfo dell’egualitarismo.

Nel finale dell’“Atto II”, dove si ritornacircolarmente alla giornata del 25 aprile, siriafferma lo stesso concetto. Nella tenutagiunge una comitiva di persone provenien-ti dalle montagne, le quali chiedono ai “pae-sani” se è vero che da ora in poi le terre deipadroni saranno date a chi da sempre le halavorate. Naturalmente la risposta è afferma-

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tiva: le terre sono di tutti, non ci sarà piùnessuna proprietà privata.

Per certi versi si può scorgere una somi-glianza con la novella verghiana “Libertà”,dove per i contadini la libertà sta nell’impos-sessarsi di quelle terre che hanno lavoratoper generazioni, sputando sangue e ponen-do fine con un truce massacro al potere dei“cappelli”. Se però Verga è decisamente pes-simista, non solo per l’esito della novella,con l’arrivo di Bixio e dei garibaldini che ar-restano, processano e fucilano le “berrette”,ma soprattutto perché crede che la lotta perla vita sia determinata da leggi di natura chenon possono essere sovvertite da nessunaazione, per cui ci saranno sempre da unaparte i vinti e dall’altra i forti (gli oppresso-ri) che li schiacceranno, Bertolucci si lasciainvece andare all’utopia (in contrapposizio-ne al realismo di impostazione marxista). Lofa dapprima con quel duro e sofferto “sve-gliatevi” gridato da Olmo e dalla sua compa-gna Anita per le strade del borgo dopo l’as-salto e l’incendio alla Casa del Popolo, cherichiama il risveglio delle coscienze, poi conil finale, tra le terre date ai contadini, i tribu-nali popolari, i balletti rivoluzionari. È l’uto-pia rossa, fuori sia dalla storia (che fu diver-sa) sia dalla realtà, come ben sa il regista chesuperata la carica illusoria lucidamente fa ir-rompere nel cascinale un comitato del Clncon seguito di carabinieri che impongonola consegna delle armi ai contadini.

La disillusione è rappresentata ancor dipiù da Olmo, personaggio allegorico del-l’opposizione a ogni forma di potere-sopru-so, che per primo butta le proprie armi sulcamion, convincendo anche gli altri ad imi-tarlo. Subito dopo Alfredo, il proprietarioterriero tenuto fino a quel momento in ostag-gio e processato popolarmente, con calmaripeterà che il padrone è vivo. Affermazionequesta che pone Bertolucci sullo stesso pia-no del pessimismo verghiano: dal 1945 al

1976 nulla hegelianamente parlando è cam-biato, con i padroni da una parte, se puremascherati, gli schiavi dall’altra, anche seimborghesiti. Ma poiché il cinema è anchesogno, nella sequenza finale Bertoluccicompie uno scarto, scegliendo nuovamen-te l’utopia alla realtà. In essa vediamo or-mai vecchi i due amici-nemici Alfredo eOlmo, litigiosi ma ancora insieme nella con-divisione di un comune destino, in una sor-ta di universalismo umanistico che affratel-la gli uomini al di là dei conflitti di classe.

Questa sospensione tra idealismo e reali-smo è ben rappresentata, verso la conclu-sione del film, da una sequenza in cui alcu-ne donne che lavorano nei campi chiedonoad una ragazza che si trova su un carro difieno che cosa vede. Lei risponde di scor-gere un sacco di briganti neri che scappa-no come conigli inseguiti da uno dei lorouomini, armato non di fucile, ma solo di ba-stone. In realtà all’orizzonte non c’è assolu-tamente nulla, la giovane non vede nulla senon quello che desidera, tanto che una vec-chia esclama: “Beata gioventù che vedequello che non c’è”. “Quello che non c’è” èil non aver realizzato la rivoluzione socialista,ma l’illudersi di vederla costituisce l’ener-gia necessaria per rivoltarsi comunque allostatus quo.

Sotto l’aspetto politico Bertolucci è in sin-tonia con gli Straub-Huillet. Come loro cre-de nella Resistenza come in un valore vivoche deve essere affermato in ogni tempo eluogo. È sotto quello stilistico che si notanodifferenze sostanziali. In “Novecento” lamacchina da presa non è più testimone si-lenzioso della lotta partigiana, non docu-menta ma narra. Bertolucci non si pone ilproblema della purezza dell’immagine, lareinventa, imprigionandola nella strutturanarrativa. L’immagine così non è più centra-le, ma posta al servizio della finzione. Unicielementi che Bertolucci ha in comune con

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la visione radicale degli Straub-Huillet sonola poetica contadina (perché con la loro mi-seria e la loro vita di fatiche i contadini sim-boleggiano a tutto tondo l’ideale resisten-ziale) e l’intensa opera di scavo che compiesui volti di vecchi lavoratori rurali, uomini edonne, tutti attori non professionisti. Lorosono “veri”, hanno conosciuto l’occupazio-ne e la lotta di liberazione, hanno sperato inuna palingenesi, sono i “testimoni”.

Quando “Novecento” fu presentato al fe-stival di Cannes, nella conferenza stampaBertolucci sostenne che il suo film era con-tro la società consumistica, contro il siste-ma capitalistico che omologa la cultura, sof-focando le tradizioni popolari. A ben vedereperò “Novecento” è in contraddizione conquesta affermazione, in quanto completa-mente a suo agio nell’adeguarsi agli stilemidi un cinema di stampo hollywoodiano, com-merciale-autoriale, che più che “rompere” si“uniforma”, strizzando l’occhio al botteghi-no e scegliendo la strada della produzioneinternazionale, con protagonisti interpreta-ti da grandi attori quasi tutti stranieri, a sca-pito di un rigore etnografico che i temi trat-tati sicuramente richiederebbero. Si scorgegià qui il futuro Bertolucci, che gira operemonumentali e spettacolari fuori dall’Italia,molto diverso dal regista de “Il conformista”o di “Prima della rivoluzione”.

Anche i fratelli Taviani, ne “La notte diSan Lorenzo” (1982), si pongono il proble-ma di come si possa raccontare per immagi-ni la Resistenza. Nella prima sequenza la vo-ce fuori campo di una donna, rivolgendosial figlioletto, gli rammenta una tradizione to-scana secondo la quale nella notte di SanLorenzo, per ogni stella che cade, si puòesprimere un desiderio. Quello di questamamma è di poter narrare al piccolo un’altranotte di San Lorenzo, quella del 1944, da leivissuta da bambina. La difficoltà sta nel “riu-scire a trovare le parole”. Il nodo centrale è

la forma da usare per aderire il più coerente-mente possibile agli avvenimenti della guer-ra di liberazione.

I Taviani scelgono il registro della poesiae dell’epica da una parte, della microstoriadall’altra, rifiutando sia il realismo documen-taristico sia l’idealizzazione utopistica. Pro-tagonista del film è la popolazione di SanMartino che abbandona il paese alla ricer-ca delle linee americane per evitare le rap-presaglie dei tedeschi e dei fascisti. Gli even-ti vengono filtrati attraverso gli occhi di unaragazzina di sei anni (la voce narrante) chevive quei momenti difficili come un gioco,senza rendersi conto che in realtà il suo èun viaggio di formazione. Innocenza e magiadiventano le chiavi interpretative di quelloche è un dramma.

La prima immagine de “La notte di San Lo-renzo” è una finestra che dà su un cielo stel-lato, simile a un quadro naïf, che crea un’at-mosfera fiabesca ripresa nell’episodio del-la siciliana morente, la quale come in sognovede davanti a sé alcuni di quei soldati suoicompaesani emigrati in America che deside-rava ardentemente conoscere. Il registrofantastico continua nell’incontro delle duebambine con un paio di militari americani datutti disperatamente cercati, e poi nel finalecon pioggia e sole che si mescolano alla no-tizia che i tedeschi se ne sono andati. Attra-verso la bambina i due registi toscani ope-rano una regressione di sapore pascoliano,riducendola ad una sorta di “fanciullino”che dapprima guarda il mondo in modo in-nocente, ingenuo, alogico, per poi subire lalezione dell’esperienza, rivelatrice dell’esi-stenza del male. All’apparenza tutto è ungioco, ma dietro di esso si nascondono gliorrori e le sofferenze. Non è sempre suffi-ciente chiudere gli occhi e recitare una fila-strocca, come la mamma ha insegnato allabambina, per esorcizzare la morte.

La Resistenza è letta come guerra civile,

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che si consuma tra conoscenti e amici chefino al giorno prima vivevano in concordiae ora si uccidono senza pietà. In questo sen-so le divisioni ideologiche assumono unacarica esplosiva che disumanizza gli uomi-ni, trasformandoli in aguzzini senza cuore.Lo si nota nel caso del ragazzo fascista, esal-tato nella sua camicia nera, che si eccita neldare la caccia alla povera gente, oppure nel-l’episodio sanguinoso della cattedrale, doveparecchi degli abitanti di San Martino sisono rifugiati perché i tedeschi hanno pro-messo a loro e al vescovo che quello sareb-be stato l’unico edificio che non avrebberofatto saltare, al contrario delle altre case, tut-te minate. Si tratta di un inganno: la catte-drale verrà fatta esplodere e uomini, donne,vecchi e bambini saranno trucidati.

Che i legami di amicizia e di condivisionesiano stati spezzati è mostrato chiaramentedalla battaglia nei campi di grano tra i fedelidi Mussolini e i contadini e i fuggiaschi diSan Martino, che da sempre hanno lavora-to le stesse terre, vissuto negli stessi borghi.Ora si trovano a fronteggiarsi in corpo a cor-po letali, in uno scontro che nei suoi eroi-smi e nelle sue crudeltà assume i toni del-l’epica. È una Resistenza, questa, vista dalbasso, senza gerarchi o squadre partigiane,fatta solo di gente tranquilla che cerca di sal-varsi dalla tragedia quotidiana con ognimezzo, usando come ultima ratio anche laforza. Sopravvivere diventa così un dovere,come dichiara un sacerdote al termine di unacerimonia di matrimonio.

I Taviani mettono l’accento sul doloreprovocato dalla lotta per la liberazione e dal-la guerra in sé, rimanendo sospesi tra reali-smo popolano, umile e rurale, e fantasia,quasi a creare una distanza con un avveni-mento difficile da descrivere. È più sempli-ce parlare delle sofferenze della gente, chesi rinnovano purtroppo di generazione ingenerazione, e inventare un mondo magico,

che consente all’autore un’ampia libertà diazione. Il racconto orale, che tramanda le vi-cende di un intero popolo di padre in figliomantenendo intatto il ricordo, diventa inquesto modo la soluzione stilistica adotta-ta. L’immagine finale della madre che parlaal proprio bimbo nella notte di San Loren-zo, allude al dovere di non dimenticare quan-to è successo nel ’43-45 anche da parte dichi è nato molti anni dopo.

L’oralità porta però anche all’esagerazio-ne fantastica dei fatti, rendendoli straor-dinari (come afferma la bambina, ormai di-ventata mamma, nella sua narrazione), im-mergendo la costruzione cinematografica inuna struttura tutta giocata tra il vedere e ilnon vedere. Lo dimostra la scena in cui unragazzo, sentendo le note dell’inno di JohnBrown senza accorgersi che si tratta di unoscherzo crudele, crede di scorgere in lonta-nanza gli americani che in realtà non ci sono.Allo stesso modo, quanto si racconta è soloparte di quello che si è visto, il resto è statoimmaginato.

Da “La notte di San Lorenzo” fino alla se-conda metà degli anni novanta il cinema ita-liano in pratica non si interessa più al temaresistenziale, vuoi per la complessità politi-ca, vuoi per la distanza temporale dell’avve-nimento e per tutti i problemi legati al con-cetto di memoria che ne conseguono. Il ci-nema italiano dell’ultimo ventennio, infatti,si è per lo più ripiegato su se stesso, concen-trando l’attenzione più sul privato che sulsociale, preferendo storie di ambiente sen-timentale che non di ampio respiro. “[...] og-gi la scena è dominata non dalla proiezioneverso l’esterno ma dal domicilio, l’abitazio-ne, il riparo di un interno. [...] Benché al suointerno le aspirazioni alla felicità sentimen-tale o al desiderio di ricchezza o di ambizioniindividuali di qualsiasi tipo, vi trovino do-lorosa frustrazione, nessuno ritiene che aldi là della casa possa succedere qualcosa

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di decisivo per chi abita all’interno di essa”2.È un cinema che, secondo la definizione

di Mario Sesti, guarda al “dentro” e non al“fuori” (nel quale per forza di cose si collocala lotta partigiana), come poteva essere inpassato, dal neorealismo in poi. Questa chiu-sura estetica, di cui la casa è emblema icono-grafico, frena i registi ad indagare la realtànelle sue diverse dimensioni, anche in quel-le più scomode. In una simile riduzione diintenti, nella quale la nostalgia per il “norma-le” diventa assioma fondante a scapito diuna autentica razionalità di visione, è logicoche un argomento come la Resistenza siaignorato o per lo meno aggirato.

Ci sono naturalmente alcune eccezioni.Fra queste possiamo citare il non molto riu-scito “Uomini e no” (1980) di Valentino Or-sini, trasposizione del romanzo di Elio Vit-torini, di cui viene riproposto lo stesso sche-matismo metastorico focalizzato sullo scon-tro tra il bene e il male, identificati rispetti-vamente nei partigiani e nei fascisti, senzaperò la stessa essenzialità stilistica; oppu-re “La storia” (1986) di Luigi Comencini, trat-to dall’omonimo testo di Elsa Morante, pro-dotto più televisivo che cinematografico, incui la Resistenza è mero elemento coreogra-fico del tutto marginale alla narrazione.

In “Gangsters” (1992) Massimo Gugliel-mi cerca di problematizzare le divisioni ideo-logiche che hanno caratterizzato la guerradi liberazione, raccontando di quattro parti-giani che, all’indomani della fine del conflit-to, si fanno giustizia da soli degli ex fascistii quali, secondo il loro punto di vista, nonsono stati esemplarmente puniti dal nuovostato italiano.

Si possono citare altri due film, “Nemicid’infanzia” (1995) di Luigi Magni, impernia-to sul contrasto tra due fratelli, uno arruo-

latosi nelle file fasciste, l’altro dodicennesimpatizzante per la Resistenza, e “Al cen-tro dell’area di rigore” (1996) di Bruno Gar-buglia e Roberto Ivan Orano che, sullo sfon-do della decisiva partita calcistica affronta-ta dalla Roma contro il Torino per vincere ilcampionato del 1942, parla dell’opposizio-ne antifascista e della forza di non tradiregli amici anche quando si è sottoposti al tor-chio degli interrogatori della polizia segre-ta. Sono comunque opere di scarsa rilevan-za sia nelle scelte stilistiche sia nella rea-lizzazione dei contenuti.

Così come trascurabile è “Porzûs” (1997)di Renzo Martinelli, che nel descrivere ilmassacro dei partigiani della brigata “Osop-po”, accusati di tradimento, perpetrato dal-le brigate “Garibaldi”, scade in un film d’a-zione dal tono elegiaco troppo intento a gi-rare sparatorie che non a interrogarsi sul-l’avvenimento.

Più sincero, anche se limitato nelle scelteestetiche, appare “I piccoli maestri” (1998)di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo diLuigi Meneghello. Un gruppo di studentiuniversitari veneti, cresciuti nella retoricadel regime e poi passati all’ideologia del Par-tito d’Azione, sente l’esigenza di ribellarsiad esso andando a combattere sui monti. Illoro approccio alla vita partigiana è ingenuoe generoso al tempo stesso. Non sanno in-fatti cosa li aspetti, cosa significhi uccideree scappare per non essere uccisi, ma la loroadesione alla lotta per la libertà del paese ècristallina e priva di dubbi. Luchetti seguela strada del racconto di formazione, su co-me la Resistenza maturi dei giovani accul-turati, di buone maniere, apparentementedistanti dalla ruvidezza partigiana, trasfor-mandoli in uomini che si assumono le pro-prie responsabilità anche a costo della vita.

2 MARIO SESTI, Nuovo cinema italiano. Gli autori i film le idee, Roma, Theoria, 1994, p. 8.

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“Se rischiamo quello che rischiamo è per-ché ne vale la pena”, afferma uno dei prota-gonisti. Ciò che manca però è il confrontoproblematico con la memoria e con l’ereditàche essa ha lasciato.

Luchetti, al contrario di Chiesa e di Gaglia-none, che si muovono sullo stesso terreno,rinuncia a un cinema di ricerca preferendochiudersi in un manierismo da commedia.Ne risultano una visione superficiale delquadro politico italiano dell’epoca e un ta-glio troppo giovanilistico, teso a mettere inprimo piano i sentimenti, gli ardori, le esalta-zioni personali dei protagonisti piuttostoche analizzare in profondità il rapporto conil moto resistenziale. Questo non toglie chevi siano momenti di buon cinema, come nellasequenza della battaglia notturna in mezzoai boschi con gli spari che squarciano il buioo, nel finale, nel pianto amaro e consolato-rio di due dei protagonisti, che vedono laloro esperienza non più come un gioco, maper quello che è veramente stata: perdita diqualcosa che non potrà mai più ripetersi. Main sostanza Luchetti propende per un ro-manticismo adolescenziale incapace di tra-smettere (soprattutto con le immagini e leinquadrature) la tragicità di quell’epoca.

Confrontarsi con la Resistenza a più dicinquant’anni di distanza è impresa non fa-cile, soprattutto se si vuole trasporre sulloschermo un romanzo complesso come “Ilpartigiano Johnny” di Beppe Fenoglio, checostringe a fare i conti non solo con la lottapartigiana, ma anche con l’Italia uscita dal-la seconda guerra mondiale. A credere cheun progetto di questo genere possa essererealizzato è il regista torinese Guido Chiesa,che nel 2000 esce nelle sale per l’appuntocon “Il partigiano Johnny” .

La scelta fenogliana è già una dichiarazio-ne politica significativa: la lotta di liberazio-ne va vista spoglia di ogni retorica o idea-lizzazione, e al tempo stesso senza cadute

revisionistiche (tentazioni sempre più fre-quenti nel dibattito storico-politico attuale).La Resistenza va presa per quello che è statae a Chiesa interessa principalmente affer-marne, con l’immagine, l’autenticità. Per que-sto imposta il suo lavoro su due versanti: ilrecupero della memoria, essenziale per nondimenticare quanto è successo, e un’anali-si metodologicamente critica. La passiona-lità e il sentimento trovano spazio nella di-namica della vicenda individuale e interioredel protagonista, o nell’attualizzazione emo-zionale dei fatti raccontati, visti dal registacome una metafora dell’Italia del dopoguerrafino ai giorni nostri. Parlando invece di guer-ra resistenziale a tutto tondo, l’unica via perfilmarla è quella dell’analisi rigorosa. La mac-china da presa si astiene dal ricostruire lospirito di quegli anni, si limita a studiarlo.

L’approccio di Chiesa non è tuttavia fred-do, ma fortemente partecipe. Quegli anni perlui sono fondamentali per capire il Sessan-totto e ciò che ne è seguito e per decifrare ilpanorama politico dell’Italia contemporaneae il rapporto che egli stesso ha con esso. Lasua filmografia d’altra parte mostra chiara-mente che la Resistenza è una sua “osses-sione” cinematografica. Ad essa dedica in-fatti i seguenti documentari: “Torino in guer-ra: 1940-1945” (1995), “25 aprile: la memoriainquieta” (1995), “Materiale resistente” (incollaborazione con Davide Ferrario, 1995),“Partigiani” (1997), “Una questione privata-Vita di Beppe Fenoglio” (1997) e il lungo-metraggio “Il caso Martello” (1991). Que-st’ultimo affronta il problema (che sta parti-colarmente a cuore a Chiesa, classe 1959)di come le generazioni nate dopo il ’45 deb-bano rapportarsi all’epopea partigiana.

Un rampante assicuratore torinese, co-stretto a recarsi a San Benedetto Langhe perliquidare una vecchia pratica in corso datrentacinque anni, incontra l’ex partigianoMartello beneficiario della stessa, di cui non

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si sa più nulla. Il contatto con questi, uomotutto di un pezzo, rude e solitario, rivela alleggero assicuratore un pezzo di storia cheaveva completamente rimosso, preso solodal proprio carrierismo: quello della Resi-stenza, delle lotte combattute su quelle colli-ne dove ora si aggira. Poco per volta prendecoscienza di come Martello incarni una se-rie di valori, come la coerenza e l’onestà, cheil presente ha azzerato nella sua mediocrità.Nasce così un confronto tra un’Italia “resi-stente”, imperfetta ma pura, e un’Italia del-l’oggi arraffona e corrotta che non conoscenessuna moralità. La scelta dell’assicuratoredi buttare alle ortiche le prospettive di unafacile e remunerativa carriera professionaleindicano chiaramente la posizione di Chie-sa. Gli ideali, se conosciuti nella loro essen-za più vera, superano ogni materialità, an-che la più attraente.

Ritorna così, a distanza di anni, il temadella “conversione”, già visto ne “Il gene-rale Della Rovere” e in “Era notte a Roma”.“Il caso Martello” si gioca sul confronto trapassato e presente, attraverso il quale ognu-no è costretto a fare i conti con i propri pa-dri putativi. Non si può fare finta che nonsia avvenuto nulla o che quanto è accadutocirca mezzo secolo fa possa essere messonel dimenticatoio. In questo modo si affer-ma perentoriamente la forza della memoria,resa cinematograficamente dal paesaggiodelle Langhe e dalle sequenze retrospetti-ve sulla lotta partigiana che affiora dai ricor-di di Martello.

Fin da quest’opera l’autore torinese mo-stra una notevole inclinazione per il tagliodocumentaristico e la struttura speculativa.Il film infatti, pur obbedendo alle regole dellaverosimiglianza, assume il ritmo dell’inchie-sta di tipo realistico. Si indaga sulla pratica

assicurativa, sull’esistenza di Martello, suiprocessi interiori dei personaggi. È neces-sario portare alla luce il vero e renderlo tan-gibile. Non a caso Alberto Crespi, ripren-dendo una citazione del chitarrista LennyKaye, ha definito in modo calzante Chiesa“un guardiano della Storia”3.

Il filmmaker piemontese nella sua ricercaestetica finisce per essere vicino alla lezio-ne degli Straub-Huillet, senza arrivare al-l’estremo annullamento del percorso narra-tivo. Indubbiamente ne “Il caso Martello”torna ad essere preponderante il paesaggiocome protagonista assoluto in quanto “havisto” (non per niente le Langhe sono unodei luoghi in cui più ha imperversato la guer-ra contro i nazifascisti), a cui si accompa-gna uno stile rigoroso aderente al reale (siveda l’utilizzo della presa diretta durante leriprese), dal quale emerge una piemontesi-tà che agisce in profondità nella messinsce-na filmica. Si procede così in un solido recu-pero degli spazi ed essi diventano il cordoneombelicale che unisce atavicamente l’uomoal territorio (come mostrano i riferimenti a Pa-vese e Fenoglio).

A nove anni di distanza Chiesa ritorna altema resistenziale con un’opera molto ambi-ziosa: “Il partigiano Johnny”. Ha a disposi-zione un budget di produzione non indiffe-rente, attori italiani noti, numerose compar-se, ma non per questo gira un film spetta-colare e grandioso, rimanendo invece coe-rente con quella poetica dimessa e umile chegli è tanto cara. Filma con una fotografiabuia, a indicare i tempi difficili e crudeli incui si vive, usa pochissimo il dialogo conscambi di battute brevi e lapidarie. Tutto èraccontato attraverso il lungo e costantemonologo di Johnny, una sorta di riflessio-ne morale e filosofica su quanto gli ruota

3 ALBERTO CRESPI, Materiale resistente dal rock a Fenoglio, in “Cineforum”, n. 392, marzo2000, p. 64.

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intorno. L’interiorizzazione del personaggioè portata agli estremi, per obbligare lo spet-tatore a vedere la realtà come la vede John-ny, a percepirla come la percepisce lui. Lo sicomprende fin dalle prime sequenze, quan-do viene inquadrata la persiana di una fine-stra, dalle cui fessure si intravede una stra-da che sale sulla collina. Scopriamo dopoche dietro l’imposta, intento a guardare, viè Johnny e che noi abbiamo guardato con isuoi occhi. Chiesa vuole denudare il prota-gonista, renderlo trasparente nelle sue con-traddizioni, costringerci a confrontare la no-stra esperienza di vita con quella di Johnny.

In fondo ritorna lo stesso schema de “Ilcaso Martello”: Martello corrisponde a John-ny così come l’assicuratore allo spettatore.L’importante è che il film (come pure il ro-manzo) risvegli la coscienza critica attraver-so il recupero del ricordo. Anche qui elemen-to essenziale è il territorio, le Langhe. I par-tigiani si disperdono tra colline, pendii, pia-ne, ritani, torrenti, casolari, paesi, città, sem-pre in perenne spostamento se non addirit-tura in fuga, alla ricerca di un rifugio sicuro,di un appostamento idoneo per un’imbo-scata, di una minestra calda. Questo pere-grinare è metafora della precarietà dell’esi-stenza, il tentativo di evitare una morte chepuò nascondersi dietro ad un albero o tra icespugli o in un avvallamento. Ma segnalapure la tristezza di un esercito che esercitonon è, indigente, male armato, impotente so-prattutto nella sua esigenza di agire. La col-lina, selvaggia e inospitale, ma accoglientee protettiva al tempo stesso, diventa sim-bolo di una vita randagia che invoca la li-bertà.

In questo ambiente si muove Johnny, stu-dente di letteratura inglese, colto, taciturno,che ha deciso di essere partigiano prima

con i comunisti, poi con i badogliani. “Nonmi importava tanto raccontare il momentopolitico, quanto piuttosto la storia di un ra-gazzo capace di fare una scelta e di andaresino in fondo, cercando di essere coerentee di non smettere mai di interrogarsi”4, hadichiarato Chiesa a proposito de “Il parti-giano Johnny”.

Quel che viene messo in evidenza è l’e-voluzione interiore e ideologica del prota-gonista, i suoi sentimenti, il coraggio di met-tersi in discussione. Siamo di fronte ad unidealista che è disposto sì ad uccidere, mache cerca di evitare le rappresaglie nazifa-sciste contro i civili, perché conosce le sof-ferenze della gente. La sua è una profondariflessione sulla guerra vista come “casoestremo”, sull’essere ontologicamente par-tigiano (“partigiano come poeta è parola as-soluta che rigetta ogni gradualità”), che loporta alla ferma convinzione che opporsi alfascismo è sacrosanto, che ha poca impor-tanza essere comunista o badogliano, l’im-portante è essere contro il duce e i suoi se-guaci. Il fascismo viene visto da lui e dai suoicompagni come una dittatura che soffocanon solo la libertà, ma ogni desiderio di rin-novamento e di ammodernamento di unapopolazione volutamente abbandonata allasua ignoranza e arretratezza.

La lotta partigiana è per Johnny reazionealla mediocrità che lo circonda, al qualun-quismo di chi si rifiuta di prendere posizio-ne, alla codardia di coloro che si nascondo-no o scappano dalla paura. Anche lui è an-gosciato, vive costantemente nell’attesadella morte (considerata una questione didate), ma non per questo viene meno allacoerenza. Sarà il durissimo inverno ’44-45,il momento più difficile e drammatico dellaResistenza italiana, trascorso in solitudine

4 LORENZO PELLIZZARI, Fenoglio in guerra: materiale resistente, in “Cineforum”, n. 401,gennaio-febbraio 2001, p. 34.

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in una cascina abbandonata tra i rigori delfreddo e la fame lancinante, a far maturarela sua vocazione partigiana, che lo trasfor-merà in un uomo. Quando gli verrà chiestoperché non si nasconde bene da qualcheparte in attesa che gli Alleati vincano laguerra, senza battere ciglio risponderà: “Iomi sono impegnato a dir di no fino in fon-do” e poi aggiungerà: “E se muoio basta chene resti almeno uno”.

Johnny è un personaggio che archetipi-camente incarna un’etica dei valori validanel passato come nel presente, per la qualeè imperativo categorico il sacrificarsi. Unafigura scomoda che inchioda ognuno alleproprie responsabilità sociali, troppo spes-so facilmente ignorate. Chiesa aderisce fe-delmente a Fenoglio sia nei contenuti sianello stile. Rigore e disciplina sono alla ba-se del suo cinema, che evita concessioni allospettacolo e alla commercializzazione visi-va, puntando invece alla riflessione logica.

Se è difficile ricreare filmicamente il climae lo spirito della Resistenza, è doveroso ria-prire il dibattito sulla sua lezione, recuperan-do criticamente la memoria. Quello che faanche Daniele Gaglianone con “I nostri an-ni” (2000), dove la lotta partigiana è perce-pita come assenza grave dal discorso socio-politico odierno e come un’occasione man-cata per la nostra inerzia e scarsa volontà. Ilfilm non si limita alla recherche del tempoperduto, ma va più in profondità, chieden-dosi perché per molti la “memoria” sia di-ventata inattuale. Questa infatti, con la suaverità dura e cruda, finisce inevitabilmenteper scontrarsi con la banalità del quotidia-no, che piuttosto che tendere al confrontopreferisce rimuoverla, eliminando qualsiasiesame di coscienza.

La Resistenza è rivolta, eroismo di gentecomune, dolore, sofferenza, è situazioniumane di cui non si vuole più sentir parlare.Chi non si arrende al torpore ideologico dei

nostri giorni e crede ancora che il mondopossa essere cambiato sono i due protago-nisti de “I nostri anni”, due anziani ex parti-giani, Alberto e Natalino. Scoperto casual-mente in un pensionato il comandante fa-scista delle brigate nere che aveva ammaz-zato un loro compagno, decidono di vendi-carsi facendolo fuori. L’impresa, vista l’ap-prossimazione con cui è organizzata, natu-ralmente fallisce, con i due amici che riden-do vengono portati via dai carabinieri.

Alberto e Natalino simboleggiano l’osti-nazione a non dimenticare. Non hanno maismesso i panni di partigiano, agiscono co-me si trovassero ancora su quelle montagnedove hanno combattuto. La scansione tem-porale è quasi annullata, i due protagonistivivono in un continuo presente (affermatopure dalle sequenze che raccontano la lottadi liberazione). Il loro tentativo assume i tonidella metafora, è il sogno di veder realizzataquella rivoluzione sociale che era insita nel-l’ideologia resistenziale. Ma si tratta appun-to di un sogno che non può che essere tale.Alberto e Natalino, senza rendersene con-to, vivono ormai nell’utopia e non nella Sto-ria, che li costringe alla sconfitta. La risatafinale se è liberatoria, perché anche i dueamici si rendono conto che l’orrore dellaguerra appartiene solo al passato, è al tempostesso amara nel constatare che la realtàdell’oggi è mediocre, incapace di autenticislanci ideali e etici. Essi rappresentano mate-rialmente il significato di resistere, sono dei“resistenti” tout court.

Che a non arrendersi siano dei vecchi èl’ulteriore prova della decadenza culturaledi un paese che non è più in grado di esserecritico verso se stesso, come lo fu in passa-to. Gaglianone lavora sul rischio della per-dita della memoria storica, motivo per cuicrede che essa debba venire riattualizzatain tutta la sua carica rivoluzionaria e uma-na. È un’operazione intelligente e umile: è

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inutile mitizzare la Resistenza raccontandolaretoricamente e pomposamente, è molto me-glio filmarla da un’angolatura privata che,nella sua normalità, finisce per renderla ever-siva. In questo modo Gaglianone si pone ametà strada tra Chiesa e gli Straub-Huillet,utilizzando un’estetica severa, focalizzatasu immagini che riescono a trasmettere la tra-gicità sia degli avvenimenti del passato siadell’impotenza del presente, sfiorando unpopulismo cinematografico più in linea coni due registi francofoni che con quello italia-no.

Se oggi sono pochi i registi che affronta-no un tema difficile e scottante come la Re-sistenza e ancor meno quelli che, come Chie-sa e Gaglianone, cercano un vero confrontopolitico e ideologico con esso, è interessan-te invece notare come i valori che la lottapartigiana ha incarnato siano alla base didiversi film italiani di questi anni. Il ’43-45non è più raccontato in modo diretto, ma lasua lezione è tutt’altro che dimenticata. In-vece di mettere in scena l’epica eroica, si ten-de piuttosto a vedere in che modo i suoivalori si siano radicati o siano stati traditinell’Italia farraginosa del dopoguerra. L’ere-dità della Resistenza va insomma affermatanon solo in funzione del “ricordare”, ma so-prattutto del “formare” una società più eti-ca.

Di qui emerge un cinema “resistente”, cheavverte il bisogno di (ri)aprirsi all’impegnocivile, all’indignazione, alla lotta contro ogniforma di potere repressiva, manifesta o sub-dola che sia. Un superamento questo dellalogica della “casa”, diventata troppo strettae limitante, e di quel solipsismo sentimentalenel quale da tempo spesso si perde la cine-matografia italiana. Il cinema “resistente”afferma l’esigenza di ritornare a guardare“fuori”, uscire da un sonno politico che fini-sce per uniformare la realtà, confondendoverità e bugie. Che si scagli contro la mafia,

denunci corruzioni e scandali, si interroghisui misteri italiani, il suo intento rimane quel-lo di scuotere un ambiente culturale semprepiù inerte e sterile, che dai tempi di Pasolininon ha più trovato un’autentica coscienzacritica della nazione. È proprio in questa ri-cerca di coerenza e di giustizia, ma anche diamore e rispetto verso la propria terra, chesi crea una continuità con l’ideologia resi-stenziale.

Esempio emblematico è “Placido Rizzot-to” (2000) di Pasquale Scimeca. L’incipit delfilm è già di per sé significativo. VediamoPlacido Rizzotto partigiano che salva alcunicontadini dall’impiccagione da parte dei fa-scisti. Si tratta di una dichiarazione program-matica, forte e chiara: la Resistenza è l’even-to determinante dell’esistenza del protago-nista, la molla che lo porta alla ribellione ealla reazione a qualsiasi abuso di potere.Così, quando ritorna nel suo villaggio in Si-cilia, da uomo libero qual è non può accetta-re il sistema mafioso di gestione delle terree dei lavoratori, basato sull’intimidazione ela violenza, che colpisce i deboli. Per oppor-si ad esso decide di diventare leader sinda-cale, finendo di pagare con la vita il suo es-sere “contro”.

Scimeca gira un film di denuncia (ancorpiù significativo se consideriamo che è si-ciliano), partendo dalla poetica del sacrifi-cio, propria dell’ethos resistenziale, senza ididascalismi di certo cinema politico italia-no del passato, puntando ad una narrazio-ne all’apparenza semplice, che invece intrec-cia problematicamente mito e storia.

Un altro uomo “contro” è Peppino Impa-stato de “I cento passi” (2000) di MarcoTullio Giordana, non nuovo alle tematichepolitiche dilanianti, come nei precedenti“Maledetti vi amerò” (1980) e “Pasolini, undelitto italiano” (1995). In questo caso, comegià Scimeca, affronta l’argomento mafioso,cercando di discostarsi dai vezzi del gene-

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re. Preferisce seguire, quasi a pelle, la para-bola esistenziale del protagonista, il suo de-siderio di libertà, di fuga gridata da una so-cietà ancora ancestrale, moderna solo neltrafficare la droga, ma tribale per il resto.Centrale è la progressiva formazione politicadel giovane, il suo prendere coscienza chela lotta è indispensabile per cambiare il cor-so delle cose, anche se dall’altra parte c’èun boss della statura di Tano Badalamentie la possibilità di essere ucciso in qualsiasimomento.

Entrambi i film partono da personaggi veritrasfigurati in allegorie resistenziali, che di-ventano trasgressive, se non addirittura e-versive, in un panorama sociale dominatoda un moralismo ipocrita fine a se stesso.

La denuncia della falsità dell’età contem-poranea e dei suoi riti è oggetto di analisianche da parte di Marco Bellocchio ne “L’o-ra di religione” (2002). Il pittore Ernesto Pic-ciafuoco si scontra con i parenti che vor-rebbero ottenere la beatificazione di sua ma-dre, non per devozione ma per recuperare ilcarisma della famiglia perso da tempo, di-sposti a rinnegare i propri ideali e anche sestessi pur di raggiungere lo scopo. La reli-gione è rappresentata nella sua esterioritàperbenista, fatta di apparenze che si dissol-vono in fantasmi inconsistenti, priva di unabenché minima spiritualità. Il rifiuto di Erne-sto di recarsi con il figlio all’udienza papaleè “la resistenza del singolo contro una ge-nerale egemonia restaurativa”5 che tende al-l’omologazione dell’individuo. La sceltasofferta del protagonista è invece quella del-la coerenza, con il proprio passato, con ilproprio essere, con la propria laicità.

Esplicito riferimento alla Resistenza vie-ne fatto da Bellocchio in “Buongiorno, not-te” (2003), dedicato all’assassinio di AldoMoro. Si tratta di una rappresentazione che

va al di là del fatto storico e scava nella suaessenza per interrogarsi sul senso dei no-stri anni di piombo. Nel farlo, il regista mo-stra come ciò che fu linfa vitale nella costru-zione dello stato italiano dopo il nazifasci-smo si sia per alcuni incancrenito nel terro-rismo brigatista e nel suo sogno sanguina-rio di una nuova liberazione. Il sogno di ciòche è stato, di ciò che avrebbe potuto esse-re e di ciò che sarà, nel drammatico contrap-porsi di passato, presente e ipotetico futu-ro, è la cifra del film di Bellocchio.

Onirica è la dimensione in cui si muoveChiara, unica donna fra i carcerieri di Moro.Chiara vede/sogna lo statista che lascia ilcovo di morte per tornare alla sua vita, vede/sogna i compagni farsi il segno di croce atavola (forse in ossequio alla falsa religio-ne a cui si sono votati) e le icone della Rus-sia di Lenin e Stalin che sfilano in un’ana-cronistica rappresentazione dell’illusionecomunista. E vede i partigiani massacrati daitedeschi nelle immagini tratte dal “Paisà” diRossellini, che inframmezzano la sequenzadell’uccisione di Moro. È la visione agghiac-ciante della Resistenza tradita, quella Resi-stenza che molti giovani finiti nella lotta ar-mata credevano di resuscitare colpendo alcuore lo stato, e che hanno invece infama-to, trascinandola nel fango di una violenzainsensata. Lo dice esplicitamente il montag-gio parallelo che equipara i brigatisti di oggiai nazisti di ieri.

Ciò che la Resistenza ha significato e si-gnifica tutt’oggi va cercato altrove. Lo ve-diamo nella scena in cui Chiara commemoracon i parenti il padre partigiano. C’è un pran-zo di nozze all’aperto, qualcuno canta “Fi-schia il vento”, altre voci si uniscono conentusiasmo e lo spirito autentico ritorna,prepotentemente vitale come i valori dilibertà e giustizia di cui si fece portavoce,

5 TULLIO MASONI, La luce quotidiana, in “Cineforum”, n. 415, giugno 2002, p. 5.

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smascherando chi, in nome di quegli stessivalori, ha seminato il terrore. Non a caso, lacitazione delle “Lettere di condannati a mor-te della Resistenza” ribadisce la “sacralità”di quell’evento e della sua memoria.

Bellocchio, come ai suoi esordi, riproponeun cinema di rottura, scomodo, attraversoun discorso lucido e razionale che ponedomande inquietanti sul nostro presente esulla nostra inautenticità. Sotto questo a-spetto non si può non citare Nanni Moretti,a suo modo fautore di un cinema “resisten-te” che denuncia l’incoerenza etica dell’uo-mo. Film come “Bianca” (1984) o “La messaè finita” (1985) o il più recente “Caro diario”(1993), sono giocati sul contrasto tra prota-gonisti morali rigorosi e solitari e gli altri chevivono in un vuoto esistenziale pressochéassoluto, nel quale erigono la superficialitàa modello di comportamento generale.

Si potrebbero citare altri registi (da Ame-lio a Placido, da Ferrara a Benvenuti, da Gri-maldi a Garrone, solo per ricordarne qualcu-no) che in un modo o in un altro hanno voltouno sguardo critico alle problematiche so-cio-politiche con esiti estetici a volte riusci-ti, altre volte imperfetti. Quello che qui con-ta rilevare è che la loro visione del mondo èper impegno etico figlia della Resistenza.

E tale impegno si rinnova anno dopo annocon il suo compito di denuncia, mettendoin luce abusi, macchinazioni e crimini taciu-ti, come il recente “Segreti di stato” (2003)di Paolo Benvenuti. Benvenuti pesca neltorbido a piene mani ricostruendo la fittarete di trame oscure che si nasconderebbedietro la strage del 1 maggio 1947 a Portelladella Ginestra, attribuita a Salvatore Giulia-no. Nel carcere di Soriano del Cimino l’Ono-revole convince il Polacco a eliminare Pi-sciotta, braccio destro di Giuliano. Il com-plotto fallisce. Al processo il mafioso rivelanomi insospettabili implicati nell’eccidio, fracui il ministro Scelba, ma la sua testimonian-

za cade nel vuoto. L’Avvocato inizia allorauna sua indagine personale con l’aiuto delperito del tribunale. Emergono a poco a pocodati che contraddicono la versione ufficia-le, confermando un disegno anticomunistache ha radici oltreoceano e che non si fer-ma davanti a niente, nemmeno al massacro.È il caso, sotto forma di una finestra che sispalanca all’improvviso facendo entrareuna ventata che scompiglia le carte dell’Av-vocato, a rivelare il tassello mancante perricostruire l’intero mosaico del complotto.Il caso però fornisce solo ipotesi, non pro-ve incontrovertibili.

La tesi del gran calderone di marciume incui di fondono le connivenze tra mafia epolitici, tra monarchici, democristiani ed exfascisti, tra esponenti della polizia, dei ca-rabinieri e dell’esercito, tra Stati Uniti e Va-ticano, non è e non può essere dimostrata.Ma non è questo ciò che importa. “Segretidi stato” è un invito ad andare oltre l’appa-renza di quello che viene contrabbandatocome verità, una verità distorta della qualelo specchio in cui assistiamo ai gesti cheportano all’avvelenamento finale di Pisciot-ta è un’efficace metafora. È un’esortazionea “resistere” pazientemente e pignolesca-mente, come l’Avvocato, nella ricerca del-l’autenticità, a non indulgere in quella pigri-zia intellettuale di cui siamo in gran parte reie che ci fa prendere per buone le menzognepropinate da un certo potere costituito.

Ex assistente di Straub e Huillet, Benve-nuti mette in pratica il loro insegnamento fa-cendo un cinema politico nello stile, scabro,essenziale, antispettacolare, prima ancorache nel contenuto. E insinuando il dubbioin nome della verità si inserisce a pieno tito-lo in quel filone cinematografico di impegnocivile che discende da Rossellini.

A questo punto è legittimo chiedersi: co-s’è rimasto del cinema resistenziale? Qual èil suo futuro e quale il suo compito (posto

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che di compito del cinema si possa parla-re)? Se da un lato il cinema resistenziale per-mane come testimonianza e racconto di ciòche è stato, come abbiamo visto nelle ope-re di Chiesa e di Gaglianone, dall’altro si ètrasformato in cinema “resistente”, cioè inun certo cinema di impegno civile basato suquelli che furono i valori fondanti della Re-sistenza. Ma è presente anche il rischio che,col passare del tempo, la Resistenza e la sualezione si stemperino sempre più nel ricor-do cinematografico, sclerotizzandosi in pel-licole che la evocano come un momento glo-rioso ma lontano da noi, da ciò che siamoadesso, dalle nostre vite.

C’è una scena in “Ferie d’agosto” di Pao-lo Virzì (2000), in cui un attore, tra il fricchet-tone e il radical chic, canta alla sua bambi-na “Bella ciao”, come faceva quand’era pic-cola per farla addormentare: l’inno più famo-so della Resistenza è diventato una favolain musica, che come tutte le favole parla dicose belle successe in un tempo lontanis-simo e quasi irreale. Ma dopo poche note labambina se ne va annoiata, come se per lei,per le giovani generazioni, tutto questo fos-se ormai una storia trita e ritrita da mettereuna volta per tutte nel dimenticatoio. È cosìche rischia di ridursi la Resistenza? Comeun mito del passato, come un ingombrantereperto archeologico? Fortunatamente no.Perché per il cinema (per un certo cinema)la Resistenza è più che mai vitale, con l’af-flato di cambiamento che ha comunicato allacultura e alla società, con i valori di cui èstata portatrice, con il carico di dolore che ècostata e che non può, non deve, essere di-menticato. A testimoniarlo possiamo citareil corto di Manuele Cecconello “Memoria aimargini” (2003).

Una didascalia subito dopo il titolo ci in-forma che, dal settembre del ’43 fino alla finedell’occupazione tedesca nel Biellese, a VillaSchneider, si insediò un reparto di Ss ger-

maniche e italiane, che qui perpetrò torturee sevizie nei confronti dei partigiani e deiloro sostenitori. Dallo schermo scuro emer-gono a poco a poco i dettagli di quel luogodi antichi orrori: le algide luci al neon, le cre-pe nei muri, l’intonaco scrostato, i pavimen-ti polverosi, le sbavature nere sui muri chesembrano sangue rappreso, le finestre an-guste e altissime che guardano sul nulla. Insottofondo, nient’altro che un suono ron-zante, ossessivo: è il vibrare delle cose e deiluoghi che hanno assorbito il ricordo delleazioni delittuose e che ora lo trasmettono anoi con la loro immobile, tacita, pregnantepresenza. Per poco più di quattordici minu-ti i nostri occhi contemplano, attraverso losguardo della macchina da presa, quellememorie, forse “ai margini” degli eventi, masicuramente al centro della Storia. Poi le im-magini ritornano gradualmente al buio dacui sono uscite.

Cecconello non è spinto dagli stessi mo-venti ideologici e politici degli Straub-Huil-let. Come loro, però, si accosta alla Resi-stenza come a un tema sacrale da non con-taminare con l’invadenza del racconto, mada rappresentare con assoluto rigore filmi-co. E benché essa sia abbastanza estraneacome argomento dalla poetica del registabiellese, Cecconello le dedica un film brevee intenso, come intensa fu quella stagionedi eroismo e coraggio.

Scrive Enrico Terrone: “In ‘Memoria aimargini’ il dramma storico preannunciatodalla didascalia differisce nella solitudinedei luoghi del dramma, sessant’anni dopo,nella drammatica assenza del dramma mede-simo. Il titolo, molto adeguato, coglie il sen-so delle immagini. La tragedia quindi non èla violenza fascista, ma l’impossibilità deiluoghi e del cinema di serbarne integralmen-te la memoria. Un regista affabulatore avreb-be preso degli attori per ricostruire i fatti: lascelta di Cecconello di limitarsi alla verità e

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Maria Ferragatta - Orazio Paggi

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il silenzio sonoro dei luoghi mi sembra su-periore sul piano etico ancora prima che sulpiano estetico”6.

Ecco dunque che il cinema resistenzialedei nostri giorni recupera il compito eticodelle origini, divenendo nello stesso tempocinema “resistente”, che ci obbliga a ricor-dare la Resistenza non come sfondo cine-

6 ENRICO TERRONE, “Sulle nuove pellicole. La camera-pinceau”, in Manuele Cecconello.Il mondo visto per la prima volta, Biella, Prospettiva Nevskij, 2003.

matografico per copioni più o meno azzec-cati, ma nella sua coralità e interezza, di lot-ta per la libertà. Il cinema - resistenziale e “re-sistente” - si fa memoria in un’epoca chesembra aver smarrito la memoria. E nell’at-tuale deserto di valori, cinematografici, mo-rali, sociali, ce n’è più che mai bisogno.

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saggi

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Il II Congresso del Pcd’I e il “risve-glio operaio” del 1922

Nel mese di marzo del 1922, a più di unanno dal congresso di fondazione di Livor-no, ebbe luogo a Roma il II Congresso nazio-nale del Partito comunista d’Italia. In realtàpoteva considerarsi il primo, visto che l’as-semblea del teatro San Marco aveva prov-veduto quasi esclusivamente a deliberaresu alcune questioni di ordine organizzativo.

L’appuntamento romano può essere rite-nuto la manifestazione più esplicita dell’ege-monia bordighiana sul partito, e il momentodi sintesi pressoché definitiva delle sue con-cezioni sul processo rivoluzionario, sullanatura del partito e sui suoi metodi d’azione:la relazione da lui presentata, in collabora-zione con Terracini, non è altro che la sum-

ma di tutta un’elaborazione svolta a partiredalla fine del conflitto.

Le tesi presentate a Roma furono tre: quel-la sulla tattica, redatta da Bordiga e Terraci-ni; quella sulla questione sindacale, di Ta-sca e Gramsci, e quella sulla questione agra-

ria, di Sanna e Graziadei. I congressi di se-zione e di federazione avevano accreditatoun vasto consenso al progetto di tesi pre-sentato dalla centrale del partito, tanto cheTerracini era in grado di affermare come ilPcd’I fosse “unanime e inattaccabile”1.

Il gruppo di tesi che maggiormente inte-ressa, al fine di valutare la posizione del par-tito di fronte agli sviluppi della situazioneinternazionale, è quello sulla tattica. Bordiga,nella sua relazione congressuale, dichiaravapreliminarmente il loro valore sovranaziona-le e la loro funzione di stimolo al dibattitosulle possibilità tattiche dell’Internaziona-le comunista.

“Le tesi [...] hanno non soltanto valorenazionale, ma internazionale; costituisconoil nostro contributo alla definizione dei pro-blemi complessi e fondamentali che interes-sano tutto quanto il movimento internazio-nale, esse costituiscono il frutto della no-stra esperienza e del nostro lavoro non lie-ve, in questo anno di vita così pieno di dif-ficili lotte contro ostacoli che è ancora diffi-cile superare; per questo dobbiamo saper

FEDERICO CANEPARO

Aspettando la rivoluzione

Il Pcd’I e la situazione internazionale 1921-1922*

II parte

* Il saggio è tratto dalla tesi di laurea L’analisi della situazione internazionale nel Pcd’Itra il 1921 e il 1926, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, corsodi laurea in Storia, a. a. 1999-2000, relatore prof. Aldo Agosti.

1 PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Torino,Einaudi, 1967, p. 179.

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Federico Caneparo

34 l’impegno

trovare la via migliore per superarli”2. Pos-sibilità tattiche che non erano strettamentelegate all’analisi della situazione contingen-te, bensì allo svilupparsi delle linee tratteg-giate nel programma del partito: “Non aven-do il programma carattere di un semplicescopo da raggiungere per qualunque via, maquello di una prospettiva storica di vie e dipunti di arrivo collegati tra loro, la tattica nel-le successive situazioni deve essere in rap-porto al programma e, perciò, le norme tatti-che generali per le situazioni devono essereprecisate entro certi limiti non rigidi ma sem-pre più netti e meno oscillanti man mano cheil movimento si rafforza e si avvicina alla suavittoria generale”3.

Il compito del Congresso sarebbe statoquello di stabilire con la massima precisio-ne le “regole tattiche corrispondenti alle va-rie situazioni cui il partito, nello svilupparsidegli avvenimenti, può andare incontro”4.

L’orizzonte politico all’interno del qualesi articolavano le tesi era quello riguardan-te la possibile formazione di un governo so-cialdemocratico quale risultato finale del-l’offensiva reazionaria. Assunto fondamen-tale di questa tesi era la valutazione delle so-cialdemocrazie e dei movimenti ad esse assi-milabili a formazioni essenzialmente contro-rivoluzionarie.

L’avvento di tale esperimento non avreb-be contraddistinto una fase positiva per ilmovimento operaio, bensì l’ultimo ed estre-mo tentativo messo in atto dalla classe bor-ghese per salvare il proprio dominio. Inevi-tabile l’indisponibilità del partito ad appog-giare in qualsiasi modo questo esperimento;altresì questa fase del processo rivoluzio-nario avrebbe svolto un compito fondamen-

tale, contribuendo a smascherare definitiva-mente i socialisti ed i socialdemocratici qualicontrorivoluzionari e ad agevolare il passag-gio degli operai da questi partiti a quello co-munista ed al suo programma: “L’avventodel governo della sinistra borghese o anchedi un governo socialdemocratico possonoessere considerati come un avviamento allalotta definitiva per la dittatura proletaria, manon nel senso che la loro opera creerebbeutili premesse di un ordine economico o poli-tico, e mai più per la speranza che concede-rebbero al proletariato maggiore libertà diorganizzazione, di azione, di preparazione ri-voluzionaria [...] questi governi non rispette-rebbero la libertà dei movimenti del proleta-riato che fino al momento in cui questo liravvisasse e li dipendesse come propri rap-presentanti, mentre dinanzi ad un assaltodelle masse contro la macchina dello statodemocratico risponderebbero con la più fe-roce reazione. È quindi in un senso ben di-verso che l’avvento di questi governi puòessere utile: in quanto cioè la loro opera per-metterà al proletariato di dedurre dai fatti lareale esperienza che solo la instaurazionedella sua dittatura dà luogo ad una realesconfitta del proletariato”5.

Compito essenziale che il partito dovevaassolvere era la propaganda antisocialista.Contrariamente alle parole d’ordine lancia-te in quel periodo dall’Ic, fronte unico e suc-cessivamente governo operaio, per il grup-po dirigente comunista italiano il partito do-veva respingere ogni collaborazione con lealtre organizzazioni proletarie o quelle dellaborghesia di sinistra. Indispensabile rimane-va l’esigenza dell’autonomia e dell’indipen-denza del partito. La costruzione di comita-

2 Relazione di Bordiga sulla tattica, in “Il Comunista”, 25 marzo 1922.3 Tesi sulla tattica, in “Rassegna Comunista”, a. II, 30 gennaio 1922.4 Relazione di Bordiga, cit.5 Tesi sulla tattica, cit., p. 813.

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Aspettando la rivoluzione

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ti d’azione permanenti con gli altri organismiproletari e, tanto peggio, l’introduzione nelpartito di gruppi provenienti da altre forma-zioni, avrebbero fortemente potuto incrina-re la saldezza e l’autonomia politica del par-tito, rischiando di disarmarlo di fronte allaclasse proletaria proprio nel momento in cui,dopo lo smascheramento dei “traditori”,questa si volgeva fiduciosa verso di lui6.

Unico ambito nel quale le tesi delineava-no, esortandola, una prospettiva d’azionecomune, era quello delle rivendicazioni eco-nomiche. I partiti comunisti avrebbero dovu-to impegnarsi a fondo a fianco dei lavoratori,nelle loro rivendicazioni contingenti, al fine,attraverso la lotta, di addestrare le masse,indirizzandole all’iniziativa rivoluzionaria.Anche qui l’ambito d’azione era riconosciu-to valido esclusivamente nel campo econo-mico, l’unico che, nuovamente, avrebbe po-tuto garantire l’autonomia d’azione e la pu-rezza necessarie al partito7. Il tema del fron-

te unico sindacale e della salvaguardia deisindacati assunse un’importanza rilevantenelle prospettive tattiche delineate dalle tesitanto che, nel suo discorso al IV Congres-so dell’Internazionale comunista, Bordiga a-vrebbe riconosciuto nella crisi organizzati-va e tattica dei sindacati uno degli elementideterminanti del riflusso della prospettivarivoluzionaria internazionale8.

