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rivista di storia contemporanea

aspetti politici, economici, sociali e culturali

del Vercellese, del Biellese e della Valsesia

l’impegno

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelleprovince di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”

a. XXII, nuova serie, n. 1, giugno 2002

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l’impegno

Rivista semestrale di storia contemporaneadell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelleprovince di Biella e VercelliDirettore: Piero AmbrosioSegreteria: Marilena Orso ManzonettaEditing: Raffaella FranzosiDirezione, redazione e amministrazione: via Sesone, 10 - 13011 Borgosesia (Vc).Tel. e fax 0163-21564. E-mail: [email protected] al n. 202 del Registro stampa del Tribunale di Vercelli (21 aprile 1981).Responsabile: Piero AmbrosioStampa: Gallo Arti Grafiche, VercelliLa responsabilità degli articoli, saggi, note firmati o siglati è degli autori. Non sirestituiscono manoscritti, anche se non pubblicati. È consentita la riproduzione diarticoli o brani di essi solo se ne viene citata la fonte.

Un numero € 6,20; arretrati € 7,75; estero € 7,75; arretrati estero € 9,30Quote di abbonamento (2 numeri):annuale € 12,40benemerito ” 15,49sostenitore ” 20,66 o piùannuale per l’estero ” 15,49

Gli abbonamenti si intendono per anno solare e sono automaticamente rinnovatise non interviene disdetta a mezzo lettera raccomandata entro il mese di dicembre;la disdetta comunque non è valida se l’abbonato non è in regola con i pagamenti.Il rifiuto o la restituzione dei fascicoli della rivista non costituiscono disdetta diabbonamento a nessun effetto.Conto corrente postale n. 10261139, intestato all’Istituto.

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presentazione

l’impegno 3

La nuova serie de “l’impegno”

A vent’anni dall’uscita del “numero

zero”, nella primavera dello scorso anno

decidemmo di dare vita ad una nuova serie

della nostra rivista.

Ad essa da alcuni mesi era stato affian-

cato, come nuovo mezzo di divulgazione

delle ricerche e di informazione sulle atti-

vità dell’Istituto, il sito web, che stava ini-

ziando a raccogliere vasti consensi e che

si ritenne di potenziare, senza tuttavia ri-

nunciare ad uno strumento ormai noto e

apprezzato come “l’impegno”.

Oggi la rivista si rinnova, dunque. Cam-

biano la periodicità e il formato e si farà un

diverso ricorso all’uso delle illustrazioni

(nella maggior parte dei casi - come avvie-

ne in questo numero - gli articoli ne saran-

no privi, ma già nel prossimo numero un

saggio sarà motivatamente corredato da fo-

tografie). Non cambieranno invece i con-

tenuti.

La rivista - così come l’attività comples-

siva dell’Istituto - nel corso degli anni è

stata via via dedicata non solo alla Resi-

stenza ma sempre più alla storia contem-

poranea in generale e non soltanto di

“aspetti politici, economici, sociali e cul-

turali del Vercellese, del Biellese e della

Valsesia” ha trattato, ma ha allargato l’oriz-

zonte geografico ad aspetti di storia pie-

montese ed italiana e a vicende esterne ai

nostri confini. E questo primo numero del-

la nuova serie (il sessantottesimo della ri-

vista) ne è un esempio.

Ma a quel sottotitolo originario non ri-

nunciamo. In queste pagine nei prossimi

numeri troveranno probabilmente spazio -

grazie all’apporto anche di nuovi collabo-

ratori ed in particolar modo dei nuovi con-

siglieri scientifici dell’Istituto - altri saggi

su aspetti non relativi alle nostre zone. Ma

lì sono le nostre radici. Così come le no-

stre “radici storiche” sono nella Resisten-

za, come vogliamo dimostrare con l’imma-

gine che abbiamo scelto per la copertina

di questo numero, a ricordo ed omaggio -

anche - dei protagonisti ormai scomparsi

di quella pagina di storia che ha dato liber-

tà, democrazia e futuro al nostro Paese.

In questo numero

In apertura di questo numero Oliviero

Bergamini si sofferma sugli aspetti carat-

terizzanti l’informazione di guerra, con

particolare riferimento al conflitto in Af-

ghanistan, mostrando sia le difficoltà og-

gettive incontrate dai giornalisti sul cam-

po, sia i condizionamenti esercitati sull’in-

formazione dal potere politico e militare.

Seguono le relazioni di Pietro Scarduel-

li e Federico Avanzini presentate al conve-

Rinnovamento nella continuità

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presentazione

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gno “I nazionalismi”, svoltosi a Varallo

nell’aprile del 2000.

Scarduelli affronta l’argomento indagan-

do i legami tra etnicità e nazionalismo,

evidenziando analogie e differenze e mo-

strando come le identità collettive siano,

in ultima analisi, costrutti culturali.

Avanzini si concentra sul risorgente na-

zionalismo in Asia orientale, riferendosi in

particolare al fondamentalismo indiano,

alla ripresa del patriottismo nella Repub-

blica popolare cinese e al dibattuto argo-

mento dell’identità nazionale in Giappo-

ne.

Gianpasquale Santomassimo, nella rela-

zione presentata al convegno “I fondamen-

ti dell’Italia repubblicana: mezzo secolo di

dibattito sulla Resistenza”, tenutosi a Ver-

celli nel gennaio del 2000, evidenzia le dif-

ferenti interpretazioni storiografiche del-

la Resistenza e del ruolo del Pci in essa,

elaborate, con spirito innovativo, dai più

importanti storici comunisti: Roberto Bat-

taglia, Paolo Spriano ed Ernesto Ragionie-

ri.

Federico Caneparo dedica un altro saggio

alla storia del Partito comunista d’Italia,

soffermandosi, questa volta, sull’elabora-

zione compiuta dalla direzione del partito

sulla fase “democratico-pacifista” del

capitalismo e sul suo rapportarsi a questo

proposito alla posizione della III Internazio-

nale all’indomani del V Congresso.

Nedo Bocchio commemora Anello Poma

- recentemente scomparso - ricordando la

sua esperienza nella guerra civile spagno-

la, nella Resistenza e nell’attività politica del

dopoguerra ed evidenziando soprattutto la

spontaneità della sua passione politica e la

sua sincerità nei rapporti umani.

Alcune pagine sono poi dedicate a “no-

terelle”, relative alla discussione su argo-

menti di attualità, storici e politici, parti-

colarmente “caldi” e alle polemiche al ri-

guardo apparse sui giornali.

Seguono i resoconti di due iniziative

organizzate dall’Istituto nel mese di no-

vembre dello scorso anno, rispettivamen-

te dedicate ad “Aspetti della questione bal-

canica” e ad “Aspetti della questione me-

diorientale”, nonché la relazione sull’atti-

vità svolta dall’Istituto nel 2001 e il piano

di lavoro per il corrente anno.

In chiusura la consueta rubrica dedicata

alle recensioni e segnalazioni bibliografi-

che.

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saggi

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Lo scopo di questo breve intervento èdelineare alcuni dei fattori che condizio-nano, e per certi versi, determinano l’in-formazione di guerra, e in particolare quel-la in Afghanistan. Condizionamenti cheper semplicità raggruppo in tre ordini:quello ambientale-tecnico, quello politico-censorio e quello ideologico-culturale.

Innanzitutto va considerato l’aspetto “ef-fettuale”, come direbbe Machiavelli, del-l’esperienza concreta del reporter di guer-ra, il contesto ambientale e le modalità dilavoro. Io recentemente sono stato a Groz-ny, in Cecenia. Data la situazione nella re-gione avevo chiesto l’autorizzazione e unascorta alle autorità militari russe. Di con-seguenza, per i pochi giorni che mi è statoconsentito trascorrere a Grozny, sono sem-pre stato guardato a vista da uomini del-l’Fsb (il servizio segreto russo, erede delKgb, cui Putin ha demandato la titolaritàdelle operazioni in Cecenia), con cui c’èstata costante “dialettica” sui luoghi da vi-sitare, le persone con cui parlare, etc.

Avevo un’interprete che per motivi logi-stici mi è stata assegnata da Mosca, e cheho poi scoperto tradurre in modo moltoparziale le risposte dei ceceni che intervi-stavo. Mi trovavo in una terra dove si par-la russo o ceceno, due lingue che ignoro,e dove ogni spostamento è difficilissimo,dove la gente ormai vive da dieci anni in

condizioni di guerra e ha sviluppato quin-di una - per me - stranissima capacità diapparire distaccata, quasi noncurante ri-spetto alle terrificanti distruzioni che sivedono tutto attorno.

In queste condizioni è certamente diffi-cilissimo comprendere a fondo la situazio-ne. Il cronista può ovviamente sforzarsi dicatturare l’atmosfera, le dinamiche di fon-do, di valutare la situazione da tanti segnali(le condizioni delle truppe, il modo stes-so in cui si viene “tutelati”, il fatto che l’e-licottero che viene a prenderti durante l’at-terraggio è scortato da due elicotteri dacombattimento e lancia razzi di diversio-ne per deviare eventuali missili Stingerlanciati dai ribelli, le parole della gente,opportunamente interpretate e “tarate”).La visione resta parziale, approssimativa,si ha la sensazione di essere in un ambienterelativamente alieno, confuso, dove la ve-rità è sfuggente. E questo è comunque unluogo dove esiste un’autorità occupanteche funge da punto di riferimento, e unasituazione geopolitica relativamente bendefinita.

Immaginate che cosa voglia dire fare ilreporter in Afghanistan, dove le distanzesono enormi e gli spostamenti pericolosi elentissimi, dove la guerra è un insieme diazioni tra loro apparentemente slegate,dove le forze in campo non sono tre o quat-

OLIVIERO BERGAMINI

Media e “War on Terror”

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Oliviero Bergamini

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tro schieramenti a base etnica, ma decine,se non centinaia di formazioni più o menogrosse, a base tribale, che controllano sin-gole città o regioni, e possono continua-mente cambiare alleanze. Un paese dovela lingua è incomprensibile per l’occiden-tale medio e dove guide e autisti sono per-sone conosciute e ingaggiate in modo deltutto casuale, che a volte si rivelano cial-troni, o spie di qualche governo, o altro an-cora.

La guerra inoltre, di per sé, comportaquella che i generali chiamano la “nebbiadella battaglia”, e che Stendhal ha descrit-to benissimo ne “La Certosa di Parma”,parlando della battaglia di Waterloo. Ap-pare come un evento caotico, sfilacciato,privo di senso. È difficilissimo trovarsi alposto giusto nel momento giusto, quandoviene sferrato un attacco o succede qualco-sa.

Tutto ciò ha fatto sì che in Afghanistan,come e più che in altre guerre, i giornalistiavessero di fronte problemi oggettivi enor-mi.

Tanto più che - date le condizioni - hafunzionato più che mai, come del restosuccede in molte guerre, quello che FurioColombo ha descritto come pack, il muo-versi in “branco”. Ciò significa che i gior-nalisti di guerra raramente agiscono dasoli. Normalmente si formano gruppi an-che di decine, o anche centinaia di croni-sti che stazionano in una zona, in una cit-tà, in un accampamento, da dove cercanodi seguire gli eventi. Può essere il puntodove c’è una pista di atterraggio, una basedelle forze militari cui si appoggiano, o illuogo dove i capi locali decidono di con-centrarli.

E qui si crea subito una assurda econo-mia di guerra con grande mercanteggia-mento di autisti, noleggi auto, passaggi suelicotteri, e così via.

Esiste poi, in particolare per le televisio-ni, il problema delle trasmissioni.

Il videotelefono satellitare ha parzial-mente cambiato la situazione. Oggi è pos-sibile trasmettere immagini attraverso ilsatellite anche con una sorta di supertele-fono che può essere usato individualmen-te. Ma la trasmissione è estremamente len-ta, servono decine di minuti per riversareanche un solo servizio, e la qualità ancorabassa.

Quindi anche in Afghanistan ha funzio-nato il ruolo dei broadcaster in pool.

Ovvero, alcune organizzazioni (ad esem-pio l’Ebu, che è una società composta dalletelevisioni pubbliche europee e svolgequesto genere di servizio, ma anche agen-zie come la Reuter’s) inviano sul luogo conmille peripezie un camioncino con un’an-tenna satellitare, dove è possibile monta-re i pezzi e riversarli alla propria casa ma-dre.

Questo costringe però i giornalisti a sta-zionare nella zona dove si è installato ilmezzo, altrimenti non possono far perve-nire per tempo i loro servizi.

E qui si inserisce un’altra considerazio-ne tecnica. A differenza che in passato, og-gi esiste un enorme numero di edizioni ditelegiornali e un enorme numero di canaliin reciproca concorrenza. Non solo; ovvia-mente, oggi esistono i canali all-news, chein linea teorica trasmettono continuamenteinformazioni.

Come ha ben sottolineato Fabrizio To-nello nel suo libro “La nuova macchinadell’informazione”, questa ipertrofia dioccasioni informative finisce in realtà conil produrre un impoverimento tendenzialedei contenuti informativi.

I giornalisti televisivi sono costretti aconfezionare continuamente nuovi servizi(cosa che con i problemi logistici che hoaccennato comporta un enorme dispendio

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Media e “War on Terror”

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di tempo), a fare ripetuti collegamenti, ecosì hanno pochissimo tempo per allonta-narsi e documentarsi, cercare notizie e sto-rie.

In alcuni casi si giunge così al parados-so di alcuni giornalisti (in gergo i rooftop

journalists) che stazionano negli alberghidi lusso e si limitano a ripetere nei colle-gamenti effettuati dal tetto dell’hotel le no-tizie che ricavano dai lanci di agenzia chearrivano al loro computer. Ma anche tra igiornalisti che autenticamente vanno sulcampo, appassionati del loro lavoro - e so-no tanti - le condizioni di lavoro nella zonadi guerra, ambientali da un lato e “tecni-che” dall’altro, sono tali da precludere unlavoro di indagine veramente ampio e cir-costanziato.

Un altro ordine di fattori, ovviamente, èquello politico-censorio. E questo nellaguerra in Afghanistan ha avuto, e continuaad avere, un peso enorme.

Da sempre i poteri politico e militarehanno cercato di condizionare e limitare ilgiornalismo di guerra. Nell’Ottocento,specie nella seconda parte del secolo, cheè la prima vera grande epoca del giornali-smo di guerra, i reporter, creature ancorapoco comprese, erano lasciati molto libe-ri. I resoconti giornalistici della guerra ci-vile americana - la cosiddetta guerra di se-cessione - sono straordinariamente accura-ti, ricchi e critici. Ed è naturalmente rima-sto famoso il caso di William Howard Rus-sell, il giornalista del “Times” di Londra,considerato il padre del moderno giorna-lismo di guerra, che con i suoi articoli sullaguerra di Crimea - e sugli errori dei verti-ci militari - infiammò a tal punto l’opinio-ne pubblica da costringere il primo mini-stro a dimettersi.

Nel corso del tempo però il potere si èfatto più abile, smaliziato e deciso. I repor-ter sono stati sempre più avvinti in una rete

di divieti, condizionamenti, pressioni. Lostesso giornalismo è stato piegato alle esi-genze della propaganda (oltre che del mer-cato), come le guerre mondiali hanno di-mostrato. Un percorso che Mimmo Candi-to ha ricostruito nel suo ottimo libro “Pro-fessione reporter di guerra”, che consiglio.Dopo la controversa esperienza della guer-ra del Vietnam, poi, si è arrivati al perfe-zionamento di quello che Claudio Fracas-si (in “Sotto la notizia niente”) ha descrit-to come news management, la “gestionedelle notizie” (piuttosto che una loro sem-plice negazione), che costituisce il moder-no approccio al “problema” dei giornali-sti che pretendono di ficcare il naso in coseche non li riguardano.

Tale approccio mescola sapientementela censura e la sovrabbondanza di informa-zioni al fine di ottenere un unico risulta-to: un’informazione povera e addomestica-ta. L’esperienza non manca in particolareagli Stati Uniti, che con la loro propensio-ne all’intervento militare hanno avuto mo-do di fare molta pratica.

Nell’invasione di Grenada negli anni ot-tanta, ad esempio, le autorità militari riu-scirono a impedire a qualsiasi reporter digiungere sull’isola se non molto dopo iltermine delle operazioni. Anche nel blitzsu Panama per catturare Noriega, che pro-babilmente provocò centinaia, se non mi-gliaia di morti, i giornalisti vennero tenu-ti lontani in modo così abile che l’informa-zione sull’evento fu quasi inesistente.

Ma il massimo risultato è stato raggiun-to con la guerra del Golfo.

Qui le autorità americane hanno messoin atto una strategia veramente capillare:da un lato hanno tenuto i giornalisti siste-maticamente lontani dalle zone di opera-zione. Sono famosi i casi di persone che sicollegavano da basi lontane centinaia senon migliaia di chilometri dalle operazio-

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ni e di fatto tiravano a indovinare su checosa stesse succedendo. In generale, ci fuun embargo totale di immagini compro-mettenti, in particolare quelle delle vitti-me militari e civili. La guerra del Golfo èpassata nell’immaginario collettivo in pra-tica come una guerra senza morti. Unaguerra “pulita” e “asettica”, il sogno diogni dottor Stranamore.

Contemporaneamente, i reporter sonostati coinvolti in una sorta di abbraccioletale. Si fecero innumerevoli riunioni conrappresentanti dei maggiori giornali e net-

works per concordare regole di lavoro chedi fatto erano estremamente vincolanti: aigiornalisti vennero fatti firmare documentiche li impegnavano a sottoporre alla cen-sura preventiva ogni immagine o testo, etout court a non trasmettere alcuna infor-mazione che avrebbe potuto compromet-tere la sicurezza dei soldati americani -concetto ovviamente vastissimo ed esten-sibile a piacimento.

Al tempo stesso, i militari organizzaro-no pool di giornalisti, cameramen, fotogra-fi, che venivano accompagnati su portae-rei o nelle basi, o al seguito delle truppe,ma in modo assolutamente controllato.Non solo: lo stesso esercito divenne fontegenerosissima di informazioni, con quoti-diane conferenze stampa, sfoggio di carti-ne, apparente disponibilità alle domande.E persino gentile concessione di immagi-ni degli attacchi. Ovviamente si trattava diinformazioni irrilevanti o fuorvianti, ovve-ro di immagini di propaganda, come quelledivenute famose in cui le bombe intelli-genti spaccano in quattro il minuscolo o-biettivo, assolutamente militare, che ave-vano individuato nel mirino laser. Soltan-to negli anni seguenti si è saputo che lapercentuale di precisione delle bombe in-telligenti era in realtà nettamente inferio-re al 40 per cento.

Anche nella guerra in Afghanistan si èseguito questo modello. Nelle frequentis-sime conferenze stampa di Rumsfeld o diFranks, in realtà sono state fornite pochis-sime informazioni. E le poche immaginidisponibili delle truppe americane a lun-go sono state solo quelle sfuocate di qual-che attacco notturno - che avrebbe potutoavvenire in qualsiasi luogo - e sempre ri-gorosamente senza che fossero visibili vit-time.

Per l’Afghanistan, in realtà, è stato com-piuto uno sforzo particolarmente grandenel senso della censura e del divieto di ac-cesso alla zona di guerra.

L’organizzazione Reporters sans Fron-tiers ha più volte criticato il Pentagono ela Casa Bianca per i loro sistematici sforzicensori.

Ad esempio, per settimane, è stato im-pedito a chiunque di avvicinarsi alle trup-pe americane schierate in Uzbekistan. Perquanto massiccio, lo schieramento dellafamosa divisione di montagna è stato so-stanzialmente invisibile. E a tutt’oggi lapresenza americana resta pressoché fanta-smatica nelle rappresentazioni della guer-ra.

Un’altra recente polemica riguarda iltrasbordo dei prigionieri talebani a Guan-tamano. Al momento della partenza dal-l’Afghanistan il pool di giornalisti presentiè stato letteralmente sequestrato in una ba-racca, ed è stato vietato loro di riprenderel’operazione. Come sappiamo, poi, qual-cosa è trapelato, ed ha suscitato gravi po-lemiche.

Altre operazioni di censura riguardanoovviamente le vittime civili dei bombarda-menti, di cui abbiamo sentito parlare po-chissimo. Secondo il giornale inglese “TheGuardian”, il Pentagono, ad esempio, haspeso parecchi milioni di dollari per acqui-stare in esclusiva i diritti delle fotografie

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di satelliti privati, in particolare il satelli-te Ikonos, proprietà di una azienda di Den-ver, la Space-Imagine, che avrebbero po-tuto mostrare gli effetti reali dei bombar-damenti, in particolare sui civili. Qui c’èda segnalare un’esperienza interessante diMarc Herold, docente di economia dellaUniversity of New Hampshire, che navi-gando in Internet e incrociando le informa-zioni reperibili in vari siti della rete, ègiunto a una stima circostanziata di alme-no 4.000 morti civili in seguito alle opera-zioni americane.

Ma non dobbiamo immaginare le limi-tazioni delle informazioni come un attocensorio brutale e sempre “esterno”; inrealtà il meccanismo è spesso complessoe ambivalente. Nelle particolari circostan-ze della cosiddetta “war on terror” - cosìla chiama la Cnn - ha funzionato moltissi-mo il martellante appello al patriottismo,che ha indotto molti networks ad autolimi-tarsi, ad autocensurarsi.

Esemplare è la vicenda dei video di Osa-ma bin Laden. Al di là della valutazionedei loro contenuti, è sicuramente straordi-nario il modo in cui le autorità militarihanno combattuto la loro messa in onda.Una via di mezzo tra l’imposizione e lapressione nel nome del superiore interes-se della patria, che molti networks - tra cuila stessa Cnn - hanno incredibilmente ac-cettato, limitando o riducendo la trasmis-sione dei video.

Questo - sia detto per inciso - anche sullabase della ragione che attraverso di essi binLaden avrebbe potuto lanciare segnali diattacco alla cellule “dormienti” sparse peril pianeta. A mio avviso - ma è solo ungiudizio intuitivo, personale - si tratta diuna geniale ma assolutamente infondatafandonia, inventata da qualche operatore dipr e prontamente diffusasi nei media.

E qui arriviamo al terzo ordine di con-

dizionamenti, che posso solo accennare,anche se è forse il più importante. Quelloideologico.

Dopo l’11 settembre a mio avviso si è vi-sto quanto sottile sia la patina della tolle-ranza, dell’apertura mentale di cui spessola società occidentale si fa vanto. Sotto laspinta dirompente di eventi certamente tra-gici come gli attacchi a New York e Wa-shington, questo velo è stato squarciato, esono riemersi, come montagne che erom-pono dal sottosuolo, antichi schematismiideologici e pregiudizi culturali, i qualihanno plasmato e stanno plasmando l’inte-ra rappresentazione degli eventi.

Qui i testi di riferimento sono ovviamen-te quelli di Edward W. Said, il grande stu-dioso palestinese che insegna alla Colum-bia University di New York, la culla delgiornalismo americano. Nel suo celebre li-bro intitolato “Orientalismo” Said ha mes-so in evidenza come l’Occidente nei secoliha costruito un’immagine stereotipata,semplificata, artificialmente esotica e“aliena” dell’Oriente; e questa immaginesopravvive sostanzialmente anche oggi econdiziona il nostro approccio mentale,sottendendo l’idea diffusa di uno “scontrodi civiltà”, per usare l’abusata espressio-ne di Samuel Huntington. Said ha anchescritto un testo - che andrebbe tradotto inItalia - intitolato “Covering Islam: How theMedia and the experts determine how wesee the rest of the world”; un’analisi impie-tosa delle superficialità e forzature ideo-logico-culturali che informano la visionedel “mondo islamico” (espressione di persé da respingere) da parte dei media occi-dentali. Anche se non si condividono tuttii giudizi di Said, in particolare sulla que-stione palestinese, il libro è molto interes-sante: Said dimostra come anche i giornaliconsiderati più “liberal”, come le rivisteamericane “New Republic” o “Atlantic

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Monthly”, tendono a demonizzare e deu-manizzare i musulmani, a presentarli co-me una massa indistinta di individui irra-zionali e fanatici, privi di storia e di ragionipolitico-sociali, prede del loro estremismoreligioso e di una aggressività quasi anima-lesca. Said va più in profondità, analizzan-do ad esempio i meccanismi linguistici chedi fatto attribuiscono razionalità e logicaagli occidentali, e pura istintualità ai mu-sulmani: gli occidentali “fanno” dellecose, in seguito a una concatenazione cau-sa-effetto ricostruibile razionalmente; gliislamici “sono” così come sono, in una sor-ta di fissità atemporale.

Questo tipo di atteggiamento mentalepervade indubbiamente anche il modo incui è stata rappresentata la guerra in Af-ghanistan. Dopo alcuni timidi tentativi dianalizzare il fenomeno “Islam” (operazio-ne di per sé ideologica; si sarebbe piutto-sto dovuto cercare di ricostruire la com-plessa vicenda storico-politica dei paesicoinvolti), i media si sono buttati a raccon-tare la guerra, o cercare di farlo, rinuncian-do in gran parte a ogni sforzo di prospet-tiva storica e di approfondimento socialeed umano. I civili coinvolti sono stati pre-sto ridotti al rango di masse urlanti (comenelle manifestazioni in Pakistan), o di en-tità sub-umane che si aggirano in un pae-saggio informe e devastato (che è frutto inrealtà di vent’anni di guerra in buona par-te dovuta alle potenze straniere che si sonocontese l’Afghanistan). La deumanizza-zione funziona in molti modi. Ad esempionegando sistematicamente la dignità di unnome alle persone intervistate, oppure pre-sentandole in situazioni estreme e decon-testualizzate.

Personalmente io ricordo un episodiodove questo è venuto meno, e che per con-trasto ha evidenziato il fenomeno: un ser-vizio di Giovanna Botteri, del Tg3, in cui

un vecchio mostrava con orgoglio un tes-serino da ufficiale dell’esercito afghano dicinquant’anni fa. Un piccolo squarcio diidentità e storia in un manto di genericitàindistinta. Oppure possiamo citare il film“Viaggio a Kandahar”, dove gli afghani so-no ritratti come persone, con le loro debo-lezze, furbizie, contraddizioni, paure. Nel-le immagini televisive, invece, finisconocon l’apparire o come guerriglieri straccio-ni che combattono senza una vera ragione,quasi per una animalesca rissosità, o comeindigenti abbrutiti, privi di intelligenza epersonalità.

In particolare, poi, è stato praticamenteobliterato il punto di vista dell’opinionepubblica dei paesi islamici. Praticamentemai si sono ascoltati intellettuali e anali-sti musulmani; né si è data voce alle mas-se islamiche che rifiutano di credere cheOsama bin Laden sia stato responsabile de-gli attentati, e soprattutto vedono lo “sceic-co del terrore” come un eroe perché, purricchissimo, vive una vita di stenti e peri-coli e combatte in qualche maniera quellache viene percepita come una gigantesca,secolare discriminazione e oppressioneoccidentale a danno dei paesi del MedioOriente e dell’Asia centrale. Sintomaticosi è rivelato l’atteggiamento americanoverso Al Jazeera, con continue accuse divicinanza ai terroristi, tentativi di oscura-mento, ed anche il bombardamento fisicodi alcuni locali di Al Jazeera a Kabul (dovela televisione del Quatar era rimasta la solaa mantenere un corrispondente).

In realtà, ovviamente, posizioni “filoi-slamiche” sono qua e là trapelate. Ma ilproblema - secondo la felice definizioneusata da Giulietto Chiesa nel suo recentelibro sul G8 - è la “musica di fondo”, il to-no generale dell’informazione.

A questo proposito vorrei citare ancoraun episodio personale. Intervistando alcuni

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pakistani residenti a Milano sul tema del-la guerra in Afghanistan, molti di loro -persone tranquille e ben integrate, nienteaffatto terroristi - mi hanno detto che Osa-ma bin Laden a loro avviso non era colpe-vole degli attentati e che era un “goodman”, e un “good muslim”, perché aiutavai musulmani nel Kashmir, dove gli india-ni li perseguitavano e uccidevano senzache nessuno al mondo facesse qualcosa.Mi sono autocensurato, non ho mandato inonda quelle frasi. Semplicemente perchénel contesto di generale slancio patriotti-co e anti-islamico che dominava l’informa-zione in quel momento (si era in ottobre),non avrebbero fatto altro che far apparirequei giovani come fanatici filoterroristi;avrebbe ulteriormente alimentato un gene-ralizzato sentimento anti-islamico. Gli in-tervistati non erano filoterroristi, tutti con-dannavano l’attentato; ma l’effetto delleloro opinioni di bin Laden, a causa appun-to della “musica di fondo”, sarebbe statotroppo stridente. Quelle parti di intervisteavrebbero avuto bisogno di una diversaspiegazione e contestualizzazione, che eraimpossibile realizzare negli spazi brevi diun telegiornale.

Rispetto sia alla censura sia alla dimen-sione ideologica, va detto per inciso cheassume grande rilevanza quello che NoamChomsky, nel suo libro “La fabbrica delconsenso”, identifica come un fondamen-tale fattore strutturale da cui dipende l’im-postazione complessiva dell’informazionemainstream, ovvero il “gigantismo” deimedia. Oggi, come sappiamo, è in atto unprocesso di concentrazione straordinario.Gran parte delle informazioni, specialmen-te su eventi di questo ordine, ci vengonoda poche enormi corporations le quali, pe-raltro, sono sempre più conglomerati mul-timediali, in cui l’informazione giornali-stica è un prodotto tra altri, in special modo

altri prodotti di intrattenimento. Ciò ten-de inevitabilmente a disincentivare le in-formazioni “dissonanti”, critiche, origina-li, eccentriche e a rafforzare invece la ten-denza al mainstream. La Cnn ad esempiooggi fa capo ad Aol Time Warner; la Abcalla Disney e i prodotti nelle future piat-taforme multimediali saranno sempre piùintegrati. E quindi sarà sempre più difficileche la corporation che fabbrica i film diDisney offra anche un’informazione chesottolinei le devastazioni operate dallegrandi aziende capitaliste americane. Ed’altra parte, il gigantismo delle corpora-

tions mediatiche le lega a doppio filo aicircuiti finanziari e politici dell’establish-

ment. Fox News, ad esempio, il nuovo ca-nale all-news che sta sfidando il primatodella Cnn, ha avuto grande successo pun-tando su una linea ultrapatriottica, oltreche su un tipo di giornalismo molto spet-tacolarizzato e “gridato”, anche perché dalgoverno americano dipendono alcune cru-ciali decisioni su concessioni nel settoredelle telecomunicazioni che la riguardano.

La dimensione ideologica è ovviamen-te la più difficile da combattere, perchépervade la nostra visione del mondo finnelle più riposte pieghe del linguaggio.Perché trova ostacoli pressoché insormon-tabili nella lingua, nella mentalità, che èindubbiamente diversa in paesi come ilPakistan e l’Afghanistan, ma non per que-sto non-umana; si tratta semplicemente diun modo differente di essere uomini, per-sone. Ma questo è difficile da rendere e daspiegare. Tanto più nei sempre più sinco-pati e frenetici tempi della comunicazio-ne televisiva.

Detto tutto ciò, io devo dire che credoche tra i giornalisti di guerra - che sono unasorta di razza a parte, antropologicamen-te e psicologicamente - moltissimi sianoquelli che cercano in modo sincero e osti-

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Oliviero Bergamini

12 l’impegno

nato di avvicinarsi il più possibile alla ve-rità. I condizionamenti anche soggettivi,interni, sono moltissimi: e a volte prevalela voglia di fare lo scoop, o di inviare il ser-vizio ad effetto. Nella noia delle prime set-timane di guerra spesso i giornalisti paga-vano gli uomini dell’Alleanza del Nordperché sparassero qualche colpo in mododa poter riprendere un po’ di “azione”.

Vittorio Zucconi ha in parte ragionequando parla di “notte della verità” in rife-rimento al giornalismo di guerra e di que-sta guerra in particolare.

Quanto è stato detto fin qui non deveperò scoraggiarci. Nel grande fiume del-l’informazione ci sono anche molte pepi-te di verità. Certamente dobbiamo sobbar-carci uno sforzo per trovarle, per vagliarecriticamente ciò che vediamo e sentiamo.Walter Lippmann però lo dice, nel suo fon-damentale studio “L’opinione pubblica”;perché l’informazione, a differenza delcibo, o della partecipazione politica, do-vrebbe essere qualcosa che si ottiene con

facilità, e magari gratis? Anche per essereinformati dobbiamo essere pronti a lavo-rare, a impegnarci, a fare fatica. Consape-voli che fa parte del nostro diritto, ma an-che del nostro dovere di cittadini.

E comunque dobbiamo tenere a menteche molti giornalisti davvero con convin-zione lottano per darci almeno qualchebrandello di verità. Vorrei finire qui, allo-ra, rendendo omaggio a Maria Grazia Cu-tuli, José Fuentes, e agli altri giornalisti,sette in tutto fino ad oggi, morti in Afgha-nistan. Io conoscevo solo superficialmen-te Maria Grazia Cutuli, e certamente an-che lei era presa nei meccanismi che hosommariamente descritto. Ma credo chesinceramente cercasse di raccontare la sto-ria, di decifrare e interpretare il labirintodei fatti; un lavoro duro, precario e nonsempre coronato da successo. Ma indi-spensabile per la mia condizione di citta-dino e di persona umana. E per questo lesono grato.

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saggi

l’impegno 13

Nazionalismo, etnicità, cultura

Uno degli aspetti più rilevanti (e anchepiù sorprendenti) del processo di trasfor-mazione che investe il mondo contempo-raneo, e che viene indicato con il termineal tempo stesso generico e mistificante di“globalizzazione”, è costituito dal molti-plicarsi dei localismi, dei nazionalismi, de-gli integralismi religiosi. Il fenomeno delnazionalismo (spesso demarcato in termi-ni etnici o religiosi) è diffuso non solo neicontinenti extra-europei ma anche in Eu-ropa

L’intreccio di fenomeni diversi quali l’et-nicità, il nazionalismo e la religione impo-ne che ci si interroghi sul motivo per cui,nel mondo contemporaneo, forme di iden-tità collettiva di natura non politica diven-tino politicamente significative. Il punto diincontro fra etnicità, religione e naziona-lismo può essere individuato nei processiculturali: la cultura è - come osserva Ver-dery - “il locus in cui si producono quelleforme di visibilità collettiva che diventanodifferenze etniche”1 ma è, al tempo stes-

so, il piano su cui si collocano sempre piùspesso le strategie politiche delle élites alpotere in numerosi paesi dell’Europa o-rientale e dei continenti extra-europei.Questa sovrapposizione spiega l’intrecciofra forme di mobilitazione politica, di pro-duzione del consenso, di elaborazione diideologie nazionaliste e processi di costru-zione delle identità collettive (“etniche”).

L’intreccio di questi fenomeni non impli-ca la loro identità; a differenza di quantosostengono vari studiosi (da Connor aSmith e Verdery), nazionalismo ed etnici-tà non sono la stessa cosa. Ma proprio per-ché non sono la stessa cosa è importantenon solo mettere a fuoco le differenze, maanche cogliere analogie e somiglianze.Quando si afferma che la cultura è il locus

in cui si attivano strategie miranti a produr-re identità collettive (etniche o nazionali)si vuole sottolineare il fatto che tali formedi identità sono costrutti culturali. I sogget-ti collettivi costruiscono le identità etnichee nazionali tracciando linee di confine, se-lezionando fra le innumerevoli differenzeculturali esistenti a ogni livello e in ogni

*Questo saggio costituisce una versione modificata e ampliata della seconda parte del VIIcapitolo de La costruzione dell’etnicità, Torino, l’Harmattan, 2000.

1 KATHERINE VERDERY, Ethnicity, Nationalism and State-making, in HANS VERMEULEN - CORA

GOVERS (a cura di), The Anthropology of Ethnicity. Beyond “Ethnic Groups and Bounderies”,Amsterdam, Het Spinhuis, 1994, p. 96.

PIETRO SCARDUELLI

Il nazionalismo in una prospettiva antropologica*

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Pietro Scarduelli

14 l’impegno

contesto, decidendo quali scarti sono signi-ficativi e quali non lo sono, stabilendo, aseconda delle strategie adottate e dei finiperseguiti, quali elementi di discontinuitàdevono essere evidenziati e quali inveceoccultati. In sostanza le identità etniche enazionali non solo sono il prodotto di scel-te, ma di scelte mutevoli, provvisorie e re-vocabili, che variano in relazione ai con-testi, alle situazioni e ai rapporti fra sog-getti collettivi (sociali o politici).

Ma affermare che le identità etniche enazionali sono costrutti culturali non è suf-ficiente: la loro natura è più complessa.Tali costrutti infatti sono percepiti dai sog-getti come realtà oggettive, ma la convin-zione che le identità (etniche o nazionali)siano realtà oggettive (che cioè gli elemen-ti che le costituiscono, i tratti distintivi chene definiscono l’appartenenza, siano co-stanti e inalterabili nel tempo, manifesta-zioni metastoriche di un’identità “essen-ziale”) è essa stessa un costrutto cultura-le2. Ci troviamo dunque di fronte ad un du-

plice costrutto culturale: il “manufatto”(cioè l’identità “costruita”) e l’asserzionedel suo carattere metastorico, della suacongruenza con il passato. Questo secon-do aspetto del costrutto culturale è il pro-dotto di un processo che, attraverso la rei-ficazione di tradizioni manipolate o inven-tate, genera falsa coscienza, in quanto i“portatori” dell’identità (costruita) sonoignari proprio del fatto che è “costruita”,storicamente determinata e contingente.

Ma le affinità fra identità etniche e na-zionali vanno al di là della loro comune

natura di costrutti culturali: sono simili an-che i modi in cui questi costrutti sono in-ternamente articolati. Poiché sia le identitàetniche che quelle nazionali tendono a pre-sentarsi come “naturali”, le differenze, unavolta create, vengono percepite come con-fini interspecifici (simili cioè a quelli cheseparano specie diverse); l’idea di confine(fra etnie o nazioni) serve a creare il sen-so di un’omogeneità interna alla colletti-vità (etnica o nazionale) e di una sua irri-ducibile diversità rispetto ad altri “popo-li”3. Se lo scopo dei processi di costruzio-ne sia delle identità etniche che di quellenazionali è la creazione di un campo di in-terazioni e interrelazioni culturalmenteomogeneo, la cui unità è percepita in con-

trapposizione ad altre entità analoghe (unacontrapposizione che può assumere unavasta gamma di forme conflittuali, dallaguerra alle competizioni sportive), risultaevidente che le identità etniche e nazionalisono relazionali e che quindi “l’idea stessadi nazione presuppone l’esistenza di altrenazioni”4.

Per creare un campo di omogeneità cul-turale è frequente il ricorso, sia nell’ambitodell’etnicità che in quello del nazionali-smo, a metafore tratte dalla sfera della pa-rentela e della religione5. Si pensi all’im-portanza che, nell’ideologia nazionalista,ha l’immagine della patria come comunitàsacra e alla frequenza con cui ricorrono nellessico nazionalistico espressioni come“sacro suolo della patria” o “martiri dellapatria”. Spesso la nascita della nazione èrappresentata come un rito di passaggio

2 THOMAS HYLLAND ERIKSEN, Ethnicity and Nationalism, Oslo, Pluto Press, 1993, p. 100.3 K. VERDERY, op. cit., p. 49.4 T. H. ERIKSEN, op. cit., p. 111.5 BENEDICT ANDERSON, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma,

Manifestolibri, 1996, p. 27; ed. orig., Imagined Communities. Reflections on the Origins andSpread of Nationalism, London, Verso, 1983.

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Il nazionalismo in una prospettiva antropologica

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cruento6 in cui, per provare il proprio di-ritto all’autodeterminazione, essa devecombattere e sconfiggere dei nemici ester-ni (invasori, colonizzatori). La lotta di li-berazione assume i toni di un dramma ca-tartico in cui la nazione si rigenera attra-verso il sangue, dimostrando di possederele doti di coraggio e valore che la rendonodegna di passare da una condizione infan-tile di sudditanza ad una condizione adultadi sovranità.

Non meno pervasivo è il ricorso a meta-fore tratte dalla sfera della parentela: “ter-mini di parentela ricorrono con frequenzanel lessico nazionalistico”7 nonché in quel-lo etnico: la patria è una “madre” comune(la “madrepatria”), il condottiero o il lea-der politico che ha guidato la lotta per l’in-dipendenza è il “padre della patria”, i con-nazionali (o i membri della stessa etnia)sono rappresentati come “fratelli”. In talmodo gli stati emotivi e gli obblighi asso-ciati alle credenze religiose e ai vincoli diparentela (dedizione e disponibilità al sa-crificio, amore, solidarietà, reciproco so-stegno) vengono trasferiti nel campo dellerelazioni etniche e politiche.

Come si è detto, etnicità e nazionalismonon sono la stessa cosa: al di là delle ana-logie che abbiamo indicato esistono infattidifferenze sostanziali. L’esigenza di crea-re un’immagine di omogeneità culturaleassume infatti, nel caso del nazionalismo,connotazioni politiche e viene soddisfattaattraverso la messa in atto di strategie ade-guate: una politica di omogeneizzazioneculturale crea una nazione, cioè una “co-

munità immaginata” (per usare le parole diAnderson) che rende possibile governaretutti coloro che condividono questa imma-gine e di conseguenza credono di averequalcosa in comune. La creazione del mo-derno stato-nazione è dunque un processodi inglobamento culturale che ha caratte-ristiche specifiche e peculiari del tutto di-stinte dai processi di etnogenesi. Tale pro-cesso, oltre a creare omogeneità, produceanche differenze, generando al tempo stes-so inclusione ed esclusione (di coloro che,per qualche motivo, non possono essereinclusi e vengono etichettati come mino-ranze etniche o religiose, oppure deviantio marginali)8.

Nazionalismo e Rivoluzione industriale

Gellner e Anderson hanno fornito uncontributo rilevante all’analisi dei processidi omogeneizzazione culturale che hannogenerato i nazionalismi moderni nel cor-so del XVIII e del XIX secolo. Pur defi-nendo il nazionalismo “un principio poli-tico che sostiene la coincidenza di unitànazionale e unità politica”9 e che dunquenon tollera “che i confini etnici siano vio-lati da quelli politici”10, Gellner non so-vrappone nazionalismo ed etnicità e sostie-ne, al contrario, la totale estraneità dei duefenomeni. Infatti, mentre l’etnicità è un fe-nomeno diffuso nel tempo e nello spazio,comune ad un gran numero di società pre-senti e passate, il nazionalismo nasce in uncontesto specifico e in una precisa con-giuntura storica: non solo non è presente

6 T. H. ERIKSEN, op. cit., p. 112.7 Idem, p. 108.8 K.VERDERY, op. cit., p. 46.9 ERNEST GELLNER, Nazioni e nazionalismi, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 3; ed. orig., Na-

tions and Nationalism, Oxford, Blackwell, 1983.10 Idem, p. 4.

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nelle società senza stato ma neppure neglistati pre-moderni. Ciò implica che stato enazione sono frutto di processi storici di-stinti e indipendenti.

Analizzando il processo storico di for-mazione e trasformazione degli stati Gell-ner pone le premesse per rispondere alladomanda-chiave: in quali stati e perchésorge il nazionalismo? L’elemento centra-le del modello teorico utilizzato da Gellnerper analizzare questo processo di trasfor-mazione degli organismi statuali è la di-stinzione fra età agricola ed età industria-le11. Nella fase agricola emerge lo stato,appare la scrittura e si forma un’élite lette-rata che, grazie alla parola scritta, assumeil controllo delle funzioni sacerdotali elegislative, delle attività giuridiche e diquelle amministrative; a questa ristretta“classe di specialisti letterati” si contrap-pone una vasta maggioranza analfabeta12.La classe dirigente, portatrice di un’ideo-logia che “accentua l’ineguaglianza delleclassi”, è suddivisa in strati specializzati:“militari, sacerdoti, intellettuali, ammini-stratori”; sotto questa “minoranza stratifi-cata orizzontalmente”, che costituisce ilvertice della società, c’è la grande massadei contadini: un mondo di “piccole comu-nità” che non solo sono, nel loro insieme,culturalmente separate dall’élite (e ad essainferiori perché illetterate) ma anche cul-turalmente differenziate l’una dall’altra,

perché portatrici di distinte tradizioni lo-cali13.

Emerge così una configurazione socio-politica caratterizzata al tempo stesso dalla“centralizzazione del potere” e dalla “cen-tralizzazione della conoscenza e della cul-tura”, due elementi che delineano “la strut-tura tipica della società-stato agrolettera-ta”14. In questo tipo di società una alfabe-tizzazione di massa è praticamente impos-sibile perché non ne esistono i mezzi15. Mal’aspetto che a Gellner interessa sottolinea-re è che in un simile contesto “quasi tuttosi oppone alla definizione delle unità po-litiche in termini di omogeneità cultura-le”16: in primo luogo la netta separazionealto/basso all’interno della società, cioèl’abisso culturale che separa l’élite deten-trice della lingua scritta dalle comunità il-letterate17; in secondo luogo gli “steccaticulturali orizzontali” che separano le co-munità illetterate l’una dall’altra18; infineil fatto che i gruppi locali, pur essendoportatori di specifiche identità culturali,non ne sono consapevoli; la loro specificitàculturale non si trasforma quindi in iden-tità etnica e tantomeno politica19. In sintesinelle società agroletterate i confini cultu-rali non coincidono con quelli politici madelimitano ceti e comunità all’interno del-lo stato20.

Invece nella società industriale l’élite

intellettuale “si universalizza” e “la cultura

11 Idem, p. 11.12 Ibidem.13 Idem, p. 13.14 Idem, p. 12.15 Idem, p. 14.16 Idem, p. 15.17 Idem, p. 14.18 Idem, p. 15.19 Ibidem.20 Idem, p. 16.

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Il nazionalismo in una prospettiva antropologica

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superiore pervade l’intera società”21. Qualisono i processi che producono questa ra-dicale trasformazione? Innanzitutto la ri-voluzione scientifica, che plasma un nuo-vo modo di pensare che non concepisce piùil mondo come una congerie di eventi in-commensurabili, prodotti da cause quali-tativamente diverse (magiche), ma comeuno spazio “omogeneo”, occupato da e-venti e “fatti standardizzati e uniformi,soggetti a leggi universali” e interpretabi-li in termini logici22. Il nuovo mondo men-tale è espresso in un linguaggio “unitario,neutro”23 che supera la tradizionale oppo-sizione fra lingua liturgica e lingue verna-colari. La rivoluzione concettuale si ac-compagna ad una rivoluzione sociale checrea collettività di individui atomizzati; frala società di massa e l’universo mentaleforgiato dalla scienza, cioè fra la comuni-tà “anonima” composta da “uomini unifor-mi” e il mondo “dei fatti unificati e stan-dardizzati” si istituisce un rapporto di ri-specchiamento24.

Una trasformazione così profonda del-l’universo cognitivo e di quello sociale hainevitabilmente delle ripercussioni di va-sta portata sull’organizzazione sociale dellavoro. Le differenze più vistose che emer-gono dal confronto fra le società agricolee quelle industriali sono indubbiamente lamaggiore mobilità e la più complessa di-visione del lavoro delle seconde25; Gellnerperò punta il dito su una differenza “piùsottile”26: le società agricole presentano

specializzazioni meno numerose ma “piùdistanti l’una dall’altra di quanto non losiano” quelle delle società industriali. In-fatti le attività artigianali sono caratteriz-zate spesso da una straordinaria perizia,“frutto di un’intera vita di addestramen-to”27, esigono un patrimonio di conoscen-ze tenute gelosamente segrete e tramanda-te di padre in figlio o all’interno di unacorporazione chiusa. Invece nelle societàindustriali le specializzazioni, pur essen-do più numerose, sono meno distanti: “iloro segreti sono assai più vicini alla reci-proca comprensibilità, i loro manuali han-no linguaggi che si sovrappongono [...] eil riaddestramento [...] non è un compitoda far paura”28.

In sostanza Gellner opera una suddivi-sione all’interno della categoria durkhei-miana della “solidarietà organica”, trattoche il sociologo francese attribuiva sia al-l’organizzazione del lavoro delle civiltàpre-industriali che a quella delle società in-dustriali. Il diverso tipo di specializzazio-ne lavorativa che le seconde presentano ri-spetto alle prime sarebbe dovuto al fattoche “l’istruzione nella società pre-indu-striale è [...] generale” e precede le specia-lizzazioni29. Per quanto la società indu-striale sia “la società più altamente specia-lizzata che sia mai esistita [...] il suo siste-ma educativo è indiscutibilmente il meno

specializzato, il più universalmente stan-dardizzato che sia mai esistito. Lo stessotipo di istruzione è dato a tutti i bambini e

21 Idem, pp. 21-22.22 Idem, pp. 26-27.23 Idem, pp. 25-26.24 Idem, p. 26.25 Idem, p. 30.26 Ibidem.27 Idem, p. 31.28 Ibidem.29 Ibidem.

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gli adolescenti fino ad un’età straordina-riamente tarda” e le scuole di specializza-zione si collocano “solo alla fine del pro-cesso educativo”30.

Sembra un paradosso, ma in realtà lapresenza di un sistema educativo universa-le “standardizzato e non specializzato” èun “fondamento necessario” della societàindustriale, la cui struttura è simile a quelladi un esercito. Infatti “un esercito modernosottopone le proprie reclute ad un comuneaddestramento generale nel corso del qualedevono acquisire e interiorizzare il lin-guaggio fondamentale, il rituale e le tecni-che comuni all’esercito nel suo complesso,e solo successivamente le sottopone ad unaddestramento più specifico”; analoga-mente una società moderna “impartisce atutte le proprie reclute un addestramentoprolungato” basato su alcuni “requisiti co-muni: leggere, scrivere, far di conto, attitu-dine al lavoro e al vivere sociale, familiari-tà con i fondamentali compiti tecnici e so-ciali”31. Tutto ciò costituisce un “addestra-mento di base” al quale vengono poi “so-vrapposte capacità specifiche”32.

L’addestramento di base viene assicura-to da istituzioni educative centralizzate,che forniscono un’istruzione comune atutti i membri della società. Ciò significache nelle società industriali non esiste piùl’élite letterata tipica delle società agrico-le perché tutti sono letterati33. A generarela necessità di istruzione generalizzatasono alcuni aspetti specifici dell’organiz-

zazione del lavoro: la mobilità occupazio-nale (che esige una base educativa su cuiinnestare l’addestramento indispensabilealla riqualificazione del lavoro) e il con-tenuto delle attività professionali, che nonconsiste più “nella manipolazione di cosema di informazioni”34. Le trasformazionidel sistema produttivo fanno sì che “il nu-mero di lavoratori che devono applicare di-rettamente la forza fisica agli oggetti na-turali sia in costante diminuzione. La mag-gioranza dei lavori comporta il controllo dibottoni, interruttori, leve che devono esse-re capiti e che si possono spiegare con unlinguaggio standard. Per la prima voltanella storia umana comunicazioni precisediventano importanti e di impiego generalee diffuso”35. La comunicazione - osservaGellner - è diventata il fattore decisivo nel-l’organizzazione del lavoro: si comunicacostantemente e “la comunicazione deveessere esplicita, chiara, impersonale”36.

Le istituzioni educative deputate al com-pito di istruire la totalità della popolazio-ne hanno una dimensione e un costo soste-nibili solo da una struttura poderosa comequella dello stato, il quale si accolla que-sto compito perché nella società modernail monopolio dell’istruzione è diventatouno strumento fondamentale per la gestio-ne e il controllo del potere37.

È a questo punto dell’argomentazione diGellner che comincia a delinearsi la natu-ra del nesso che lega la nazione (e il nazio-nalismo) allo stato e, al tempo stesso, pren-

30 Idem, pp. 31-32.31 Idem, p. 32.32 Ibidem.33 Idem, pp. 36-37.34 Idem, p. 38.35 Ibidem.36 Idem, p. 41.37 Idem, p. 43.

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de corpo la risposta al quesito: in quali statisorge il nazionalismo e perché? La tesi diGellner è, in sintesi, la seguente:

a) la società industriale, basata su un si-stema produttivo ad alto tasso di tecnolo-gia, crea un’organizzazione del lavoro cheimpone mobilità occupazionale e qualifi-che basate sulla capacità di comunicare inun linguaggio preciso e standardizzato;

b) per funzionare, questo sistema produt-tivo ha bisogno di un’istruzione di massadi alto livello, cioè di un sistema educati-vo capace di fornire a tutti i cittadini di unostato la stessa istruzione di base;

c) l’omogeneità culturale che così si de-termina entro i confini di uno stato crea unforte senso di identità culturale collettiva:tutti i cittadini sentono di condividere lamedesima cultura e sono indotti a identi-ficare la cultura comune con lo stato di cuisono membri;

d) il nazionalismo consiste in questa i-dentificazione fra stato e cultura38.

Già altri studiosi avevano messo in evi-denza che l’omogeneità culturale entro iconfini di uno stato è un tratto distintivodel nazionalismo, ma la tesi di Gellner pre-senta una novità che consiste nel tipo dirapporto che viene istituito fra i due feno-meni: “non è il nazionalismo a imporrel’omogeneità” ma, al contrario, è l’omoge-neità culturale a generare il nazionali-smo39.

Individuata la matrice del nazionalismoe chiarito il suo rapporto con lo stato, Gell-ner passa ad esaminarne gli sviluppi sto-rici. Il fatto che il nazionalismo sia un ef-

fetto (mediato) della Rivoluzione indu-striale non significa, secondo Gellner, chela storia politica dei due secoli successivia questa grande trasformazione (il XIX eil XX) ne sia stata completamente domina-ta; al contrario, il nazionalismo avrebberivelato un’intrinseca “debolezza”40, evi-denziata dal fatto che “il numero dei po-tenziali nazionalismi che, per così dire,hanno tralasciato di abbaiare è di gran lun-ga maggiore di quello dei nazionalismi chehanno abbaiato”41.

Questa valutazione quantitativa si basasul presupposto che il numero delle cultu-re umane (calcolabile in base al numerodelle lingue parlate, che sono approssima-tivamente ottomila) è di gran lunga supe-riore a quello degli stati esistenti (circaduecento). Ne consegue che il numero del-le culture che si sono date (o aspirano adarsi) un’organizzazione statale, e quindihanno dato vita a “nazionalismi effettivi”(perché - come si è detto - per Gellner èl’identificazione di una cultura con unostato a produrre nazionalismo) è molto in-feriore a quello delle culture che non han-no manifestato questa aspirazione, cioè alnumero dei nazionalismi “potenziali”42.

Ciò significa - conclude Gellner - che laspinta a identificare una cultura con unostato “non è, dopo tutto, così potente”43:non tutti i gruppi che sono potenzialmen-te nazioni tentano di diventare tali a tuttigli effetti. Questa drastica selezione sareb-be una conseguenza della natura stessa delnazionalismo, che consiste nell’identifica-zione di una cultura con uno stato, ma di

38 Idem, p. 44.39 Idem, p. 45.40 Idem, p. 50.41 Ibidem.42 Idem, p. 52.43 Ibidem.

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20 l’impegno

una cultura particolare, generata da “unanuova forma di organizzazione sociale”44.Le culture preesistenti agli stati moderni“sono troppe”45 e quindi solo alcune di essepossono essere selezionate e “utilizzate”.

Una delle implicazioni più significativedi questa tesi è il rovesciamento del rap-porto tradizionale fra i concetti di nazionee nazionalismo. Il senso comune e l’ideo-logia nazionalista presentano le nazionicome logicamente e storicamente anteriorial nazionalismo, come realtà oggettive,“cose” che “sono lì”46, mentre il nazionali-smo sarebbe un movimento politico chesorge per “risvegliarle” e guidarle al conse-guimento del loro obiettivo principale:farsi stato47. Per Gellner, invece, la nazio-ne non è un’entità preesistente al naziona-lismo, ma solo “un mito”48 generato dal-l’ideologia nazionalista, interessata a pre-sentare se stessa come l’effetto del risve-glio di queste entità.

Gellner dunque ribalta la tesi secondocui la nazione è la causa e il nazionalismoè l’effetto, e identifica il nazionalismo co-me origine e matrice delle nazioni. L’ideo-logia nazionalista - egli afferma - raffigu-ra “le nazioni come i mattoni di cui è co-struita l’umanità”, come “un ordinamentonaturale e universale della vita politica”49,mentre in realtà le nazioni sono meri co-strutti ideologici. Quel che esiste davverosono “le culture” e “le unità politiche”, edè il loro incontro che innesca il processo

il cui esito è “la cristallizzazione di nuoveunità”50: “culture omogenee, standardizza-te, sostenute dal potere politico dello sta-to”, culture la cui riproduzione è “garan-tita dalle istituzioni educative”51 create efinanziate dallo stato. Questo “campo”culturale è il terreno di coltura in cui si svi-luppa la percezione collettiva di un’iden-tità comune: il nazionalismo, che a suavolta “immagina” la nazione, la ipostatiz-za e la proietta nel passato, raffigurando-la come un’entità preesistente, dotata diantiche tradizioni che il nazionalismo stes-so ha ricreato o inventato, facendo “rivive-re lingue morte” o “ripristinando fittiziepurezze primigenie”52.

Per quanto possa sembrare paradossale,dunque, il nazionalismo, fenomeno tipica-mente moderno la cui apparizione è resapossibile solo dalla “diffusione di una lin-gua standardizzata” e dal “consolidamentodi una società di massa impersonale, ano-nima, composta da individui atomizzati”,si presenta come custode e difensore di unatradizione arcaica, rurale, pre-moderna epre-industriale53.

Questa interpretazione del nazionalismolascia tuttavia aperto un problema: se lenazioni sono generate dai nazionalismi,generati a loro volta dall’esigenza di omo-geneità culturale espressa dall’assetto so-ciale nato con la Rivoluzione industriale,se in sostanza alla radice di questo proces-so vi è una spinta in direzione dell’omo-

44 Idem, p. 55.45 Ibidem.46 Ibidem.47 Ibidem.48 Idem, p. 56.49 Ibidem.50 Ibidem.51 Idem, p. 63.52 Idem, p. 64.53 Idem, pp. 65-66.

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logazione culturale, perché il suo esito èuna molteplicità di stati-nazione e non ununico sistema mondiale sovra-nazionale?Quello che potrebbe sembrare lo sboccopiù logico, dato che la Rivoluzione indu-striale è un processo che ha investito l’in-tero pianeta54, è stato però impedito dallalentezza con cui la Rivoluzione industria-le si è espansa, raggiungendo le diverseparti del mondo in momenti e con moda-lità diverse e ottenendo così il risultato didividere “l’umanità in gruppi rivali”55.

In conclusione, se il nazionalismo è “uneffetto” (non certo l’unico) dello sviluppodella società industriale56, e dunque il pro-dotto di un processo storico dotato di unaprecisa localizzazione spaziale e tempora-le, ne consegue che non ha nulla a che ve-dere con l’etnicità, che invece è un feno-meno universale. Mentre per altri naziona-lismo ed etnicità sono praticamente sino-nimi (è, ad esempio, la tesi sostenuta da W.Connor), o comunque legati da un rappor-to di trasformazione storica (A. Smith),Gellner non individua alcun nesso fra que-ste due forme di identità collettiva e ritie-ne di poter identificare i tratti distintivi delnazionalismo in uno specifico rapporto fracultura e stato, un rapporto che nasce, sisviluppa e si espande solo nel contestodella società industriale.

Nazionalismo come manufatto culturale

Analogamente a Gellner, anche Ander-son sostiene l’assenza di connessioni fral’etnicità e i processi che hanno portato al-

la nascita dei nazionalismi. Pur ricorrendoad argomentazioni diverse, Anderson con-corda con Gellner su un punto fondamen-tale: il legame fra il nazionalismo e le pro-fonde trasformazioni culturali, sociali epolitiche che hanno segnato la storia delmondo occidentale nei secoli XIX e XX.Il nazionalismo è quindi, a differenza del-l’etnicità, un fenomeno dotato di precisecoordinate spaziali e temporali, indissolu-bilmente legato a quella che i sociologi de-finiscono “modernità”, di cui sarebbe unodei frutti principali. La negazione di unqualsiasi rapporto fra nazionalismo ed et-nicità resta però implicita nell’argomen-tazione di Anderson, mentre è del tuttoesplicita in Gellner, che contrappone al na-zionalismo, fenomeno moderno, tipicodella società industriale, un’etnicità inte-sa come tratto peculiare delle società ar-caiche, agricole, pre-industriali.

Con Gellner Anderson condivide anchela convinzione che le nazioni siano costrut-ti culturali: per Gellner si tratta di “miti”57

generati dall’ideologia nazionalista; perAnderson la nazione è “una comunità po-litica immaginata, e immaginata come in-trinsecamente limitata e sovrana”58. Inquesta definizione, che si ispira, per am-missione dello stesso Anderson, a quantoSeton-Watson scrive in “Nations and Sta-tes” (“una nazione esiste quando un nume-ro significativo di persone all’interno diuna comunità si considera come costituen-te una nazione o agisce come se ne avessecostituita una”59), l’accento cade sul carat-tere immaginario della nazione. Per Ander-

54 Idem, p. 59.55 Idem, p. 60.56 Idem, p. 47.57 Idem, p. 56.58 B. ANDERSON, op. cit., p. 25.59 HUGH SETON-WATSON, Nations and States. An Inquiry into the Origins of Nations and the

Politics of Nationalism, Boulder, Colorado, Westview Press, 1977, p. 5.

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son la nazione è immaginata “in quanto gliabitanti della più piccola nazione non co-nosceranno mai la maggior parte dei lorocompatrioti, né li incontreranno, né ne sen-tiranno mai parlare”, e tuttavia condivido-no “l’immagine” di essere una “comuni-tà”60. In questa rappresentazione collettivala nazione appare (necessariamente) comelimitata e sovrana; limitata “in quanto per-sino la più grande [...] ha comunque con-fini finiti, oltre i quali si estendono altrenazioni”61; sovrana perché l’idea di nazio-ne si è sviluppata nel periodo in cui “l’Illu-minismo e le rivoluzioni distruggevano lalegittimità del regno dinastico e del regnodivino”62.

Per Anderson dunque la nazione, la na-zionalità, il nazionalismo sono innanzitut-to “manufatti culturali”63 e, in secondoluogo, l’esito di un processo storico64, unprocesso che ha precise coordinate spazialie temporali, in quanto si sviluppa nelleAmeriche alla fine del XVIII secolo. Tutta-via questi manufatti culturali hanno dimo-strato notevole capacità di adattamento adaltri contesti, ad altri “terreni sociali”65,dando luogo a una serie di varianti locali.

Prima di prendere in esame la natura delprocesso storico che avrebbe generato leprime forme di nazionalismo nel XVIIIsecolo e le sue incarnazioni successive neisecoli XIX e XX, è però necessario soffer-marsi su quelle che, secondo Anderson,

sono le grandi trasformazioni politiche eculturali che, nel corso dell’Età moderna,preparano il terreno allo sviluppo del na-zionalismo. Egli osserva innanzitutto che“l’immaginario nazionalista” è profonda-mente toccato dai temi “della morte e del-l’immortalità”, come dimostra lo straordi-nario valore simbolico che hanno, per i na-zionalismi, le tombe del milite ignoto;questa caratteristica segnala “l’affinità”dell’immaginario nazionalista con “l’im-maginario religioso”, un’affinità che “nonè assolutamente casuale”66.

Anderson sottolinea il fatto che le reli-gioni prestano un’attenzione particolarealla morte, alla “contingenza della vita” ealla posizione dell’uomo nel cosmo, unascelta che egli ritiene di poter spiegare fa-cendo propria la tesi formulata da Mali-nowski (e ripresa da numerosi antropolo-gi, fra cui Geertz), secondo cui le religio-ni svolgono una funzione psicologica. Talefunzione consisterebbe nel dare senso allesofferenze umane. Geertz, ad esempio, so-stiene che la religione consente di formula-re “concetti di ordine generale dell’esisten-za”67, i quali fanno del dolore fisico, del-la sofferenza, del lutto “qualcosa di sop-portabile e di sostenibile”68.

Poiché non è questa la sede per discute-re questa tesi, ci si deve limitare a segnala-re che si presta a numerose e sostanzialiobiezioni; in primo luogo appare evidente

60 B. ANDERSON, op. cit., p. 25.61 Idem, p. 26.62 Ibidem.63 Idem, p. 232.64 Ibidem.65 Idem, p. 24.66 Ibidem.67 CLIFFORD GEERTZ, Interpretazioni di culture, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 141; ed. orig.

Local Knowledge. Further Essays in Interpretative Anthropology, New York, Basic Books,1983.

68 Idem, p. 157.

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l’inammissibilità del ricorso a sentimentiuniversali per rendere conto della molte-plicità di significati che i riti religiosi as-sumono nei diversi contesti culturali. Inol-tre la complessità di molti rituali apparedel tutto sproporzionata alla funzione cheGeertz e Anderson vogliono attribuire loro:operare una catarsi di stati emotivi indivi-duali. Un ulteriore elemento di debolezzadella teoria della religione come rispostaalle angosce esistenziali è stato individuatoda Radcliffe-Brown, il quale osserva giu-stamente che molte attività rituali non solonon placano le sofferenze, ma anzi le pro-ducono, generando ansie, paura, tensione.In realtà il rapporto delle pratiche religio-se con la sfera emotiva è ancora più com-plesso perché non solo esistono riti che nonrappresentano una risposta all’angosciaprovata dagli uomini di fronte all’ignoto,all’inesplicabile, alla morte e ad altri even-ti traumatici e che invece generano stress,ma ne esistono altri che suscitano gioia,euforia, senso di coesione e solidarietà, ealtri ancora del tutto privi di ogni conno-tazione emotiva. In sostanza il rapporto deiriti religiosi con la sfera psicologica coprel’intera gamma degli stati emotivi.

Ma torniamo alla tesi di Anderson, cheindividua una sostanziale affinità fra l’im-maginario nazionalista e quello religiosoin quanto entrambi prestano un’attenzio-ne particolare ai temi della morte e del-l’immortalità. Secondo Anderson, tuttavia,vi sarebbe anche una connessione storico-

cronologica fra religione e nazionalismoperché “il crepuscolo del pensiero religio-so”69, causato nel XVIII secolo “dalle e-splorazioni del mondo non europeo”, che“allargarono gli orizzonti geografici e cul-turali”70 relativizzando la fede, e dall’in-venzione della stampa, che favorì lo svi-luppo dei volgari a danno del linguaggiosacro71, coincise con “l’alba del nazionali-smo”72.

Anderson sembra dunque suggerire cheil nazionalismo svolge una funzione vica-ria nei confronti della religione, assumen-done la funzione di rassicurazione psico-logica quando questa comincia a declina-re. Egli tuttavia nega di voler proporre unrapporto di causalità fra tramonto dellafede e apparizione del nazionalismo, e so-stiene invece di voler interpretare il nazio-nalismo non semplicemente come un’ideo-logia politica, bensì come un sistema cul-turale analogo alla religione73.

Nonostante questa precisazione, resta ilfatto che l’analisi di Anderson delinea unprocesso di trasformazione in senso laicodella fede: il nazionalismo sarebbe, in que-sta prospettiva, una specie di moderna re-ligione secolare che, grazie a quello speci-fico costrutto culturale che è l’idea di na-zione, dà senso alla casualità, rendendo si-gnificativo ciò che è meramente contin-gente74. Il meccanismo a cui il nazionali-smo ricorre è essenzialmente lo stesso uti-lizzato dalla fede: se questa fornisce un si-gnificato alla cieca casualità della soffe-

69 B. ANDERSON, op. cit., p. 29.70 ERICH AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 2 voll., Torino, Ei-

naudi, 1956, p. 282; ed. orig. Darstelle Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Fran-cke, Bern, 1946, citato in B. ANDERSON, op. cit., p. 33.

71 B. ANDERSON, op. cit., p. 34.72 Idem, p. 29.73 Ibidem.74 Ibidem.

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renza, della malattia, della morte, del lut-to, legandola a un disegno trascendente ead un destino ultraterreno, il nazionalismodà senso alla casualità della nascita, al fat-to accidentale di essere nato in un deter-minato paese, trasfigurando questo paesein nazione, cioè in un’entità perenne e do-tata di un destino. Anderson cita in propo-sito le parole di Delnay: “è casuale che iosia nato francese, ma dopotutto la Franciaè eterna”.

Il declino della religione non è tuttavial’unica trasformazione che prelude allosviluppo del nazionalismo. Infatti vi èun’altra istituzione plurisecolare che entrain crisi nel corso dell’Età moderna, prepa-rando il terreno, con la propria scomparsa,all’avvento del nazionalismo: il regno di-nastico. Il regno dinastico era dotato di unastruttura istituzionale radicalmente diver-sa da quella dello stato moderno: “la sualegittimità derivava dalla divinità, non daipopoli” e “i [suoi] confini erano porosi eindistinti”75; invece in uno stato modernoil centro del potere non ha un’investituradivina, la sovranità risiede nel popolo e siestende in modo “rigido, pieno e uniformesu ogni centimetro quadrato di un territo-rio legalmente demarcato”76. Il declino delregno dinastico inizia - secondo Ander-son77 - nel Seicento per proseguire poi inar-restabile fino al suo esito definitivo: ilcrollo dei grandi imperi nel corso dellaprima guerra mondiale.