L’ultima sezione delle tesi, quella riguar-dante la situazione politica italiana ed i suoipossibili sviluppi, ne abbozzava uno studioutilizzando le acquisizioni teoriche espostenelle sezioni precedenti. In primo piano siponeva l’analisi dell’involuzione e della de-composizione dello Stato che, venendo me-no alla sua capacità di gestione unitaria delpotere, produceva strategie di difesa disarti-colate ed incontrollabili9. In quest’ottica, sesi considerava possibile, anche se come ipo-tesi del tutto secondaria, il tentativo di uncolpo di stato da parte della destra e dei mi-

6 Questo è un argomento che compare frequentemente nella stampa di partito, soprattuttoin Bordiga. Cfr. Il valore dell’isolamento, in “Il Comunista”, 24 luglio, 31 luglio e 7 agosto1921. Ad iniziare dall’appello per la costituzione del fronte unico, nell’agosto 1921, la stampadel partito pubblica numerosi articoli nei quali, a fianco della puntuale precisazione dellalimitazione di tale tattica al solo ambito sindacale, si continuava a polemizzare con i socialistie le burocrazie sindacali; cfr. RUGGERO GRIECO, La lotta su due fronti del proletariato ita-liano, in “Rassegna Comunista”, 30 novembre 1921; AMADEO BORDIGA, Difesa proletaria,in “Il Comunista”, 4 marzo 1922. Sebbene non si discostasse dalle posizioni ufficiali delpartito, Gramsci era più attento alla dimensione politica, soprattutto nell’ambito della lottaantifascista, che il fronte unico poteva assumere; cfr. ANTONIO GRAMSCI, Al Lavoro, in “Or-dine Nuovo”, 6 novembre 1921; ID, Complotto reazionario, in “Ordine Nuovo”, 28 settem-bre 1921: “Il Fronte unico sindacale non significa solamente la preparazione dell’unicostrumento idoneo in questo momento, a respingere l’offensiva padronale contro i salari;significa anche [...] ricostruzione dell’apparecchio di lotta rivoluzionaria del popolo lavo-ratore [...] per impedire l’avvento della dittatura militare, impedire che i latifondisti faccianoscempio atroce delle libertà popolari, del diritto all’esistenza del popolo lavoratore”. Tuttigli articoli di Gramsci comparsi ne l’“Ordine Nuovo” utilizzati in questo saggio sono statiripubblicati in ID, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1978.

7 Tesi sulla tattica, cit., p. 815.8 Intervento di Bordiga al IV Congresso dell’Internazionale comunista (Mosca, 11

novembre 1922), in “La Correspondance Internationale”, suppl. n. 27, 1 dicembre 1922.Traduzione dal francese dell’autore.

9 Tesi sulla tattica, cit., pp. 818-824.

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litari, molte più probabilità si affidavano allaprospettiva socialdemocratica: la borghesia,al fine di poter meglio smascherare il suo ca-rattere dittatoriale, avrebbe infatti ampliatole basi democratiche dello Stato. Il fascismo,funzionale a questa prospettiva, assumevacosì un’importanza del tutto marginale etransitoria, venendo posto ai margini del di-battito.

L’aspetto più interessante delle tesi, ai finidella nostra ricerca, lo si riscontra nella se-zione dedicata alla formulazione della tatticaattraverso l’esame delle situazioni. Bordigae Terracini stabilivano una stretta connes-sione tra il programma del partito e la suainiziativa politica, irrigidendo quest’ultimaattorno alla necessità di non abbandonarel’orizzonte dettato dalle regole programmati-che. Assolutizzando lo schema teorico, le te-si attribuivano all’esame delle diverse situa-zioni il compito di controllare l’esattezza del-l’impostazione programmatica del partito edello svolgimento delle diverse situazioni daquesto già previste.

Nel programma del Partito comunista ècontenuta una prospettiva di successiveazioni messe in rapporto a successive situa-zioni, nel processo di svolgimento che dimassima gli si attribuisce. Vi è dunque unastretta connessione tra le direttive program-matiche e le regole tattiche. Lo studio dellasituazione appare quindi come elemento in-tegratore per la soluzione dei problemi tat-tici, in quanto il partito, nella sua coscienzaed esperienza critica, già aveva prevedutoun certo svolgimento delle situazioni, e quin-di delimitate le possibilità tattiche corrispon-denti all’azione da svolgere nelle varie fasi.L’esame della situazione sarà un controlloper l’esattezza della impostazione program-matica del partito10.

Le situazioni più volte rievocate nel corsodelle tesi non richiamavano alle concretecondizioni politiche e sociali presenti all’in-terno delle diverse realtà nazionali, bensì de-finivano in ambito politico, dimensione pri-vilegiata dall’analisi del Pcd’I, “le posizioni[...] delle forze delle varie classi ed i vari par-titi riguardo al potere dello stato”. Il risulta-to era un succedersi di situazioni tutte con-traddistinte dal costante accrescersi dellaforza del Partito comunista e dal contempo-raneo definirsi delle sue possibilità tattiche.

“L’esame della situazione viene a comple-tarsi nel campo politico con quello delle po-sizioni e delle forze delle varie classi ed i varipartiti riguardo il potere dello Stato. Sottoquesto aspetto si possono suddividere infasi fondamentali le situazioni nelle quali ilPc può trovarsi ad agire e che nella loro nor-male successione lo conducono a rafforzar-si estendendo i suoi effettivi e nello stessotempo a precisare sempre più i limiti del cam-po della sua tattica. Queste fasi possono in-dicarsi come segue: potere feudale assoluti-stico - potere democratico borghese - gover-no socialdemocratico - interregno di guerrasociale in cui divengono instabili le basi del-lo Stato - potere proletario nella dittatura deiconsigli. In un certo senso il problema dellatattica consiste, oltre che nello scegliere labuona via per una azione efficace, nell’evita-re che l’azione del partito esorbiti dai suoilimiti opportuni, ripiegando sui metodi corri-spondenti a situazioni sorpassate, il che por-terebbe come conseguenza un arresto delprocesso di sviluppo del partito ed un ripie-gamento nella preparazione rivoluzionaria.Le considerazioni che seguono si riferirannosoprattutto all’azione del partito, nella se-conda e nella terza delle fasi politiche su ac-cennate”11.

10 Idem, p. 808.11 Idem, pp. 809-810.

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Dunque, l’attività politica del Pcd’I si col-locava nella fase del potere borghese demo-cratico ed in quella del governo socialde-mocratico, cioè alla vigilia dello scontro rivo-luzionario. Ecco, l’analisi della situazioneinternazionale sviluppata dal Pcd’I nel 1921-1922 si inseriva completamente all’internodi questo orizzonte teorico.

Le tesi si occupavano diffusamente deicompiti del Pcd’I nella situazione italiana, etuttavia vi si ritrovano tutti gli elementi cheaccompagnarono Bordiga nelle sue rifles-sioni attorno alla prospettiva rivoluzionariacomunista a partire dal 1919, se non addirit-tura dai suoi primi interventi, nel 1914: la ri-flessione attorno alla natura dello stato de-mocratico-borghese quale “regime dittato-riale della borghesia”, le suggestioni e lecondanne contro la socialdemocrazia prove-nienti dalla vittoriosa Rivoluzione d’otto-bre, dal contemporaneo fallimento delle in-surrezioni tedesche, bavaresi e ungheresi edalla percezione del carattere violento e an-tioperaio dell’iniziativa imprenditoriale del1921-1922.

Il progetto di tesi, presentato dalla delega-zione del Pcd’I alla centrale dell’Ic in occa-sione del I Esecutivo allargato, nel febbraiodel 1922, fu sottoposto a severa critica, so-prattutto da parte di Trotskij e Radek. Dopolunghe discussioni si arrivò alla decisionedi presentare le tesi come contributo, e per-ciò aventi carattere consultivo, alla formu-lazione della tattica del Pcd’I che sarebbestata definita nel corso del IV Congressodell’Internazionale, previsto per gli ultimimesi dell’anno. L’accusa principale che idirigenti Ic rivolgevano a quelli italiani eraquella di aver seguito una tattica differenterispetto a quella fissata nel III Congressoin materia di fronte unico e della conquista

della maggioranza della classe operaia.Non considerando il nuovo contrasto con

l’Internazionale, in sede di dibattito precon-gressuale le uniche voci critiche provenne-ro da alcuni esponenti di secondo piano del-l’organizzazione del partito, principalmenteda Smeraldo Presutti e Gustavo Mersù.

Le critiche di Presutti si focalizzavano so-prattutto sul rapporto fra le varie fasi delprocesso rivoluzionario e le possibili opera-zioni tattiche utilizzabili dal partito. Il limitedi tale rapporto - asseriva Presutti - consiste-va nella rigidità e nella meccanicità instau-rantisi tra l’elaborazione teorica e l’azionepratica del partito, che comportavano il peri-colo della svalutazione di tutti quegli avve-nimenti imprevisti in grado di mettere le mas-se in moto spontaneamente e con possibilitàdi successo12 e, conseguentemente, il rifiu-to di intraprendere azioni politiche con glialtri partiti.

Al fine di legittimare la propria posizione,Presutti richiamava le varie fasi del proces-so rivoluzionario russo, ricordando come lavittoria della rivoluzione in ottobre era statapreceduta da un periodo, da marzo a settem-bre, durante il quale, pur mantenendo la pro-pria autonomia ed indipendenza programma-tica, e confidando nel fatto che gli avveni-menti avrebbero dato ragione al Partito co-munista russo, i bolscevichi agirono con-giuntamente agli altri partiti operai13. Ancorapiù netto era il contrasto assunto di fronteall’atteggiamento della dirigenza comunistariguardo l’applicazione della parola d’ordi-ne della “conquista della maggioranza” e delfronte unico, in quanto Presutti ammettevala possibilità della collaborazione anche alivello politico.

Totalmente all’interno della prospettivasocialdemocratica si situava la critica di Gu-

12 SMERALDO PRESUTTI, Sulla tattica del partito, in “Ordine Nuovo”, 11 gennaio 1922.13 Ibidem.

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stavo Mersù14, il quale sosteneva l’even-tualità di elaborare strategie d’azione in gra-do di accelerare il processo socialdemocra-tico e la successiva lotta per il potere.

Al di là di queste isolate critiche, la di-scussione dipinse però un partito omoge-neo, fiducioso nell’avvento della rivoluzio-ne. Più di tutti i discorsi e gli articoli vale lapena di ricordare uno scritto pubblicato dal-l’“Ordine Nuovo” in occasione del dibatti-to precongressuale, proveniente dai mili-tanti di base di una sezione - quella di Stra-della - della profonda valle padana: anzichéesortare i dirigenti nazionali ad impostare inmaniera articolata un programma di lotta an-tifascista per opporsi alle camicie nere, inquel periodo già padrone di ampie zone dellabassa padana, questi si rivolsero al gruppodirigente, chiedendo informazioni circa ilruolo che avrebbero assunto i sindacati do-po la rivoluzione15.

Lo svolgimento del congresso, tenutosia Roma tra il 21 ed il 25 marzo, evidenziò lapresenza in seno all’organizzazione di unaopposizione di minoranza al gruppo diri-gente. Sebbene eterogenea ed articolata alsuo interno, vi si potevano distinguere duegruppi: uno composto da Presutti e NicolaBombacci; l’altro avente quali componentidi spicco Angelo Tasca e l’economista Anto-nio Graziadei16.

Era soprattutto l’economista ad insisteresulla esigenza di dar vita ad una alleanza frale diverse formazioni operaie, non solo a li-vello economico. Il suo ragionamento si ra-dicava nella constatazione, peraltro secon-

do altri esponenti del suo partito parzialmen-te contraddetta dalle agitazioni di quel perio-do, della passività e della depressione dellemasse operaie; fase che poteva essere supe-rata esclusivamente attraverso la partecipa-zione ad azioni che non precludessero pos-sibili accordi con i diversi partiti politici.

In Tasca, invece, il tema del fronte unicopolitico era posto in secondo piano in quan-to le condizioni peculiari della situazioneitaliana lo rendevano poco opportuno. Mag-gior peso veniva perciò affidato al tema del-l’unità d’azione delle masse nei sindacati e,nel caso italiano, allo sviluppo dell’Alleanzadel lavoro, come pure al tentativo di recupe-rare alla causa comunista i gruppi di sinistradel Partito socialista italiano.

In generale, l’atteggiamento osservatodalla minoranza nei confronti degli altri par-titi operai, sebbene improntato alla più se-vera critica nei confronti della direzionemassimalista, non precludeva possibili col-laborazioni e soprattutto non concordavacon le tesi della maggioranza del partito ri-guardanti la natura borghese dei socialistie la prospettiva socialdemocratica17.

I punti di vista espressi da Tasca e Grazia-dei erano molto più vicini alle posizioni chel’Ic andava assumendo sul fronte unico. Aconferma di ciò vi fu l’accostamento, effet-tuato da Kolarov nel suo discorso, tra la po-litica di conquista delle masse, prospettatadall’Ic al III Congresso e nel successivo Ese-cutivo allargato, e le posizioni espresse dallanascente minoranza. Nel suo discorso il de-legato del Comintern assunse una posizione

14 GUSTAVO MERSÙ, Intorno alla tattica, in “Ordine Nuovo”, 25 gennaio 1922.15 ANGELO BIGNAMI, Osservazioni sulle tesi, ivi.16 JULES HUMBERT-DROZ, Rapporto generale dei compagni Kolarov e Humbert-Droz sul

I Congresso del Partito comunista italiano, in ID, Il contrasto tra l’Internazionale e il Pci,1922-1928, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 44-45.

17 La fine dei lavori del congresso comunista, in “Ordine Nuovo”, 28 marzo 1922; cfr.Chiarimenti del compagno Tasca, in “Ordine Nuovo”, 29 marzo 1922.

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critica di fronte ad alcuni dei temi fondamen-tali proposti nelle tesi, quali la pretesa di for-mulare in maniera definitiva delle modalitàd’azione e l’affermazione circa l’impossibi-lità di procedere oltre nel processo di disgre-gazione dei partiti socialdemocratici.

L’assonanza di giudizi con la direzione ita-liana sui caratteri del contemporaneo “risve-glio operaio”- prima manifestazione fu losciopero dei ferrovieri tedeschi - si dissol-veva, evidenziando ancor di più la diversi-tà di posizioni esistente tra Pcd’I e Ic, allor-quando Kolarov insisteva sull’importanzadella collaborazione con le altre organizza-zioni proletarie: “Se il Partito comunista nonparteciperà al fronte unico politico esso sitroverà automaticamente tagliato fuori da-gli organi direttivi della lotta. Il solo concet-to dell’unità sindacale si riallaccia in un cer-to modo alla concezione sindacalista: la qua-le nega la funzione del partito politico e di-chiara il movimento sindacale sufficiente ase stesso nel condurre il proletariato alla lot-ta rivoluzionaria. Seguendo questo criterio[...] il Partito si terrà fuori dalla diretta parte-cipazione alla direzione della lotta e [si] im-pedirà di [...] penetrare [...] tra le masse”18.

I suoi durissimi strali suscitarono unaprofonda impressione sui delegati congres-suali: “L’attaccamento dei membri congres-suali del Pci all’Ic è tale che l’idea che si svi-luppasse un conflitto tra il loro partito e l’In-ternazionale li turbava profondamente”19.Di qui, l’energica reazione dei membri delComitato centrale: per Terracini “le tesi do-vevano rimanere immutabili”, in quanto la

parola d’ordine del governo operaio elabo-rata dall’Ic era valida solamente in ambitotedesco, al fine di consentire al Kpd di con-quistare a sé le masse. Bordiga riaffermaval’esclusiva possibilità del fronte unico sin-dacale; Gramsci ammetteva la possibilità diattuare il governo operaio solo in paesi ca-ratterizzati da determinate condizioni: “Latattica del fronte unico ha valore nei paesiindustriali, dove gli operai arretrati possonosperare di esercitare un’azione di difesa at-traverso la conquista di una maggioranzaparlamentare”20.

Le possibilità d’applicazione di tale tatti-ca in Italia non esisteva in quanto l’accor-do con i socialisti sarebbe equivalso a quellocon la borghesia. Per Gramsci, unico refe-rente sociale valido era la classe contadi-na21.

Il Congresso si concluse con la votazionedi un ordine del giorno per la maggioranzae di uno per la minoranza Graziadei-Tasca,sulla quale erano stati fatti convergere i votidel gruppo minoritario di Bombacci e Pre-sutti. L’Esecutivo uscì confermato (Bordi-ga, Fortichiari, Grieco e Repossi); il Comita-to centrale subì alcune modifiche, tra le qua-li da segnalare l’ingresso di Palmiro Togliatti,ma non accolse, come era stato da loro ri-chiesto, una rappresentanza della minoran-za. Gramsci venne delegato quale rappre-sentante del partito all’Internazionale, do-vendosi così trasferire a Mosca. Nel com-plesso la maggioranza usciva rafforzata dal-l’assise, anche se permanevano i dissensicon l’Internazionale e l’opposizione interna.

18 Discorso del delegato dell’Internazionale Comunista Kolarof, in “Ordine Nuovo”, 26marzo 1922.

19 J. HUMBERT-DROZ, op. cit., p. 50.20 A. GRAMSCI, Interventi al II Congresso del Partito comunista, in “Ordine Nuovo”, 25

marzo 1922.21 ID, Relazione sul congresso nazionale alla sezione comunista di Torino, in “Ordine

Nuovo”, 6 aprile 1922.

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I mesi successivi avrebbero costituito unsevero banco di prova per le loro valutazio-ni sulla situazione internazionale e sulle stra-tegie d’azione. L’anno appena iniziato sa-rebbe stato caratterizzato da un ulteriore i-nasprimento della crisi economica, alla qualesarebbe corrisposta una contemporanea in-tensificazione dell’azione padronale. Obiet-tivi fondamentali erano la riduzione dei li-velli salariali, le questioni dell’orario e il ren-dimento del lavoro22. In quest’opera eranoaiutati dal contemporaneo aumento delladisoccupazione nei maggiori paesi d’Euro-pa. Togliatti, in un suo scritto, enumeravapercentuali disarmanti: il 31,5 per cento inBelgio; il 21 per cento in Svizzera, il 33 percento in Danimarca, il 34 per cento in Nor-vegia. In Italia, si raggiunse alla fine dell’an-no la cifra di 750.000 senza lavoro23.

L’inizio di questa rinnovata offensiva losegnarono le iniziative padronali inglesi etedesche. La stampa del Pcd’I riconobbe lenovità insite in quell’azione: la serrata degliindustriali metallurgici inglesi non si pone-va più obiettivi esclusivamente economici,ma alzava la posta fino a cercare di elimina-re definitivamente le organizzazioni sinda-cali dai luoghi di lavoro.

La situazione tedesca era invece relativa-mente diversa. Qui l’azione padronale “utiliz-zava la disintegrazione del marco per ridurrei salari reali, colpiva la giornata di otto orechiedendone la formale abrogazione e ricor-rendo alla generalizzazione dello straordina-rio”24.

Le critiche condizioni di vita in cui i lavo-ratori si vennero a trovare produssero una

forte spinta verso l’azione difensiva, dandoluogo, per buona parte del 1922, ad una rin-novata stagione di lotte, nei confronti dellaquale l’attenzione della stampa del Pcd’I fucostante ed interessata. Però, la caratteristi-ca della Germania quale laboratorio di spe-rimentazione di possibili tattiche comuniste,in quel periodo concretizzatesi nella parolad’ordine del “governo operaio”, rendevainevitabile la precisazione di alcune normein merito alla pubblicazione di articoli al finedi limitare la portata del contrasto Pcd’I-Icdi fronte ai suoi militanti.

Terracini, a nome del Comitato esecutivodel Pcd’I, aveva invitato i direttori dei quo-tidiani comunisti a mantenere una posizio-ne di “basso profilo” in merito alla situazionetedesca: “Riportare sui nostri quotidiani taliarticoli senza dare ai lettori la perfetta cogni-zione dell’ambiente tedesco [...] degli scopireali cui tendono le [...] varie proposte [...]riferire puramente [...] le parole, le frasi [...]avallate dalle firme dei più noti uomini del-l’Internazionale [...] significa gettare nelloscompiglio e nell’incomprensione più dan-nosa gli operai ed i comunisti [...] Vi invitia-mo quindi a non pubblicare più per l’avve-nire articoli di questo genere, in cui vengo-no affrontati e risolti i problemi di tattica edi principio se non dopo averne chiesta l’au-torizzazione all’Esecutivo [...] al quale do-vra[nno] inviarsi [...] [per] il commentoesplicativo che dovrebbe accompagnarne lapubblicazione”25.

L’aspetto sottolineato con maggiore insi-stenza in quei primi mesi era il caratterespontaneo della spinta unitaria delle masse.

22 CLAUDIO NATOLI, La Terza internazionale e il fascismo. 1919-1923. Proletariato difabbrica e reazione industriale nel primo dopoguerra, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 171-174.

23 PALMIRO TOGLIATTI, Milioni di disoccupati, in “Ordine Nuovo”, 15 febbraio 1922.24 C. NATOLI, op. cit., p. 223.25 Idem, p. 188.

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A ciò si associava la convinzione che le lot-te in corso rimettessero in discussione lostesso tentativo del governo tedesco di sca-ricare i costi della ricostruzione economicasulle spalle degli operai: “[...] lo sciopero fer-roviario attuale ha trovato il consenso una-nime e spontaneo di tutto il proletariato te-desco e [...] la condanna del movimento daparte dei capi sindacali non ha fatto che con-tribuire alla sua accentuazione ed estensio-ne alle categorie di impiegati ed operai. Laclasse operaia tedesca sente perfettamenteche non si tratta di una comune lotta per isalari, ma anche di una grande lotta politicacontro il programma di imposizioni del go-verno e contro il modo con cui quest’ultimoritiene di poter soddisfare ai suoi impegniverso le riparazioni, condannando le masseoperaie ad una dura miseria”26.

Lo sciopero dei ferrovieri del febbraio1922, seguito dalla serrata delle industriemetallurgiche della Germania del Sud (aprile-maggio), conclusosi con un’ulteriore di-minuzione dell’orario di lavoro, segnò l’ini-zio del nuovo periodo di agitazioni. A que-sta ritrovata combattività operaia il Pcd’Iaccostava la progressiva perdita d’influenzadei partiti socialdemocratici ed indipenden-ti, sia a livello locale che nazionale: “Per for-tuna del proletariato tedesco e mondiale, lostato di avanzata disorganizzazione dei par-titi socialdemocratici in Germania ed il cre-scente malcontento contro l’inerzia dei capiha fatto sì che l’atteggiamento faziosamen-te scismatico di questi ultimi non è stato ge-neralmente seguito dai loro aderenti e chel’unificazione delle masse proletarie si è in

gran parte compiuta dal basso, senza essi econtro di essi [...], anche nei minori centrioperai di tutta la Germania si verificava lostesso fenomeno, gli operai indipendenti,ed in gran parte anche maggioritari, passan-do sopra al sabotaggio e al gretto odio daparte dei capi, si riunivano con i loro compa-gni comunisti di fronte all’imminente perico-lo della reazione”27.

L’assassinio di Rathenau, ministro degliEsteri del governo tedesco, avvenuto il 24giugno 1922, e la gravissima crisi politicache ne seguì, arricchirono i contenuti dellalotta operaia di un nuovo aspetto: quello delconfronto con la montante reazione. Il 1922segnava infatti il ritorno sulla scena politi-ca dei movimenti monarchici, delle associa-zioni combattentistiche, dei corpi volonta-ri, degli ufficiali dell’esercito che, sfruttan-do le drammatiche condizioni di vita dellapopolazione e propagandando il mito “del-l’ordine prussiano” e del tradimento dellaRepubblica di Weimar, si erano garantiti unseguito di massa28.

Il Kpd riuscì ad organizzare, nel mese digiugno, numerose manifestazioni con l’Spd el’Uspd; l’assassinio di Rathenau, acceleran-do questa tendenza all’azione unitaria, con-sentì di raggiungere un accordo - un pro-gramma minimo e non quello prospettato dalKpd - con gli altri due partiti sulla base del-la difesa delle istituzioni repubblicane dalleorganizzazioni e dalla propaganda di destra.Il successo di partecipazione delle manife-stazioni, che in alcune località assunsero icaratteri di veri e propri scioperi generali,preoccupò i dirigenti socialdemocratici ed

26 Lo sciopero dei ferrovieri tedeschi e il bilancio del Reich, in “Ordine Nuovo”, 14 feb-braio 1922.

27 Nelle file dell’Internazionale comunista, in “Rassegna Comunista”, a. II, 30 marzo1922, p. 1.191.

28 ALDO AGOSTi, La Terza Internazionale: storia documentaria, Roma, Editori Riuniti,1974, volume I, tomo II, p. 500; cfr. C. NATOLi, op. cit., pp. 235-236.

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indipendenti, i quali si affrettarono a risol-vere la crisi politica scatenata dall’omicidiodel ministro, rompendo ogni precedente ac-cordo con i comunisti e approvando unalegge per la difesa della repubblica dal con-tenuto talmente vago da poter essere utiliz-zata contro ogni associazione sovversiva,compreso lo stesso Kpd.

A differenza del gruppo dirigente tede-sco, che individuava nel quadro delle nuo-ve lotte operaie contro la reazione “non giàil segno della decomposizione dello statoborghese, bensì una più generale manife-stazione dell’offensiva che le classi borghesiavevano scatenato una volta rifluita l’onda-ta rivoluzionaria”29, il Pcd’I riconobbe, nel-l’evolversi della situazione tedesca, fenome-ni quali il progressivo acuirsi della lotta diclasse, la radicalizzazione delle masse e lapolarizzazione sociale caratteristici di unasituazione prerivoluzionaria: “Le forze so-ciali in contrasto vanno sempre più polariz-zandosi verso due poli estremi; è fra di essiche avverrà l’urto estremo nel quale rimar-ranno fatalmente travolte tutte le forze inter-medie oggi tormentate dall’assillante con-ciliazione degli inconciliabili”30.

Ulteriore conferma della validità delle lo-ro convinzioni giungeva loro dall’analisidelle vicende dei partiti socialdemocratici edindipendenti: “È chiaro dunque che oggi ilproletariato tedesco, date le condizioni poli-tiche ed economiche della Germania, si o-rienta verso una visione nettamente comu-nista della lotta di classe [...] a chiarificaremaggiormente la situazione ha contribuitomoltissimo la preparazione della coalizione

dei due partiti socialisti; [...] codesta [...] dàle maggiori aspettative di vedere raggrup-pare intorno al Pc le masse operaie”31.

Erano le stesse associazioni istituite dal-le masse nelle giornate successive l’assas-sinio di Rathenau a nutrire, nel Pcd’I, la con-vinzione di assistere ad un salto di qualitànella lotta di classe: i comitati d’azione e dicontrollo costituivano, infatti, oltre che or-ganismi di difesa delle garanzie repubblica-ne, anche nuclei di un iniziale armamentodel proletariato tendenti a svilupparsi comecentri di potere alternativi alle istituzioniborghesi32. In altri paesi il movimento ope-raio non era riuscito a ridestarsi come nelcaso tedesco, lasciando la possibilità ai mo-vimenti reazionari di agire indisturbati. Ti-pici erano gli esempi della Spagna e dell’Eu-ropa centrale, dove le organizzazioni prole-tarie agivano in maniera semi illegale od il-legale o erano soggette a feroci repressioni.

Di fronte a questa situazione il Pcd’I sot-tolineava nuovamente l’importanza di svol-gere un’intensa attività all’interno dei sin-dacati, con l’obiettivo di conquistarne la di-rezione e unificare le lotte in senso rivolu-zionario. Ancora una volta, scenario princi-pale delle osservazioni sull’azione comuni-sta nei sindacati in ambito internazionale fuil movimento tedesco, dove la radicalizza-zione delle masse, congiuntamente alla pro-paganda svolta dal Kpd, aveva permessouna crescita della minoranza comunista neisindacati e nella rete dei consigli di fabbricache, in occasione del congresso nazionaledella confederazione tedesca, giunse a con-tare circa un terzo degli iscritti33.

29 Idem, p. 236.30 I due estremi, in “Ordine Nuovo”, 28 giugno 1922.31 Nelle file dell’internazionale Comunista, in “Rassegna Comunista”, a. II, 31 luglio

1922, p. 1.293.32 Idem, pp. 1.294-1.295.33 La lotta per il fronte unico, in “Rassegna Comunista”, a. II, 30 aprile 1922, pp. 1.045-1057.

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Più complessa appariva la situazione ne-gli altri paesi, ad esempio in Francia ed inCecoslovacchia.

Nel paese transalpino le tendenze di sini-stra erano state espulse dal sindacato e sierano viste costrette a fondare una nuovaconfederazione sindacale, la Cgtu, che sa-rebbe riuscita ad affiliarsi all’Internazionaledei Sindacati rossi (Isr) solamente in segui-to alla vittoria nel suo congresso nazionaledel gruppo comunista.

In Cecoslovacchia, dove la spinta versol’azione unitaria per controbattere le conse-guenze della crisi economica conseguivapromettenti risultati, i sindacalisti socialistisi apprestavano ad espellere la sezione co-munista34.

Anche in Italia il 1922 segnò la ripresadell’attività operaia ed una spinta verso larealizzazione di forme di lotta unitarie con-tro l’azione padronale e le gesta fasciste.Scioperarono gli addetti ai settori dell’indu-stria chimica, quelli del settore della cerami-ca, le maestranze dei porti più importantidella penisola e quelli del settore edile. Nelgiugno-luglio insorse la categoria dei me-tallurgici, proclamando uno sciopero chepresto si diffuse in vaste zone d’Italia35.

L’Alleanza del lavoro, nata all’inizio del1922 dalla collaborazione tra Cgl, Usi e Sfi,sorse appunto sulla base delle spinte ope-raie. Dopo la breve stagione degli Arditi delpopolo, l’Adl rappresentava un’ulteriorepossibilità per dar vita ad un organo unitariodi difesa della classe operaia in grado di co-ordinare manifestazioni ed agitazioni di mas-sa. La sua scarsa ramificazione locale; l’at-

teggiamento adottato dai riformisti, volto adutilizzarla come strumento di pressione perindurre il re a costituire un governo a parteci-pazione socialista; l’appoggio esterno forni-to dal Pcd’I, al fine di non limitare la proprialibertà d’azione e di critica, avrebbe ristret-to le potenzialità dell’Adl. All’indomani dellaconclusione dello sciopero dei metallurgi-ci, proprio per influenzare le scelte sulla de-signazione del nuovo capo del governo, isindacalisti riformisti, potendo godere del-la maggioranza in seno all’Adl, proclamaro-no lo sciopero generale (agosto 1922) che,scarsamente coordinato, non previsto, in-detto quando ormai la pressione operaia co-minciava a scemare, si concluse con una gra-ve sconfitta, tramutandosi nella “Caporet-to”36 del movimento operaio e spalancan-do le porte alla definitiva offensiva fascista.

Lo “sbandamento” della classe operaia funotevole. L’Adl si sciolse poco dopo la con-clusione dello sciopero; i sindacati dimezza-rono il loro numero di aderenti; il Pcd’I vidediminuire drasticamente la propria presen-za nei luoghi di lavoro.

Nel contempo il fascismo, acquisendo ilconsenso di coloro che videro nel movimen-to i restauratori dell’ordine e dell’autoritàdello Stato, ottenne la definitiva vittoria po-litica. Questo non impedì ai dirigenti del par-tito - nonostante la consapevolezza dellagravità della sconfitta operaia, specialmentenelle sue organizzazioni sindacali - di cre-dere possibile una ripresa della lotta operaiae di valutare positivamente alcuni aspettidell’esito dello sciopero d’agosto, primo fratutti quello di aver dimostrato definitivamen-

34 Nelle file dell’Internazionale Comunista, in “Rassegna Comunista”, a. II, 30 settembre1922, pp. 1.425-1.438.

35 C. NATOLI, op. cit., pp. 242-246.36 È il titolo che Tasca, in Nascita ed avvento del fascismo, Scandicci, La nuova Italia, 1995

(1a ed. 1950), dedica alle agitazioni operaie della prima metà del 1922, culminate con lo scio-pero dei metallurgici del luglio e quello “legalitario” dei primi giorni d’agosto.

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te il carattere controrivoluzionario del Psi edella Cgl.

D’altronde, anche nel resto d’Europa lecondizioni del movimento operaio non sem-bravano migliori. Molti partiti comunistiavevano subito una preoccupante flessio-ne di militanti (il Partito comunista cecoslo-vacco da 360.000 a 170.000; quello norve-gese da 98.000 a 60.000; quello francese da131.000 a 78.000) e ancora peggiore si pre-sentava la situazione nel campo sindacale,dove il calo dei militanti e la diminuzionedegli scioperi assunse dimensioni impres-sionanti. Contemporaneamente “l’offensi-va del capitale, in atto ormai da due anni co-minci[ava] ad assumere aspetti nuovi ed an-cor più preoccupanti: dal terreno economi-co, su cui aveva prevalentemente agito fi-no a quel momento esercitando una pressio-ne sempre più forte sulla classe operaia,essa mostrò la tendenza ad estendersi sulpiano politico, portando al potere l’ala piùconservatrice, quando non apertamente rea-zionaria. Fin dal gennaio 1922 la Francia [...]era governata da una coalizione di centro-destra, il Bloc National; [...] in Inghilterra,nel mese di ottobre, il governo liberale diLloyd George perdeva la fiducia della Came-ra dei comuni e veniva sostituito da un go-verno nettamente più moderato; [...] in Ger-mania, a metà novembre [...] subentrava acapo del governo da cui erano esclusi i so-cialdemocratici, Wilhelm Cuno, uomo di fidu-cia dell’industria pesante e delle grandi ban-che; [...] in Polonia, alla fine dell’anno, il pre-sidente della repubblica Narutowicz cadevavittima di un attentato; [...] in Bulgaria, indicembre, si inaspriva gravemente la tensio-ne fra il governo dell’unione contadina e il

blocco delle opposizioni moderate [...]”37.La delegazione italiana, composta da e-

sponenti della maggioranza e della minoran-za, partendo alla volta di Mosca per parte-cipare al IV Congresso dell’Ic, nell’autunnodel 1922, vedeva così ulteriormente compli-carsi ed allontanarsi le prospettive rivo-luzionarie. D’altronde, con questo giudizioconcordavano, nonostante significative dif-ferenze, tutti i maggiori esponenti del grup-po dirigente Ic. Per Zinov’ev e Bucharin,l’offensiva capitalistica rappresentava il sin-tomo del definitivo decadimento del sistemaborghese, a cui presto sarebbe sopraggiun-ta la rivoluzione proletaria; Radek e Trotskjiinvece attribuivano alla reazione maggiorepericolosità e durata38.

Al di là di queste distinzioni però, identi-ca era l’esigenza di sviluppare la parola d’or-dine lanciata al III Congresso ed arricchitanei successivi esecutivi allargati. Le tesisulla tattica si incentrarono, infatti, in par-ticolare sul tema del fronte unico e del go-verno operaio. Ogni accentuazione offen-sivistica lasciò il posto alla consapevolez-za che la tattica del fronte unico avrebbe po-tuto contraddistinguere “un intero periodoe forse un’intera epoca”. Inoltre, si facevastrada la consapevolezza che la rivoluzionein Occidente potesse percorrere, applican-do la parola d’ordine del governo operaio,un cammino in parte diverso da quello cheaveva percorso in Russia.

Nel corso delle discussioni che seguiro-no la presentazione delle tesi, i delegati del-la maggioranza e della minoranza del Pcd’Iebbero modo di confrontarsi su questi temi.Il primo a prendere la parola fu Bordiga39; ilsuo discorso, in molti punti affine a quello

37 A. AGOSTI, op. cit., p. 595.38 Idem, p. 596.39 Intervento di Bordiga al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, cit. Traduzione

dal francese dell’autore.

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di Zinov’ev, espresse in maniera chiara e di-stinta la sua analisi della situazione interna-zionale e delle possibilità d’azione dei partiticomunisti. Inequivocabile era la constata-zione del carattere definitivo della crisi delcapitalismo: “C’è una crisi che non è pas-seggera, ma che è la decadenza stessa delcapitalismo e si può definire definitiva”40.

Ciò non dava spazio a facili speranze nel-l’imminenza dello sconvolgimento rivoluzio-nario41. Rifacendosi a quanto il partito ave-va per mesi osservato nei movimenti sin-dacali europei, Bordiga constatava come lacrisi economica avesse colpito un elementofondamentale del processo rivoluzionario:“Di solito, si riconosce alla tendenza di sini-stra la fede nell’avvenire prossimo della ri-voluzione; ora, io sono un po’ più pessimi-sta a riguardo che il compagno Zinov’ev. Seuna condizione obiettiva indispensabile del-la rivoluzione è l’esistenza di una grande cri-si capitalistica [bisogna] constatare che lecondizioni soggettive dell’esistenza di unaforte Internazionale comunista e della suainfluenza sulle masse è in un certo sensocompromessa per l’influenza diretta dellacrisi sulle organizzazioni operaie economi-che, sui sindacati e le organizzazioni analo-ghe che possiamo chiamare organizzazioniprimordiali, naturali della classe operaia, sul-le quali si agita nella maniera più immediatalo sviluppo della situazione oggettiva [...]A mio avviso, malgrado l’eccezione fatta inquel momento per certi paesi, la situazioneeconomica si diffonde in maniera generale,portando disoccupazione e rarefazione deisindacati”42.

In queste condizioni il lavoro prioritariosi sarebbe dovuto rivolgere alla preparazio-ne rivoluzionaria del partito, al consolida-

mento delle sue basi comuniste e alla costi-tuzione del fronte unico sindacale.

Così, se fondamentali rimanevano le lot-te per le rivendicazioni parziali della classeoperaia, bocciata era la prospettiva della co-stituzione di un fronte unico politico e re-strittiva risultava essere l’interpretazionedata della parola d’ordine del governo ope-raio, valutato al più - in questo concorde conil giudizio espresso da Zinov’ev - come si-nonimo della dittatura del proletariato.

Tutto lo sforzo elaborativo dell’Interna-zionale comunista, volta a trovare una for-ma di transizione, attraverso fasi intermedie,dalla democrazia borghese al governo pro-letario, nella consapevolezza delle difficol-tà incontrate nell’Europa occidentale a cau-sa della complessità della società e del per-durare dell’influenza socialdemocratica sul-le masse, veniva giudicato negativamenteda Bordiga che, quale chiave interpretativadel processo rivoluzionario, riproponeva letesi tattiche elaborate per il II Congresso delPcd’I: “Se si considera obiettivamente la rea-lizzazione di un regime [governo operaio]preparante il passaggio alla dittatura prole-taria sono dell’avviso che la lotta non pren-derà una forma decisiva; si deve attenderea che il processo si incammini verso i colpidella reazione, verso governi possibili dicoalizione ai quali la destra degli opportu-nisti parteciperà probabilmente in modo di-retto; i centristi spariranno dalla scena po-litica, dopo aver compiuto il loro ruolo dicomplici [...] in Germania per esempio, noivediamo, alla vigilia di una crisi industrialegenerale, porsi nel movimento dei consiglidi fabbrica il problema del controllo dellaproduzione. C’è una certa analogia con lasituazione italiana del mese di settembre che

40 Idem, p. 6.41 Idem, p. 7.42 Ibidem.

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precedette la grande sconfitta operaia. Seun fatto rivoluzionario deve prodursi, il Par-tito comunista tedesco deve prepararsi a ve-dere tutte le tendenze opportunistiche e ri-fiutare senza eccezioni le più modeste paroled’ordine del controllo della produzione. Ilpartito potrà giocare un ruolo autonomo edè possibile che una situazione controrivolu-zionaria si sviluppi, preparando un governonel quale un fascismo tedesco avrà la colla-borazione dei traditori della destra socialde-mocratica”43 .

Per la minoranza prese la parola Grazia-dei44. Le tesi dei “destri”, specialmente perciò che riguardava i temi centrali del con-gresso, il fronte unico ed il governo operaio,ricalcarono quelle presentate dall’Interna-zionale, distinguendo nel fronte unico duelivelli d’applicazione: uno consisteva nel-l’incorporare gruppi provenienti da altri par-titi in quello comunista; l’altro nell’elaborarepossibilità d’azioni comuni con le altre orga-nizzazioni proletarie, compresi i partiti poli-tici.

Riguardo la concezione della funzione delgoverno operaio, la minoranza propendevaa riconoscerne la validità di parola d’ordineintermedia, specialmente in quei paesi dovele masse operaie giacevano ancora sottol’influsso della socialdemocrazia: “Nei paesiin cui la possibilità per la classe operaia diconquistare il potere esiste, il governo ope-raio si presenta come il risultato del fronteunico. Infatti, quelle parti della classe ope-raia che sono ancora sotto l’influenza deipartiti socialisti, non credono per il momen-

to alla dittatura del proletariato. Per spinge-re alla conquista del potere ci si deve ac-contentare della formula del governo ope-raio. Si può intravedere la possibilità stori-ca che il governo operaio sia una tappa trail governo borghese o socialdemocratico ela dittatura del proletariato. In quel caso sipuò anche pensare che il governo operaioabbia ancora una forma parlamentare [...] sipuò, in paesi che contano un grande partitodella classe operaia ancora imbevuto delleidee democratiche borghesi o semi-borghe-si, che un governo operaio possa essere co-stituito, per un periodo di tempo, da un latosu un’organizzazione sindacale la quale do-vrà cercare di avvalersi politicamente dellelotte, e dall’altro su una forma ancora par-lamentare. Non possiamo respingere il go-verno operaio solamente perché può avere,per un certo periodo di tempo una formaparlamentare, sarebbe un suicidio”45.

L’argomento principale della questioneitaliana al IV Congresso fu quello inerenteai rapporti con il Psi. La scissione avvenutaal congresso di Milano, nell’ottobre 1922,tra massimalisti e riformisti, insieme all’evol-versi della situazione italiana, avevano con-vinto l’Ic della necessità di un riavvicina-mento dei due partiti in vista di una futuraloro fusione46. Già in occasione di una riu-nione del Comitato centrale del Pcd’I, all’in-terno della maggioranza erano affiorate dif-ferenziazioni riguardo a questo tema. Al Con-gresso la discussione su questo aspettodella situazione italiana si protrasse inutil-mente per molte sedute fino a quando, posti

43 Ibidem.44 Intervento di Graziadei al IV Congresso dell’Internazionale Comunista (Mosca, 11

novembre 1922), in “La Correspondance Internationale”, n. 27, 11 dicembre 1922. Tradu-zione dal francese dell’autore.

45 Idem, p. 9.46 Cfr. A. AGOSTI, op. cit., pp. 610-612; P. SPRIANO, op. cit., pp. 232-242; C. NATOLI, op. cit.,

pp. 299-301.

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di fronte all’eventualità di giungere ad unapubblica rottura con l’Internazionale, lamaggioranza si spaccò: da una parte gli in-transigenti, guidati da Bordiga, decisi a nonprocedere a nessuna trattativa con il Psi epronti a lasciare nelle mani della minoranzala guida del partito nel caso la loro linea nonfosse passata; dall’altra, sospinti da Gram-sci e Mauro Scoccimarro, coloro che accet-tavano l’unificazione, ma si riservavano didiscuterne le condizioni. Al termine delletrattative si giunse ad una risoluzione chesanciva l’unificazione tra Pcd’I e Psi e stabi-

liva una serie di misure atte a realizzarla nelpiù breve tempo possibile.

Il processo di differenziazione, iniziatosinell’autunno-inverno del 1922 e prosegui-to in condizioni di estrema difficoltà a cau-sa della marcia su Roma, dell’arresto di nu-merosi dirigenti comunisti, dello sprofonda-mento nell’azione illegale del partito per tut-to il 1923, si doveva concludere ufficialmen-te solo nell’estate del 1924, con l’insedia-mento alla guida del partito del gruppo diri-gente formatosi intorno a Gramsci.

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PIERO AMBROSIO (a cura di)

“Un ideale in cui sperar”

Cinque storie di antifascisti biellesi e vercellesi

2002, pp. 134, € 8,00

Le memorie di alcuni antifascisti biellesi e vercellesi che, per la loro radicale oppo-

sizione al regime fascista, subirono la carcerazione e il confino, sono raccolte in

questo volumetto, basato su testimonianze dirette di una militanza che, con coe-

renza, affrontò le dure conseguenze di una scelta politica rivoluzionaria.

Angelo Irico, Domenico Facelli, Mario Spirito Coda, Idelmo Mercandino e Ugo

Giono, dei quali viene presentata una breve biografia introduttiva, sono le voci che

delineano il quadro dell’antifascismo nei suoi aspetti politici, sociali e culturali,

attraverso il racconto delle vicende che li videro costretti a subire condanne al car-

cere, al confino o ad emigrare clandestinamente.

Angelo Irico ripercorre l’esperienza dell’emigrazione politica in Francia e in Unione

Sovietica e la sua partecipazione alla guerra civile spagnola; Domenico Facelli, con

spontaneità e modestia, si sofferma sulle principali tappe della sua vita, scandita

dalle persecuzioni della dittatura; Mario Spirito Coda, militante antifascista bielle-

se, ricorda la sua condanna a dieci anni per appartenenza al Partito comunista e

propaganda; Idelmo Mercandino racconta gli eventi che determinarono il suo arre-

sto, il deferimento al Tribunale speciale, l’emigrazione in Francia e in Unione Sovie-

tica, le missioni compiute in Germania e Italia per conto dell’Internazionale e del

Pcd’I; Ugo Giono, infine, rievoca la sua attività antifascista clandestina, che gli causò

due deferimenti al Tribunale speciale.

Completano il volume le appendici contenenti l’elenco di gruppi antifascisti ope-

ranti in provincia di Vercelli e i cenni biografici di antifascisti citati nelle memorie.

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saggi

l’impegno 49

Il mondo del lavoro: tra campanilismoe mobilità sociale

“Una volta si diceva: ‘Noi veneti abbia-mo conquistato il Piemonte senza adopera-re il fusile’...” (testimonianza di Valentino Pi-votto).

La frase citata allude, ovviamente, al la-voro: esso fu il motore delle migrazioni, laforza che attirava nel Biellese (dove ce n’e-ra assolutamente bisogno) masse di popo-lazione e che contribuì a rendere gli stessiimmigrati persone più libere.

L’ambiente di lavoro fu il primo vero luo-go d’incontro tra i vecchi e i nuovi biellesi,e lì si innescarono conflitti scaturiti dallapaura dei primi di vedersi minacciati dallaconcorrenza e dalla scarsa adesione dei se-condi alle lotte della classe proletaria.

Data la complessità della situazione è be-ne distinguere fra i vari ordini di problemi.Innanzitutto bisogna capire quali fossero leopportunità lavorative concrete. Non man-carono casi di guadagni ricavati da attivitàsecondarie, ai confini della legalità.

“[...] molti erano contrabbandieri di tabac-

co, che lo andavano a prendere dalla partedi Trento e lo portavano con la ‘bricolla’,come uno zaino in legno. Lo tagliavano e lopestavano, poi lo portavano dalle parti diVerona, finché hanno cominciato a portarloanche qui [nel Biellese]. Anch’io e mia so-rella da bambine l’abbiamo fatto. Lo porta-vano solo ai veneti perché già a casa tabac-cavano” (testimonianza di Angela Frello).

Il settore edile richiese molti manovali edal Vicentino arrivarono scalpellini e mu-ratori. I piemontesi avevano lasciato il pro-prio posto partendo al seguito di impresariche formavano squadre professionali al-l’estero, partecipando alla costruzione dicase e infrastrutture. I veneti, abili artigiani,ne colmarono presto il vuoto1.

Inoltre, anche nelle vallate tessili, ci fu unboom edilizio legato alla necessità di costrui-re abitazioni, fabbriche, reti stradali, dighe,canali e altre strutture, per cui furono impie-gati numerosi immigrati.

“[...] mio papà lavorava nell’edilizia [...] super la ditta Vineis a Trivero, lavorava nellapanoramica e alla diga” (testimonianza diGermela Covolo).

MAURIZIA PALESTRO

L’inserimento dei veneti nelle vallate laniere biellesi*

II parte

* Saggio tratto dalla tesi di laurea Da un Nord all’altro. Aspetti, problemi, vite vissutedell’emigrazione veneta nel Biellese del Novecento, Università del Piemonte orientale,Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2001-2002, relatore prof. Claudio Rosso.

1 CATERINA CORRADIN, Emigrazione al femminile. Dalla montagna vicentina alle vallatetessili biellesi, tesi di laurea, Università degli Studi di Verona, 1988, p. 189.

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Maurizia Palestro

50 l’impegno

“Mio padre faceva lo stagionale [...] Sonovenuti anche i miei zii, uno faceva il murato-re e l’altro il becchino [...] il papà che rientra-va tardi perché lavorava nella galleria e perla costruzione della strada del Piancone.Molti sono anche morti lavorando lì” (testi-monianza di A. Frello).

“Qui in Piemonte sono venuti prima i mieifratelli che sono più vecchi, poi quando ioavevo finito le scuole allora sono venutogiù con il mio papà. Si veniva proprio a cer-care il lavoro, bisognava anche trovarlo efare il nullaosta dal De Buono, era lui il sinda-cato e si andava là quando ti trovavi il lavo-ro qui. Se questo qua te lo faceva andavi alavorare, anche in nero. Se diceva che nonpoteva fartelo si andava a cercare lavoro daun’altra parte. E guai ad alzare la testa, bi-sognava lavorare.

Io ero muratore, avemo comincià e miofratello aveva diciotto anni e ha cominciatoa fare il capo e a lavorare per conto proprio,ha messo su un’impresa e io lavoravo perlui. Abbiamo lavorato a Borgosesia, per lecase dei Tonella e dei Trabaldo, con operadi tutte le razze: bergamaschi, bresciani,padovani, da Rovigo [...] Mio papà ha tro-vato subito il lavoro, dopo quando comin-ci, anno per anno le imprese ti conoscono.Se sei un bravissimo operaio ti assumeva-no sempre. Il licenziamento lo facevano sem-pre verso novembre, licenziavano tutti glioperai e li riassumevano in primavera. Di in-verno qui non si lavorava. Per esempio unaimpresa grossa, con quaranta-cinquantaoperai, o cento, la maggior parte venivanotutti licenziati alla fine di novembre. Però inprimavera li assumeva di nuovo quelli cheinteressavano, gli altri dovevano cercarsi la-voro ancora. Di magari trenta operai assun-ti solo otto erano assicurati e tutti gli altri in

nero2. Ma se tu andavi dai sindacati a re-clamare non trovavi più lavoro perché ti se-gnavano in rosso nel libretto allora.

Io partivo a piedi da Pray e andavo su fi-no al Piancone, a piedi, e facevo dieci-dodi-ci ore di lavoro; alla sera venivo a casa a pie-di. Ho costruito la chiesetta di Novarea. Tan-ti veneti hanno lavorato nella costruzionedelle strade, della Panoramica Zegna. Quel-li che ad esempio lavoravano per il geome-tra Vineis, che lavorava per un’impresa chelavorava molto per gli Zegna, per la costrus-sion della fabbrica, che a sua volta lavora-va per due fratelli, i Lazzarotto. Uno di que-sti due fratelli ha donato il sangue al conteZegna, allora lui li ha fatti diventare signori,gli ha dato in mano tutta la montagna, dafare strade, da fare muri. Alla fine quei ses-santa-settanta operai che aveva, che eranotutti da San Donà del Piave e da quelle partidi là, non han preso un soldo di liquidas-sion, neanche una marcheta, tuti fregati inpieno! Ecco perché, parlo per la mia età, ab-biamo tutti dovuto lavorare fino a sessanta-sessantadue anni, e di lavoro duro, non co-me adesso, ti faceva venire fuori il sanguenelle mani.

Così andavi a casa, ritornavi al paese dal-la tua famiglia, fino alla fine di febbraio. Eun’altra volta venivi giù. Prendevi la disoc-cupazione, ma erano pochi soldi” (testimo-nianza di Silvano Rodighiero).

Una simile occupazione aveva, come sivede, alcuni svantaggi: le condizioni di la-voro erano difficili e a rischio di incidenti;si trattava inoltre di soluzioni temporanee,poiché durante i mesi più rigidi il lavoro ces-sava per riprendere con la bella stagione.Durante l’inverno alcuni ritornavano al pro-prio paese, ma il salario percepito, la “disoc-cupazione”, era minimo e mancava la certez-

2 Si parla sempre dell’edilizia, il ramo lavorativo in cui trovò occupazione il signore inter-vistato.

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L’inserimento dei veneti nelle vallate laniere biellesi

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za di essere riassunti in primavera. Il concet-to di “tutela” era quasi inesistente. In alcunicasi, però, i veneti riuscirono a mettersi inproprio, gestendo le imprese edili che avreb-bero dato lavoro ad altri immigrati3.

In un territorio di opifici il settore tessileaveva comunque il primato e il lavoro di o-peraio era una sorta di miraggio, più sicurorispetto a quello dei muratori. L’aspettativamigliore “a l’éra ’ndé dinta ’n fabrica”4.Poteva capitare che i veneti lavorassero pri-ma come muratori e poi trovassero un po-sto più rassicurante in un lanificio. La mag-gior parte di coloro che si trasferirono nellevallate laniere furono assunti nelle aziendelocali, duecentotto fabbriche sulle ottocen-to esistenti in tutta Italia5, occupando i postidi quei piemontesi che erano andati all’este-ro sperando di valorizzare altrove la propriacapacità.

“I più grandi cominciarono subito a lavo-rare. Non fu difficile perché le fabbriche era-no tante [...] In fabbrica svolsi i lavori piùumili, finché a quindici anni mi misero inregola e la mia condizione migliorò [...] la-vorai con mio marito, anch’egli originario diConco, nella stessa fabbrica; facevamo i tur-ni: io dalle 6 alle 14 o dalle 14 alle 22 e miomarito l’orario notturno dalle 22 alle 6, perchéla paga era più alta. [...] certo si doveva lavo-rare sodo, ma per fortuna a noi la volontà nonmancava: i veneti si fecero conoscere edapprezzare per la loro volontà e tecnica”6.