Oltre al tramonto delle religioni e deiregni dinastici vi sarebbe poi un terzo fat-tore da prendere in considerazione percompletare il quadro entro cui si rendepossibile la comparsa del moderno nazio-nalismo: “un mutamento nel modo di per-cepire il mondo”78 causato dallo sviluppodella scienza, che genera la nuova idea di“sincronia in un tempo vuoto e omoge-neo”79. Come Gellner, dunque, anche An-derson individua nello sviluppo dellascienza moderna una delle matrici del na-zionalismo; tuttavia, a differenza di Gell-ner, non evidenzia come tratto peculiaredella rivoluzione scientifica la standardiz-zazione delle cause ma la trasformazionedella concezione del tempo.

La nuova nozione della “simultaneità” siradica nel senso comune e diventa l’ele-mento portante della “struttura di due for-me di rappresentazione che cominciano asvilupparsi nel Settecento, il romanzo e ilgiornale”80. Romanzo e giornale fornisco-no “gli strumenti per la rappresentazio-ne”81 di quella comunità immaginata cheè la nazione perché sono proprio “la simul-taneità, la sincronia, la coincidenza crono-logica” dei suoi elementi costitutivi cherendono pensabile la comunità naziona-le82. Infatti la matrice dell’immagine dellanazione è “un organismo sociologico chesi muove ordinatamente in un tempo vuotoe omogeneo”83. Ogni individuo che si sen-te membro di una nazione è immerso, o

75 Idem, p. 35.76 Ibidem.77 Idem, p. 37.78 Idem, p. 38.79 Idem, p. 40.80 Ibidem.81 Idem, p. 41.82 Idem, p. 48.83 Idem, p. 41.

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meglio si percepisce immerso in un “socio-paesaggio”, un “corpo collettivo”, una“comunità immaginata”84 che sembra ave-re un carattere assolutamente reale e ogget-tivo, che “è già lì”85.

Delle due forme di rappresentazione (ilromanzo e il giornale) che - come si è detto- forniscono gli strumenti per la diffusio-ne dei modelli collettivi di pensiero de-scritti, è il secondo a dimostrarsi più effi-cace. Infatti più del romanzo il giornalelega eventi eterogenei e indipendenti, po-nendoli in un rapporto di contiguità chesuggerisce ai lettori l’idea di trovarsi difronte non a fatti privi di qualsiasi rappor-to ma a parti di un medesimo insieme;inoltre il lettore sa che il “consumo” delgiornale è un evento che coinvolge simul-taneamente innumerevoli individui; perciò“ogni partecipante al rito [della letturamattutina del quotidiano] è [...] ben con-scio che la cerimonia che sta praticandoviene replicata da migliaia (o milioni) dialtri, della cui esistenza è certo ma dellacui identità non ha la minima idea”86.

I molteplici fattori fin qui analizzati (ildeclino delle religioni, la scomparsa deglistati dinastici, la trasformazione del mododi percepire il mondo) creano, nel loroinsieme, le condizioni generali perché pos-sano essere pensate delle comunità “oriz-zontali, laiche, trasversali rispetto al tem-

po”87; tuttavia lo stesso Anderson ammet-te che la nazione costituisce solo una va-

riante specifica di questo tipo di comuni-tà (immaginaria).

Perché allora proprio la nazione assumetanta importanza nei secoli XIX e XX88?In primo luogo a causa “dell’affermarsi delcapitalismo”89 che non solo trasformò illibro in un prodotto di massa (attraversol’industria editoriale), ma favorì anche ladiffusione di testi in volgare, che offriva-no un mercato potenziale molto più vastodel latino90; in secondo luogo per l’affer-marsi dei volgari come “strumento ammi-nistrativo” delle monarchie europee91;“l’elevazione del volgare a lingua del pote-re” contribuì a quel “declino della comu-nità immaginata della cristianità”92 di cuisi è già parlato in precedenza.

Questi due processi, sommando la loroazione a quella dei fattori già analizzati,avrebbero promosso lo sviluppo delle na-zioni. Secondo Anderson quindi sarebbestata la diffusione della stampa, la sua“esplosiva interazione” con il capitalismoe l’affermazione dei volgari come linguescritte a “porre le basi per le coscienze na-zionali”93. Ciò sarebbe avvenuto “in tremodi”94. Innanzitutto la trasformazione deivolgari in lingue scritte “creò un terrenocomune di scambio e comunicazione al disotto del latino e al di sopra dei dialetti”95;

84 Idem, p. 47.85 Ibidem.86 Idem, p. 50.87 Idem, p. 53.88 Ibidem.89 Ibidem.90 Idem, p. 54.91 Idem, p. 56.92 Idem, p. 58.93 Idem, p. 59.94 Ibidem.95 Ibidem.

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i lettori, diventando consapevoli di appar-tenere ad un “campo linguistico” condivi-so da “centinaia di migliaia, milioni di per-sone [...] formarono l’embrione della co-munità immaginata nazionale”96. In secon-do luogo “l’editoria diede nuova fissità allalingua”, la cristallizzò o perlomeno “ral-lentò il tasso di cambiamento”97 e quindifavorì l’idea di permanenza del campo lin-guistico (e della comunità immaginata cheda esso scaturisce). In terzo luogo l’edito-ria favorì l’affermazione di alcuni dialettivolgari, quelli “più simili alle lingue scrit-te”98, fornendo così il nucleo costitutivodelle comunità immaginate.

L’azione dei molteplici processi fin quidescritti (processi “in gran parte inconsa-pevoli”99: il declino delle religioni, lascomparsa degli stati dinastici, la trasfor-mazione del modo di percepire il mondo,lo sviluppo dell’industria editoriale, l’af-fermazione dei volgari come lingue scrit-te) crea - per Anderson - le condizioni pre-liminari alla nascita del nazionalismo.

Mentre la creazione di tali condizioni siprotrae per secoli, la formazione dei pri-mi stati-nazione avviene in tempi moltopiù brevi (e definibili in termini cronolo-gici precisi), in quanto si verifica “fra il1776 e il 1838”100. L’area in cui questi nuo-vi “manufatti politico-culturali” appaionoper la prima volta è il continente america-

no. Anderson infatti, a differenza di Gell-ner e di molti altri studiosi del nazionali-smo, ne individua la matrice nei movimen-ti indipendentisti sorti nelle colonie ame-ricane (sia nella parte settentrionale che inquella meridionale dell’emisfero occiden-tale) nella seconda metà del XVIII seco-lo. Si tratta di movimenti composti dacreoli, cioè da europei nati nelle Americhe,i quali “condividevano la lingua e l’origi-ne con coloro che combattevano”, spagnolie inglesi101. Inoltre erano capeggiati da“ricchi proprietari terrieri, alleati a mer-canti e professionisti”102. Dunque da un la-to non avevano quel carattere popolare chesolitamente si attribuisce ai movimenti na-zionalisti, anzi, erano espressione di “co-munità ricche”103; dall’altro erano cultural-mente omogenei alla madrepatria.

Anderson osserva che le cause della ge-nesi dei movimenti indipendentisti ameri-cani vengono di solito identificate con il“controllo soffocante”104 esercitato dallecapitali imperiali (Londra e Madrid), conil pesante prelievo fiscale a favore dellamadrepatria e con l’influsso dell’Illumini-smo105. Anderson non ritiene tuttavia chetali fattori costituiscano, nel loro insieme,una spiegazione sufficiente della genesidei movimenti nazionalisti e rileva, citan-do Masur106, che nell’America del Sud,“tra il Cinquecento e il Seicento”, tutte

96 Ibidem. 97 Ibidem. 98 Idem, p. 60. 99 Ibidem.100 Idem, p. 61.101 Idem, p. 63.102 Ibidem.103 Idem, p. 190.104 Idem, p. 65.105 Idem, p. 66.106 GERHARD MASUR, Simón Bolívar, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1948,

p. 678.

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quelle che sarebbero poi diventate, dopo leguerre d’indipendenza, repubbliche sovra-ne, “erano state delle unità amministrati-ve” tendenzialmente “autocentrate” e eco-nomicamente “separate”107.

All’epoca dello sviluppo dei movimentinazionalisti esistevano dunque già da tem-po unità economico-amministrative che, diper sé, non erano certo patrie (neppure po-tenziali) ma che finirono per essere con-cepite “come patrie”108 grazie allo svilup-po di un consistente strato sociale formatodai creoli, esclusi, in quanto nati nel conti-nente americano e dunque “per natura di-versi e inferiori agli europei”109, dalla pos-sibilità di accedere ai vertici della struttu-ra burocratica imperiale110. Costretti a ve-getare ai livelli medio-bassi dell’apparatoamministrativo, i creoli svilupparono “unanuova coscienza” e trasformarono le pro-vince americane in “comunità immagina-te”111.

Per quel che concerne le colonie inglesinella parte settentrionale del continenteamericano, il fattore decisivo per lo svilup-po del “nazionalismo creolo”112 sarebbeconsistito non nella presenza di un ceto difunzionari insoddisfatti e frustrati, spintidal rancore verso la madrepatria a cercarenuove forme di solidarietà locale, ma dal-la diffusione della stampa e dal gran nu-mero di giornali pubblicati nel corso delXVIII secolo. I giornali infatti avrebbero,

come si è detto, la capacità di legare eventieterogenei, istituendo fra loro un rapportodi contiguità che suggerisce ai lettori ditrovarsi di fronte a parti del medesimo “in-sieme”, cioè una comunità immaginata dicui i lettori stessi sarebbero parte113.

Il nazionalismo nacque quindi - secondoAnderson - nel continente americano fra lafine del XVIII secolo e i primi due decen-ni del XIX. A questa fase iniziale seguìpoi, fra il 1820 e il 1920, la fase dei nazio-nalismi europei114, i quali, pur essendo losviluppo dei nazionalismi d’oltreoceano,che costituivano un modello a cui ispirarsi,presentavano rispetto ad essi una signifi-cativa differenza115: il ricorso alla linguacome fattore di autoidentificazione.

Sono dunque due gli aspetti rilevanti deinazionalismi europei dell’Ottocento: l’uti-lizzazione dei movimenti indipendentisticreoli come modello, e l’uso in chiave na-zionalista delle lingue. Il fatto che nei pri-mi decenni del XIX secolo la Rivoluzioneamericana del 1776 (insieme a quella fran-cese del 1789) venisse assunta come “pre-cedente e modello”116 significa che già al-lora era maturata la capacità di “concepireil nazionalismo genealogicamente, comeespressione di una tradizione storica dicontinuità sociale”117.

L’uso della lingua in chiave nazionalistarimanda invece alla specifica natura deimodelli autorappresentativi elaborati dai

107 B. ANDERSON, op. cit., p. 68.108 Ibidem.109 Idem, p. 75.110 Idem, p. 71.111 Idem, p. 78.112 Ibidem.113 Idem, p. 50.114 Idem, p. 79.115 Ibidem.116 Idem, p. 193.117 Idem, p. 194.

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movimenti nazionalisti, i quali tendono aproiettare fuori di sé l’immagine della na-zione, finendo così per percepirla comequalcosa che si trova nella realtà. Da que-sta specifica modalità autorappresentativascaturisce il mito di fondazione dei nazio-nalismi europei ottocenteschi: il movimen-ti nazionalista troverebbe la nazione addor-mentata e inconsapevole di sé e la risve-glierebbe dal suo lungo sonno118. L’imma-gine del “lungo sonno” consente di proiet-tare la nazione nel passato, il che spiegal’importanza che assume, per i nazionalistieuropei, il richiamo alle tradizioni, al “re-taggio comune” e, in primo luogo, alla lin-gua119. Invece per i primi nazionalisti ame-ricani (i creoli), che condividevano la lin-gua (spagnolo o inglese) e la cultura conla madrepatria, il tentativo di saldare lin-gua e nazionalismo avrebbe incontrato“ostacoli insormontabili”120.

L’attenzione per le lingue fu favorita, nelcorso del XIX secolo, anche dallo svilup-po della filologia, una disciplina che, ali-mentando la convinzione che ogni linguasia “degna di studio e ammirazione”121, sti-molò il processo di autoidentificazionenelle comunità linguistiche. Dalla coscien-za di essere una comunità di parlanti allascoperta di potersi pensare anche come co-munità politica in fieri il passo fu breve:l’acquisizione della consapevolezza dipossedere una lingua dotata di dignità let-

teraria (nonché veicolo di un patrimoniofolclorico) fu la premessa allo sviluppo dimovimenti nazionalisti in Grecia (contro ildominio ottomano), in Ungheria (control’egemonia tedesca nell’ambito dell’impe-ro asburgico), in Ucraina e Finlandia (con-tro il centralismo zarista), in Norvegia(contro il dominio danese)122.

Naturalmente la consapevolezza di ap-partenere ad una comunità linguistica (epotenzialmente anche politica) non pote-va svilupparsi che negli strati sociali cheavevano accesso ai testi scritti, cioè nellaporzione alfabetizzata della popolazione:“nobili e proprietari terrieri, cortigiani edecclesiastici, ceti medi ascendenti, fun-zionari, professionisti, borghesia commer-ciale e industriale”123. L’espansione di que-sti ceti nel corso dell’Ottocento, allargan-do la platea dei lettori sensibili all’idea diappartenere ad una comunità linguistica“nazionale”124, rappresentò uno stimoloulteriore allo sviluppo dei movimenti na-zionalisti.

Giustamente Anderson sottolinea la dif-ferenza fra la coesione di natura linguisti-ca propria delle classi dominanti borghesieuropee della seconda metà dell’Ottocen-to e la coesione delle classi dominanti pre-borghesi, basata su “legami di sangue,clientele e fedeltà personali”125. Se “unanobiltà analfabeta poteva agire come unanobiltà [...] una borghesia analfabeta non

118 Va rilevata l’analogia fra questo passo di Anderson e quanto scrive Gellner (op. cit., p.55): “la più illusoria pretesa dell’ideologo nazionalista è che le nazioni siano lì, in attesa sol-tanto di essere risvegliate [...] dal loro deplorevole sonno ad opera del ‘risvegliatore’ nazio-nalista”.

119 B. ANDERSON, op. cit., p. 194.120 Idem, p. 196.121 Idem, p. 82.122 Idem, pp. 83-84.123 Idem, p. 86.124 Idem, p. 87.125 Ibidem.

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era immaginabile” poiché la borghesia po-teva rappresentarsi come comunità solo intermini astratti, e quindi solo con il trami-te della “parola stampata”126. Mentre tuttii nobili di un regno medievale costituiva-no una comunità ristretta i cui membri siconoscevano di persona ed erano impa-rentati fra loro, le classi borghesi dell’Ot-tocento erano composte da decine di mi-gliaia di individui ignoti l’uno all’altro;perciò “la borghesia fu la prima classe araggiungere un senso di solidarietà su basiessenzialmente immaginate”127.

Nelle pagine precedenti è stato messo inevidenza il carattere evolutivo del model-lo elaborato da Anderson. Reciso ogni le-game fra etnicità e nazionalismo, egli de-finisce quest’ultimo come il prodotto del-l’azione convergente di diversi processistorici e lo scompone in una sequenza difasi legate fra loro da rapporti complessi,non riducibili ad una relazione meccanicadi causa-effetto. In particolare, essendo ilnazionalismo - per Anderson - un fenome-no sostanzialmente mentale, risulta essen-ziale, in ogni fase del suo sviluppo, il ruo-lo svolto dalla componente autoriflessiva:ogni tipo di nazionalismo è un modo par-ticolare di immaginare una comunità, èuna rappresentazione che viene costruita apartire da quelle preesistenti, di cui inglo-ba e assimila aspetti o caratteristiche piùo meno rilevanti.

Infatti il terzo tipo di nazionalismo, l’uf-ficial-nazionalismo, successivo a quello

americano-creolo e a quello europeo-po-polare, “si sviluppa dopo e in reazione aimovimenti nazionali popolari proliferati inEuropa a partire dal 1821”128. Nonostantequesto particolare tipo di nazionalismo co-stituisse una reazione a quelli precedenti,ne assunse e fece proprio l’elemento fon-damentale: l’uso politico dell’idea di iden-tità nazionale.

Furono le grandi monarchie europee(l’Inghilterra, la Russia) a forgiare l’uffi-cial-nazionalismo per legittimarsi, per “na-turalizzare” il potere dinastico e dunqueassicurarne meglio “il mantenimento”129.La natura “ufficiale” di questo nazionali-smo, che venne costruito in primo luogotramite un’omogeneizzazione linguisticaforzata delle province periferiche o dellecolonie (l’Inghilterra anglicizzò l’India,mentre l’impero zarista russificò Polonia,Georgia e paesi baltici), discendeva dal fat-to di essere “creato direttamente dallo Sta-to per servire i propri interessi”130.

Dopo la prima guerra mondiale e il crol-lo dei grandi imperi, si sviluppa la quartafase del nazionalismo, che coincide conl’affermazione e la progressiva diffusionedello stato-nazione131. Questo nuovo tipodi stato, la cui espansione “raggiunge il suoapice dopo il cataclisma della II GuerraMondiale”132, può essere compreso solo sesituato nella sequenza elaborata da Ander-son133 perché si configura come una sin-tesi di elementi propri delle tre fasi prece-denti (nazionalismo creolo, nazionalismo

126 Ibidem.127 Ibidem.128 Idem, p. 96.129 Idem, p. 95.130 Ibidem.131 Idem, p. 119.132 Ibidem.133 Ibidem.

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popolare, ufficial-nazionalismo). Se infattida un lato “molti dei nuovi Stati-nazione(soprattutto non-europei) adottarono comelingue di Stato idiomi europei”, imitandocosì la forma originaria di nazionalismo(quello creolo)134, dall’altro “presero [...]dal nazionalismo europeo il suo ardentepopulismo e dall’ufficial-nazionalismo la

134 Anderson individua un’ulteriore analogia fra i nazionalismi extra-europei del Novecentoe quelli creoli della fine del Settecento: “l’isomorfismo fra l’estensione territoriale di ogninazionalismo e quello della precedente unità amministrativa imperiale” (op. cit., p.120). Anchela situazione sociale in cui matura e cresce la coscienza nazionalista è sostanzialmente simile:come nelle colonie spagnole in America, così nelle colonie francesi e britanniche in Africa ein Asia i funzionari indigeni vengono istruiti nelle metropoli per poi tornare nel paese d’ori-gine e lì proseguire la propria carriera senza poter aspirare ad altro che un incarico elevato inloco; l’incontro con i colleghi che si trovano nelle stesse condizioni sviluppa in questi funzio-nari un “senso di comunità” che produce la lenta “trasformazione [...] dello Stato coloniale inStato-nazione” (ibidem). Il fatto, già sottolineato, che i nuovi stati afroasiatici abbiano adottatole lingue degli ex dominatori si spiega proprio alla luce del “ruolo centrale svolto dagli intel-lettuali indigeni nel processo di sviluppo del nazionalismo” (idem, p. 121): fu infatti il lorobilinguismo che “rese possibile l’accesso [...] alla cultura occidentale [...] e in particolare aimodelli del nazionalismo” da essa prodotti nell’Ottocento (idem, p. 122).

135 Ibidem.Nella seconda edizione di Comunità immaginate Anderson modifica l’ipotesi originaria

secondo cui l’ufficial-nazionalismo degli stati asiatici e africani approdati all’indipendenzanella seconda metà del Novecento “sarebbe stato modellato direttamente su quello degli Statidinastici europei dell’Ottocento” e ne attribuisce invece l’origine alle specifiche caratteristi-che del potere coloniale, in particolare a tre istituzioni che lo caratterizzano: “il censimento,la carta geografica e il museo” (idem, p. 165). I censimenti avrebbero contribuito in mododeterminante a radicare negli indigeni la convinzione di possedere un’identità “razziale”specifica (idem, p. 166). Le mappe avrebbero introdotto una concezione del confine comelinea continua che demarca “una sovranità esclusiva” (idem, p. 173); lo spazio delimitato datale linea (la colonia) appare nelle mappe come una superficie di colore omogeneo, cromati-camente distinta dai territori governati da altre potenze, dunque come un’unità territorialepensabile anche in termini politici (idem, p. 19; v. anche T. H. ERIKSEN, op. cit., p. 106). Tra-sformata in logo, la mappa “si radicò nell’immaginario popolare, divenendo presto un potentesimbolo per il nascente nazionalismo anticoloniale” (B. ANDERSON, op. cit., p. 176). Inoltrele mappe storiche, proiettando nel passato realtà geopolitiche moderne, avrebbero fornito lorouna potente legittimazione (idem, p. 175). Il museo, presentando il passato in funzione delpresente, disponendo cioè i reperti in una sequenza cronologica destinata a suggerire un’evo-luzione, un processo culminante nell’apparizione dello stato nazionale, svolge una funzioneanaloga. Esemplare è il caso del museo nazionale di Giakarta, che ospita, nella sala che ac-coglie i reperti etnografici delle culture dell’arcipelago indonesiano, una gigantesca “mappa”del Majapahit (l’ultimo grande regno induista nella storia dell’arcipelago), i cui confini sonoarbitrariamente (ma significativamente) fatti coincidere con quelli dell’attuale stato indone-siano.

136 Idem, p. 119.

sua politica” di omogeneizzazione lingui-stica135.

Il risultato di questa sintesi è duplice:“un entusiasmo nazionalista genuino e po-polare” si mescola ad “un’ideologia [...] in-stillata machiavellicamente attraverso imass-media, il sistema scolastico, i rego-lamenti amministrativi”136. I nazionalismi

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Il nazionalismo in una prospettiva antropologica

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 31

(soprattutto extra-europei) del Novecento,in sostanza, attingono ai modelli preceden-ti “copiandoli, adottandoli”137, miscelan-done gli ingredienti in proporzioni diver-se da caso a caso.

Conclusione

Come è stato già sottolineato, la posizio-ne di Anderson (così come quella di Gell-ner) in merito al rapporto fra etnicità enazionalismo si caratterizza per una nettadistinzione fra i due fenomeni. A differen-za di coloro che individuano una sostanzia-le identità (come Connor), o almeno unrapporto di continuità storica (come Smi-th) fra le identità etniche e i movimenti na-zionalisti, Anderson e Gellner elaboranointerpretazioni del nazionalismo che nonincludono alcun attributo etnico e che in-vece sottolineano il suo legame con unospecifico processo storico: la trasformazio-ne della società occidentale nel corso de-gli ultimi due secoli.

I modelli di Anderson e Gellner presen-tano però differenze significative, soprat-tutto per quel che concerne l’identificazio-ne delle cause dello sviluppo del naziona-lismo: se Gellner pone l’accento sulla ri-levanza della rivoluzione scientifica e del-l’industrializzazione, Anderson mette inprimo piano alcuni aspetti culturali (il tra-monto della religione, la diffusione dellastampa) e politici (il crollo degli imperidinastici) della storia occidentale moder-na.

Un elemento di convergenza fra i duestudiosi è costituito dal fatto che entram-bi identificano diversi tipi di nazionalismo,ma mentre Gellner ne propone una classi-ficazione ottenuta “elaborando le varie

combinazioni possibili dei due principalifattori che entrano nella formazione dellasocietà moderna”138: il potere e l’accessoall’istruzione, Anderson traccia tra le va-rianti del nazionalismo connessioni stori-co-evolutive: ogni variante riprende, svi-luppa o trasforma elementi costitutivi dellevarianti precedenti. In tal modo Andersonindividua ricorrenze e analogie significa-tive fra i nazionalismi extra-europei con-temporanei (post coloniali) e i nazionali-smi americani ed europei dei secoli XVIIIe XIX. La sua analisi del processo evoluti-vo - come si è detto - si ferma però alla fasedello stato-nazione emerso nella secondametà del XX secolo nei paesi afroasiaticie non si estende ai movimenti nazionalistisviluppatisi in Europa (sia in quella occi-dentale che in quella orientale) fra la finedegli anni ottanta e l’inizio degli anni no-vanta.

Tuttavia è possibile formulare un’inter-pretazione anche di questi fenomeni recen-ti attingendo proprio agli elementi di ana-lisi forniti da Anderson per le varianti me-no recenti del nazionalismo. Sulla base delsuo modello, infatti, non è difficile ravvi-sare analogie significative fra il naziona-lismo creolo, quello europeo della primametà dell’Ottocento (si pensi in particolareall’Ungheria, alla Polonia e all’Italia) e inazionalismi degli ultimi due decenni delNovecento. Un elemento comune è costi-tuito dal ruolo rilevante svolto dalla crisie dal declino di grandi organismi statuali:gli imperi coloniali (la Spagna) nel XVIIIsecolo, gli imperi continentali (in partico-lare quello austro-ungarico) nel XIX seco-lo e, alla fine del XX secolo, l’Unione So-vietica. Ma se l’esplosione dei nazionali-smi nell’Europa orientale è facilmente ri-

137 Idem, p. 144.138 E. GELLNER, op. cit., p. 101.

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Pietro Scarduelli

32 l’impegno

conducibile al collasso della superpoten-za sovietica, è evidente che la fioritura deinazionalismi occidentali (corso, bretone,scozzese, catalano, padano) ha un’altracausa: il declino (meno evidente del col-lasso dell’Urss) del ruolo politico ed eco-nomico degli stati nel contesto dei processidi globalizzazione.

Nell’uno e nell’altro caso, a Est come aOvest, dunque, il declino del ruolo dellegrandi unità politiche costituisce il fatto-re strutturale fondamentale dello sviluppodei nazionalismi (i fattori culturali, cioè lecondizioni di sviluppo di rappresentazio-ni collettive quali sono le “comunità im-maginate”, si collocano su un altro piano).Tale declino rappresenta una delle conse-guenze più rilevanti dei processi di globa-lizzazione. Questo termine designa un in-sieme di trasformazioni indotte da unanuova fase dello sviluppo storico del capi-talismo, trasformazioni complesse ma so-stanzialmente riconducibili, nei loro aspet-ti più strettamente economici, alla cresci-ta di gigantesche imprese transnazionaliche, essendo dotate di immense risorse, e- come osserva Smith - “di sofisticate tec-nologie, elevato livello di conoscenze,grandi capacità di pianificazione e investi-mento su larga scala e lunghi periodi”, co-stituiscono “una minaccia reale per moltiStati”139.

La capacità di tenuta e di controllo in-terno degli stati medi e piccoli o di quellieconomicamente più fragili si riduce con-siderevolmente nel nuovo contesto dise-gnato dai processi di globalizzazione, dal-l’integrazione mondiale dell’economia,

dalle capacità di intervento e investimen-to a livello planetario delle imprese trans-nazionali. La pressione esercitata dalleforze economiche sovranazionali sull’inte-laiatura interna degli stati produce i suoieffetti più rilevanti lungo le loro linee difrattura interne: le aree più ricche, mag-giormente sviluppate o dotate di maggio-ri risorse (si pensi ai Paesi baschi, alla Ca-talogna, alla Padania, alla Slovenia, allaCroazia, anche alla Scozia, in quanto de-tentrice potenziale delle risorse petrolife-re del Mare del Nord) aspirano a sottrarsial controllo politico-fiscale degli stati incui sono incapsulate e ad assicurarsi, attra-verso l’indipendenza, la possibilità di ge-stire autonomamente le proprie risorse e dinegoziarne direttamente lo sfruttamentocon le grandi multinazionali.

Non è dunque vero - come sostengono iteorici della “deprivazione relativa” - chei movimenti nazionalisti sorgono e si svi-luppano nelle aree periferiche ed economi-camente depresse degli stati e che i loroobiettivi politici si alimentano della pro-testa contro la discriminazione di cui sonovittime140. Al contrario - come sostieneConnor - i movimenti nazionalisti europeidella seconda metà del XX secolo sonosorti in regioni caratterizzate da un tenoredi vita più alto di quello degli stati in cuisono incluse. È vero che alcuni casi sem-brano contraddire questa affermazione eavvalorare invece la tesi della deprivazio-ne relativa: il Galles e la Bretagna possonoinfatti essere considerate aree perifericherelativamente depresse nel contesto dei ri-spettivi stati di appartenenza (Gran Breta-

139 Idem, p. 39.140 Una critica radicale della teoria della “deprivazione relativa” si può trovare in WALKER

CONNOR, Etnonazionalismi. Quando e perché emergono le nazioni, Bari, Dedalo, 1995, p.218-243; ed. orig., Ethnonationalism. The Quest for Understanding, Princeton, Princeton Uni-versity Press, 1994.

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Il nazionalismo in una prospettiva antropologica

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 33

gna e Francia). Tuttavia anche in queste si-tuazioni le motivazioni politiche che sonoalla base dello sviluppo dei movimenti na-zionalisti si collocano nel quadro che ab-biamo delineato: l’autonomia è considera-ta uno strumento indispensabile per ricon-trattare con il centro le competenze poli-tiche e fiscali o per assicurarsi la gestionedelle proprie risorse.

L’identità “etnica” sembra avere solo unruolo di legittimazione ideologica a poste-

riori delle rivendicazioni politiche; lo di-mostra il fatto che, sul piano culturale, imovimenti nazionalisti europei della se-conda metà del XX secolo non presenta-no costanti significative. Il ricorso a spe-cifici tratti culturali (quali la lingua o la re-ligione) non sembra essere indispensabileal loro sviluppo; infatti l’elemento cultu-rale utilizzato per la costruzione del mo-dello autorappresentativo dell’identità na-zionale varia da caso a caso, essendo co-stituito a volte dalla lingua (Paesi baschi,Catalogna), a volte dalla religione (Croa-zia); in altri casi, invece, non è stato pos-sibile ricorrere ad uno di questi due tratticulturali per costruire un’identità etnica.Ma questa mancanza non si è rivelata unostacolo insormontabile.

Ad esempio in Scozia la lingua locale (ilgaelico) non è più parlata da secoli, sosti-tuita dall’inglese; il movimento naziona-lista scozzese non ha potuto quindi fareleva sul fattore linguistico; neppure la dif-ferenza religiosa (la contrapposizione po-tenziale fra presbiterianesimo e anglicane-simo) è uno strumento efficace di mobili-tazione ideologico-politica nella ormai se-colarizzata Europa occidentale. Pertanto ilmovimento nazionalista scozzese ha dovu-to ricorrere alla rivendicazione dell’iden-tità storica della Scozia (a lungo regno so-vrano in conflitto con l’Inghilterra). Il casodella Padania è ancora più significativo.

La Padania non presenta alcuno scartoculturale significativo rispetto al restod’Italia e non possiede neppure un retag-gio storico paragonabile a quello dellaScozia (o della Catalogna), eppure ciò nonha impedito che un’identità etnica padanasi radicasse in una parte consistente dellapopolazione dell’Italia del Nord.

I nazionalismi dell’Europa orientale (inparticolare quelli sviluppatisi nell’ultimodecennio del XX secolo nei paesi baltici ein Croazia) si caratterizzano, rispetto aquelli dell’Europa occidentale, per una for-te connotazione etnica, per un atteggia-mento persecutorio nei confronti degli ap-partenenti alle minoranze, etichettati come“stranieri” e in quanto tali esclusi dal pie-no godimento dei diritti politici. Tipico diquesti nazionalismi è la scelta del fattoreetnico come criterio di identificazione e larappresentazione dello stato come “mono-etnico”. Poiché si tratta in realtà di paesimultietnici, l’adozione da parte dell’élite

al potere di un’ideologia nazionalista subase etnica si traduce in una politica per-secutoria che rende le minoranze social-mente e politicamente invisibili medianteil ricorso a interventi legislativi e giuridi-ci che le escludono dalla cittadinanza o dalpieno godimento dei diritti politici o cheimpediscono la manifestazione della loroidentità culturale e linguistica: è il caso, adesempio, della minoranza serba in Croazia,della minoranza russa in Estonia e Letto-nia, della minoranza serba nel Kosovo oc-cupato dalla Nato.

In numerosi paesi asiatici si è sviluppa-to, negli ultimi decenni del XX secolo, unnazionalismo di tipo castrense; con questotermine intendo riferirmi alle situazioni incui il potere politico (e in buona misuraanche quello economico) sono gestiti - di-rettamente o indirettamente - dall’eserci-to, che si presenta come garante dell’uni-

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Pietro Scarduelli

34 l’impegno

tà nazionale, dell’ordine costituito e del-l’ideologia nazionale. Sia le élites politi-che che quelle militari tendono spesso a ri-vitalizzare la cultura tradizionale reifican-dola e trasformandola in uno strumentofunzionale alla retorica nazionalista e alla“rivendicazione di identità, in opposizio-ne alla modernità e all’occidentalizzazio-ne”141.

Molti paesi del Terzo Mondo, dove leélites militari esercitano il potere politicoe un forte controllo ideologico sulla socie-tà, sono caratterizzati anche dalla presen-za dell’integralismo religioso. Il rapportofra nazionalismi e integralismo è comples-so e ambiguo e assume, a seconda dei con-testi, forme diverse, che vanno dal conflit-to aperto alla collusione nascosta, all’e-splicita alleanza.

In Turchia l’élite militare, che non eser-cita direttamente il potere, ma agisce tra-mite la mediazione del ceto politico (inparticolare i partiti nazionalisti di destra),si presenta come custode di un nazionali-smo identificato con i valori della rivolu-zione laica e modernizzante di Ataturk,una rivoluzione che puntò ad una radicalerottura con il passato e all’occidentalizza-zione del paese; perciò il rapporto fra lacasta militare e l’integralismo islamico èestremamente conflittuale. Il partito diispirazione religiosa che negli anni novan-ta aveva ottenuto notevoli successi eletto-rali, è stato messo fuori legge e liquidatosoprattutto per volontà degli alti quadridell’esercito.

In Pakistan invece l’esercito ha giocatola carta dell’integralismo islamico sia inpolitica interna, per assicurare un consen-so di massa al regime, sia in politica este-

ra, per alimentare i sentimenti anti-india-ni nel Kashmir e per mantenere, attraver-so i talebani, il controllo dell’Afghanistan.