I primi arrivati furono occupati negli sta-bilimenti di filatura e tessitura, adibiti ad unaproduzione che richiedeva una manodope-ra non specializzata. Parte dei salari venivapoi inviata al paese, tenendo per sé lo stret-to necessario (soprattutto se erano emigra-ti lasciando in Veneto la famiglia e senza l’in-tenzione di fermarsi in Piemonte definitiva-mente).

L’assunzione nelle fabbriche continuò aritmi serrati fino al periodo fascista7, quandofu emanata una legge che obbligava gli o-perai ad avere la residenza di almeno sei mesinel luogo d’immigrazione. L’assegnazionedi un impiego avveniva solo nel caso in cuiil dipendente avesse un posto dove viveree per tale motivo, molto spesso, fu indispen-sabile l’aiuto di altri immigrati che offrivanoospitalità ai nuovi arrivati.

Ma quali mansioni svolsero gli operaiprovenienti dal Vicentino? Ad eccezione diquelli con esperienza maturata nelle indu-strie tessili venete (come quelle di Schio),pochi avevano una preparazione adeguata.Si caratterizzarono per la forte mobilità dellavoro che li portava a spostarsi tra i varistabilimenti in cerca di migliori condizioni.

Una volta entrati in fabbrica essi svolge-vano i lavori più semplici e solo con l’espe-rienza e l’insegnamento degli operai quali-ficati poterono sperare in impieghi diversi.In fabbrica non mancava l’opportunità diapprendere il mestiere: alcuni restavano ol-

3 Sul difficile inserimento degli immigrati si veda FLAVIA ZACCONE DEROSSI, L’inserimentonel lavoro degli immigrati meridionali a Torino, in CRIS, Immigrazione e industria, Milano,Edizioni di Comunità, 1962.

4 ALBERTO LOVATTO, L’ordito e la trama. Frammenti di memorie su lotte e lavoro dei tessiliin Valsessera negli ultimi cinquant’anni, Genova, La clessidra; Borgosesia, Cgil Valsesia-Isrsc Vc, 1995, p. 22.

5 C. CORRADIN, op. cit., p. 204.6 A. DEL PONTE, Emigrazione, in “4 Ciacole”, n. 35, dicembre 1992, p. 11.7 ANNA TREVES, Le migrazioni interne nell’Italia fascista. Politica e realtà demografica,

Torino, Einaudi, 1976, pp. 103-110.

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tre le otto ore per imparare a fare i tessitori.Era una formazione che partiva dalla gavet-ta, incominciando dai lavori più umili (sco-pare saloni, pulire telai) e facendosi insegna-re il mestiere da operai più esperti, natural-mente in modo gratuito8.

“Mio papà era veneto, di Conco, ed è ve-nuto giù nel ’25 con suo fratello [...] è anda-to a lavorare dal Trabaldo, ha trovato su-bito il lavoro” (testimonianza di Graziella Za-nella).

“[...] io ho trovato lavoro subito dagliZonco, a Flecchia Basso. Ho lavorato tre an-ni [...] Dopo tre anni dovevo farmi davveroun mestiere, volevo imparare a fare il tessi-tore. Così sono andato dalla Margherita e ison dighe che volevo andare e lei mi ha da-to ragione. Si trovava subito, non c’era pro-blema. Prima stavamo a Flecchia poi mio pa-dre ha trovato e siamo andati ad abitare piùsotto. Io sono andato a fare il groppino allafabbrica dei Ferla, bisognava imparare quel-lo prima di fare il tessitore. Avevo sui sedici-diciassette anni e lì lavorava mia sorella piùgiovane, aggiustava le pezze. Intanto, neltempo perso un uomo mi insegnava a fare iltessitore, dopo aver finito il mio lavoro. Poiè arrivato il mio turno di avere il telaio. Perfar vedere di essere veloce cambiavo la na-vetta senza fermare il telaio, però è perico-loso. Si lavorava a cottimo.

Poi non mi piaceva più, volevo lavorarein carderia e sono andato da un filatore aPratrivero, sei ore al giorno, dalle sei a mez-zanotte. Dopo un anno, una sera ha presofuoco; mi sono spaventato e il giorno doposono andato dal padrone a dirgli che nonavrei più reso là dentro, avevo paura del fuo-co. E sono andato in un’altra carderia. [...]quando sono venuto a casa dal militare eho cominciato a mettermi in proprio e gira-vo per le fabbriche, così ci trovavamo. Face-

vo l’ambulante, lo stracciaio, andavo in gi-ro per le case per due anni, dopo ho vistoche girava e comperavo già all’ingrosso.Portavo qui dove c’erano baracche, mettevodentro, imballavo” (testimonianza di Borto-lo Girardi).

“[...] Siamo andati in fabbrica perché nonpoteva rendere qua la vita dei campi, a Fer-vazzo c’era una famiglia coi bambini piccolie io tutte le mattine portavo il latte, ma nonabbiamo preso una lira, perché non avevanosoldi da pagare. E non si poteva andare a-vanti così, noi avevamo solo la poca robache avevamo portato dietro.

Per entrare in fabbrica sono andata a casadel padrone, il signor Trabaldo, a fare i lavoriperché quella che andava aspettava unabambina. Allora io partivo a piedi da Persi-ca a Pray Alto per andare a fare tre ore. Quan-do sono andata a chiedere in fabbrica hotrovato il signor Serafino, che mi ha visto ericonosciuta e mi ha fatto segnare sul qua-derno. Io ho aspettato che mi chiamassero,il ragioniere ha visto il mio nome e si è infor-mato e ho iniziato a lavorare per sabato” (te-stimonianza di Caterina Rizzolo).

“Per il lavoro non c’erano molte differen-ze rispetto ai piemontesi, diciamo che loroavevano più possibilità di passare ad impie-gato, assistente, capo reparto. Inizialmenteper campanilismo e poi erano già dentro,quindi lo conoscevano di più. Uno che eranei telai già da quattro-cinque anni avevapiù esperienza; poi invece ci sono stati an-che assistenti di tessitura, di finissaggio ve-neti. Lentamente si sono mescolati, peròfino alla fine della guerra, fino al ’50 le cari-che, il reparto impiegatizio, erano tutti di qui.Han cominciato ad entrare negli uffici peròi j’en pasaghe trant’agn” (testimonianza diVittorio Nichele).

Di certo lavorarono tanto e il loro impe-

8 A. LOVATTO, op. cit., p. 39.

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gno fu sempre motivo d’orgoglio. Si ferma-vano in azienda anche oltre l’orario, mentrealcune donne, uscite dalle fabbriche, anda-vano a fare i lavori presso le famiglie piemon-tesi. Si è opportunamente evidenziato cheuna delle frasi più ricorrenti era “Mai diver-timento, mai!”, come se le venete intervista-te ritenessero un motivo di vergogna il di-stogliersi dal lavoro, dal momento che a vol-te non era presente l’intera famiglia9.

“Non andavo in giro nei bar perché erosempre a lavorare, avevamo anche le bestiee durante il tempo libero le curavo [...] e poinon c’era tempo di andare in giro, lavora-vamo anche al sabato, se c’era bisogno enon bastava il tempo della settimana” (testi-monianza di V. Pivotto).

In realtà, a parte gli aspetti di ordine mo-rale, le ore di straordinario erano dettate dal-l’esigenza di guadagnare perché si trattavadi gente povera, che doveva contribuire albilancio economico di famiglie numerose.

Il loro bisogno di lavorare a qualsiasi co-sto li fece diventare molto docili: negli anniin cui gli operai biellesi protestavano per iloro diritti, i veneti restavano nelle fabbriche,anche sottopagati, pur di lavorare. Gli indu-striali sfruttarono questa manodopera, consalari che scesero addirittura sotto ai mini-mi nazionali. Così nel 1928 la paga deglioperai biellesi era diminuita del 24 per centorispetto a quella del 192410; in seguito ilsettore tessile visse anni di crisi e furonoimposte ulteriori diminuzioni salariali, che sisommarono allo sfruttamento del lavorofemminile e minorile.

“Mi ha sempre tenuta, anche quando avolte sono andata a reclamare dal padrone,perché io qualunque lavoro lo facevo pur-ché lavorare. Ero nel finissaggio, poi nel pin-

zaggio e, sempre più avanti, ho imparato an-che a lavorare nei telai della maglia. Ha man-dato altri dal Tonella a Ponzone ma io sonsempre stata lì. Poi hanno preso mio figlio ec’era un buon rapporto, anche se io quandovedevo il padrone tremavo, quando venivaa guardare una macchina diventavo tuttarossa e magari lui lo faceva anche apposta.E anche se andavano a dire questo e quellosono sempre stata ben vista da loro, ho sem-pre fatto il mio dovere. Il padrone mi haaiutata anche per il fatto che avevo una per-sona malata in casa, che doveva avere as-sistenza; gli altri magari venivano presi pertre mesi per volta, mentre io non sono maistata a casa, anche se sono stata presa den-tro così, perché facevo il mio dovere” (te-stimonianza di C. Rizzolo).

“Lavorare in fabbrica è stata dura, conpazienza si faceva qualsiasi cosa perché eraper vivere. Eravamo in sei, la mamma, il fra-tello e quattro noi. La fabbrica a Pray era tut-ta da rifare e sono andato a cercare io il la-voro: hanno fatto tintoria, la tessitura nuo-va, c’era solo la filatura a pettine a posto.

Quando era tutto a posto mi hanno trova-to lavoro in tintoria, un lavoro che in quin-dici giorni impari subito e altri posti non cen’era. Mi veniva l’eczema nelle mani, mi ve-niva fòra sangh. Facevamo i turni di otto oreal giorno e c’erano anche altri veneti, cin-que o sei. C’era qualche episodio di gelosiacon gli operai piemontesi, dicevano sempre:‘Ci rubano il pan’...” (testimonianza di V. Pi-votto).

Nonostante gli immigrati fossero i primi asubire le ingiustizie, sembravano contentiper la sicurezza di un posto di lavoro e diuna retribuzione. I piemontesi, invece, gode-vano di maggiori opportunità poiché inse-

9 C. CORRADIN, op. cit., p. 215.10 In proposito cfr. GIANNI MERLIN, Com’erano pagati i lavoratori durante il fascismo,

Roma, Cinque Lune, 1970.

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riti nel loro contesto e con un’esperienzatessile più radicata. Ciò nonostante agli i-nizi provarono diffidenza per i nuovi arrivati,vedendoli come coloro che arrivavano nellaloro regione portando via il lavoro.

“[...] nelle fabbriche c’era bisogno di ve-neti per l’espansione ma alcuni con la puzzasotto il naso si spostavano quando passa-vi” (testimonianza di A. Frello).

“Subito non c’era integrazione, i piemon-tesi erano fatti alla loro maniera e vedevanoquesti lavoratori come se gli rubassero il po-sto di lavoro, e invece posti di lavoro cen’erano a bizzeffe” (testimonianza di V. Ni-chele).

Le prime ostilità furono evidenti quandofurono reclutate le immigrate per la mondadel riso (molte erano venete). Infatti, anchenel settore agricolo, i forestieri erano utiliper calmierare le paghe e ricattare i contadi-ni indigeni. Modesto Cugnolio combattéuna lunga battaglia per dar lavoro priorita-riamente alla manodopera locale11. Scrivevaa tale proposito: “La risaia dà relativamentepoco lavoro [...] vi sono mesi nei quali il la-voro manca completamente [...] la quantitàdi lavoro divisa per la quantità di manodo-pera che sarebbe disponibile darebbe un ri-sultato interessante”. Chiunque veniva a la-vorare da fuori, per un orario più lungo eduna paga minore rispetto ai contadini dellazona, era detto “krumiro”.

Anche all’interno delle fabbriche il feno-meno non tardò a verificarsi (potevano es-sere chiamati “krumiri” o “beduini”) e gliimmigrati erano malvisti per la loro totale di-sponibilità al lavoro a qualsiasi condizione.A causa loro gli operai persero molte possi-bilità di salvaguardare il proprio tenore di

vita ed è facile immaginare l’astio della po-polazione biellese12.

“[...] le chiamavano “venetacce”, perchésono andate là in periodo di sciopero e lorofacevano le krumire, quindi erano subitonon trattate neanche bene” (testimonianzadi Luciana Angelino).

Il ruolo negativo che i veneti svolgevanoper la difesa dei diritti fu messo in luce an-che dai giornali. Ad esempio, nel 1921 sisvolse il già ricordato sciopero contro i ta-gli dei salari, che coinvolse tutto il territo-rio. Dopo lunghi giorni (il limite di resistenzafu raggiunto proprio dagli operai biellesi) lalotta venne perduta.

Commentava al riguardo il “Corriere Biel-lese”: “È noto qualmente lo sciopero lanie-ro, dopo 87 giorni, sia finito con la resa de-gli operai senza condizioni [...] gli operaivennero minacciati tutti replicatamente dilicenziamento con lettere personali, recapi-tando loro i documenti di lavoro; vennerominacciati di sfratto con le loro famiglie co-loro che abitavano nelle case di proprietàdelle ditte; vennero promessi premi ai crumi-ri [...] Ci consta che alcune importanti dittedel Biellese, quali la Filatura di Tollegno e laPettinatura di Vigliano, stanno facendo lepratiche per importare della mano d’operadal di fuori, per occuparla nei loro stabi-limenti [...] per compiere una bassa vendet-ta contro i loro operai [...] cioè si lascereb-bero sul lastrico centinaia di operai dellalocalità, per assumerne altri racimolati in al-tre pieghe [...] Prima, durante, e dopo laguerra, il proletariato biellese ha sempre di-mostrato di essere ospitale e civile; sono ve-nuti operai di tutte le regioni d’Italia, e sem-pre trovarono buona accoglienza, assisten-

11 PATRIZIA DONGILLI (a cura di), Aspetti della storia della provincia di Vercelli tra le dueguerre mondiali, Borgosesia, Isrsc Vc, 1993, p. 134.

12 MONICA BASSOTTO PALTÒ, Donne e lavoro. Industria e immigrazione nel Biellese (1900-1930), in “l’impegno”, a. XVIII, n. 2, agosto 1998, p. 6.

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za e solidarietà fraterna. Queste tradizionisono innate nel proletariato biellese, prova-to alle asprezze della lotta attraverso alle bat-taglie combattute [...] Ma il proletariato biel-lese [...] non può e non deve consentire chealtri operai inconsciamente, allettati certa-mente da promesse effimere, diventino stru-mento degli industriali [...] prima di portarequi altra mano d’opera, venga occupataquella che attualmente si trova senza lavo-ro”13.

Solo ad integrazione avvenuta alcuni ve-neti cominciarono a schierarsi con gli ope-rai biellesi, comprendendone le motivazio-ni, condividendone le idee e, talvolta, par-tecipando attivamente anche alle attivitàsindacali.

“Fino a dopo la guerra il sindacato era unsindacato di partito, politico, del fascio di-ciamo, dopo sono incominciati i sindacatiliberi. Ma prima era come non ci fosse, peròqui il datore di lavoro era una persona seriae corretta, decideva lui. Anche alla Fila;come tessile al 90 per cento erano i datori dilavoro, che sono anche andati a prendersi ilavoratori senza passare per i sindacati. Nel-l’edilizia era diverso, era più dura.

Poi con gli anni anche mio padre è entratonel sindacato come commissione interna,adesso ci sono i delegati allora c’era quella”(testimonianza di V. Nichele).

I veneti si costruiscono la cittadinanza

Nei racconti degli emigranti, raccolti dainumerosi ricercatori, sono emersi alcuni temiricorrenti, spesso racchiusi in formule e-spressive e ricorrenti. Ad esempio nel lorolessico può capitare di cogliere il verbo

“considerare”, utilizzato in frasi come “quinon ci considerano”; elementi che provanoi pregiudizi delle persone del luogo dovequesti flussi si diressero.

Il confronto con i nativi, generalmente,non fu semplice perché sebbene gli immigra-ti costituissero un nuovo apporto culturalee un’indispensabile fonte di manodopera, inuovi modelli di convivenza non furono as-sorbiti con facilità. I veneti dovevano inse-rirsi in una zona già dotata di un’industriaprogredita e la loro integrazione nella comu-nità passò attraverso fasi successive14.

Gli immigrati nel Biellese, infatti, dovette-ro adeguarsi in particolare alle pratiche dicontrollo e di riduzione delle nascite. Tra legenerazioni più giovani e quelle anzianepotevano sorgere tensioni per l’aumentodella libertà che i primi ottenevano grazie allavoro salariato. Inoltre i piemontesi, alme-no all’inizio, segregarono i veneti; l’accet-tazione si realizzò definitivamente quandoanche i nuovi abitanti delle aree tessili siamalgamarono con gli usi e la cultura locali.

Dunque i primi tempi furono particolar-mente difficili e alcuni immigrati non supe-rarono il disadattamento; preferirono riparti-re alla ricerca di ambienti lontani dalla fabbri-ca e nei libri matricola delle aziende, tra imotivi di licenziamento, si leggeva “torna acasa per nostalgia”. I casi più frequenti ri-guardavano le ragazze friulane, mentre i ve-neti potevano contare più spesso sui paren-ti, perché le famiglie tendevano comunquea ricongiungersi15.

Il primo impatto tra le due comunità fu du-ro: abitudini e mentalità diverse dovevanoamalgamarsi, ma si manifestò largamente unatteggiamento di chiusura. I vicentini, ben

13 Dalle trincee del lavoro. Come e perché lo sciopero dei lanieri venne perduto, in“Corriere Biellese”, n. 95, 6 dicembre 1921.

14 M. BASSOTTO PALTÒ, art. cit., p. 9.15 Ibidem.

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accolti dagli imprenditori, erano additati co-me ladri dagli operai, secondo i quali ruba-vano il pane; alcuni li chiamarono “tùder”(ossia “tedeschi”). Agli insulti potevano se-guire minacce - “s’i j’en nen massave ij te-desch iv massoma noi!”16 - e percosse.

“Subito non c’era integrazione [...]. Poi pia-no piano han cominciato a capire che c’eralavoro per tutti, han cominciato a integrarsii ragazzi e le ragazze e a mescolarsi [...] Primadegli anni trenta è stata dura, dicevano chei jë bativo anca-sì, non dovevano mai tro-varsi isolati, rischiavano qui e nelle frazioniin giro, come sopra Viera, lì non si potevaneanche andare a trovare le ragazze che tiprendevano a sassate, anche se andavi soloper parlare” (testimonianza di V. Nichele).

Gli ostacoli all’integrazione erano molte-plici. Nelle pagine precedenti si è trattata laquestione degli scioperi: in quelle occasio-ni i veneti mostrarono di non comprenderei problemi denunciati dagli operai biellesi, acausa delle differenze sociali, e la presa dicoscienza della loro nuova condizione all’in-terno delle fabbriche avvenne in modo len-to. Dopo qualche anno s’inserirono attiva-mente nelle lotte, ma prima l’atteggiamentopassivo li fece isolare.

Il disagio, anzi, li aveva avvicinati ulterior-mente alla controparte, cioè agli industriali:si diffuse il fenomeno clientelare attraversoil paternalismo dei datori di lavoro. Questierano figure molto presenti nella vita quoti-diana e a cui si faceva sempre riferimento. Ipadroni avevano un peso anche nel privato,ad esempio i dipendenti che si sposavanoportavano i confetti in portineria, in modoche fossero poi consegnati al titolare. APray gli operai della Trabaldo ricevevano in

dono le coperte di lana difettose. I padroni,inoltre, partecipavano ai funerali e aiutava-no le persone che peraltro conoscevano pernome, e di cui sapevano se lavoravano beneo se erano scansafatiche. Soprattutto “fin-ché c’erano i vecchi [...] perché i vecchi al-l’inizio lavoravano con noi [...]. Il Silvio Boz-zalla era il terrore [...] la domenica faceva ilgiro del paese per vedere la gente, lo chiama-vano Kaiser [...] Era anche un benefattore.Ha fatto l’asilo e le scuole”17.

Infatti Silvio Bozzalla fu un grande prota-gonista dell’industria tessile per oltre mez-zo secolo, capace di sfruttare tutta la mano-dopera esuberante e di cercarne altra invian-do camion nelle montagne vicentine. Cono-sceva i suoi lavoratori e ne diventava unmodello, un “padre-padrone”18. La sua fami-glia patrocinò interventi utili per la popola-zione, come l’asilo “Don Fava”, donato alComune di Coggiola nel 1938 e fatto costrui-re su un terreno comprato a Granero. Gli o-perai veneti trovavano invece alloggio nellacasa operaia costruita lì vicino.

“Qui non c’era niente, han fatto su ’stacasa ma non c’era niente, l’asilo l’hanno fat-to poi nel ’36. Prima per i bambini si aggiu-stavano, avevano una camera, un salonedove li tenevano, se li guardavano. Poi do-po l’hanno fatto apposta perché anche il pa-ese aveva bisogno, Coggiola aveva quasi5.000 abitanti, quasi 1.400 fra Granero e Mas-seranga, c’erano un mucchio di figli per fa-miglia. Allora hanno messo dentro le suoree per l’orario non c’erano problemi” (testi-monianza di V. Nichele).

“[...] lavoravo in fabbrica e il Trabaldo miha sempre voluto bene” (testimonianza diG. Zanella).

16 Si veda inoltre C. CORRADIN, op. cit. Traduzione: “Se non vi hanno ucciso i tedeschi viammazziamo noi!”.

17 A. LOVATTO, op. cit., p. 38.18 JAS GAWRONSKI, Bozzalla & Lesna storia di uomini, Milano, Dragan & Bush, 1987, p. 79.

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La fabbrica, quindi, costituiva il nuovocontesto per i veneti, perché lì passavanola maggior parte del tempo. La loro dedizioneassoluta al lavoro non li rese immuni dallediscriminazioni e, nonostante la possibilitàdi una formazione volontaria e di una gavettada cui iniziare una carriera a volte buona,agli inizi facevano gli “attacca fili” (la man-sione meno ambita).

“Nelle fabbriche c’era bisogno di venetiper l’espansione, ma alcuni con la puzza sot-to il naso si spostavano quando passavi.Per fortuna io sono sempre stata rispettatae ho sempre rispettato, non sono mai andataa casa di nessuno” (testimonianza di A. Frel-lo).

Si nota allora come le fasi iniziali poteva-no essere caratterizzate dall’isolamento edalla ghettizzazione. Pensare ai villaggi o-perai o agli alloggi forniti dalle fabbriche si-gnifica immaginare una concentrazione ter-ritoriale di gente dalle stesse radici e dallestesse condizioni. Quando era possibile av-venivano nette separazioni, con una scarsafrequentazione reciproca tra immigrati enativi. L’isolamento provocò il sorgere diuna società separata, che fungeva quasi daprotezione.

Le divisioni sociali furono inoltre trasmes-se anche all’ambiente esterno all’industria,dove gli appartenenti ai diversi ceti non simescolavano, come non si frequentavano ilavoratori che svolgevano mestieri retribu-iti diversamente. Le divisioni di status passa-vano dalla fabbrica alla vita quotidiana, nonsolo tra gli immigrati veneti e i piemontesiresidenti, bensì anche tra i biellesi: sposareuna rammendatrice o un tessitore era un tra-guardo, ma in strada gli impiegati stavanoseparati sentendosi superiori.

“A Coggiola c’era il bar del Duga, dove si

radunava la fascia intermedia del paese, peril resto c’era una certa mescolanza. Allora ibar non è che fossero molti, perché allorac’erano tanti circoli, molte società coopera-tive: per esempio a Granero c’era il Circolo,a Masseranga c’era la società cooperativa,su a Zuccaro anche”19.

“Durante il tempo libero si trovavano giùa Granero, alla ‘Baracca’, un’osteria dovemangiavano anche. E di fronte c’è la casaoperaia, sempre dei Bozzalla, e la stazione.Lì si fermavano tutti e l’ideale era quandoarrivavano col treno dal veneto, magari sifermavano a prendere qualcosa anche loro”(testimonianza di A. Frello).

E ancora: “Ho lavorato per un periodo al-la Ermenegildo Zegna nel 1969 e l’avevanoperfino fatto delle passerelle, sopra i repar-ti, per far passare le comitive in visita, in mo-do che potessero vederci lavorare senza do-versi mescolare con noi”20.

Tali circostanze fecero sì che molti vene-ti, giunti nel Biellese, sposassero i propricompaesani, sia immigrati in quella zona, siarimasti al paese d’origine.

“Papà si era sposato con una veneta, unavicina di paese, era di Crosara, una frazionedi Marostica; lei era venuta in Piemonte dueanni dopo, però si conoscevano già, perchénelle frazioni facevano le feste” (testimo-nianza di V. Nichele).

D’altra parte i piemontesi non furono su-bito pronti ad accettare i matrimoni misti. Coltempo le cose cambiarono e le unioni tra gio-vani con origini diverse si diffusero.

“Mio papà era veneto, di Conco [...] si èsposato con mia mamma, una piemontese,ha avute tre figli e la mamma è morta quandoero piccola. Allora mio papà, dopo sei mesi,avendo tre bambini ha voluto rifare una fami-glia ed è tornato a Conco a sposare una vec-

19 Testimonianza di Gianni Furia in A. LOVATTO, op. cit., p. 36.20 Testimonianza di Dario Regis, in idem, p. 37.

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chia morosa” (testimonianza di G. Zanella).Era più facile che le nozze avvenissero tra

un biellese e una veneta, più rari erano i casicontrari. Un simile atteggiamento era detta-to dalle differenze fra gli ambienti in cui glisposi erano cresciuti: la donna biellese a-veva raggiunto da anni l’autonomia, grazieal lavoro in fabbrica; le ragazze venete, inve-ce, erano più ancorate alle tradizioni e il lororuolo domestico era strettamente legato allafigura del marito21.

“I miei zii si sono sposati tutti tra veneti[...] la mia mamma [...] ha conosciuto il papàlavorando [...] ha avuto una grande fortunaed è stata ben accettata, i miei nonni eranobrave persone e non facevano una questio-ne di razza. Quando hanno conosciuto lamia mamma hanno detto al mio papà: ‘Ten-la da cunt përchè a l’é pròpi na brava ma-ta’. Erano gli altri che dicevano: ‘Òma Marìit sai ch’ël teu mat a sposa na veneta’. E leidiceva: ‘Òma codì? I soma nen tucc pagn,neh?’. Non ha avuto mai problemi, è stataamata tanto tanto. Era più facile che unaveneta sposasse un piemontese che vice-versa. Invece al lavoro, all’inizio ’ste vene-tacce, ’ste venetacce” (testimonianza di L.Angelino).

“[...] mia suocera non mi voleva perché eroveneta ed ero di Coggiola. Mio marito eradi Cureggio ed era venuto coi suoi a Pratri-vero per cercare lavoro. Suo padre era mor-to quando lui aveva sei anni e cinque fra-telli. Avevano una panetteria da mandareavanti, poi il figlio più grande ha comincia-to a venire su e allora sono arrivati ancheloro. Sua mamma non mi voleva, anche per

come erano visti i veneti, anche se non por-tavano via il lavoro dato che c’era. Ma lei sisentiva già piemontese perciò già di più”(testimonianza di A. Frello).

Questa svolta, oltre a favorire l’integra-zione, ebbe anche il merito di essere la vali-da alternativa ai matrimoni tra consangui-nei, che nelle vallate tessili avevano lo scopodi mantenere integra l’eredità paterna, rin-forzando le caratteristiche biologiche degliabitanti22.

“[...] quando ero in Piemonte tutti mi di-cevano, visto che volevo tanti figli, di spo-sare un veneto o un meridionale” (testimo-nianza di L. Angelino).

Un ulteriore passo verso la definitiva in-tegrazione fu l’appropriazione dell’idiomalocale. Un tempo, anche a causa della bas-sa scolarizzazione, la gente parlava solo ildialetto, mentre l’italiano costituiva la lin-gua dei colti e delle occasioni ufficiali. Per-tanto l’incontro tra persone di provenienzadifferente era ostacolato dalle difficoltà dicomunicazione.

Nel caso specifico dell’immigrazione nelBiellese il linguaggio fu strumentalizzato perallontanare gli estranei che, ad esempio, sullavoro non comprendevano i compiti chevenivano loro assegnati, poiché la spiega-zione era in stretto biellese.

I bambini furono agevolati dalla scuola,dove facevano conoscenza coi compagnipiemontesi e imparavano la parlata locale.Non erano rari i casi di poliglotti, quando igiovani parlavano agevolmente sia il vene-to, usato in casa con le generazioni più an-ziane o con il coniuge, che il piemontese. Po-

21 C. CORRADIN, op. cit., p. 225 e FRANCO RAMELLA, Terra e telai, sistemi di parentela emanifattura nel Biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984, p. 213.

22 REMO VALZ BLIN, Le comunità di Trivero e Portula. La loro evoluzione durante gliultimi secoli dalla pastorizia, all’artigianato ed all’industria, Biella, Teb, 1973, p. 149;inoltre cfr. MARZIO BARBAGLI, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dalXV al XX secolo, Bologna, il Mulino, 1988.

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teva avvenire in modo naturale o per la vo-glia di mimetizzarsi nella nuova comunità,anche a livello linguistico.

“Per la mia mamma è stata dura lavorare lìperché non capiva niente e allora veniva acasa e piangeva e diceva con la zia: ‘Ancoime g’ha dito: va taia taia’...”24 (testimo-nianza di A. Frello).

“[...] ci sono tanti veneti che hanno impa-rato il piemontese, i miei zii no, forse perchénon hanno voluto” (testimonianza di L. An-gelino).

“[...] la mia mamma già da piccola ha im-parato così bene il dialetto nostro che te nondicevi, non aveva neanche la pronunciaveneta, parlava pròpi tan-me noi. Sua mam-ma invece parlava veneto” (testimonianzadi Letizia Rista).

“Qualche problema per la lingua c’è sta-to: tante cose non si capiva, come ‘va chì’ e’ste cose un po’ difficili; solo che allora par-lavano così, adesso anche i piemontesi han-no migliorato e parlano italiano, però unavolta parlavano in dialetto, come noi venetiparlavamo il veneto. A me è sempre rimastala pronuncia veneta, poi mi sento veneto eallora perché devo parlare piemontese, tantevolte mi dico ‘ma perché i piemontesi chespesso hanno origine veneta non imparanoa parlare il veneto?’...” (testimonianza di S.Rodighiero).

“Ormai io parlo piemontese, il veneto so-lo con mio marito, che è di Conco e lo parlasempre. I miei lo parlavano ma io sono statatanto anche con le suore che parlavano pie-montese” (testimonianza di G. Zanella).

“La lingua, quando siamo venuti è statoun grosso problema perché ognuno ha ilsuo dialetto: le patate a Persica le chiama-vano ‘trifole’, da noi ‘patate’, i piselli gli‘ërbion’, il paiuolo il ‘pareu’ e come facevia capire? La sedia ‘cadrega’, abbiamo pro-

prio fatto fatica, anche se i miei figli no per-ché i bambini apprendono subito, ma noi no,parliamo ancora tanto veneto. Mio maritoanche adesso fa ridere perché qua parla ve-neto e quando è là piemontese. E io quandovado devo passare sopra la casa di una mianipote per andare dalla sorella di mio maritoe quando vedono passare la macchina dico-no che arriva la ‘Zia Neh’, perché qui in Pie-monte si dice sempre il ‘neh’...” (testimo-nianza di C. Rizzolo).

Nonostante questi frammenti possano in-durre a immaginare un quadro negativo, inrealtà i veneti si integrarono piuttosto rapi-damente e sin dal loro arrivo, in molti casi,furono aiutati dalle persone del luogo, im-pietosite dalla loro povertà.

“[...] abbiamo cominciato la scuola e cisentivamo un po’ fuori. Ma mi sono trovatamolto bene, anche con i vicini di casa. Ciaiutavano quando c’era il papà che rientra-va tardi [...] avevo vicina una famiglia di per-sone serie, gentili, pulite. Ci hanno tenutevicine alla sera e io il primo risotto giallo, conun po’ di cipolla e zafferano per dare il colo-re, l’ho mangiato lì. Una volta ci hanno pro-prio sfamati, perché la mamma era dentro allavoro dalla Bozzalla Lesna” (testimonian-za di A. Frello).

“[...] io non posso lamentarmi perché mivolevano bene, anche se non tutti, il pie-montese era un po’ tremendo [...] abitavo aSolesio, lì c’era la mamma del vice sindacoche mi vedeva che andavo a lavare nel lava-toio lì nel prato, e allora mi ha detto: ‘Silvanono, me la dai a me’...” (testimonianza di S.Rodighiero).

“Mi è capitato che dovevo andare a lavo-rare al mattino presto perché c’era il turno,Margherita mi portava il caffè23. C’era un ca-seggiato però era tutto vuoto, allora là ave-va galline, aveva una roba o un’altra; io an-

23 Si tratta di Margherita Zonco, membro della famiglia dei padroni dell’azienda.

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davo a casa passando per i sentieri e mi dice-va: ‘Deh Bortolo, vieni un po’ qua, vai a ve-dere se trovi delle uova là in giro’, ma mi chia-mava sempre quando era mezzogiorno e mele regalava tutte; sapeva che eravamo genteche avevamo bisogno” (testimonianza di B.Girardi).

“Qui ci siamo trovati subito bene con lagente, una signora mi ha portato una borsadi roba per i bambini, sono stata tanto aiuta-ta” (testimonianza di C. Rizzolo).

I legami con la regione di partenza

La costruzione della cittadinanza degliimmigrati veneti nel Biellese, si è appena vi-sto, non fu immediata e di certo il processofu più semplice per le persone arrivate dopola seconda guerra mondiale24, che trovaronol’appoggio dei veneti che si erano già am-bientati nella nuova realtà.

In generale, però, dalle testimonianze rac-colte emerge l’esito positivo che il fenome-no ebbe, tanto che la maggior parte degliimmigrati si insediò in modo definitivo inPiemonte. Sicuramente non mancarono irientri, magari con il coniuge biellese e do-po la pensione, ma la domanda di manodo-pera nel Vicentino tardò a crescere, per cuinon si poteva tornare facilmente al propriopaese: significava lasciare un mestiere sicu-ro per ritrovarsi in situazioni precarie.

“I veneti che abitavano in questa casa o-peraia avevano l’abitudine di avere una ca-setta nel Veneto e d’estate andavano là, ouna volta in pensione si trasferivano. Noinon abbiamo mai pensato di ritornare. Al-cuni però han tenuto tutto, lo Xausa ha te-nuto sia la casa materna che quella pater-na” (testimonianza di G. Covolo).

Ciononostante, i legami con i parenti ri-masti non furono recisi e i paesi nativi di-ventarono le mete privilegiate delle vacan-ze. Ospitati da famigliari o nelle case mante-nute a distanza, essi trascorrevano le feriein mezzo alla gente con cui erano cresciuti.

“Finita la guerra abbiamo cominciato adandarci in vacanza: otto giorni in gennaio.Poi quando abbiamo avuto più vacanze eagevolazioni andavamo” (testimonianza diA. Frello).

“[...] ho sposato un veneto, l’ho cono-sciuto qua perché venivo in ferie” (testimo-nianza di L. Angelino).

“Noi invece andavamo in vacanza, anchese adesso andiamo poco perché ormai ci so-no più solo cugini. Abbiamo anche dato viala casa paterna. Anche mio papà, che anda-va sempre, non aveva il problema di fermar-si, andava quei quindici giorni o tre setti-mane. Anche quando era in pensione anda-va per quelle tre settimane all’anno” (testi-monianza di V. Nichele).

“A me piace andare là e quest’anno hodetto: ‘Voglio andare e stare là un mese perandare a trovarli tutti, perché in una settima-na non puoi mica’. E allora sono andata il25 di aprile, quando è venuto su mio fratelloe al 2 di maggio siamo partiti assieme perSchiavon, sono stata quindici giorni là, poisono andata a Udine da mia sorella e sonorimasta quindici giorni là per il nipote chefaceva la prima comunione. Allora è venutoanche mio fratello e siamo venuti nel Vene-to da dove mi ha poi portata a casa” (testi-monianza di C. Rizzolo).

Proprio le case sembrano aver ricopertoanche un ruolo simbolico, sia in Veneto siain Piemonte. L’abitazione rispecchia la po-sizione sociale della famiglia che la abita25

24 C. CORRADIN, op. cit., p. 225.25 MARISTELLA CASCIATO, L’abitazione e gli spazi domestici, in PIERO MELOGRANI (a cura

di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 527.

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e i veneti davano alla casa molta importan-za. Comprata, costruita o restaurata, la casadiventava un vero motivo d’orgoglio. Mol-ti diedero priorità alla residenza nel Biellese,ma spesso tentarono di restaurare anchequella rimasta nella terra di provenienza.

“[...] qui nella casa operaia [...] abbiamocomperato perché in quegli anni non trova-vi un buco. Ma tutti quelli arrivati qua han-no fatto una casa, dopo quel periodo delboom si poteva fabbricare dappertutto, certiposti dove abbiamo fabbricato adesso nonsi potrebbe più” (testimonianza di V. Niche-le).

“Questa dove vivo è una casa dei Bozzalla[...] affittavamo e poi l’abbiamo comprata eaggiustata [...] la casa di Lusiana era abban-donata, eravamo tutti qua” (testimonianzadi A. Frello).

“I veneti hanno fatto la casa in Piemonte.Sono stata in Piemonte a un matrimonio eho trovato le case dei piemontesi com’eranoanni fa, io abitavo a Ferla, in una casa anco-ra da dare le malte ed è ancora là. Le casedei veneti hanno il giardinetto, la casa cura-ta, ci tengono” (testimonianza di L. Angeli-no).

“Tanti hanno poi messo a posto la casa,io ho fabbricato qui, ho comprato il terrenoe ho dovuto fare il magazzino, e da una partemi son fatto l’abitazione, dove siamo stativentisette anni. I primi anni però abbiamoabitato nella casa dei miei suoceri.

A Pray gli industriali non costruivano ca-se per gli operai, erano tutte per gli impiegati.Le case operaie c’erano in altri paesi, comea Ponzone, fatte dai Giletti, o a Pratrivero,dove c’erano i Canonico. Erano tutti venetiche andavano lì (testimonianza di B. Girar-di).

Una vera trasformazione urbanistica ave-va investito il Veneto (come l’Abruzzo, la Si-cilia e la Calabria), dove la terra e la casa di-vennero le principali aspirazioni grazie al-l’economia integrata dalle rimesse. Quasisempre erano alloggi con uno o due locali,in cui avevano vissuto famiglie numerose ei cui acquisti avvennero in modo tumultuo-so26.

“La casa in Veneto c’è ancora ma io ho lamia, ho fatto la mia casa, non l’ho fatta quie l’ho fatta nel Veneto. Mi piace andare superò non stare. Siamo andati tre anni ma sem-brava che le cose non andassero bene. Il la-voro c’era a Bassano e Marostica, lì ti adattio ad andar giù o ad Asiago. Allora andiamosu quando vogliamo. Abbiamo quattro ca-mere da letto, il bagno, una bella cucina gran-de, la taverna [...] Quando torno, parlo dellamia contrada, c’è gente del Biellese, an-ghé gente da Candelo, da tutto il Piemonte, dal-la Toscana, da Reggio Emilia. Chi va a trova-re ancora i genitori, chi va a trovare i fratellirimasti lì, o i parenti. Adesso sono tutte casenuove tutte aggiustate, chi le ha prese nuo-ve, e chi le ha rifatte” (testimonianza di S.Rodighiero).

Non fu sempre possibile, per molteplicicause: i costi erano elevati per le famiglie dioperai; alcuni avevano invece cercato dimantenere le case paterne, ma le amministra-zioni locali in Veneto ostacolavano questaaspirazione con tributi troppo onerosi dapagare; infine altri avevano ceduto la pro-pria parte di proprietà ai parenti rimasti acasa.

“Mio padre invece ha ceduto la casa, inquegli anni c’era il podestà e le leggi le fa-ceva lui, aveva il dominio assoluto su tut-to, quindi tante cose che decideva lui anda-

26 GINO MASSULLO, Economia delle rimesse, in PIERO BEVILACQUA - ANDREINA DE CLEMENTI

- EMILIO FRANZINA (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli,2001, pp. 175-178.

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vano bene. Tante leggi che non esistevanose le facevano sul posto. Ti mandavano l’av-viso che avevi la casa da mettere a posto ete non potevi, non avevi soldi se già eri ve-nuto qui per lavorare e cedevi. Chi inveceaveva una casa che rimaneva abbastanza inpiedi l’ha tenuta. Alcuni han ceduto e poihanno ricomperato, sempre nella zona doveerano” (testimonianza di V. Nichele).

“[...] la casa là l’ha venduta mio padre; nonpotendo andare non si poteva perché quiera quel che era, soldi non c’erano e la casadeperiva.

Poi là se sei del paese non ti dicono niente,se sei via e la casa sta cadendo loro ti dico-no che o ristrutturi o vendi, il Comune ti fala confisca. Allora tutte le case erano vicinee legate alla campagna, ai campi e loro dove-vano sfruttarli. Per sfruttare i campi dove-vano avere la casa, quindi o l’aggiusti o lacedi. Un signore è stato mandato a chiama-re perché c’era il tetto un po’ pendente, unacosa normale, ma ha dovuto cedere la casa.

Adesso la nostra l’ha presa uno che hapreso quasi tutto il paese, con terreni e tut-to della frazione Sasso. Nel paese vicino cisono tanti ristoranti e adesso la gente gira,è una posizione ottimale” (testimonianza diG. Covolo).

“In Veneto non abbiamo case perché nonabitavamo in una nostra ma eravamo sottopadrone e la casa era sua [...] Là non abbia-mo niente, io e mia sorella quando ci siamosposate abbiamo fatto la rinuncia ed è rima-sto tutto a mio fratello, tanto lei è andata aUdine e io sono qua. I miei figli sono cresciu-ti qua e non volevano nemmeno venire viada Caprile, per cui non si è mai pensato ditornare in Veneto” (testimonianza di C. Riz-zolo).

Dal Piemonte si potevano curare anche gliaffari legati del paese; negli appezzamentiche si possedevano spesso si producevalegname e andavano curati. Allora gli immi-

grati delegavano persone fidate affinché ba-dassero ai loro terreni non lasciandoli all’in-colto e tenessero d’occhio l’abitazione. Lacorrispondenza era il mezzo principale perla circolazione di tutte le informazioni.

“La casa paterna è stata sempre disabitataperò c’era dentro il Bruno, prima un altro diun’altra frazione, mio padre la dava via inaffitto e magari dividevano. Anzi quandosono andato là dopo la guerra mio padre miha fatto dividere perché ha fatto un contrat-to da dividere il fieno. C’era anche lo zio là,siamo andati dove c’era il fieno e l’abbiamovalutato 2.000 lire al quintale. Era già impac-chettato e dovevamo pesarlo più o meno,perché non era come in Piemonte che quan-do andavano a far fieno avevano tutte leciuvere, là lo facevano su con la tela e lomettevano nella baracca. Abbiamo calcola-to ventisei quintali, a me ne ha dati trediciperché abbiamo firmato.

La casa l’ha sempre tenuta Bruno, finoall’86, che abitava in una frazione vicino, etagliava il fieno ed evitava che ‘si imbosca-glia’ troppo. Ai tempi per 10-12.000 lire l’an-no. Poi l’abbiamo divisa io e mio fratello nel’55. Adesso ho voglia di sbarazzarmene perla spesa che pago” (testimonianza di B. Gi-rardi).

Trovare documenti scritti è più complica-to rispetto alla raccolta di interviste, ma iframmenti di alcune lettere conservate dauna testimone costituiscono un ottimo e-sempio del controllo esercitato sulle proprie-tà lasciate in Veneto, tramite le relazioni man-tenute con alcuni compaesani.

“Caro Marco, ora ti mando un assegnobancario di £ 30.000 (trenta milla) cioè lametà del tuo avere riguardo la terra [...] Tisaluto caramente unito famiglia cugino Nel-lo”. O ancora: “Carissimo Marco e famiglia[...] vi faccio sapere che abbiamo terminatola casa e domani metteremo in coperta anchela stalla, e poi per stabilire quanto Vi faccio

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sapere [...] Ora vi debbo dire una cosa chemi ha fatto molto dispiacere la vostra cogna-ta [...] ha affittato il pezzetto di prato vicinoal vostro, se mi aveste chiesto l’avrei presoio [...] vi tagliano la legna più grossa giù nellotto [...] non è una bella cosa, io vi con-siglierei di scrivere una lettera [...] Ora un’al-tra cosa la legna che hai nel boschetto [...] èfatta e strafatta quindi sarebbe buona cosache uno o l’altro veniste a casa a tagliarlache guadagnereste qualche cosa e poi sa-rebbe un bene anche per il bosco”27.

In estate, come ospiti o alloggiando inquelle pensioni che cominciarono a diffon-dersi con l’avvento del turismo, si facevaritorno. Le vie di comunicazione erano mi-gliorate, così come i mezzi di trasporto. I piùabbienti avevano l’auto, gli altri usavano in-vece il treno o il pullman.

“Poi sono sempre andato nelle ferie, lamoglie e il figlio andavano al mare, io face-vo anche i bagagli e gli spedivo tutto, anda-vo a prenderla anche a Milano, ma io al marenon sono mai andato. Non so nuotare, nonmi diverto, il mese di luglio avevo l’azienda.Al mese di luglio andavo nel Veneto e veni-vano su tutti e due, si andava in pensione aSanta Caterina, Rubbio, Conco, lì era miocugino secondo [...] In estate molti tor-navano, ci sono stati due anni che partiva-no tutti i parenti piemontesi e venivano aSanta Caterina e Conco, gente da Trivero,Pratrivero... Il Beppe là diceva: ‘mai visti tan-ti piemontesi così’...” (testimonianza di B.Girardi).

A tal proposito non si può dimenticareuna linea speciale - di cui oggi non restapraticamente traccia - che collegava le dueregioni: il “Vicenza-Mongrando”, istituita daun privato di Vicenza e che metteva a dispo-sizione numerosi mezzi ogni giorno. Gli in-

tervistati ricordano di averla utilizzata piùvolte e che negli anni dei traffici intensi ser-viva i vari comuni biellesi quotidianamen-te, sia con pullman in partenza che in arri-vo, sui quali viaggiavano persone, bagaglie materiale inviato da un luogo all’altro. Coni veneti arrivarono anche nuovi generi ali-mentari che in Piemonte non erano reperibili,per cui il “Mongrando” faceva anche dacorriere per formaggi, salumi o posta da fararrivare celermente.

“[...] andavamo, in treno, pullman o ca-mion, quello che trovavamo. Eravamo ospi-tate da una zia, in casa nostra non c’era mol-to” (testimonianza di A. Frello).

“D’estate c’era anche il ‘Mongrando’, ilpullman che portava fino là. Io non l’ho maipreso perché avevo la macchina, ma nelleferie ne mettevano anche due. In quel perio-do c’era tanta gente, tra Lusiana, Conco,erano tutti da Coggiola, da Portula. Cosa an-davamo su a fare? Io dicevo: ‘Mi sembra diessere o a Pray o a Coggiola’...” (testimo-nianza di B. Girardi).

“Quando andavo io c’era la linea Mon-grando, che andava da Mongrando fino aLusiana, si fermava in tutti i paesi che c’era-no. Era del Tonello Rizzieri. Si fermava a Ber-gamo a mangiare e si trovavano quelli cheandavano e che tornavano. Allora era tuttol’anno perché andavano tutti e andavanotanto; nel mese di agosto magari c’erano sei-sette pullman in una giornata.

Durante l’anno diventava un po’ un pull-man di linea, caricava magari gente che daBorgomanero voleva andare a Bergamo; poihan cominciato ad alternare le giornate, poiuna volta a settimana, una volta al mese.Finché è sparito, ormai ci sono i mezzi proprio gli autostradali. E poi non vanno più sutanti come prima.

27 Sono lettere indirizzate al padre di Angela Frello; la prima è priva di riferimenti temporaliprecisi mentre la seconda è datata 10 febbraio 1946.

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Però era comodo, andavi diretto e c’eranopersino i commercianti che si facevano por-tare il formaggio, come forme di Asiago, ola soppressa. La base era a Pray, al ponteprovinciale. Poi ha cominciato a passare aCoggiola e negli altri paesi” (testimonianzadi V. Nichele).

“Ho usato tanto anche il ‘Mongrando’, e-ra del Torello, un uomo di Vicenza. La lineaera stata messa tanti anni fa, veniva e anda-va tutti i giorni, dopo ha cominciato che ungiorno andava e un giorno veniva, poi unavolta alla settimana. Il biglietto si compravasulla corriera e pagavi anche il bagaglio, cifermavamo a mangiare a Bergamo. Era piùcomodo del treno perché mio marito avevamale alle gambe e invece col pullman basta-va andare a prenderlo al ponte provinciale”(testimonianza di C. Rizzolo).

Ma come erano accolti i veneti “piemon-tesizzati”? Molti ricordano con piacere il lororitorno, con i parenti e i compaesani che liaspettavano. In casi di bisogno sono anchestati ospitati per lunghi periodi e, in gene-rale in estate, i paesi si ripopolavano conpersone provenienti dalle vallate biellesi.

“[...] quando sono venuto qua dalla Ger-mania. Nel ’45, erano tredici anni che nontornavo in Veneto [...] ho preso la malaria[...] mio padre a l’é dime se potevo andarenel paese natio e bere tanto latte che fabene. Là avevo una zia e mio padre le ha det-to: ‘Varda te manderia il mio toso’ e sonoandato a dormire a casa sua. È stata la primavolta dopo tredici anni che sono andato giùin paese, l’era sempre quelo, era appenadopo la guerra e non si era ancora svilup-

pato molto” (testimonianza di B. Girardi).“Nel ’53 sono tornato perché i miei, quan-

do c’era la guerra mi han mandato là dai miei,su sei anni sarò stato qui un anno. Sonosempre stato nel Veneto, era fuori come ca-sa, con tutti i suoi terreni. Anche il paesenon era mai soggetto sotto la guerra [...]qualche volta transitava qualche soldato echiedeva una gallina a mia zia, che gliela da-va, e la pagavano. Da mangiare ce n’era, coiforni si facevano il pane fresco. Lì era tran-quillo, invece su in montagna, già da Bre-ganze andare su o la costa di Bassano, eraun pasticcio” (testimonianza di V. Nichele).

Ma era anche possibile provare una sen-sazione di sradicamento, ancora una voltaper la lingua, che ormai mescolava termini edialetti delle due regioni considerate, e percasi di chiusura da parte dei veneti rimastinon emigrati.

“Tra emigrati e quelli rimasti si facevanodispetti, c’era uno che si chiamava RonzaniVettore e qui lo chiamavano ‘il veneto’,quando andava là invece dicevano: ‘Ecco,arriva il piemontese’. Lui si arrabbiava. Per-ché allora quelli che lavoravano avevano unpo’ di disponibilità. Mi ricordo che io sonoandato là nel ’53, sono stato per sette mesie coi pantaloni lunghi c’ero solo io, che an-davo a messa la domenica e gli altri avevanotutti pantaloni corti, calze bianche lunghefino alle ginocchia, i smijavo dij dësgrassià,allora c’era un po’ di gelosia. Noi avevamoun po’ di soldi e loro giravano solo sull’agri-coltura e se l’annata va bene... se no” (te-stimonianza di V. Nichele).

(3 - continua)

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saggi

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Per approfondire e concretizzare la situa-zione degli ebrei a Vercelli non solo da unpunto di vista statistico, ma anche umano,sono stati presi in considerazione due ma-noscritti e sono state effettuate quattro in-terviste ad individui appartenenti (comples-sivamente) a cinque famiglie ebraiche ver-cellesi1: ne sono emerse storie diverse pervicende ed estrazione sociale e culturale, masimili fra loro per terrore e sofferenza.

I casi esaminati non sono di famiglie al-largate, poiché costituite dai genitori, unoo due figli e un fratello/sorella o genitoredella coppia; si trattava di ebrei che vive-vano e lavoravano in Vercelli, del tutto in-tegrati nel piccolo mondo di provincia.

La famiglia Colombo

La famiglia Colombo era costituita dal pa-dre Rodolfo, dalla madre Elvira Ancona e dalfiglio Dario e alloggiava in piazza Massimod’Azeglio. Si poteva considerare una fami-

glia agiata grazie alla stabilità economicaderivante dall’attività di Rodolfo, laureatoin economia e commercio e libero professio-nista.

Il figlio Dario ne parla così: “Mio padreche era dottore commercialista, mia madreche era, allora non si chiamavano casalin-ghe, ma benestanti e così sono nato da unafamiglia abbastanza agiata... Mio padre eralaureato in economia e commercio, era unbocconiano, la laurea di mio padre, che ioho tuttora in casa, porta la firma di LuigiEinaudi. Esercitava qua a Vercelli. [...] Ave-vamo persone di sevizio che poi, natural-mente, con le leggi razziali, non si potevanopiù avere, ma che erano tollerate lo stesso,la Questura non diceva niente”.

Dario era invece studente e come lui stes-so afferma: “Ho frequentato l’asilo infanti-le Levi ed è sempre lì che io sono andato ascuola, in Italia, sino a dopo, quando sonotornato, alla Liberazione, perché questoasilo non esisteva più”.

CRISTINA MERLO

La Comunità ebraica di Vercelli

dal 1943 al dopoguerra*

* Saggio tratto dalla tesi di laurea Ebrei e persecuzioni razziali nel Vercellese, Univer-sità degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 1996-1997, relatore prof. FabioLevi.

1 Precisamente: intervista a Pia Segre, a Cuneo, il 14 gennaio 1997; intervista a Dario Co-lombo, a Vercelli, il 26 novembre 1996; intervista a Mario Pollarolo, ad Asigliano Vercelle-se, il 17 novembre 1996; interviste ad Alberta Cingoli Sacerdote, a Torino, il 22 febbraio1995 - rilasciata in una IV elementare frequentata dalla figlia del prof. Fabio Levi, relatoredella tesi - e il 13 febbraio 1997; manoscritto di Aldo Cingoli, la cui stesura avvenne dopo

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Cristina Merlo

66 l’impegno

Una famiglia “mista”: i Pollarolo

La famiglia di Mario Pollarolo era costitui-ta dal padre Angelo, dalla madre Maria Sa-cerdote, dalla zia Sellina, sorella della madre,e dallo stesso Mario; vivevano in corso Car-lo Alberto 48.

Mario, durante l’intervista, afferma che lasua era una famiglia di lavoratori e di tradi-zione operaia: “Il papà era del ’91, ha fattola guerra del ’15-18, poi ha sempre lavorato,lui, più che altro, faceva il commesso di ne-gozio, solo un breve periodo ha fatto la Cha-tillon [...] C’è stato un periodo, prima dellaguerra, che avevamo un negozio di pollamein via Foa, proprio nel ghetto di Vercelli [...]era carne che gli ebrei potevano mangiare[...] facevamo il pollame; c’era anche sala-mi, salami d’oca, perché appunto, non man-giando il maiale, si faceva i salami e le sal-cicce d’oca, le mandavamo in giro, manda-vamo le cassette in giro per l’Italia, addirit-tura; poi non è andata bene, perché con leleggi razziali, che sono sopravvenute, poile restrizioni e via dicendo, siccome la tito-lare del negozio risultava mia madre, alloraabbiamo dovuto chiudere. [...] Sì, questonegozio è durato qualche anno, insommaabbastanza, poi mio padre è andato a lavo-rare alla Chatillon, faceva il magazziniere allaChatillon, ed è stato lì fino alla pensione. Miamadre ha sempre lavorato in una ditta, dittaCantoni di macchine agricole, come segreta-ria, ha sempre lavorato lì, ha passato la vitalì dentro. [...] E mia zia è sempre rimasta acasa, faceva i lavori, curava me, curava tut-ta la famiglia, era proprio di famiglia, dicia-mo, non si è mai sposata, quindi siamo ri-masti sempre insieme”.

Mario invece interrompe gli studi dopo

il secondo anno delle scuole superiori e ini-zia a lavorare: “Io sono stato allevato, dabambino, nell’asilo ebraico, ho fatto prima,seconda e terza elementare sempre nellescuole ebraiche di Vercelli, poi la scuola hachiuso per mancanza di allievi, eravamo po-chissimi, allora sono andato poi alle scuolepubbliche, normali, ho fatto la quinta nellascuola pubblica, quarta e quinta e poi sonoandato all’Istituto Cavour per geometri; su-bentrate le leggi razziali mi hanno cacciatofuori, ho incominciato a lavorare. Sono an-dato a fare l’operaio, sono andato in una dit-ta, prima, sono stato un anno circa, poi sonopassato in quest’altra ditta [la Cantoni], ioho sempre lavorato, ho sempre fatto l’ope-raio”.

La famiglia Pollarolo era una famiglia “mi-sta”: come già accennato tali famiglie costi-tuirono un problema di difficile soluzione perla legislazione razziale fascista, in quanto iprovvedimenti legislativi imponevano unanetta separazione tra ebrei e “ariani” ancheall’interno di ogni singola famiglia. Il padredi Mario era cattolico, mentre la moglie e lacognata erano ebree; il figlio Mario fu edu-cato secondo la religione ebraica come vo-leva la madre, senza che il padre si oppones-se. Vivere in una famiglia “mista” non co-stituì un disagio per nessuno dei suoi com-ponenti, neppure per Mario, il “figlio misto”,nato da padre “ariano” e da madre di “raz-za” ebraica. Anche i parenti dei Pollaroloavevano accettato quasi tutti l’unione di uncristiano con un’ebrea.

Ecco come Mario Pollarolo racconta la suastoria: “Mio padre non era ebreo [...] sì, sene fregavano tutti nel modo più assoluto;uno dei fratelli di mio padre era un comuni-sta convinto, un altro era un anarchico ad-

il 30 aprile 1984 a Vercelli; diario di Alberto Sacerdote. Il diario di Alberto Sacerdote è statopubblicato con il titolo Oltre il confine. Diario di una famiglia ebrea, a cura di AlbertoLovatto, ne “l’impegno”, a. XV, n. 3, dicembre 1995.

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La comunità ebraica di Vercelli dal 1943 al dopoguerra

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dirittura, quindi figuriamoci, se ne fregava-no altamente... Le sorelle invece, un po’...si sa le donne... [...] Mio padre aveva un cu-gino, in secondo grado, prete, che era parro-co della chiesa di San Michele e, mi raccon-tava - mio padre - che un giorno uscendo dicasa ha trovato questo cugino prete e gliha chiesto: ‘Ma ti sei sposato?’, e lui ha det-to: ‘Sì’, ‘E chi hai sposato?’, ‘Ho sposatoun’ebrea’, ‘Oh!, ma no, ma no, ma cosa haifatto’, e lui dice: ‘Non solo ho sposato un’e-brea, il figlio l’ho fatto ebreo’, ‘Oh!, ma no’,gli ha detto: ‘Vieni in chiesa che aggiustia-mo tutto’, e mio padre ha detto: ‘È già tuttoaggiustato, non c’è niente da aggiustare, vabene così’. Non lo ha più salutato”.

Tra le carte della Prefettura rintracciateall’Archivio di Stato di Vercelli sono stateritrovate le “schedine” personali riguardan-ti “beni ebraici” e appartenenza alla “razza”ebraica degli interessati, tra i quali figuranoi nomi dei genitori di Mario Pollarolo. La datadi compilazione delle due “schedine” risul-ta differente: quella della madre è datata 12maggio 1944 e quella del padre 17 maggio1944. Il testo della scheda riguardante la ma-dre riporta con esattezza quella che era ef-fettivamente la condizione della signoraMaria Sacerdote: “Si comunica che la nomi-nata Sacerdote Maria fu Israele, già residen-te in questa città, appartiene alla razza ebrai-ca. È coniugata con ariano”, segue la firmadel questore Sartoris.

Interessante risulta, invece, la scheda delpadre di Mario, il signor Angelo Pollarolo;di lui si sa che non era ebreo, sia in base alracconto del figlio, sia in base al fatto chenon compare negli elenchi di persone di“razza” ebraica, tanto in quello stilato dallaQuestura che in quello trasmesso dal Comu-ne alla Prefettura. Nella “schedina” inveceviene segnalato come ebreo: “Si comunicache il nominato Pollarolo Angelo qui abitan-te è di razza ebraica, è coniugato con l’ebrea

Sacerdote Maria fu Israel ed ha un figlio Pol-larolo Mario pure di razza ebraica”.

L’errore dipende probabilmente dal fattoche il periodo in cui vennero compilate leschede, maggio-giugno 1944, era un perio-do di grande lavoro per chi dovette esegui-re gli ordini impartiti dal regime. Infatti, conl’inasprimento dalla legislazione razziale,furono fatti sforzi straordinari alla ricerca diebrei che, in qualche modo, potevano esser-si nascosti.

Vi fu la sollecitazione dal governo centra-le ad applicare al meglio i provvedimenti an-tisemiti, come l’esclusione dal lavoro e dal-le scuole, il sequestro dei beni, ecc. L’inten-so lavoro richiesto ai dipendenti dei comu-ni, delle prefetture, delle questure potevaportare a compiere degli errori: errori umanidovuti a distrazione oppure errori dovuti achi, per paura di sbagliare ed incorrere inqualche punizione, preferiva segnalare unebreo in più che uno in meno oppure, anco-ra, errori di chi, spinto da un forte spirito an-tisemita, svolgeva scrupolosamente il pro-prio lavoro di denuncia degli ebrei, inclu-dendo anche i casi dubbi.

La famiglia Segre, commercianti

La famiglia Segre era composta dal padreAronne Aristide, dalla madre Emma Giudit-ta Ancona e dalla figlia Pia, viveva in viaRodi ed era una famiglia di negozianti.

Così afferma la figlia Pia: “Mio padre eraun commerciante di tessuti che aveva il ne-gozio in piazza Massimo d’Azeglio, miamamma casalinga, io studiavo, ho un diplo-ma di ragioniera ottenuto all’Istituto tecni-co Cavour di Vercelli, siamo vissuti bene eserenamente sino al ’38, sino a quando so-no iniziate le leggi razziali [...] Una donna diservizio a ore che veniva ad aiutare mia mam-ma che era stata anche sofferente, mia mam-ma era già stata operata sotto le bombe a

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Milano... La donna di servizio è rimasta finoalla fine, saltuariamente ci aiutava”.

La famiglia Cingoli Sacerdote

La storia della signora Alberta Cingoli Sa-cerdote porta alla luce le vicende di due fa-miglie: quella di origine e l’altra formata, inun secondo tempo, con il marito Alberto Sa-cerdote, il quale ha descritto le vicende del-la sua fuga con i parenti in un memorabilediario2.

Alberta Cingoli viveva a Vercelli, in via S.Michele 5, con i genitori Augusto ed Esme-ralda Bianca Bachi e due fratelli maggiori:Aldo e Vittorio. Lei stessa racconta: “Ero laterza di due fratelli, molto più anziani, per-ché dal primo c’era la differenza di tredicianni, dal secondo nove, e poi sono nata ionel 1916. [...] Io ho fatto il liceo, ho studiato,mi trovavo benissimo insieme ai miei com-pagni di scuola, anche se non erano dellamia religione...

[I genitori di Alberta] [...] avevano un ne-gozio di stoffa in piazza Massimo d’Azeglio.[...] Eh, io ho studiato quasi fino all’ultimo;Cesare Pavese è stato mio professore a Ver-celli [...] Sì, sì, posso dire non avevamo pro-blemi [...], non è successo niente”.

Infine, il ricordo della famiglia da parte delfratello di Alberta Cingoli, Aldo, è affidatoad un suo manoscritto nel quale scrive così:“[...] Debbo dire brevemente come era com-posta la mia famiglia, e come vivevamo inquel periodo.

Abitavo un vasto alloggio, al 1o piano divia Morosone 19, con mia moglie, Lydia Se-gre, sofferente di salute, mio figlio Franco,che allora aveva 6 anni, e mia suocera, Gem-ma Segre, rimasta vedova e sola l’anno pri-ma, la quale praticamente mi dirigeva la casa.In due camere attigue all’alloggio era venu-

ta ad abitare anche la sorella di mia suocera,Delia Segre, ved. Maroni, che allora aveva45 anni”. Aldo Cingoli era laureato in inge-gneria ed era un libero professionista.

La pratica della religione ebraica

La vita di queste famiglie e di tutte le altrefamiglie ebraiche vercellesi scorreva nellapiù assoluta normalità: il lavoro, la scuola,la rete degli amici e dei parenti, la frequenzaalle funzioni religiose; le preoccupazioni, lesoddisfazioni, i dolori e le gioie di tutti i gior-ni, come loro stessi affermano nelle intervi-ste. Ricorda Pia segre: “Si viveva normal-mente, assolutamente... Sì, una vita presadalle preoccupazioni della nostra famiglia,mia mamma sofferente di salute, difficoltàmagari di lavoro, ma, proprio personalmen-te, non eravamo toccati. [...] Era una comu-nità vivace con molte persone, c’erano an-che delle famiglie molto benestanti e c’eranoanche dei poveri, era veramente un gruppoche offriva tutte le categorie: i poveri, i com-mercianti, gli intellettuali, i professori, erarappresentata da tanti elementi”.

Da un punto di vista religioso si può af-fermare che la frequenza alle funzioni svol-te al tempio non era particolarmente assi-dua, anche se c’era chi sentiva di più il va-lore del rito e quindi vi partecipava conmaggior frequenza e chi invece non era parti-colarmente convinto e vi aderiva con minortrasporto: “I rapporti con la religione ebrai-ca miei erano che..., prima di tutto mio padrenon era un uomo religioso, quindi non hoavuto un’educazione religiosa in famiglia,però, tutto sommato, l’allora rabbino UgoMassiach teneva dei corsi di ebraico, ci in-segnava l’ebraico, pace all’anima sua, nonmolto bene, non l’ho mai imparato, non sopiù nemmeno scrivere né altro; io andavo

2 Si veda nota 1.

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alla sinagoga normalmente al sabato, dovec’era un banco apposito per tutti i ragazzinie le ragazzine. [...] La mamma veniva in sina-goga, mio padre rarissimamente, salvo nel-le grandi occasioni, proprio così, per un suosenso, diciamo così, di appartenenza piùche di convinzione, mi sembra di poter ri-cordare. [...] Noi bambini andavamo perchéaccompagnati dalle mamme. [...] I miei pa-renti sono quasi tutti ebrei [...] Ecco, era unacomunità molto integrata, abbastanza assi-milata dal punto di vista della vita. [...] Lacirconcisione, quella è sempre stata pratica-ta, era una cosa normalissima e sembra igie-nicamente ben fatta [...] Sono circonciso. [...]Le funzioni, ovviamente il rabbino Massia-ch, mi ricordo, tutte le sere andava al tempioa recitare le preghiere dovute, tutte le sereperò era assistito solo dal schamasch, in ge-nere la gente andava alla sinagoga al venerdìsera, al sabato mattina e nelle feste coman-date”. Così nei ricordi di Dario Colombo.

Anche gli altri intervistati sembrano con-fermare tali indicazioni, come Mario Polla-rolo: “Sì, papà cattolico, madre ebrea, zia e-brea, naturalmente io sono stato allevato,da bambino, nell’asilo ebraico. [...] Ma, conla religione, io sono sempre stato, diciamoda bambino, e da ragazzo, ho avuto degli ot-timi rapporti, perché stavo a quello che miinsegnavano, poi, passando gli anni, ho in-cominciato a ragionare con la mia testa...[Frequentavano tutte le funzioni], sì, con lamamma e la zia”.

Bisogna comunque ricordare che il padredi Mario, Angelo Pollarolo, era cattolico,anche se malgrado questo non disdegnavadi frequentare la sinagoga: “Veniva anchedentro, lui non ha mai messo piede in unachiesa [...] lui, se andava al funerale di unamico, andava al funerale, ma rimaneva fuo-ri. Però veniva dentro alla sinagoga, tanto-ché il rabbino Massiach gli ha detto: “Lei èun ebreo onorario” [...] Lui... era, diciamo,

più verso gli ebrei che verso i... poi se hasposato un’ebrea non è mica per niente...lui... siccome lui della religione poi se ne fre-gava nel modo più assoluto, quindi luiavrebbe sposato anche una musulmana, glifosse piaciuta...”.

Anche la testimonianza di Pia Segre con-corda con quelle appena citate: “Frequenta-vamo le funzioni, sempre, c’era un rabbino,il rabbino Massiach, sino all’ultimo, e c’era-no le funzioni al tempio, come adesso nellamessa, nella funzione del sabato il rabbinodiceva una preghiera, ‘Benedica sua mae-stà il re’, faceva parte della liturgia, coi buo-ni rapporti che in fondo c’erano in quei tempie sono rimasti anche con la gente che li cir-condava; mio papà vendeva e aveva tanticlienti. [Tutta la sua famiglia, anche i suoiparenti frequentavano le funzioni regolar-mente]. Chi era religioso sì, c’era la funzio-ne del sabato, si andava con piacere; il ve-nerdì sera c’erano sempre le funzioni, c’erail rabbino Massiach che fino all’ultimo èstato lì. [...] Anche se nelle nostre famigliec’è chi è più religioso e chi anche più laico,però magari, uno spirito di famiglia, per ri-guardo, magari, venivano lo stesso al tem-pio, così anche per avere occasione di farebeneficenza, per ritrovare un amico...”.

Infine, Alberta Cingoli Sacerdote affermache: “[La partecipazione alle funzioni avve-niva regolarmente] perché io avevo un non-no rabbino, che era lì, poi è morto nel ’24,Isacco Giuseppe Cingoli, veniva da Urbino;mio papà andava a cantare al tempio, i mieifratelli, insomma eravamo...”.

L’atteggiamento di fronte alla politica

Si è scritto fino ad ora di una vita condot-ta nella più assoluta normalità, come citta-dini vercellesi prima di tutto. Non solo comeebrei dunque, ma come cittadini italiani coni diritti e i doveri di tutti gli altri, almeno fino

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al ’38; e di quella vita faceva parte a queltempo anche la politica, naturalmente la po-litica del regime fascista.

Per quanto riguarda l’atteggiamento de-gli intervistati e delle loro famiglie, famigliedi italiani che tali si sentivano pienamente,si può affermare che non vi fosse una gran-de passione politica.

“Mia madre non si interessò mai molto dipolitica, faceva parte delle donne fasciste,naturalmente fino al 1938, partecipava, sì, aquelle riunioni che venivano fatte dalle don-ne fasciste, che erano, più o meno, delle riu-nioni mondane. Il federale Gazzotti frequen-tava casa mia, io parlo prima del..., mio pa-dre andava al sabato pomeriggio alle adu-nate fasciste senza molta convinzione, eraiscritto al Partito fascista, perché era obbli-gatorio, per i professionisti, di essere iscrit-ti, io parlo sempre prima delle leggi razziali,quando eravamo, teoricamente, cittadinicome gli altri, andava a queste adunate fa-sciste con tanto di fez e via dicendo. [...] Miopadre non aveva una convinzione fascista,noi veniamo da una famiglia liberale, miopadre era e si sentiva veramente liberale.

[...] La mamma non aveva delle grandiopinioni fasciste. [...] Io sono l’ex balilla Da-rio Colombo, appartenente alla 21a legione,questo posso dirlo, è la verità: ero balilla ma-rinaretto, ho la tessera [...], l’ho perfettamen-te conservata, 21a legione, venni radiatomolto tardi, cioè non avevo diritto di fre-quentare la scuola, che d’altronde non fre-quentavo, perché, ribadisco, frequentavol’asilo Levi, venivo continuamente chiama-to alle adunate, persino quando ci fu la vi-sita, non mi ricordo se nel ’41 o nel ’42, il ’41forse, ’40, non ricordo, di Achille Starace aVercelli, io continuai ad andare [...] che era-no tutti ben organizzati, i balilla marinarettiavevano l’alpenstock, il bastone da monta-gna, questo a dimostrazione dell’organizza-zione, non potevano vincere la guerra. [...]

Sotto la pioggia ad aspettare Starace, da-vanti al Sant’Andrea, alla stazione, obbliga-ti, come tale continuavo a vestire la divisadella gioventù del littorio. [...] Solamente nel,non mi ricordo però esattamente il mese, nel’41, venni chiamato e mi dissero che ero e-sentato dalle adunate, senza tante storie,senza parole offensive o senza altro. [...] Ioero un ragazzo, a quell’epoca lì ero proprioun ragazzino, che opinioni potevo avere? Ri-badisco il fatto che la famiglia, dalla parte dimio padre, era una famiglia altamente patriot-tica e risorgimentale” - così afferma DarioColombo.

Un po’ più accese sono le convinzioni diMario Pollarolo: “Ma, diciamo che mia ma-dre non si è mai interessata di politica senon quando la politica si è interessata di noi.[...] L’unica cosa che cercava di fare era didire a mio padre di stare calmo, perché nonlo mettessero in galera, perché mio padre èsempre stato antifascista, di origini sociali-ste, già suo padre, lui mi diceva, del nonno,che era socialista, quindi proprio... lui è sem-pre stato antifascista convinto e quindi...difatti, durante il periodo clandestino, miopadre era intrigato nel Comitato di liberazio-ne nazionale di Vercelli, con vari altri suoiamici, quindi la posizione politica di mio pa-dre era chiarissima, diciamo che non me neha mai parlato esplicitamente, finché io an-davo a scuola, finché tutto era tranquillo,perché non voleva creare delle cose che nonandavano, diciamo, l’unica cosa che... quan-do io al sabato dovevo andare nei balilla,obbligato, mi vestivo da balilla per andareall’adunata, ma se lui era a casa, mi giravaattorno e diceva: ‘Eh! È di nuovo vestito dapagliaccio’, l’unica cosa che io capivo chec’era qualcosa... poi dopo, invece, ha inco-minciato, poi, a esplicitarmi, mi faceva dellelezioni... Anch’io mi sono orientato da quellaparte certamente; un ragazzino di quattor-dici anni che, da un giorno all’altro, si vede

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buttato fuori da scuola e via dicendo, sen-za capire il perché poi in fondo, allora miopadre mi ha spiegato bene come era la sto-ria e quindi... Io andavo a scuola, finché iosono andato a scuola [...] andavo all’adu-nata dei balilla, poi degli avanguardisti, per-ché ero lì a scuola, tutto funzionava bene,poi improvvisamente trac!, le leggi razziali;come facevo a diventare fascista, son diven-tato antifascista, da fascista, perché io erofascista, diciamo che io ero fascista, da bam-bino, cresciuto in quel clima a scuola, balil-la..., il libro ‘Moschetto, balilla perfetto’, ioson cresciuto... quando poi mi han dato uncalcio nel sedere, allora ho incominciato acapire qualche cosa, anche se avevo soloquindici anni, e poi, come dico, mio padremi ha istruito bene, dopo...

[...] Beh!... la tessera del partito, mio pa-dre per andare a lavorare alla Chatillon hapreso la tessera, ha preso la tessera ma nonè mai andato ad una adunata, non è mai an-dato ad un corteo, mai, mai, mai [...] Nonvenivano a prenderlo, non è mai andato enessuno è mai venuto a prenderlo”.

Un quasi totale disinteresse nei confron-ti della politica si ha, invece, nella famigliaSegre: “Io vestivo da piccola italiana, lo de-vo dire, ho una foto, ho la gonna nera e hofatto anche qualche saggio fino a livello ele-mentare o prima media. [...] Non so cosa dire,io avevo tredici anni, dodici, se andiamoindietro; era obbligatorio iscriversi al fasci-smo; posizione politica, non lo so, a Vercel-li non è che..., c’era timore indubbiamente,si capiva che era una politica non favorevolea noi, alcuni si sono lo stesso iscritti al fa-scismo per poter lavorare...

[Il padre e la madre non erano interessatipoliticamente] No, assolutamente no, miopapà era un uomo semplice, amava la musi-ca, sentiva la musica, ma viveva del suocommercio, leggeva molto, non c’era la te-levisione, sentiva la radio per avere le no-

tizie; mia mamma si occupava della sua fami-glia, assolutamente non ci occupavamo dipolitica”.

Alberta Cingoli Sacerdote afferma che, ol-tre al fratello, nessuno in famiglia si interes-sava molto di politica: “Mio fratello Aldo fa-ceva..., anzi mio fratello Aldo era fiduciario,era fascista della prima ora lui, perché eradel ’21, era venuto fascista dal Guf, [...] luisi era iscritto, e allora, vedendo che poi la-vorava, gli avevano offerto - era ingegnere,sempre riuscito molto bene negli studi - difare il fiduciario, che c’erano vari posti nel-la città, che si era fiduciario in una data zo-na; poi invece, con quello che è successo,tanto mio fratello, i miei due fratelli eranocondannati a morte, li cercavano perché era-no condannati a morte; mio fratello Vittorio,il secondo, era fascista del ’32, perché hasempre avuto più idee, più di sinistra chenon di destra, e poi invece aveva capito...,era venuto Starace una volta, era abbastan-za entusiasta, poi in ultimo, poi si sentivagià, poi ci succedevan tutte queste cose qui,allora. [...] Da noi non si faceva tanta politi-ca”.

Dalle leggi razziali all’8 settembre

Questa era la situazione prima del 1938,poi vi fu la svolta imposta con l’emanazio-ne della legislazione razziale; gli ebrei dovet-tero incominciare a prendere coscienza delfatto che la campagna antisemita non pote-va considerarsi, come per altre occasioni,una delle tante smargiassate della propa-ganda fascista destinate a non pesare gran-ché sulla vita degli italiani. La campagnadiffamatoria contro gli ebrei spianò il terre-no a norme legislative ben precise e concre-te, che erano peraltro un evidente segnaledell’alleanza tra l’Italia e la Germania e deldesiderio di Mussolini di accreditarsi agliocchi di Hitler, ma, soprattutto, i provvedi-

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menti razziali erano destinati ad incidere mo-ralmente e materialmente con grande durez-za sulle vite degli ebrei italiani.

A Vercelli, città di provincia con una Co-munità ebraica di piccole dimensioni, la pro-paganda antisemita e la legislazione razzia-le fecero il loro corso senza eccezioni di sor-ta. Arrivarono dal Ministero dell’Interno allaPrefettura di Vercelli le circolari che solleci-tavano l’applicazione dei provvedimenti raz-ziali anche al gruppo ebraico vercellese. Gliebrei incominciarono a risentire material-mente dei nuovi provvedimenti, soprattuttoin ambito lavorativo; subirono tutte le con-seguenze anche psicologiche di quanto sta-va accadendo, in quanto era difficile accet-tare l’allontanamento dal lavoro e, soprattut-to da parte dei bambini e dei ragazzi, l’esclu-sione da scuola senza ragioni comprensibili.Inoltre, anche se non furono numerosi gliatteggiamenti apertamente antisemiti daparte della popolazione vercellese, qualchesporadico episodio vi fu; in ogni caso risul-tò evidente il voltafaccia della borghesiacittadina incline a seguire pedissequamen-te le direttive del regime.

La vita degli ebrei di Vercelli, dopo l’ema-nazione dei primi provvedimenti antisemiti,non fu subito radicalmente sconvolta, al-meno fino all’8 settembre 1943. Naturalmen-te vi furono gravi cambiamenti, come l’al-lontanamento dal lavoro e l’espulsione dascuola dei giovani israeliti, ma tali problemipoterono essere affrontati, se non propriorisolti. Per quanto riguarda il lavoro, chi ave-va un’attività commerciale poté tenere aper-to, anche se in condizioni più difficili, il pro-prio negozio; chi invece dovette abbando-nare la professione cercò, in qualche modo,di continuare a svolgerla sottobanco.

I ragazzi che furono costretti a lasciare lescuole pubbliche vennero tutti accolti al-l’asilo Levi dove, grazie alla disponibilità ealla generosità dell’ingegnere Giuseppe Le-

blis e della maestra Sansonina Gallico, po-terono continuare i loro studi. L’ingegnerLeblis e la maestra Gallico si dedicarono al-l’insegnamento dividendosi i compiti e cer-cando di far fronte alle esigenze dei giovaniallievi iscritti, compatibilmente con le diffe-renze connesse all’età e alle classi di prove-nienza. Essi dovettero impegnarsi ad orga-nizzare l’insegnamento di tutte le materiecon programmi adeguati: c’erano infatti ra-gazzi delle elementari, delle medie e delle su-periori.

A tal proposito Dario Colombo affermache: “Da principio c’era asilo e scuole ele-mentari, ed era frequentato sia da ragazzi e-brei che cattolici; naturalmente, dopo le leg-gi razziali, solamente gli ebrei andavano inquell’asilo, perché ai cattolici era inibito an-dare in scuole...; lì venivano tenuti dei cor-si un po’ misti, in quanto si faceva lezionesia ai bambini che facevano le elementari,sia a quelli che facevano le medie o si pre-paravano per gli esami, perché gli esami era-no consentiti, gli esami di Stato si potevanodare, si preparavano, privatamente, quei po-chi ragazzi ebrei che allora frequentavanoquest’asilo che, ripeto, è stato aperto finoall’8 settembre ’43, quando sono arrivati itedeschi, mai più riaperto dopo la guerra. [...]Insegnava in quell’asilo la maestra, la pro-fessoressa Sansonina Gallico e si prestavail presidente della comunità, che era un uo-mo di grande cultura, era molto eclettico, in-gegnere Giuseppe Leblis, il quale insegna-va la matematica, il disegno e varie altrecose, sia ai ragazzini che a quelli un pochet-tino più adulti”.

Anche la testimonianza di Pia Segre fa ri-ferimento all’asilo Levi: “La scuola ebraicaha retto fin che ha potuto. All’asilo Levi, pe-rò, non c’erano tutti i professori per prepa-rarci all’esame di terza media; non tutti i pro-fessori accettavano questo impegno; permatematica, credo che ci fosse l’ingegnere

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Giuseppe Leblis, che poi è stato deportato.[...] La maestra Sansonina Gallico e l’inge-gnere Giuseppe Leblis si dividevano il com-pito; veniva da fuori il maestro Visconti perginnastica e un professore, non mi ricordoil nome, per canto, perché allora c’era anchecanto, coi canti fascisti, quello di Roma: vivaRoma libera e gioconda, io cantavo ancheviva Roma”.

Quindi, dalle testimonianze raccolte, sipuò affermare che il gruppo ebraico vercel-lese poté, per un certo periodo, adattarsisenza scosse troppo drammatiche alla nuo-va normalità imposta dal regime; anche sequesto comportò costi notevoli. Così Da-rio Colombo: “Le avvisaglie delle prime per-secuzioni le ho avute quando sono, ovvia-mente, uscite, nel ’38, le prime leggi razziali;mio padre ne fu colpito in quanto, come pro-fessionista, venne radiato dall’albo, sebbe-ne avesse diritto di essere discriminato, co-me consentivano allora certe deroghe allalegge per marcia su Roma, sciarpa littorio,cose che mio padre non era, ma quale excombattente e decorato, perché ufficiale nel’14-18.

[...] Dobbiamo sempre dividere: dal mo-mento delle persecuzioni all’8 settembre,dall’8 settembre in poi. La condizione finoall’8 settembre era, non dico decente, per-ché non era affatto decente essere cittadinidi serie b o di serie c, se non peggio, doponon si era più niente, si era solo oggetto dicaccia. [...] Fino a quell’epoca lì, alcune leg-gi razziali erano severamente osservate, peresempio, inibizione al lavoro, come mio pa-dre, non volendo essere discriminato, nonha esercitato più la sua professione. Anda-re nelle scuole non era possibile, c’è statopoi anche un momento in cui, quando ciallontanavamo dalla città, parlo di mio pa-dre ovviamente, io ero un ragazzino, per unperiodo che non fosse la giornata, si dove-va fare la segnalazione alla Questura, per

esempio, ‘andiamo in villeggiatura’, lo si di-ceva.

Inibizione ad avere la donna di servizio eranelle leggi, però nessuno ha mai fatto que-stioni. [...] L’abbiamo sempre avuta fino,grosso modo, al ’43, quando siamo scappa-ti. [...] Quando fu proibito di avere la radio,la Questura disse: ‘Ma, ci porti una vecchiaradio, dottore, e poi si tenga un’altra radioin casa’, cioè c’erano tolleranze e non tolle-ranze, nessun atto di violenza fisica è maistato commesso fino al 1943, 8 settembre,cioè fino all’arrivo dei tedeschi.

[...] Bisogna spiegare cos’è la violenzamorale, le leggi stesse erano una violenzamorale. La buona borghesia aveva voltatola faccia agli ebrei, il popolo dissentiva me-diamente e, tra questi, alcuni fascisti; peresempio, il vice federale, avvocato Radice,tuttora vivente, al cartello esposto al caffèMarchesi: ‘Qui non sono accettati gli ebrei’,rispose entrando sottobraccio a un ebreo,in pieno mezzogiorno, quando c’era la mag-giore affluenza, facendo togliere il cartello,questo per dare un esempio... perché faonore all’avvocato Radice. Vi erano alcuniantisemiti accesi, tale Inverardi, credo mor-to in Russia, tale Gellona, morto in Russiaanche lui, i russi qualcosa di buono devo-no averlo fatto. C’era quel Zivelonghi, pro-fessore, che aveva pubblicato quell’artico-lo sul giornale ‘La provincia di Vercelli’, cheera un giornale della federazione fascista, acommento della radiazione nostra dallascuola: ‘Era ora che questi bambini ebreinon infettassero più le nostre scuole’. Unavvocato di Vercelli, di cui taccio il nome,anche se è morto; questo era un avvocatoamico di mio padre, il quale gli voltò le spal-le al punto di non salutarlo più, anche se sifrequentavano abitualmente, proprio dellacosiddetta buona borghesia, e che poi, allafine della guerra, quando siamo ritornati:‘Rodolfo, Rodolfo’, rivolgendosi a mio pa-

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dre, ‘ma, perché non mi salutavi più’, e miopadre rimase talmente sorpreso da non re-plicare, mentre io gli gridavo: ‘Sputagli infaccia, papà’. [...] Il fascista Bertolazzi, poidivenne capitano della brigata nera in tem-pi successivi, venne chiamato in federazio-ne, perché suo figlio, che non c’è più pur-troppo, era mio amico e gli dissero: ‘Tuo fi-glio frequenta un ebreo’, e lui rispose: ‘Miofiglio frequenta chi mi pare’, cioè reagendoin quella maniera e rimanendo sempre ami-co della famiglia, cui debbo anche una cer-ta salvezza in quel di Varallo, poi in epocasuccessiva. [...] Poi la discriminazione nonera una questione di togliersi delle paure,era solo una questione lavorativa. Qualcu-no lo ha fatto, perché aveva i requisiti perfarlo; mio padre aveva i requisiti per farlo eforse, a differenza degli altri, aveva i mezziper sostenersi e non ha voluto farlo per or-goglio... Però io ero un ragazzino e forse,tutto sommato, pensavo a correre in biciclet-ta. Mio padre chiuse definitivamente l’uffi-cio, continuava a fare qualche piccola con-sulenza, veniva ugualmente consultato finoad un certo momento del ’43. [...] Diciamoche si viveva malamente perché, per un cer-to periodo, le leggi si sono susseguite, quin-di si apriva il giornale o si sentiva la radiosempre con apprensione per vedere qualenovità venisse fuori in queste stramaledet-te leggi razziali, emanate da questo regimediventato improvvisamente antisemita percorrere dietro ad Hitler. Io facevo una vitaabbastanza riservata, avevo qualche amico,in genere continuavo ad andare, per esem-pio, a pattinare [...] Eravamo soggetti natu-ralmente a tutte quelle limitazioni, per esem-pio, ricordo che, in occasione di una visitadel duce, avvenuta in tempo di guerra, misembra, ci consigliarono di andare via duegiorni, ma non dicendo: ‘Andatevene via’,‘È meglio che vada via per un giorno o due’,forse perché la Questura temeva qualche

cosa, pur sapendo benissimo che non eracosì. Facevamo una vita piuttosto riservata[...] Per forza di cose, frequentando quellaborghesia che, improvvisamente, si era ade-guata al regime, erano stati scartati e messiun po’ all’ostracismo, quindi mio padre face-va una vita riservatissima. Nessuno ci in-sultava per la strada, anzi alcuni scuotevanola testa indignati”.

Non troppo diverso è il racconto di Ma-rio Pollarolo: “Ma la paura c’era, paura, siha paura in quei momenti, specialmentedopo l’8 settembre, finché è stato così era...,perché anche lì, diciamo che le leggi razzialisono state fatte poi all’italiana, come si fatutto in Italia, ancora adesso, molte cose e-ran lasciate perdere, io ho continuato a lavo-rare. [...] Io avevo qualche agevolazione,prima dell’8 settembre, la famiglia, perchéera una famiglia mista, perché c’erano lediscriminazioni, c’era... tutte balle, perché dascuola mi han buttato fuori, quindi, peresempio, mi han buttato fuori, però potevoandare a fare gli esami da privatista, avessivoluto, ti mettevano in un’aula separato, dasolo, perché se no impestavi gli altri, è comeavere adesso l’Aids, insomma una cosa delgenere... Nessun, nessun privilegio, nessunaltro privilegio. Dal 1938 in avanti succedeniente, perché mia madre ha continuato alavorare, io ho continuato a lavorare, nonc’è stato niente fino all’8 di settembre. [...]Certamente [...] c’era qualcuno che non tisalutava più, per esempio, io me ne sbatte-vo altamente, come tutti noi.

[Racconta l’episodio di una persona che,durante le persecuzioni, gli ha detto: “Spor-co ebreo”] Un ragazzo che mi ha detto qual-che cosa e io gli ho risposto per le rime: ‘Vie-ni qui che ti do due calci nel sedere e vedidove ti mando’, non ho mai avuto paura iodi quelle cose lì... Io frequentavo i luoghi diprima, andavo al cinema, al caffè, andavocon gli amici cattolici. [...] Sono sempre ri-

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masti, all’infuori di uno, due, tre, ma gli altri,io li ho sempre frequentati, loro a casa mia,io a casa loro, al caffè insieme, nessun pro-blema.

[...] Siccome in Italia, ci son sempre statele scappatoie in tutte le cose, chi aveva, peresempio, un negozio e non poteva più aver-lo, la cosa era semplice, ci mettevano unatesta di legno e il negozio era sempre suo:facevano finta di cedere il negozio al signorx e quello lì era lì, gli davano un tanto, dicia-mo uno stipendio, se vogliamo, e però il ne-gozio era sempre dell’altro, lo sapevano tut-ti. [Le leggi razziali] le abbiamo accolte maleevidentemente, si pensava il peggio, poi in-vece, diciamo, che le cose si sono un po’aggiustate così, perché in Italia ci si arran-gia sempre, come al solito...”.

Ecco quanto racconta invece Pia Segre:“Mio papà si sentiva coraggioso, perché eradiscriminato per medaglia al valore, perchéaveva fatto la guerra del ’15-18, era statoferito, aveva la medaglia, non so se di bron-zo, si sentiva tranquillo, se non che è venu-to poi tutto il disordine dopo il 25 luglio el’8 settembre 1943. [...] Mio papà avevaquesta medaglia, all’inizio, siccome le primeleggi erano, per esempio, che mia mammanon poteva essere aiutata da una donna diservizio, i ragazzi fuori dalla scuola, gli ebreicommercianti o chi aveva avuto però deglionori, avevano detto per la guerra ’15-18,avevano una discriminazione, cioè non soquali vantaggi, aveva però questo termine.

[La vita scorreva] normale, però ho avutoda una signorina il gesto dell’orecchio dimaiale, da una mia vicina di casa, siccomesapevano che gli ebrei non mangiano il ma-iale. All’inizio, quando trapelavano le leggirazziali, era una mia vicina di casa, col vesti-to mi aveva fatto così (mostra il gesto strin-gendo un lembo di vestito a forma di orec-chio), ecco, forse allora mi ero un pochinoturbata, però avevamo tante buone amici-

zie, abbiamo avuto anche delle prove bel-lissime, la mia donna di servizio ha nasco-sto la roba di casa mia, ha salvato molte co-se, così la padrona di casa, ci sono stati deigesti bellissimi, ma ci sono anche stati deigesti, per fortuna non con noi..., io non so...,facevano dello spionaggio, dicevano doveerano gli ebrei [...] ma, proprio personalmen-te, non eravamo toccati, lo erano di più iprofessori e chi è stato estromesso dal lavo-ro e noi giovani dalla scuola, che non erapiacevole, gli altri vanno alla scuola pubbli-ca e tu no; dar l’esame da privatista non erapiacevole, c’erano sempre facce, magari diprofessori, che sapevi che erano impegnatipoliticamente, molto fascisti, dovevi passar-ci sotto all’esame, queste cose, così, non èche ti facessero piacere, presentarti da pri-vatista solo in tre... Eh! anche se eravamogiovani lo sentivamo questo senso di esclu-sione.

[...] Sono subentrate le leggi razziali, pri-ma di tutto sono stati danneggiati i profes-sori, la gente che lavorava nella scuola, nellecose pubbliche, sono stati radiati fuori, isemplici commercianti, come mio papà, finoall’ultimo hanno potuto esercitare il lorolavoro. Certo, indubbiamente era una cosache già ha turbato molto, perché ha fattocapire che anche l’Italia intraprendeva unapolitica diversa, il führer, gli incontri, certa-mente noi eravamo giovani... [Il padre nonha avuto problemi con il negozio, né gli hacambiato nome, cosa che altri commercian-ti avevano fatto per mantenere aperta l’atti-vità] No, questo a mio papà non è succes-so; è successa un’altra cosa, siccome, peresempio, il figlio del rabbino, che aveva deiragazzi maschi [il rabbino], non poteva la-vorare, non poteva andare a scuola, c’eral’obbligo di assumerli, mi ricordo che miopapà aveva preso come commesso il figliodel rabbino, che mi accompagnava a scuo-la, per dar lavoro, perché dovevano lavora-

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re, non so bene come era questa cosa, soche mio papà aveva assunto questo ragaz-zo. [...] A Vercelli mio papà non ha mai cam-biato nome, purtroppo il negozio è stato poidevastato, hanno portato via della roba, luiha cercato, quando le cose precipitavano,ha dato dei tessuti da tenere ai commessi.

[...] Certo, sì, ho avuto delle prove dallemie amiche, certo, Tilde Licciardi, si puòanche nominare, la moglie del professor Lic-ciardi, siamo cresciute insieme, benché lasua famiglia fosse fascista, avesse degli im-pegni, eravamo in buona amicizia; altre miecompagne, vicine di casa, andavamo a pat-tinare alla Pro Vercelli, fino a che si è potu-to, però c’era l’esclusione dalla scuola equesto, naturalmente, preclude molte ami-cizie, è un senso di ‘Tu non vieni’, c’è pocoda fare. Grazie al cielo non mi è successoniente, a parte l’orecchio di maiale. [...] Miopapà, io non ricordo dei gesti particolari; luifaceva una vita molto semplice, mia mammaaveva... certamente questa situazione hafatto un po’ rinchiudere gli ebrei, indubbia-mente cercavano di parlarsi di più per direle ansie di ognuno, la preoccupazione, evi-tavano anche..., nel timore di avere appun-to un gesto del genere, si richiudevano lorostessi di più, evitavano i contatti per non...Certo, già per istinto, gli ebrei evitavanol’ambiente borghese, per timore di avere deigesti poco piacevoli”.

Per quanto riguarda la vicenda della si-gnora Alberta Cingoli Sacerdote bisognasegnalare che questa si sviluppa in manie-ra leggermente diversa dalle altre, in quan-to nell’aprile del 1938 si sposò e formò conil marito una nuova famiglia, con una suastoria tutta particolare.

Ecco il suo racconto: “Ad aprile, sì, il 3aprile, sì. Mio marito era..., aveva dei parentia Vercelli... lui era di Pinerolo, mio marito a-veva una cartoleria a Pinerolo, suo papà esua mamma, e lui poi si era messo a lavorare

nella carta, aveva la filiale della ditta Mayer,che è una ditta che produceva carta nei pres-si di Milano, a Cairate, un’industria [...] Im-mediatamente siamo venuti a Torino: in quelperiodo si era abbastanza tranquilli, perchénon era ancora successo niente di partico-lare. Alla fine del ’38 ho avuto una bambi-na... e si viveva un po’ a Torino, un po’ aVercelli, un po’ a Pinerolo, perché mio mari-to era di Pinerolo... perché alle feste di Pa-squa si andava a Vercelli, a Rosh Hashanà

si andava a Vercelli, a Kippur anche. D’esta-te invece, dopo il mare o la montagna, si an-dava a Pinerolo, e così... questi anni passa-vano abbastanza tranquillamente.

[...] Noi, in principio, il primo anno così,tutte le feste ebraiche le passavo quasi sem-pre a Vercelli, tanto si stava magari un po’di più in casa dei miei che c’erano ancora,c’era ancora mio fratello, mio papà. Poi ènata lei [indica la figlia], fine del ’38, poi miopapà è venuto ammalato, poi è morto il 31gennaio del ’42, e poi, dopo un po’, siamopoi andati noi, noi siamo arrivati alla fine del’42, siamo andati a stare lì, proprio, e miomarito viaggiava su e giù, perché continua-va andare. [...] Dunque, nel ’38 sono poi in-cominciate però le leggi razziali, è stato unacosa che a noi proprio non ci ha poi toccatotanto..., mio marito dipendeva da una dittaebraica, la Vitamaier, così non abbiamo per-so il posto. [...] Per esempio, mia cugina, cheera la mamma di questo ragionier Dario Co-lombo, aveva sofferto, nel senso che lei fre-quentava molto il circolo ricreativo, dovec’erano tutte le sue amiche e molte fasciste,insomma così, qualcuna le ha tolto il salu-to, come per dire, tutte queste cose qui, nehan risentito forse di più quelli che frequen-tavano, io ormai ero fuori di lì, molti nondella nostra religione; hanno sofferto forsequesto stato così, poi non parliamo quelliche han perso il lavoro... Io mi ricordo che,prima del ’43, mio fratello Vittorio, il secon-

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do, che era avvocato, non ha più potuto an-dare a lavorare; lavorava lo stesso, facevale conclusionali, però non poteva andare intribunale. [Manifestazioni di razzismo] di-rette proprio niente, dirette niente, non le ab-biamo avute... anzi, io ho lasciato degli scrit-ti, delle cose per quello che ci hanno aiuta-to, molte persone, perché han dovuto na-sconderci qui. [...] Una volta mio marito miraccontava di questo, ma quando era ancoraa Pinerolo, che gli ha fatto tanto effetto, diuno che gli ha fatto così [mostra il gesto conil vestito] come per dire le orecchie..., io quel-lo non sapevo nemmeno che si potesse fa-re”.

[A questo punto dell’intervista intervienela figlia, nda] “Per quel che ne so, da quelche mi ha raccontato la mamma, non è cheloro avessero delle grandi frequentazionisociali, era una famiglia piuttosto... si fre-quentavano tra parenti, quindi non hannoavuto tanto occasione di avere degli scon-tri”.

[Riprende Alberta, nda] “Eh, siamo vissu-ti normalmente, mia mamma andava in ne-gozio, mio fratello faceva quel lavoro, scri-veva in casa quello che poi portava lì nellostudio”.

Aldo Cingoli, per parte sua, presenta cosìla sua situazione: “Rispetto alle leggi razzialidel 1938 io ero un ebreo ‘discriminato’ e go-devo di parecchie agevolazioni. Potevo tene-re la radio; potevo tenere lo studio profes-sionale, e non ero costretto ai lavori manuali;potevo tenere personale di servizio ‘ariano’.Perciò avevo in casa con noi una anzianadonna di servizio, affezionata alla mia fami-glia [...]. Nonostante questi ‘vantaggi’ do-vevo però anch’io denunciare sempre inquestura i movimenti miei e della mia fami-glia. Avevo inoltre dovuto trasformare la miaditta in anonima per poter assumere lavori,ed estromettermi dalla sua direzione, limitan-domi ad una consulenza professionale”.

Ma i giorni, i mesi, gli anni passavano e lecondizioni degli ebrei, con l’entrata in guerradell’Italia e l’inasprimento della legislazio-ne razziale, peggioravano. Con il passare deltempo vivere a Vercelli diventava insosteni-bile; oltre all’isolamento sempre più marca-to dal resto della popolazione, era effettiva-mente sempre più reale il pericolo di esserecatturati e deportati. Anche gli ebrei di Ver-celli, come tutti gli ebrei in Italia, vissero ildramma della deportazione, della paura del-l’arresto, dell’espatrio e della clandestinità;vi furono manifestazioni di solidarietà, maanche casi di delazioni, segnalazioni anoni-me, razzismo.

Con la dichiarazione di guerra, il 10 giu-gno del 1940, la condizione del gruppo e-braico vercellese peggiorò per due motivi:gli ebrei, come il resto degli italiani, con ilpaese in guerra dovettero affrontare note-voli disagi; inoltre la loro condizione di ebreisi fece tanto più grave a causa dell’inasprirsidella legislazione razziale dovuto al profilarsidei nuovi avvenimenti. Molti ebrei italiani evercellesi presero coscienza di tale situazio-ne.

Significativa è la testimonianza di DarioColombo: “Il 10 giugno del ’40 fu la dichia-razione di guerra e io abitavo in piazza Mas-simo d’Azeglio che è proprio vicinissima aPalazzo Littorio, che era allora la federazionefascista, dove c’erano tutti gli altoparlanti;la piazza era tutta gremita da gente, fascisti,non fascisti, per ascoltare quel famoso di-scorso di Mussolini che annunciava la di-chiarazione di guerra alla Francia e all’Inghil-terra. Quando poi si sciolse questa manife-stazione, questo lo ricordo perfettamente,perché allora avevo dieci anni, poco più,dieci anni e mezzo, mio padre mi prese permano, aprì la finestra del balcone, che ave-vamo prudenzialmente tenuto chiusa, e pren-dendomi per mano mi portò sul balcone e

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mi disse: ‘Vedi, figliolo mio, di qui passeran-no i soldati inglesi’, e fu questo il primo com-mento che mio padre fece di tutta la situa-zione con suo figlio”.

Rimase agli ebrei italiani un’unica speran-za: un solo fatto poteva essere in grado direstituire loro i diritti negati e la libertà che apoco a poco stavano perdendo; questo fat-to, tanto desiderato, si realizzò il 25 lugliodel 1943 e fu la caduta del fascismo. Un av-venimento questo che venne accolto congrande entusiasmo da tutti gli italiani anti-fascisti, soprattutto dagli ebrei; per loro si-gnificava la fine della tanto assurda, tantotemuta e tanto odiata legislazione razziale.Nello stesso tempo gli entusiasmi celavanomolta preoccupazione per un destino anco-ra incerto per gli italiani in generale e per gliebrei in particolare; e la storia avrebbe poidimostrato che quelle preoccupazioni nonerano infondate.

Ecco, nel ricordo degli intervistati, comeviene descritta la caduta del fascismo: “Melo ricordo perfettamente il 25 luglio 1943. [...]La tensione, ma questa la sentivamo tutti inquel momento lì, il 25 luglio le leggi razzialinon furono abolite, però nessuno disse piùniente, fino a quando venne firmato l’armi-stizio e la Cassibile da parte di Castellani,inviato da Badoglio, nelle cui clausole c’eral’abolizione delle persecuzioni; non ci sonostate persecuzioni, dal punto di vista incom-bente, da parte dei badogliani, ma non c’èstata nemmeno l’abrogazione, benché [sic]ne dicano i seguaci di Badoglio. [...] Sì, c’èstata una reazione di gioia, ma anche, daparte di mio padre, ricordo perfettamente,una consapevole preoccupazione di quelloche avrebbero potuto fare i tedeschi. Miopadre era un uomo abbastanza intelligentee colto e aveva avuto la percezione che l’Ita-lia non si sarebbe districata tanto facilmen-te dai tedeschi, se non arrivavano gli Allea-ti in fretta e furia. [...] Certamente eravamo

ben contenti che fosse caduto questo regi-me che ci aveva perseguitati; a Vercelli c’èstata qualche sporadica manifestazione an-tifascista, molti fascisti buttarono i distinti-vi, la famosa cimice, come si chiamava allo-ra, bianca, rossa e verde con l’Italia e il fa-scio in mezzo, nella fontana che c’è davantialla stazione. Insomma, un certo sollievomisto a preoccupazione per quello che a-vrebbe potuto capitare”; questo il ricordodi Dario Colombo.

Mario Pollarolo racconta invece un epi-sodio che visse in prima persona: “Ah!,quando è caduto il fascismo, a Vercelli, lavia della sinagoga si chiamava via Foa, equando sono nate le leggi razziali, sopra latarga via Foa han messo una targa, 17 no-vembre 1938, allora il ragazzino [riferendosia se medesimo], a quell’epoca, ha preso unascala e, nonostante le proteste dei carabi-nieri - che non so poi perché, cosa avevanoda protestare, perché la gente poi non erad’accordo con i carabinieri, ma era d’accor-do con me - ha tolto le targhe e sotto è ricom-parsa via Foa, quando è caduto il fascismo,ho fatto anche quella io. Tra di noi l’abbia-mo festeggiato certamente... invece è inco-minciato il peggio”.

La medesima sensazione di gioia seguitada paura si può individuare anche nelle al-tre testimonianze, come quella di Pia Segre:“La gioia esplosiva, una grande felicità,un’illusione, il 25 luglio è caduto il duce,gioia in famiglia, ubriachezza, tutto finito, c’èBadoglio, tutto bene, un’allegria spavento-sa. [...] È durata non so se ventiquattro orel’illusione, si è subito visto che arrivavanopeggio di prima i tedeschi, che il re scappa-va, è durata, sì e no, penso poche ore l’illu-sione. [...] Molta preoccupazione, molta pre-occupazione [...] mio papà non comprava piùper il negozio, non sapeva cosa fare nel la-voro, si seguiva con molta angoscia, mai piùimmaginando che arrivavano i camion dei

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tedeschi a Vercelli [...] era un fuggi fuggi, chipoteva andava all’estero... Per esempio c’e-ra l’idea, siccome c’erano i bombardamenti,è iniziata la mentalità dello sfollamento, percui molte famiglie, anche queste signorineFoa, che la sorella era segretaria di Farinac-ci, sfollavano, sfollavano in Valsesia...”.

Anche Alberta Cingoli Sacerdote ricordala caduta del fascismo come un momento dipaura più che di gioia. In quel periodo si tro-vava a Vercelli con il marito, la figlia e il fi-glio nato da poco tempo e ricorda: “Eravamolì a Vercelli, io, mio marito, il bambino e labambina Franca, quando il 25 luglio, eran leundici, mio fratello Vittorio era uscito, vienea casa entusiasta, ci sveglia e dice: ‘Hannobuttato giù Mussolini’, chissà perché tuttierano felici e contenti, io dico: ‘Cosa? Io hopaura’, perché capivo che, sentivo che nonpoteva finir tutto tranquillamente così ebasta, io sentivo che sarebbe stata una cosaun po’... preoccupante, e difatti è propriostata una tragedia, perché io credo che seMussolini fosse rimasto, forse non succe-deva questa enorme cosa dei nazisti che...E difatti si tira avanti ancora due mesi, iotranquillamente andavo ai giardini coi bam-bini, mi trovavo... andavamo qualche voltaperfino a fare i bagni alla Sesia. Insomma eratutto tranquillo quando... succede poi l’ar-mistizio e... e allora arriva il famoso 8 settem-bre con l’armistizio, con gli Alleati e allora itedeschi non sono più i nostri alleati, ma daalleati diventano quasi padroni”.

Quel breve periodo di sollievo fu imme-diatamente seguito da angoscia e preoccu-pazione per un futuro pieno di incognite,soprattutto per gli ebrei; dalle interviste èemersa pienamente la loro consapevolezzadi quanto si stava preparando.

Con l’arrivo dei tedeschi in città, infatti,le cose peggiorarono. Ben presto l’ansia edil terrore divennero gli unici stati d’animodi ogni ebreo vercellese. I pensieri di ogni

giorno erano tutti concentrati sul da farsi:restare nella propria città, nelle proprie case,sperando che tutto si sarebbe risolto per ilmeglio e che le prime voci che giungevanoa proposito dei campi di concentramento edegli eccidi di ebrei in Europa fossero esage-razioni infondate; oppure fuggire, lasciaretutto: la città, la casa, il lavoro, i parenti, di-rigersi lontano senza una meta precisa, anda-re incontro all’incertezza. E se questa fossestata la soluzione errata e la più rischiosa,visto il pericolo di arresti lungo il tragitto?Se rimanere tranquilli nelle proprie case, di-mostrando di essere buoni cittadini italianifosse stata la scelta migliore? Tali dubbi at-tanagliavano la mente di tutti, tanto più cheera ben poco il tempo a disposizione per de-cidere il futuro della propria vita.

Un simile stato d’animo emerge chiara-mente dalle affermazioni di Pia Segre: “C’erala mentalità di incominciare a pensarci, mamia mamma e mio papà lo rifiutavano fino infondo, si illudevano, si sono illusi fino a chequesta mia zia ci ha imposto di scappare:adesso per noi è il senno di poi, ma allora,allora c’era gente che pensava: ‘Lascio tut-to il mio lavoro? Dove vado? Cosa faccio?’,era un salto nel buio per della gente sempli-ce, per chi non aveva possibilità, era anda-re nelle montagne, con quali soldi? Pagareaffitti? Non era semplice”.