Più complessa e ambigua è la situazio-ne in un altro grande paese islamico del-l’Asia: l’Indonesia, dove le alte gerarchiemilitari, in collusione con il deposto pre-sidente-dittatore Suharto, appoggiano l’alaintegralista e intransigente del movimen-to islamico per indebolire l’islamismo mo-derato rappresentato dall’attuale presiden-te Wahid. Per destabilizzare il governo imilitari fomentano i conflitti religiosi fracristiani e musulmani nelle aree periferi-che dell’arcipelago (in particolare nelleMolucche), dove la popolazione è a mag-gioranza cristiana. La politica di transmi-

grasi, cioè di trasferimento di masse dicontadini giavanesi poveri (musulmani)nelle isole esterne dell’arcipelago, menodensamente popolate (Sumatra, Kaliman-tan, Sulawesi, Molucche, Irian Jaya), ini-ziata già in epoca coloniale, proseguita daSukarno e intensificata dal regime di Su-harto, crea tensioni e conflitti fra gli immi-grati e le popolazioni locali soprattutto làdove queste sono prevalentemente cristia-ne (come nelle Molucche).

Gli immigrati musulmani sono infiltra-ti da agitatori armati e finanziati dall’eser-cito, che mirano a innescare una spirale diviolenza. La strategia dei militari tende afar crescere la tensione fra cristiani e mu-sulmani e a provocare scontri armati fra ledue fazioni, con il duplice scopo di raffor-zare le tendenze più radicali del movimen-to islamico, che ha buon gioco nel presen-tare i cristiani come nemici e nell’invoca-re la guerra santa, e di permettere all’eser-cito di assumere il ruolo di pacificatore e

141 ROGERKEESING, Le teorie delle culture rivisitate, in ROBERT BOROFSKY (a cura di), L’an-tropologia culturale oggi, Roma, Meltemi, 2000, p. 369, ed. orig., R. BOROFSKY, AssessingCultural Anthropology, New York, McGraw-Hill, 1994.

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Il nazionalismo in una prospettiva antropologica

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 35

di presentarsi come unico garante dell’uni-tà nazionale.

Il panorama dei nazionalismi contempo-ranei è dunque variegato e complesso: na-zionalismi regionalistici nell’Europa occi-dentale, nazionalismi etnici ed etnocrati-ci nell’Europa orientale, nazionalismi ca-strensi più o meno legati all’integralismoislamico in Asia e in Africa (esemplare èil caso del Sudan). Ma esiste anche un al-tro tipo di nazionalismo che non ha con-notazioni né etniche né religiose e che siè sviluppato nei paesi in cui l’identità na-zionale è stata riplasmata da un processorivoluzionario di orientamento progressi-sta che ha portato ad un radicale mutamen-to di regime politico. È il caso del Viet-nam, di Cuba e del Nicaragua. Questo tipodi nazionalismo, che può essere definito“sovra-etnico” e aconfessionale, si ispira a“un’ideologia universalistica” che enfatiz-za l’eguaglianza fra i cittadini e quindi nonsolo tende a porre tra parentesi l’apparte-nenza etnica o religiosa142, ma consideral’etnicità una minaccia alla coesione na-zionale sia sul piano politico (se prende laforma di rivendicazioni localistiche) siasul piano ideologico, in quanto terreno di

coltura di particolarismi che contraddico-no l’universalismo dell’ideologia rivolu-zionaria.

In generale, dunque, il nazionalismo (adesclusione di quest’ultima sua variante)presenta legami, intrecci e analogie conl’etnicità, ma solo sul piano sovrastruttu-

rale; su quello strutturale la differenza ènetta. Infatti il nazionalismo - come so-stengono Gellner e Anderson - è il prodottodi un processo storico unico, delimitatonello spazio e nel tempo, e risulta indisso-lubilmente legato allo sviluppo dello sta-to moderno, mentre l’etnicità è un fenome-no culturale estremamente diffuso e benpiù antico del nazionalismo. Invece sulpiano sovrastrutturale l’analogia fra etni-cità e nazionalismo è evidente: entrambiutilizzano modelli autorappresentativi (ste-reotipi) costruiti attraverso la selezione el’assemblaggio di tratti culturali scelti alloscopo di tracciare un confine sociale o po-litico che distingua e separi un “noi” dagli“altri”. Sono dunque simili i meccanismiattraverso cui vengono costruite quelle par-ticolari rappresentazioni collettive chesono le “comunità immaginate”, siano esseetnie o nazioni.

142 T. H. ERIKSEN, op. cit., p. 119.

Page 37: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

FRANCESCO OMODEO ZORINI

Una scrittura morale

Antologia di giornali della Resistenza

1996, pp. 304, € 18,08

L’opera si pone in continuità col lavoro di scavo del sostrato valoriale, misto di

ideali, ragioni, sentimenti e progettualità della Resistenza (e che coagula il nerbo

e l’ossatura della Costituzione italiana), precocemente individuato dall’autore con

“La formazione del partigiano”, saggio di pedagogia civile e di antropologia sto-

rica, edito dall’Istituto nel 1990.

Qui si misura con una campionatura di giornali: “La Stella Alpina”,“Baita”, “Ver-

celli Libera” e “Valsesia Libera” che appartengono all’area dell’Alto Piemonte,

segnatamente alle attuali province di Biella, Vercelli, Novara e Verbano-Cusio-

Ossola, e cronologicamente raccordano, dall’estate del 1944 a quella del 1946, la

maturità della lotta clandestina delle “zone libere” o repubbliche partigiane, coi

primi passi della ricostruzione post-bellica, approdati all’istituzione della Repub-

blica. In un orizzonte di studi sulla Resistenza rivolti alla dimensione esistenzia-

le, personale, quotidiana e per così dire “privata” dei partigiani, i periodici rigua-

dagnano interesse quali fonti primarie per una lettura complessa, a più livelli, quasi

stratigrafica, tesa a cogliere la pluralità dei codici e dei messaggi. Il giornale par-

tigiano è infatti specchio dell’universo antropologico dei suoi referenti e insieme

precipitato del disegno politico-sociale dei vertici dell’organizzazione militare e

politica a un tempo.

L’autore sceglie gli articoli soffermandosi sulle testimonianze della violenza e del

sacrificio, della battaglia senza quartiere, ma anche su quelle della pietà e della

speranza, della palingenesi del ritorno o dell’amara delusione per la restaurazio-

ne annunciata, sui documenti del programma e dell’azione democratica, mette a

fuoco la scrittura delle donne. Egli rintraccia nei testi il “bisogno di autobiogra-

fia collettiva” che pervade le pagine di questi giornali “pedagogici” ibridamente

sospese tra un modello letterario colto e uno popolare, dimesso, spesso ingenuo,

retorico e dalla scarsa padronanza dei registri linguistici, ma sollevate da una

straordinaria istanza morale di catarsi e rigenerazione dall’abiezione della guerra,

di libertà, democrazia, solidarietà, eguaglianza e giustizia, pace e lavoro: esatto

contrario di egoismo e volgarità, tanto applauditi impunemente oggi.

Page 38: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

saggi

l’impegno 37

Noi diciamo Asia, ma quale realtà vo-

gliamo indicare con questo nome? Che

cos’è per noi l’Asia? La porzione di mon-

do che chiamiamo Asia non è affatto un

insieme omogeneo, dunque il nome non

può essere usato nello stesso modo con cui

oggi diciamo, per esempio, Europa. Il con-

tinente a cui per abitudine diamo il nome

di Asia è costituito da un insieme di terri-

tori e di popoli tra loro diversi per storia,

religioni e cultura. Esistono molte Asie,

dall’India all’Indonesia, dalla Cambogia al

Nepal e poi ancora dal Vietnam alla Cina

e al Giappone. Non è possibile tratteggia-

re una tipologia di nazionalismo asiatico,

l’idea di nazione e i movimenti nazionali-

sti asiatici sono tanti quanti i paesi che co-

stituiscono l’insieme a cui si è soliti attri-

buire il nome Asia. Dobbiamo anche ricor-

dare che gli stessi termini di nazione e na-

zionalismo furono introdotti nei diversi

contesti asiatici nel corso del XIX secolo

dalle potenze occidentali, furono poi fatti

propri in tempi e modi diversi dalle élite

intellettuali di quei paesi, quasi sempre

nella versione più aggressiva che l’Occi-

dente aveva loro trasmesso con la domina-

zione coloniale.

Finita con il 1989 la stagione degli equi-

libri bipolari, anche in area asiatica sono

ripresi, in modo sempre più palese, fer-

menti e umori che hanno portato alla for-

mazione di nuovi movimenti nazionalisti-

ci; in questo contesto vanno inseriti i mo-

vimenti islamisti dell’Indonesia e del sud

delle Filippine dai tratti dichiaratamente

eversivi, il nazionalismo fondamentalista

indù in India, la ripresa nella Repubblica

popolare cinese di argomenti patriottici e

nazionalisti da parte delle stesse autorità

di Pechino, e il più sommesso, ma non me-

no inquietante, ritorno nel dibattito poli-

tico giapponese del tema dell’identità na-

zionale.

Fatte queste premesse, la mia relazione

si occuperà del fenomeno del risorgente

nazionalismo limitatamente ai casi dell’In-

dia, della Cina e del Giappone.

Un nazionalismo su base religiosa

L’India, che con il suo miliardo di abi-

tanti può essere considerata la più popolo-

sa democrazia laica dell’Asia, in questi ul-

timi anni ha visto entrare in crisi il modello

di stato nazionale edificato da Nehru e

oggi la situazione presenta molti elementi

che possono creare preoccupazione.

Il declino del Partito del Congresso ha

portato al potere, nelle elezioni del febbra-

io-marzo 1998, il Bharatiya Jianata Party

(Bjp), il partito nazionalista della destra

religiosa indù.

Questa vittoria è stata preceduta e segui-

FEDERICO AVANZINI

Nazionalismi in Asia orientale

Page 39: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Federico Avanzini

38 l’impegno

ta da un crescendo di incidenti e scontri a

sfondo razziale, attentati e omicidi perpe-

trati nei confronti di musulmani e cristia-

ni in molti stati, in particolare in Orissa,

Madhya Pradesh, Rajasthan, Gujarat e

Uttar Pradesh.

Proprio nell’Uttar Pradesh nel 1992 at-

tivisti indù hanno devastato e distrutto la

cinquecentesca moschea di Ayodhya, sca-

tenandosi poi in saccheggi e violenze con-

tro la comunità musulmana.

Il governo nazionalista ha inasprito la

tensione con il Pakistan che, a sua volta e

proprio negli stessi anni, imboccava una

strada che è stata definita di talibanizza-

zione.

Così nel maggio del 1998 le tensioni tra

i due stati sono sfociate nella decisione re-

ciproca di riarmo nucleare e poi nel 1999

nella guerra di Kargil in Kashmir. Il mo-

vimento nazionalista indiano che ha por-

tato al potere il Bjp è organizzato sul ter-

ritorio degli stati del Centro-Nord del pae-

se e le sue organizzazioni più importanti

e violente sono lo Rashtriya Swayamsevak

Sangh (Rss), Forza volontaria nazionale, e

lo Shivsena.

L’Rss è una sedicente organizzazione

culturale per la rinascita indù, ma in real-

tà è a tutti gli effetti un movimento politi-

co militare, la mente del Bjp, il cui grup-

po dirigente proviene in gran parte da que-

sta organizzazione. Lo Shivsena è invece

senza ombra di dubbio un’organizzazione

terrorista su base locale, propria dello stato

del Maharasthra e della sua capitale Bom-

bay. Lo Shivsena si richiama a Shivaji,

l’antico sovrano maharathi che resistette

combattendo contro i Moghul. Allo Shiv-

sena vanno addebitati molti omicidi di

musulmani e di cristiani, distruzioni di

moschee e di chiese, di case e negozi ap-

partenenti a famiglie musulmane e cristia-

ne.

Queste le tesi sostenute dal movimento

nazionalista indù:

1) l’India è indù così come il Pakistan è

musulmano. Se l’India è indù la sua iden-

tità e unità territoriale può essere garanti-

ta soltanto difendendo l’induismo da ogni

contaminazione; i musulmani e i cristiani

non sono veri indiani e devono essere con-

siderati nemici;

2) l’India deve cessare di essere uno sta-

to laico, il modello politico nehruviano ha

fatto dell’India una appendice dell’Occi-

dente sia a livello economico che ideolo-

gico. La stessa carta costituzionale deve

essere profondamente emendata per diven-

tare una vera costituzione indù;

3) l’induismo non può essere considerato

come una delle religioni dell’India, esso è

l’India stessa;

4) i musulmani ed i cristiani, in quanto

nemici dell’identità nazionale indiana, de-

vono essere considerati come gli ebrei nel-

la Germania degli anni trenta e l’India, se

vuole salvare se stessa, deve liberarsi di lo-

ro anche ricorrendo ai metodi usati dal na-

zismo contro gli ebrei.

Per poter sostenere queste loro tesi i fon-

damentalisti indù stanno riscrivendo la sto-

ria dell’India, reinterpretando i testi della

tradizione religiosa.

Amartya Sen, l’economista bengalese,

premio Nobel per l’economia nel 1998,

non ha esitato a definire fasciste le orga-

nizzazioni del movimento nazionalista

indù. Questo nazionalismo indù fa prose-

liti tra le masse diseredate e analfabete

dell’India degli stati del Nord e del Centro,

tra i piccoli commercianti e gli artigiani

che temono di perdere il poco benessere

che hanno conquistato, per effetto dei pro-

cessi di globalizzazione. L’Occidente vie-

ne accusato di volere la cristianizzazione

dell’India e la sua ricolonizzazione. Nel-

l’ultimo anno la situazione si è aggravata

Page 40: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Nazionalismi in Asia orientale

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 39

con attacchi ripetuti contro organizzazio-

ni sindacali e contro singoli intellettuali

accusati di seguire mode occidentali.

Pechino fa appello a Confucio

Dopo il 4 giugno 1989 e i massacri di

piazza Tienanmen, la Rpc ha dovuto fare

i conti con una crisi di legittimazione del

regime comunista, il degrado del sistema

politico, una diffusa corruzione e preoccu-

panti tensioni tra centro e periferia, in par-

ticolare le province meridionali più ricche

e dinamiche non sembrano essere più di-

sposte a trasferire al centro la maggior par-

te della loro ricchezza. In questo contesto

il nazionalismo è ritornato di attualità

come strumento utile per evitare il pericolo

di fare la fine dell’ex Unione sovietica.

In definitiva la difesa di non meglio de-

terminati valori asiatici, contro le pretese

universalistiche dell’Occidente, le ripetu-

te campagne di educazione patriottica in

difesa della spiritualità socialista, dei pri-

mi anni novanta del Novecento, promosse

o ispirate dal governo, cercavano di ricrea-

re un clima di consenso verso il partito co-

munista e le sue scelte.

Il partito e la sua classe dirigente hanno

cercato nuova legittimità e consenso ricor-

rendo agli appelli dell’amor di patria e ri-

proponendo alcuni temi nazionalistici, ab-

bandonati da moltissimo tempo in nome

dell’internazionalismo comunista.

Dopo il bombardamento Nato della sede

dell’ambasciata della Rpc a Belgrado, nel

corso delle manifestazioni di piazza volu-

te e incoraggiate dal governo sono riemer-

si, sia pur minoritari, antichi sentimenti

xenofobi.

Molte riviste cinesi in questi ultimi anni

hanno dedicato una particolare attenzione

al tema dell’identità nazionale e del nazio-

nalismo. I politici hanno pubblicamente

incoraggiato la ripresa di tradizioni confu-

ciane, in precedenza combattute e vietate

quali espressioni di un passato reazionario

e feudale.

Pechino ha bisogno di trovare un’ideo-

logia da sostituire al marxismo-leninismo

ormai screditato e fa appello a quei valori

più profondi e radicati dell’identità cultu-

rale nazionale che noi occidentali cono-

sciamo con il nome di confucianesimo.

Così anche il dibattito tra gli intellettuali

ritorna a quei temi che avevano caratteriz-

zato la Cina negli anni della fondazione

della repubblica.

La Cina accetta la sfida della globaliz-

zazione e la gioca pensandola come uno

scontro politico tra grandi potenze, una

variante contemporanea del modello 1860-

1945; per questo ha bisogno di ritrovare le

sue radici culturali.

Le posizioni espresse dalle correnti del

nuovo nazionalismo cinese si possono ri-

condurre a quattro tipologie:

1) identità socialista. Questa è la posizio-

ne dei gruppi più conservatori, per i quali

la Cina si identifica con lo stato-partito e

trova la propria identità nell’ideologia so-

cialista, cioè in quel patrimonio ideologi-

co rappresentato dalla variante cinese del

marxismo-leninismo;

2) identità Han. Tesi sostenuta da colo-

ro che rivendicano un nazionalismo su ba-

se etnica e linguistica. Questa concezione

dell’identità nazionale non è nuova, ma de-

ve fare i conti con le numerose comunità

non Han delle province del Nord-Est e del-

l’estremo Ovest, che sarebbero in tal modo

fortemente discriminate;

3) identità culturale. Questa posizione è

quella che più si avvicina alle posizioni

confuciane di cui cerca di recuperare l’ere-

dità storica. L’identità della Cina, la sua

vera natura, è nella sua civiltà millenaria,

nella storia delle sue tradizioni culturali e,

Page 41: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Federico Avanzini

40 l’impegno

in modo tutto speciale, nel patrimonio

ideale della scuola dei letterati;

4) identità territoriale. Questa concezio-

ne della nazione nasconde in realtà due

differenti soluzioni del problema: a) iden-

tità territoriale all’interno del modello del-

lo stato dinastico. In questo caso i confini

della nuova Cina coinciderebbero territo-

rialmente con i confini del suo antico Im-

pero. Troviamo sostenitori di questa tesi

anche tra i fautori di una sorta di democra-

zia autoritaria; b) identità territoriale entro

i confini dell’Impero. Lo spazio dell’Impe-

ro è in questo secondo caso pensato in ter-

mini di cittadinanza e di fruizione dei di-

ritti civili e politici; la soluzione proposta

è quella della Repubblica federale.

In realtà queste quattro tipologie si pre-

sentano spesso miscelate tra loro forman-

do nuove configurazioni e ipotesi. La con-

cezione che abbiamo definito dello “stato

dinastico” si coniuga spesso con quella

dell’identità culturale o altrimenti con

quella dell’identità socialista.

Nella seconda versione la tesi dell’iden-

tità territoriale può essere sostenuta insie-

me a una forte difesa dell’identità cultura-

le, dunque entro i confini di una rivaluta-

zione della civiltà confuciana, dando così

origine ad un nazionalismo pancinese che

si ricollega ad un passato prossimo, quello

rappresentato dall’ultima dinastia imperia-

le dei Qing. La Cina è pensata da questa

corrente del nazionalismo come un’unica

entità territoriale dalla Mongolia al Tibet

allo Xinjiang.

Negli ultimi dieci anni il governo di Pe-

chino e i principali centri culturali del pae-

se hanno elaborato una strategia volta a

suscitare tra la popolazione un forte sen-

timento patriottico. I giornali, la televisio-

ne, il cinema, l’editoria libraria e anche la

scuola, sono stati mobilitati intorno a que-

sto obiettivo. Sono state rivalutate e ripri-

stinate antiche feste tradizionali, ricorren-

ze e anniversari per commemorare eventi

del lontano passato imperiale.

Tra i libri editati in anni recenti al fine

di contribuire alla formazione di una for-

te coscienza nazionale possono essere ri-

cordati: “La grande muraglia spirituale”,

“La tradizione patriottica cinese” e “Amo

la mia Cina”. Per l’attività didattica delle

scuole sono stati pubblicati ben venti nuovi

volumi sull’educazione nazionale e una

enciclopedia sulla storia della nazione.

Nelle librerie sono ricomparsi i classici

della tradizione confuciana e numerosi

saggi storici sulla guerra contro il Giappo-

ne.

Da qualche tempo è in corso anche una

rivalutazione di quei pensatori confuciani

che, come il filosofo Liang Shuming, fu-

rono attivi durante gli anni venti del Nove-

cento. Un’attenzione particolare è stata de-

dicata al pensiero di Liang Qichao a cui si

deve la prima compiuta elaborazione del

nazionalismo pancinese (da min zu zhu yi).

La televisione nazionale ha prodotto uno

sceneggiato in cinquanta puntate sulla vita

del generale Zeng Guofan (1811-1872) e,

contemporaneamente alla sua messa in

onda, venivano ristampate tutte le sue ope-

re e gli veniva dedicato un romanzo stori-

co che tra il 1993 e il 1996 poteva già van-

tare diciannove edizioni per milioni di co-

pie vendute.

Si stanno ristampando e ristudiando le

opere dei pensatori del tardo impero Ming

e del primo periodo Qing, in particolare va

segnalato il rinnovato interesse per Wang

Fuzhi (1619-1692) a cui si deve forse la

prima elaborazione di un pensiero nazio-

nalista, là dove viene elaborando una teo-

ria della guerra giusta a partire dal convin-

cimento che l’Impero cinese ha, non sol-

tanto il diritto, ma l’obbligo di combatte-

re contro i barbari e di annientarli al fine

Page 42: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Nazionalismi in Asia orientale

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 41

di preservare la sicurezza dell’Impero, i

valori della civiltà cinese e il benessere del

popolo. Il caso del generale Zeng Guofan

è esemplare per capire il cambiamento di

clima politico che la Rpc sta attraversan-

do. In questo caso infatti si tratta di un ri-

baltamento di giudizio. In passato Zeng

Guofan era stato accusato dal Pcc di esse-

re un traditore della patria, un servitore al

soldo di una dinastia straniera (i mancesi),

un nemico del popolo. Ora Zeng viene ria-

bilitato quale autentico patriota, vero cine-

se, confuciano esemplare, riformatore e

uomo di stato di adamantina integrità mo-

rale.

Zeng Guofan fu esponente di primo pia-

no del movimento yangwu, sorto dopo le

guerre dell’oppio, propugnatore e anima-

tore di una rinascita del pensiero confucia-

no e dei valori imperituri della civiltà ci-

nese, difensore di una politica di rafforza-

mento della potenza imperiale attraverso

la realizzazione di un piano di riforme eco-

nomiche e militari. Zeng fu anche il co-

mandante in capo dell’esercito imperiale

che nel 1864 represse nel sangue il movi-

mento dei Taiping.

Con Zeng Guofan vengono rivalutati i

protagonisti del movimento riformista del

1898 e cioè Kang Youwei, Liang Qichao e

Tan Sitong. Questo rinnovato interesse

verso personaggi e momenti della storia

dell’Impero è il segno di una trasformazio-

ne in atto delle concezioni politiche del

nazionalismo cinese, trasformazione dagli

esiti ancora incerti, ma certo non più ricon-

ducibile nel solco del marxismo e del le-

ninismo.

Gli stessi intellettuali dissidenti si muo-

vono all’interno di questa trasformazione

come parti attive di questo grande dibatti-

to storico e culturale. Personaggi noti an-

che in occidente quali Wei Jingsheng e Yan

Jiaqi, quando si battono per la creazione di

uno stato democratico, contro i sostenito-

ri dello stato dinastico, lo fanno rimanen-

do entro il quadro di una concezione na-

zionale pancinese, che vede però nel mo-

dello di stato federale la soluzione dei con-

flitti interetnici.

Quale che sia il nostro personale giudi-

zio sul nazionalismo, è indubitabile che la

Cina non può fare a meno di una forte

identità nazionale, il suo passato è un pa-

trimonio troppo importante per essere can-

cellato, come volevano fare i sostenitori

della Rivoluzione culturale nel decennio

1966-1976.

Il confucianesimo, sia pure nella sua

forma meno interessante e scolastica co-

dificata dal potere imperiale, è stato stru-

mento di unità e di coesione sociale, ha

formato la classe dirigente dell’Impero e

si è identificato con la stessa civiltà cine-

se. Non dobbiamo dunque stupirci se la

Cina torna a rivolgersi a questa tradizione

con rinnovato interesse. Ma quali corren-

ti, quali pensatori e quali opere verranno

alla fine considerate fondamentali è cosa

cui dobbiamo prestare molta attenzione e

ci dovremo preoccupare se il potere poli-

tico cercherà ancora una volta di porsi

come l’unico autorevole interprete delle

fonti del pensiero e delle tradizioni della

civiltà cinese.

Un incerto Giappone

Paradossalmente il Giappone, paese ul-

tranazionalista fino all’agosto del 1945,

sembra oggi non essere sfiorato dal proble-

ma.

Nel 1996 Tokyo ha riconfermato solen-

nemente la propria alleanza militare con

gli Stati Uniti, impegnandosi anche a so-

stenere le nuove politiche di peacekeeping.

Il Giappone non riesce tuttavia a nascon-

dere una certa inquietudine nei confronti

Page 43: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Federico Avanzini

42 l’impegno

della politica cinese che sembra muoversi

sulla scena internazionale per conquistare

la leadership dei paesi dell’area asiatica e

un ruolo chiave nell’economia mondiale.

Dopo la sconfitta militare del 1945, To-

kyo ha delegato all’amministrazione di

Washington la sua politica estera insieme

alla sua difesa e alla sua sicurezza, dedi-

candosi esclusivamente allo sviluppo eco-

nomico del paese. Non ha voluto fare i

conti con il proprio passato, lo ha rimosso

e dimenticato, fingendo che non fosse mai

accaduto, in questo aiutato dagli stessi Sta-

ti Uniti.

Ora non si può più fingere. Quel passa-

to che il Giappone postbellico aveva mes-

so da parte come non gli appartenesse, è

invece ancora una ferita aperta e sangui-

nante per molti dei suoi vicini di area, qua-

li la Corea, la stessa Cina, le Filippine e

gran parte dei paesi del Sud-Est asiatico.

Oggi, quando il partito democratico in

coalizione con il partito liberale sta cercan-

do di elaborare una strategia politica che

permetta al paese di tornare a giocare un

ruolo da protagonista a livello internazio-

nale, proprio per questo, quel passato tor-

na di attualità.

Ma il governo di Tokyo, anche dopo

l’uscita di scena di Keizo Obuchi, non

sembra in grado per ora di affrontare quel

nodo della propria storia, con coraggio e

lealtà. Sembra temere la reazione dei grup-

pi della destra nazionalista e la disappro-

vazione della potente Yakuza.

Il governo di Tokyo, per scrollarsi di

dosso le sempre più frequenti critiche della

propria opinione pubblica, di eccessiva

subalternità nei confronti della politica

americana, ha iniziato a tessere rapporti

con i propri vicini, dalla Corea alla Cina e

ai paesi del Sud-Est, ma ancora soltanto sul

piano economico e assai timidamente.

Nel 1997, dopo la crisi valutaria, ha pre-

stato aiuto alla Taylandia e alla Malaysia,

ha siglato un accordo di cooperazione eco-

nomica con il governo coreano, sostiene

l’economia filippina, prende parte alle riu-

nioni della Asean. Ma anche con tutte le

cautele e la prudenza dimostrata Tokyo si

è trovato a fare i conti con le richieste dei

governi di Pechino e di Seul di scuse for-

mali e risarcimenti per le atrocità commes-

se dalle truppe giapponesi durante la guer-

ra tra il 1937 e il 1945. Come ormai molti

sostengono, anche tra gli intellettuali giap-

ponesi, la questione nazionale non può più

essere rinviata, il Giappone non può più

continuare a mimetizzarsi dietro lo scudo

degli americani. Ma per poter definire che

cosa è il Giappone del dopo guerra fredda

è indispensabile che il governo e il popo-

lo di questo paese facciano i conti con il

proprio passato.

Il Giappone, per tranquillizzare i propri

interlocutori, deve rispondere in modo

convincente alle obiezioni che questi gli

hanno fatto: quando Tokyo parla di spirito

nazionale a cosa vuole fare riferimento?

Quale nuovo sentimento ha sostituito l’an-

tico Kokutai, la coscienza nazionale del

periodo imperiale? Quale nuovo patriotti-

smo può essere chiamato oggi in causa?

Quale identità nazionale rivendica il Giap-

pone democratico? Già negli anni ottanta

del Novecento il primo ministro Nakaso-

ne si era posto il problema di una costitu-

zione che non era mai passata al vaglio di

un referendum popolare. Il Giappone de-

mocratico ha una costituzione redatta da

esperti statunitensi e votata da un parla-

mento recalcitrante nel 1946 per ordine

dell’imperatore e su pressione delle forze

di occupazione; dopo più di cinquant’an-

ni, si può ritenere che quel testo costituzio-

nale sia oggi largamente condiviso dai cit-

tadini del nuovo Giappone e sia anzi dive-

nuto parte di un nuovo modo di intendere

Page 44: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Nazionalismi in Asia orientale

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 43

la propria identità nazionale? Sono tutte

questioni legittime a cui Tokyo dovrà dare

una qualche soluzione.

Del resto, già nel 1982, l’economista di

fama internazionale Morishima Michio

aveva constatato che molti giapponesi non

accettavano più esplicitamente o nella sua

interezza la dottrina tradizionale del

“Giappone terra degli dei”, ma ciò che

preoccupava era che ad essa nulla era sta-

to sostituito.

Questo vuoto emotivo, concludeva Mo-

rishima, se non sarà riempito lascerà aperta

la possibilità di sviluppi futuri inquietan-

ti.

Noi dobbiamo purtroppo concludere che

nulla ancora è stato fatto in tal senso fino

ai nostri giorni.

Page 45: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

CESARE BERMANI

Pagine di guerriglia

L’esperienza dei garibaldini della Valsesia

vol. I (riedizione), 2000, in due tomi, pp. XLIII-556, € 19,63; vol. II, 1995,

pp. XXXVI-299, € 20,66; vol. III, 1996, pp. 369, € 20,66; vol. IV (in-

dici dei nomi e delle fonti), 2000, pp. 110, € 5,16

Ricerca di microstoria sui garibaldini della Valsesia, “Pagine di guerriglia” - che

è un tentativo di lanciare un ponte tra ricerca storica e ricerca antropologica - af-

frontò nel 1971, anno di pubblicazione del primo volume, per la prima volta in

modo critico l’uso della fonte orale in ricerche sul campo condotte in Italia (circa

duecento testimoni lungamente registrati), mettendo altresì a frutto l’Archivio del

Raggruppamento divisioni “Garibaldi” della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, ri-

masto pressoché integro (si può stimare che almeno l’80-90 per cento dei docu-

menti sia giunto sino a noi; e anche di più per ciò che riguarda la I divisione val-

sesiana).

Il racconto delle vicende dell’82a brigata “Osella” è il filo conduttore di un di-

scorso che mira a rendere il lettore consapevole del funzionamento dell’intera

macchina da guerra via via messa a punto dai garibaldini valsesiani e delle pecu-

liarità avute da quest’esperienza rispetto ad altre piemontesi ed italiane.

La cruda narrazione degli avvenimenti, propri di una vicenda che l’autore - in

consonanza con la più aggiornata storiografia europea - considera non solo guer-

ra contro l’occupante tedesco, ma anche guerra civile contro il fascismo (nato,

non dimentichiamolo, in Italia e consolidatosi attraverso una guerra civile sin dagli

anni venti), lotta ideologica contro nazismo e fascismo e anche lotta di liberazio-

ne sociale (di classe), fa di questa ricerca l’antesignana di una storiografia scevra

da fini apologetici.

Page 46: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

saggi

l’impegno 45

È molto suggestivo guardare alla storio-grafia della Resistenza come a un succe-dersi di revisioni successive di luoghi co-muni, e non ad una monotona ripetizionedi verità ufficiali. E questo è vero a partiredal suo primo grande storico.

La storia della Resistenza italiana trovainfatti nel 1953 un “classico” destinato adurare nel tempo nell’opera di Roberto Bat-taglia1. Tranquillo studioso di storia dell’ar-te barocca di mezza età, più che altro infa-stidito dall’“errore di gusto” che il fasci-smo aveva rappresentato, Battaglia si tra-sforma dopo l’8 settembre in comandantepartigiano nelle formazioni di Giustizia eLibertà. Vive questa militanza come una fe-lice sintesi tra “uno spontaneo anarchismoantifascista e il retaggio attivo di un’anticatradizione della democrazia risorgimenta-le”2.

Approda al Partito comunista dopo ladiaspora del suo partito d’origine, e divie-ne storico appassionato dell’Italia contem-

poranea proprio in virtù della sua esperien-za di partigiano, rievocata nel 1945 in unlibro autobiografico che già rivela la forzadel suo stile. Uno stile inconfondibile, “al-to” ma non retorico.

In cosa consistono le “revisioni” di Bat-taglia? Oltre all’ovvia precisazione di mol-ti dati di fatto (della storia politica e mili-tare, come dei rapporti tra Resistenza e Al-leati) per la prima volta composti in un qua-dro organico, Battaglia introduceva ele-menti di riflessione e di storicizzazionedella Resistenza che erano anche correzio-ne, e in alcuni casi rovesciamento, tanto diprimi giudizi storici quanto di un diffusosenso comune.

Chi, avendo in mente le polemiche delgiornalismo storico liberalfascista (esserealmente monotone e immutabili) sullastoriografia della Resistenza si accostasseoggi alla “Storia della Resistenza” di Bat-taglia, avrebbe la sorpresa di scoprire findalla prima pagina la sottolineatura delle

* Relazione presentata al convegno nazionale “I fondamenti dell’Italia repubblicana:mezzo secolo di dibattito sulla Resistenza”, svoltosi a Vercelli il 28 e 29 gennaio del 2000.Stesura non rielaborata.

1 ROBERTO BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 -25 aprile 1945,Torino, Einaudi, 1953 (3a edizione, riveduta e corretta, 1964).

2 ERNESTO RAGIONIERI, Prefazione a R. BATTAGLIA, Risorgimento e Resistenza, a cura di E.RAGIONIERI, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 10.

GIANPASQUALE SANTOMASSIMO

Due generazioni di storici comunisti:

da Battaglia a Spriano e Ragionieri*

Page 47: aspetti politici, economici, sociali e culturali del ...

Gianpasquale Santomassimo

46 l’impegno

basi di massa del fascismo italiano.Una sottolineatura al tempo quasi trop-

po innovativa, al punto da non esser coltanella sua importanza. Ma se non si com-prendono le basi di massa del regime fasci-sta, secondo Battaglia, la Resistenza “purcon tutta la sua concitazione drammatica,è come un gigante i cui piedi poggiano sul-la sabbia”. Così era netta e impietosa la de-scrizione dello stato dell’antifascismo or-ganizzato al momento della caduta del fa-scismo: gruppi di naufraghi che si aggrap-pano ad una zattera di fortuna. Siamo mol-to lontani dal “popolo alla macchia”, na-turalmente antifascista, in cui i partigianisi muovono come pesci nell’acqua.

Il suo primo saggio, “Il problema storicodella Resistenza” del 1948, prendeva po-sizione su alcuni aspetti preliminari, tutt’al-tro che pacifici al tempo e non del tutto ac-quisiti neppure oggi. Si teneva distante dal-le interpretazioni ormai “classiche” del fa-scismo, tanto da quella parentetica di ori-gine crociana quanto dalla tesi democrati-co-radicale del fascismo come “rivelazio-ne”, che pure gli pareva più feconda qualeapprossimazione ad alcune “più solide real-tà”. Né accettava gli schemi “classisti” dellatradizione terzinternazionalista, puntandopiuttosto a far emergere da un’analisi rea-listica delle vicende i nodi e i problemi chegli parevano centrali.

Ma soprattutto Battaglia procedeva a im-postare per la prima volta alcuni problemituttora attuali. Operava una distinzionenetta, generazionale e culturale, e si vor-rebbe dire anche esistenziale, tra antifasci-smo e Resistenza, cogliendo in tutta la suanovità e importanza l’emergere di una ge-nerazione, della Resistenza o dell’antifa-

scismo di guerra, molto distante dalla cul-tura e dalle polemiche dei gruppi di fuoru-sciti del ventennio e che aveva dovutocombattere il fascismo in primo luogo den-

tro se stessa. Per Battaglia andavano supe-rati gli schemi storiografici “più divulga-ti” e “più nocivi”, come quello della con-tinuità ininterrotta tra opposizione al fasci-smo e Resistenza, ponendo nel giusto rilie-vo il fenomeno dell’antifascismo di guer-

ra nella sua originalità e autonomia.Colpivano, in questo primo saggio, il net-

to ridimensionamento della forza dei par-titi antifascisti all’indomani del 25 luglio(“gruppi di naufraghi sopravvissuti allagrande tempesta del fascismo”), un primotentativo di analisi della struttura delleformazioni partigiane per estrazione socia-le e per età (al 90 per cento “classi nate ecresciute sotto il fascismo e che sepperoquindi in gran parte con le proprie forzeritrovare la via della libertà”), e un realisti-co giudizio sulle possibilità di sopravvi-venza della struttura ciellenistica, dove lasua analisi era ormai in netto contrasto conle opinioni diffuse nella cultura del suopartito originario.

Il tutto era espresso con una spregiudi-catezza sorprendente. Si veda ad esempioquanto scriveva a proposito del rapportotra il nuovo antifascismo e la tradizioneantifascista: “Fino a qual punto la loro azio-ne [dei partigiani] fu spontanea e in qualerapporto essa è da mettersi con la guida deipartiti antifascisti coalizzati nel Cln?

Mi diceva un amico, abituale frequenta-tore delle carceri nazifasciste, che nel suoperiodo di detenzione 1943-44 solo unaminima parte, il 2% dei detenuti per azio-ni partigiane, aveva risposto a una sua in-dagine di conoscere vagamente chi fosse eche cosa avesse fatto Giacomo Matteotti”.

È un dato estremamente eloquente, econfermato del resto dagli studi delle ge-nerazioni successive, che hanno eviden-ziato la “politicizzazione” molto fluidadelle formazioni partigiane, e che fa capi-re molte cose sulla Resistenza e sul suo ef-

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Due generazioni di storici comunisti: da Battaglia a Spriano e Ragionieri

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 47

fettivo rapporto con la tradizione antifasci-sta. E commentava Battaglia: “È un datoche può sembrare e non è aneddotico, chespiega per se stesso il carattere inizialedella guerra di liberazione: la quale rappre-sentò per la grande maggioranza degli ade-renti lo sfogo istintivo d’un malcontentotroppo a lungo represso, d’un odio moti-vato variamente e sovente individualmen-te inasprito. Al principio ci fu dinanzi adogni ‘sbandato’ dai tragici fatti di settem-bre la sensazione d’un mondo in rovina chebisognava far crollare fino in fondo per rie-mergere alla vita, un disperato sforzo cheognuno doveva compiere per suo conto”3.

Tutto questo non era pacifico, né lo sa-rebbe stato. Contrastava con questo puntodi vista la soggettività degli stessi dirigen-ti comunisti che “venivano da lontano”,ma soprattutto era in conflitto con la tradi-zionale posizione socialista. Che tendeva,tanto negli storici quanto nei politici, amantenere una linea di continuità ininter-rotta: una Resistenza che nasce nel 1921,quando il fascismo scatena la guerra civile,e include tutti coloro che il fascismo han-no combattuto. Con particolare e prevalen-te merito per i primi combattenti e le primevittime, e con un qualche residuo sospettoper i giovani che erano stati irregimentatinel regime. Era soprattutto Sandro Pertiniche polemizzava amaramente con Batta-glia per la sua valorizzazione di comunistie azionisti, nucleo forte dell’antifascismoorganizzato nel paese e poi della Resisten-za, che andava a scapito della tradizionesocialista4. Ma Battaglia rifiutava la so-vrapposizione dell’antifascismo alla Resi-stenza che col tempo si andava costituen-

do nella stessa consapevolezza storica deisuoi protagonisti e, dissolvendo l’identitàtra antifascismo e Resistenza, affermaval’autonomia della Resistenza e la sua indi-vidualità storica.

Peraltro nel senso comune questa distin-zione non sarebbe mai realmente passata,e nel corso del tempo linguaggio celebra-tivo e discorso storico diffuso avrebberodel tutto smarrito il senso di quella intui-zione, che è ormai percepibile solo per glistudiosi. Lo stesso Battaglia, sensibile al-l’amarezza di tanti antifascisti, avrebbe inparte attenuato la portata delle sue afferma-zioni, che nell’ultima edizione della “Sto-ria della Resistenza” possono apparire piùsfumate.

Il secondo saggio, del 1950, sul “Signifi-cato nazionale della Resistenza”, entravaormai già nel merito della materia politicae militare che sarebbe stata al centro del-l’opera maggiore, anticipando rilievi e con-clusioni. Ma faceva emergere anche il temadel rapporto fra Resistenza e nazione. Sitrovava già il nocciolo delle pagine bellis-sime sul nuovo concetto di patria emersodalla lotta partigiana (“bene comune daconquistarsi quotidianamente, noi stessi, lanostra famiglia, il nostro lavoro”) che col-piranno i lettori della “Storia della Resi-stenza italiana”: “Per la prima volta nelcorso della nostra storia il concetto di pa-tria non è più nei libri, non è più un privi-legio di questo o quel gruppo sociale, mas’inserisce nella realtà, è posseduto anchee principalmente da quelle masse popolariche, come i contadini, n’erano stati avulsidalla situazione storica del primo risorgi-mento; il concetto di patria come il con-

3 R. BATTAGLIA, Il problema storico della Resistenza, in “Società”, n. 1, 1948, pp. 78-79.4 SANDRO PERTINI, Il Psi e la Resistenza, in “Lavoro nuovo”, 22 febbraio 1955, e in “Avan-

ti!”, 24 febbraio 1955, con replica di Battaglia sull’“Avanti!” del 15 marzo 1955.

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Gianpasquale Santomassimo

48 l’impegno

cetto del paese per il cui benessere, per lacui civiltà si lotta in concreto, sul terrenonon della tradizione retorica ma dei rap-porti fra gli uomini”5.

Battaglia del resto accettava la formuladel “secondo Risorgimento”, che prima divenire travolta dalla retorica ufficiale, chel’ha resa odiosa e impronunziabile, era sta-ta nelle intenzioni di chi l’aveva proposta(Salvemini in particolare) la sottolineatu-ra in primo luogo della diversità dei duefenomeni, della diversa presenza popolaree contadina in essi. “Secondo” soprattuttoperché diverso dal primo. Nella Resisten-za erano entrate in gioco forze popolari cheavevano messo “radici profonde, che era-no mancate nel primo Risorgimento” e cherenderanno impossibile “strappare al popo-lo italiano la patria così faticosamente con-quistata”. Ai giovani, scriveva nel 1959, an-dava insegnato che “la Resistenza fu anchelotta e guerra civile”, senza aver paura del-le parole e senza farsi trattenere da “specio-si pretesti moralistici” invocati per quietovivere. Non poteva esser resa comprensibi-le “la luce della fraternità umana che ema-na dalla Resistenza se non si descrive an-che l’ombra da cui essa emerge faticosa-mente prima di raggiungere la sua pienez-za”6.

Col libro di Battaglia la Resistenza ita-liana trova la sua prima grande sintesi, dailimiti evidenti ma anche dalla grande for-za evocativa. Una narrazione che accantoalla storia “ufficiale” sa registrare il ritmodi una “storia silenziosa che viene dal bas-so”. A partire da essa, come da un puntofermo, potranno stabilirsi e consolidarsi di-scussioni e approfondimenti, come anche

le inevitabili polemiche, richieste da un’o-pera che intendeva porsi come una storiadagli “sviluppi aperti”.

Dopo il successo della “Storia della Re-sistenza” Battaglia avrebbe dovuto scrive-re la storia del Partito comunista, su incari-co della direzione di quel partito e dell’edi-tore Einaudi. Aveva avviato un piano dilavoro che la morte improvvisa impedì diattuare. Questo compito fu assunto, attra-verso la storia vera e propria del Pci o delleintroduzioni alle opere di Togliatti, daglistorici della generazione successiva, cheappunto della Resistenza trattarono per lopiù nell’ambito della storia del Partito co-munista.

Al pari di Battaglia, Paolo Spriano veni-va dall’esperienza partigiana nelle file a-zioniste. Più giovane di Spriano, ErnestoRagionieri non veniva dall’esperienza dellaResistenza ma era approdato al Pci dopol’adesione al Fronte popolare e al marxismoda posizioni molto lontane da quelle comu-niste. Ma, al di là di questo dato biografico,va detto che questa generazione, allorchéscrive le opere più significative attorno alnostro tema, opera in un contesto politicoe culturale molto diverso.

Se Battaglia aveva operato negli annidella guerra fredda e aveva avuto i suoipunti di riferimento polemici essenzial-mente nella visione governativa e centri-sta del silenzio sulla Resistenza o della sua“imbalsamazione”, per gli altri storici val-gono considerazioni molto diverse. La loroispirazione non si discosta nel fondo daquella di Battaglia. Ma ora le polemichesono soprattutto a sinistra, e anzi diciamopure che vengono da sinistra.

5 R. BATTAGLIA, Il significato nazionale della Resistenza, in “Società”, n. 2, 1950, p. 21.6 ID, La Resistenza e le nuove generazioni, in E. RAGIONIERI (a cura di), Risorgimento e

Resistenza, cit., 1964, p. 375.

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Due generazioni di storici comunisti: da Battaglia a Spriano e Ragionieri

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 49

Forse oggi può apparire strano ai più gio-vani, ma per lungo tempo le polemicheattorno al ruolo del Pci nella Resistenzavertevano essenzialmente sulla sua incapa-cità di portare a termine la rivoluzione nelcorso degli anni della guerra (per taluni,diciamo pure di conquistare il potere colmitra in pugno per dare ai proletari la rivo-luzione costantemente ambita). Un tipo dicontestazione esattamente opposta rispet-to a quella odierna, anche se a volte espressadagli stessi studiosi.

Ma non c’era solo questo, naturalmente.Le questioni del mancato, o limitato, rin-novamento dello Stato e degli elementi dicontinuità tra fascismo ed esperienza repub-blicana erano nodi storiografici reali. E lanuova contestazione si intrecciava con an-tiche delusioni storiche di matrice tantoazionista quanto comunista. E tra i miti,corposi e reali, della Resistenza rossa e del-la Resistenza tradita non era sempre perce-pibile una soluzione di continuità.

Tutto questo emergeva in un clima nonsempre innocente, ma nel quale comunquepoteva apparire a tutti vicino a soluzioneil nodo di una modifica radicale di struttu-re, assetti, mentalità, che la cosiddetta “ri-voluzione antifascista” aveva lasciato in-compiuta. Primo termine di polemica perquesti storici comunisti era dunque proprioquello della fondatezza di una visione del-la storia italiana che tendeva a sminuire laportata della trasformazione politica e isti-tuzionale avviata dalla Resistenza, e adinserire compiutamente il fenomeno in unalunga sequenza di occasioni rivoluziona-rie o riformatrici mancate nella storia ita-liana.

Le conclusioni di Spriano e Ragionierisulle vicende del Pci nella Resistenza nonsono dissimili, tanto riguardo alla valuta-zione della svolta di Salerno, quanto del-l’unità e delle divisioni del Cln. Ci sono

sottolineature diverse, che riflettono diver-se sensibilità nell’approccio al tema più ge-nerale della storia del Pci.

Spriano, anche per motivi autobiografi-ci, sente con intensità molto maggiore ilruolo del “vento del Nord” nella politicaitaliana, ed è portato ad attribuire un rilie-vo maggiore di quanto non faccia Ragio-nieri alla funzione dei Cln nella possibilericostruzione della democrazia italiana,dove Ragionieri è portato invece a valoriz-zare la costruzione del sistema dei partitidi massa come architrave della democraziaitaliana. È comunque comune la valutazio-ne del peso dello spessore reazionario del-la società italiana ereditato dal fascismo(l’espressione è di Giorgio Amendola), e siprofila in termini più o meno trasparentianche la comprensione del carattere mino-ritario della Resistenza nella società italia-na (o in larghissime parti di essa). Di quiun richiamo all’analisi dei rapporti di for-za, nel loro costituirsi e delinearsi, tanto sulpiano interno quanto sul piano internazio-nale. È anche per l’inserimento del tuttocompiuto della Resistenza nel quadro eu-ropeo, come fenomeno internazionale, cheuna espressione come “secondo Risorgi-mento” scomparirà del tutto dalla prosa diquesti autori.

Emerge l’immagine di una Resistenzanon come rivoluzione tradita dai suoi in-terpreti, ma rinnovamento contrastato econtenuto, e al tempo stesso indubbio nel-la sua rottura irreversibile con il passato efondante di una democrazia dagli svilup-pi tuttora aperti. Esperienza interrotta congravi responsabilità delle classi dirigenti,ma anche rottura non ricomposta intera-mente nella continuità del potere delle vec-chie élites. Elemento fondamentale di que-sta svolta, che allora appariva irreversibi-le, era la presenza delle “grandi masse del-la popolazione lavoratrice, con le loro as-

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Gianpasquale Santomassimo

50 l’impegno

sociazioni, le loro organizzazioni, i loropartiti”, presenza che aveva segnato di séuna nuova fase della politica “intesa comedirezione della società e dello Stato”.

Entrambi questi storici sulla base dinuove fonti che andavano emergendo atrent’anni dalla Liberazione (un’ampia me-morialistica, una documentazione presso-ché completa delle carte di partito e, nel ca-so di Spriano, anche di testimonianze di-rette), contribuivano a dissolvere molteleggende di partito. E a documentare i ter-mini di un dibattito reale apertosi nel corpodel Partito comunista. La constatazione dicome il partito operante nel Nord avessecondiviso (o interpretato positivamente) lasvolta di Salerno superando le pregiudizialiideologiche molto più presenti nel Sud,costituiva un indubbio superamento dimolte immagini consolidate o accreditatenel senso comune della sinistra.

Spriano si misurava nella sua opera coni temi della spontaneità e dell’organizza-zione, del ruolo del partito. In particolarenella vicenda degli scioperi del 1943, chestudiava in forma autonoma nella prepara-zione del quinto volume della sua “Storiadel Pci”, trovando a mio avviso un giustoequilibrio tra i discussi e contrapposti estre-mi della autonomia rivendicativa dellaclasse operaia e gli elementi di organizza-zione politica.

Anche qui: forse apparirà strano al pub-blico odierno, ma il tema degli scioperioperai durante la Resistenza fu uno dei piùstudiati e dibattuti in quegli anni, in formaforse anche eccessiva, come del resto è ec-cessivo il silenzio storiografico odierno, difronte a un elemento che è pur sempre di-stintivo della Resistenza italiana nel qua-dro della Resistenza europea.

Il libro di Spriano è anche una ricostru-zione, fra le più dettagliate ed equanimi(l’equanimità era una dote che in parte era

mancata a Battaglia nei confronti dei mode-rati) del dibattito politico tra i partiti duran-te la Resistenza, tuttora utilmente consul-tabile anche sotto questo profilo.

Va richiamata l’angolatura particolare as-sunta da Ragionieri, nell’unica sua operadedicata esplicitamente ai “Comunisti nel-la Resistenza”. Essa era implicitamente cri-tica della impostazione di Spriano (storiadei partiti intesa come storia delle élites di-rigenti, che Spriano esplicitamente riven-dicava), e lasciava intravedere il tipo di sto-ria del Pci che Ragionieri avrebbe volutoscrivere.

Era essenzialmente una storia della di-scussione di base attorno alla svolta di Sa-lerno. Dibattito interno tra militanti e qua-dri dirigenti, tra Nord e Sud; con la docu-mentazione dei limiti di settarismo e diestremismo largamente presenti, ma anchedella ricchezza complessiva di quel dibat-tito e dell’articolazione delle molte e di-verse “Italie” che nella passione di quelladisputa si esprimevano. L’egemonia della

classe operaia, termine caro a Battaglia,qui si ampliava nella più vasta partecipa-zione popolare e in sostanza si dissolvevain popolo.

La “linea politica” del Pci nella Resi-stenza (al centro di tante analisi all’epoca)emergeva da questa ricerca non più comeun dato immutabile, acquisito una voltaper tutte, ma che di volta in volta è sogget-to a sviluppi e correzioni. Anche questocontrastava con l’approccio corrente neidibattiti dell’epoca.

Tra i risultati più importanti della ricer-ca di questi storici, di Ragionieri come diSpriano, era proprio la definizione dellecoordinate della nascita e delle caratteri-stiche del “partito nuovo” come partito dimassa che si delinea nel corso del 1944.Che era anche, vorrei aggiungere, una as-soluta novità nella tradizione dei partiti

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Due generazioni di storici comunisti: da Battaglia a Spriano e Ragionieri

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comunisti fino ad allora (e anche in segui-to, nella gran parte del mondo) definita neitermini di partiti di quadri, e di quadri rigi-damente selezionati. Nella impostazione diRagionieri era posta grande attenzione alleclassi popolari e alla loro cultura (le classiche non scrivono, ma sentono e pensano, emeritano la stessa attenzione rivolta daglistudiosi alla classe dei colti). Sentiva ilfascino della tradizione del sovversivismopopolare, una linfa plebea e popolarescadella storia del movimento anarchico esocialista, che negli anni del fascismo ave-va rappresentato una linea di resistenzaelementare contro l’irregimentazione dal-l’alto delle classi popolari tentata dal fa-scismo e che ora confluiva, con tutta la suaricchezza e le sue contraddizioni, nella sto-ria della Resistenza e nella ricostruzionedel movimento operaio. Un ribellismo chepoteva anche esaurirsi in una funzione ditestimonianza o convertirsi in un atteggia-mento di rassegnazione, e che attraversouna faticosa evoluzione della coscienzapopolare era stato condotto all’impegnopolitico nelle istituzioni democratiche.

Rispetto a Battaglia c’era, tanto in Spria-

no quanto in Ragionieri, la rivalutazionedi alcuni elementi di continuità nella sto-ria dell’antifascismo: il “fiume carsico” (e-spressione che entrambi adottano) dell’an-tifascismo organizzato o spontaneo nelventennio che confluisce nella Resistenza.Senza l’antifascismo di guerra esso nonavrebbe superato lo stato di testimonian-za, ma nella situazione creata dalla guerrae dalla sconfitta interagisce, contribuiscead orientare per vie sotterranee o inconsa-pevoli. Un filo esile di continuità, ma de-gno di attenzione e indispensabile per ca-pire alcune caratteristiche del movimentopartigiano e dei nuovi partiti.

Per entrambi, comunque, come per Bat-taglia, è di una storia aperta, anche qui, chesi sta parlando. Una storia che nel corsodegli anni settanta appariva a molti vicinaa richiudere la ferita aperta dalla divisionedell’antifascismo e delle forze popolarinella nuova democrazia italiana e ad espri-mere una nuova classe dirigente di estra-zione popolare che portasse a compimen-to la trasformazione avviata dalla Resisten-za.

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ALBERTO LOVATTO

Deportazione memoria comunità

Vercellesi, biellesi e valsesiani deportati nei lager nazisti

edito in collaborazione con il Consiglio regionale del Piemonte e l’Aned

Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 182, € 15,49

Questo libro raccoglie una serie di saggi e contributi sulla storia dei deportati delle

province di Vercelli e Biella che Alberto Lovatto ha scritto a partire dal 1985. Li

accomunava ed accomuna il desiderio di dare visibilità storiografica, anche in

sede locale, alla storia della deportazione nei Lager nazisti, ricostruendo i legami

fra storia e memoria, fra aspetti e vicende di carattere generale e di carattere locale.

“Le storie che Lovatto ha raccolto nelle comunità e nelle valli - scrive Claudio

Dellavalle nella prefazione - sono storie di persone normali, con cui è facile iden-

tificarsi, e per le quali lo ‘strappo’ della deportazione e poi l’inferno dei campi di

concentramento non può essere ‘normalizzato’ perché la distanza tra il prima e il

dopo è incolmabile.

Con la sua ricerca Lovatto ci fa cogliere, credo la prima volta con questa attenzio-

ne e intelligenza, l’effetto ‘alone’ della memoria e ci rivela la profondità e l’esten-

sione dello strappo che recide radici familiari, amicali, della comunità, e che fa

dell’evento un’esperienza moltiplicata, un nodo di memoria collettiva”.

Di fronte alle crescenti spinte revisioniste quello che possiamo fare razionalmen-

te - scrive ancora Dellavalle - è “accogliere e alimentare la memoria di quel passa-

to in tutte le forme che siano rispettose dei testimoni e dei fatti e lasciare al tempo

il compito di costruire la distanza accettabile perché ciò che è stato sia storia e

non più ferita aperta e angoscia rinnovata per i singoli e per l’umanità”.

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saggi

l’impegno 53

Indubbiamente con la fine del 1923 siconclude definitivamente una fase dellastoria del movimento operaio internazio-nale; il fallimento del tentativo rivoluzio-nario tedesco nell’ottobre 1923, la sconfit-ta del movimento comunista bulgaro nelsettembre dello stesso anno ne rappresen-tano infatti gli ultimi colpi di coda. Di lì apochi mesi, con la risoluzione del proble-ma delle riparazioni tedesche, la stabiliz-zazione dell’economia della Germania e lariorganizzazione delle forze produttive, lasituazione si sarebbe stabilizzata permet-tendo una relativa ripresa economica. Per idirigenti dell’Internazionale comunista e,inevitabilmente, anche per quelli del Par-tito comunista d’Italia, la percezione diquesto definitivo rovesciamento dei rap-porti di forza tra le classi non fu immedia-ta, ma fu oggetto di riflessioni che occupa-rono alcuni mesi, almeno fino al riconosci-mento della “relativa” stabilizzazione delcapitalismo al V Esecutivo allargato dell’Ic(febbraio 1925).

Il capitolo qui di seguito riprodotto,estratto da una tesi di laurea discussa nelfebbraio del 2001 all’Università degli Studidi Torino, prende in esame la breve stagio-

ne democratico-pacifista del capitalismocosì come elaborata all’interno dell’Inter-nazionale comunista (V Congresso Ic, giu-gno-luglio 1925). In particolare, oggetto distudio è la dialettica che intercorre su que-sto tema tra l’Ic e la nuova direzione, for-matasi attorno ad Antonio Gramsci, delPcd’I. Propedeutico all’analisi degli ele-menti fondamentali del dibattito è peròl’accenno ad alcuni eventi internazionalisuccedutisi in quel periodo, in grado disuggerire delle coordinate di lettura:

- tra la fine del 1923 e la primavera del1924 si succedono, in importanti paesid’Europa, una serie di scadenze elettoraliche vedono il successo, l’avanzamento ola tenuta, di schieramenti politici legati allasinistra: in Gran Bretagna i laburisti, appro-fittando delle rivalità tra conservatori e li-berali, conquistano il potere per la primavolta nella storia inglese, dando vita ad ungoverno presieduto dal loro leader RamsayMacDonald; in Francia il Blocco delle si-nistre, formato dai socialisti e dai radicali,vince le elezioni del maggio 1924; la Kpdtedesca, nonostante fosse stata riammessalegalmente sulla scena politica solo alcu-ne settimane prima, dopo che, in seguito

FEDERICO CANEPARO

La Kerenšcina* secondo il Pcd’I

Il dibattito italiano ed internazionale attorno alla fase democrati-co-pacifista del capitalismo

* Il termine indicava il carattere pre-rivoluzionario che, secondo il presidente della IIIInternazionale Zinov’ev, contraddistinse la fase democratico-pacifista del capitalismo.

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Federico Caneparo

54 l’impegno

al tentativo insurrezionale dell’ottobre1923, era stata costretta all’illegalità, con-quista un vasto seguito elettorale, divenen-do il quarto partito in Germania; malgradola netta affermazione della lista nazionaleil fascismo, soprattutto nelle zone setten-trionali d’Italia, non riesce a conquistarevasti strati delle masse operaie e alcunisettori della borghesia ormai orientati insenso antifascista;

- le tensioni esistenti all’interno dellamaggioranza del partito comunista russo,acuitesi in seguito all’aggravarsi della cri-si economica russa, e senza più l’apportomediatore di Lenin, si proiettano all’inter-no del Comintern e delle sue sezioni nazio-nali; a partire dalla discussione sulle cau-se del fallimento tedesco, il dibattito si in-treccia indissolubilmente con la lotta perla supremazia nel partito bolscevico: cosìle divisioni interne dei partiti comunististranieri iniziano a venire sfruttate da en-trambe le fazioni in lotta per accrescere illoro potere;

- si approfondisce quel processo di diffe-renziazione politica all’interno del grup-po dirigente del Pcd’I (scontro manifesta-tosi per la prima volta nel corso del IV Con-gresso Ic allorquando, all’intransigente op-posizione manifestata dalla delegazioneitaliana nei confronti della proposta di fu-sione con il Psi, l’Internazionale avevaadombrato la possibilità di una sconfessio-ne pubblica della maggioranza guidata daBordiga), che, nel giro di alcuni mesi, sideteriorerà fino a determinare una rotturadella maggioranza e la formazione di unadirezione di “centro”, alternativa alla mi-noranza di sinistra e a quella di destra, attor-no alla proposta politica di Antonio Gram-sci.

Nel corso delle pagine successive si ètentato di ricostruire il contesto internazio-nale nel quale viene maturando la prospet-

tiva del sorgere di una fase democratico-pacifista del capitalismo; si dà spazio, sep-pur brevemente, al dibattito sorto attornoal fallimento dell’azione tedesca, riportan-do le opinioni e le analisi dei più impor-tanti dirigenti dell’Ic fino al V Congresso.Qui, nella discussione seguita alla presen-tazione delle relazioni sulla situazionemondiale e di quelle sulla tattica, si foca-lizza l’attenzione attorno agli interventidei più prestigiosi delegati italiani: Bordi-ga, Tasca e Togliatti. Ci si sofferma soprat-tutto sul discorso di quest’ultimo delega-to, in ragione del fatto che rappresenta laprima apparizione pubblica della nuovamaggioranza del Pcd’I e, al contempo, at-traverso il suo giudizio sulla fase del capi-talismo e le sue conseguenze nella elabo-razione tattica e strategica, ne esprime unadelle ragioni costituenti più profonde. Diqui dunque l’interesse per la ricostruzionedel dibattito attorno a cui (in stretto con-tatto con l’Ic, ma anche in maniera relati-vamente autonoma) era andata maturandol’ipotesi di una fase democratico-pacifistae di come questa si era rovesciata nellospecifico contesto italiano.

È così possibile individuare alcuni nodiproblematici ed eventi significativi:

- il V Congresso è la prima apparizionepubblica in ambito internazionale dellanuova maggioranza del Pcd’I; una direzio-ne che, come si era visto nel corso dellaconferenza organizzativa di Como, non puòancora contare sull’appoggio dei quadridel partito, rimasto sostanzialmente fede-le a Bordiga. A proposito del comunista na-poletano è importante sottolineare come lasua posizione critica nei confronti del Co-mintern si inasprisca. Al di là degli episodicontingenti, la polemica di Bordiga si ri-volge ormai agli stessi “istituti più alti” delmovimento operaio internazionale, recla-mando, in osservanza del principio della

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La Kerenšcina secondo il Pcd’I

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 55

rivoluzione mondiale, uno spostamentodegli equilibri politici dal partito russo aipartiti comunisti dei paesi a più alto svi-luppo capitalistico. Tutto ciò proprio men-tre l’identificazione degli interessi russicon quelli della rivoluzione mondiale edil primato dei bolscevichi veniva ricono-sciuto ormai definitivamente all’internodell’Internazionale comunista;

- la ricostruzione dell’apprezzamento ita-liano circa l’aprirsi della fase democratico-pacifista del capitalismo e delle ricadutetattiche e politiche che questa aveva sul-

l’attività del partito, permettono di osser-vare come il Pcd’I si collochi su un “ver-sante” molto più vicino alle posizioni so-stenute da Radek ed in parte da Trostkij chea quelle proclamate da Zinov’ev. L’interes-se aumenta se si tiene conto che proprio glioppositori del presidente dell’Internazio-nale furono i principali accusati e gli scon-fitti del V Congresso.

Il fallimento “dell’ottobre” tedesco1 su-scitò profonda impressione nel movimen-to comunista internazionale innescando

1 Nel corso del 1923 la situazione nazionale tedesca, già segnata da una profonda crisieconomica (di cui le riparazioni di guerra erano elemento determinante) e sociale (nelperiodo tra il 1919 e il 1922 la neonata repubblica di Weimar era stata teatro di più diquattrocento assassini politici, tentativi insurrezionali sia da parte di gruppi appartenentiall’estrema sinistra, come nel caso dell’insurrezione spartachista del gennaio 1919, chedi gruppi dell’estrema destra in occasione del putsch di Kapp del marzo 1920), assunsecontorni drammatici.

Proprio nel gennaio del 1923, in seguito al mancato pagamento di una rata delle ripa-razioni di guerra, le truppe dell’Intesa occuparono il bacino carbonifero della Ruhr, centronevralgico dell’industria tedesca. Questo atto precipitò la già precaria situazione econo-mica della Germania; nel corso dell’anno si assistette all’esplodere del devastante feno-meno dell’iperinflazione: il dollaro, scambiato a ottomila marchi nel gennaio del 1923,si rafforzò fino a valerne un milione alla fine di luglio per giungere infine a trecentoven-ticinque milioni di marchi il 20 settembre dello stesso anno. La disoccupazione e la povertàsi diffuse tra la popolazione; i gruppi sociali più colpiti furono quelli legati ad un redditofisso, che videro il loro potere d’acquisto polverizzato. Drammatica si presentava la si-tuazione della piccola borghesia, risucchiata dalla crisi verso condizioni di vita dellaclasse operaia. La crisi sociale raggiunse l’apice nell’estate dello stesso anno allorquando,pressata dalle agitazioni sociali e dalla prospettiva insurrezionale, paventata ormai quo-tidianamente dai più importanti giornali tedeschi, i socialdemocratici ritirarono la fiduciaal governo Cuno e procedettero alla formazione di un governo di coalizione guidato dalpopolare Stresemann. Questi avviò una decisa opera di risanamento economico che nelgiro di pochi mesi (grazie anche al successivo sviluppo, a partire dall’estate del 1924, delpiano economico e di risanamento Dawes) riportò sotto controllo l’inflazione e permiseun recupero dell’economia della Germania. L’azione del governo si manifestò anche incampo politico con l’adozione di misure volte a ristabilire l’ordine sociale: di questefurono vittime anche molte delle organizzazioni operaie vicine ai comunisti e al Kpd.Ormai convintosi della rivoluzionarietà della situazione, il partito tedesco stava allesten-do i preparativi per l’insurrezione (in questo senso spinto dai vertici dell’Internazionalecomunista): l’azione avrebbe dovuto aver origine attraverso la costituzione di governi dicoalizione con la sinistra socialdemocratica nei länder di Sassonia e Turingia (sulla basedi un programma contenente tra i suoi punti il controllo operaio sulla produzione, l’im-mediato disarmo delle formazioni borghesi e l’armamento di quelle operaie). Senonché

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Federico Caneparo

56 l’impegno

discussioni che si prolungarono fino al VCongresso, nel luglio 19242.

Ben presto il dibattito travalicò gli an-gusti confini “nazionali” nei quali era sta-to inizialmente limitato, intrecciandosi conquello sul contemporaneo ridefinirsi deirapporti di forza tra le classi su scala euro-pea e investendo i principi tattici e le paro-le d’ordine che avevano guidato l’Interna-zionale a partire dal III Congresso, nel1921. Le principali posizioni che emerse-

ro dal confronto furono rappresentate daipiù autorevoli esponenti del Comintern:Zinov’ev, Radek, e Trotskij. Ritengo siaimportante, utile e non fuori tema delinea-re per sommi capi le basi su cui si fondava-no le loro interpretazioni3; questo permet-terà di evidenziare, attraverso il confron-to, le peculiarità delle posizioni contem-poraneamente sostenute dalla direzionegramsciana del Pcd’I, dalla sinistra e dalladestra. Prima di procedere è necessario però

la pronta risposta della Reichwehr precipitò la situazione; il successivo appello allo scio-pero generale per il 23 ottobre, preludio insurrezionale, non incontrando la favorevoleopinione dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali e del movimento dei consiglidi fabbrica, venne così ritirato. Così, tranne che ad Amburgo dove, a causa della mancataricezione della revoca dell’ordine insurrezionale, si erano verificati scontri tra le miliziecomuniste e le forze dell’ordine, la rivoluzione tedesca si era “sopita” senza quasi aversparato un colpo.

Non è possibile però dimenticare come il 1923 fu spettatore di altre sconfitte del mo-vimento operaio internazionale: nel settembre 1923 il governo bulgaro, instauratosi nelgiugno precedente con un colpo di stato (a seguito del quale il Pc bulgaro, per non averdifeso il governo presieduto dal leader dell’Unione contadina Stambuliskij, era statoseveramente criticato dall’Esecutivo allargato dell’Ic), aveva violentemente represso l’or-ganizzazione comunista; nello stesso mese in Spagna era salito al potere il generale Primode Rivera; nel novembre la mancata estensione a livello nazionale delle agitazioni scop-piate nella città di Cracovia annullò le possibilità di costituire un fronte unico tra il partitocomunista polacco e quello socialdemocratico

Cfr. EDWARD H.CARR, La morte di Lenin. L’interregno 1923-1924, Torino, Einaudi, 1965;per informazioni riguardanti lo sviluppo della crisi bulgara e l’azione del Pcb cfr. ARMANDO

PITASSIO, La Bulgaria tra rivoluzione e reazione (1918-1923), in Rivoluzione e reazionein Europa 1917/1924, Atti del convegno storico internazionale, Perugia, Roma, EdizioniAvanti, 1978; JOSEPH ROTHSCHILD, The Communist Party of Bulgaria. 1883-1936, New York,Columbia University Press, 1972, pp. 85-151; per quanto riguarda la situazione spagnolacfr. GERALD, H. MEAKER, The Revolutionary left in Spain 1914-1923, California, StanfordUniversity Press, 1974, pp. 471-483; JUAN AVILES FARRÈ, Le origini del partito comunistadi Spagna, 1920-1923, in “Ricerche di storia politica”, n. 1, 2000, pp. 3-27; infine, perla situazione tedesca cfr. specialmente PIERRE BROUÈ, La Rivoluzione in Germania, 1917-1923, Torino, Einaudi, 1977, p. 662.