Sentimenti non molto diversi si rilevanonella testimonianza scritta di Aldo Cingoli:“Nell’estate del 1943, con regolare denun-cia in Questura, avevo portato la mia fami-glia in val Cervo, e precisamente a Quitten-go [...]. Passati i mesi estivi avremmo dovu-to ritornare tutti a Vercelli. Ma gli eventi po-litici erano tutt’altro che rassicuranti. E poi-ché Quittengo era un paese tranquillo, dovetutti ci erano amici, avevamo rimandato ilritorno. Alcuni miei parenti, come mio co-gnato Giorgio Segre, avevano senz’altro ab-bandonato l’Italia, rifugiandosi in Svizzera,

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e mi scrivevano di seguirli. Le notizie circail progredire dell’occupazione tedesca era-no pessime. Raccontavano i fatti di Meina3,ma non sembravano cose credibili. Io nonintendevo assolutamente lasciare l’Italia, enon potevo credere a quelle assurde atroci-tà, che, purtroppo, invece erano vere.

Così passò l’estate, e venne il settembre.Per ragioni di lavoro, pur lasciando la fami-glia a Quittengo, io dovetti ritornare a Ver-celli”.

I tedeschi a Vercelli

Tale clima di incertezza mista a preoccu-pazione peggiorò con l’arrivo dei tedeschisul suolo vercellese. Essi giunsero tra l’ini-zio e la fine del settembre 1943 e la loro ve-nuta aggravò drammaticamente le condizio-ni del piccolo gruppo ebraico.

Con i tedeschi presenti in città il rischiodi arresti e deportazioni era sempre più rea-le; gli israeliti erano ormai braccati in tuttaItalia e lo furono anche a Vercelli, dove, conl’aiuto delle forze dell’ordine cittadine, i te-deschi poterono individuare tutti gli ebreiresidenti in città e riuscirono anche ad arre-starne e deportarne alcuni.

Sgomento, terrore e incertezza furono gliatteggiamenti prevalenti di fronte ai primitedeschi che entrarono in città. Tutti gli in-tervistati hanno chiaro nella memoria il ri-cordo di quel giorno, vissuto da ognuno inmodo diverso.

Dario Colombo era ancora un ragazzino equel giorno girava solo per la città mentretornava da una lezione scolastica; c’era ilmercato e nitida è la sua descrizione dellaconfusione provocata dalla gente che scap-pava più che dalle bancarelle sparse per lavia. L’incoscienza dovuta alla giovane età

lo portò a girare per le vie cittadine alla ri-cerca del perché di tanto disordine: “Erosolo, andai verso Porta Milano, che trovaicompletamente deserta, e mi avvicinai al-l’edificio del gas, stupito di non vedere pro-prio più anima viva; lì, dietro l’edificio delgas, venne fuori un soldato tedesco che mifece: ‘Psss, psss’, si vede che voleva averequalche notizia, io naturalmente, vedendouna divisa tedesca, ho detto: ‘Altro che in-glesi’, girai le spalle e me ne andai tranquil-lamente, cioè un po’ di corsa per dir la veri-tà, fino all’Olmia, dove mio padre era statoprecettato e dove lavoravano tutti tranquil-lamente, per dare la notizia che erano entra-ti i tedeschi”.

Accompagnato dal padre, che lasciò im-mediatamente il lavoro, si diresse verso ildistretto militare, dove passavano gli auto-carri tedeschi; il padre di Dario chiese ad uncarrista, fuori dalla torretta, dove fossero di-retti gli autocarri e questi rispose: “In Fran-cia”. “Mio padre rimase ancora un certo mo-mento lì, fino quando vide che tre o quattrodi questi carri armati si assestavano dovec’era allora il campo della fiera, antistantealla caserma... puntando i cannoni verso lacaserma, allora mio padre disse: ‘Andiamovia, perché questi in Francia ci andranno,ma in parte, gli altri si fermeranno qui’; allo-ra abbiamo compreso che la città era stataoccupata dai tedeschi, cioè stava per esse-re occupata dai tedeschi”.

Mario Pollarolo invece durante l’occupa-zione tedesca della città si trovava al lavo-ro con la mamma alla ditta Cantoni; furonoavvertiti dell’arrivo dei tedeschi da una te-lefonata anonima: “Ah!, non si sa, c’è statauna telefonata in ditta, di una voce femmi-nile che ha detto: ‘State attenti, perché sonoin cerca’, non so chi ha telefonato, no”.

3 A Meina si compì il primo massacro di ebrei nel nostro paese ad opera di reparti delleSs, che trucidarono cinquantaquattro innocenti senza alcuna distinzione di sesso e di età.

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Anche dal manoscritto di Aldo Cingolisappiamo che il giorno dell’arrivo dei tede-schi a Vercelli era un giorno di mercato; lostesso Aldo si trovava in piazza Zumaglinipiena di gente venuta dal contado: “Ad untratto corse la voce: ‘Arrivano i tedeschi!!’e la piazza in pochi minuti si svuotò. Tuttifuggirono ed io rimasi solo, nella piazza de-serta, in una Vercelli deserta ed impaurita, emi chiedevo il perché: arrivavano i tedeschi!Era da giorni che si aspettavano, ma nonavrebbero mica ammazzato tutti!”.

Da quel momento in poi il destino degliebrei vercellesi divenne per certi versi simi-le; se prima, con la legislazione razziale, leloro vite non avevano subito cambiamentitroppo radicali, adesso arresti e deportazio-ni erano una realtà vera a portata di mano.Si prospettavano a quel punto due sole so-luzioni possibili: fuggire o rimanere; entram-be erano molto rischiose. Alcuni ebrei nonsi trovavano più in città e avevano già fattola loro scelta di fuga. A coloro invece cheancora si trovavano in città l’arrivo dei te-deschi impose di prendere rapidamente unadecisione. Quelli che rimasero ebbero sortimolto diverse: vi fu chi venne arrestato e de-portato, chi invece continuò a vivere nelleproprie case; il perché è senza risposta, permolti fu solo il caso a decidere, per altri con-tarono le contraddizioni insite nella legisla-zione razziale.

Chi fuggì, partì per un destino incerto,quasi alla cieca, non sempre con una metaprecisa e sicura. La fuga e l’abbandono dellapropria città, significò l’abbandono di tutto;le storie divennero “storie di singole esi-stenze in fuga, esperienza di individuo o almassimo di piccolo gruppo, spesso picco-lissimo gruppo: la sensazione di solitudinenon è più solo idea che si fa strada ‘lenta-

mente, confusamente’, è certezza scanditadai nomi, ogni volta più numerosi, di quanti,arrestati, sono scomparsi”4.

Ma anche nella solitudine dei piccoli grup-pi famigliari le strategie di fuga furono simi-li tra loro; molti ebrei puntarono verso laSvizzera; altri verso le dimore di parenti nonebrei, cercando una nuova forma di esisten-za con tanto di false identità; altri ancorapuntarono verso le montagne, cercando ri-fugio nei piccoli villaggi o nelle baite isolate.

I racconti degli intervistati, riguardo allafuga e alla nuova sistemazione, si sviluppa-no diffusamente, sono carichi di ricordichiari o con poche incertezze. Consideran-do le vicende delle cinque famiglie studiatesi può notare come tutte fuggirono nei giorniappena successivi all’arrivo dei tedeschi, maverso mete diverse.

La famiglia di Dario Colombo partì conquella di Pia Segre - i due sono cugini - tra il10 e il 13 di settembre. Tra le due famiglie ipiù decisi furono i Colombo; i Segre infattierano assai più titubanti. Ecco quanto emer-ge dal racconto di Pia Segre: “Mio papà si èilluso fino all’ultimo, viveva nella cotoninacon mia mamma; in fondo noi dobbiamo lasalvezza alla mamma di Dario Colombo, per-ché molto più perspicace di noi, leggeva esentiva. Mia mamma non sarebbe scappa-ta..., diceva: ‘Ma no, non abbiamo fatto nien-te, non succede niente in Italia, non succe-de niente’, anche mio papà. La mamma di Da-rio è venuta da mia mamma in ginocchio eha detto: ‘Io non scappo se non venite an-che voi con me, tu non hai idea, io so già inGermania, cosa è successo’; siamo poi scap-pati il 13 settembre”.

Con loro fuggì anche l’altra sorella di El-vira ed Emma Giuditta Ancona, Tatiana, conla figlia piccola. Si diressero alla stazione,

4 ALBERTO LOVATTO, Ebrei in provincia di Vercelli durante la Rsi: la deportazione, in“l’impegno”, a. IX, n. 3, dicembre 1989, pp. 21-29.

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piena di tedeschi che, per fortuna, non sierano ancora organizzati per i controlli e gliarresti e, quindi, non li fermarono; la lorodestinazione fu Varallo. Qui affittarono in-sieme alcune stanze nella casa di un ferro-viere e, dopo poco tempo, le loro strade sidivisero. Tatiana Ancona andò con la figlio-letta nel Bergamasco, precisamente ad An-tegnate, in un cascinale, dove “è vissuta dipolenta, però si è salvata vivendo in un pae-sino del Bergamasco”.

Sempre a Varallo i Colombo e i Segre en-trarono in contatto con un prete, don Gian-ni Nascimbene, che li aiutò ad ottenere i do-cumenti falsi. I Colombo avevano compiutoun primo trasferimento a Dovesio, sopra Va-rallo, perché rimanere tutti uniti nella casadel ferroviere stava diventando pericoloso.Poi essi fuggirono in Svizzera, ma senza i Se-gre. Ricorda Pia: “Mio papà aveva paura, di-ceva: ‘Lei è appena stata operata [la moglie],soffre di cuore, io non ho il coraggio di farquesto passo, io non so...’. Aveva delle titu-banze, c’era il confabulare tra le due sorellee i due cognati, c’era un’armonia meraviglio-sa, loro hanno organizzato il viaggio in Sviz-zera”.

Il padre di Dario invece contattò alcunicontrabbandieri che, dietro lauti compensi,organizzarono la fuga in Svizzera. Ecco quan-to ricorda Dario Colombo: “Con una marciadi diciassette o diciotto chilometri che è av-venuta in, grosso modo, sei ore [...] abbiamopassato la frontiera, dopo aver fatto un var-co nella rete metallica, con l’arrivo dei tede-schi e sparatoria da parte dei contrabbandierie dei soldati alleati. [...] Siamo entrati tuttiattraverso questo buco, anche i contrabban-dieri, perché non hanno più osato tornareindietro, e ci siamo presentati [...] in localitàStabbio alla gendarmeria cantonale svizze-ra...”. Da quel momento iniziò il pellegrinag-gio in diversi campi di raccolta svizzeri, finoa quando Dario non venne separato dai ge-

nitori per essere trasferito in un collegio perragazzi e, dopo ancora, affidato ad una fa-miglia svizzera fino alla fine della guerra.

La famiglia Segre invece trovò rifugio esalvezza nel capoluogo piemontese; il pa-dre di Pia aveva, infatti, un cognato non e-breo, marito di sua sorella, il quale era diret-tore a Torino del Banco di Sicilia. Egli ven-ne contattato da don Gianni Nascimbene,che faticò non poco, vista la pericolosità deitempi, a far ammettere al direttore del Ban-co di essere parente dei Segre. Così, dopouna tappa a Santena e pericoli corsi duran-te un rastrellamento nella zona, i Segre sitrasferirono definitivamente a Torino finoalla fine della guerra.

Chi lì aiutò a sopravvivere sotto falsonome fu un cassiere, sempre del Banco diSicilia, il siciliano Giuseppe Greco, che vis-se con loro nella stessa casa: “E abbiamoiniziato a vivere in via Casteggio 15 a Torinocon questo siciliano, che ha adorato mio pa-pà e mia mamma, mia mamma gli aggiustavale calze, gli faceva da mangiare... Io facevole commissioni, ero l’unica che potevo usci-re e prendevo il tram, tutta contenta, in mez-zo ai tedeschi, non avevo paura e andavoin banca, sopra c’era mio zio, ma non dice-vo niente, io dicevo che ero la cugina deldottor Greco e mi davano delle cose schifo-se, lo ricorderò sempre, una conserva pres-sata per fare il condimento, del pane di risodurissimo, nero... La fine della guerra ci hasorpresi il 25 aprile a Torino...”.

Quanto a Mario Pollarolo, ai genitori e allazia materna, dopo la notizia dell’arrivo deitedeschi, essi si nascosero qualche giornoa Vercelli in casa di parenti, poi lasciaronola città trasferendosi in varie località dellaValsesia. Il padre, in quanto non ebreo, do-po pochi giorni, ritornò a Vercelli per recarsial lavoro e, stando al ricordo di Mario, nes-suno gli fece domande sulla scomparsa dallacittà della sua famiglia.

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La comunità ebraica di Vercelli dal 1943 al dopoguerra

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A questo punto la vicenda di Mario Pol-larolo assume un aspetto diverso da quelladegli altri intervistati: Mario venne infatticatturato e riportato a Vercelli al distrettomilitare; il padre ritornò in Valsesia a ripren-dere la moglie e la cognata, che rientraronoa Vercelli e continuarono a vivere tranquil-lamente in città fino alla fine della guerra, af-frontando senza danni anche un rastrella-mento; i tedeschi non seppero mai della loroappartenenza alla “razza” ebraica. Mario in-vece riuscì a scappare dal distretto militareaiutato da un ufficiale dell’esercito di cui nonavrebbe mai saputo il nome.

Egli così racconta: “Allora non sono anda-to a casa, sono scappato da un mio zio, per-ché a casa non mi fidavo andare, ho fattoavvisare mio padre, poi mio padre è venutoa prendermi e li è incominciata l’avventura;ho fatto delle cose che facevano tutti allo-ra.

[...] Sono andato a Torino, poi sono an-dato in valle Varaita e ho fatto tutta la guer-ra lì”. Mario diventò poi partigiano, con ilnome di battaglia di “Leopardo”.

La storia di Aldo Cingoli è narrata nel suomanoscritto dal quale si apprende come fos-se solo a Vercelli il giorno dell’arrivo dei te-deschi. La sua famiglia era in vacanza a Quit-tengo e con lui era tornata in città solo la ziadella moglie, Delia Segre Maroni; ma leggia-mo le sue parole: “Io, ingenuamente, mi sen-tivo tranquillo e con le carte in regola. Adogni modo tornai a casa, e decisi di partiresubito per Quittengo, per essere vicino allafamiglia. Dissi alla zia di venire via con me,e chiudere la casa, perché intanto a Vercellinon si poteva fare niente. La zia rifiutò: midisse: ‘Va tu a Quittengo; io resto qui a cu-stodirti la casa’. Alle mie insistenze perchévenisse via con me rispose: ‘Cosa vuoi chefacciano ad una vecchia sola! E poi so spie-garmi bene, anche in tedesco’. E questo suovoler restare a Vercelli le è costato la vita, e

terribili sofferenze. Ed io sono rimasto conil rimorso ed il rammarico di non essermi im-posto per portarla via; con il rimorso di nonaver capito neanch’io la gravità del momen-to, e le atrocità dei tedeschi”. In queste po-che parole sono racchiuse tutte le sensazio-ni, tutti gli stati d’animo degli ebrei di fron-te alla persecuzione antiebraica e alla cru-deltà tedesca.

Aldo tornò successivamente a Quittengo,ma anche quella località non era più sicura;ricevette infatti una telefonata da un amico:“...‘Non tornare a casa, perché non hai piùcasa. La tua casa è stata occupata dai tede-schi’, ‘E la zia che era in casa?’, ‘È stata ar-restata e portata alle carceri del Castello. An-che tu e la tua famiglia siete ricercati. Nonfatevi trovare!!’...”. Così anche per Aldo Cin-goli e la sua famiglia iniziò il calvario dellafuga in diverse località del Biellese: Biella,Candelo, Bioglio, Mucengo. In quel perio-do egli ebbe anche un incontro con i tede-schi ma, grazie ai documenti falsi, si salvò.L’ultima tappa del percorso di fuga di AldoCingoli e della sua famiglia fu la Svizzera; ilsoggiorno oltre confine durò dal 17 febbra-io 1944 alla fine della guerra.

Rimane infine la vicenda della signoraAlberta Cingoli Sacerdote che, quando ar-rivarono i tedeschi a Vercelli, si trovava incittà con il marito Alberto, i due figli, Francae Sergio, e la madre Bianca. Ecco, dal suoracconto, quale fu la sua prima decisione:“Quindi che cosa facciamo? Era molto... era-vamo lì con tutta ’sta famiglia, con i bambi-ni, mia mamma che era vedova, i miei duefratelli, uno aveva un figlio ed era sposato,l’altro aveva solo una fidanzata che non po-teva sposare, perché non ebrea. E allora erapericoloso..., mentre mio fratello, il secon-do, cerca di andare a Roma... Ecco mio fra-tello è andato lì, il secondo. Invece il primoera in villeggiatura già a Quittengo, nel Biel-lese, era lì e stavano quasi per tornare, per-

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ché era settembre, invece han pensato distarsene là e non tornare nelle loro case.

Allora noi, raccogliendo tutto quel chepensavamo poteva servire, perché non sisapeva quando si sarebbe ritornati, in fret-ta e furia, in due giorni andiamo a Quitten-go anche noi per decidere che cosa fare”.

Da Quittengo i Cingoli contattarono va-rie persone alla ricerca di un possibile rifu-gio; vennero così accolti da alcuni parentiad Acqui; questa non fu però la sistemazio-ne definitiva, ne seguirono delle altre. DaAcqui infatti si trasferirono poi a Buronzo,a Torino, a Bioglio, ecc.; tutto questo in fun-zione della grande partenza per la Svizzera,incoraggiati dal fratello di Alberta, Aldo Cin-goli. Da Bioglio in avanti le varie fasi delviaggio in direzione della Svizzera, con tuttii disagi e le sofferenze che esso comportò,sono state raccontate di getto da Alberta,ma, soprattutto, magistralmente descrittedal marito, Alberto Sacerdote, in un diarioche avrebbe sempre tenuto nascosto allasua famiglia e che la moglie avrebbe ritro-vato solo alla morte del marito.

Il diario inizia così: “Esodo, 1944. PerchéFranca e Sergio possano ricordare uno deipiù tragici momenti della vita di mamma epapà, vissuto insieme con loro e la nonnaBianca quando essi non avevano che 5 annie 9 mesi.

Perché imparino ad essere forti, calmi ebuoni.

Perché abbiano eterna riconoscenza perla nazione svizzera”.

Il diario racconta della fuga in Svizzera: “Il15 febbraio 1944 tutti noi siamo diventatiospiti della generosa nazione Svizzera”. Mala tormentosa vicenda della fuga non si in-terruppe con il passaggio oltre confine. Ivari membri della famiglia vennero trasferitiin diverse località e in diversi campi di in-ternamento per rifugiati; in particolare a Mu-don i Sacerdote vissero l’ultimo atto della

loro tragedia: in quel campo morì il figlio, ilpiccolo Sergio.

Il bambino infatti si era ammalato, ma lesue gravi condizioni non erano state valu-tate con serietà dai medici, che avevano mi-nimizzato la malattia: “Lui, il bambino, stavabene, incominciava a mettere i denti, pren-deva ancora solo il latte e farina lattea...,mancava il medico dei bambini e c’era un me-dico, che insomma non ha capito niente...diceva: ‘Ma no, che sta bene’, non mangia-va e diceva: ‘Sono i denti’, insomma tuttocosì, passa un giorno, passa l’altro, passal’altro ancora e poi il bambino non mangia-va...”.

Dopo quel fatto drammatico la famigliaSacerdote venne poi trasferita ancora unpaio di volte: nel campo di Finhaut, Valais edopo ancora a Weggis, dove rimase fino al13 luglio 1945.

La Comunità ebraica dopo il 1945

La fine della guerra colse i protagonistidelle storie narrate nelle località in cui sierano rifugiati. Il dolore e la sofferenza su-biti furono tali da determinare in loro unagrande voglia di riscattarsi, ritornando aVercelli il più presto possibile e riprendendole loro vite di sempre, bruscamente interrot-te dalle persecuzioni. Tuttavia tra il ritornoa Vercelli, che avvenne quasi per tutti nel-l’estate del 1945, e la sistemazione definiti-va in città trascorse un lasso di tempo, acausa dei cambiamenti causati dalla legisla-zione razziale e dalla guerra, soprattutto perquanto concerneva il lavoro, le proprietà ele case.

La casa costituì uno dei problemi princi-pali, in quanto gli ebrei italiani in generale evercellesi in particolare, fuggiti o arrestati,erano stati privati delle loro abitazioni. Lafamiglia di Dario Colombo, ad esempio, alrientro a Vercelli, nel luglio del 1945, dovet-

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te cercare una sistemazione temporaneapoiché la casa era momentaneamente occu-pata: “Prima siamo stati nella casa di Aron-ne Aristide Segre che ci ha ospitati, perchéla nostra casa era occupata dal dottor Sala-mano, che era stato sfrattato dai tedeschi ein attesa di poter rientrare nella sua casa, cheera stata a sua volta presa dagli inglesi, ab-biamo dovuto aspettare un mese o un mesee mezzo, e poi siamo rientrati nella nostra ca-sa”.

L’intera famiglia Segre tornò a Vercelli inmaggio, ma il padre di Pia aveva già prece-duto la moglie e la figlia in città per un so-pralluogo: “La storia è anche lì bella; a Ver-celli, intanto, il suo negozio era tutto depre-dato, c’era il magazzino, nella nostra casaviveva una famiglia, perché dove abitavanoloro i tedeschi avevano fatto il comando, percui tutti quelli che abitavano nelle loro caseli hanno messi nelle case degli ebrei. Miopapà è tornato a vedere come stavano le co-se, al più presto possibile ha portato anchenoi e non avendo casa siamo andati a dor-mire dalla donna di servizio che avevamo,Esperia Sarasso, che è ancora viva a Nova-ra, che ci ha aiutati, aveva una casetta in viaGiovenone a Vercelli [...]. C’eran tutti gliamericani a Vercelli [...], era occupata datutta questa gente e dagli inglesi che ave-vano occupato dove c’era il comando tede-sco; intanto la signora che abitava a casanostra diceva: ‘Io non posso tornare a casamia, per cui non posso ridarle la casa’; eranomarito, moglie e la figlia, una bella signorina,gente che conoscevamo, e mio papà sbuffa-va, andava dagli inglesi: ‘Io devo riavere lamia casa’, e dormivamo da questa donna diservizio”. Trascorso il tempo necessario arisolvere la delicata situazione, anche i Se-gre poterono ritornare in possesso della lo-ro casa.

Alberta Cingoli Sacerdote tornò a Vercel-li il 13 luglio 1945, con il marito, la figlia e la

madre: “Siamo stati ancora a Vercelli fino aquando si è sposato mio fratello; come ètornato, mio fratello Vittorio, ha voluto su-bito sposarsi, difatti il 29 luglio si è sposa-to, e allora siamo andati a Pinerolo”.

Mario Pollarolo, invece, non dovette af-frontare il problema della casa occupata daaltri, in quanto, come già indicato preceden-temente, nella sua casa avevano continua-to ad abitare, in piena guerra, il padre, la ma-dre e la zia.

Gli ebrei vercellesi, ristabilitisi in cittàdopo la guerra, ripresero le loro consueteabitudini: gli adulti il lavoro e i ragazzi lascuola. Nell’insieme il reinserimento nellasocietà vercellese fu buono, senza partico-lari disagi, né particolari manifestazioni diantisemitismo da parte di chi non aveva deltutto messo a tacere il proprio odio razziale.Solo Dario Colombo ha ricordato un episo-dio, una lite che si svolse così: “Ci fu uno,mi ricordo che ero con Tedeschi, ex ufficialedell’aviazione, Alberto Tedeschi, [...] erava-mo al caffè Marchesi e uno disse: ‘Poteva-no ammazzarli tutti questi ebrei’, finimmo inQuestura, perché l’abbiamo buttato dallescale e si è spaccato una gamba. Tedeschiavrà avuto ventisei, ventisette anni e io neavevo sedici, ma eravamo talmente furen-ti... non ci fecero niente, si riparò la gambada solo”.

Il padre di Dario riaprì l’ufficio in pocotempo: “Riapre l’ufficio; sì, subito, insom-ma reinserendosi, poi correvano tutti in quelmomento lì, tutti lo salutavano: ‘Caro dot-tore’ [...] La mamma, mia mamma è semprestata casalinga”.

Per Dario ricominciò la scuola, sostennegli esami insieme ad altri ragazzi ebrei perrecuperare gli anni perduti a causa dellaguerra e della fuga dovuta alle persecuzio-ni razziali; gli esami furono agevolati daquella che venne chiamata la “sessione par-tigiana”: “Venni naturalmente promosso,

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perché le risposte che noi davamo alle inter-rogazioni erano di questo tipo, arrivava untale e diceva: ‘Lei di cosa vuole parlarmi?’,‘Di ventidue mesi di montagna come parti-giano’, ‘Promosso’, ‘Lei di cosa mi parla?’,‘Di venti mesi di internamento in Svizzera’,‘Promosso’, cioè eravamo promossi tutti,poi le difficoltà sono venute dopo, perchéio non sapevo niente”. Si diplomò poi in ra-gioneria.

Anche per Mario Pollarolo il reinserimen-to avvenne in una relativa normalità: “Ma,il reinserimento... son tornato a lavoraretranquillamente, come niente fosse, semprelì, poi me ne sono andato all’estero. [...] I ge-nitori son rimasti qui”.

Il padre di Pia Segre, invece, era molto an-sioso di rientrare in possesso dei propri benie di riaprire il suo negozio di stoffe; questolo portò più volte a recarsi al comando in-glese, per reclamare i propri diritti: “Mio pa-pà andava lì e vedeva tutta la sua roba, ibanchi, i mobili, tutto e diceva: ‘Ma io que-sta roba devo prenderla’, e portava con séGabriele Gallico, che parlava inglese, io miricordo mio papà che diceva: ‘Ma diglielo a’sti inglesi che è roba mia, che io, adesso ba-sta, devo riaprirlo’.

[...] Intanto Vercelli si è risvegliata, torna-vano tutti e mio papà, finalmente, ha potu-to riaprire il negozio con niente, è andato achiedere ai suoi fornitori a Gallarate se glidavano della merce in deposito, perché nonaveva né soldi né niente, tutti gli han datoun po’ di stoffe”. Pia continuò gli studi e siiscrisse all’Istituto tecnico Cavour per ra-gionieri per giungere poi al diploma.

Per la signora Alberta Cingoli Sacerdoteil reinserimento nella società torinese, quan-do poi tutta la famiglia Sacerdote si trasferìdefinitivamente a Torino, avvenne senzagrossi problemi: “Ah!, sì, sì, il reinserimen-to a Torino è stato buonissimo, subito, sì,sì, poi io ero ancora che non conoscevo tan-

to l’ambiente ebraico che c’era, perché era-vamo stati pochi mesi in fondo prima di tut-to questo. [...] Avevo dei parenti che fre-quentavo...”.

Gli ebrei che tornarono furono nuova-mente considerati cittadini italiani e non piùsolo “ebrei” come aveva voluto la feroce le-gislazione razziale. In loro si manifestaronosentimenti di gioia misti a rabbia e commo-zione per aver riconquistato la piena parità.Tutto ciò traspare soprattutto dal raccontocommosso di Pia Segre: “[...] ma la cosa piùcommovente, questo devo dirlo, è stata chemio papà, aveva il negozio in piazza Massi-mo d’Azeglio... Andavamo a scuola al Ca-vour e venivo a casa con le mie compagnedi scuola [...] Mio papà chiudeva il suo ne-gozio e, molto contento, veniva all’angolodi via Gioberti e mi diceva: ‘Non sai che pia-cere mi fa vederti con le tue compagne discuola’, io ho voluto bene a mio papà, e di-ceva un’altra cosa: ‘Vado a votare volentieri,non per questi quattro cretini di politici checi sono adesso’, perché la prima volta che èandato mio papà ha detto: ‘Vado a votareperché ho di nuovo i diritti civili’, e alloradicevano la famosa frase: ‘Signor AristideSegre ha votato’, lui era ingenuo, era un uo-mo semplice e aveva apprezzato questa co-sa”.

Sempre dal racconto di Pia Segre si ap-prende inoltre che, nei mesi successivi allafine della guerra, il tempio israelitico vercel-lese venne riaperto dalla brigata americana:“C’era un gruppo di ebrei americani e unrabbino in divisa, con tutti questi soldatiebrei hanno ripulito il tempio, come un mi-racolo, il tempio era pieno di soldati ameri-cani, lo ricorderò sempre, e questo rabbinoha fatto una funzione molto commovente eaveva riaperto lui il tempio”.

I ragazzi che tornarono dopo la Liberazio-ne, gli stessi uomini e donne che oggi mihanno offerto la loro testimonianza, conti-

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nuarono poi a vivere a Vercelli e, crescendo,intrapresero cammini differenti: alcuni ri-masero in città, molti emigrarono; si sposa-rono, operando le loro scelte matrimonialinon necessariamente nell’ambiente ebraico;ebbero dei figli, i quali fecero a loro volta leloro scelte in campo religioso.

Mario Pollarolo sposò una cattolica e co-me lui Dario Colombo. Dal matrimonio di Da-rio nacquero due figlie, a proposito dellequali egli afferma: “Le mie figlie le ho porta-te in Israele, da ragazzine, avevano quindi-ci anni, sedici; non so se si sentono moltoebree, non abbiamo mai discusso questaquestione. Io ho fatto un patto con mia mo-glie, che lei non avrebbe inculcato nulla del-la sua religione e io avrei fatto altrettanto,poi loro potevano scegliere, far quel che vo-levano, non hanno scelto”.

Bisogna inoltre ricordare il costante impe-gno di Dario Colombo a favore del mondoebraico. Esponenete della piccola Comunitàvercellese, nel 1994 fu protagonista di unepisodio “coraggioso”, considerando lasua posizione e quello che fece: “Io accettai,due anni fa, che Alleanza nazionale depo-nesse una corona ai deportati, loro non par-larono e parlai io, dissi che questo era, sim-bolicamente per me, un modo per far sì chei bambini, che erano nelle carrozzelle, nonsi odiassero in futuro, che questa divisionedoveva, dopo cinquant’anni, cessare, chenon avevo dimenticato niente, che non ave-vo perdonato niente, ma che non volevoche si perpetuasse l’odio, questo era il miointendimento e così ho fatto. Loro non dis-sero una parola e credo di aver fatto una co-sa che dai miei correligionari è stata moltocriticata, da molti cittadini, anche antifasci-sti, è stata apprezzata come atto, non uso iltermine riconciliazione, ma di non perpetuarel’odio, questo è il mio intendimento. Io conquesto non ho sputato su quelli che sonomorti ad Auschwitz, ma non sputo neanche

sui caduti della Repubblica sociale. Ma conquesto io non sono mica passato dalla par-te dei fascisti, ho ritenuto di dovere fare unacosa, perché non si perpetui l’odio, prendoatto che Alleanza nazionale ha ripudiato leleggi razziali, condannandole, e allora?,qualcosa dovevo fare anch’io, l’ho fatto”.

E ancora Dario Colombo rivendica il fattodi essere sionista: “Sì, sono un sionista: houn attestato dell’esercito di Israele per laguerra dei sei giorni, io sono stato in Israe-le quando Saddam Hussein lanciava i mis-sili, ormai ero troppo vecchio per fare qual-che cosa, e poi Israele non si è mosso, soloper solidarietà, non è una gran cosa, è mol-to poco, ma io per quello che considero ve-ramente il mio paese, faccio queste cose. Èuna questione di sentimenti, uno è patrio-ta, un altro non lo è, ma più che una que-stione di patriottismo io faccio un altro ra-gionamento: un soldato di Israele che è ca-duto sul campo, è caduto non solo per il suopaese, ma anche per tutti gli ebrei della dia-spora. Io sono ebreo, italiano, vercellese erimango ebreo, italiano, vercellese, però amoIsraele”.

Diversa invece la storia di Pia Segre chesposò un ebreo di Cuneo e, con il matrimo-nio, si trasferì in quella città. Da quell’unio-ne nacquero poi due figli entrambi di religio-ne ebraica.

Anche Pia ed il marito tengono a coltiva-re e tramandare le tradizioni e la culturaebraica nel nuovo luogo di residenza, Cu-neo, non tanto in un rapporto privilegiatocon Israele: “Viaggio, sì, sono già andata [inIsraele], però mio marito è sempre rimastopiù cuneese, attaccato alla vita di Cuneo eben voluto... è amico con il vescovo, io cer-co di fare l’amicizia ebraico-cristiana, mi chia-mano e io rispondo; lui adesso ha le chiavidel tempio, si è occupato di ristrutturarlo.C’è stato un rifiorire di un ritorno di un grup-po, per cui mio marito si è dato da fare, si è

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impegnato con la religione, con offerte sue,con la comunità, ha rimesso un po’ in ordi-ne il tempio che era andato giù e lo apriamoa Yom Kippur, che è la festa più importante,religiosamente ebraica, il giorno del digiu-no, e lo apriamo, lui è contento di questofatto”.

La storia della Comunità ebraica vercelle-se e della sua rinascita in città, a guerra fini-ta, non fu, naturalmente, solo una storia disingoli individui e di singole esperienze, madi un gruppo intero, di chi riuscì a salvarsifuggendo agli arresti e alle deportazioni:purtroppo i dati relativi agli ebrei nel dopo-guerra sono troppo scarsi per trarne una ri-cerca dettagliata. Certo è che il gruppo ebrai-co vercellese, già di modeste dimensioniprima del conflitto, nel dopoguerra si ridus-se ulteriormente.

Il perché, dopo il 1945, rinasca a Vercelliuna comunità di dimensioni così limitate varicercato in diverse direzioni: va considera-to in primo luogo che le persecuzioni razzia-li crearono una vera e propria frattura nellevite degli ebrei, tra ciò che era stato prima eciò che sarebbe stato dopo.

Molti dovettero ricrearsi un’esistenza, inquanto la loro vita precedente era stata spaz-zata via; alcuni in particolare furono costret-ti a ricominciare in una città diversa da quelladi origine. Così bisogna constatare che moltiebrei non fecero più ritorno a Vercelli; alcu-ni invece vi tornarono per emigrare però po-co dopo.

Rispetto ai dati già esaminati preceden-

temente5, nei quali si evidenziava che la Co-munità ebraica comprendeva 183 indivi-dui, risulta che dopo il 1945 emigrarono 31individui, 14 maschi e 17 femmine: si trattadi una percentuale molto alta, segno eviden-te della decadenza della piccola Comunitàebraica di Vercelli. Nettamente inferiore fu ilnumero di coloro che, dopo il 1945, si tra-sferì in città; i dati indicano in tutto solo 7individui, 2 maschi e 5 femmine6.

Le informazioni, ottenute soprattutto al-l’anagrafe di Vercelli, offrono anche la pos-sibilità di delineare il quadro della situazio-ne matrimoniale degli ebrei ritornati a Ver-celli dopo la guerra. I casi sui quali si sonopotute svolgere le indagini sono certo mol-to pochi, a causa della lacunosità delle no-tizie; è inoltre impreciso il numero egli ebreiresidenti a Vercelli dopo il 1945.

Tuttavia, dall’elaborazione degli scarsidati a disposizione, emerge che la scelta delconiuge, rispetto agli anni precedenti laguerra, si orienta prevalentemente verso in-dividui estranei al mondo ebraico; sono so-prattutto i maschi ad orientarsi verso il mon-do cattolico, rivelando una crescente aper-tura verso l’esterno del mondo ebraico; daparte delle donne, invece, sembra esserciuna maggiore tendenza a rispettare la tradi-zione sposando un uomo della stessa reli-gione.

Tale scelta può anche ricondursi al fattoche ormai, nel dopoguerra, a causa della de-bole consistenza del gruppo ebraico vercel-lese, molti ebrei non si sentivano più vin-colati al loro “ambiente”, tanto da poter

5 Si vedano notizie relative agli spostamenti in CRISTINA MERLO, La comunità ebraica di

Vercelli nel 1943, in “l’impegno”, a. XXIII, n. 2, dicembre 2003, pp. 77-78.6 Si sono analizzati anche i luoghi scelti come meta degli spostamenti e si è notato come

le emigrazioni si dirigessero principalmente verso il Piemonte: 15 persone, 5 maschi e 10femmine; seguono poi altre regioni quali Lombardia, Toscana, Liguria, Veneto, Emilia. Ipochi ebrei che, invece, giunsero a Vercelli dopo il 1945 provenivano principalmente dalPiemonte, seguito dalla Lombardia e in un solo caso dall’estero.

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La comunità ebraica di Vercelli dal 1943 al dopoguerra

a. XXIV, n. s., n. 1, giugno 2004 89

operare scelte libere da qualsiasi costrizio-ne, o dovere, o senso di appartenenza7.

Nonostante il ritorno a Vercelli di alcuniebrei che avevano lasciato la città prima edurante le persecuzioni, la piccola Comuni-tà ebraica vercellese non tornò più ad esse-re la stessa: la vecchia generazione, con lesue personalità di spicco, a poco a poco si

stava spegnendo; tra coloro che rientraro-no nella città, molti ripartirono poco dopo,fino a quando il gruppo ebraico vercellesefinì per scomparire quasi del tutto. Oggi diquel mondo rimangono solo pochi rappre-sentanti, la maggior parte dei quali non vivepiù a Vercelli.

7 Su 14 matrimoni con persone di religione non ebraica, 12 sono stati contratti da uominie solo 2 da donne; dei 3 matrimoni celebrati tra persone entrambe di religione ebraica, 2sono donne e 1 uomo. Dei 17 matrimoni, 11 furono celebrati a Vercelli, 2 a Torino, 1 a Bre-scia, 1 a Milano, 1 a Saluggia e 1 in Svizzera.

Per quanto concerne l’età, 8 individui, di cui 5 uomini e 3 donne, si sposarono tra i 21 e30 anni; altri 7 individui, di cui 6 uomini e 1 donna, si sposarono in età compresa tra i 31 ei 40 anni; 2 uomini tra i 41 e i 60 anni.

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ALBERTO LOVATTO (a cura di)

Canzoni e Resistenza

Atti del convegno nazionale di studi

2001, pp. IV-319, con compact disc allegato, € 20,00

L’opera dà spazio, in maniera equilibrata e proficua, a un momento di studio e di

approfondimento a carattere specialistico, quale fu il convegno organizzato dal-

l’Istituto in collaborazione con il Consiglio regionale del Piemonte e con il contri-

buto dell’Amministrazione provinciale di Biella, della Città di Biella e della Fonda-

zione Cassa di Risparmio di Biella, e a un evento di maggiore divulgazione e di più

ampia partecipazione, quale fu il concerto “E sulla terra faremo libertà”, svoltosi in

occasione del convegno stesso.

Il volume (che fa seguito alla pubblicazione del volumetto e del cd contenente la

registrazione del concerto stesso) raccoglie i saggi della maggior parte degli stu-

diosi che a livello nazionale si sono occupati di canzoni partigiane e rappresenta

un’ulteriore occasione per ridare respiro alla riflessione, secondo le modalità e gli

schemi propri della divulgazione scientifica. L’aggiunta del compact disc con alcu-

ni documenti sonori esprime uno sforzo di rigorosa fedeltà nei confronti delle fonti

della ricerca.

Il volume contiene saggi di Cesare Bermani, Emilio Jona, Adriano Gasparrini, Getto

Viarengo, Antonietta Arrigoni, Marco Savini, Riccardo Schwamenthal, Amerigo Vi-

gliermo, Alberto Lovatto, Mimmo Boninelli, Mimmo Franzinelli, Franco Lucà, Fabri-

zio Tavernelli, Antonio Canovi, Giovanni Contini, Silvio Ortona, Francesco Biga,

Fausto Amodei, Cesare Bermani, Franco Castelli, Alberto Cesa, Francesco Caudul-

lo, Roberto Leydi, Franco Castelli, Alberto Lovatto; una bibliografia curata da Ce-

sare Bermani e Alberto Lovatto, e gli indici dei nomi di persona, di luogo e del cd

allegato.

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saggi

l’impegno 91

La questione della Provincia

Nello scorrere l’ampia e caotica documen-tazione disponibile sui Cln della Valsesia,balza immediatamente agli occhi una stra-nezza. Per un certo periodo di tempo, tuttele questioni riguardanti la costituzione, lacomposizione ed il funzionamento degli or-gani di autogoverno municipale vengono in-viati per la notifica o la ratifica a tre organi-smi diversi: al Cln provinciale di Vercelli, aquello di Novara ed a quello comunale di Va-rallo. I primi due sono Cln di livello superio-re, il secondo in teoria è dello stesso livellodi tutti gli altri Cln di base. Le domande checi si pongono sono allora due: a quale Clnprovinciale fanno riferimento i comuni val-sesiani? Qual è il ruolo di Varallo?

Abbiamo visto che, nel corso della guer-ra di liberazione, la Valsesia, appartenentedal 1927 alla Provincia di Vercelli, viene “pre-stata”, nel vero senso della parola, al Cln clan-destino di Novara, con l’esplicita richiestae l’esplicito impegno del suo ritorno a Ver-

BRUNO ZIGLIOLI

I Cln in Valsesia*

II parte

celli dopo la fine delle ostilità. Le cose an-dranno davvero così lisce? È evidente che sisono ingenerate delle aspettative, tanto daparte valsesiana che da parte novarese, ri-guardo a una solidificazione della situazio-ne di fatto, ad un ritorno al prefascismo.

D’altro canto, lo stesso Cln novarese sem-bra dare per scontata la permanenza defini-tiva della Valsesia nella sua orbita, inviandoordini, direttive e comunicazioni varie ai co-muni della zona.

Così, ad esempio, il 30 aprile il Cln novare-se emana disposizioni relative ai fermi di ci-vili ed ai deferimenti al tribunale di emergen-za anche ai Cln valligiani1; allo stesso mo-do, ogniqualvolta gli vengono sottopostedelle nomine da ratificare, il Cln novareseprocede come se ne avesse piena autorità:è quello che ad esempio avviene il 9 mag-gio con il Cln comunale di Borgosesia2.

Il Cln provinciale di Novara continua, pertutti i mesi di maggio e giugno, ad occupar-si della Valsesia anche nell’ambito dell’epu-razione3, della polizia4, della liquidazione dei

* Saggio tratto dalla tesi di laurea Costruire la democrazia. I Cln comunali nella Valsesia(aprile 1945-aprile 1946), Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Scienze Politiche, a.a. 2001-2002, relatore prof.ssa Marina Tesoro.

1 ISRSC BI-VC, Novara.2 ISRP, Cln provinciale di Novara, fasc. E19b.3 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A1a.4 Ibidem.

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danni di guerra5, della disciplina delle impo-ste6, dei problemi dell’alimentazione7, dellarequisizione di automezzi8, ecc.; tutte fun-zioni che svolge, nello stesso tempo, il Clnprovinciale di Vercelli.

Molti cittadini o aziende della Valsesia sirivolgono con naturalezza al Cln ed alle au-torità novaresi per inoltrare suppliche o ri-corsi; ad esempio, nel mese di maggio la dittaLoro Piana di Quarona chiede al prefetto edal Cln di Novara di essere esentata dal paga-mento di un contributo di lire 50.000 impo-stole dal Cln locale; il Cln novarese scrivequindi al comitato di Quarona, raccoman-dandogli di essere equo con questa ditta inconsiderazione delle elargizioni che essa a-veva volontariamente effettuato nel perio-do della guerra9.

Qual è dunque la Provincia di cui si fa par-te? L’equivoco è alimentato ad arte dagli or-ganismi politici valsesiani e novaresi, chesulla questione dell’appartenenza provin-ciale della Valsesia stanno in realtà giocan-do una delicata partita.

In effetti, i Cln comunali dei maggiori centridella valle hanno il preciso obiettivo di ri-portare definitivamente la Valsesia nell’orbi-ta della Provincia di Novara. Una lettera delCln comunale di Quarona al prefetto di No-vara dei primi giorni di maggio, recita: “Que-sto Clnai interpretando la concorde volontàdi tutto il popolo fa istanza affinché sia effet-tuato il passaggio di questo Comune dallaProvincia di Vercelli a quella di Novara”10.

Il 2 maggio è il Cln varallese a scrivere alprefetto di Novara: “Interpretando i desideriunanimi delle popolazioni di Varallo e dellaValsesia tutta, preghiamo la s. v. di interes-sarsi acciocché la Valsesia faccia parte, co-me per il passato prefascista, della Provin-cia di Novara. Crediamo inutile perché bennoti a tutti, anche alle autorità centrali, spe-cificare i motivi che rendono necessario edurgente questo provvedimento”11.

In questo modo sollecitate, negli infuo-cati giorni che seguono l’insurrezione, le au-torità novaresi mettono tutti di fronte ad unfatto compiuto ed emanano, il 3 maggio, undecreto di annessione della Valsesia alla loroProvincia, come riportato dalla stampa lo-cale: “Novara, 3 maggio 1945. La giunta digoverno, composta dal prefetto, dal questo-re, dal presidente dell’amministrazione pro-vinciale, dal sindaco, dal presidente delClnp e da tutti i membri del Cln di Novara,riunita in data 3 maggio alle ore 14.30, deli-bera di accettare la richiesta fatta dalla po-polazione unanime della Valsesia, che tantieroi e tanti martiri ha dato per la liberazionedella nostra Provincia, deliberando l’annes-sione della Valsesia, nei limiti che sarannodefiniti, alla Provincia di Novara.

Il prefetto di Novara, presa visione dellaplebiscitaria richiesta della Valsesia e delladeliberazione della giunta di governo, de-creta che da oggi la Valsesia fa parte dellaProvincia di Novara”12.

Il Cln vercellese non tarda a reagire a que-

5 ISRP, Cln provinciale di Novara, fasc. E19b. 6 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A1b. 7 Idem, fasc. F40c. 8 Ibidem. 9 ISRP, Cln provinciale di Novara, fasc. E19b.10 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A1a.11 Idem, fasc. A5a.12 La Valsesia è tornata a fare parte della Provincia di Novara, in “Corriere Valsesiano”,

a. L, n. 8, 14 maggio 1945.

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sta amputazione di una parte di territorio checonsidera legittimamente di sua competen-za; già il 7 maggio scrive infatti ai Cln di Va-rallo e Borgosesia: “Il Comitato di liberazio-ne nazionale di Vercelli vi invita a seguiresoltanto le direttive di questo Comitato, uni-co organo di governo per tutta la Provinciadi Vercelli. Qualsiasi disposizione impartitada enti di qualunque genere estranei allaProvincia di Vercelli non deve essere esegui-ta, poiché la regione della Valsesia dipendeunicamente dall’amministrazione della Pro-vincia di Vercelli. Nel contempo vi facciamopresente i provvedimenti presi in questi gior-ni e che interessano la Valsesia: 1) invio digeneri alimentari vari e di prima necessità;2) immediato riattivamento delle vie di comu-nicazione, ricostruzione ponti, ecc.; 3) di-stribuzione straordinaria di tabacchi; 4) riat-tivazione servizio postale”13.

Oltre a riaffermare la propria competenzae giurisdizione, insomma, il Cln vercelleseagita verso la Valsesia la carota di un inte-ressamento particolare. A dire il vero, a giu-dicare da una relazione del 16 maggio 1945di un ispettore del Cln provinciale di No-vara, il Cln vercellese, temendone il distac-co, verso la Valsesia agita anche il bastone;questa relazione è anche interessante percapire la complessità geografica e politicadella valle: “In Valsesia e in special modo aBorgosesia chiedono che venga chiarita laposizione di questa zona riguardo il trapas-so di Provincia. Pongono in primo piano laquestione alimentare, secondo loro sareb-be opportuno continuare sotto la giurisdi-zione di Vercelli in quanto che questa Pro-vincia dispone di una riserva alimentaresuperiore a quella di Novara. Però come giu-stamente fanno presente [...] Vercelli è ob-

bligata a fornire la Valsesia ma lo fa, appuntoper questa ragione di un prossimo distacco,col contagocce. Anche per ciò che riguar-da questioni sindacali devono dipendere daVercelli, da Novara o da Biella. La strutturaindustriale specie della zona di Borgosesia,è uguale a quella di Biella, dunque sarebbeopportuno intervenire che i contratti sinda-cali della Valsesia, se proprio non possonoessere decisi dalla Camera del lavoro di No-vara (è stata l’unica che finora si è interes-sata di quella zona dandone le direttive) sialasciata di competenza alla Camera del lavo-ro di Biella. La cosa rimane un po’ in antite-si alla richiesta di giurisdizione di Vercelli perciò che riguarda interesse alimentare, machiedono se si può arrivare ad una speciedi compromesso con tutte e tre le camere dellavoro”14.

La Valsesia, insomma, non ha nessunaintenzione di legarsi mani e piedi neppurecon Novara; la sua partita è su più tavoli:cerca di sfruttare la sua posizione di croce-via per ottenere le condizioni più favorevo-li a seconda del settore e vorrebbe dipende-re sul piano politico da Novara, dato il lega-me con Moscatelli e con le forze partigiane,sul piano alimentare da Vercelli, date le mag-giori risorse agricole, e su quello sindacaleda Biella, data la maggiore forza e organiz-zazione del movimento operaio biellese.

È una scommessa che presenta delle op-portunità ma anche dei rischi, che può por-tare vantaggi ma che allo stesso tempo puòessere foriera di confusione e di tensioni;fatto sta che, per il momento, la giunta di go-verno novarese recede dai suoi propositi, elo comunica ai giornali: “Si porta a cono-scenza degli enti interessati e della popo-lazione che l’annessione della Valsesia alla

13 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4c.14 ISRP, Cln provinciale di Novara, fasc. E19c.

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Provincia di Novara, annessione di cui an-che la stampa ha dato notizia, è tuttora allostato di progetto, che sarà ad ogni effettoesecutivo solo quando il governo centrale,forte del plebiscito di richieste, che stannoprovenendo dai comuni della Valsesia, loavranno tradotto in un provvedimento for-male, per quel principio democratico che locaratterizza. Intanto ogni iniziativa localecontrastante con l’attuale distinzione dicompetenza territoriale fra gli organi provin-ciali di Novara e di Vercelli deve essere evi-tata”15.

La distinzione di competenza tra le dueprovince, in realtà, continua ad essere tut-t’altro che chiara; anche se formalmente siè dovuta fare una marcia indietro doverosaquanto ipocrita (si veda il citato decreto diannessione: non si tratta certo della formu-lazione di un’ipotesi progettuale), le pres-sioni e le ambiguità di fatto non cessano.

Un dattiloscritto anonimo, intitolato “Os-servazioni sul funzionamento del Cln di Va-rallo” e databile attorno alla seconda metàdi maggio del 1945, disegna un quadro im-pietoso. Al punto 1 scrive: “Mancano di-rettive precise ed istruzioni dettagliate, nonsolo, ma anche regna confusione dal fattoche le sporadiche norme vengono date, espesso contrastanti, sia da Vercelli che daNovara. A tali effetti, da quale Provincia sidipende?”; al punto 4 leggiamo: “La polizia,nonostante l’ordine che sia affidata ai cara-binieri, è soggetta a eccessive interferenzeda parte del Comando di presidio, che giu-dica, multa, vuole coartare il giudizio dellaCommissione di epurazione. Ha anche ese-guito una fucilazione senza garanzia di giu-dizio e libera e trattiene prigionieri di sua

iniziativa anche contro il parere della poli-zia”16.

Il Comando del presidio, essendo una for-za partigiana, dipende dal Comando zonamilitare Valsesia, con sede a Novara, cioè daMoscatelli, e non potrebbe certo effettuarefunzioni di polizia che sono attribuite, tra-mite la stazione dei carabinieri, al Comandogruppo carabinieri ed alla Questura di Ver-celli; le attività del presidio sono perciò uncuneo dei “novaresi” sugli affari di poliziadella Valsesia, sulle procedure di epurazio-ne, sul controllo della popolazione.

L’invio a Varallo di quindici agenti di po-lizia da parte della Questura di Novara, inconcorrenza con la stazione dei carabinieri,aumenta la confusione e la tensione al pun-to da costringere il Cln di Varallo a prendereuna posizione più netta, con una comunica-zione riservata del 19 maggio indirizzata alCln di Vercelli, ai Cln comunali valsesiani, alComando di polizia di Varallo ed al Comandodi presidio di Varallo: “Questo Cln venuto aconoscenza dei deprecabili fatti successi alComando di presidio, esprime la sua disap-provazione e li deplora. Codesto Comandonon avendo tenuto conto delle precise di-sposizioni impartite si dovrà ritenere piena-mente responsabile dei fatti avvenuti men-tre questo Cln declina ogni responsabilitàin merito. Si avverte che il Cln è l’organo rap-presentativo del governo e che ogni inizia-tiva deve essere a lui sottoposta e da lui or-dinata. Si diffida che chiunque non si atten-ga a quanto sopra sarà denunziato alle com-petenti autorità per le eventuali sanzioni. IlCln avverte che, allo stato delle cose, la Val-sesia continua per ora a far parte di fatto edi diritto della Provincia di Vercelli in attesadi superiori disposizioni. Ne consegue: 1)

15 La Valsesia con Vercelli, in “Gazzetta della Valsesia”, a. XIX, n. 12, 19 maggio 1945.16 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A3c.

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che per disposizioni avute dalla Prefetturadi Vercelli, il comandante dei servizi di poli-zia è l’attuale comandante dei carabinieri; 2)che gli ordini provenienti dalle autorità diNovara o loro emissari, qualunque essi sia-no, non hanno validità per incompetenza diterritorio; 3) debbono perciò essere inviatia Novara i quindici uomini della polizia quipervenuti; 4) per disposizione della Pre-fettura di Vercelli deve essere d’urgenza in-viato un elenco nominativo di tutte le per-sone arrestate, trattenute, o in campo di con-centramento, oggi presenti: questo elencodeve essere mantenuto continuamente ag-giornato; 5) la polizia per i criminali e la com-missione di epurazione devono, con la mas-sima sollecitudine, fare le relative istruttoriedei detenuti, e inviarle unitamente agli impu-tati alle autorità di Vercelli per essere giudi-cati dai soli organi competenti alla emissio-ne del giudizio”17.

Tre giorni dopo, il 21 maggio, il presiden-te del Cln di Varallo Zaquini solleva la que-stione in una lettera personale a Moscatelli:“Caro Cino, ritengo opportuno fornire qual-che informazione circa la situazione attualedi questa zona. Polizia: c’è un po’ di confu-sione creata dalla particolare situazione dellaValsesia nei confronti delle due province.Mentre infatti Ballarani18 ha rapporti colComando carabinieri di Vercelli, si è parlatodi unificazione della polizia, da Novara ci èpervenuta una squadra di quindici uominiinviati dalla Questura di costì. A Varallo at-tualmente ci sono pertanto: carabinieri alledipendenze di Ballarani, polizia politica diMarcodini dipendenti dalla Questura di No-vara, guardie di finanza alle dipendenze diun brigadiere, inviate da Vercelli e che fino

all’ultimo giorno sono state alle dipenden-ze dei comandi repubblicani, ed alla repub-blica hanno prestato giuramento. Cln: an-che per questo si ripete la situazione dellapolizia. Ordini e ispezioni da Novara, istru-zioni e commissioni da Vercelli. Osservo (traparentesi) che i signori di Vercelli sono com-parsi quando l’organizzazione partigianaaveva già costituito il Cln in periodo di com-battimento e di collaborazioni coi partigiani,e che ora pretenderebbero impartire ordinie direttive. D’altra parte si osserva che alme-no finora l’approvvigionamento di alimen-tari è più facile ed abbondante facendo capoa Vercelli che non a Novara”19.