2 ALDO AGOSTI, La Terza internazionale: una storia documentaria, vol. II, tomo I, Roma,Editori Riuniti, 1976, pp. 13-14; anche se specificatamente dedicato all’analisi del dibat-tito sulle cause e le origini della sconfitta tedesca cfr. E. H. CARR, op. cit., pp. 192-230; piùinerente, anche se centrato sul V Congresso, E. H. CARR, Il socialismo in un solo paese. vol.II, La politica estera 1924-1926, Torino, Einaudi, 1969, pp. 67-90.

3 Per questa parte cfr. principalmente WOLFANG EICHWEDE, Revolution und InternationalePolitik. Zur kommunistischen Interpretation der Kapitalistischen Welt 1921-1925, Vien-na, Köln, 1971, pp. 82-116 e A. AGOSTI, op. cit., pp. 13-15.

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La Kerenšcina secondo il Pcd’I

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svolgere una considerazione preliminareed importante ai fini della comprensionedi alcuni atteggiamenti assunti da impor-tanti esponenti del movimento comunistainternazionale: nei giudizi sulla sconfittatedesca formulati dai dirigenti bolscevichisi inserisce, accanto ad un tentativo d’ana-lisi delle cause “dell’ottobre” e della man-cata insurrezione del proletariato tedesco,una lettura strumentale di quegli avveni-menti con l’obiettivo di trarne vantaggionella lotta interna del partito russo. Risul-ta così difficile distinguere questi due pia-ni d’azione: tanto più in quanto nei mesisuccessivi l’Internazionale e le sue sezio-ni sarebbero divenute luogo di scontro trale due fazioni in lotta per la successione diLenin.

Sicuramente il presidente dell’Ic fu unotra i dirigenti a nutrire le maggiori speran-ze nell’avvento della rivoluzione tedesca,perseverando per mesi nella sua convinzio-ne che la lotta per il potere in Germaniafosse stata posticipata solamente di qual-che settimana, tutt’al più rimandata al-l’estate successiva. Ciononostante la bor-ghesia, in quel lasso di tempo, non era ri-masta passiva. Fra novembre e dicembre,dopo aver parzialmente stabilizzato la si-tuazione economica, bloccando l’ascesadei prezzi attraverso l’emissione del Ren-tenmark, era passata all’iniziativa repri-mendo il tentativo di putsch di Hitler eLudendorff a Monaco e, successivamente,occupandosi del movimento comunista. IlKpd venne dichiarato illegale e centinaiadi militanti furono arrestati4. Nel gennaio1924, l’esecutivo della Adgb, il maggioresindacato tedesco, adottò una risoluzionecon la quale minacciava di espulsione tut-ti coloro i quali avessero condotto propa-

ganda comunista nelle organizzazioni adessa affiliate.

Di fronte al consolidamento della repub-blica di Weimar e alla timida ripresa econo-mica il compito del Kpd sarebbe stato quel-lo di continuare nell’applicazione dellaparola d’ordine del fronte unico. Una tatti-ca che doveva però subire una drastica re-visione. Basandosi sull’esperienza tede-sca Zinov’ev era giunto alla convinzioneche la socialdemocrazia fosse di fatto con-fluita nell’alveo borghese, divenendonel’ala sinistra. Tale spostamento di “campo”,avendo per ciò stesso impedito l’applica-zione a livello politico della parola d’or-dine lanciata al III Congresso, riduceva ilsignificato del fronte unico a semplice stru-mento di mobilitazione dal basso delleforze operaie. Ancora più drastica sarebbela sorte del governo operaio e contadino,ridotto a strumento di agitazione e propa-ganda.

Ben presto però Zinov’ev dovette con-frontare i concetti che aveva acquisito ri-flettendo sul caso tedesco con la realtà deinuovi rapporti di forze fra le classi su scalacontinentale. Gli ultimi mesi del 1923 ave-vano visto il susseguirsi di eventi di note-vole importanza: la vittoria dei laburisti inInghilterra; il riconoscimento diplomaticoitaliano ed inglese dell’Unione sovietica;il generale spostamento a sinistra dei go-verni della maggior parte dei paesi capita-listi. Riesumando l’ipotesi contemplata giàda Trotskij al IV Congresso, nell’ottobre1922, gli ambienti ufficiali dell’Interna-zionale incominciarono ad ipotizzarel’apertura di un’era democratico-pacifistae riformista dello sviluppo capitalista. Peril presidente dell’Internazionale la nuovafase rappresentò la conferma di quanto era

4 A. AGOSTI, op. cit., p. 6.

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andato sostenendo nel dibattito sulle causedella sconfitta tedesca. L’appoggio social-democratico alla borghesia riaffermava an-cora una volta la debolezza e l’incapacitàdi questa di gestire il potere economico epolitico. Inoltre, traendo spunto dalle ri-flessioni svolte sugli sviluppi della situa-zione politica italiana nel 1921-22 e diquella tedesca nel 1922-23, Zinov’ev ri-prendeva, ampliandola, l’affermazione sul-la sostanziale identità tra socialdemocra-zia e fascismo e sulla loro funzione di stru-mento per la salvaguardia del dominio diclasse della borghesia. Tale accostamentoera così interpretato come sintomo ed ele-mento di accelerazione del processo rivo-luzionario internazionale: infatti, la ten-denziale risoluzione della prima nel secon-do, dalla quale si distingueva ancora per idiversi metodi di dominio, uno più apertoalle concessioni democratiche, l’altro o-rientato all’adozione di una politica di vio-lenza e terrore, avrebbe definitivamenterivelato l’inconsistenza dell’ipotesi circal’esistenza di una qualsiasi alternativa trala dittatura borghese e quella proletaria.

La posizione di Radek di fronte alla di-scussione sulle cause del fallimento dellarivoluzione tedesca e l’avvento dell’erademocratico-pacifista fu alquanto diversae, per certi aspetti opposta, a quella di Zino-v’ev. Radek non negava l’esistenza di unaquestione rivoluzionaria tedesca nell’otto-bre 1923, come neanche nascondeva l’in-capacità del Kpd di approfittarne. Le cau-se della sconfitta però non le individuavaesclusivamente nell’errato comportamen-to della sezione comunista di Germania;colpevole era pure la direzione dell’Inter-nazionale, rea di non essersi resa conto intempo della gravità della situazione, salvopoi organizzarvisi frettolosamente e, dopola sconfitta, prendere come unico provve-dimento la decisione di sostituire il grup-

po dirigente di “destra” del Kpd con quel-lo di sinistra, palesando l’incomprensionedi come la rivoluzione sorgesse da deter-minati rapporti di forza, non in seguito allavolontà o alla decisione della classe ope-raia. Anche nella riflessione intorno allatattica del fronte unico e del governo ope-raio, Radek assumeva una posizione auto-noma rispetto a quella di Zinov’ev. I con-tenuti della parola d’ordine andavano ridi-mensionati ma non si dovevano abbando-nare completamente in quanto consisteva-no ancora nel più efficiente metodo dimobilitazione ed organizzazione unitariadel proletariato.

Proprio l’esigenza della formazione di unradicato partito di massa nei paesi occiden-tali era, per Radek, uno dei due principaliinsegnamenti dell’ottobre tedesco. L’altro,più che un insegnamento, era un dato difatto e riguardava la classe operaia stessa ela sua impreparazione alla lotta. Ritornaqui nella riflessione del dirigente comuni-sta la consapevolezza del dilemma fonda-mentale in cui si venivano a trovare le va-rie sezioni dell’Internazionale e lo stessocentro dirigente: l’esistenza di partiti co-munisti sorti sulla base di una prospettivarivoluzionaria, se non immediata almenoa medio-breve termine e il prodursi di si-tuazioni non rivoluzionarie, se non aper-tamente reazionarie, come nel caso del-l’Italia. In questa situazione l’abbandonodella politica del fronte unico avrebbe san-cito il venir meno dell’unico strumento cheaveva consentito di raggiungere nel bien-nio 1921-23 importanti successi e la rinun-cia definitiva a tener conto della comples-sità e della diversità del processo rivolu-zionario nei paesi capitalisticamente piùavanzati. Il giudizio sostanzialmente pes-simista di Radek si rifletteva anche allor-quando prendeva in considerazione i carat-teri costitutivi dell’era democratico-paci-

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fista, specificatamente nell’ambito tede-sco. Il successo ottenuto dal Kpd alle ele-zioni del Reichstag nel maggio 1924, po-che settimane dopo la sua reintegrazionenella legalità, con 3.690.000 voti contro i440.000 delle precedenti consultazionigenerali, anziché avvalorare la tesi dellospostamento a sinistra delle masse e dellaloro radicalizzazione, rappresentava il sin-tomo non dell’aggravarsi della crisi euro-pea bensì del suo consolidamento5.

Sostanzialmente analoghi erano i giudi-zi espressi dal commissario dell’armatarossa. Trotskij era stato, nel corso del 1923,il più convinto nel sostenere il movimentocomunista tedesco nella lotta per la con-quista del potere; quello che più di tutti glialtri dirigenti internazionali si era adope-rato al fine di poter aiutare in tutti modi ilKpd. Logico che la sconfitta l’avesse col-pito profondamente, obbligandolo a rive-dere le sue prospettive. Riflessioni che,come si è detto, non riguardavano esclusi-vamente la questione tedesca, ma si allar-gavano fino ad interessare tutta la situazio-ne europea. Il fallimento del Kpd avevaridato fiducia e mezzi alla borghesia, per-mettendole, attraverso la sua ala sinistra ei partiti socialisti e socialdemocratici, diriprendere l’iniziativa: l’era democratico-pacifista si presentava così come il culmi-ne dell’offensiva del capitale, che nei pri-mi due anni, tra il 1921 e il 1923, avevaindossato i panni del fascismo. La sicurez-za raggiunta non garantiva però la stabiliz-zazione; seppur in maniera articolata e spes-so contraddittoria il capitalismo continua-va a dibattersi nella sua crisi. Si inseriva aconferma di questa posizione la riflessio-ne di Trotskij attorno alla natura dei siste-mi politici fascisti e liberali. Similmente a

quanto sostenuto da Zinov’ev, anche ilcommissario della guerra concordava conl’affermazione secondo la quale i due me-todi di governo assolvevano alla medesi-ma funzione, cioè all’esigenza di una “nor-malizzazione” sociale e politica della so-cietà. Le diversità risiedevano nel conte-sto in cui questi strumenti erano utilizzati.Il fascismo, essenzialmente “l’organizza-zione di lotta della borghesia nel periododella guerra civile”, allo stesso modo dicome in Germania lo erano le centurie pro-letarie per il movimento comunista, era“l’apparecchio” adatto ad essere utilizza-to nei periodi di lotta; il metodo liberale,puntando “sull’inserimento” graduale del-le masse operaie nelle istituzioni democra-tiche, assumeva rilevanza in situazioni ca-ratterizzate da una certa sicurezza delleforze dominanti e dal rallentamento dell’at-tività rivoluzionaria operaia.

Ricordando quanto affermato dal presi-dente dell’Internazionale si può facilmen-te valutare la distanza che li separava. Ul-teriore conferma delle divergenze politi-che esistenti emergeva confrontando gli at-teggiamenti assunti di fronte alla vittoriaelettorale del partito laburista inglese.Mentre sia Trotskij che Radek erano con-vinti che il governo presieduto da MacDo-nald rispondesse ad una precisa strategiadella borghesia inglese, tendente ad utiliz-zare il Labour Party per “raffreddare” laspinta delle masse e poterle controllare conmaggiore libertà, Zinov’ev lo giudicavacome un sintomo dell’incapacità della clas-se borghese di prendere in mano diretta-mente la gestione del potere, un indiziodell’acuta disgregazione delle sue capaci-tà politiche ed economiche.

I profondi contrasti evidenziati trovaro-

5 Le riflessioni di Radek attorno al significato delle affermazioni dei partiti della sinistranon erano dissimili da quelle contemporaneamente espresse da Trotskij.

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no un’eco anche all’interno dell’Ic. Provane fu l’atteggiamento ufficiale adottato difronte al nuovo governo inglese; la riso-luzione approvata dall’Esecutivo il 6 feb-braio 1924 rifletteva tutte le diverse posi-zioni sostenute dai dirigenti Ic, con un’ac-centuazione delle prospettive ottimistichedi Zinov’ev6. Da un lato si esprimeva laconvinzione che la vittoria laburista fosseil sintomo più evidente della disgregazio-ne politica ed economica della Gran Bre-tagna; che i suoi dirigenti rappresentasse-ro una frazione borghese e non un partitoproletario, e si leggeva nell’inevitabilevenir meno di una politica riformista inci-siva del gabinetto MacDonald, la dimostra-zione del fallimento dei metodi democra-tici e del tradimento della socialdemocra-zia; dall’altro si evidenziava come l’azio-ne del governo mirasse al “consolidamen-to dello stato borghese” attraverso l’ado-zione di politiche riformiste e l’inserimen-to nelle istituzioni liberali delle masseoperaie. Più equilibrato il giudizio soste-nuto nella lettera di convocazione del VCongresso dell’Ic spedita a tutte le sezioninell’aprile del 1924. Il movimento comu-nista si trovava ad operare “in un periodosituato fra due ondate della rivoluzioneproletaria” delle quali la seconda era con-siderata, grazie ai buoni risultati ottenutidai partiti comunisti e dalla sinistra in ge-nerale nelle elezioni che si svolsero traaprile e maggio in Francia, Italia e Germa-nia, imminente; compito dell’assise sareb-be stato perciò quello di elaborare una tat-tica adatta a sfruttare tutte le occasioni chela nuova prospettiva avrebbe offerto.

La delegazione italiana al V Congresso

Al V Congresso, svoltosi nel luglio 1924,parteciparono componenti di tutte e tre lecorrenti del Pcd’I; la delegazione era menonumerosa di quella del novembre 1922. Perla sinistra intervennero Bordiga, Grieco,Perrone, Venegoni, Berti; in rappresentan-za del nuovo gruppo dirigente compiva ilsuo primo viaggio a Mosca Togliatti; la mi-noranza di destra mobilitò il suo esponen-te di maggiore prestigio, Tasca. AssenteGramsci, costretto a rimanere in Italia cau-sa lo scoppio della crisi politica in seguitoall’assassinio del deputato unitario Giaco-mo Matteotti7. Gli interventi principali gliesponenti italiani li tennero in sede di di-battito sul rapporto tenuto dal presidenteZinov’ev. Di fronte a quattrocentosei dele-gati di quarantuno paesi (di cui trecento-ventiquattro con diritto di voto) Zinov’evaprì l’assise presentando la relazione sul-l’attività svolta dal Comitato esecutivo neidue anni precedenti. Il resoconto sintetiz-zava quanto era andato delineandosi, nelcorso delle discussioni tenute nei mesi pre-cedenti: la rivoluzione mondiale aveva su-bito un momentaneo rallentamento dopola sconfitta tedesca e ci si trovava tra dueepoche rivoluzionarie. Questo non signifi-cava che il capitalismo avesse trovato laforza di “ristabilizzare” la situazione. Anzi,l’apparire della fase democratico-pacifista,lungi dal rappresentare, come sostenevaTrotskij, un’indicazione della riconquista-ta fiducia della borghesia, individuava unvero e proprio sintomo del “collasso” delcapitalismo. In forza di queste convinzio-

6 Cfr. A. AGOSTI, op. cit., p. 15 e Lettera del Comitato Esecutivo a tutte le sezioni inpreparazione del V Congresso mondiale dell’Internazionale comunista (aprile 1924), inID, op. cit. pp. 58-66.

7 Cfr. PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Torino,Einaudi, 1967, pp. 362-380.

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ni e dell’esperienza tedesca, Zinov’ev ri-prendeva la formulazione dell’identità trafascismo e socialdemocrazia; ad essernemaggiormente colpita, come si è rilevatoprecedentemente, era la tattica del fronteunico e del governo operaio. Il suo signifi-cato, rispetto a quanto elaborato a partiredal III Congresso8, venne alquanto ridi-mensionato: unico metodo riconosciuto fuquello dal “basso”9. Totalmente svuotata disenso fu invece la tattica del governo ope-raio, ricondotta a semplice sinonimo delladittatura del proletariato. Si delineava così,come risultato di mesi di dibattito, uno spo-stamento a sinistra della piattaforma inter-nazionale; ciò non poteva non far piacerea quanti (e tra questi spiccava la sinistra ita-liana) avevano assunto posizioni alquan-to scettiche sull’operato dei dirigenti Ic esul movimento comunista mondiale in ge-nerale. La soddisfazione momentanea nonne poteva però nascondere il profondo dis-

senso. L’unico tra i sessantadue oratori cheintervennero al dibattito sulla relazione diZinov’ev a manifestare pienamente le sueriserve fu Bordiga10. Sostanzialmente egliconcordò, sebbene invitando a non sepa-rare nettamente periodi storici tra loro nonben delineati, con la valutazione data dalpresidente Ic riguardo la situazione inter-nazionale; soprattutto si mostrò compia-ciuto dell’approdo all’interpretazione del-la socialdemocrazia quale partito borghe-se e della sua intercambiabilità con il fa-scismo. Veramente, come ha giustamenteha rilevato Spriano11, questa era una dellesue convinzioni più profonde, la cui ela-borazione risaliva almeno ai tempi dellacostituzione del Pcd’I: “momentaneamen-te la situazione sembri orientarsi politica-mente verso una politica borghese di sini-stra, ma [...] non trovo che ciò significhi chel’offensiva del capitalismo possa servirsi dimetodi differentissimi. C’è un metodo di

8 Svoltosi a Mosca nel maggio del 1921, rappresentò una svolta storica nella tatticadell’Internazionale comunista. Con l’adozione della parola d’ordine della conquista dellamaggioranza della classe operaia, l’Ic riconosceva il momentaneo rallentamento dell’on-data rivoluzionaria e la situazione difensiva in cui si trovavano le masse operaie ed im-poneva ai diversi partiti comunisti l’adozione di proposte politiche elaborate sulla basedei bisogni concreti delle masse operaie. Con l’Esecutivo allargato del dicembre 1921,il IV Congresso (ottobre-novembre 1922) e il III Esecutivo allargato (giugno 1923), latattica del III Congresso si sviluppò articolandosi nelle parole d’ordine del fronte unicoe del governo operaio (ponendo esplicitamente il problema della collaborazione con leforze politiche non comuniste dello schieramento operaio), delineando così una vera epropria strategia alternativa rispetto a quella proposta ai primi due congressi Ic e piùrispondente ai reali rapporti di forza tra le classi così come si erano venuti creando nel corsodel biennio precedente (1921-23).

9 Nel Rapporto sul lavoro del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista Zi-nov’ev, come si è detto, faceva ogni sforzo per salvare le parole d’ordine adottate a partiredal III Congresso, anche se restringendone drasticamente l’interpretazione; così accen-tuava il tema dell’unità dal basso della classe operaia, a cui quella dall’alto (attraversoaccordi con gli altri partiti dello schieramento operaio) si sarebbe dovuta affiancare soloin casi eccezionali. Quest’ultima assumeva così quasi esclusivamente un significato pro-pagandistico, volto più alla conquista delle masse che alla costruzione di una effettivaalleanza con le altre forze politiche.

10 Il discorso del compagno Bordiga, in “Lo Stato Operaio”, a. II, 10 agosto 1924.11 P. SPRIANO, op. cit., p. 370.

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destra, ed è la reazione aperta [...]; vi sonometodi di sinistra e sono l’illusione demo-cratica e l’illusione della collaborazione diclasse. Ma questi due metodi mirano allostesso scopo e non è necessario che vi deb-bano essere periodi storici nettamente se-parati [...] penso che noi marciamo versouna sintesi dei due metodi”12.

Anche sul tema del fronte unico Bordigaconstatava un tendenziale avvicinamentoalla sue posizioni. L’unico metodo adotta-bile era quello dal basso, teso a costruireazioni unitarie in quelle organizzazionioperaie, escluse quelle politiche irrimedia-bilmente compromesse, laddove si potes-se raggiungere una maggioranza comuni-sta, come ad esempio nei sindacati e neiconsigli di fabbrica. Per quanto riguarda iltema del governo operaio la critica era an-cor più drastica. Non si limitava a istituireun rapporto di sinonimia tra questa tatticae la dittatura del proletariato, ma andavaoltre, portando alle logiche conclusioniquanto abbozzato da Zinov’ev13: “[...] Iodomando semplicemente una sepoltura diterza classe e per la tattica e per la parolad’ordine del governo operaio”14.

Consapevole della svolta rispetto al IV

Congresso, Bordiga esigeva che i dirigen-ti internazionali compissero opera d’auto-critica di fronte agli sbagli passati onde nondover più ricadervi in futuro. Al fine dimeglio prevenire questa possibilità esorta-va la centrale internazionale a procedere aduna centralizzazione del movimento comu-nista e ad una maggiore chiarezza program-matica e tattica.

Le convergenze con la relazione del pre-sidente dell’Internazionale comunista siconcludevano però qui. Il dirigente italia-no infatti andava oltre, mettendo in discus-sione lo stesso ruolo egemone del partitorusso. Egli rivendicava uno spostamentodell’asse decisionale dell’Internazionalecomunista verso le sezioni comuniste deipaesi capitalisticamente più avanzati, quel-le dalle quali si era sviluppata la dottrinamarxista. Non si trattava di una sempliceesigenza riorganizzativa; “la posta in gio-co” era altra: una diversa concezione del-lo sviluppo rivoluzionario nei paesi del-l’Europa occidentale, fondata sulla consta-tazione della stabilità e dell’influenza del-la socialdemocrazia e sulla possibilità diadottare compiutamente tutti i dettamidella dottrina comunista15.

12 Il discorso del compagno Bordiga, in “Lo Stato Operaio”, art. cit.13 Zinov’ev nel corso del suo discorso aveva esplicitamente dichiarato il governo ope-

raio e contadino un “metodo di agitazione di propaganda e di mobilitazione delle masse”.14 Ibidem.15 Nel discorso pronunciato da Bordiga al V Congresso riecheggiano i temi principali

della battaglia condotta dalla sinistra in quegli anni; lo stesso dibattito attorno ai piùimportanti temi internazionali non fu che lo spunto da cui sviluppare critiche più generali.Così la discussione sul fallimento tedesco, evento che aveva catalizzato l’attenzione delmovimento comunista dall’inizio del 1924, vedeva da un lato Bordiga accogliere l’analisidi Trotskij sull’opportunità di preparare e lanciare il tentativo insurrezionale in Germania,ma al contempo rilevare come, proprio il fallimento tedesco, manifestava l’infondatezzae la pericolosità della tattica del fronte unico e del governo operaio. Allo stesso modo lasostanziale accettazione della fase democratico-pacifista del capitalismo era accompa-gnata dalla critica alla “svolta” a sinistra dell’Internazionale, recepita come un adegua-mento alle mutate condizioni politiche ed una interpretazione “elastica” e “situazioni-stica” dei principi comunisti. Era questo, il problema della definizione della tattica e dei

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Lungo queste coordinate si collocaval’analisi della situazione continentale do-

po la primavera del 1924. Le elezioni chesi erano susseguite, quella inglese, ma so-

principi d’azione del Partito comunista, uno degli elementi caratterizzanti dell’elabora-zione politica di Bordiga.: le stesse Tesi di Roma, presentate al II Congresso del Partitocomunista d’Italia (marzo 1922), avevano affermato come loro obiettivo la formulazionedi “regole tattiche corrispondenti alle varie situazioni in cui il partito nello svilupparsidegli avvenimenti, poteva [nda] andare incontro” (nella sua relazione congressuale Bor-diga dichiarava il valore internazionale e la funzione di stimolo che le tesi avrebberodovuto svolgere nella definizione della tattica del Comintern). Il continuo richiamo al-l’autonomia di classe del partito, alla necessità di garantirsi uno spazio d’azione politicaindipendente dagli altri partiti del movimento operaio (socialdemocratici, socialisti),rispondeva infatti alla necessità di mantenere il Partito comunista vicino al programmacomunista (lo scontro apertosi al III Congresso tra il Pcd’I e l’Internazionale circa la fusionecon il Psi investiva direttamente questo problema in quanto l’adozione della parola d’or-dine della conquista della maggioranza del proletariato correva il rischio di imporre l’ado-zione di tattiche politiche tali da snaturare lo stesso carattere di classe del partito). Perinquadrare ed illustrare l’importanza affidata dalla direzione bordighiana all’autonomiadi classe del partito è necessario però riferirsi, più in generale, alla concezione del processorivoluzionario in Occidente e alle sue peculiarità rispetto all’ottobre russo. L’esperienzainternazionale del biennio 1918-19 vi aveva svolto un ruolo determinante: ricollegando-si a quanto elaborato dai leader dell’estremismo occidentale Gorter e Pannekoek (la rivistadiretta da Bordiga “Il Soviet”, nel periodo compreso tra il 1918 e il 1919 aveva ospitatosulle sue pagine loro articoli) la sinistra insisteva sulle differenze tra Occidente ed Oriente.Nei paesi caratterizzati da un intenso sviluppo capitalistico il processo rivoluzionario erareso difficile dall’egemonia esercitata dalla borghesia e dai suoi istituti democratici (inquesto senso la controrivoluzionarietà dei partiti socialdemocratici e di quelli socialisticonsisteva nell’aver attuato una politica di graduale ingresso delle masse operaie nelleistituzioni democratiche, contribuendo così da un lato ad ampliarne le basi consensualie dall’altro a creare un’illusione democratica) sulla massa operaia. Un dominio che ren-deva necessaria l’adozione di tattiche più dirette, autonome, per distruggere l’influenzaborghese ed eliminare quelle formazioni proletarie più proclive a raggiungere con essedei compromessi. L’insistere sulle differenze esistenti tra Occidente ed Oriente, soprattuttodopo la sconfitta tedesca dell’ottobre 1923 e la stabilizzazione del capitalismo, riman-dava alla questione dell’egemonia russa nell’Internazionale comunista. Le accuse lancia-te da Bordiga al V Congresso Ic riguardavano l’opportunità, per garantire una maggioreattenzione ai problemi della rivoluzione in Occidente e coordinare ad essa la politica dellaRussia bolscevica, di spostare l’asse decisionale verso le sezioni comuniste dei paesicapitalisticamente più avanzati rovesciando quella che, secondo lo stesso comunistaitaliano, era una piramide che poggiava ormai sul vertice anziché sulla base.

Cfr. Relazione di Bordiga sulla tattica, in “Il Comunista”, 25 marzo 1922; ora in Storiadella sinistra comunista, vol. IV, Dal luglio 1921 al maggio 1922, Milano, Il programmacomunista, 1997, pp. 436-437; Intervento di Bordiga al IV Congresso dell’Internazionalecomunista (Mosca, 11 novembre 1922), in “La Correspondance Internationale”, suppl. n.27, 1 dicembre 1922; Schema di tesi sull’indirizzo ed il compito del Pc in Italia presentatodalla “sinistra” del partito, in “Lo Stato Operaio”, a. II, n. 6, 15 maggio 1924; La tatticadell’Internazionale comunista nel progetto di tesi presentato dal Pcd’I al IV Congressodell’Ic, ivi, a II, 6 marzo 1924; Progetto di tesi per il III Congresso del Partito comunistapresentato dalla sinistra, in In difesa della continuità del programma comunista, Milano,

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prattutto quelle francesi, tedesche ed ita-liane, con i loro risultati avevano dimostra-to come la situazione attuale fosse “riccadi possibilità rivoluzionarie” e di come ipartiti comunisti, adottando una politica ri-gidamente autonoma e classista, potesse-ro raggiungere ottimi risultati ponendosialla guida della maggioranza della classeoperaia nei rispettivi paesi16.

Bordiga restò completamente isolato;neanche la sinistra Kpd, con la quale in piùoccasioni vi era stata affinità, si accodò al-le sue posizioni preferendo convergere at-torno a Zinov’ev.

Tasca prese la parola il 23 giugno17. Il suodiscorso, come anche Togliatti rammentòin un documento riservato, fu nettamentemeno polemico di quello pronunciato inoccasione della Conferenza organizzativadi Como18. Fin da subito dichiarò il suoassenso nei confronti della relazione diZinov’ev sulla situazione internazionale.

Per far ciò non esitò a ridurre drasticamen-te il significato della tattica del governooperaio. Con un artificio retorico ne istituìun rapporto di sinonimia con la dittaturadel proletariato fondato non sul suo aspetto“filologico”, bensì sulla sua accezione “di-namica” indicante la possibilità, in deter-minate situazioni concrete, di poter porta-re le masse sul terreno della lotta per ilpotere e per la dittatura del proletariato.Questo “camuffamento” non impedì co-munque di riscontrare nel discorso di Tascauna preoccupazione di fronte alla svolta “asinistra” dell’Ic. Commentando le decisio-ni prese in merito alla questione tedesca in-fatti, esprimeva la necessità di completarela discussione sulle cause della sconfittasuperando la semplice accusa di opportu-nismo nell’applicazione della tattica delfronte unico, prendendo in considerazionele altre difficoltà incontrate dal Kpd e dal-la massa operaia nella lotta per il potere.

Il programma comunista, 1970, pp. 102-122. Su questo tema cfr. ANDREINA DE CLEMENTI,Amadeo Bordiga, Torino, Einaudi, 1971, pp. 102-133; FRANCO DE FELICE, Serrati, Bordiga,Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia. 1919-1920, Bari, De Donato, 1971, pp.202-224; ALEXANDER HÖBEL, Il problema del partito dal “dopoguerra rosso” al congressodi Livorno, in AA. VV., Amadeo Bordiga nella storia del comunismo, a cura di Luigi Cortesi,Napoli, Esi, 1999, pp. 89-128; FRANCO LIVORSI, Amadeo Bordiga: il pensiero e l’azionepolitica 1912-1970, Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 73-92. Utile lettura anche l’inter-vista a Bordiga pubblicata su “Storia Contemporanea” nel 1973; EDEK OSSEK (a cura di),Un’intervista ad Amadeo Bordiga, in “Storia Contemporanea”, a. IV, n. 3, settembre 1973,pp. 569-592.

16 Più esplicita giustificazione di tale atteggiamento la si ritrova nel discorso di un altroesponente del Pcd’I, Grieco: “L’apparente stabilizzazione coincidente con la formazionedi governi socialdemocratici e radicali porta con sé un pericolo, quello dell’influenza diquesti ultimi sulle masse operaie, per questo motivo è necessario che il partito comunistaconservi un programma autonomo”, cfr. Discorso del compagno Rossi, in “Lo Stato Operaio”,a. II, 10 luglio 1924.

17 Discorso del compagno Rienzi, in “Lo Stato Operaio”, a. II, 10 agosto 1924.18 La Conferenza organizzativa di Como, svoltasi nel maggio 1924, costituì la prima

uscita pubblica della maggioranza costituitasi attorno alla proposta di Antonio Gramsci.Altresì importante perché i risultati del convegno mostrarono come la maggioranza deiquadri federali continuasse ad appoggiare la linea politica del passato gruppo dirigente(per la sinistra votarono 35 segretari federali su 45; 4 segretari interregionali su 5; il rap-presentante della Federazione giovanile comunista e un membro del Comitato centrale).

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Togliatti fu l’ultimo dei tre delegati ita-liani a prendere la parola, il 25 giugno; lofece a nome della maggioranza e del grup-po di centro del partito. In generale il suodiscorso fu molto più “cauto” di quellopronunciato alla Conferenza di Como. Perquanto riguarda la tattica del fronte unicoribadì l’esigenza, nella sua applicazione,di salvaguardare l’autonomia e le caratte-ristiche peculiari dei partiti comunisti. Co-me già ripetuto in altre occasioni, era pro-prio il fatto di aver posto il Kpd sullo stessopiano della sinistra socialdemocratica, di-menticando da un lato come questa non fos-se altro che un’ala dello schieramento bor-ghese e dall’altro come l’entrata nella coa-lizione sassone avesse un significato esclu-sivamente strategico-militare e non di dife-sa democratica, a costituire l’errore princi-pale dei dirigenti tedeschi.

Il disporsi completamente all’interno delsolco dell’Internazionale non eliminavaperò le “sottili” divergenze esistenti riguar-do le prospettive rivoluzionarie dei movi-menti comunisti occidentali e le possibilitattiche adottabili.

In maniera più sfumata, ma pur sempre incontrasto con quanto andava sostenendoZinov’ev, ed in questo più vicino a Radek,Togliatti riprendeva il concetto della “ca-tena storica” che avrebbe portato alla dit-tatura del proletariato: “La verità è che nonsi tratta di un problema di parole. Si trattadi differenti condizioni storiche e politiche,di differenti rapporti di forza tra la classeoperaia e la classe borghese, che ci costrin-gono a seguire linee tattiche differenti.Radek ha detto: ‘Non è vero che nel 1919eravamo delle semplici organizzazioni dipropaganda, perché si producevano alloradei grandi movimenti di masse, dei movi-

menti nei quali le masse si portavano spon-taneamente sul terreno della conquista delpotere. Ma a capo di queste masse non vierano allora dei partiti comunisti i qualiavessero la capacità di manovrare senzaperdere di vista lo scopo finale della con-quista del potere, e di utilizzare tutte leforze che spontaneamente si dichiaravanoal seguito delle avanguardie proletarie.Oggi le masse non si pongono più sul ter-reno della conquista del potere spontanea-mente. Anche per portarle su questo terre-no, per porre il problema dello Stato aglistrati decisivi e agli strati più arretrati delproletariato, è necessario che i partiti comu-nisti compiano una manovra. È questo il si-gnificato preciso che noi diamo alla paro-la d’ordine del governo degli operai e deicontadini’ ”19.

Anche negli esponenti del centro, del re-sto, e la riflessione gramsciana lo ritenevaun elemento caratterizzante della sua anali-si, si era consapevoli delle diversità esisten-ti tra l’Oriente e l’Occidente.