Moscatelli si pronuncia il 22 maggio conuna comunicazione riservata del Comandozona militare Valsesia diretta al Cln di Varal-lo, ai Cln della Valsesia, al Cln di Vercelli edal Comando presidio di Varallo: “A mezzo delComando presidio di Varallo, abbiamo pre-sa visione del vostro foglio del 19/5/45. Nonapproviamo il contenuto della stessa, inquanto la Valsesia, sia per ragioni geografi-che che per spontanea elezione della popo-lazione deve necessariamente dipenderedalla Provincia di Novara. Concordiamo sulfatto che il comandante dei carabinieri siacomandante dei servizi di polizia. Per quantosi riferisce ai quindici agenti di polizia inviatia Varallo è ovvio che debbano restare inquanto il servizio di carabinieri è insufficien-te non solo a garantire l’ordine, ma anche acustodire i prigionieri civili e militari. Sonostate date disposizioni affinché il nucleo diagenti prenda immediatamente contatto conil Comando dei carabinieri. Il Comando pre-sidio partigiano di Varallo è stato sciolto”20.

È una lettera che conferma il ruolo di Mo-

17 Idem, fasc. A1a.18 Ballarani è il maresciallo comandante la stazione dei carabinieri di Varallo.19 ISRSC BI-VC, Documenti vari dal 1 gennaio 1945 al 15 dicembre 1945.20 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4c.

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scatelli quale sponda per la pretesa valse-siana di dipendere da Novara, e svela an-che, più sottilmente, che gli ambienti mag-giormente interessati a questo siano quellipartigiani. Il passaggio della Valsesia conNovara consentirebbe infatti loro di mante-nere un rapporto, una copertura, una dire-zione da parte del loro glorioso comandante.

Il 23 maggio 1945 il Cln di Varallo riassu-me lo stato delle cose, come risulta dal ver-bale della sua seduta: “In relazione poi al-l’appartenenza della Valsesia alla Provinciadi Novara o di Vercelli, il Cln pur conferman-do che il desiderio della maggioranza dellapopolazione è quello di ritornare a far partedella circoscrizione di Novara, prende attoche, come appare dalle smentite pubblicatedalla stampa novarese, il decreto del prefettodi Novara relativo all’annessione della Val-sesia, va considerato sospeso, e che, agli ef-fetti alimentari ed amministrativi, la zona Val-sesia dipende tuttora da Vercelli. Pure dallaQuestura di Vercelli dipende il locale Coman-do dei carabinieri. Invece dal Comando zonaValsesia, con sede in Novara, dipendono fi-nora: a) il Comando presidio militare locale;b) le eventuali formazioni di appartenenti alCvl presenti in zona; c) la polizia partigiana(politica). In merito al presidio locale il Clnincarica la segreteria di esperire precise no-tizie in merito al suo scioglimento, per segui-re i provvedimenti consequenziali. Il Cln e-sprime il desiderio che avvenga una unifi-cazione delle polizie tutte, compresa la Fi-nanza e la Guardia forestale, e si riserva dicomunicare tale desiderio a chi di dovere”21.

Che la volontà di rinserrare il legame conNovara provenga soprattutto dagli ambientipartigiani e comunisti lo si deduce anche dalriflesso che la disputa ha sulla vita politica

del Pci e sulla sua articolazione territoriale.In questo senso è interessante una lettera,priva di firma ma attribuibile a membri comu-nisti del Cln provinciale vercellese, scrittaper l’appunto da Vercelli il 26 maggio 1945ed indirizzata alla segreteria del Pci di Ver-celli e, per conoscenza, “al compagno Grassidel Pci di Torino”: “La situazione che si vacreando in questa Provincia è una delle piùcaotiche. Il Biellese non solo non collaborae non segue le direttive di questo Cln, mainvade anche l’ex circondario di Vercelli,spingendo i propri ispettori fino a Buronzoe pretendendo che i paesi da essi toccati nonseguano le direttive date da questo Cln pro-vinciale.

La situazione, in Valsesia poi è ancorapeggiore e malgrado la revoca da parte delprefetto di Novara del decreto di annessionedi quella regione, Moscatelli impedisce anoi ogni contatto politico e di Cln con quellavallata che noi però continuiamo a rifornireregolarmente di alimenti. Unica ricchezza diquella vallata è il legname e noi del Cln pro-vinciale fummo a Varallo ad una riunione dinegozianti per fissare un prezzo equo di det-ta materia per provvedere in tempo al fab-bisogno invernale delle città di pianura.

È intervenuto un nostro compagno delCln locale il quale ha sconsigliato i nego-zianti a rifornire Vercelli invitandoli a rice-vere ordini solo da Moscatelli. Tutte le vol-te che abbiamo invitato a Varallo i Cln di ba-se valsesiani ad una riunione per impartiredirettive abbiamo trovato il Cln di Varallochiuso a chiave ed i membri assenti. Man-dati a chiamare ed interrogati essi, dopo re-ticenze più o meno lunghe, ci fecero capireche Moscatelli vuole così”22.

Facciamo un po’ d’ordine, e torniamo alle

21 Idem, fasc. A6b.22 ISRSC BI-VC, Documenti vari dal 1 gennaio 1945 al 15 dicembre 1945.

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domande poste all’inizio del paragrafo. Qualisono les enjeux di tutta questa disputa?Quali gli scopi?

Certo, il ritorno all’ordine prefascista, alperiodo precedente la riforma del 1927, at-traverso il ripristino di equilibri territoriali,economici, culturali sentiti come propri, co-me più naturali dalla popolazione, è una pri-ma ragione da non sottovalutare. D’altraparte, lo vedremo più avanti, è la stessa chespinge alcune amministrazioni comunali aproporre il ripristino delle preesistenti mu-nicipalità accorpate ai centri maggiori, ed oraridotte al ruolo di frazioni.

Abbiamo detto all’inizio di come la Valse-sia sia stata accorpata a Vercelli, staccando-la da Novara, “contro natura”. Ma vi sonoprobabilmente altre due ragioni più impor-tanti ed immediate, alle quali abbiamo giàavuto modo di accennare.

La prima riguarda il controllo del territo-rio valsesiano da parte delle ex formazionicombattenti partigiane e comuniste. Colle-garsi con Novara significa collegarsi conMoscatelli, tanto più se si considera la po-sizione privilegiata che la dimensione pro-vinciale assume tanto nella struttura cielle-nistica quanto nell’amministrazione alleata;significa, agli occhi dei partigiani, garantireil monopolio politico dei garibaldini, perpe-tuare il dettato ed i valori della lotta parti-giana, promuoverne gli uomini, utilizzarlacome strumento di penetrazione politica inuna zona di radicate tradizioni moderate. Daquesto punto di vista è eloquente la citatalettera al Pci di Vercelli: a Varallo, e più in ge-nerale in Valsesia, non si muove foglia sen-za l’assenso di Moscatelli, i Cln non colla-borano in assenza di sue indicazioni, ed in-vitano la popolazione a fare altrettanto. Intal senso, la disputa relativa alla circoscrizio-ne provinciale appare anche come il pretestoper non riconoscere, nei fatti, le autorità ver-cellesi, di qualunque natura esse siano, con-

siderate completamente estranee non soloalla lotta di liberazione ed al partigianato inValsesia, ma anche alla vita ed alla societàlocali; vengono insomma viste come ele-menti perturbatori di un equilibrio politicoche fa perno sulla lotta partigiana e che, alcentro, ha la figura ed il carisma di Mosca-telli.

Una seconda ragione, anch’essa già ab-bozzata, sta nella fondamentale percezionedi alterità della Valsesia rispetto ai milieu

circostanti. Proprio in quanto crocevia traNovarese, Vercellese, Biellese, tra Piemon-te vero e proprio ed una “piemontesità” qua-si, per così dire, “lombarda”, la Valsesia siautorappresenta come un caso a sé, comeun mondo a parte, e come tale con un senti-mento del diritto all’autogoverno confusoma radicato.

La partecipazione in prima fila alla lottapartigiana fornisce, agli occhi dei Cln, l’oc-casione e la legittimità per pretendere unaqualche forma di autonomia rispetto a tuttele possibili opzioni circostanti, tanto da No-vara quanto da Vercelli. Ecco che allora larivendicazione dell’appartenenza alla Pro-vincia di Novara diventa uno strumento dipressione, allo scopo di ottenere una sferadi autonomia locale che riconosca l’alteritàdella vallata; una tale richiesta autonomisti-ca emerge in modo nettissimo dal dibattitoche sulla stampa locale si svolge per tuttala durata delle giunte ciellenistiche, prospet-tando anche ipotesi decisamente spropor-zionate.

Scrive ad esempio il “Corriere Valsesiano”del 25 maggio 1945: “Secondo quanto si leg-ge e si sente, sarebbe in progetto un pro-fondo mutamento nello Stato, con la attua-zione di un grande decentramento e la co-stituzione di autonomie regionali [...] Pareche nella creazione delle autonomie locali sidovrebbe seguire il criterio delle regioni [...]Le regioni sono una creazione piuttosto ar-

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tificiosa, che non trova grande confermanelle condizioni locali obiettive. D’altra par-te, quanto diverse le condizioni delle varieparti del cosiddetto Piemonte! Di fronte acittà popolatissime vi sono comuni comeClaviere e Carcoforo con poco più di centoabitanti; grasse pianure come quelle dellabassa e i magri pascoli della montagna; cen-tri industriali e paesi agricoli e di emigrazio-ne. È ragionevole supporre che assai diffici-le sarà conciliare gli interessi degli uni conquelli degli altri; e altrettanto facile pensareche le zone povere saranno come le Cene-rentole della regione [...] Dobbiamo quindidesiderare che le ripartizioni regionali ven-gano fatte secondo altri criteri e più obietti-vi, cioè secondo considerazioni di omoge-neità nella loro costituzione [...] Abbiamoappreso che la Valle d’Aosta ha già previstala costituzione di una organizzazione regio-nale, limitata alla valle [...] e abbiamo pensa-to che il problema si presenti anche per noiattuale e concreto. Infatti le condizioni geo-grafiche ed etniche della nostra e di quellaregione hanno molti punti di affinità, e le dueregioni hanno comuni le tradizioni di una ul-trasecolare e larga autonomia amministrati-va. La Valle d’Aosta e la nostra valle, poi,non possono dirsi essere complementari dialtre regioni; come neppure può sostenersiche la nostra valle abbia particolari ragioni,sia economiche che sentimentali, di attac-camento con altre regioni o città. Perchédunque non si potrebbe pensare attuabileanche per la nostra valle quello che si fa inValle d’Aosta? [...] Non pochi né lievi sareb-bero i vantaggi di poter sbrigare in loco tuttele pratiche amministrative e di vederle tratta-

te da gente del luogo, largamente sensibileai bisogni, e non da funzionari, il più dellevolte estranei a noi, sovente ostili, di radocompiacenti e compresi delle nostre condi-zioni”23.

Qualche numero dopo, lo stesso giornaleinsiste sullo stesso tema: “Ci sembra [...] op-portuno considerare la possibilità di chie-dere pure per la nostra valle lo stesso tratta-mento che viene fatto alla molto affine Valled’Aosta. Dopo un lungo periodo di asser-vimento a un potere centrale o provincia-le, dai quali ben poco ottenemmo, mentremolto abbiamo dato e molto più ci vennechiesto, la possibilità di muoverci e di prov-vedere noi ai nostri bisogni senza interven-to di estranei, spesso incompetenti, il piùdelle volte male informati, ci parrebbe un ve-ro risorgere alla vita”24.

Dietro la pretesa fuori misura di una solu-zione regionalistica per la Valsesia (con tut-te le forzature che ne conseguono nel para-gone con la Valle d’Aosta) si nasconde in-somma l’eterno adagio delle genti di mon-tagna, secondo il quale “[...] noi, abituati dasecoli nella nostra povertà a risolvere da noii nostri fastidi, male ci adattiamo ad essereincanalati, imbottigliati in correnti che nonson nostre. Vogliamo vedere noi, discuterenoi i nostri problemi”25.

Si è detto più sopra che, oltre ad inviarelettere, richieste di ratifica, notificazioni va-rie ai due Cln provinciali, i Cln valsesiani neinviavano una copia anche al Cln di Varallo.In effetti Varallo si pone, sin dai primi gior-ni, come una sorta di “Cln provinciale” difatto: vaglia le altrui decisioni, le ratifica

23 L’autonomia e noi valsesiani, in “Corriere Valsesiano”, a. L, n. 10, 25 maggio 1945.24 L’autonomia della Valle d’Aosta e i suoi riflessi in Valsesia, in “Corriere Valsesiano”,

a. L, n. 14, 16 giugno 1945.25 E per noi montanini?, in “Gazzetta della Valsesia”, a. XIX, n. 13, 26 maggio 1945.

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oppure le cassa, indaga e richiede informa-zioni ai fini dell’epurazione, dirige le opera-zioni di approvvigionamento e di ammasso,fornisce indicazioni politiche, emana ordi-ni, direttive e circolari a tutti gli altri Cln co-munali della valle, e questo senza avere, didiritto, nessuna posizione di preminenza ri-conosciuta26.

I Cln minori accettano questo rapportocon naturalezza, non protestano e non vi sisottraggono, riconoscendo implicitamentel’autorità del Cln di Varallo come loro guida;è significativo però che nella documentazio-ne relativa ai piccoli Cln non vi sia tracciadella discussione relativa alla Provincia. Inrealtà la manovra è tesa ad instaurare, di fat-to o di diritto, una sorta di piccolo Cln pro-vinciale facente capo a Varallo, da sempre“capoluogo” della valle; un capoluogo, a di-re il vero, avvertito nell’alta valle come piùnaturale, ma non per questo del tutto affine(dal punto di vista sociale, economico, cul-turale).

Chi acquisterebbe davvero la preminen-za sono i Cln dei comuni maggiori, quello diVarallo in primis e poi gli altri (Quarona,Borgosesia, Serravalle Sesia), in grado, pertradizione industriale, organizzazione poli-tica ed importanza economica, di confrontar-si con esso su un piano di parità. Per i Clndei comuni minori, invece, si tratta solo di

scegliere a quale “capoluogo” essere sog-getti, e naturalmente la scelta cade sul piùprossimo e tradizionale.

La manovra riesce. A partire da fine mag-gio-inizio giugno del 1945 il Cln di Varalloottiene dal Cln provinciale di Vercelli lo sta-

tus di Cln di zona, pur continuando, nellostesso tempo, a svolgere le funzioni di Clncomunale27. Ottiene anche la possibilità ditrasformare la sua commissione comunale diepurazione in “Commissione provinciale diepurazione - sezione per la Valsesia”. In que-sto modo viene formalizzata tanto l’autono-mia decisionale ed operativa da Vercelli e daNovara quanto la preminenza del Cln varal-lese sugli altri Cln comunali della Valsesia;d’ora in poi, gli ordini che emaneranno daquesto avranno un valore effettivo, in quan-to provenienti da un Cln di livello superio-re. A queste condizioni, si può anche accet-tare il permanere della valle sotto la giuri-sdizione vercellese.

La discussione relativa alla collocazioneprovinciale della valle parrebbe chiudersicon l’intervento del segretario generale del-la giunta consultiva regionale del Cln regio-nale del Piemonte, il 20 giugno, che scriveal Cln provinciale di Novara: “La giunta re-gionale consultiva di governo richiama l’at-tenzione del Cln di Novara sull’inconve-niente lamentato da diverse parti e concer-

26 Ad esempio, vedi la documentazione in ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli,fascc. A3c; A4a-b-c.

27 Non è possibile fornire una datazione più precisa di questa trasformazione, non essendostato ritrovato il documento di investitura; la fascia temporale indicata sembra però esseredel tutto accettabile, ed è stata dedotta dalla modificazione delle diciture e delle intestazioninelle lettere inviate al e dal Cln varallese, da “Cln comunale di Varallo”, a “Cln di zona Val-sesia”. L’assenza di una annotazione puntuale in tal senso dagli stessi verbali del Cln va-rallese, che si limitano anch’essi a modificare semplicemente la dicitura, ci dà peraltro lamisura della naturalezza con cui il cambiamento di status viene accolto; la stessa cosa puòdirsi a riguardo della stampa locale: il cambio di dicitura viene registrato nel periodo cheintercorre tra la pubblicazione del “Corriere Valsesiano” del 25 maggio e quella del numerosuccessivo, il 2 giugno 1945.

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nente lo sconfinamento territoriale delle au-torità novaresi nei confronti della Valsesia.Prega il Cln provinciale di Novara di volerintervenire presso le autorità dallo stessodipendenti affinché vogliano mantenersi neilimiti delle loro funzioni senza esorbitarneed evitando così di creare interferenze ed in-convenienti deprecabili”28.

Qualche sacca di ambiguità continua apermanere. Il 14 luglio, al convegno di tuttii Cln comunali della Provincia di Novara,partecipano anche i delegati di Cln di Borgo-sesia e Quarona: quest’ultimo intervieneanche nel dibattito29; al di là di questo episo-dio, si può dire che, con la costituzione delCln di Varallo come Cln zonale, e poi con ilprogressivo indebolimento della prospetti-va ciellenistica, la questione perde la suaimportanza. L’ultima eco che se ne ha è dovu-ta ad una lettera inviata a “Valsesia Libera -Corriere Valsesiano” da un lettore che si fir-ma “Uno scoffone”30, e pubblicata il 17 no-vembre 1945: “È bene che si sappia che tut-ti i valsesiani, fin dal primo giorno in cui laloro terra venne da colui che aveva ‘sempreragione’ avulsa dalla vicina Novara, hannofermamente desiderato, sperato e creduto diritornarvi un giorno [...] Se da parte di qual-cuno si nutrissero dubbi al riguardo, baste-rebbe indire una votazione fra tutti i valse-siani; il risultato - si può prevederlo fin d’orasenza tema di errare - si rivelerebbe sempli-cemente schiacciante”31.

Prosegue, invece, il dibattito sulla posi-zione autonoma della valle e sulle succes-sive rivendicazioni da sostenere; scrive Ma-

rio Penotti su “Valsesia Libera - Corriere Val-sesiano” il 14 dicembre 1945: “Parliamocichiaro, senza paura e senza maschera [...]Noi vogliamo l’autonomia della Valsesia. Loreclama un diritto storico, lo reclama la con-figurazione geografica, lo reclama il bene diun popolo. E quando questo popolo saràconsenziente della vitalità di un tale pro-gramma, vana sarà ogni promessa adescatri-ce della pianura, vano sarà ogni sventoliodi chimerici miraggi.

Invano ci faranno obiezione che la nostravallata non ha le risorse della Valle d’Aosta:pessimismo troppo interessato. Abbiamofiorenti industrie, abbiamo ridenti colli, fo-reste e selve sterminate, pascoli promettenti.Niente paura quando questa autonomia rac-chiude lanifici, manifatture, cartiere, carbo-ne bianco, industrie tessili, un turismo anco-ra vergine e da sfruttare. Noi chiediamo sol-tanto la collaborazione degli uomini di buo-na volontà, l’adesione di tutti i partiti po-litici, l’entusiasmo dei partigiani, lo spiritoeroico dei reduci, la buona parola del clero,la forza dei comuni, l’aiuto materiale dei com-mercianti e degli industriali. E allora la gran-de ora potrà dirsi vicina”32.

Retorica a parte, in questo periodo le vel-leità regionalistiche stanno lasciando il po-sto ad una più concreta richiesta di maggio-re autonomia per i comuni rurali; in questosenso si dirige l’esposto che la neonata U-nione valsesiana agricoltori indirizza al mi-nistro degli Interni il 16 dicembre 1945, in cuisi chiede il “ritorno di tutti i comuni ruraliall’autonomia e ciò per disposizione di leg-ge o in seguito a domanda di tutti i comuni

28 ISRP, Cln provinciale di Novara, fasc. E19c.29 Ibidem.30 Lo “scoffone” è un tradizionale tipo di pantofola artigianale valsesiana.31 Vogliono un plebiscito?, in “Valsesia libera - Corriere Valsesiano”, a. L, n. 37, 17 no-

vembre 1945.32 Sulla buona strada, in “Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”, a. L, n. 41, 14 dicembre 1945.

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che intendono liberarsi dal grande centroamministrativo, ovvero in subordine unamodifica nella costituzione della consultamunicipale, concedendo ai comuni rurali ag-gregati di proporre in seno alla stessa un lo-ro rappresentante a difesa dei propri inte-ressi”33.

Il tema viene sviluppato sul piano econo-mico qualche settimana dopo, in un artico-lo firmato da Ezio Perazzoli: “Occorre insi-stere sull’autonomia in vista anche di ungrave fenomeno economico: lo spopolamen-to montano, che non vuol dire solo lo spo-polamento dei comuni della montagna, maanche delle frazioni dei comuni della bassaValsesia [...] Perché comuni e frazioni si van-no spopolando? Perché al tenore di vita, bendiverso dall’antico, nessuno ha mai pensatodi provvedere mutando di pari passo le con-dizioni ambientali [...] Ad allontanare la po-polazione da codesti centri concorre pure ilfatto che per la mancanza di strade, che pro-prio cocciutamente non si provvede a co-struire per i comuni rurali, la vita rincara [...]Ora una reazione a questa spinta negativaviene appunto dall’autonomia comunale.L’amministrazione dovendo solo pensare aun Comune ne studia meglio e più intensa-mente le sue necessità e vi provvede, cosic-ché coll’autonomia più sicuramente si pos-sono risolvere le questioni riguardanti spe-cialmente la viabilità e le comunicazioni [...]L’autonomia comunale può imporsi per quelmiglioramento economico che vuol direbenessere, che vuol dire risorgimento dellanostra valle, e ciò senza dubbio potremoottenere liberandoci dai grandi centri ammi-nistrativi”34.

La prospettiva di una maggiore autono-mia per i comuni montani è sicuramentepragmatica ed interessante, colpisce al cuo-re del problema molto più che non il sognodi una “Regione Valsesia”, si riallaccia dav-vero ad una tradizione amministrativa radi-cata; essa però ormai si pone con un piedefuori dall’esperienza ciellenista in Valsesia,ormai quasi giunta al tramonto e per troppotempo legata alla dimensione provincialedella questione.

Il problema della legittimazione popolare

Le tre ragioni della polemica intorno all’ap-partenenza provinciale della Valsesia van-no considerate in interconnessione recipro-ca, come diversi aspetti di un medesimoobiettivo: legittimare, agli occhi della popo-lazione, la preminenza ed il ruolo politico deiCln e, all’interno di questi, dei partigiani ga-ribaldini, come autentici rappresentanti delleistanze e dei bisogni locali, consacrati dallaguerra di liberazione, che a sua volta vienevista dai suoi partecipanti come un potentefattore di legittimazione politica. L’intrecciodi questi temi è evidente, per esempio, nel-l’articolo intitolato “Valsesia nostra” e pub-blicato dal “Corriere Valsesiano” il 19 mag-gio 1945, a commento del decreto di annes-sione a Novara: “Era tra i preferiti sistemi deldefunto governo quello di emettere provve-dimenti a getto continuo, anche se privi d’o-gni ragione d’essere. I capi provincia dove-vano pur far vedere a Roma che facevanoqualche cosa, che si guadagnavano lo sti-pendio, e il sistema dei decreti divenne unavera mania. Di tale mania fu appunto vittima

33 Per l’autonomia dei Comuni rurali, in “Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”, a. LI,n. 1, 4 gennaio 1946.

34 Autonomia comunale e spopolamento montano, in “Valsesia Libera - Corriere Valse-siano”, a. LI, n. doppio 5-6, 31 gennaio 1946.

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nel 1927 la Valsesia, che venne d’autorità,senza che in merito venissero minimamenteinterpellate le popolazioni interessate, di-stolta dalla giurisdizione provinciale di No-vara ed accollata alla Provincia di Vercelli.Tutta la rete stradale e ferroviaria che colle-ga la Valsesia ai centri maggiori indica chia-ramente quali sono le direttrici del trafficotra montagna e pianura, ma queste eranoper i prefettoni gallonati quisquilie di benpoca importanza.

I garibaldini, che nella Valsesia eroica epartigiana hanno per diciannove mesi com-battuto aspramente il nemico nazifascista,avendo vissuto a contatto intimo con il po-polo valsesiano, ne conoscono a fondo leaspirazioni, e ad esaudire quella più viva haimmediatamente provveduto il loro capo ri-mettendo, come si dice, le cose a posto. Que-sto atto politico ed economico ad un tempo,innanzi tutto è inteso ad abrogare una di-sposizione fascista e poi tende a dimostra-re che i garibaldini non dimenticano, comenon dimenticheranno mai, quello che per lo-ro ha sofferto e fatto la Valsesia. Nell’operadi ricostruzione già in atto, infatti, la Valse-sia sarà tra le zone dove più attivamente siopererà a riedificare le case bruciate, le bai-te rase al suolo, poiché questo è un vero eproprio debito che i garibaldini hanno con-tratto con questa eroica regione, di cui tuttinoi, oggi, ci sentiamo come figli. Per dician-nove lunghi mesi i montanari della Valsesiahanno dato, senza recriminazioni, perché igaribaldini potessero vivere ed è giusto cheoggi, nella vittoria raggiunta, i garibaldini ri-cordino e facciano quanto è in loro potereper dimostrare la loro profonda gratitudineal popolo valsesiano”35.

Abbiamo detto come i Cln si propongano,in quanto formati dall’intero arco dei partitiantifascisti, come organi “rappresentanti ditutte le forze vive del Paese”36, “rappresen-tativi delle masse”, che “cureranno e prepa-reranno lo sviluppo di un vero regime demo-cratico e getteranno le basi del futuro siste-ma rappresentativo della nazione”37. A que-sto scopo, oltre alla rappresentanza partiti-ca, i Cln di base debbono essere integratidai rappresentanti delle “organizzazioni dimassa” (Gruppo difesa della donna, Frontedella gioventù, Cvl, rappresentanti sindacalie contadini). Il collegamento con le varierealtà operanti nei comuni, poi, si dovrebbecompletare con la costituzione di Cln di fab-brica e di Cln rionali o di frazione.

Tutto questo è sufficiente a dare una le-gittimità effettiva, agli occhi della cittadinan-za, ai nuovi organismi di governo? A confe-rire loro autorità? In contesti come quelli diuna valle alpina come la Valsesia, certamen-te no. Se già nei comuni di maggiori dimen-sioni parlare di “masse” e di loro rappresen-tanza sembra decisamente esagerato, ci sipuò immaginare quanto poco questo termi-ne significhi qualcosa nei piccoli centri del-l’alta valle.

Nei comuni minori, lo si è visto, già lo sche-ma di rappresentanza partitica non funzio-na, e in molti di essi è necessario ricorrere apersonale “senza partito” dotato di una qual-che autorevolezza; la “rappresentanza del-le masse” qui salta del tutto, per assenzadelle masse stesse, e da questo punto di vi-sta i relativi Cln comunali restano, nella mag-gior parte dei casi, a composizione incom-pleta. Nei centri più grandi, invece, la rap-presentanza dei partiti è in grado di essere

35 Valsesia nostra, in “Corriere Valsesiano”, Varallo, a. L, n. 9, 19 maggio 1945.36 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4c.37 ISRSC BI-VC, fondo Carlo Cerruti, fasc. 3.

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agevolmente espressa, ed anche quella delle“organizzazioni di massa”.

In un contesto in cui “la massa” è comun-que un concetto troppo ampio, dato la scar-so insediamento industriale e la scala co-munque ridotta, c’è da domandarsi se ed at-traverso quali altre vie i Cln cerchino unalegittimazione popolare più diretta; per ri-spondere può essere utile esaminare comealcuni Cln, due di altrettanti centri maggiori(Varallo in modo particolare, e Serravalle Se-sia) e cinque di piccoli comuni dell’alta val-le (Campertogno, Rimasco, Scopello, Boc-cioleto e Riva Valdobbia), si comportano difronte a crisi delle giunte comunali, e qualiinterventi vengono messi in atto per risol-verle.

Partiamo da Varallo. Il 26 luglio 1945 lecommissioni interne delle fabbriche dellacittà (manifattura Rotondi, manifattura Gro-ber, fabbrica Stainer, officina Caramella) ecentosessantaquattro persone sottoscrivo-no una lettera di dura polemica nei confron-ti delle autorità municipali, e la indirizzanoal Cln comunale: “I sottoscritti, in rappre-sentanza della popolazione di Varallo, inol-trano a questo Cln il presente esposto. Dal-le locali autorità per gli approvvigionamen-ti, era stato preso il provvedimento di distri-buire per tre giorni alla settimana farina dipolenta in sostituzione del pane. Da inchie-sta eseguita da apposita commissione, com-posta di operai, è risultato che tale provve-dimento non veniva rispettato dagli alber-gatori locali, poiché nelle giornate su accen-nate, si somministrava pane bianco a volon-tà. Da più precisi accertamenti eseguiti pres-so gli uffici della Sepral di Vercelli, risultavache tale provvedimento non era stato ema-nato dall’autorità provinciale, ma soltantoda quella locale per smaltire farina di polen-ta che si trovava in eccedenza, non per cau-se dipendenti da sproporzionata assegna-

zione, bensì da irregolare funzionamento delservizio approvvigionamenti, irregolaritàmaggiormente incompatibile poiché i re-sponsabili sono loro stessi commercianti. Lamedesima commissione recatasi presso gliuffici del Monopolio, constatava che le man-cate o ritardate assegnazioni erano dovuteunicamente a negligenza dell’incaricato pergli approvvigionamenti, sig. Burla, il qualenon si interessava a fare le richieste utili, oquanto meno a provvedere per il ritiro.

Si fa presente che è da parecchi mesi chetutte le assegnazioni sono quanto mai irre-golari. In considerazione di quanto sopra siesige che: 1) il sig. Angelino incaricato pergli approvvigionamenti, sia destituito daogni carica pubblica, cariche maggiormen-te incompatibili per la sua qualità di commer-ciante; 2) il sig. Grassi, assessore comuna-le, membro del Cln, che virtualmente si ac-caparra cariche ed incarichi, dimostrando unarrivismo incompatibile con la sua capacitàe qualità di partigiano, avendo dimostratoscarso senso di comprensione dei bisognie necessità della popolazione che ama defi-nirlo col titolo di ‘Marsupiale’, avendo di-mostrato di essere completamente sprovvi-sto di senso di responsabilità poiché duran-te l’inchiesta per i sopraddetti argomentibanchettava in pubblico, sia destituito datutte le cariche pubbliche; 3) il sig. Burla, in-caricato per gli approvvigionamenti di ge-neri di monopolio, venga ugualmente desti-tuito per negligenza dovuta a disinteressa-mento causa lo scarso rendimento di tale ap-palto (questo da dichiarazione verbale del-lo stesso sig. Burla); 4) il sig. Pietro Grobervenga destituito da qualsiasi carica pubbli-ca per scarso senso sociale, per collabora-zione coi nazifascisti coi quali ostentava inpubblico troppa amicizia, per scarso sensodi decoro mostrandosi sovente in pubblicoin stato di ubriachezza. Appellandosi ai prin-cipi di equità e di giustizia che devono ca-

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ratterizzare ogni azione attuale, per far sì chenon perduri l’impressione che le carichepubbliche siano affidate ad elementi inde-gni o peggio profittatori, confidiamo che ilpresente esposto venga favorevolmente ac-colto onde evitare eventuali dimostrazionio disordini da parte della popolazione e dellemaestranze degli stabilimenti locali”38.

Si tratta di parole forti, espresse da unaparte della popolazione della quale l’ammi-nistrazione partigiana non può non tenereconto (le commissioni operaie), contro per-sone di primo piano della nuova municipa-lità e della vita economica e politica cittadi-na, ed investono in pieno l’intera giuntamunicipale.

Quest’ultima, il 30 luglio, emette un comu-nicato col quale, dopo aver annotato che “ilCln, pur trasmettendo l’esposto, teneva adichiarare che non intendeva scendere nelmerito del suo contenuto”, replica alle accu-se: “La giunta municipale, mentre si riservaesplicitamente e formalmente di prendere inprossima riunione straordinaria tutti queiprovvedimenti che sembreranno opportuni,ritiene necessario comunicare fin d’ora: 1)che i sigg. Angelino e Burla non rivestonoalcuna carica pubblica, ma esercitano sem-plicemente un servizio di pubblica utilità; 2)che essi hanno dichiarato che provvederan-no nel senso e nel modo da loro meglio vi-sto, alla dimostrazione della infondatezzadei rilievi mossi a loro carico, ed alla tuteladella loro onorabilità; 3) che nei loro con-fronti il Comune, in base a quanto gli con-sta, non ritiene di dover fare proprie le os-servazioni contenute nell’esposto; 4) che inparticolare, la decisione relativa alle distri-buzioni di farina da polenta era imposta dalle

assegnazioni avute per il mese di luglio edall’imprevedibilità ed imprevisto mancatoassorbimento della farina da polenta daparte del consumo, mentre non era nella fa-coltà della ditta distributrice l’ammettere alconsumo la farina da pane assegnata perl’agosto e l’ottenere assegnazione supple-tiva di farina bianca; 5) che l’assessore sup-plente Pietro Grober, avuto sentore della ela-borazione dell’esposto in parola, aveva inprecedenza comunicato al sindaco le sue di-missioni con lettera”39.

È una difesa su tutta la linea delle perso-ne attaccate dall’esposto. Il comunicato sichiude con un accenno polemico nei con-fronti del Cln comunale: “La giunta, che èstata nominata a suo tempo dall’autoritàprefettizia su designazione del Cln dal qualeha derivato i suoi poteri, terrà conto, nellesue ulteriori decisioni, del fatto che l’espo-sto in questione è stato raccolto e trasmes-so dal Cln, legittima espressione della vo-lontà popolare; anche se il Cln stesso, ve-nendo meno a quanto dovrebbe essere unasua precisa incombenza, si è risparmiatol’esame ed il vaglio delle cose, ha preferitoevitare di pronunciarsi in materia e si è ac-contentato di fungere da semplice interme-diario”40.

L’obiezione è, a dir poco, fondata. Il Cln èo non è il tramite del popolo verso l’ammi-nistrazione? La giunta comunale non devea lui la sua designazione, la sua legittimità,il suo valore democratico? Come è possibi-le dunque, si domandano i membri dellagiunta, che un esposto di questo tipo ven-ga semplicemente girato loro dal Cln, comese la cosa non lo riguardasse direttamente,come se non tirasse in causa proprio i fonda-

38 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4b.39 Ibidem.40 Ibidem.

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menti dell’esistenza e delle funzioni del Clnstesso?

Di fronte al perdurante e pilatesco silen-zio del Cln comunale (neppure dai suoi ver-bali di riunione e dalla stampa risulta una suapresa di posizione in proposito41), alla giun-ta non resta che rassegnare le dimissioni, il4 agosto 1945, come risulta dal relativo ver-bale: “Gli assessori presenti [...] ritenuto chel’esposto presentato da alcune commissio-ni di fabbrica e da alcuni cittadini, quasi tuttioperai, pervenne ad opera del Cln, che que-sta giunta considera quale legittima espres-sione della volontà popolare; ritenuto checon tale esposto si pone in dubbio la capa-cità e la rettitudine di alcuni assessori comu-nali e dell’insieme dell’organizzazione pre-posta alla civica amministrazione ed agli ap-provvigionamenti alimentari; mentre respin-gono perentoriamente e deplorano la formu-lazione imprecisa e non documentata dellegratuite accuse; ritengono che sia precisocompito del Cln di entrare nel merito del-l’esposto e di trarne e formularne la conclu-sione, anziché limitarsi, come ha fatto, adagire da semplice intermediario; deliberanodi rassegnare collettivamente nelle mani delsindaco le loro dimissioni da assessori co-munali di Varallo”42.

Di fronte al precipitare della situazione, ilCln si pronuncia e si giustifica il giorno suc-cessivo, 5 agosto, riunendosi in seduta stra-ordinaria. Ecco un estratto del relativo ver-bale: “Il memoriale esaminato dai compo-nenti del Cln in effetti non venne discusso,in quanto le commissioni di fabbrica insi-stettero perché fosse presentato alla giun-

ta immediatamente. Fu osservato da alcunimembri del Cln [...] che detto memoriale eranella forma e nella sostanza alquanto spin-to in relazione alle accuse mosse ad alcunimembri della giunta. Era intendimento chedetto memoriale benché presentato allagiunta avrebbe dovuto formare oggetto didiscussione sia in sede di giunta che in sededi Cln avanti di darne pubblicità. E dacchèla giunta nella sua seduta straordinaria del4 corr. ha rimesso il memoriale al Cln per lasua disamina, si inizia senz’altro il suo esa-me per darne parere conclusivo. 1) In meri-to alla distribuzione disposta dalla giunta difarina di granoturco in luogo di pane per ladurata di giorni tre consecutivi (il che hadato luogo a lamentele da parte della popo-lazione con manifestazioni avanti al palaz-zo municipale, non del tutto ingiustificate,sia perché la razione di farina di granoturcoera di soli 80 grammi in luogo di grammi 100- del che però, da indagini esperite non sipuò far colpa al distributore che ha dovutoattenersi a disposizioni superiori - sia ancheperché la distribuzione di farina di granotur-co per la durata di tre giorni consecutiviavrebbe dovuto effettuarsi in modo alterna-to tanto da non portare nocumento alla suf-ficiente nutrizione della popolazione) si os-serva che non sussistono accuse di parti-colare rilievo. Un membro del Cln spiega chevenne effettuata un’inchiesta a Vercellipresso la Sepral. Questa, mentre ai richie-denti esponeva che da parte del signor An-gelino non era stata fatta una richiesta su-periore di farina di grano (mentre detto enteera disposto a dare quanto l’assessore agli

41 Per i verbali di riunione vedi ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A6b; perla stampa locale vedi “Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”, a. L, nn. 21, 22, 23, 24; “Gazzettadella Valsesia”, a. XIX, nn. 21, 22, 23; da notare che entrambi i giornali pubblicano tutti icomunicati citati tranne il testo dell’esposto delle commissioni operaie.

42 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4b.

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approvvigionamenti avrebbe domandatocome maggiore assegnazione) interpellatadal signor Angelino ha dato una diversaspiegazione.

Si osserva tuttavia che esisteva una spro-porzione fra i quantitativi di farina di grano-turco e quella di frumento in distribuzione eche anzi avrebbe dovuto esserci un mag-gior controllo ed una migliore regolamenta-zione nella distribuzione di farina di frumen-to e di farina di granoturco. Pertanto nei con-fronti del rag. Angelino Secondo, si ritienenon sussista alcuna effettiva colpevolezza,ma soltanto una lieve leggerezza nei control-li di distribuzione di farina. Si rileva pure cheil signor Angelino non riveste alcuna cari-ca pubblica. 2) In merito alle accuse mosseal signor Grassi Ezio si fa presente che nonesistono elementi seri che possano intac-care in qualsiasi modo la sua onorabilità edanche la sua incompatibilità nella sua qua-lità di partigiano. A queste conclusioni il rap-presentante del Pc oppone il suo dissensoper alcuni atteggiamenti del signor Grassi,antipopolari, assunti sia con articoli sul gior-nale locale, sia con risposte mal date allecommissioni di fabbrica43. 3) In merito all’o-perato del signor Aldo Burla, si dà atto chenon esistono in effetti elementi di accusaper negligenza e disinteressamento, e si ri-serva di rimettersi al giudizio, da rendere dipubblica ragione, che sarà dato dal suo i-spettorato. 4) In merito al signor Grober Pie-tro, ed alle accuse che gli si sono mosse,sentito l’interessato e da informazioni di in-dubbia fede partigiana il Cln ritiene assolu-tamente infondate le accuse mosse al dettosignor Grober. Si esclude nel modo più asso-luto che le persone di cui sopra si possanocomunque tacciare di profittatori e di diso-

nesti, e si insiste anzi nel rilevare che tratta-si di persone degne della massima conside-razione”44.

Con questa posizione tutto sommato me-diana, il Cln varallese riesce a trarsi d’impac-cio da una situazione potenzialmente ri-schiosa: se infatti si fosse schierato a totaledifesa dell’operato della giunta contro ilparere delle commissioni di fabbrica, avreb-be perso il suo connotato di tramite dellavolontà del popolo e delle masse, o quanto-meno lo avrebbero perso i suoi componenti,che avrebbero dovuto seguire la giunta nel-le sue dimissioni; d’altra parte era ormaitroppo tardi per sposare appieno le tesi dellecommissioni di fabbrica, di cui inizialmenteil Cln è stato solo un tramite notarile versol’amministrazione comunale. Anche in que-st’ipotesi, insomma, avrebbe dimostrato lasua inefficienza quale cinghia di trasmissio-ne e filtro delle istanze popolari. Saggiamen-te, dal suo punto di vista, il Cln di Varallosceglie invece di comprendere e giustificarele ragioni del diffuso malcontento, e nellostesso tempo evita di polemizzare aperta-mente con l’amministrazione e di attribuirlela responsabilità delle inefficienze oltre uncerto limite; gli strali che le commissioni difabbrica avevano indirizzato verso l’onestàpersonale di alcuni componenti della giun-ta sono formalmente respinti.

In questo modo il Cln cittadino mantienela sua posizione originaria, senza rimanereimpigliato in una crisi che avrebbe potutoriguardare anch’esso, una volta “scavalca-to” dalle commissioni di fabbrica; può allorariprendere il suo ruolo di legittimazione de-mocratica dell’amministrazione comunale. Il7 agosto il sindaco di Varallo invita il Cln “aproporre [...] con tutta urgenza i nomi dei

43 Grassi rappresentava il Partito liberale, come peraltro anche Grober.44 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4b.

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quattro assessori effettivi e dei due asses-sori supplenti da comunicare al prefetto persostituire i dimissionari”45.

L’ultima presa di posizione del Cln varal-lese sulla vicenda è del 9 agosto, e viene resapubblica con l’invio ai giornali locali di uncomunicato intitolato “Fine di una polemi-ca”: “Il Cln [...] mentre invita la popolazionea far opera di collaborazione evitando dan-nose polemiche e questioni di carattere per-sonale, ritiene esaurite le indagini in meritoalle accuse formulate dalle commissioni difabbrica, colle seguenti conclusioni: si e-sclude nel modo più assoluto che i signoriAngelino Secondo, Grober Pietro, Grassi E-zio, Burla Aldo, si possano tacciare di pro-fittatori e disonesti e si rileva anzi trattarsidi persone della massima considerazione.Nella fattispecie a carico del rag. AngelinoSecondo non sussiste alcuna effettiva col-pevolezza per quanto riguarda la distribu-zione della farina di granoturco; a carico delsignor Grassi Ezio non esistono elementiche possano intaccare in qualsiasi modo lasua onorabilità di cittadino e di partigiano;che quanto riguarda il signor Grober Pietroè risultato essere stato fattivo collaborato-re del movimento partigiano dal suo sorge-re e fino alla Liberazione; ed infine che, dacomunicazioni ricevute da questo Cln anchedal suo ispettore compartimentale, si deveescludere che il signor Burla Aldo abbia co-munque operato con negligenza e disinte-ressamento nella condotta del suo ufficio.Il Cln si è riservato di indicare i nominativiper la formazione della nuova giunta”46.

L’onorabilità delle persone coinvolte nel-la polemica sarà anche fatta salva, ma ciò

non toglie che il Cln si guarda bene dal ripro-porre i nominativi dei due assessori uscen-ti “sfiduciati” dalle commissioni operaie, chevengono infatti sostituiti (come risulta daldecreto di nomina della nuova giunta mu-nicipale emanato dal prefetto di Vercelli il 22agosto 1945)47; le commissioni di fabbrica,in qualche modo, l’hanno spuntata ed il Clnnon ha potuto far altro che prenderne atto,pena la sua delegittimazione.

Commenta la “Gazzetta della Valsesia”:“Ci si chiede: perché il Cln, quello stessoche ha rivolto parole di giustificazione e dilode agli assessori, ora ha fatta sua la prote-sta presentata dagli operai? E si riserva poidi indicare i nominativi per la formazionedella nuova giunta? Se la giunta è piena-mente giustificata, perché non sono staterespinte le dimissioni degli assessori? Frat-tanto il popolo, il vero popolo, anche quelloche non ha apertamente protestato, ha avutoun pane né migliore né più abbondante: hasoltanto constatato amaramente che il prezzodel pane è aumentato a lire 17,50 al chilo-grammo. Però al popolo è sempre data la pos-sibilità di... ballare. E questo vi par poco?”48.

Questa vicenda fa evidentemente rifletterei componenti del Comitato di liberazione diVarallo se negli stessi giorni, il 22 agosto, inun esposto inviato alla segreteria degli i-spettori del Cln provinciale in vista di unconvegno dei Cln della provincia, scrivono:“[...] questo Cln ha sempre ascoltati i sug-gerimenti della popolazione venendole in-contro con ogni sua possibilità [...] Ma fapresente che la sua opera di convinzionenon è più sufficiente: gli sono necessari am-pi poteri che siano tutelati dalla legge”49.

45 Ibidem.46 Idem, fasc. A6b.47 Idem, fasc. A4b.48 Interrogativi, in “Gazzetta della Valsesia”, a. XIX, n. 23, 25 agosto 1945.49 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A4b.

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Una richiesta che, dato il contesto più gene-rale di esautoramento dell’esperienza deiCln, appare a dir poco velleitaria.

A Varallo il Cln riesce a mantenere dunquepiù o meno intatto il suo ruolo politico, purmesso parzialmente in mora dall’interventodelle commissioni di fabbrica, e a salvare laforma procedurale della designazione dellagiunta municipale sotto la propria compe-tenza.

Nei piccoli centri dell’alta valle, data l’as-senza di “organizzazioni di massa” di qual-sivoglia genere e le dimensioni ridotte, nonc’è molto spazio per una funzione di filtro odi mediazione tra la funzione amministrativavera e propria e la funzione di indirizzo politi-co; spesso, in questi comuni, la sovrappo-sizione di cariche tra appartenenti ai Cln emembri delle giunte sia massiccia. Le dispo-sizioni della fine dell’estate del 1945, stabi-lendo con maggior forza la separazione traquesti due organi, tra le loro rispettive sfe-re di competenza ed il loro personale, met-tono spesso in crisi tanto gli uni quanto glialtri. Come ovviare a questi problemi rinno-vando le amministrazioni civiche in modoche siano investite da una effettiva legitti-mazione popolare?

Il 20 settembre 1945 un membro del Clncomunale di Campertogno, Adriano Grosso,scrive al Cln di Varallo una lettera con og-getto “Riordinamento del Cln locale”: “Por-to a conoscenza di codesto Cln di Varalloquale centro di zona quanto segue: 1) il Clnlocale attualmente è così composto: a) dal-lo scrivente solo regolare rappresentante delpartito della Democrazia Cristiana con au-torizzazione del suo partito; b) da due altrimembri che si dicono apolitici; 2) in data 19/9/1945 lo scrivente ha messo al corrente il

Cln provinciale di questo stato di cose e haavuto l’incarico di mettersi in contatto concodesto centro di zona affinché si provve-da al riordinamento e alla messa in efficienzadi questo Cln; 3) da quello saputo a Vercelli,un membro del Cln non può fare parte con-temporaneamente del Cln e della giunta co-munale. Qui a Campertogno simile caso sipresenta; 4) il Cln locale non si occupa dinessun interesse del Comune, i due membridel Cln avendo prima della nomina del rap-presentante della Democrazia Cristiana af-fidato ogni attività alla giunta comunale eper tale motivo, il Cln locale non esisteva;5) lo scrivente fa presente di aver fatto espo-sto della situazione al membro del Cln di Va-rallo signor Giuseppe Rastelli, il quale po-trà riferire in merito, a meno che sia necessa-ria la mia venuta in Varallo onde dare mag-giori schiarimenti; 6) detto riordinamento hacarattere di urgenza dato che fra giorni l’at-tuale sindaco (apolitico e per altre ragioni)verrà sostituito e che per tale motivo è benenecessaria la riattività del Cln; 7) è bene se-gnalare che la giunta comunale di Camperto-gno è composta attualmente oltre che tuttii suoi membri sono apolitici che tre di lorosono vicini parenti col sindaco (cognati).Gradirò dunque un vero interessamento dicodesto centro di zona onde poter riferireal Comitato provinciale e comunicare la for-mazione del Cln riordinato”50.

Al di là delle imprecisioni storiche oltreche grammaticali (il Cln di Campertogno esi-steva già dai primi di maggio, come risultadal prospetto della composizione dei Clncomunali51), quello citato è un documentodi un certo interesse, perché ci dà conto deltentativo di riordinare e di “politicizzare”maggiormente i Cln locali dei piccoli centri,nel momento in cui la loro funzione si deve

50 Idem, fasc. A4c.51 Idem, fasc. F40a.

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a tutti gli effetti pratici ridursi a quella di orga-ni consultivi; l’unica possibilità che in untale frangente i Cln dell’alta valle possanoavere ancora un qualche senso sta proprionella loro valenza politica; in assenza di que-sta, sprofonderebbero nelle dispute perso-nali.

Il Cln di zona invia un ispettore a Camper-togno, ed il 28 settembre scrive a quel Clncomunale: “La recente visita del nostro i-spettore ha dato esito discreto. Sono emersele seguenti irregolarità che tuttavia riteniamodoversi soltanto alla mancanza di correntipolitiche: 1) il Cln essendo organo pretta-mente politico deve esser composto dai rap-presentanti dei vari partiti; 2) il Cln deve as-sistere nelle loro funzioni il sindaco e la giun-ta. È consigliabile la non appartenenza deimembri del Cln alla giunta. Tenuto contoperò delle difficoltà incontrate da codestoCln, si giustifica la contemporaneità degliincarichi. Si approva e anzi si consiglia la ele-zione popolare dei nuovi componenti dellagiunta. Naturalmente il Cln deve interessarsisulla regolarità delle eventuali elezioni diamministrazione”52.

Di questa ispezione il Cln di zona dà con-to anche al Cln provinciale il 29 settembre:“Il Cln di Campertogno composto di tre ele-menti di cui uno democristiano e due apoli-tici si trovava in difficoltà per incompren-sione e motivi personali. Il nostro ispettoreè riuscito ad appianare le divergenze. Poi-ché l’attuale sindaco di Campertogno do-vrà essere sostituito e la giunta rifatta si èproposta ed è stata accettata la nomina deinuovi amministratori, per elezioni popolari.Il Cln di Campertogno si rende garante del-la regolarità dell’avvenimento politico”53.

Ecco la parola che ha aleggiato tanto a lun-go senza essere mai pronunciata: elezioni.A dire il vero la possibilità di procedere allanomina delle giunte comunali tramite con-sultazione popolare diretta era già stata pre-vista in passato.

Il già citato opuscoletto “Comitati di libe-razione nazionale e giunte popolari - Unaguida per i militanti del Movimento di libera-zione nazionale”, a cura del Comando gene-rale delle brigate d’assalto “Garibaldi”, risa-lente al periodo clandestino, recita: “[...] lagiunta [...] dovrà essere sempre costituitasecondo i criteri di rappresentanza democra-tica [...], in corrispondenza alla effettiva com-posizione sociale e politica della popolazio-ne del Comune. Ovunque ciò sia possibile,d’altronde, per la costituzione della giuntapopolare di amministrazione si procederà pervia di una diretta consultazione ed elezionepopolare, esista o non esista sul luogo unCln. Ciò è spesso e immediatamente possibi-le - una esperienza ormai larga lo prova -specie nei comuni minori In tal caso il Cln,quando esista, avrà il compito di promuo-vere, di dirigere e di controllare nei suoi ri-sultati la consultazione popolare”54. È da ri-levare che, secondo questo opuscolo, in ta-le prospettiva la presenza di un Cln diventasolo eventuale.

Una circolare a tutti i Cln provinciali, pe-riferici e di base della segreteria del Cln re-gionale piemontese, anch’esso già citato eanch’esso risalente al periodo clandestino,dice, allo stesso modo: “Per quanto riguar-da l’integrazione del Cln comunale in giun-ta, e la convocazione dell’assemblea comu-nale popolare a liberazione avvenuta, in ogniluogo ove ciò sia possibile bisognerà che il

52 Idem, fasc. A4c.53 Ibidem.54 Idem, fasc. A1a.

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Cln comunale convochi tutte le forze ed i ce-ti del paese per arrivare ad una consultazio-ne democratica che pur nelle forme rudimen-tali in cui sarà attuata potrà garantire chesindaci, giunta ed assemblea siano vera-mente l’espressione della volontà democra-tica del Comune. Questo è possibile nei co-muni minori; per i comuni maggiori dove èimpossibile la consultazione diretta dellapopolazione, saranno i vari Cln periferici edi base, le associazioni delle varie categorieprofessionali, dei vari interessi, gli organi-smi di massa, le associazioni resistenziali,ecc. che dovranno, nel modo più democrati-co possibile, esprimere le forze rappresen-tative per la costituzione dell’assemblea co-munale popolare”55. In Valsesia, almeno finoal settembre 1945, si è sempre optato perquesta seconda strada, pur con tutte le dif-ficoltà e le lacune che presenta tanto nei co-muni più grandi quanto, e soprattutto, inquelli più piccoli.

Non abbiamo trovato documenti che ciraccontino minuziosamente come, nel con-creto, si sia svolta la consultazione popola-re in quel di Campertogno. Sappiamo soloquel che ci dice una lettera inviata il 7 otto-bre da quel Cln comunale al Cln provincialedi Vercelli ed al Cln di zona di Varallo: “[...]si comunica che riunito il Comitato al com-pleto si è proceduto alla designazione delnuovo sindaco nella persona del sign. Maz-za avvocato Luigi fu Carlo nato a CasaleMonferrato il 25 ottobre 1877 ora qui abitan-te. Riuniti i capifamiglia del paese alla pro-posta di nominare sindaco il sign. Mazza tut-ti, nessuno eccettuato, approvarono la no-mina”56. Quindi, una procedura in due tem-pi: una designazione da parte del Cln ed una

ratifica non da parte di tutti gli abitanti, mada parte dei soli capifamiglia.