A differenza di Bordiga, che individua-va nell’autonomia di classe l’unico stru-mento in grado di preparare il partito e lemasse alla lotta per il potere, la maggioran-za del partito si apriva ad una prospettivapiù flessibile, nella quale fosse possibilesfruttare ogni più piccola fessura delloschieramento avversario e, all’occorrenza,instaurare momentaneamente, episodica-mente, alleanze con altre forze politiche.Per riuscire in questo compito era però ne-cessario disporre dello strumento adatto,cioè di un partito comunista con un forteseguito di massa.

Togliatti, secondo una convinzione cheaffiora in tutti i suoi maggiori interventidell’epoca, insisteva sulla necessità di dar

19 Discorso al V Congresso dell’Internazionale comunista, in “Lo Stato Operaio”, a. II,n. 25, 7 agosto 1924.

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vita ad un partito di massa. Tanto più in unacircostanza di risveglio proletario come eraquella che caratterizzava la situazione in-ternazionale, compresa l’Italia, nei primimesi del 1924.

L’approdo da parte della direzione delPcd’I alla valutazione della fase capitali-stica quale era democratico-pacifista nonfu però determinato da un adeguamentounilaterale alle posizioni di Zinov’ev edell’Internazionale; richiese una lunga ela-borazione che occupò, al pari della discus-sione sulle cause della sconfitta tedesca edel dibattito in seno al Comintern, tutta laprima parte dell’anno. A questo punto, permeglio comprendere il significato del di-scorso tenuto da Togliatti al V Congresso,è d’obbligo compiere un passo indietro edesaminare brevemente la discussione checondusse la maggioranza di centro ad ac-cogliere questa prospettiva.

L’origine della concezione democrati-co-pacifista del capitalismo

Il discorso pronunciato da Togliatti inoccasione del V Congresso del Cominternpuò a ragione essere considerato la primaapparizione sulla scena internazionale delnuovo gruppo dirigente di centro. Nel cor-so del suo intervento il delegato italiano,a nome della nuova maggioranza, si era so-stanzialmente limitato a concordare conl’affermazione zinoveviana circa l’esisten-za di una fase democratico-pacifista delcapitalismo; del tutto assente, probabil-mente a causa della necessità di non incri-nare il difficile equilibrio raggiunto in senoal gruppo20, un’approfondita analisi sulle

sue origini e sui suoi sviluppi. Questo, no-nostante l’approdo a tale concezione nonavesse seguito lo stesso percorso di quellodel presidente dell’Internazionale, bensìuna lunga riflessione “interna”, parallela eimprescindibilmente intrecciata alla forma-zione della piattaforma politica della dire-zione gramsciana. Per poter meglio com-prenderne le origini ed il significato è per-ciò opportuno risalire al carteggio intercor-so tra Gramsci e gli altri comunisti italianitra il 1923 e il 1924.

Il primo documento nel quale appare,seppur in maniera sintetica, un giudiziosulla situazione internazionale è la letteraindirizzata da Gramsci a Togliatti e Scoc-cimarro il 1 marzo 192421. Questa, seguen-do di circa un mese quella famosa del 9febbraio nella quale il comunista sardo a-veva esposto le sue posizioni riguardo idissidi in seno al gruppo dirigente del Pcd’Ie alle più importanti questioni allora dibat-tute nel movimento operaio internaziona-le, rappresentava un approfondimento tan-to dell’esame della situazione politica na-zionale ed internazionale che dei suoi pos-sibili sviluppi futuri. Due erano le ragionisulle quali Gramsci fondava la sua convin-zione circa la ripresa del movimento pro-letario: da un lato la tendenziale riconqui-sta del controllo delle forze produttive daparte della borghesia, dall’altro lo scivo-lamento a destra della socialdemocrazia:“Un breve accenno alla situazione interna-zionale che segna una ripresa del movimen-to proletario, per due ragioni: a) la borghe-sia ha ripreso parzialmente dominio delleforze produttive; b) la socialdemocrazia èandata più a destra e la borghesia tende a

20 Gramsci a Terracini. Vienna 27 marzo 1924, in PALMIRO TOGLIATTI, La formazione delgruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Roma, Editori Riuniti,1969, pp. 259-263.

21 Gramsci a Scoccimarro e Togliatti. 1 marzo 1924, in P. TOGLIATTI, op. cit., pp. 218-230.

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lasciarsene parzialmente rappresentare. Per-ciò la borghesia ritorna al liberalismo e perciò stesso le forze rivoluzionarie avanzano,ma senza avere con sé la maggioranza deilavoratori”22.

L’inversione di tendenza risaliva non aiprimi mesi del 1924, bensì a quanto avven-ne nel 1923. Lontano dall’identificare imoti “dell’anno terribile” con gli ultimisussulti di una crisi postbellica ormai infase di definitivo riflusso, Gramsci ne sot-tolineava il significato di ripresa del mo-vimento rivoluzionario mondiale23: sotto-lineava il realizzarsi su larga scala, causail colpo di stato, dell’unione tra operai econtadini in Bulgaria; l’importanza dellosciopero generale scatenatosi in Polonianel novembre; la costituzione dei governioperai di Sassonia e di Turingia e la rivoltadi Amburgo. Gramsci individuava anche inaltri paesi segni di questa ripresa. In Italiail blocco fascista vedeva incrinarsi la suaunità in quanto ampi settori della borghe-sia, più propensi a soluzioni liberali, se nedistaccavano; in Francia la sinistra borghe-se aumentava il suo “peso” politico facen-dosi rappresentante degli strati più arretra-ti degli operai e delle masse contadine; inInghilterra, grazie al rafforzamento deilaburisti e dei liberali, diveniva primo mi-nistro MacDonald; in Bulgaria ed in Polo-nia, nonostante le sconfitte patite dal movi-mento rivoluzionario, i governi non eranoricorsi a strumenti “terroristici” come quel-li utilizzati nel biennio passato; infine, inGermania l’organizzazione comunista, di-chiarata illegale subito dopo il tentativo ri-voluzionario fallito dell’ottobre 1923, ave-

va mantenuto quasi intatti i suoi quadri.Se la realtà del movimento delle masse

operaie e di quelle piccolo borghesi nonera, per Gramsci, da mettere in discussio-ne, più complesse gli apparivano però lecaratteristiche che questa assumeva. Diver-samente dalla più esplosiva ondata rivolu-zionaria che aveva contraddistinto il bien-nio immediatamente successivo la conclu-sione del conflitto, almeno fino all’occu-pazione delle fabbriche in Italia nel settem-bre 1920 e all’avanzata dell’armata rossasu Varsavia, quest’ultima si sviluppava inmaniera sotterranea e molecolarmente. La“clandestinità” del movimento avrebbe as-sunto le forme, almeno inizialmente, di unappoggio ai governi socialdemocratici edemocratici: in questo senso l’avvento algoverno dell’Inghilterra della coalizionelaburista guidata da MacDonald ne rappre-sentava l’esempio più evidente. Come giàaffermato privatamente nella lettera a To-gliatti e Scoccimarro del 1 marzo 1924, ipartiti comunisti si sarebbero così ritrovatiad operare in una situazione di minoranza.Compito primo di questi ultimi era perciòquello di trasformarsi in grandi partiti dimassa capaci di aggregare intorno a loroquella maggioranza della classe lavoratriceche gradualmente, in seguito ai successivifallimenti dei governi riformisti, se ne sa-rebbe distaccata.

In aiuto a questa interpretazione accor-revano i risultati ottenuti dai movimenticomunisti e più in generale dalle sinistreborghesi, nelle elezioni che si erano svol-te quasi simultaneamente, tra l’aprile e ilmaggio 1924, in Francia e Germania24.

22 Idem, p. 227.23 ANTONIO GRAMSCI, I laburisti al potere, in “L’Ordine Nuovo”, a. III, n. 1, marzo 1924.

Per tutti gli scritti di Gramsci tra il 1923 ed il 1926 utilissimo ID, La costruzione del Partitocomunista. 1923-1926, Torino, Einaudi, V ed.,1978, pp.165-167.

24 Cfr. A. AGOSTI, op. cit., pp. 67-69.

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In Francia, dopo più di sei anni, le forzeconservatrici della borghesia erano stateseccamente sconfitte dal cartello delle si-nistre, composto da radicali e socialdemo-cratici, che con quasi 4.000.000 di voti a-vevano conquistato trecentoventotto seggie dato vita al governo presieduto dal radica-le Herriot; la lista comunista, concorrendoautonomamente, aggregò consensi quasiesclusivamente nel distretto di Parigi e nelNord industrializzato, ottenendo 900.000voti e ventotto seggi. Il risultato non eracerto esaltante se si considera che soloquattro anni prima, all’epoca della scissio-ne tra il Pcf e la Sfio, nel 1920, la sezionefrancese dell’Internazionale era maggiori-taria nell’ambito dei partiti operai. Nono-stante i limiti dell’affermazione comunistafossero evidenti, il risultato elettorale nonfu però giudicato totalmente negativo25.Escludendo i giudizi della sinistra, tenden-te ad interpretare l’esito elettorale come unaprova della bontà della strategia autonomi-sta nella lotta per la conquista della mag-gioranza del proletariato, le cause dellaparziale sconfitta furono imputate all’ine-sperienza e al permanere di “tentazioni”democratiche in seno al Pcf. La revisionedella tattica avrebbe consentito al partitofrancese di intraprendere correttamentel’azione per la conquista delle masse ope-raie. In questa prospettiva la vittoria dellasinistra borghese non poteva che inserirsipositivamente. L’esito delle elezioni indi-cava infatti lo spostamento e lo scollamen-to dal blocco conservatore delle masse pic-colo contadine e della borghesia industria-le insoddisfatte dalla politica economicadel governo, soprattutto quella inerente la

risoluzione del problema delle riparazioni.Molto più significativi ed incoraggian-

ti i risultati ottenuti nelle elezioni svoltesiin Germania nel maggio 1924. Qui, il Kpd,appena riammesso legalmente alla compe-tizione politica, ottenne un clamoroso suc-cesso conquistando 3.690.000 voti controi 440.000 delle precedenti consultazionigenerali. Ciò che più contava era che ades-so il partito si apprestava a diventare unagrande ed influente organizzazione dimassa. Fu uno degli esponenti più autore-voli del nascente gruppo dirigente di cen-tro, Togliatti, a commentare a “caldo” que-sti risultati26. Nella sua analisi, attenta so-prattutto agli aspetti organizzativi, Togliat-ti insistette nell’individuare una dupliceserie di motivazioni all’affermazione comu-nista: da un lato, la diffusione tra la massaoperaia della convinzione circa la naturaborghese della socialdemocrazia; dall’al-tro la conseguente creazione di un fortepartito di massa: “I milioni di voti che essehanno raccolto significano che oggi in Ger-mania l’avanguardia della rivoluzione pro-letaria non è più un corpo staccato dallagrande massa degli operai, ma ha presocontatto con questa massa ed è con essastrettamente collegata [...] Il fatto che glioperai tedeschi si convincano che la social-democrazia non è un’ala destra del movi-mento operaio, ma un’ala sinistra della bor-ghesia reazionaria, deve avere nel proces-so di sviluppo della rivoluzione europeale più grandi conseguenze. Ebbene, soloqueste elezioni ci hanno dato la prova chequesta convinzione si diffonde tra le mas-se in modo sempre più vasto”27.

L’effetto positivo delle elezioni in Ger-

25 Il significato, in “l’Unità”, 13 maggio 1924.26 Le elezioni tedesche, in “l’Unità”, a. I, n. 76, 11 maggio 1924; cfr. P. TOGLIATTI, Opere,

a cura di Ernesto Ragionieri, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 564-567.27 Ibidem.

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mania non si arrestava però esclusivamen-te allo scenario tedesco; infatti, il suo pesonello scacchiere rivoluzionario europeocontribuì ad avvalorare significativamen-te l’ipotesi di una ripresa del movimentooperaio su scala continentale.

Il lavoro così frammentario di analisi,inevitabilmente figlio delle contingenze ecoinvolgente i maggiori esponenti delgruppo di centro, trovò una definitiva si-stemazione nello schema di tesi presenta-to alla Conferenza organizzativa di Como,all’interno del quale alla situazione mon-diale fu dedicata una apposita sezione28.Qui convergevano le idee di tutta la nuovamaggioranza: l’attenzione di Togliatti cir-ca la natura delle socialdemocrazie e il si-gnificato delle vittorie comuniste in impor-tanti paesi europei come la Germania; la ri-flessione di Gramsci sulle diverse compo-nenti esistenti in seno allo schieramentoavversario. Tenendo conto di questi diver-si contributi il paragrafo descrive le carat-teristiche della situazione mondiale distin-guendo due elementi principali: i comples-si ed articolati spostamenti avvenuti all’in-terno della classe borghese; l’attuale con-dizione del movimento proletario nei mag-giori paesi dell’Europa centrale e occiden-tale. Rievocando quanto già affermato daGramsci in alcune sue lettere ed in un suoarticolo riguardante la vittoria laburistainglese, le tesi affermavano di essere difronte, nonostante il permanere da parte delcapitalismo dell’impossibilità di “ricostrui-re” un equilibrio sufficientemente stabile,ad un tentativo della borghesia di ripren-dere il controllo sulle forze produttive. Lariconquistata fiducia in loro stesse le spo-stava verso l’adozione di metodi più libe-

rali nonché verso le socialdemocrazie. Si-milmente a quanto avrebbe affermato Bor-diga dalle tribune del V Congresso, lo spo-stamento a sinistra di alcuni gruppi dellaborghesia rivelava e confermava come il “sistema liberale e democratico e quello delterrore e della violenza armata [fossero,nda] due metodi di cui la borghesia si [va-leva] a seconda delle circostanze e dellenecessità”29. Parallelamente a questo mo-vimento però si assisteva ad un risvegliodella attività operaia nei maggiori paesi delcontinente. Lontano da facili entusiasmi epiù cautamente di quanto andasse contem-poraneamente sostenendo il presidentedell’Internazionale Zinov’ev, il “centro”italiano riconosceva i segni di un arrestodel processo di disgregazione e dispersio-ne che aveva coinvolto la classe operaia neltriennio precedente; a corroborare questaipotesi, come si è già detto, intervenivanoi risultati delle elezioni politiche tedescheed italiane. In queste condizioni i partiticomunisti avrebbero dovuto adoperarsi perraggiungere gli strati più profondi dellemasse divenendo grandi organizzazioni econquistando definitivamente la maggio-ranza del proletariato: “Nei principali paesid’Europa però, nonostante la ripresa delmovimento proletario, esiste ancora un di-stacco più o meno grande tra l’avanguar-dia della classe lavoratrice, rappresentatodai Partiti comunisti e il grosso dell’eser-cito proletario. [...] l’Internazionale comu-nista [...] deve ancora [conquistare, nda] glistrati medi e gli strati più arretrati della po-polazione operaia e contadina. Le elezio-ni tedesche hanno dato la prova che anchesu questo terreno la lotta si svolge con suc-cesso, ma essa non può affatto essere con-

28 Schema di tesi sulla tattica e sulla situazione interna del P.C.I. presentato dallamaggioranza del C.C. del Partito, in “Lo Stato Operaio”, a. II, n. 6, 15 maggio 1924.

29 Ibidem.

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siderata chiusa. Tanto meno poi nei paesi,come l’Italia, dove, oltre alla socialdemo-crazia esistono delle formazioni interme-die equivoche le quali contendono al Par-tito comunista la influenza sopra una grandeparte della popolazione lavoratrice”30.

Prima di concludere è utile procedere adun breve confronto tra le tesi proposte dal-la nuova maggioranza del Pcd’I e le piùimportanti interpretazioni dell’Internazio-nale. L’interesse risiede nel fatto che ad unapiù approfondita comparazione emergonodelle differenze con la posizione assuntada Zinov’ev. Se infatti l’attenzione dedica-ta al riemergere di una attività operaia, no-nostante i toni più cauti, si collocava al-l’interno dello stesso “alveo” di quantosostenuto dal presidente dell’Internaziona-le, la stessa cosa non si poteva dire riguar-do all’analisi degli sviluppi e delle tenden-ze in seno allo schieramento borghese. Laconvinzione che la vittoria degli schiera-menti socialdemocratici e democratici inFrancia ed Inghilterra avesse rappresenta-to l’indicazione più appariscente della mo-mentanea ripresa di fiducia in se stessadella borghesia e non il sintomo del defini-tivo “collasso” del sistema capitalistico, liavvicinava maggiormente alle posizioniassunte da Trotskij e Radek. Allo stessomodo lontana dalla posizione ufficiale del-l’Internazionale era l’attenzione dedicataai rapporti di forza tra i vari gruppi esisten-ti all’interno della classe borghese. Questadiscrepanza non aveva valore marginale;il riconoscimento della presenza di una di-versificazione all’interno dello schiera-mento avversario apriva al partito comu-nista la possibilità di poter intraprenderemanovre politiche nei loro confronti. Ciò,andandosi ad aggiungere alla convinzio-

ne che nell’era democratico-pacifista l’ap-poggio delle masse lavoratrici, almeno ini-zialmente, si sarebbe rivolto agli schiera-menti riformisti o democratici, legittima-va ulteriormente la convinzione che il pro-cesso rivoluzionario in Occidente avrebberichiesto uno sviluppo più articolato e ric-co di esperienze. Sul piano tattico questarinnovata consapevolezza si trasformava inun appoggio a quanto deliberato in occa-sione del III Congresso e alle parole d’or-dine del fronte unico e del governo operaioe contadino. L’interpretazione dell’era de-mocratica sviluppata dalla direzione gram-sciana era quindi sensibilmente differenteda quella dell’Internazionale. A questo pro-posito nulla è più esemplificativo di quantocontenuto nella lettera scritta da Gramscia Terracini il 27 marzo 1924. La letteraconteneva il suggerimento di adottare, inoccasione dei dibattiti del V Congresso,una posizione dimessa, al fine di non in-crinare l’unità del gruppo faticosamenteraggiunta e di non riaprire un contenziosocon l’internazionale che il Congressoavrebbe invece dovuto appianare definiti-vamente. L’origine di questa avvertenza ri-siedeva proprio nella diversa interpretazio-ne degli sviluppi internazionali e della tat-tica da adottare: “Quale atteggiamento noidobbiamo assumere politicamente? [difronte alla situazione generale, nda] Se pri-ma del Quinto Congresso il nostro partitoè risanato dalla crisi, se esso ha un nucleocostitutivo ed un centro che per la sua pro-pria azione e non per i riflessi internazio-nali goda la fiducia delle masse italiane,noi potremo assumere una posizione indi-pendente e permetterci anche il lusso dicriticare. Attualmente mi pare ci convengaancora louvoyer per non accrescere la con-

30 Ibidem.

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fusione e la crisi di fiducia e di prestigioche già esiste in larga scala”31.

Il “caso” italiano

Non è possibile concludere questa breveanalisi sul percorso che condusse la nuovamaggioranza del Pcd’I ad adottare la for-mula dell’era democratico-pacifista del ca-pitalismo senza accennare, almeno succin-tamente, alla sua applicazione ad un casoconcreto. Il “caso” in questione è quelloitaliano. Al di là delle sue peculiarità, pe-raltro costantemente ricordate da Gramscie dai maggiori esponenti del partito, l’at-tenzione dedicata dal Pcd’I allo sviluppodella situazione politica in Italia a partiredall’inizio del 1924 era significativamen-te orientata ad inserirla nel più ampio con-testo europeo. Scorrendo i più importantiinterventi pubblici, le corrispondenze in-tercorse tra i componenti del gruppo dicentro e, soprattutto, facendo riferimentoalle relazioni del Comitato centrale del par-tito pubblicate su “l’Unità”, si individuanofacilmente gli elementi costitutivi dell’erademocratica: l’esistenza di contrasti in senoai diversi gruppi borghesi; il loro sposta-mento a sinistra; il risveglio della classeoperaia; l’apertura di possibili spazi permanovre politiche.

A due anni dalla marcia su Roma la geo-grafia politica dei vari gruppi borghesi siera alquanto modificata32. L’azione diMussolini, orientandosi nella direzione diun assorbimento di tutti i più importantigruppi politici tradizionali per garantirsiuna autonoma maggioranza parlamentare,si era sviluppata in molteplici direzioni: da

un lato mettendo in atto strategie di assor-bimento come nel caso di quella naziona-lista; dall’altro adoperandosi costantemen-te per sgretolare le basi clientelari dei piùimportanti gruppi liberali e democratici.Anche l’azione economica del governo nelsuo primo anno di vita ebbe come scopoprincipale la costruzione di un fronte uni-tario della borghesia. Sulla base di questoobiettivo adottò misure restauratrici capa-ci di aumentarne il favore presso l’opinio-ne pubblica borghese e piccolo borghese:seppellì la legge sulla nominatività dei ti-toli azionari, modificò il sistema tributa-rio favorendo gli investimenti, ridusse l’im-posta sui redditi e sulle nuove costruzioniindustriali, sbloccò il mercato degli affit-ti, privatizzò il settore delle assicurazionisulla vita e dei telefoni, abbandonò ogniprogetto di riforma agraria.

In generale i provvedimenti adottati aiu-tarono soprattutto alcuni grandi gruppi fi-nanziari ed industriali. La parziale ripresaeconomica non migliorò però le condizio-ni della massa operaia e dei piccoli rispar-miatori: la caduta del potere d’acquisto deisalari, che ritornarono a valori simili a quel-li precedenti il conflitto, si intrecciò infat-ti con il contemporaneo aumento dell’in-flazione, indebolendo così tutti quei grup-pi sociali che percepivano un reddito fis-so. All’epoca dello scioglimento delle ca-mere e dell’inizio della campagna eletto-rale, all’inizio del 1924, esistevano quindigià delle tensioni all’interno dei gruppipiccolo borghesi. Sulla base di questi datiprese avvio la riflessione comunista suipossibili sviluppi della situazione politi-ca italiana.

31 Gramsci a Terracini, Vienna 27 marzo 1924, in P. TOGLIATTI, La formazione del gruppodirigente, cit., pp. 261-262.

32 P. SPRIANO, op. cit., pp. 324-326.

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Ancora una volta fu Gramsci il più luci-do nel riconoscere queste tendenze33. Nellalettera del 1 marzo indirizzata a Togliatti eScoccimarro, alcune settimane prima del-le elezioni, il dirigente sardo esortò la di-rezione del partito a studiare approfondi-tamente quelle forze borghesi “tradiziona-li” che non si lasciavano “occupare” dal fa-scismo; principalmente due erano le cor-renti “dissidenti”: una, quella che si rag-gruppava attorno al quotidiano torinese“La Stampa”, si poneva apertamente la que-stione della collaborazione coi socialistitendendo “a conservare l’egemonia setten-trionale-piemontese sull’Italia; l’altra, nataattorno al “Corriere” milanese era più at-taccata al “conservatorismo borghese” e siindirizzava soprattutto verso una possibi-le collaborazione con la piccola borghesiameridionale rappresentata dalla Democra-zia sociale di Amendola. Allorquando ilgruppo di centro redasse lo schema di tesiper la Conferenza organizzativa di Comodivennero chiare anche le motivazioni ditali giudizi34. Il governo fascista, dopo avergoduto dell’appoggio della piccola e me-dia borghesia nei mesi precedenti l’ascesaal potere, aveva adottato, rinnegando il pre-cedente “demagogico programma antica-pitalistico”, provvedimenti di politica eco-nomica indirizzati ad una “restaurazionecapitalistica a tutto vantaggio della gran-de borghesia industriale e agraria”. Ciò glialienò i consensi di parte dei ceti medio-piccoli, che si coagularono attorno al Psu

e al Ppi. Questi non erano però i soli grup-pi ad assumere posizioni critiche di fronteal fascismo: alcune frazioni della borghe-sia più “schiettamente capitalistica”, quel-le ricordate da Gramsci nella lettera succi-tata, iniziarono a considerare auspicabileil ritorno ad un sistema più democratico,più liberale. La causa di questo mutamen-to d’opinione risiedeva nell’essenza stes-sa del regime. Proprio la sua natura di “dit-tatura armata di una frazione della borghe-sia capitalistica e dei grandi proprietari diterre”35, estendendo a tutta la penisola i si-stemi di “compressione violenta” della vo-lontà della popolazione, anziché condurredefinitivamente al superamento della cri-si sociale postbellica, l’aveva esasperata alpunto da creare una situazione “permanen-temente rivoluzionaria”, rendendo imma-nente la possibilità d’insurrezione dei con-tadini meridionali e di una loro collabora-zione spontanea con “la lotta armata deglioperai dell’industria settentrionale”.

Quale segno tangibile di tale situazionei comunisti italiani indicavano i risultatidelle elezioni politiche dell’aprile 192436.Nonostante la campagna elettorale fossestata caratterizzata da un crescendo di azio-ni e violenze fasciste nei confronti di tuttii partiti, il “listone” non raggiunse il suc-cesso che ci si era immaginati. La lista na-zionale ottenne 4.305.936 voti, cioè il 66,9per cento, conquistando trecentocinquan-tasei seggi; ad essa vi andavano aggiunti idiciannove raggiunti attraverso una lista

33 Gramsci a Scoccimarro e Togliatti, Vienna, 1 marzo 1924, in P. TOGLIATTI, La formazionedel gruppo dirigente, cit., pp. 223-224.

34 Schema di tesi sulla tattica e sulla situazione interna del P.C.I. presentato dallamaggioranza del C.C. del Partito, in “Lo Stato Operaio”, art. cit.

35 Ibidem.36 P. SPRIANO, op. cit., pp. 339-341; cfr., per ciò che riguarda le statistiche elettorali, R. DE

FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 1995,pp. 585-588.

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fascista bis, presentata esclusivamente perinfastidire le minoranze; trentanove seggiandarono al Partito popolare; ventiquattroi deputati che mandarono i socialisti uni-tari; ventidue quelli del Partito socialista;la “opposizione costituzionale” raggiun-se i quattordici eletti. I comunisti, che si pre-sentarono alle elezioni assieme ai terzini,ottennero 268.191 voti e diciannove depu-tati; quattordici per i primi, cinque per i se-condi.

Al di là della prevedibile affermazionefascista, i dati più interessanti si osservanoscorporando i risultati a seconda delle di-verse aree geografiche della penisola.Mentre nelle zone meridionali il listoneottenne l’81,5 per cento dei voti, al Nordrisultò minoritario rispetto alla somma to-tale dei voti accumulati dalle liste di op-posizione.

Caso unico era quello di Milano, dove itre partiti operai conquistarono la maggio-ranza dei consensi. Ottima, sul piano na-zionale, fu la performance del Pcd’I che,rispetto alle elezioni del 1921, mantennequasi intatto il suo “corpo” elettorale. Ingenerale, gli esiti della consultazione die-dero la misura del movimento centrifugodelle forze piccole e medio borghesi e del-la resistenza effettiva della classe operaia.

I risultati delle elezioni e le sue conse-guenze nella definizione di un programmad’azione politico furono discusse nella riu-nione del Comitato centrale del 18 aprile37.A relazionare, a nome di tutto il Comitatoesecutivo, fu Togliatti. Quel che emergenella lettura del documento, peraltro espli-citamente chiara, è la convinzione che imolteplici episodi di reazione operaia alleviolenze fasciste nella campagna elettora-

le rappresentassero l’inconfondibile sinto-mo di “un’inversione di rotta” del sentiredella classe operaia: “Noi affermiamo chei risultati delle elezioni politiche italianesono un segno evidente che nel processodi depressione della volontà e di disgrega-zione delle energie della classe lavoratri-ce si è giunti ad un punto di arresto”38.

Dunque, anche la massa operaia italiana,nonostante i toni utilizzati da Togliatti fos-sero molto cauti e non prospettassero ilprodursi di una nuova ondata ascendentedel movimento proletario, si allineava conquanto stava contemporaneamente acca-dendo nei più importanti paesi dell’Euro-pa occidentale ed orientale. Questo rinno-vato ottimismo non faceva che rafforzarela convinzione che il compito del partitofosse quello di creare un forte partito co-munista di massa. A questo proposito ilrappresentante dell’esecutivo approfondi-va i diversi aspetti che questo obiettivoponeva alla manovra politica del Pcd’I; inparticolare esaminò le eventuali forme chela tattica del fronte unico avrebbe assuntoin relazione al Psi e al Psu. Mettendo daparte il caso dei massimalisti, con i quali icomunisti intendevano utilizzare una tatti-ca di conquista “legale” del partito dall’in-terno, per mezzo della frazione terzinterna-zionalista, ciò che ci interessa è quantoaffermato riguardo i compiti e la funzionedel Partito socialista unitario; l’analisi delpartito riformista infatti rappresenta l’ap-plicazione “italiana”, nonché di origineitaliana, in quanto già adottata da Togliat-ti e ancor prima da tutta la direzione bordi-ghiana, della formulazione sull’identità trala socialdemocrazia e l’ala sinistra dellaborghesia: “Il maggior successo numerico

37 Verbale della riunione del Comitato Centrale del 18 aprile 1924, in “Rivista storicadel socialismo”, n. 23, 1964, pp. 527-540.

38 Idem, p. 529.

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Federico Caneparo

74 l’impegno

è stato ottenuto dal Partito socialista uni-tario. Esso ha però raccolto in grandissimaparte non già i voti della classe operaia econtadina, ma della piccola borghesia, eanche di alcuni strati borghesi veri e pro-pri che sono avversi al fascismo. [...] Il no-stro atteggiamento di fronte agli unitarideve essere quello di spingerli sempre piùsulla via che è loro additata dai risultatielettorali. Non v’è dubbio che gli unitarisi sforzeranno ancora di mostrare alla clas-se operaia il viso di una opposizione pro-letaria. Noi dobbiamo toglier loro la ma-schera. Essi sono una opposizione ‘costi-tuzionale’, cioè un’opposizione che si ri-fiuta di riconoscere che è problema pregiu-diziale per ogni miglioramento della situa-zione politica italiana e della condizioneeconomica delle grandi masse l’abbatti-mento della dittatura fascista e la sostitu-zione ad essa di un governo degli operai edei contadini [...] Essi, come il fascismo, sipropongono di condurre gli operai e i con-tadini entro il quadro di uno stato borghe-se e negano libertà di svolgimento alla lottadi classe”39.

In questa situazione, la lotta per la con-quista della maggioranza della massa lavo-ratrice assunse caratteri inaspettati ed e-splosivi, aprendo di fatto al Pcd’I nuoviambiti di manovra politica, allorquando,nel giugno del 1924, il governo fascista an-dò incontro alla sua prima vera crisi daquando aveva conquistato il potere. Il 12giugno veniva assassinato dai fascisti il se-

gretario del Psu Giacomo Matteotti. L’ori-gine del movente è da ricondurre al discor-so che l’esponente riformista aveva tenutoil 30 maggio; oratoria nella quale avevaminuziosamente denunciato tutti i broglie le manomissioni di cui erano stati com-plici i fascisti nella giornata elettorale.

Nei giorni immediatamente successivil’episodio lo sdegno delle masse fu tale cheil regime giunse più volte sull’orlo delcrollo. Il Pcd’I, muovendosi sulla base diquel “corpus ideologico-dottrinale”40 chesi era forgiato nelle precedenti discussio-ni, comprese per primo quale fosse la veranatura dello scontro: aderendo temporane-amente al blocco delle opposizioni, perprotesta astenutesi dai lavori parlamentarie radunatesi sull’Aventino, il Pcd’I piùvolte lo esortò ad utilizzare l’arma dellamobilitazione di massa attraverso la pro-clamazione dello sciopero generale, qualeunico strumento per contrastare efficace-mente il regime.

La bocciatura di questa prospettiva spin-se i comunisti ad uscire dal cartello delleopposizioni, iniziando così una lotta fradue fronti, peraltro insita nell’affermazio-ne circa il carattere schiettamente borghe-se delle opposizioni. Da questo momentoil Pcd’I intraprese un’azione politica voltaa valorizzare, attraverso la tattica del fron-te unico dal basso, l’autonomia di classe ea legittimarsi quale unico punto di riferi-mento nella lotta antifascista41.

A metà luglio si riunì il Comitato centra-

39 Idem, p. 532.40 Riprendo qui un’affermazione di Spriano con la quale concordo pienamente. Per tutto

ciò che concerne la crisi aventiniana, la proposta di sciopero generale, la parola d’ordinedell’antiparlamento, e dei Comitati operai e contadini cfr. P. SPRIANO, op. cit., pp. 381-429.

41 Nelle intenzioni del gruppo dirigente del Pcd’I la costituzione di un’opposizionerivoluzionaria avrebbe potuto aggregare quelle forze piccolo-medio borghesi che, stac-catesi dal fascismo, ondeggiavano tra la grande borghesia ed il proletariato. Cfr. idem, p.392.

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La Kerenšcina secondo il Pcd’I

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 75

le del Pcd’I. La relazione del rappresentantedell’esecutivo, Scoccimarro, insistette sul-l’avvenuto distacco delle forze medio bor-ghesi dal fascismo e sul loro avvicinamen-to alle opposizioni costituzionali: “Il fasci-smo è stato enormemente indebolito, men-tre l’opposizione costituzionale si è raffor-zata; ciò ha avuto delle ripercussioni an-che in seno alla classe operaia, nella qualeè fortemente aumentato lo spirito di com-battività”42. L’inerzia delle opposizioniconsentì però al fascismo di attraversareindisturbato tutto il periodo estivo. Furo-no i comunisti, per premere ulteriormentesulla base operaia del Psi e del Psu, a ripren-dere l’iniziativa, a metà autunno, formulan-do la parola d’ordine dell’antiparlamento.La tattica, consistente nella trasformazio-ne dell’Aventino in una assemblea parla-mentare con un preciso programma politi-co (armamento delle milizie popolari, di-sarmo di quelle fasciste, rifiuto di pagarele tasse al governo) doveva servire per sma-scherare l’inerzia delle opposizioni e la

loro sostanziale affinità al fascismo.Contemporaneamente a questa proposta

politica e dopo aver chiesto consiglio al-l’Internazionale, il Pcd’I si decideva altre-sì a rientrare in parlamento al fine di uti-lizzarlo per agitare le masse. Anche in am-bito organizzativo il partito procedette,attraverso il lancio della parola d’ordine deiComitati operai e contadini, al rafforzamen-to della politica del fronte unico dal basso.