Il ricorso ai capifamiglia si riscontra an-che nel Comune di Rimasco nel novembredel 1945. Di questa elezione abbiamo unverbale dettagliato, che riportiamo integral-mente per il suo grande interesse: “Verbaledi nomina del nuovo sindaco e della giuntacomunale di Rimasco. Con uno spirito pret-tamente democratico ed al fine di lasciare alpopolo, divenuto ormai padrone dopo unventennio di forzato silenzio di manifestarela propria volontà, le libere scelte dei suoiamministratori, si è proceduto oggi 18 no-vembre 1945 in Rimasco ad un rinnovamen-to generale dei membri della giunta comu-nale e del sindaco finora in carica e dimis-sionari. Si è pensato quindi di mettere pertale scopo in opera il sistema delle libere ele-zioni, distribuendo ad ogni capo famigliauna scheda nella quale dovevano esserescritti cinque nomi di propria scelta da pro-porsi per il nuovo sindaco, due assessorieffettivi e due assessori supplenti costi-tuenti la giunta comunale.

Distribuite le schede e fissate le modalitàper la loro compilazione e la consegna inbusta chiusa al segretario comunale entrooggi domenica 18 corrente alle ore 12 in mu-nicipio, dette schede vennero introdotte inapposita urna onde procedere al successi-vo spoglio e formare, secondo la graduato-ria scalare, la serie dei cinque nominativi ri-sultanti dalle votazioni popolari.

Alle ore 14 dello stesso giorno, nello stes-so locale del municipio ed alla presenza deiseguenti signori: Martire Umberto fu Delfi-no, sindaco dimissionario; Pensa Ettore fuBartolomeo, rappresentante del Cln locale;Pugnetti Giovanni fu Bartolomeo, rappre-

55 Idem, fasc. A1b.56 Idem, fasc. F40d.

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sentante del Cln locale; Antonietti Giulio fuGiuseppe, residente in Rimasco centro, te-stimonio; Bettoni Amedeo fu Agostino, re-sidente in Rimasco centro, testimonio; Scal-vini Antonio di Giovanni, residente in Rima-sco centro, testimonio; Ragozzi Benito fuCarlo, residente in Ferrate fraz. Rimasco, te-stimonio; Ragozzi Cesare di nn, residente inFerrate fraz. Rimasco, testimonio; De Ambro-gi geom. Orazio, segretario comunale di Ri-masco; si è dissigillata l’urna e si è iniziatolo spoglio delle schede presentate. Il segre-tario comunale apre ad una ad una le buste,legge ad alta voce i nominativi in esse scrit-ti, ne prende man mano annotazione e le fagirare per la verifica a tutti i presenti. Al termi-ne dello spoglio di tutte le schede presenta-te, l’esito delle votazioni risultante è il se-guente: signor Martire Umberto fu Delfinovoti 78; signor Ragozzi Gerolamo fu Giusep-pe voti 48; signor Ragozzi Renato fu Carlovoti 29; signor Bettoni Amedeo fu Agostinovoti 26; signor Preti Romeo fu Lorenzo voti22.

Per cui la nuova amministrazione comu-nale di Rimasco a datare dal giorno 18 no-vembre 1945 viene così formata: signor Mar-tire Umberto fu Delfino - sindaco; signor Ra-gozzi Gerolamo fu Giuseppe - 1o assessoree vice sindaco; signor Ragozzi Renato fuCarlo - 2o assessore effettivo; signor BettoniAmedeo fu Agostino - 1o assessore supplen-te; Signor Preti Romeo fu Lorenzo - 2o as-sessore supplente. Dopo solenne promessadavanti ai presenti rappresentanti la volon-tà di tutto il popolo di Rimasco, di reggerele sorti del Comune con attività, impegno edentusiasmo, cercando di conservare quan-to è stato conquistato di libertà e giustizia,

il presente verbale, dopo lettura, viene datutti sottoscritto, e trasmesso per la debitaapprovazione alle competenti autorità supe-riori. Letto, firmato e sottoscritto” (seguonole firme di tutti i presenti)57.

Si presti attenzione a tre particolari: inprimo luogo, all’apparente assenza di unaprecedente designazione da parte del Cln,o di qualsivoglia intervento da parte di que-sto; in secondo luogo, al fatto che risultaessere eletto il sindaco uscente e dimissio-nario; infine, al fatto che ai capifamiglia siaconsentito di portarsi la scheda elettorale acasa per poi riconsegnarla entro le 12 in mu-nicipio, in modo che possano, se lo voglio-no, discutere comodamente la scelta con leproprie famiglie.

“Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”del 21 dicembre 1945 riporta la seguente no-tizia: “In seguito a dissensi che non furonopotuti sanare, la giunta comunale nominatadal Cln si è dimessa, e domenica 16 corr. -seguendo l’esempio delle elezioni fatte circaun mese fa a Rimasco con spirito prettamen-te democratico - tutti i capifamiglia di Sco-pello sono stati invitati a procedere, con vo-tazione segreta, alla libera designazione deinuovi amministratori. Il sistema è stato tro-vato rispondente all’idea di tutti, e si puòdire che quasi l’assoluta maggioranza deicapifamiglia si è presentata in municipio aportare la sua scheda con scritti cinque nomia sua scelta. Dallo spoglio delle schede e inbase alla graduatoria dei voti, la nuova giun-ta comunale è stata così composta: sindacoComola Enrico; vicesindaco Dazza Giusep-pe; assessori Cottura Carlo, Viotti Giovannie Ferrari Ernani”58.

57 Idem, fasc. A4c.58 Scopello. La nuova giunta comunale, in “Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”, a. L,

n. 42, 21 dicembre 1945.

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Non sempre ci si trova di fronte a tuttaquesta esibita concordia; a Boccioleto gliamministratori comunali si oppongono allaprocedura di elezione tramite consultazionedei capifamiglia, giudicandola illegittima, erivendicano quale unica forma legittima didesignazione la nomina prefettizia e alleata.Leggiamo su “Valsesia Libera - Corriere Val-sesiano” del 4 gennaio 1946: “Affisso qui ea Fervento, tutti hanno potuto leggere il se-guente manifesto: ‘Il Cln di Boccioleto, si-curo interprete della volontà della popola-zione, chiede che la giunta comunale cheregge le sorti del paese sia rinnovata e ven-ga nominata col sistema democratico delladesignazione fatta dai capifamiglia’. Anchenoi dunque siamo in piena crisi [...] e di essase ne è avuta un’eco anche nel recente con-gresso provinciale socialista di Vercelli, nelquale furono precisate le ragioni della crisie la necessità che la giunta venga cambiatae nominata (come già fatto a Rimasco e aScopello) col sistema democratico dellascelta fatta liberamente dai capifamiglia. Èciò che avverrà, e sembra che le elezioni ver-ranno fatte il 13 gennaio”59.

In realtà il 13 gennaio non si tiene alcunaelezione, ed il 15 gennaio 1946 un membrodi quel Cln scrive al prefetto di Vercelli, alCln provinciale di Vercelli ed al sindaco diBoccioleto: “Il sottoscritto Robinschon En-rico fu Gottardo, residente a Boccioleto, rap-presentante nel Cln di cotesto comune delPartito socialista u. p. espone: per ragionidi varia natura, e in particolare per metodidi accentramento di autorità, e per attivitàinvisa alla popolazione, in quanto antidemo-cratica, gran parte dei cittadini di Bocciole-to, ed in ogni caso la maggioranza di essi,

hanno manifestato individualmente ed inpubbliche riunioni delle gravi lamentele neiconfronti delle autorità comunali e partico-larmente del sindaco e del vice sindaco percui il Cln locale, come portavoce dell’opi-nione pubblica aveva fatto voti, e manife-stato l’intenzione a che fosse proceduto,mediante libere elezioni da parte dei padridi famiglia, alla nuova giunta comunale, edalla designazione del sindaco e vice sindaco.In tal senso il Cln aveva formulato una mo-zione, e aveva predisposto per l’esecuzionedi questo appello elettorale. Per contro men-tre la giunta era propensa alle dimissioni perla sua ricostituzione su basi democratiche,sindaco e vice sindaco si sono opposti a taledesignazione da parte del popolo di Boccio-leto, adducendo che solo il prefetto aveva ipoteri per sostituirli con altri cittadini delluogo. Di fronte a tale opposizione che de-nota in queste autorità ancora una mentali-tà residuata dal fascismo, il Cln nella suagrande maggioranza ha assegnato le dimis-sioni, e alle medesime il sottoscritto si asso-cia in segno di protesta contro l’atteggia-mento antidemocratico delle sunnominateautorità locali. Nel contempo formula preci-sa richiesta affinché vengano presi i provve-dimenti del caso a tutela e salvaguardia de-gli interessi e della volontà della grandemaggioranza della popolazione di Bocciole-to”60.

Una piccola nota di precauzione: con l’av-vicinarsi della tornata elettorale amministra-tiva del 1946 diventa più difficile capire, inmancanza di una documentazione dettaglia-ta, dove le dispute derivino da difficoltà po-litiche locali effettive e dove invece sianouno strumento di campagna elettorale.

59 Boccioleto: noi vogliamo una nuova Giunta comunale!, in “Valsesia Libera - CorriereValsesiano”, Varallo, a. LI, n. 1, 4 gennaio 1946.

60 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. F40c.

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Infine, abbiamo anche un esempio inversoa quelli visti, di una sorta di “mozione di sfi-ducia”. A Riva Valdobbia, alla fine di febbra-io, il sindaco ha fatto sospendere la vendi-ta del pane ai terrieri della val Vogna perchési sono astenuti dal prestare la loro operaper la spalatura della neve; agli stessi vieneanche intimato di versare 200 lire ciascunoperché alla spalatura si possa procedere di-versamente. Ne nasce un dissidio con la po-polazione e col Cln di zona61, che pare sfo-ciare in una consultazione contro la giunta,come sembra di poter dedurre da una lette-ra scritta il 2 febbraio 1946 dal prefetto diVercelli al presidente del Cln provinciale: “Ilsindaco e la giunta comunale di Riva Val-dobbia hanno presentato le dimissioni, inseguito ad un voto di sfiducia sul loro ope-rato, emesso da una parte della popolazio-ne del Comune. Dovendosi procedere allasostituzione dei dimissionari, pregherei la s.v. ill.ma di interessare il Cln del posto, affin-ché avanzi nuove candidature; salvo che,vagliate le tendenze locali e la genesi del vo-to (che sembrerebbe essere stato promos-so dall’ex sindaco Jachetti Michele) non ap-paia più conveniente mantenere l’attualeamministrazione, facendo pressioni in talsenso sui titolari in carica”62.

Nei comuni maggiori della valle continuainvece ad essere utilizzato il metodo consue-to di nomina attraverso il Cln ed i suoi par-titi. A Serravalle Sesia, il 19 febbraio 1946, aseguito delle dimissioni dei membri sociali-sti della giunta, il sindaco comunista si di-mette anch’esso, comunicandolo al Cln edal proprio partito. Il Pci, a sua volta, il 25 gen-naio conferma al presidente del Cln le av-

venute dimissioni del primo cittadino. Perle nuove nomine, il Cln comunale invita lesezioni dei partiti antifascisti presenti nelsuo territorio (comunista, socialista, demo-cristiana, azionista) a designare cinque per-sone ciascuna per ricostituire il consigliocomunale. Queste venti persone, radunatepresso la sede del Cln serravallese, provve-deranno il 31 gennaio a nominare la nuovagiunta comunale63.

Un’annotazione che riguarda il Comunedi Varallo: abbiamo detto come, alla finedegli anni venti, ad esso siano stati accorpatinumerosi comuni circostanti, che si ridusse-ro quindi al ruolo di sue frazioni. Si tratta dicomunità sparse sulle pendici circostanti, intutto e per tutto simili, quanto a economia,struttura sociale e dimensione, ai paesi del-l’alta valle, con un forte senso di identità edi appartenenza che la riforma fascista nonè riuscita a sradicare, ed è presente ancoraoggi. È naturale che, dopo la caduta del re-gime, emerga in esse la richiesta di riacqui-stare il proprio status amministrativo, comeè naturale che il loro modo di esprimersipoliticamente sia lo stesso degli altri piccolicentri di cui abbiamo parlato.

“Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”pubblica, il 21 dicembre 1945, questa noti-zia: “Domenica 16 dicembre i capifamigliadegli undici ex comuni aggregati (Camasco,Cervarolo, Civiasco, Crevola, Locarno, Mor-ca, Morondo, Parone, Roccapietra, Valmag-gia, Vocca) che, diciotto anni or sono, furo-no annessi dal regime fascista al Comunedi Varallo contro la volontà unanime e con-tro gli interessi delle stesse popolazioni, sisono adunati spontaneamente per consul-tarsi a vicenda e discutere sui problemi di

61 ISRP, Cln provinciale di Vercelli, fasc. F22c; Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc.A4c.

62 ISRP, Cln comunali della Provincia di Vercelli, fasc. A1b.63 Idem, fasc. A3a.

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più vitale interesse per le singole frazioni.Primo fra tutti, quello dell’autonomia comu-nale. Per ottenere la quale, e al più prestopossibile, gli stessi capifamiglia, facendosiinterpreti entusiasti di quelli che sono i le-gittimi desideri delle rispettive popolazioni,hanno redatto e sottoscritto, liberissima-mente, una richiesta referendum indirizzataal prefetto della Provincia. Inutile aggiun-gere che la sottoscrizione ha registrato l’as-soluta totalità dei capifamiglia sottoscrittinella maggior parte degli ex comuni, e neglialtri la stragrande maggioranza (95 e 97 percento!). I ‘desiderata’ degli ex comuni e i ri-sultati precisi di questa prima consultazio-ne popolare saranno comunicati prossima-mente ed ufficialmente alla superiore autoritàprovinciale e alla stessa giunta comunale diVarallo, già verbalmente informata di ognicosa. Tutto fa sperare - e di motivi ce ne so-no molti e più che sufficienti - che la libertàriconquistata, per la quale anche queste la-boriose e pacifiche comunità valsesianehanno dato sangue, sofferenze, privazionie, in parte, i loro stessi beni, tutto fa viva-mente sperare in un sollecito ritorno dellaloro auspicata e meritata indipendenza co-munale”64.

La giunta comunale di Varallo, pur conqualche precauzione di ordine territoriale,ascolta la richiesta dei capifamiglia delle fra-zioni, e qualche settimana dopo delibera diconseguenza: “Varallo, 24 gennaio 1946. Lagiunta comunale di Varallo, visto che la sop-pressione degli undici ex comuni [...] aggre-gati a Varallo con r. d. 17 gennaio 1929 n. 121,venne disposta con atto di imperio di prettostile fascista, in dispregio di ogni più ele-

64 Democrazia in atto. Verso l’autonomia degli ex comuni annessi a Varallo, in “ValsesiaLibera - Corriere Valsesiano”, a. L, n. 42, 21 dicembre 1945.

65 Varallo. La giunta comunale perfettamente d’accordo di restituire la richiesta au-tonomia agli ex comuni, in “Valsesia Libera - Corriere Valsesiano”, a. LI, n. doppio 5-6, 31gennaio 1946.

mentare rispetto della volontà delle popo-lazioni interessate; rilevando anche essered’avviso che, con il ritorno alla propria auto-nomia comunale, le frazioni o quanto menola maggior parte di esse, verranno a trovarsiin seri imbarazzi per far fronte agli enorme-mente accresciuti costi di tutti i servizi pub-blici, compresi quelli assolutamente indi-spensabili, data la scarsità delle risorse loca-li; fatta un’esplicita ed ampia riserva perquanto riguarda la delimitazione dei confinicon le varie frazioni [...]; con l’augurio chela riconquistata autonomia non allenti marenda anzi più cordialmente intensi i rapportitra le popolazioni interessate, in uno spiritodi democratica solidarietà valsesiana, e siasuscitatrice di tante feconde iniziative localibrutalmente soffocate dal malgoverno fasci-sta; all’unanimità delibera di: 1) non oppor-si alla richiesta di ricostituzione degli excomuni [...]; 2) chiedere alle competenti au-torità che la delimitazione dei confini tra que-sto capoluogo ed i rinnovati comuni vengafatta d’intesa con questa amministrazione,tenendo conto delle insopprimibili necessi-tà del capoluogo”65.

In questo caso non ci troviamo di frontead una crisi della giunta che richieda la no-mina di nuovi amministratori; è interessan-te però rilevare che, nel gennaio 1946, l’am-ministrazione varallese accetta di confron-tarsi con la volontà delle frazioni espressaattraverso un voto dei capifamiglia, un me-todo utilizzato sinora solo nei piccoli comunidell’alta valle. Della questione si interesse-rà anche il democristiano (e valsesiano) Giu-lio Pastore, membro della Consulta, in un’in-terrogazione al ministro degli Interni in cui

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I Cln in Valsesia

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chiede quali provvedimenti esso intenda a-dottare per agevolare la ricostituzione degliex comuni soppressi dal fascismo66.

Le prime vere elezioni amministrative inValsesia sono ormai davvero alle porte, e per

tutti coloro che avevano creduto realmen-te, dopo l’esperienza delle giunte cielleniste,alla possibilità di una vittoria delle forze le-gate alla lotta partigiana, sarà un risvegliopiuttosto amaro.

66 Per l’autonomia degli ex comuni, in “Gazzetta della Valsesia”, a. XX, n. 9, 2 marzo 1946.

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ALESSANDRO ORSI

Un paese in guerra

La comunità di Crevacuoretra fascismo, Resistenza, dopoguerra

2001, pp. VI-286 più tre inserti fotografici, € 20,00

La storia che questo libro racconta va diritta al cuore di un problema storiograficoattorno a cui si è sviluppata la discussione negli ultimi anni: la riflessione sulle treguerre (civile, patriottica, di classe) e l’uso della violenza (nazista, fascista, parti-giana) dopo l’8 settembre 1943.La vicenda, da cui prende le mosse il libro e con cui si chiude, l’uccisione a Creva-cuore del sindaco, partigiano comunista, da parte della donna-bambina, ha indub-biamente il fascino del dramma, ma non è l’asse del libro. È solo il filo attorno a cuisi intreccia e si annoda la vicenda di tante altre vite, di altri drammi, di altre storie diuomini e donne, di giovani e meno giovani, di partigiani e civili, di comunisti e fasci-sti che devono fare i conti con la rottura delle regole della convivenza e l’emergeredi una violenza spietata, apparentemente gratuita e azzerante.La contrapposizione amico-nemico di cui si alimenta la spirale dello scontro dentrola comunità esplode per vie apparentemente misteriose, che fanno riemergere il ri-cordo di conflitti radicali di nuovo vivi sotto la polvere del tempo.Proprio la comunità è il personaggio principale della storia, anzi delle storie raccon-tate. Detto così potrebbe sembrare un’operazione astratta: è noto che la comunitàè un concetto polivalente, adatto e spesso adattato a significati plurimi e perciòimpreciso e sfuggente. Non è così perché l’autore ha avuto ed ha ancora con quellacomunità un rapporto profondo di empatia che sola può consentire di coglierne levoci, le confidenze, le articolazioni e il senso di comportamenti apparentemente con-traddittori.

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i luoghi della memoria

l’impegno 117

Premessa

Alcune proposte dei sentieri della libertàtra basso Vercellese e colline del Po offro-no l’opportunità di recuperare fatti e storiedimenticate degli anni della seconda guerramondiale e della Resistenza, di raccoglieretestimonianze e di tramandare alle giovanigenerazioni ricordi e simboli di un tragicoperiodo storico.

Gli itinerari proposti valorizzano un terri-torio ricco di storia e di bellezze naturali-stiche, non del tutto inserito nei circuiti e-scursionistici e turistici più conosciuti, toc-cando alcuni comuni al di qua e al di là delPo: Crescentino e Saluggia, in provincia diVercelli; Moncestino e Villamiroglio, in pro-vincia di Alessandria; Brusasco e Verrua Sa-voia in provincia di Torino; Robella in pro-vincia di Asti.

I percorsi individuati sono da percorrerea piedi, in bicicletta, in mountain bike, a ca-vallo, in canoa e in auto, tra ambienti natu-rali di pianura e di collina, dove scorci pa-

noramici, borghi, architetture, cascine enuove aziende agricole, ristoranti e agritu-rismi, permettono di sostare e di riflettere.

Descrizione del territorio

Gli itinerari collegano alcuni paesi delbasso Vercellese e del Monferrato, terre ric-che di storia passata e recente e aree natu-ralistiche interessanti per la fauna e per laflora. Alcune di queste zone fanno partedell’Ecomuseo della Pietra da Cantoni1 (Ga-biano, Moncestino, Villamiroglio); il trattodel fiume Po (Crescentino, Verrua Savoia,Gabiano) rientra nel sistema delle aree pro-tette del Parco fluviale del Po alessandrino,con sede a Valenza; la Dora Baltea e il trattodel Po che lambisce Brusasco sono inseritinel Parco fluviale del Po torinese. Il territo-rio del Monferrato interessato dalla nostraindagine (da Verrua Savoia a Robella) rien-tra nel progetto “Biomonf” avviato dal Par-co naturale di Crea nel 19992.

L’area indagata offre un paesaggio ricco

ALESSANDRA CESARE - MARILENA VITTONE

I sentieri della libertà tra Po, Dora Baltea

e Monferrato

1 Località poste nell’area di affioramento dell’arenaria.2 Biomonf è un atlante informatico della biodiversità delle colline del basso Monferrato,

in cui si è individuato l’habitat naturale che ha permesso, nel corso dei secoli, la sopravvivenzain questo territorio di specie vegetali ed animali provenienti dalle zone fredde boreali (cen-troeuropea, mediterranea, pontica ed atlantica), migrate in riprese successive durante le fasidi espansione e contrazione dei periodi glaciali dell’Era quaternaria. Cfr. Camminare ilMonferrato, Casale Monferrato, Il Monferrato, 2002, p. 28.

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Alessandra Cesare - Marilena Vittone

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di forme e colori: dalle risaie del basso Ver-cellese, in cui vivono rane, aironi cinerini ecavalieri d’Italia, alle lanche del fiume Po edella Dora Baltea, con vegetazione sponta-nea di salici palustri, sambuchi, robinie, incui si possono osservare anatre, cormora-ni, falchi e poiane.

Proseguendo da Crescentino verso Ovestsi alternano campi coltivati a mais e a fagio-li con boschi di pioppeti e di acacie. La zo-na ricca d’acqua è attraversata da numero-si canali, tra cui il Cavour e il Farini, che necaratterizzano il paesaggio.

La Riserva naturale speciale dell’isolottodel Ritano, posto tra due bracci della DoraBaltea, ha origine sabbiosa e presenta unaricca vegetazione. Sita nell’area di compe-tenza del Parco fluviale del Po di Torino, gliuccelli vi nidificano e le piante rare sono sal-vaguardate.

L’isolotto del Ritano si raggiunge attraver-sando un ponte in ferro costruito su strut-tura in muratura e dotato di paratoie che ge-stiscono il flusso e regolano la portata del-le acque della Dora Baltea.

Lungo l’area protetta del corso del Po cre-scono pioppi neri, salici, farnie, ontani, incui si rifugiano garzette, nitticore, tarabusie anche nutrie. Sulla sponda destra digrada-no le pendici boscose delle colline del Mon-ferrato a cui seguono le rocche, di tufo e diargilla, sotto la frazione di Coggia, nei pres-si di Moncestino.

Il censimento di alcune emergenze stori-che, che qui si propone, riguarda itinerariche mantengono un significativo richiamoculturale, ma che con il fisiologico affievolirsidella tradizione orale rischiano di caderenell’oblio.

Il periodo resistenziale

Nei primi mesi del 1944, nei piccoli centridella pianura vercellese e sulle colline delPo, la maggioranza dei giovani in età di leva,che la Repubblica di Salò avrebbe voluto trale sue fila, decisero di diventare “ribelli” ecombattere i nazifascisti. Andarono così adingrossare le bande partigiane, che timi-damente avevano incominciato a costituir-si in alcune località del basso Monferrato3.

Il Monferrato, anche se lontano dalla lineadel fronte, offriva ripari ed anfratti naturalie soprattutto il sostegno della popolazionelocale, che aiutava materialmente e creavauna rete di solidarietà ai gruppi di “ribelli”,ancora molto frammentati sul territorio.

La VII divisione autonoma “Monferrato”,con distaccamenti sparsi nei piccoli centricollinari e nei cascinali, si organizzò stabil-mente a Cocconato (At), dispose di una bendefinita struttura militare e, a volte, si accor-dò con altre formazioni partigiane lì costitui-tesi o trasferite a seguito dell’inasprirsi deirastrellamenti: “Matteotti”, “Giustizia e Li-bertà”, l’XI divisione autonoma “Patria”, la19a brigata “Garibaldi”.

L’area venne ad assumere un’importanzastrategica rilevante: una base per azioni didisturbo delle vie di comunicazione dellecittà vicine e per il sabotaggio delle linee dispostamento del nemico, con rapide punta-te in caserme, magazzini, depositi avversarie sui ponti del Po, della Dora Baltea e delcanale Cavour, nonché su strade e ferrovie.

Carlo Gabriele Cotta, il comandante “Ga-briele”, coadiuvato dai comandanti dei bat-taglioni, guidava con decisione e respon-sabilità quattro brigate e alcuni distacca-

3 Cfr. ENRICO PAGANO, Partigianato e società civile nel Basso Vercellese, in Atti delconvegno storico “Terre sul Po dal Medioevo alla Resistenza”, Crescentino, 2-3 ottobre1998, Crescentino, Amici della Biblioteca, 2002.

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I sentieri della libertà tra Po, Dora Baltea e Monferrato

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menti, in tutto millecinquecento uomini, cheebbero un ruolo importante nella liberazio-ne di Torino il 26 aprile del ’45.

L’importanza assunta dalla formazione èattestata dalle spedizioni punitive operatecon notevole spiegamento di forze da partedi reparti della Rsi e tedeschi e dai massiccirastrellamenti, a partire dalla fine di ottobredel ’44 fino al marzo ’45, che si ripeteronoperiodicamente con devastazioni ed esecu-zioni sommarie.

Da segnalare la mediazione di autorevolipersonalità locali e l’aiuto di generosi sacer-doti: don Giuseppe Bolla a Moncalvo; donFrancesco Finazzi, medaglia d’argento al va-lor militare, a Zanco; don Ernesto Camurati,a Villadeati, ucciso con altri nove parrocchia-ni il 9 ottobre 1944 e il parroco Giuseppe Rai-teri, di Brusasco, che si prodigò per la libe-razione di ragazzi in età di leva destinati al-l’internamento nei Lager.

Dopo il proclama Alexander e le pesantirappresaglie militari sulle montagne biellesie della Valsesia, scesero in Monferrato altreformazioni: la 109a brigata, inquadrata nellaXII divisione Garibaldi “Nedo”, portatasidal Biellese orientale a Cocconato e a Oda-lengo, i primi giorni di gennaio del ’45 e, amarzo, la 105a brigata autonoma “Perotti”.

Dopo gli incontri di Gabriele con “Barba-to” (Pompeo Colajanni), la VII divisione au-tonoma “Monferrato” entrò a far parte del-la VIII zona partigiana, punta di lancia perla liberazione di Torino4.

Alcune città del Vercellese e delle collinedel Po in quei giorni d’aprile furono raggiun-te dagli autonomi che, insieme ad altre for-mazioni, contribuirono alla loro liberazione:Vercelli, Casale Monferrato, Trino, Chivas-so, Alessandria.

La bandiera della VII divisione “Monfer-rato” è ora conservata presso il museo delRisorgimento di Torino.

Itinerario 1. Crescentino

Descrizione dell’itinerarioÈ un percorso cittadino, che si può com-

piere a piedi, con tappa ai locali dell’Archi-vio storico. Si parte da piazza IX martiri (luo-go dell’eccidio del ’44), dove una lapide ri-corda la rappresaglia ai civili e, percorren-do il viale, dopo aver incontrato il monumen-to marmoreo in ricordo dei caduti di tutte leguerre e altri cippi commemorativi, si pro-segue fino alla sede dell’Archivio storico,nell’antico palazzo dei padri Filippini (casaparrocchiale).

Superati poi piazza Vische e il centro so-ciale “Lidia Fontana”, partigiana nelle vallidi Lanzo, si può continuare a piedi (20’) o inbicicletta (10’) in direzione del ponte del Po,dove si incontra un’altra lapide che ricordalo scontro a fuoco del 31 marzo ’44, in cuiperse la vita Clemente Rulfo, commissariopolitico della 17a brigata Garibaldi “FeliceCima”.

Un’alternativa è continuare, una voltagiunti al centro sociale, in direzione del san-tuario della Madonna del Palazzo, che distacirca un chilometro dal centro abitato.

Il periodo resistenziale

A Crescentino, nell’autunno del ’43, alcu-ni sfollati da Torino e militanti dei partitipresero contatti con il Cln del capoluogo re-gionale per proteggere soldati sbandati, mi-litari alleati fuggiti dai campi di prigionia delVercellese e per nascondere i giovani in etàdi leva, chiamati alle armi dalla Rsi.

4 Cfr. MASSIMO DE LEONARDIS, Monferrato, in AA. VV, L’insurrezione in Piemonte, Milano,Franco Angeli, 1987, pp. 423-445.

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Alessandra Cesare - Marilena Vittone

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Tra gli episodi più importanti, ricordiamoi rastrellamenti dell’estate del ’44 e l’eccidiodei nove martiri alla stazione, l’8 settembre’44, in cui alcune persone, perlopiù legatealla Resistenza, furono uccise per rappresa-glia dai militi nazifascisti5.

L’incendio del 19 settembre di numerosecase, il conseguente saccheggio da parte diunità naziste, e il grande rastrellamento au-tunnale sulle colline, effettuato da reparti te-deschi e repubblicani contro i partigiani del-la divisione autonoma “Monferrato”, por-tarono disorientamento e disperazione nel-la comunità.

Il primo partigiano del gruppo crescenti-nese, ferito gravemente nella battaglia diMarcorengo, il 25 settembre ’44, fu TinoDappiano, che morì al Bolacco di Verrua Sa-voia. Qui, nei cascinali, vi era il quartier ge-nerale e anche un presidio sanitario. I gio-vani della città confluirono in seguito nella2a brigata della “Monferrato”, guidata daSergio Cotta, che fu la formazione più nume-rosa ed addestrata ad atti di sabotaggio sul-le vie di comunicazione circostanti: sullaTorino-Milano; sulla Torino-Casale Monfer-rato; sulla statale della valle Cerrina.

A Crescentino nacque la partigiana LidiaFontana, figura di antifascista combattente.Staffetta della 47a brigata “Garibaldi”, fu ar-restata in valle di Lanzo, restò ferita grave-mente e fu resa invalida dalle torture subite6.

Nei venti mesi della guerra di liberazione,si segnalarono: don Giuseppe Bianco, par-roco di San Grisante, che protesse e offrì ri-fugio ad alcuni ebrei sfollati da Casale Mon-ferrato, e don Mario Casalvolone, vice par-roco, che fece parte del Cln locale e aiutò igiovani in età di leva.

Itinerario 2. Crescentino-Saluggia

Descrizione dell’itinerario

A Saluggia si arriva in bicicletta in 45’ (inauto in 15’) percorrendo la strada provin-ciale e passando dalle frazioni Campagna eCerrone (luogo di aviolanci).

Punto di incontro è la piazza del Comune,dove si trova palazzo Pastoris, sede del mu-nicipio. Sempre nella piazza centrale, il castel-lo Mazzetti è ciò che resta dell’antico ricet-to, che comprendeva l’intero centro sto-ri-co del paese; nei pressi altri edifici civili, di-more della borghesia ottocentesca, palazzoAppiani, casa Farini e casa Faldella, proprie-tà un tempo dello scrittore scapigliato e at-tuale sede dell’Archivio storico comunale.

Dirigendosi verso Crescentino e attraver-sato il ponte in ferro sulla Dora Baltea, sigiunge nell’area naturalistica dell’isolottodel Ritano, dove sorgeva la colonia eliote-rapica costruita nel ventennio, di cui è visi-bile, nel letto del fiume, dopo l’ultima allu-vione, l’impianto delle docce.

Un itinerario alternativo e suggestivo sipuò percorrere partendo dalla piazza GalileoFerraris, imboccando via Carlo Farini e con-tinuando sino al ponte in muratura sul ca-nale del Rotto.

Proseguendo dritti dove la strada si bifor-ca, si raggiungono il Molino e i campi, dopoaver attraversato un ponte da cui si gode diun bello scorcio sulla campagna.

Il periodo resistenziale

A Saluggia il ponte ferroviario (linea To-rino-Milano) sulla Dora Baltea fu teatro didiverse imboscate tra repubblicani e parti-giani e di sabotaggi ai binari.

5 Cfr. MARILENA VITTONE, E le chiamavano rappresaglie, in “l’impegno”, a. XXIII, n. 1,giugno 2003.

6 Si veda la biografia di Lidia Fontana in ANNA MARIA BRUZZONE - RACHELE FARINA (a curadi), La Resistenza taciuta, Milano, La Pietra, 1976.

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I sentieri della libertà tra Po, Dora Baltea e Monferrato

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Una battaglia tra camicie nere e una bri-gata della “Monferrato”, con l’aiuto della di-visione autonoma “Perotti”, avvenne neipressi della casa di riposo, trasformata incaserma dalla Gnr, il 23 marzo del ’45.

Nelle prigioni comunali, il 6 gennaio del’45, fu rinchiuso il partigiano Armando Or-lando, fuggito dalla milizia repubblicana edentrato nelle bande partigiane della 42a bri-gata della XI divisione “Patria”, che agivain Monferrato. Catturato in seguito a unadelazione, venne fucilato con altri partigia-ni presso il cimitero di Biliemme a Vercelli, il5 febbraio ’45.

La via principale dell’abitato è dedicata aVittorio Lusani, vice comandante della 42a

brigata, che operava nell’Alessandrino econ distaccamenti a Moncestino e in valCerrina. Lusani venne arrestato a Villamiro-glio il 31 gennaio ’45. Portato a Casale Mon-ferrato, fu ucciso a Tortona, il 27 febbraio.

Itinerario 3. Crescentino-Verrua Savoia7

Descrizione dell’itinerario

Percorrendo il ponte sul Po si giunge sottola rocca di Verrua Savoia, punto di osserva-zione e di installazione della radio partigia-na della divisione autonoma “Monferrato”.

Il ponte durante la guerra ebbe un’impor-tanza strategica poiché permise le incursio-ni dei partigiani in pianura e servì per loscambio degli ostaggi durante tutto il 1944.

Attraversato il ponte, ci si ritrova sullasponda destra del fiume, sotto la storica for-tezza sabauda e nei pressi dell’antico pon-te del Soccorso.

Proseguendo in bicicletta, o in auto, sul-la provinciale per Gabiano, si raggiunge, tra

pioppeti e coltivazioni ortofrutticole, Sulpia-no (5 km; 30’ in bicicletta e 10’ in auto).

Da Sulpiano di Verrua Savoia si può pro-seguire verso la frazione Caservalle (Bolac-co) a 5 km e raggiungere la cascina del Bo-lacco, dove si trovano, ricoperti dalla vege-tazione, i resti del primo campo partigianodei giovani crescentinesi.

Un altro sentiero, percorribile in mountain

bike in circa 3 h, porta dalla frazione Cervo-to a Scandolera e da Collegna a Borgata Va-lentino.

A Collegna ebbe sede il 5o battaglione del-la “Monferrato” (guidato da Antonio Ber-goglio “Gigi”) che, preso poi il nome di “Ma-rio Brusa”, partì alla volta della liberazionedi Torino.

Il periodo resistenziale

A Verrua Savoia, all’inizio del settembre’44, si trasferì il gruppo partigiano crescenti-nese, che allestì un vero e proprio campoben attrezzato con Carlo Nasi e altri giovanichiamati alle armi dalla Rsi. Dopo i grandirastrellamenti si spostò verso Cocconato efu organizzato nella 2a brigata della “Mon-ferrato”.

A Sulpiano, una figura importante era ilparroco don Giovanni Balossino8, nella cuichiesa si riunirono i partigiani di Gabriele.Fu coinvolto nello scambio degli ostaggicrescentinesi (nel settembre ’44) ed impe-gnato in prima persona a mediare tra repub-blicani, Ss e partigiani; a proteggere i giova-ni del posto; a recarsi in altre città a trattareil rilascio di civili; a confortare i parrocchia-ni bisognosi. Nelle baracche in collina trova-rono rifugio e aiuto alcuni prigionieri allea-ti, tanto che nel dopoguerra gli inglesi rico-

7 Comprende altri “percorsi della memoria” in alcune frazioni di Verrua Savoia (Caservalle,Cervoto, Scandolera, Collegna, Borgata Valentino).

8 Interessanti informazioni sono rintracciabili in GIOVANNI BALOSSINO, A che serve un prete,Novara, Tipografia San Gaudenzio, 1947.

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nosceranno la solidarietà dei verruesi conattestati e rimborsi.

Un rastrellamento, avvenuto il 3 ottobre1944 a Sulpiano, si concluse con la depor-tazione nei Lager di alcuni giovani del po-sto. Le incursioni dei tedeschi e dei fascisticontinuarono fino in primavera.

Tramite fra la 2a brigata e il Comando mi-litare regionale piemontese, fu il professorCesare Rotta, importante personalità dellaResistenza.

Itinerario 4. Crescentino-Moncestino9

Descrizione dell’itinerario

Da Crescentino si giunge a Moncestino,raggiungendo il pianoro su cui si affacciaPalazzo Giustiniani, sede del municipio inpiazza Marconi.

Andando verso la frazione di Seminenga,si raggiunge la strada della Valletta, da cuisi sale e si svolta in direzione di Fravagnano,frazione di Verrua Savoia.

Raggiunta la piccola chiesa intitolata asanta Lucia, si sale tra i frutteti, e si proseguesu uno stretto sentiero sterrato che condu-ce all’interno del bosco. Si giunge così incima al colle, da dove la vista è suggestiva:la rocca di Verrua Savoia, a picco sul Po e lefrazioni di Sulpiano e di Camorano.

Infine si arriva alla rocca di Coggia, da cuisi possono ammirare i paesi posti sulla spon-da sinistra del fiume e, lungo la strada pa-noramica, si giunge a Coggietta. Si incon-tra, dapprima, il tempietto votivo di san Se-bastiano e san Rocco, poi si prosegue, sa-lendo a sinistra fino a Moncestino.

Il periodo resistenziale

Nella frazione di Coggia erano poste letrincee del 3o battaglione “Tino Dappiano”

della 2a brigata della “Monferrato”, i depo-siti di armi e altri mezzi. Qui, nel novembredel 1944, forze nemiche provenienti dal pon-te di Crescentino e dal ponte di Trino avan-zarono in formazioni da combattimento. Ipartigiani e i civili furono sottoposti al fuo-co dei mortai per molti giorni; si combattè aGabiano, a Cantavenna, alla rocca di Verrua.Gabriele guidò direttamente le azioni a Cog-gia e a Moncestino dove, dopo alcune gior-nate di fuoco, il pericolo aumentò di inten-sità, con incendi di case contadine e feriti.

Quel terribile inverno fu superato con ilriordino dei reparti più provati nel combatti-mento, l’occultamento del materiale e degliautomezzi e il frazionamento della brigata inzone più arretrate.

Tra Murisengo, Moncestino e Villamiro-glio vi erano le formazioni autonome di Ga-briele, ma anche la 42a brigata della divisio-ne “Patria” di Vittorio Lusani di Saluggia.

Itinerario 5. Crescentino-Vallegiolitti

Descrizione dell’itinerario

Da Crescentino si imbocca la strada cheporta a Gabiano e all’incrocio, posto in loca-lità Piagera, si svolta verso la frazione di Val-legiolitti.

Punto di partenza del percorso è la piazzaantistante la chiesa di Santo Stefano.

La frazione fu la patria dei celebri stampa-tori cinquecenteschi Giolito de’ Ferrari , aiquali si devono pregevoli edizioni.

Il paese è un piccolo borgo circondato dacampi e prati. Attraversandolo e seguendola strada verso la cascina Castellaro, si giun-ge al mulino del Conte (1787) e si proseguepoi in direzione delle cascine Monterizzoloe Dovese.

Raggiunto su un’altura il borgo di Monte-

9 “Sulle strade della Resistenza”, percorso ideato e realizzato da Anna Maria Bruno, 25aprile 2002. Pubblicato in Camminare il Monferrato, cit., p. 28.

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I sentieri della libertà tra Po, Dora Baltea e Monferrato

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rizzolo, da cui si gode di una bella vista sullapiana sottostante, si può ridiscendere sinoalla cascina Dovese e proseguire fino a giun-gere alle prime case di Vallegiolitti.

Il periodo resistenzialeA Vallegiolitti è interessante l’Archivio

parrocchiale: il liber chronicus del parrocodon Acuto mostra il suo ruolo di interlocu-tore tra i capi partigiani, le autorità nazifa-sciste e monsignor Angrisani, vescovo diCasale Monferrato nel periodo 1943-45.

Tra le carte dell’Archivio comunale è con-servata una lettera autografa di Mario Brusa“Nando”, partigiano nelle valli di Lanzo epoi in Monferrato. Impegnato in varie azionibelliche, partì da questa frazione per una dif-ficile missione nella piana Vercellese. Vennefucilato a Livorno Ferraris il 30 marzo 1945.

Vallegiolitti fu un luogo strategico duran-te la lotta di liberazione. Tra gli avvenimentiche ne segnano la storia ricordiamo la con-vocazione, da parte del vescovo Angrisani,di Gabriele e di altri comandanti della 2a bri-gata per trattare la liberazione di quarantamilitari repubblicani, catturati l’11 novembre’44 ad Ozzano, che si concluse senza alcu-na ripercussione sulla popolazione civile.

Itinerario 6. Crescentino-Villamiroglio

Da Crescentino si giunge a Villamiroglio,dopo aver percorso 11 km.

La partenza dell’itinerario avviene dallachiesa di San Michele, vicino al cimitero, inlocalità Montanaro. Da qui si dipartono piùpercorsi naturalistici, uno dei quali sale almonte Croce (396 m), dove è installata unavasca dell’acquedotto del Monferrato.

Dove il bosco si dirada è possibile vede-re i paesi sottostanti, appartenenti a tre pro-vince (Cortiglione di Robella, Brozolo, Cor-

teranzo, frazione di Murisengo e, oltre, Oda-lengo Grande). Superato il rio Marca chescorre a sinistra, si imbocca la valle detta“Ciappera” a causa dei grossi frammenti diarenaria che si trovano nei campi.

Spostandosi a destra verso Vallegiolitti,si prosegue verso la cascina Pilie e, oltrepas-satala, si costeggiano le ultime abitazioni diCa di Maine e poi di Mezzano.

Lasciando l’abitato di Vallegiolitti si saleverso la cascina Palazzolo e, dopo aver ol-trepassato le case Bertola, si ritorna all’anti-co borgo di Villamiroglio.

Il periodo resistenziale

Nei boschi di Monte Croce, tra Villamiro-glio e Odalengo Grande, aveva sede un grup-po autonomo, composto da ex ufficiali edex soldati, provenienti dalla divisione “Ju-lia”, che confluirono poi nella 41a brigata “ValCerrina” della divisione autonoma “Patria”,guidata da Edoardo Martino “Malerba”10.

Interessanti sono i ruderi di casa Monta-gnino, che a metà del mese di novembre del’44 divenne una prigione di guerra con ven-ticinque prigionieri (dodici tedeschi e tredi-ci repubblicani) catturati nei combattimentidi novembre e nei rastrellamenti concentri-ci contro la divisione autonoma “Monferra-to” di Gabriele.

Monte Croce è il luogo in cui si decise losganciamento dei gruppi partigiani e il na-scondiglio degli armamenti per resistere alpesante attacco nazifascista che si protras-se per mesi alla fine del 1944.

Itinerario 7. Crescentino-Robella d’A-sti-Cortiglione

Descrizione dell’itinerario

Da Crescentino ci si dirige a Cavagnolo esi prosegue in direzione di Cocconato. Si

10 Cfr. GIAMPAOLO PANSA, Guerra partigiana tra Genova e Po, Roma-Bari, Laterza, 1998.

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Alessandra Cesare - Marilena Vittone

124 l’impegno

continua per il fondovalle dello Stura fin do-ve la strada asfaltata comincia a salire. Al bi-vio, da una parte si può proseguire per Corti-glione o per Robella.

Robella “bisogna conquistarsela”. L’abi-tato si trova in cima ad una collina. Un’ar-dua salita porta al paese, posto a 428 m. Alterritorio di Robella appartengono una seriedi colline, su cui sono ubicate, oltre al “ca-poluogo”, anche la principale frazione, Cor-tiglione.

In cima al colle sorge il castello, con unacaratteristica specola, abitazione dei contiCotta, nel cui salone d’ingresso è espostala bandiera blu della divisione “Monferra-to”, con l’eloquente motto: “Tuca pa ’l Mun-

frà” (“Non toccare il Monferrato”).Lasciata “la sentinella del Monferrato”, si

raggiunge sulla strada asfaltata Cortiglione.A sinistra, sulla sommità del colle, si puòvisitare la chiesa di Sant’Eusebio.

Il periodo resistenzialeA Robella d’Asti, dopo l’8 settembre, i

conti Gabriele Cotta e Sergio, ufficiali del-l’esercito regio, insieme a Luigi Radicati diBrozolo, che svolse un ruolo di collegamen-to con le missioni alleate sino alla liberazio-ne di Torino, presero contatti con il Cln diTorino per organizzare un gruppo armato eper ottenere aviolanci da parte dell’organiz-zazione “Franchi”.

Il 3 luglio 1944 fu effettuato nei prati diBrozolo un lancio di armi e materiali vari.Nell’agosto del ’44 reparti di Ss e Gnr dotatidi mortai e autoblindo investirono la zona,prendendo in ostaggio i familiari dei Cottae dei Radicati.

Qui si costituì la 2a brigata della divisioneautonoma “Monferrato”, guidata da Sergio,che si segnalò per organizzazione, capacitàdi azione e coraggio; inoltre non mancaro-no un reparto di polizia partigiana e un ser-vizio di intendenza.

Itinerario 8. Crescentino-Brusasco

Descrizione dell’itinerario

Da Crescentino si prosegue per 7 km sul-la strada asfaltata che si sviluppa ai piedidelle colline.

Proseguendo sulla strada alberata, si giun-ge a Brusasco, antico feudo dei marchesi diIvrea prima e dei vescovi di Vercelli poi.

Sulla piazza San Pietro, con al centro il mo-numento ai Caduti, si affaccia la chiesa par-rocchiale, intitolata ai santi Pietro e Paolo.

Lasciata alle spalle la piazza, si proseguelungo la via principale fino all’altra piazzadel paese, dominata dal settecentesco Pa-lazzo Ellena Campini.

Caratteristica è la parte alta del territoriodi Brusasco, ancora oggi costituita da unacinta muraria, in cui due porte, quella del Ce-none e quella di San Sebastiano, permetto-no l’accesso al “luogo del Recinto del Luo-go”, come è chiamata questa zona.

Uscendo dal paese e riprendendo la stradaprincipale, si giunge a Cavagnolo. Un tem-po i due comuni erano uniti e lo ricorda lastazione ferroviaria di Cavagnolo-Brusa-sco, posta nel Comune di Cavagnolo.

Il periodo resistenzialeBrusasco fu uno dei primi centri della zona

in cui si organizzò la Resistenza, con RenzoVay e Giovanni Carpegna “Guerrino”, co-mandante del distaccamento della “Monfer-rato” posto in frazione Luogo.

I partigiani si spostavano nel Chivassesee nel Vercellese, compiendo sabotaggi sullelinee di comunicazione più importanti, tra cuil’autostrada Torino-Milano. Presidiarono ilponte del Po, in direzione di Crescentino,per controllare una vasta zona e stabilironoimprovvisi posti di blocco sulle strade del-la pianura per il vettovagliamento, il prele-vamento di armi, per liberare ostaggi e poirientrare velocemente al campo base, spes-

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I sentieri della libertà tra Po, Dora Baltea e Monferrato

a. XXIV, n. s., n. 1, giugno 2004 125

so con prigionieri11 da usare per gli scambi.Il 25 settembre ’44, nella battaglia di Mar-

corengo, in zona Mogol, i partigiani attac-carono una colonna della X Mas che avevacatturato numerosi civili a seguito di un ra-strellamento e li liberarono.

Nel terribile rastrellamento del 16 novem-bre 1944, nei pressi dell’abitato di Brusasco,fu ucciso il partigiano “Kiki” (Enrico Tumi-no).

Nella primavera del ’45 il distaccamento

11 RENATO BORELLO - SERGIO COTTA - RENZO VAJ (a cura di), Noi della Monferrato. La 7a

divisione autonoma Monferrato nella Resistenza piemontese, Torino, Autonomi editore,1986, p. 34.

di Brusasco-Cavagnolo si divise nei batta-glioni “Perotto” e “Brusa”, che il 25 aprileliberarono Chieri ed il 26 entrarono in Tori-no, segnalandosi per gli attacchi alle caser-me.

Nello scontro di Cavagnolo, il 13 marzo1945, vennero distrutti sette vagoni carichidi motori di aviazione, e a Brusasco, il 26marzo, furono messe in fuga le truppe nazi-fasciste che avevano requisito il bestiameai contadini.

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ALBERTO LOVATTO (a cura di)

Partigiani a colori

nelle diapositive di Carlo Buratti

Con scritti di Pierangelo Cavanna, Alberto Lovatto, Luigi Moranino

2000, pp. 128, € 18,00

Il catalogo della mostra dedicata alle diapositive a colori realizzate da Carlo Buratti,

nel 1944 e 1945, fra i partigiani biellesi, è uno straordinario diario di vita partigiana

a colori. Le quasi centocinquanta immagini (nella maggior parte riprodotte nel cata-

logo), scattate eccezionalmente con pellicola diapositiva a colori Agfa (caso prati-

camente unico nella fotografia resistenziale in Italia), costituiscono una serie signi-

ficativa ed importante di documenti visivi della vita partigiana e delle manifestazio-

ni partigiane del mese di maggio 1945.

Carlo Buratti, medico di professione, era in montagna per fare il partigiano ed aveva

compiti importanti nel quadro della organizzazione della 2a brigata Garibaldi: alla

fotografia dedicò i momenti liberi dagli impegni militari.

Fra i soggetti, nelle diapositive scattate durante il periodo resistenziale prevalgono

i singoli partigiani o i gruppi di partigiani in posa, anche se domina spontaneità e

informalità nelle posizioni e negli atteggiamenti. Vi sono poi immagini di vita quoti-

diana scattate durante i pranzi, le conversazioni o le occasioni di riposo. Non man-

cano le diapositive di attività partigiana, anche se mai sono ritratte azioni militari.

Molte sono anche le immagini di paesaggi, di luoghi, di alpeggi: segno di una forte

passione per la montagna che per Carlo Buratti, come per molti partigiani, aveva

radici che andavano oltre l’esperienza resistenziale.

Grazie al contributo di Luigi Moranino, è stato possibile schedare le immagini, rico-

noscendo la maggior parte delle persone ritratte, arricchendo e completando la si-

gnificatività documentaria del fondo.

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attività dell’Istituto

l’impegno 127

Convegno “Guerra e mass media 2. Da Desert

Storm a Enduring Freedom”

La tematica del rapporto tra guerra e mass

media viene sentita, nell’opinione dell’uo-

mo della strada, come strettamente legata

all’attualità, ossia come un fenomeno recen-

te legato da una parte alla (apparente) acce-

lerazione della storia successiva ai fatti

dell’11 settembre, dall’altra alla sempre cre-

scente invasività della televisione nelle vite

dei privati cittadini.

In realtà, i due convegni organizzati dal-

l’Istituto, il primo nel 1991, e questo, del 2003,

che ha preso in esame gli avvenimenti suc-

cessivi alla guerra del Golfo, dall’Afghani-

stan all’invasione dell’Iraq, hanno ribadito

che il problema della “comunicazione” del-

la guerra ha lunghe radici storiche e che solo

tenendo conto di ciò si riescono ad apprez-

zare correttamente le evoluzioni e i mutamen-

ti in esso intervenuti. La cosa è tanto più

importante in quanto le due iniziative sono

state pensate ed attuate come rivolte soprat-

tutto agli studenti delle scuole superiori che,

come è noto, sono le “cavie” preferite dal

sistema moderno di gestione delle informa-

zioni.

Il punto focale, desumibile dall’insieme

degli interventi di Edoardo Tortarolo, Mim-

mo Candito, Oliviero Bergamini, Claudio Ca-

nal, Maurizio Vaudagna e Giacomo Ferrari

(docenti universitari e giornalisti con espe-

rienza in zone di guerra), è rintracciabile so-

stanzialmente nell’evoluzione delle tecniche

della censura e della propaganda. Come è

noto, la prima mira ad impedire che certe

notizie, sostanzialmente vere, filtrino e arri-

vino alla pubblica opinione del paese impe-

gnato in un conflitto; la propaganda inve-

ce, con un meccanismo contrario e comple-

mentare alla censura, promuove, attraverso

un meccanismo di manipolazione più o me-

no grave, al rango di incontrovertibili “ve-

rità” fatti e opinioni legati all’andamento

bellico e al comportamento del governo in

tali circostanze.

Questi due strumenti sono nati contestual-

mente all’affermazione dei primi media ve-

ramente di massa, ossia i giornali stampati

a larga diffusione; allo stesso modo, nel me-

desimo periodo, ebbe origine il caratteristi-

co rapporto dialettico tra l’inviato di guerra

e il potere politico; rapporto che fu sempre

conflittuale, se veniva soddisfatta la condi-

zione che l’inviato osservasse esclusiva-

mente la propria etica professionale, carat-

terizzata dall’accertamento quanto più scru-

poloso dei fatti al servizio dei propri lettori.

Come è noto, l’avvento della televisione

non cambiò sostanzialmente questo stato di

cose (se non per la differenza di linguaggi

imposta dal passaggio dalla parola scritta

all’immagine in movimento) fino al momen-

to in cui il potere politico non tirò le somme

del conflitto vietnamita, a metà degli anni

settanta. La consapevolezza che le immagi-

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attività dell’Istituto

128 l’impegno

ni provenienti dalle giungle asiatiche aveva-

no costituito un potente moltiplicatore del-

l’opposizione alla guerra da parte dell’opi-

nione pubblica americana, indusse i decisori

politici, prima americani e poi in genere oc-

cidentali, a modificare profondamente il pro-

prio approccio alla comunicazione di massa

in caso di conflitto. L’era della libertà con-

cessa alla televisione di dire e mostrare qual-

siasi cosa era finita.

La prima carta giocata fu quella della cen-

sura applicata in modo pesante: durante il

conflitto per la riconquista delle isole Falk-

lands, i corrispondenti inglesi al seguito

della forza di spedizione britannica si rese-

ro conto di godere di minore autonomia dei

loro colleghi argentini, che pure dovevano

dar conto ad una dittatura militare. Una ulte-

riore evoluzione si ebbe in occasione del

primo conflitto nel Golfo Persico del 1991.

Si impose l’idea che fosse la “prima guerra

vista in diretta”: in realtà il diluvio di imma-

gini che riempirono i teleschermi occiden-

tali era composto o da immagini di reperto-

rio tratte da altri contesti geografici e tem-

porali (il famoso cormorano intriso di petro-

lio) o da video trasmessi talmente tante volte

da diventare perfino surreali (quante volte

abbiamo visto il cielo di Baghdad illumina-

to dalla contraerea?). Al contrario, le vere

immagini della guerra, come la strage dei sol-

dati iracheni in fuga nel deserto, non furono

mai viste.

La guerra contro il terrorismo, originata

dai fatti del 2001, ha visto ulteriori connota-

zioni nella politica informativa come è stato

fatto rimarcare, durante il convegno, soprat-

tutto negli interventi dei relatori Bergamini,

Candito e Vaudagna. Si è cioè definitiva-

mente imposto il cosiddetto newsmanage-

ment, cioè la gestione delle notizie. Esso si

basa su alcuni assunti fondamentali: la

quantità di informazioni riversate verso i

giornalisti da parte delle strutture a ciò de-

putate delle forze armate e della burocrazia

di potere è enorme; il tempo dedicato alla

diffusione delle notizie da parte delle tele-

visioni copre l’intero arco della giornata. Il

risultato è che il giornalista si trova schiac-

ciato da una tenaglia: deve soddisfare, su

richiesta della propria redazione, esigenze

continue di “esserci” e, d’altra parte, non

può sfuggire al continuo flusso informativo

che gli arriva dall’autorità. Vengono così ad

essere sacrificati fattori essenziali della sua

professione: possibilità, in termini di tempo

e mezzi, di verifica della notizia, capacità di

preparare autonomamente servizi, intervi-

ste, ecc. La conseguenza finale è che quel

che conta è la velocità del messaggio, la sua

tempestività e ridondanza piuttosto che il

reale contenuto; cosa ancora più grave, la

sua capacità di stupire e fascinare il tele-

spettatore che deve essere tenuto incollato

a quel particolare canale, pena la diminuzio-

ne dei flussi pubblicitari, vera linfa vitale

delle televisioni moderne. L’informazione sta

sempre più diventando, in questo modo, un

bene di consumo invece che un prodotto

della cultura e dell’intelligenza umana.

Come è stato fatto rilevare, peraltro, il news

management non ha abolito le tradizionali

forme di censura e propaganda, ma le ha si-

nergicamente rimodellate sui propri parame-

tri; così la cerimonia dell’abbattimento del-

la statua del dittatore iracheno, ripresa in

campo stretto onde non far vedere la scar-

sa affluenza di civili esultanti (una tecnica

vecchia almeno quanto la fotografia di guer-

ra), è stata trasformata in asfissiante hap-

pening passato centinaia di volte in tutte le

televisioni del mondo; idem dicasi per la li-

berazione della soldatessa americana “pri-

gioniera” degli iracheni, falsa almeno quan-

to un reality show.

Da quanto detto si può comprendere co-

me il tono generale del convegno sia stato

alquanto preoccupato in merito alla possi-

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Convegno “Guerra e mass media 2. Da Desert Storm a Enduring Freedom”

a. XXIV, n. s., n. 1, giugno 2004 129

bilità, per il cittadino bersaglio delle tecni-

che informative contemporanee, di mante-

nere la propria autonomia critica, uno dei

fondamenti del sistema democratico. A par-

ziale consolazione, negli interventi di Ferra-

ri, Canal e Candito, è stata citata la poten-

zialità di Internet e della telefonia portatile a

costituirsi quali strumenti alternativi di con-

tro-potere informativo. Potenzialità già in

parte concretizzatasi in numerose occasioni;

il problema è però che l’uso di questi stru-

menti alternativi di informazione non gode

dell’apporto della professionalità dei gior-

nalisti veri e propri, ma può contare solo sul-

la buona volontà e la capacità di rischiare

dell’uomo della strada.

Paolo Ceola

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CESARE BERMANI

Pagine di guerriglia

L’esperienza dei garibaldini della Valsesia

vol. I (riedizione), 2000, in due tomi, pp. XLIII-556, € 19,00; vol. II, 1995,

pp. XXXVI-299, € 20,00; vol. III, 1996, pp. 369, € 20,00; vol. IV (in-

dici dei nomi e delle fonti), 2000, pp. 110, € 5,00

Ricerca di microstoria sui garibaldini della Valsesia, “Pagine di guerriglia” - che è un

tentativo di lanciare un ponte tra ricerca storica e ricerca antropologica - affrontò

nel 1971, anno di pubblicazione del primo volume, per la prima volta in modo critico

l’uso della fonte orale in ricerche sul campo condotte in Italia (circa duecento testi-

moni lungamente registrati), mettendo altresì a frutto l’Archivio del Raggruppa-

mento divisioni “Garibaldi” della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, rimasto presso-

ché integro (si può stimare che almeno l’80-90 per cento dei documenti sia giunto

sino a noi; e anche di più per ciò che riguarda la I divisione valsesiana).

Il racconto delle vicende dell’82a brigata “Osella” è il filo conduttore di un discorso

che mira a rendere il lettore consapevole del funzionamento dell’intera macchina da

guerra via via messa a punto dai garibaldini valsesiani e delle peculiarità avute da

quest’esperienza rispetto ad altre piemontesi ed italiane.

La cruda narrazione degli avvenimenti, propri di una vicenda che l’autore - in con-

sonanza con la più aggiornata storiografia europea - considera non solo guerra

contro l’occupante tedesco, ma anche guerra civile contro il fascismo (nato, non

dimentichiamolo, in Italia e consolidatosi attraverso una guerra civile sin dagli anni

venti), lotta ideologica contro nazismo e fascismo e anche lotta di liberazione socia-

le (di classe), fa di questa ricerca l’antesignana di una storiografia scevra da fini

apologetici.

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lutti

l’impegno 131

I nostri lutti

l’impegno negli enti locali: sindaco di Cre-

vacuore fino al 1978, consigliere provincia-

le fino al 1980, assessore comunale di Ailo-

che dal 1980 al 1990.

Dal 1980 svolse con passione la mansio-

ne di archivista del Centro di documenta-

zione della Cgil di Biella.

Cultore della storia della Resistenza e del

movimento politico e sindacale, coautore di

“60 anni di vita della Federazione biellese e

valsesiana del Pci attraverso i suoi congres-

si”, collaborò all’“Enciclopedia dell’antifa-

scismo e della Resistenza”, a vari periodici

locali - tra cui “Baita” - e a periodici nazio-

nali di associazioni partigiane. Fu anche di-

rigente provinciale dell’Anpi.

Collaboratore dell’Istituto dalla fondazio-

ne, dal 1996 ricopriva anche l’incarico di re-

visore dei conti.

Angelo Togna “Ginepro”

Il 19 aprile è deceduto Angelo Togna, fi-

gura di spicco della Resistenza e del mondo

sindacale e politico.

Nato a Flecchia (Pray) il 24 maggio 1923,

risiedeva a Guardabosone.

Operaio tessile, durante la Resistenza,

con il nome di battaglia di “Ginepro”, era sta-

to responsabile del Fronte della gioventù e

membro del Cln della Valsessera.

Subito dopo la Liberazione si era dedica-

to all’attività politica, sindacale e ammini-

strativa: assessore di Pray nel 1945-46, dal

1953 al 1956 fu funzionario della Federazio-

ne biellese e valsesiana del Pci; successi-

vamente della Camera del lavoro Biella-Val-

sesia (1956-1974) e direttore provinciale del-

l’Inca (1970-1974). Nel 1975 riprese anche

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ALBERTO LOVATTO

Deportazione memoria comunità

Vercellesi, biellesi e valsesiani deportati nei lager nazisti

edito in collaborazione con il Consiglio regionale del Piemonte e l’Aned

Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 182, € 15,49

Questo libro raccoglie una serie di saggi e contributi sulla storia dei deportati delle

province di Vercelli e Biella che Alberto Lovatto ha scritto a partire dal 1985. Li ac-

comunava ed accomuna il desiderio di dare visibilità storiografica, anche in sede

locale, alla storia della deportazione nei Lager nazisti, ricostruendo i legami fra sto-

ria e memoria, fra aspetti e vicende di carattere generale e di carattere locale.

“Le storie che Lovatto ha raccolto nelle comunità e nelle valli - scrive Claudio Della-

valle nella prefazione - sono storie di persone normali, con cui è facile identificarsi,

e per le quali lo ‘strappo’ della deportazione e poi l’inferno dei campi di concentramen-

to non può essere ‘normalizzato’ perché la distanza tra il prima e il dopo è incolma-

bile.

Con la sua ricerca Lovatto ci fa cogliere, credo la prima volta con questa attenzione

e intelligenza, l’effetto ‘alone’ della memoria e ci rivela la profondità e l’estensione

dello strappo che recide radici familiari, amicali, della comunità, e che fa dell’evento

un’esperienza moltiplicata, un nodo di memoria collettiva”.

Di fronte alle crescenti spinte revisioniste quello che possiamo fare razionalmente

- scrive ancora Dellavalle - è “accogliere e alimentare la memoria di quel passato in

tutte le forme che siano rispettose dei testimoni e dei fatti e lasciare al tempo il com-

pito di costruire la distanza accettabile perché ciò che è stato sia storia e non più

ferita aperta e angoscia rinnovata per i singoli e per l’umanità”.

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in biblioteca

l’impegno 133

Giulio Mortara (alias Giulio Lanza)Il racconto di un catturandosl, sn, 2002, pp. 85.

È la storia dell’esperienza dei Mortara, unafamiglia di origine ebraica convertita al cat-tolicesimo, tra il 1938, anno di emanazionedelle leggi razziali, e il 1945, attraverso tra-sferimenti da Bologna a Bocca di Magra, daBra a Montaldo di Govone.

Vi si racconta di un padre, “un uomo giu-sto, persona di estremo rigore morale, edu-cava a credere nello Stato ed a rispettarne leleggi”, che viene tradito proprio dalla patriache ha servito come ufficiale del genio e chedopo questo tradimento non potrà più esse-re lo stesso di prima; di una madre di famigliabenestante, allontanata dall’insegnamentodelle materie scientifiche nelle scuole supe-riori e costretta nel ’43 alla separazione daisuoi tre figli per un lungo periodo, interrottosporadicamente da visite brevi e clandestine.

Vi si racconta di una “Tata” fedelissima,sempre vicina ai bambini, e di tre piccoli so-pravvissuti, la cui storia non ha subito il pre-cipizio nella deportazione, ma ha comunquefatto loro vivere per tutto il periodo un “la-tente stato di angoscia” che ha lasciato lesue tracce, come una cicatrice deturpante,nella memoria dell’infanzia.

A raccontare in prima persona è Giulio, ilfratello maggiore, che all’inizio della clande-stinità aveva sette anni. Sono ricordi riela-borati, ma che ancora conservano i segni del-lo smarrimento, qualche volta del terrore u-guale a quello che ci coglie in un incubo e

che ci impedisce di muoverci, come nell’epi-sodio in cui racconta che, per la paura di es-sere fermato dai fascisti, non riusciva a sa-lire sulla bicicletta. Ma non c’è retorica, nonci sono esagerazioni: i ricordi più straziantisi associano a particolari ora teneri ora ad-dirittura umoristici, in cui si coglie la presen-za inconscia di una tensione alla ricerca diun’ordinaria normalità, negata dalla situa-zione storica.

C’è un bambino che non può capire tuttoquanto si svolge intorno a lui: accetta, sem-plicemente, il distacco dai genitori, la vita re-clusa in uno stanzone, l’alloggio clandesti-no nello scantinato della scuola. E un Natalesenza doni, con il timore di essere stati “di-menticati” da Gesù Bambino, quasi un’alle-goria della situazione di molti bambini per-seguitati. Il nucleo familiare finirà per ricom-porsi molto prima della fine della guerra, madovrà vivere nella finzione, con i bambini pre-sentati come orfani di guerra.

Con il sussiego tipico dell’età, Giulio e isuoi fratelli assumono con convinzione uncognome nuovo ed evitano di chiamare igenitori “babbo” e “mamma”: al termine dellaguerra, con domanda quasi formale, si sin-cerano di aver realmente riacquisito il dirittoa portare il cognome originale e a rivolgersiconfidenzialmente ai genitori.

È anche la storia di brava gente contadina,“benefattori” che accolgono senza doman-de la famiglia sfollata e che per tutto il tempodel soggiorno clandestino fingono di nonsapere nulla delle cause delle sue traversie,pur essendone perfettamente consapevoli;

Recensioni e segnalazioni

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in biblioteca

134 l’impegno

vi si racconta anche di carabinieri che avvi-sano i ricercati che l’indomani passerannoad arrestarli, di autorità che chiudono occhied orecchie alle delazioni, di religiosi prodi-ghi di aiuti.

Il racconto offre uno spaccato di vita quo-tidiana tra Langhe e Monferrato, sullo sfondodi una guerra che si combatte anche in que-ste terre, attraversate periodicamente da ra-strellamenti di tedeschi e fascisti e da sortitepartigiane. Un libro di ricordi, destinato inprimo luogo alla famiglia, che Giulio Mortara,“alias Giulio Lanza”, il bambino ricercatoperché considerato ebreo, ormai sessanta-seienne, ha offerto alla lettura di chi si inte-ressa alla storia, catturandone l’attenzioneper la testimonianza di vita, ma anche per ilpiacere della lettura, perché è scritto davve-ro bene. Una testimonianza lucida e sincera,porta con il sorriso di chi sa di essere scampa-to ad una tragedia ma ne vuole prendere ledistanze, perché sa che il lieto finale è statoun privilegio e che, comunque, continua aritenere che “in ogni situazione, anche nellepiù disperate, l’uomo manifesta la sua Uma-nità”.

Dopo la storia dei “sommersi”, si rendenecessario indagare anche quella dei “sal-vati”, cioè di tutti coloro che sfuggirono allaShoah e di quanti s’impegnarono per salvar-li, rischiando in proprio in nome di una so-lidarietà di cui va riscoperta la grandezza.Giulio Mortara ha portato il suo granello disabbia per un monumento alla memoria deiventitremila ebrei italiani perseguitati dalleleggi razziali che, grazie a molti benefattorinon ebrei, sfuggirono agli orrori dei campi disterminio.

Enrico Pagano

Raoul Pupo - Roberto SpazzaliFoibeMilano, Bruno Mondadori, 2003, pp. XV, 253,€ 13,50.

Tutto quello che è indispensabile saperesu un fenomeno che è passato da una lungafase di rimozione dalla storia nazionale ad

una in cui il rinnovato interesse non è statoindenne da usi strumentali per la contesa po-litica, viene proposto da Pupo e Spazzali, conrigore e senza omissioni, in un volume tasca-bile edito da Bruno Mondatori.

Gli obiettivi di proporre una sintesi chiarae aggiornata sui fatti e sui problemi interpre-tativi, di fornire testimonianze dirette deidiversi aspetti della tragedia per una letturacritica, di fare il punto sullo stato di avanza-mento del dibattito storiografico, sono effi-cacemente raggiunti: ad ognuno di essi è de-dicata una sezione dell’opera.

Nella prima, incentrata sui fatti, gli autoriaffrontano la fondamentale questione delladefinizione storica del fenomeno “foibe”, ter-mine con il quale si intende riassumere leviolenze di massa a danno di militari e civili,in larga parte italiani, scatenatesi nell’autun-no del ’43 e nella primavera del ’45 in localitàdiverse della Venezia Giulia; la definizionesimbolica allarga i limiti della definizione let-terale, in quanto, a rigore terminologico, i veriinfoibati, cioè quanti sono gettati, prima odopo la morte, nelle voragini tipiche delleregioni carsiche, sono una parte quantitati-vamente minoritaria rispetto a tutti gli uccisiper mano dei comunisti sloveni e croati, deicomunisti italiani filojugoslavi e delle auto-rità jugoslave nelle due crisi dell’autunno’43 e della primavera-estate del ’45.

Circoscritti i confini cronologici e termi-nologici del fenomeno e respinta una letturache ingloba nel fenomeno “foibe” sia le vit-time della brutalità degli ultimi due anni diguerra nell’area altoadriatica, sia i destinataridelle violenze contro la popolazione italiananel dopoguerra istriano, gli autori tendonoa ridimensionare la polemica sul numero dellevittime, perché non spiega né le cause, né ledinamiche, né il senso della persecuzionemessa in atto e si è del resto ancora lontanida una definizione precisa, potendo contaresui dati della Croce rossa italiana, sulle ricer-che dell’Istituto friulano per la storia del mo-vimento di liberazione, ma non ancora, oalmeno solo parzialmente, sulle fonti ju-goslave, importantissime, visto che la granparte delle uccisioni fu successiva alla de-

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portazione nel sistema concentrazionariolontano da Istria e Venezia Giulia.

Il senso delle violenze legate alle foibe,nelle due fasi cronologicamente e territorial-mente differenziate, appare caratterizzatodall’obiettivo della sostituzione di un nuo-vo ordine, antitetico a quello abbattuto, incui compaiono logiche di carattere politico,nazionalistico e sociale. Il movimento di li-berazione croato in Istria e sloveno nel restodell’area interessata rappresenta non soltan-to una forza di liberazione che combatte glioccupanti italiani e tedeschi, ma anche ilfascismo e con esso gli italiani, identificaticon il regime. Vuole ribellarsi al fiscalismo evendicare le prevaricazioni dello stato fasci-sta, colpisce i fascisti della prima ora colpe-voli dello squadrismo, i gerarchi, ma anchela classe dirigente, la classe media e i pro-prietari agrari.

Tra le vittime finiscono anche antifascistie partigiani italiani che non riconoscono l’au-torità jugoslava, perché la caratterizzazionenazionalistica del movimento di liberazionejugoslavo non può tollerare nessun’altra pre-senza, se non subordinata. Analoga sortesubiscono i militari dopo la resa del ’45, cat-turati e deportati in campi di concentramen-to molto duri, come quello di Borovnica.

L’azione dell’Ozna, la polizia politica e disicurezza, completa il quadro con arresti eretate di civili sospettati di essere nemici delpopolo: esponenti del fascismo, collabora-zionisti, dirigenti di forze politiche non co-muniste, soggetti pericolosi per svariati mo-tivi finiscono in carcere e subiscono proces-si sommari e condanne frettolose.

Tuttavia i fatti non possono essere com-presi se non si considera il clima da resa deiconti che si instaura in particolare nel mag-gio-giugno del ’45, quando per finire nelleliste di proscrizione sono sufficienti, oltre amotivazioni legate al radicalismo nazionali-stico e politico, anche contrasti di caratterepersonale.

Non mancano tentativi delle autorità jugo-slave di contenere la persecuzione, vista lasituazione di panico diffusa tra la popolazio-ne italiana, ma appare come una tattica e non

una strategia alternativa alla repressione.La conseguenza del clima del dopoguerra

è la scelta dell’esodo di gran parte degli ita-liani: ma questa è una riposta al clima di vio-lenze e al senso di precarietà, anche se ov-viamente all’interno dei gruppi di profughisi coltiveranno i risentimenti più forti cheandranno ad alimentare le tesi interpretativepiù radicali e manichee, come quella del ge-nocidio nazionale di cui si parla nella sezio-ne dedicata alle opinioni. Tale tesi, propriadella destra e delle associazioni nazionalisti-che, sostiene che fu attuato nella regione undisegno di distruzione della componente ita-liana della popolazione giuliana, posizionesemplificatoria ed unilaterale, in quanto di-mentica le vittime croate e slovene anticomu-niste. All’opposto appare la tesi negazioni-sta o riduzionista, diffusa nella storiografiajugoslava e per un certo tempo condivisa inparte di quella italiana, che tende a rappre-sentare le violenze come atti di giustizia versocriminali di guerra e fascisti responsabili aloro volta di atti violenti.

Si sono affermati a partire dagli anni set-tanta, soprattutto negli ambiti degli Istitutiper la storia del movimento di liberazione,tentativi di storicizzazione volti ad inserire ilfenomeno nella prospettiva dell’imbarbari-mento conseguente alle violenze di massacompiute nell’Europa balcanica dal 1941, sot-tolineandone il carattere di risposta di op-pressi contro persecutori, prospettiva cheperò, secondo gli autori, non fa i conti finoin fondo con il disegno politico totalitariodei comunisti di Tito.

Dalla fine degli anni ottanta tra gli storici,sia in ambito italiano che sloveno, sta preva-lendo un punto di vista secondo cui gli attidi violenza che definiamo comunemente foi-be rientrano in un contesto che riguarda tuttoil territorio jugoslavo e che, alla frontiera oc-cidentale, coinvolge alcune migliaia di ita-liani residenti, per i quali la nazionalità costi-tuisce un’aggravante rispetto al fatto di es-sere anticomunisti. Si smantella in questosenso la tesi del genocidio nazionale, chetuttavia non scompare dall’uso pubblico chesi fa della storia nel panorama politico italia-

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no e che ha finito per far contrapporre assur-damente le vittime delle foibe con quelle dellaRisiera di San Sabba, come se appartenesse-ro alle singole parti politiche e non fosserola conseguenza di ideologie e metodi violen-ti e totalitari del passato.

Conclude il testo una ricognizione deiprincipali luoghi della memoria delle foibe:Basovizza, Plutone, Monte Nero, Tarnova,Gargaro, Vineis.

e. p.

Giorgio BoccaPartigiani della montagnaVita delle divisioni “Giustizia e Libertà”del CuneeseMilano, Feltrinelli, 2004, pp. 179, € 12,00.

Il primo libro di Giorgio Bocca, a guerraappena finita, sui partigiani delle montagnee sulla Resistenza, ha conservato in questariedizione, per espressa volontà dell’auto-re, la stessa identica impostazione, con l’ag-giunta di una nuova introduzione che Boc-ca ha voluto indirizzare ai “revisionisti”; lavolontà dell’autore è chiara: “le cose in quelperiodo sono andate esattamente così”.

Il libro è il racconto dei giovani delle for-mazioni partigiane, privi di idee di comuni-smo, cresciuti nell’autarchia fascista, sen-za aver mai vissuto esperienze politiche. Ep-pure ebbero il coraggio di schierarsi, di pra-ticare una loro spontanea tensione morale,di formarsi nella lotta, riscattando agli occhidel mondo la dignità del popolo italiano.

Vissuti sotto la dittatura fascista, nono-stante non avessero un background di let-ture o di altre esperienze culturali, scelserodi opporsi. Ma lasciamo parlare Bocca: “Laprima e più importante cosa che i libri di sto-ria non spiegano, che i documenti non rac-contano della guerra partigiana è questostato d’animo di libertà totale ritrovata pro-prio negli anni in cui un giovane normale co-nosce il suo destino obbligato: quale posto,quale lavoro, quale ceto, quale donna sonostati preparati e spesso imposti per lui; qualesarà la sua prevedibile vita, quali vizi dovrà

praticare per cavarsela, dove troverà il dena-ro per campare. E invece d’improvviso, inun giorno del ’43, si ritrova totalmente libe-ro, senza re, senza duce, libero e ribelle, contutta la grande montagna come rifugio”.

Sono queste le pagine iniziali del volume,questo lo spirito con cui l’autore ripresentail suo lavoro.

In esso il binomio libertà-intransigenza èsempre presente. Del resto, il fatto che in a-pertura sia presente la dedica al comandanteDuccio Galimberti, è significativa delle scel-te dell’autore.

L’opera è la narrazione viva di alcuni av-venimenti della guerra di liberazione e laspiegazione dei motivi che distinguono net-tamente i morti per la libertà e la democraziadelle file partigiane, da quelli del fronte del-l’oppressione. Perché, alla fine, anche mol-ti nazifascisti morirono per perseguire il san-guinario disegno di opprimere sotto un’uni-ca, terroristica dittatura i popoli d’Europa.È la testimonianza di un giovane del Cune-ese che non fuggì né si nascose, decisesemplicemente di dedicare la sua miglioregioventù alla costruzione di quell’Italia li-bera che noi abbiamo ereditato.

Quarantacinquemila partigiani caduti,ventimila feriti o mutilati, gli operai e i con-tadini per la prima volta partecipi di unaguerra popolare senza cartolina precetto,una formazione partigiana in ogni valle al-pina o appenninica, un comitato di libera-zione in ogni città e villaggio, l’appoggiodella popolazione, la cruenta, sofferta gesta-zione di un’Italia diversa, la fatica pazienteper armare e far vivere un esercito senza ge-nerali. E, alla fine, tutti a casa senza ricom-pense e privilegi.

Molti commentatori oppongono la guer-riglia alla “guerra grossa” (quella degli eser-citi), affermando che non furono certo i par-tigiani ad aver vinto perché non avevano imezzi. Eppure senza la guerriglia non si sa-rebbero facilitate certe grosse operazionimilitari alleate. Essa tolse spazio e territorioagli occupanti, li chiuse nelle città. Le vallifurono loro interdette. Nell’estate del ’44nell’Ossola, ad Alba, nel Cuneese, a Monte-

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fiorino, in Carnia nacquero le libere Repub-bliche partigiane. E, dopo il durissimo inver-no che ne seguì, i nazisti e i servi di Salò nonebbero tregua nemmeno in pianura. 

E sulla cosiddetta “zona grigia”, la mag-gioranza del popolo italiano estraneo allaResistenza, altro cavallo di battaglia del neo-revisionismo, Bocca ricorda come già dalnovembre ’43, quando coi compagni percor-se la tranvia fra Saluzzo e Cuneo, la gentedalle case festeggiava il loro passaggio. Ein centinaia di episodi, non solo fra i mon-tanari delle valli, la comprensione, la com-plicità, il sostegno popolari non mancaro-no mai ai partigiani.

Il libro è diviso in vari capitoli che scan-discono i momenti della vita dei “ribelli”, findall’“esordio partigiano”, in cui sorsero iprimi gruppi, formati non da reparti dell’e-sercito, che si era sciolto, ma da singoli. Fraloro c’erano anche militari. La forza di que-sti ancora minuscoli, ma determinatissiminuclei, era la motivazione ideale e politicache li spingeva a credere in quel che face-vano al punto da essere disposti a morire,perché “chi fa volontariamente una cosa èdifferente da chi vi è costretto”.

I partigiani dovevano occuparsi di tutto:armi, viveri, indumenti, medicinali, denaro.In questi primi momenti si fece tutto “allabuona”, un po’ raccogliendo, un po’ seque-strando nelle case dei fascisti più noti.Mentre ai viveri si provvedeva con i colpinegli ammassi, recuperare armi e munizionirappresentava un vero problema.

Il secondo capitolo è dedicato alla sco-perta della ”vita dura”. In esso si raccontacome la crudezza della nuova vita si presen-tò ben presto chiara ai ribelli: dormire sullapaglia umida fra i pidocchi, mangiare soloriso stracotto o patate lesse. E poi la faticadelle marce sotto l’acqua e la neve e le cor-vées. Bisognava essere davvero motivatiperché, senza un ideale, era inumano vive-re così.

Il terzo capitolo è invece dedicato alla or-ganizzazione e quindi all’“epoca delle ban-de”. La nascita dei reparti, da cinquanta acento elementi, armati di mitraglia, mortai e

armi individuali, l’adozione di nomi, canzo-ni e il formarsi dello spirito di corpo. La loronon era una guerra contro un nemico, “maun movimento rivoluzionario di popolo che,attraverso lo sforzo della liberazione, ritro-vava la coscienza dei suoi diritti e doveri,poiché la lotta educava tutti alla più rigidaonestà”.

Il capitolo successivo è intitolato “L’eser-cito partigiano” e affronta le difficoltà incon-trate dal movimento di liberazione, con par-ticolare riferimento ai rastrellamenti che du-rarono sino a primavera, diventando unavera caccia all’uomo su un fronte vasto ol-tre 50 km. In alcuni momenti l’immensa mon-tagna pareva una gabbia e le bande si ricom-ponevano e separavano in continuazione.Importante era proseguire senza disunirsi efare “[...] come certi animali: rigenerarsi. I ri-belli della montagna riuscivano a farlo”.

Ed infine la parte riguardante la Libera-zione, l’aria di libertà che si respirava: “Ven-ne il giorno dell’attacco finale, unitario, instretta collaborazione coi garibaldini: era il25 aprile. In alcuni casi non si sparò un col-po, in altri si combatté per giorni in manierafuribonda casa per casa. Il 29 aprile Cuneoera liberata”.

A conclusione del volume una raccolta didocumenti in cui sono riportati i nomi deicaduti delle divisioni di “Giustizia e Libertà”e alcuni stralci da giornali del gruppo.

Il lavoro, pur risentendo di un clima parti-colare, quello della fine della guerra, conser-va il fascino e l’immediatezza di una testimo-nianza onesta: per questo rimane tuttora va-lido.

Antonino Pirruccio

Arnaldo ColomboL’ombra di HailèDue risaioli alla conquista dell’ImperoSanthià, Gs editrice, 2003, pp. 231, € 12,00.

“L’ombra di Hailè” è il titolo dell’ultimaopera di Arnaldo Colombo, in cui si raccontala storia della spedizione in Etiopia vissutaattraverso l’esperienza di due “risaioli alla

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conquista dell’impero”, come recita il sotto-titolo.

In un quadro storico rigoroso e documen-tato, l’autore inserisce le storie individualidi Nicola il Cartoné e di Dante dël Caorin,rurali rispettivamente della Baraggia e dellaBassa vercellese, che si incontrano per laprima volta in caserma a Napoli, riconoscen-dosi dal comune dialetto, e iniziano un’av-ventura che li porta ad attraversare il Medi-terraneo alla volta dell’Abissinia, passandoper il canale di Suez. Con il loro gruppo diartiglieria alpina vivono le successive tappedella guerra colonialistica, dalla conquistadell’altopiano dell’Amba Aradan fino all’in-gresso trionfale in Addis Abeba dopo averassunto il controllo del lago Ascianghi.

Nicola e Dante, entrambi della classe 1911,sono tra i primi richiamati in servizio a pochianni dalla fine della ferma provvisoria e proiet-tati in un ambiente totalmente estraneo ai lo-ro orizzonti, nel progetto fascista di ricostru-zione dell’impero: “’N gran bel progèt... maperché il governo non è andato a prenderela classe del ’12?”, dice Nicola, rivelando unentusiasmo smorzato, che riscatta parzial-mente pensando che “nosta classe, pì pro-babilment, a l’è faita ’d gent tòsta, propicoma a piass al Duce” (La nostra classe, piùprobabilmente, è fatta di gente tosta, pro-prio come piace al Duce). È racchiuso inqueste parole scarne il consenso al fascismoe alla sua impresa, che raggiunge il culminenell’occasione; la ricostruzione dell’imperoromano stimola la fantasia evocando i ricor-di di una storia mai problematica imparatasui banchi della scuola elementare fascista,nel quadro di un’educazione propagandisti-ca che alimenta un senso dell’obbedienzaall’autorità in cui si confonde il senso dellapatria e quello del regime di Mussolini. E nel1935, per giovani semplici come Nicola eDante, non c’è alternativa al consenso, an-che se è con il necessario fatalismo che si ac-cetta di lasciare il proprio nucleo familiare,nel caso del primo, e la propria vita da “sca-vezzacollo testardo” per la disperazione delvecchio padre antifascista, nel caso del se-condo.

Il consenso all’impresa non spegne peròla coscienza umanitaria dei due, che si espri-me nella compassione verso gli sforzi agri-coli della popolazione delle sterili terre etio-piche, ma soprattutto nell’apocalittica visio-ne che appare ai loro occhi nella piana di MaiCeu, interamente ricoperta di cadaveri, quan-do l’interrogativo: “Vaire moro che i l’omamassà fin-a adess? Belessì, antorn a noi, isoma nen bon da conteje” (Quanti neri ab-biamo ucciso finora? Qui, attorno a noi, nonriusciamo a contarli), si associa all’inquie-tante osservazione: “A guardé ben a-i n’è’d coj ch’a l’han fàcia e man tute brusatà,ma nen dal feu, da ’n quaicos d’autr! (Aguardare bene ce ne sono di quelli che han-no faccia e mani tutte bruciate, ma non dalfuoco, da qualcos’altro!). E l’infame decisio-ne di gasare i resistenti abissini si rivela intutta la sua disumanità, negli effetti e nelledimensioni, alla coscienza dei due artiglierialpini, che tuttavia chiudono il caso conclu-dendo che: “A l’è mej fé finta ’d gnente, stèciuto, nen mensioné la facenda con nessun!Adess, lontan dal camp ëd batata, i sent pìgnun brusor a j’eui, né psighé ant ël nas! (Èmeglio far finta di niente, star zitti, non men-zionare l’affare con nessuno! Adesso, lon-tano dal campo di battaglia, non sento piùnessun bruciore agli occhi, né pizzicare nelnaso).

È una guerra tremenda, raccontata percome la vedono gli sguardi semplici di duesoldati semplici, attenti agli aspetti militari,di cui il narratore fornisce il quadro comples-sivo, ma anche e soprattutto a quelli ambien-tali, su cui imbastiscono continui confronticon la realtà della loro pianura, a conclusio-ne dei quali Nicola, alla fine della guerra,all’amico che gli chiede la disponibilità atrasferirsi definitivamente in Etiopia rispon-de: “I sai pa se mia fomna a vniria belessì!A stà trop ben a la cassin-a... Sì a-i è mia ’dris!” (Non so se mia moglie verrebbe qui! Statroppo bene alla cascina... Qui non c’è riso!).Ed è la risposta che più efficacemente com-menta l’impresa etiopica, rivelando la sensi-bilità di chi ha maturato sulla propria pelle laconvinzione che non valeva la pena di cer-

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care una terra meno ricca di quella da cui siproviene. L’amico Dante, a sua volta, ancoraconvinto che il progetto è quello di insegna-re agli abissini come si fa a coltivare la terraper toglierli dalla fame e dalla miseria, pensatra sé di ritornare in patria e rendere più sta-bile la sua vita: anche per lui l’esperienzaafricana è finita. Dopo diciotto mesi tornanoa casa, e persino il “Baldo”, il cavallo di Nicolala sera del ritorno “a va ch’a s’anversa... co-me ’l vent”. In quest’ultimo caso il dialetto,che per tutto il libro ha risuonato con effettiquasi grotteschi in terra straniera, ha un va-lore universale e potrebbe essere compresoanche in Abissinia...

Un bel libro, che affronta un tema pocopraticato nella narrativa e scarsamente di-mensionato anche nella memoria storicacollettiva del nostro paese, su cui ci sarebbeinvece molto da dire, utilizzando ad esempiola produzione storiografica di Angelo DelBoca. Arnaldo Colombo dimostra la consue-ta e consolidata attenzione per la dimensio-ne psicologica della gente umile chiamata aconfrontarsi con i grandi eventi della storia,che non abbandona mai le proprie radici,nemmeno nei luoghi morfologicamente eculturalmente più estranei.

Il libro si correda di un’ampia documenta-zione di cartoline e fotografie.

e. p.

Matteo ErmacoraI minori al fronte della grande guerraLavoro e mobilità minorileNumero monografico de “Il Calendario delPopolo”Milano, Teti, 2004, pp. 64, € 5,00.

Centotrentamila minori, di cui sessanta-mila nelle fabbriche e il resto nei cantieri militaria ridosso del fronte: questa la cifra comples-siva della mobilitazione forzata che il nostropaese impose a una parte non irrilevante dellapropria prima gioventù, per far fronte alleesigenze della produzione industriale e dellalogistica durante la grande guerra. Il termine“impose” è da intendersi sia in senso lettera-

le che figurato. Per questo secondo aspetto,le condizioni socio-economiche del paesecostrinsero molte famiglie ad avviare al la-voro militarizzato i propri figli più giovani: lecause di tale fenomeno sono da ricercare indiversi fattori, quali la sostanziale impossi-bilità ad emigrare all’estero, causa la chiusu-ra delle frontiere, e, cosa più importante ditutte, la condizione di autentica miseria incui versavano milioni di famiglie italiane. Siverificò così un processo di migrazione in-terna, in quanto decine di migliaia di nucleifamiliari si spostarono dalle regioni più po-vere, specialmente la Puglia e il Veneto, at-tirate dall’offerta di posti di lavoro nel trian-golo industriale, dove le industrie addettealla produzione di armamenti avevano un’i-nesauribile fame di lavoratori. All’inizio i mi-norenni furono impiegati nelle industrie leg-gere, per produrre le casse per le munizioni,paletti da reticolato, uniformi, ecc. Quandoperò, verso la metà del conflitto, le esigenzeproduttive si fecero pressanti, i minori furo-no impiegati anche nell’industria pesante:in ogni caso i turni erano massacranti, quat-tordici o quindici ore al giorno, e le malattiee gli infortuni all’ordine del giorno.

Ma anche l’aspetto legislativo concorseall’instaurarsi del fenomeno: eliminate lenorme che imponevano l’assolvimento del-l’obbligo scolastico prima di entrare nel mon-do del lavoro, vennero altresì disattese o deltutto trascurate le leggi sull’igiene e la sicu-rezza degli impianti risalenti all’epoca giolit-tiana. Di fatto, fu lasciata mano libera agliindustriali, approfittando della situazione dimobilitazione nazionale imposta dalla guerra.

Ma le fabbriche furono solo uno dei poliverso cui fu indirizzato l’esercito dei lavora-tori minorenni; settantamila di loro infattifurono impiegati nei cantieri a ridosso delfronte, chiamati a sostituire o i contadinichiamati alla leva o, più spesso, i lavoratoriadulti che, approfittando dell’esenzione dalservizio militare, erano andati a lavorare nelleindustrie del Nord-Ovest.

Furono soprattutto i ragazzi veneti e friu-lani ad essere impiegati a ridosso del fronte,ma molti provenivano anche dal Centro e dal

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in biblioteca

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BACCHI, MARIA - LEVI, FABIO

Auschwit , il presente e il possibileDialoghi sulla storia tra infanzia e adolescenzaFirenze, La Giuntina, 2004, pp. 375.

BERGAMASCHI, CAMILLA - AGOSTI, PAOLA (a cura di)Giorgio Agosti nelle lettere ai familiari dal 1915al 1987Torino, Inside Out edizioni, 2004, pp. 138.

BERTACCHI, GIULIANA - BENDOTTI, ANGELO (a cura di)Le parole e il silenzioLa Val di Scalve del Novecento nella memoria del-le donneBergamo, Isrec-Il Filo di Arianna, 2003, pp. 287.

BOIDO, ANNALISA

L’usura in PiemonteI casi giudiziariTorino, Consiglio regionale-Osservatorio regio-nale sul fenomeno dell’usura, sd, pp. 143.

BRUSA, CARLO (a cura di)Processi di globalizzazione dell’economia e mo-bilità geograficaRoma, Società geografica italiana, 2002, pp. 399.

CALZATI, TERESA - RESCA, MARIA (a cura di)Storie di vita e di Resistenza dal racconto e dairicordi di Eda Bussolari, Bruno Forni, Loris MaggiSan Giovanni in Persiceto, Aspasia, 2003, pp. 64.

Libri ricevuti

Sud della penisola. Il dossier de “Il Calenda-rio del Popolo” in esame riporta che, in tota-le, la manodopera minorenne finì per costi-tuire, facendo la media negli anni del conflit-to, circa il 42 per cento del totale dei lavorato-ri impiegati: una cifra significativa. Occorreanche ricordare che non sempre si trattò dilavoro imposto dalle autorità; vi furono quotesignificative di popolazione che semplice-mente tentarono autonomamente di spostar-si verso le zone dove vi era il lavoro, cioè icantieri a ridosso del fronte, in quanto spin-te dalla disoccupazione e dalla fame; natural-mente la cosa diede origine ad abusi, fenome-ni di quello che oggi chiameremmo “capora-lato”, corruzione a vari livelli, ecc.

L’esperienza lavorativa fu naturalmenteassai dura: i giovani operai, pagati (così comele donne) assai meno degli adulti maschi,dovettero attendere alla manutenzione dellestrade, scavare trincee, costruire acquartie-ramenti, stendere reticolati e alzare pali tele-fonici; mansioni queste, insieme ad una infi-nità di altre, spesso compiute all’interno dellagittata dell’artiglieria o addirittura della fuci-leria nemica.

Naturalmente i cantieri di alta montagna,dallo Stelvio alla Carnia, posti tra i mille e i

duemilacinquecento metri di quota, si rive-larono come dei veri e propri luoghi di tor-mento. I molti che, sfiancati dalla fatica e daipericoli, tentarono di fuggire, vennero con-siderati praticamente alla stregua di soldatidisertori e spesso furono processati dai tri-bunali militari.

Le durissime condizioni di lavoro portaro-no a ribellioni e proteste che furono dura-mente stroncate; la situazione si aggravò do-po la disfatta di Caporetto, quando molti civilifurono tagliati fuori dalla precipitosa ritiratadel nostro esercito, tanto che finirono per la-vorare, volenti o nolenti, per gli austriaci in-vasori.

Il ruolo dei minori impegnati nel “lavoroper la guerra” fu, durante e dopo il conflitto,alquanto misconosciuto, sia a livello di prov-videnze legislative che di riconoscimento so-ciale; eppure, come fa notare il fascicoloesaminato, vi fu almeno una conseguenzapositiva di tante fatiche: molti giovani visse-ro l’esperienza della guerra come la scopertadi un ruolo sociale, in famiglia e anche fuoridi essa; per qualcuno si trattò di una primaed embrionale forma di maturazione politica.

Paolo Ceola

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recensioni e segnalazioni

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CASELLATO, ALESSANDRO (a cura di)L’anarchico di Mel e altre storieVite di “sovversivi” processati dal Tribunale spe-ciale per la difesa dello StatoTreviso, Istresco; Sommacampagna, Cierre, 2003,pp. 98.

CASTAGNOLI, ADRIANA (a cura di)Culture politiche e territorio in Italia (1945-2000)Milano, Angeli, 2004, pp. 320.

CECCATO, EGIDIO

Freccia, una missione impossibileLa strana morte del maggiore J. P. Wilkinson el’irresistibile ascesa del col. Galli (Pizzoni) al verti-ce militare della Resistenza venetaTreviso, Istresco; Sommacampagna, Cierre, 2004,pp. 181.

CERIANI, MASSIMO

Una fabbrica di elicotteriL’Agusta di Cascina CostaTestimoni e protagonistiMilano, Jaca Book, 2004, pp. 284.

CIRAVEGNA, LUCIANO

I cappelli del SenatoreLa politica cambiaria del governo fascista e le espor-tazioni dei cappelli Borsalino tra il 1927 e il 1938Alessandria, Dell’Orso, 2003, pp. XVI, 39.

CIRELLA, DOMENICO

Una socialista ereticaBiografia di Vera LombardiNapoli, Libreria Dante & Descartes, 2003, pp. 218.

CORSINI, RENZO - FRANCINI, MARCO

Figli di un calcio minoreControstoria del calcio a Pistoia 1945-1975Pistoia, Istituto storico della Resistenza e dellasocietà contemporanea-Crt, 2003, pp. VI, 215.

CORTELLAZZO, SARA (a cura di)Guerra e paceTorino, Consiglio regionale-Celid, 2002, pp. 94.

CORTELLAZZO, SARA - QUAGLIA MASSIMO (a cura di)Donne sullo schermoTorino, Consiglio regionale-Celid, 2003, pp. 108.

DEABATE, GIUSEPPE

Il canto di OropaRicordi del BielleseVigliano Biellese, Gariazzo, stampa, 2003, pp. 142.

DE BERNARDI, ALBERTO - FERRARI, PAOLO (a cura di)Antifascismo e identità europeaRoma, Carocci, 2004, pp. 484.

DE MICHELIS, ALESSANDRA (a cura di)Lo sguardo di LeonildaUna fotografa ambulante di cento anni faLeonilda Prato 1875-1958Cuneo, Associazione Più Eventi, [2003], pp. 132.

EUGENI, RUGGERO - SATTA, NEVINA (a cura di)La lingua del tumultoUn’archeologia dei saperi di BorsaMilano, Centro per la cultura d’impresa-Scheiwil-ler, 2003, pp. 191.

FRANCESCONI, GIUSEPPE - SALSA, GUSTAVO (a cura di)“Molte volte ho pensato che non sarei tornato”Venticinque storie di internamento e lavoro coat-to nella Germania di HitlerVercelli, Auser Valsesia, 2003, pp. 109.

FRANZINA EMILIO (a cura di)Racconti dal mondoNarrazioni, saggi e memorie delle migrazioniPerugia, Isuc; Sommacampagna, Cierre, 2004, pp.329.

FRANZINA, EMILIO

TraversateLe grandi migrazioni transatlantiche e i raccontiitaliani del viaggio per mareFoligno, Editoriale Umbra, 2003, pp. 94.

FRANZINELLI, MIMMO (a cura di)Il volto religioso della guerraSantini e immaginette per i soldatiRavenna, Isrec; Faenza, Edit Faenza, 2003, pp. 153.

FRANZINELLI, MIMMO - MARINO, EMANUELE VALERIO

Il duce proibitoLe fotografie di Mussolini che gli italiani nonhanno mai vistoMilano, Mondadori, 2003, pp. 139.

GADDO, IRENE - MANGANELLI, CESARE - ZARRI,CLAUDIO

Tipografie, accademie e uffici d’arteAspetti di storia alessandrinaAlessandria, Dell’Orso, 2003, pp. VI, 151.

GALLI, RENATO

Cosa racconta una lapide 1944-2001Vercelli, Saviolo, stampa 2002, pp. 387.

GUADAGNINI, MARILA (a cura di)Da elettrici a eletteRiforme istituzionali e rappresentanza delle donnein Italia, in Europa e negli Stati UnitiTorino, Consiglio regionale-Celid, 2003, pp. 247.

INNOCENTI, MICHELA - BALLI, GIAN PAOLO - DI

GIACOMO, ANDREA - CAMPUS, RITA

Chiesa e società nel giornale diocesano di Pistoia1896-1939Pistoia, Istituto storico della Resistenza e della so-cietà contemporanea-Edizioni Crt, 2003, pp. 173.

LOMBARDI, PIERANGELO

L’illusione al potereDemocrazia, autogoverno regionale e decentra-mento amministrativo nell’esperienza dei Cln(1944-45)

Milano, Angeli, 2003, pp. 292.

Page 143: aspetti politici, economici, sociali e culturali del Vercellese ...In copertina: Roberto Curoso, Omaggio alla Resistenza, dal volume Arte e Resistenza, Biella, Sandro Maria Rosso,

in biblioteca

142 l’impegno

MASSARA, ENRICO

Mon vieux capitaineA cura di Mauro BegozziNovara, Istituto storico della Resistenza e dellasocietà contemporanea, stampa 2004, pp. 71.

MASI, GIUSEPPE (a cura di)Mezzogiorno e Stato nell’opera di Fausto GulloCosenza, Orizzonti Meridionali, stampa 1998, pp.416.

MASUERO, GIOVANNI

I ricordi del partigiano CokCossato, Anpi, 2003, pp. 141.

MORGANTINI, FILIPPO

Camillo Riccio e la costruzione della città borgheseFormazione e professione nella Torino delle grandiesposizioni attraverso i disegni di Camillo e Arnal-do Riccio nella Biblioteca di Storia e Cultura delPiemonteTorino, Provincia, 2004, pp. 275.

MORNESE, CORRADO - BURATTI, GUSTAVO (a cura di)Eretici dimenticatiDal medioevo alla modernitàRoma, DeriveApprodi, 2004, pp. 361.

MOMIGLIANO LEVI, PAOLO - PERRIN, JOSEPH-CÉSAR

(a cura di)Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazio-ni alpineChivasso 19 dicembre 1943Il contesto storico, i protagonisti e i testiAosta, Le Château, 2003, pp. 205.

PANTOZZI, ALDO

Sotto gli occhi della morteDa Bolzano a MauthausenA cura di Rodolfo TaianiTrento, Museo storico, 2002, pp. 126.

PUPO, RAOUL - SPAZZALI, ROBERTO

FoibeMilano, Bruno Mondadori, 2003, pp. XV, 253.

RASERA, FABRIZIO (a cura di)I campi dei soldatiDiari e lettere di internati militari 1943-1945Rovereto, Museo storico italiano della guerra,2003, pp. 181.

RASERA, FABRIZIO (a cura di)Le officine dei libriEditoria, istituzioni culturali, enti pubblici a Ro-vereto: catalogo 1980-2002Rovereto, Comune-Biblioteca civica, 2002, pp.222.

RIGONI STERN, MARIO

Il sergente nella neve

Ricordi della ritirata di RussiaTorino, Einaudi, 2003, ristampa anastatica, pp. 160.

SAONARA, CHIARA

Egidio MeneghettiScienziato e patriota combattente per la libertàPadova, Istituto veneto per la storia della Resi-stenza e dell’età contemporanea-Cluep, 2003, pp.454.

SIGNORELLI, BRUNO

Tre anni di ferroDal disarmo di San Benedetto Po alla vittoria diTorino del 1706 nella corrispondenza fra VittorioAmedeo II e il conte Giuseppe BiglioneTorino, Provincia, 2003, pp. 132.

SPINA, LUIGI (a cura di)Album Valle MossoPaesaggi, persone, avvenimenti tra ’800 e ’900Valle Mosso, Comune; Biella, Eventi & Progetti,2003, pp. 239.

VACHINO, GIOVANNI (a cura di)La lana e il fuocoIncendi, industria e pompieri nel territorio bielleseBiella, DocBi, 2003, pp. 116.

A proposito di “Questione di razza” di Guido Bar-bujaniEsercizi di lettura intorno al Giorno della MemoriaMacerata, Isrec, stampa 2004, pp. 54.

Benedicta 1944 l’evento la memoria[Alessandria], Associazione Memoria della Bene-dicta, stampa 2004, pp. 127.

Il Carnevale di VercelliViaggio nella storiaVercelli, Mercurio, 2000, pp. 157.

Millenovecento56Il cinema italiano del 1956Torino, Ancr-Regione Piemonte, 2003, pp. 249.

Per non dimenticare le cose perduteSoprana, Comune, stampa 2003, pp. 310.

Resistenza nazionale e locale: apologia o liberaricerca?Le fonti e i metodi della ricerca storicaAtti del Convegno di StudiPistoia, Associazione culturale Proteo, 2003, pp.127.

Sui Luoghi della MemoriaGuerra e Resistenza nel territorio imoleseA cura del Cidra di ImolaImola, Bacchilega editore, 2004, pp. 63.

Visitare il BielleseBiella, Provincia, 2003, pp. 171.

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PIERO AMBROSIO (a cura di)

“In Spagna per la libertà”

Vercellesi, biellesi e valsesiani nelle brigate internazionali

(1936-1939)

1996, pp. IV-156, € 9,00

Il volume contiene saggi di Marcello Flores, Gianni Isola, Adriano Ballone, Anello

Poma, Luigi Moranino, Piero Ambrosio, Gianni Perona, Pierangelo Cavanna;

biografie (ciascuna corredata da un’accurata bibliografia) dei volontari vercellesi,

biellesi e valsesiani, frutto di una lunga ricerca in archivi pubblici e privati, e decine

di immagini inedite tratte da una rarissima copia (forse l’unica) del “Calendario del

garibaldino” del 1938, edito a Parigi dall’Unione popolare italiana.

L’insieme dei saggi che costituiscono il volume dimostra due cose: prima di tutto lo

stretto collegamento che esiste tra i problemi storici aperti sulla guerra di Spagna,

e quindi il grande interesse e anche i problemi che sono aperti a una ricerca come

questa, che riguarda sia l’antifascismo, sia la lotta di liberazione in Italia e che in

questo momento sembra scontrarsi con un mutamento di termini del dibattito sto-

riografico avvenuto negli ultimi anni. L’elemento più interessante è la capacità di

collegare i problemi generali della storiografia sul movimento antifascista e sulla

Resistenza con una storia locale che non è chiusa in se stessa ma che vuole, per

alcuni aspetti, suggerire alla storia nazionale i terreni e gli interrogativi su cui anda-

re avanti.

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FRANCESCO OMODEO ZORINI

Una scrittura morale

Antologia di giornali della Resistenza

1996, pp. 304, € 18,00

L’opera si pone in continuità col lavoro di scavo del sostrato valoriale, misto di

ideali, ragioni, sentimenti e progettualità della Resistenza (e che coagula il nerbo e

l’ossatura della Costituzione italiana), precocemente individuato dall’autore con

“La formazione del partigiano”, saggio di pedagogia civile e di antropologia stori-

ca, edito dall’Istituto nel 1990.

Qui si misura con una campionatura di giornali: “La Stella Alpina”,“Baita”, “Vercelli

Libera” e “Valsesia Libera” che appartengono all’area dell’Alto Piemonte, segnata-

mente alle attuali province di Biella, Vercelli, Novara e Verbano-Cusio-Ossola, e cro-

nologicamente raccordano, dall’estate del 1944 a quella del 1946, la maturità della

lotta clandestina delle “zone libere” o repubbliche partigiane, coi primi passi della

ricostruzione postbellica, approdati all’istituzione della Repubblica. In un orizzon-

te di studi sulla Resistenza rivolti alla dimensione esistenziale, personale, quotidia-

na e per così dire “privata” dei partigiani, i periodici riguadagnano interesse quali

fonti primarie per una lettura complessa, a più livelli, quasi stratigrafica, tesa a co-

gliere la pluralità dei codici e dei messaggi. Il giornale partigiano è infatti specchio

dell’universo antropologico dei suoi referenti e insieme precipitato del disegno

politico-sociale dei vertici dell’organizzazione militare e politica a un tempo.

L’autore sceglie gli articoli soffermandosi sulle testimonianze della violenza e del

sacrificio, della battaglia senza quartiere, ma anche su quelle della pietà e della spe-

ranza, della palingenesi del ritorno o dell’amara delusione per la restaurazione an-

nunciata, sui documenti del programma e dell’azione democratica, mette a fuoco la

scrittura delle donne. Egli rintraccia nei testi il “bisogno di autobiografia collettiva”

che pervade le pagine di questi giornali “pedagogici” ibridamente sospese tra un

modello letterario colto e uno popolare, dimesso, spesso ingenuo, retorico e dalla

scarsa padronanza dei registri linguistici, ma sollevate da una straordinaria istanza

morale di catarsi e rigenerazione dall’abiezione della guerra, di libertà, democrazia,

solidarietà, eguaglianza e giustizia, pace e lavoro: esatto contrario di egoismo e vol-

garità, tanto applauditi impunemente oggi.

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