La situazione nel paese non era però piùquella d’inizio estate. Il 3 gennaio, dopoche per settimane si era respirata “l’aria”delle giornate di giugno, Mussolini, in unsuo celebre discorso parlamentare, avocan-do a sé le responsabilità dell’assassinioMatteotti, mise definitivamente a tacere leopposizioni. Tutte le più importanti orga-nizzazioni aventiniane, compreso il Pcd’Ifurono nuovamente investite dalla repres-sione. Dopo questa data la libertà democra-tica subì una drastica riduzione e due annipiù tardi, nel novembre del 1926, fu defini-tivamente soppressa.

42 Riunione del Comitato Centrale del Pcd’I, in “l’Unità”, a. I, 17 luglio 1924.

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ALBERTO LOVATTO (a cura di)

Partigiani a colori

nelle diapositive di Carlo Buratti

Con scritti di Pierangelo Cavanna, Alberto Lovatto, Luigi Moranino

2000, pp. 128, € 18,08

Il catalogo della mostra dedicata alle diapositive a colori realizzate da Carlo Buratti,

nel 1944 e 1945, fra i partigiani biellesi, è uno straordinario diario di vita parti-

giana a colori. Le quasi centocinquanta immagini (nella maggior parte riprodotte

nel catalogo), scattate eccezionalmente con pellicola diapositiva a colori Agfa

(caso praticamente unico nella fotografia resistenziale in Italia), costituiscono una

serie significativa ed importante di documenti visivi della vita partigiana e delle

manifestazioni partigiane del mese di maggio 1945.

Carlo Buratti, medico di professione, era in montagna per fare il partigiano ed

aveva compiti importanti nel quadro della organizzazione della 2a brigata Gari-

baldi: alla fotografia dedicò i momenti liberi dagli impegni militari.

Fra i soggetti, nelle diapositive scattate durante il periodo resistenziale prevalgo-

no i singoli partigiani o i gruppi di partigiani in posa, anche se domina spontanei-

tà e informalità nelle posizioni e negli atteggiamenti. Vi sono poi immagini di

vita quotidiana scattate durante i pranzi, le conversazioni o le occasioni di riposo.

Non mancano le diapositive di attività partigiana, anche se mai sono ritratte azio-

ni militari. Molte sono anche le immagini di paesaggi, di luoghi, di alpeggi: se-

gno di una forte passione per la montagna che per Carlo Buratti, come per molti

partigiani, aveva radici che andavano oltre l’esperienza resistenziale.

Grazie al contributo di Luigi Moranino, è stato possibile schedare le immagini,

riconoscendo la maggior parte delle persone ritratte, arricchendo e completando

la significatività documentaria del fondo.

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memorie

l’impegno 77

Fine agosto dello scorso anno, in viag-gio con mia moglie. Primo pomeriggio diun giorno iniziato con la partenza da Albi,avendo come meta Andorra la Vella. La viausuale passa da Toulouse: un percorso benservito da superstrada e autostrada, ma nonci va di stare su arterie trafficate né, menoche meno, abbiamo intenzione di entrarenei gorghi di una grande città. Puntiamoin direzione di Castres, per una nazionaleche attraversa un solo villaggio, tagliandotra deboli colline ricoperte di girasoli. Unasinfonia di gialli a perdita d’occhio. A Ca-stres bisogna tuttavia virare verso Revelper non finire a Carcassonne, entrandocosì - ce ne accorgeremo subito - nell’ulti-mo scampolo che sia forse rimasto di Midipovero e appartato. Revel e poi Castelnau-dary: un crocevia di strade dipartimentaliche sembrano scambiarsi con il Canal duMidi in un sistema di vie ricco quanto larosa dei venti e di nessuna importanza. Èmezzogiorno, la temperatura è torrida eafosa. Mazères è un piccolo villaggio chepromette un pasto. Anzi una pizza. Nell’as-soluta povertà del locale spiccano una ban-diera italiana e alcuni stendardi di squadrecalcistiche, anche italiane. La giovane don-na che serve ai tavoli, la padrona del loca-le, dice che suo nonno era di origine italia-

na, ma non sa dire da quale parte proven-ga. Non conosce una sola parola d’italiano.

Nelle prime ore del pomeriggio, la pianaè schiacciata dall’aria stagnante. Lavori incorso ci dirottano su di una strada localeche sembra puntare ai Pirenei come unafreccia. Visti da questa prospettiva sono unasorta di lungo portone chiuso sull’aria bol-lente, una serie di punte e passi che dalcolore dell’atmosfera non promettono nul-la di buono nemmeno a quell’altezza. Sia-mo in terra catara, ma qui non c’è nulla cherichiami alla mente una qualche possibili-tà di difesa. Il sistema collinare attorno adAlbi e poi, dall’altra parte della piana, giàa Pamiers e più ancora a Foix, dove sorgo-no i primi contrafforti pirenaici, picchi di2.300 metri che salgono dal nulla del-l’Ariège, lascia intendere come i catari ab-biano potuto tenere testa per anni all’arma-ta del re e della Chiesa. Il “pog”1 del Mon-tségur, luogo dell’ultima resistenza termi-nata tra le fiamme di una gigantesca pira emontagna simbolo dei paesi occitani cadu-ti sotto il ferro dei Capetingi, si affacciadalla prima fila sulla piana dell’Ariège.Siamo nella terra della “lenga d’òc”, ma giàda queste parti è iniziato il lento trasmuta-re verso il “català”, che terrà dominio finoa Valencia e nel minuscolo Principato di

1 Rocca.

NEDO BOCCHIO

Ricordo di Anello Poma

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Nedo Bocchio

78 l’impegno

Andorra siederà, anche in secoli bui, sultrono di lingua ufficiale.

***In genere, i memorial francesi della Re-

sistenza si annunciano da lontano e hannoun che di autorevole nella loro presenza,perfino di imperioso. Si ergono sul cigliodi una strada maestra o comunque sullastrada vi sono efficaci segnalazioni quan-do il memorial si trovi in luogo appartato enon attraversato da vie importanti. Si av-verte che il loro senso e la loro funzione èprincipalmente pedagogica e non si accon-tentano di essere - come da noi è di granmoda da qualche tempo a questa parte - unomaggio alla “memoria”. La differenza stanel fatto che i memorial francesi, di qualsi-asi dimensione essi siano e a qualsiasi te-stimonianza essi siano votati, sono espres-sione diretta e inconfondibile dello stato edella sua autorità. Da qualche parte, in aper-tura o in chiusura di messaggio, si troveràsempre uno di questi due imperativi: “rap-pelez vous”, “souviens toi”. L’improntad’autorità è chiarissima, poiché in ciò cheva fatto è ben espresso che il fatto da ricor-dare è ciò che fonda il principio stesso diautorità. Forse l’attuale italica moda della“memoria” manca perfino degli elementiconcettuali per capirne la differenza. IlMemorial del Vernet d’Ariège ci viene in-contro così, nel baluginare di vapori ago-stani, su di una strada che punta come unafreccia ai Pirenei che non promettono re-frigerio.

Il Vernet. Il Vernet è un triste mito. È latragedia della sconfitta, è la prova dellasopravvivenza, è il resistere alla condizio-

ne disumana. Certo, molto diverso dai cam-pi di annientamento e da quelli che preten-devano essere di “rieducazione”, nondime-no una vicenda che mostra l’uomo - maquante altre lo mostrano -, che mostra l’uo-mo sconfitto e il suo guardiano, benchénon sia costui il suo vincitore. Il Vernet diArthur Koestler e di Anello Poma2.

Non pensavo che il Vernet fosse qui.Come altri, avevo creduto che un altro Ver-net, che promette “les Bains” e che si trovaun poco più a ovest e in alto, in posizionepiù consona al nome che porta, fosse quel-lo vero. Invece è qui, in questo spazio sen-za misura di campi già spogliati delle mes-si. Un muro in pietra che delimita un vialee al fondo del viale un cancello. Il cancel-lo del cimitero.

“Ho detto che è un campo rinomato: sichiama Le Vernet ed è il solo campo disci-plinare in Francia dove prigionieri di altricampi siano stati trasferiti per punizione -una specie di Isola del Diavolo a nord deiPirenei. Originariamente era stato creato,nel preludio spagnolo di questa guerra, peroffrire ospitalità ai miliziani repubblicanisconfitti. Il campo consisteva allora in trin-cee scavate nella terra gelata, dove lascia-vano morire i feriti e ammalare i sani. I pri-mi lavori consistettero nel recintare di filospinato il campo e nel costruirvi a fiancoun cimitero; le prime file di croci di legnorecano tutte nomi spagnoli. Non c’è nes-suna iscrizione tranne una incisa con untemperino da qualche José, o Diego oJesus: Adiós, Pedro. Los fascistas voleva-no bruciarti vivo, ma i francesi ti hanno

2 Al Campo del Vernet furono internati, tra gli altri, Leo Valiani e Luigi Longo.Per redigere la tesi della sua seconda laurea, Pietro Ramella ha condotto una bella ricerca

sulla “Retirada”, l’odissea di cinquecentomila repubblicani spagnoli alla fine della guerracivile. Un saggio dal titolo “La Retirada”, è stato pubblicato ne “l’impegno”, a. XVII, n.2, agosto 1997. Sempre ne “l’impegno” vi sono altri scritti di Ramella sull’argomento.

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Ricordo di Anello Poma

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fatto morire di freddo in pace. Pues viva la

democracia.“In seguito costruirono delle baracche di

legno, contenenti ognuna duecento uomi-ni con uno spazio vitale di 50 centimetridi larghezza; e quando furono pronte, tut-to il campo venne evacuato perché unacommissione di controllo l’aveva giudica-to inabitabile. Restò vuoto qualche mese,in balia dei topi e delle cimici; poi scop-piò la guerra e si riempì di nuovo di unastrana folla di uomini venuti da tutte leregioni d’Europa; i giornali francesi li ave-vano amabilmente chiamati “la schiumadella terra”.

“Erano in parte gli ultimi mohicani del-le Brigate Internazionali, e in parte gli esulipolitici di tutti i paesi fascisti. La Sûreté,che non aveva mai smesso di essere lo stru-mento della politica di Bonnet e Laval eche dal settembre 1939 aveva la sua Vichyin bottiglia pronta per la vendita, deciseche la prima cosa da fare in una guerra con-tro Hitler era di mettere sotto chiave tuttigli antinazisti notori. Per far digerire al-l’opinione pubblica questo pogrom perso-nale della Sûreté contro la sinistra, la“schiuma” fu condita con un venti per centodi malfattori autentici, magnaccia, traffi-canti, travestiti e altri ceffi del mondo equi-voco di Montmartre.

“Ma il restante ottanta per cento che ave-vano gettato al letamaio era composto dacoloro che questa guerra l’avevano comin-ciata per proprio conto nel 1930 e ancheprima; coloro che avevano bevuto l’olio diricino di Mussolini, e che si erano stesi suicavalletti della tortura della Siguranza a

Bucarest; che si erano seduti sui banchi delghetto di Lvov e avevano conosciuto lesferze d’acciaio delle SS a Dachau; cheavevano stampato clandestinamente vo-lantini antinazisti a Vienna e a Praga e, so-prattutto, che avevano combattuto duran-te il preludio dell’Apocalisse in Spagna. Sì:sono fiero del mio distintivo del Vernet”3.

Il cimitero è tutto ciò che resta di un cam-po che ha accatastato ventimila internatiin baracche di lamiera e legno tra la merda,il vomito, il fetore delle epidemie e dell’im-mondizia. La terra ha fatto il suo lavoro, haripulito uno spazio che doveva essere enor-me, incorporando in sé e rigenerando “pro-babilmente la più cosmopolita collezionedi teschi dopo gli ossari dei crociati”4.

Sono rimaste un centinaio di tombe. Nonsono tombe dimenticate. Molte sepolturesono state volutamente lasciate qui, a ripo-sare per sempre tra quelli che “crociati lofurono davvero, l’orgoglio di un continen-te in decadenza, i pionieri di una lotta perla salvaguardia della dignità umana”5.

Ci sono due pini che fanno ombra alletombe. In questa stagione hanno pignemature ma le squame sono ancora chiuse,e il colore bruno contrasta fortemente conil verde cupo degli aghi. Ne tagliamo duerametti. Nello non è mai più tornato al Ver-net. È stato ad Argelès, è stato a Gurs, manon al Vernet. Ci sembra che quei rami sia-no più di un simbolo. Ci sembra che in sé,nella linfa che li ha nutriti, abbiano incor-porato l’aura sacrale del luogo. Un ricordoe un omaggio al vecchio combattente. Esubito ci coglie un senso di smarrimento.

3 ARTHUR KOESTLER, Schiuma della terra, Firenze, Edizioni U, 1945; Bologna, il Mulino,1989. Edizioni originali: Scum of the Earth, London, J. Cape, 1941, 1955; Hutchinson,1968.

4 Ibidem.5 Ibidem.

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Nedo Bocchio

80 l’impegno

Arriveremo in tempo per portare questoomaggio? Per portare questo pezzo di terrache lo imprigionò ma non lo volle?

***L’ultimo incontro risaliva ai primi gior-

ni di agosto: un pomeriggio a Rosazza,dove ci aveva dato appuntamento, e poi,comprato del pane e del formaggio, erava-mo tornati a casa a consumare una cena fru-gale. È stata molto calda l’estate dell’annoscorso. Per sfuggire alla calura di Biella, aNello piaceva farsi portare a Rosazza egodere il fresco nel delizioso giardino pub-blico. Eravamo in ritardo sull’ora indica-ta. “In ritardo come al solito”, disse contono di rimprovero. “Sei sempre stato inritardo”. Era il suo modo di accogliermi.Sanzionava il mio comportamento così dapoter esprimere solidarietà a mia moglie:“Come fai a sopportarlo”?

C’era Rosy e non c’era l’affezionata Da-niela Bianchetto, che ci raggiungerà a casapiù tardi. Le donne se ne erano andate a faredue passi e Nello, del tutto inaspettatamen-te, iniziò a tracciare un bilancio della suavita. Non era il tipo d’uomo che si lascias-se andare a confidenze troppo personali.Nemmeno era suo costume esprimere inmodo palese i suoi sentimenti verso unapersona, così come non avrebbe gradito chein modo troppo esplicito gli venisseromanifestati i sentimenti provati nei suoiconfronti. Con questo non intendo dire chenon abbia raccontato la sua vita privata. Loha fatto più volte, ma sempre con grandedistacco, allo stesso modo e con lo stessotono che usava nel raccontare le vicendedella sua vita pubblica. “In fondo sono sta-to fortunato”, era stata la conclusione quelgiorno, “ho avuto la vita che ho desidera-to e per la quale mi sono battuto. Certo, conquesto colossale fallimento, il finale nonè stato particolarmente brillante, tuttavia,della mia vita, non rinnego niente e non ho

nulla di cui pentirmi”.Proprio di questo aveva parlato: del “co-

lossale fallimento”. Sul quale credo aves-se aperto da molto tempo un fronte tuttointeriore, che lasciava trasparire all’ester-no solo attraverso rapidi squarci: battute,giudizi, analisi taglienti. Normale espres-sione di un genio “eterodosso”, dirà qual-cuno.

Sulla panchina del giardino pubblico,aveva passato in rassegna il primo decen-nio della sua attività politica. Forzatamen-te, anni di guerra. Molto tempo fa mi ave-va confidato che gli sarebbe piaciuta lacarriera militare. L’unica carriera che avreb-be potuto distoglierlo dal fare politica.Forse questa era la sua intima essenza. O,forse, in questo modo sono stato indotto apensare poiché, nel suo riferirsi agli annidedicati al “grande progetto” che si rive-lerà un “colossale fallimento”, giganteg-giavano gli anni della Spagna e della guer-ra di liberazione. Forse sbaglio, forse que-sto mio è un riflesso condizionato: eppuremi paiono gli anni della sua vita, e mi èparso che lui li cogliesse come gli anni piùproduttivi, rigogliosi, degni di essere stativissuti. Anni dai quali non è venuto un tra-dimento. La sera a cena si era parlato di nar-rativa sulla Resistenza e del poeta NinoCosta; ancora un accenno al “grande falli-mento” e poi aveva troncato con sarcasmoun discorso che stava scivolando nellapolitica di partito. Questo tema, un tempousuale argomento di conversazione, lo in-fastidiva. Quando affiorava, la sua richie-sta suonava più o meno così: “Per quelloche mi resta da vivere non annoiatemi conqueste cose”. Parlare di politica, invece,non lo annoiava affatto. Quella sera a cenaparlò in termini decisamente positivi deigiovani tornati a manifestare e delle posi-zioni anti-globalizzazione. Tuttavia, capi-tò una cosa che tra di noi non era mai suc-

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Ricordo di Anello Poma

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cessa: lo avevo lasciato parlare senza in-terrompere - il nostro confronto è semprestato costellato di battute, di intromissio-ni e di plateali gesti di dissenso - e alla finenon me la sono sentita di dirgli che non erod’accordo, che ritenevo i giovani no-glo-bal fuori strada, prigionieri di una ideolo-gia, eccetera eccetera eccetera.

I due rametti di pino sono rimasti per unpo’ sulla credenza, in attesa di essere con-segnati. Ogni giorno li guardavo e il pen-siero era lo stesso del giorno al Vernet: iltimore di non arrivare in tempo. Ma ora, dimezzo, c’era solo la mia irresolutezza. Lastessa che Nello era solito sanzionare conil suo: “Sei sempre in ritardo”.

È verso la fine di settembre che finalmen-te, e già sapendo che le cose non andava-no bene, mi sono deciso per una visita.Nello era a letto e la famiglia era al com-pleto: Rosy, il figlio Italo, Daniela. Ci dis-sero che era condannato. Si era alzato, ri-manendo con noi un’oretta; poi la stan-chezza aveva avuto il sopravvento. Ma inquell’ora, la memoria sollecitata era torna-ta alla amata Spagna e ai sofferti campi diinternamento: ad Argelès, a Gurs, al Vernet;e alla storia che mi ha raccontato tante voltedell’amicizia con un combattente anarchi-co col quale aveva diviso la trincea scava-ta nella sabbia gelida di Argelès. Il Partitonon gradiva, il Partito lo sanzionava, ilPartito imponeva di tagliare quell’amici-zia contraria alle direttive. Lui attese chefossero i miliciens della Garde Mobile asepararli, quando iniziarono a dividere gliinternati sulla base dell’appartenenza par-titica. A lui comunista toccò Gurs; all’ami-co anarchico chissà quale altro campo. Enon lo vide più.

***Avevo conosciuto Anello Poma nel

1966. Intendo una conoscenza vera e nonquella di fama avvenuta nell’infanzia at-

traverso i racconti di mia madre. Lui mi ave-va visto neonato perché Nello veniva incasa nostra. Ho sempre saputo degli incon-tri tra lui, mio padre e altri comandantipartigiani. Nello era il comandante più altoin grado. Erano gli anni dell’immediatodopoguerra e quegli incontri, nei raccontidi mia madre, avevano preso un che dimisterioso. Forse sono stati davvero incon-tri misteriosi. Misteriosi perché segreti.Che cosa preparavano, nella casa che ospi-tava me, povero innocente? Preparavano lafamosa rivoluzione proletaria? O stavanoapprontando le altrettanto famose difesedemocratiche da opporre al presunto ritor-no del fascismo? Confesso che in gioven-tù sono stato bruciato dalla curiosità di sa-pere, ma non essendo riuscito a estorcereconfessioni a un livello di comando supe-riore al capopattuglia - persone che a que-gli incontri proprio non c’erano -, avevo fi-nito per lasciar perdere. D’altra parte, glisforzi di ricavare qualcosa dai due parteci-panti coi quali intrattenevo rapporti di unaqualche intimità, vale a dire mio padre eNello, naufragarono nel nulla. E ancoraoggi, ne sono convinto, se chiedessi a miopadre: “Dimmi, ma allora volevate fare larivoluzione o cos’altro”? lui mi risponde-rebbe: “È troppo presto per parlarne, forsetra vent’anni, se le condizioni politiche lopermetteranno”.

Ho lasciato cadere la questione. Intendia-moci: non ho deposto le armi; piuttosto:ho maturato una mia convinzione. Che èquesta. Se avessero progettato la rivoluzio-ne, non solo si sarebbe saputo, ma qualcu-no lo avrebbe rivendicato. Se avessero or-ganizzato difese parallele ma alternativealle forze armate per contrastare un presuntopericolo fascista, di certo oggi ci sarebbeuna piccolissima, simbolica, ma gratifican-te pensione. Se dunque nulla di tutto ciò èstato, nei misteriosi incontri avvenuti al-

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Nedo Bocchio

82 l’impegno

l’epoca in cui ero neonato si parlò - questaè la convinzione che ho maturato - del-l’unica, davvero unica, cosa che allora eraveramente segreta e destinata a rimanereper sempre segreta. Il segreto è che si parlò- di questo mi sono convinto - di come nonfarsi fottere (chiedo scusa per la parola ri-tenuta non consona a un educato uso dellalingua italiana, epperò efficace) dal Parti-to. Cioè di come non farsi fottere da chi aRoma, non essendo stato nella Resistenza,era molto infastidito da questi tali che del-la montagna e dei loro scarponi ne stava-no facendo un mito, e che insistevano nelvoler far spirare quel loro “vento del nord”,che poi è nient’altro che la gelida e fasti-diosissima tramontana (e garantisco che aRoma è davvero fastidiosa), l’unico ventoche riesce a spazzare il sempre presentescirocco, attaccaticcio, molliccio e putre-facente, ma consustanziale allo spirito del-la Città Eterna. Aspirazione del tutto vel-leitaria. Che si sappia, a memoria d’uomoe di cronaca, il vento di tramontana non hamai spirato sulla città per più di tre giorniconsecutivi6.

Gli incontri tra comandanti non produs-sero nulla. Entrambi, mio padre e Nello,furono fottuti, sia pure con modalità e quan-tità diverse, pochi anni dopo. Non dal Par-tito, naturalmente, ma dal governo De Ga-speri. La legge di amnistia per i fatti suc-cessi nel corso della guerra civile garantìimmunità e scarcerazione ai combattentirepubblichini; e non evitò processi, con-danne, contumacia e espatrio ai combatten-ti partigiani. Come si sa, nessuna legge èperfetta.

Tuttavia, non devo perdermi in anni cosìlontani, e per questo torno subito al 1966,

al mio reale incontro con Anello Poma cheavvenne nella sezione di Pray del Partitocomunista, in occasione di un programmadi incontri, che lui avrebbe tenuto, attornoalle figure di Marx, di Lenin, di Gramsci ealla storia del movimento operaio.

Allora ero, o da poco avevo cessato diesserlo, iscritto alla Federazione giovaniledel Partito socialista. Comunque sia, nel-l’anno dell’unificazione tra Psi e Psdi la-sciai quel lido. Non ricordo quando entraitra i giovani socialisti. Ricordo solo che erastata una cosa curiosa. In quegli anni di pri-ma formazione civile, i miei punti di riferi-mento giornalistici erano l’Epresso, anco-ra in formato lenzuolo; le ultime annate delMondo, e l’ Astrolabio, la rivista di Ferruc-cio Parri alla quale ero abbonato. Dunque:Parri, non ancora sinistra indipendente,mito del Partito d’azione, del liberal-socia-lismo e di Giustizia e Libertà, piuttosto chePartito comunista e Brigate Garibaldi. Que-sto, più o meno, il mondo che mi stavocostruendo. A questo mio mondo del tuttoprivato, un giorno bussarono due signori.Mi spiegarono per quali ragioni un giova-ne come me avrebbe dovuto entrare nel Psi,ovvero nella sua federazione giovanile.Uno dei due signori era un socialista noto,nel mio piccolo villaggio; l’altro era Alber-to Treves. Presi la tessera del Partito socia-lista. Ciò che quel giorno non mi dissero, eche scoprii alla prima riunione, fu che ero,sì, entrato a far parte del partito socialistaitaliano, ma in modo delegato - per cosìdire. La mia prima e vera appartenenza erada considerarsi alla corrente della sinistralombardiana, e in quanto membro di que-sta corrente, anche al Partito socialista.

Molti tra i miei coetanei erano iscritti ai

6 A questo proposito non ho alcuna citazione da fare, ma una esortazione accorata:leggete CARLO LEVI, L’Orologio, Torino, Einaudi, 1950, 1989.

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giovani comunisti, alla Fgci. In queglianni, in una vallata industriale come laValsessera, era normale che attorno ai di-ciotto anni si fosse iscritti a qualche cosadi politico. Chi non lo era a un partito loera all’Azione cattolica o all’Acli, organi-smi assolutamente politici e partitici. Ciòche mi divideva da questi miei coetanei erala diversa pratica politica. Loro amavanoil fare minutamente organizzativo che con-traddistingueva i comunisti. Una sezionedi paese appena rispettabile aveva allorala stessa impronta, per quanto riguardava igiovani, di un oratorio. E poi avevano lefeste dell’Unità, la diffusione del giornalee mille altri appuntamenti militanti. Insom-ma, una vita operosamente religiosa. Tuttecose che mi infastidivano molto e che con-sideravo una grande perdita di tempo quan-do non un attentato alla libertà individuale.

Proprio per queste ragioni, nell’occasio-ne di serate che nulla promettevano se nonnoia mortale, gli amici pensarono che quel-la doveva essere roba per me, e mi invitaro-no. Tuttavia, non ci sarei andato, se nonavessi conosciuto Anello Poma quale mi-sterioso frequentatore della mia casa; senon l’avessi conosciuto, devo aggiungere,come personaggio che “prendeva cantona-te”, secondo il colorito linguaggio di miamadre - che continuava a riproporre, senzasaperlo, l’altrettanto colorito e simbolicolinguaggio in uso tra i comunisti nei primianni del dopoguerra. Per quel che ricordodi quei racconti - per mia madre nient’al-tro che la memoria di anni ormai lontani -l’unico altro personaggio a “prendere can-tonate” era Umberto Terracini. Poma e Ter-racini. Loro due non avrebbero mai sospet-tato di viaggiare in coppia, una coppiaammaccata dal non saper svoltare alle can-tonate senza sbatterci contro. Per me unagaranzia di affidabilità.

***

Mi aveva affascinato, l’Anello Poma pro-fessore. Non al punto di cancellare le dif-ferenze che sentivo troppo forti tra i mieiinteressi e quel lavorìo minuto, e a mioavviso privo di ogni pensiero o quantome-no di coinvolgimento attorno alle motiva-zioni, della sezione comunista; epperò, micostringe a riflettere che ci sono tipi nelPartito comunista che io non conosco, al-tri tipi che lasciano intravvedere altri oriz-zonti, altre motivazioni che non il geome-trico allinearsi, altre relazioni e altri senti-menti. L’uomo delle “cantonate” mi eraapparso un provvidenziale demolitore diconformismi.

Ciononostante, una cosa allora sfuggivaalla mia comprensione e alla mia attenzio-ne. Una cosa che è centrale nel fare politi-ca. Nella politica laica non meno che nellapolitica fideistica; in un partito d’impron-ta democratica quanto in un partito d’im-pronta religiosa o totalitaria. Questa cosaè relativa a quanto comandi. Cioè, quantopotere hai. Perché la politica è esattamentequesto: la partecipazione al potere. Il po-tere esercitato. E un politico è tale per quan-to potere esercita e solo se può esercitaredel potere è un politico. Certo, ci sono al-tri poteri che sembrano confondersi con ilpotere di chi fa politica. Essere influenti,ad esempio, appare un grande potere, e ingenere lo è. Chi è in grado d’influenzareuna o più persone, influenzarle in una datasituazione o nei fatti quotidiani, è indub-biamente in una condizione che può esse-re definita di potere: il potere di agire, es-sendo ascoltati, su persone che in generesono in posizioni di comando. Tuttavia talecondizione, tipica del consigliere, nondeve ingannare. Chi prenderà la decisionesarà pur sempre il consigliato, non il con-sigliere.

Alla scomparsa, i giornali biellesi han-no tratteggiato, con un sincero tocco di pa-

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thos, la figura di Anello Poma come quelladi “un politico eterodosso che nelle can-didature alle elezioni politiche gli vennesempre preferito qualcun altro”. Una bellasintesi giornalistica buona per il grandepubblico; un’immagine d’effetto priva diqualsiasi capacità investigativa; un assem-blaggio di parole che vorrebbero sanzio-nare, ma non sanzionano niente. Urge chia-rire. Non è vero che ad Anello Poma “glivenne sempre preferito qualcun altro” almomento delle candidature. Su questo par-ticolare punto, la vita politica di AnelloPoma, è stata molto poco competitiva, perniente conflittuale e priva della pur mini-ma possibilità di poter correre l’avventu-ra. Perché Anello Poma non ebbe mai l’op-portunità di potersi misurare, al momentodelle candidature, con gli altri candidatiall’interno del partito. Semplicemente,Anello Poma non è mai stato candidato enon è mai entrato in una rosa di personecandidabili alla Camera o al Senato. Laverità pura e semplice è che ai vari perso-naggi che hanno governato la Federazionecomunista biellese non sarebbe mai passa-to per la mente di candidarlo. Anzi, possospingermi più in là e affermare che non loavrebbero nemmeno candidato al consigliocomunale di Biella - incarico che ha rico-perto per più di quarant’anni - se non fosseentrato in quell’istituzione nelle elezionidel dopoguerra, quando Nello era soprat-tutto Italo, comandante partigiano di gran-de prestigio.

Nel 1966, all’epoca del corso alla sezio-ne di Pray, Nello aveva 52 anni e da dueera privo di un incarico politico effettivo.

Cioè, per dirla in termini realistici, nonaveva incarico per esercitare in modo signi-ficativo una funzione di comando. Nel1964, uscito dalla segreteria regionale pie-montese - vi era stato quattro anni, con UgoPecchioli quale segretario generale, da chenel 1960, per la prima volta, l’organismoera stato creato -, aveva assunto la respon-sabilità della Lega dei comuni democrati-ci, associazione degli enti locali di sinistra.L’uomo che nel 1955 diventa segretariogenerale della Camera del lavoro di Biellain un’azione di rinnovamento il cui senso“andava ricercato, oltre che in un ringio-vanimento dei quadri dirigenti, nel proces-so di revisione autocritica che la Cgil e ilPartito comunista andavano compiendo,sotto la spinta del deterioramento dellacapacità di presa del sindacato”7; che alcongresso del 1956 svolge una relazioneche “si caratterizza per il tono e i contenu-ti nuovi rispetto al passato”8; relazione che“bene rappresenta sul piano locale la svol-ta autocritica che la Cgil sta compiendoattraverso un coraggioso dibattito; [e che]nello stesso tempo rivela i margini di au-tonomia di cui il sindacato locale si riap-propria”9; è lo stesso uomo che appenaquattro anni dopo, all’inizio, ormai eviden-te, di un ciclo ben altrimenti positivo peril sindacato, sarà oggetto di discussione “invia Belletti Bona, nella sede della Federa-zione comunista, [dove] in una riunionedella segreteria con un inviato della dire-zione del partito, si decide di cogliere l’oc-casione del V congresso camerale e nazio-nale per promuovere un avvicendamentodei quadri sia alla direzione della Camera

7 AA.VV., L’altra storia. Sindacato e lotte nel Biellese 1901-1986, Roma, Ediesse, 1987,p. 221.

8 Idem, p. 222.9 Ibidem.

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del lavoro che nei tessili, categoria che conin suoi cinquantamila addetti rappresental’ossatura industriale ed economica bielle-se e attraverso la quale si fa anche politicasul territorio”10. La sostituzione di AnelloPoma con Adriano Massazza Gal risulta“discussa e conflittuale [...] non tanto per-ché quest’ultimo sia un quadro “esterno”proveniente dal partito, ma in quanto con-siderato, da un gruppo, come elemento dicontrapposizione alla vecchia guardia deisindacalisti formatisi nel periodo clande-stino e post-Liberazione”11.

La parabola politica - politica nel sensodi ruolo decisionale - di Anello Poma ini-zia nel 1945 e termina nel 1960. I quattroanni torinesi, dal 1960 al 1964, non saran-no altro che il primo “scivolo”, per dirla intermini sindacali odierni, verso la pensio-ne; ovvero verso l’estromissione totale daqualsiasi organismo: fosse esso di livellodecisionale o di compartecipazione. Lapensione arrivò nel 1968. La Federazionecomunista si liberava di Poma e finalmen-te “scantonava” il tizio che, secondo miamadre, “prendeva cantonate”.

***Allora, di tutto questo non ne sapevo

niente. Così come continuavo a ignorarequale fosse l’essenza del convivere, qualifossero le regole del coesistere, dentro a unpartito. Non ignoravo certo il problemarappresentato da gruppi e coalizioni - “ani-me” o “sensibilità”, come si usa dire oggicon linguaggio sempre più menzognero -che si confrontano, si contrappongono e sicombattono, visto che la posta in gioco nonè affatto l’armonica composizione del con-flitto, ma il dominio. Tuttavia, ne avevo una

percezione irreale: idealistica, come si di-ceva allora. Nel luglio del 1968 ne toccaicon mano l’essenza quando, con verosprezzo del pericolo e spegnendo ognibarlume di ragione, accettai di essere no-minato segretario provinciale dei giovanicomunisti. Non ero iscritto alla Federazio-ne giovanile comunista. L’unica tessera chemi trovavo ad avere in tasca era quella delClub alpino italiano. Non svolgevo mili-tanza politica in senso tradizionale. Solo,mi era capitato di partecipare a un paio dicose locali attorno a temi di attualità. Traqueste, la campagna a favore del Pci per leelezioni politiche. Forse, a una di questeiniziative, avevo addirittura preso la paro-la (ho sempre avuto grandi problemi a par-lare in pubblico). Può darsi che questo siastato sufficiente a farmi notare. Questo ilmio errore. Qualche tempo prima della riu-nione che mi avrebbe “nominato” mi pre-sentai in federazione: tranne Poma, che giànon era più funzionario, e Tempia, nonconoscevo nessuno; tutte le persone colàpresenti mi erano completamente ignote,così come io ero del tutto sconosciuto aloro - se non per il cognome che porto.Conoscevo però alcuni giovani che con meavrebbero composto quella che dovevaessere una direzione. Mi iscrissi alla Fede-razione giovanile dopo che ne divenni se-gretario. Già questa cosa sarebbe stata suf-ficientemente buffa, se non ce ne fosse sta-ta un’altra decisamente più seria: ed era cheio non avevo la più pallida idea di qualefosse il lavoro che doveva svolgere un se-gretario di federazione giovanile. Insom-ma, che cosa si doveva fare nel corso di unagiornata? Confesso che ancora oggidì non

10 Idem, p. 241 (nota 4: testimonianza scritta di Elvo Tempia, segretario della Federazionecomunista in quel periodo).

11 Idem, p. 241

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ho idea di come possa trascorrere la suagiornata un segretario provinciale di parti-to, di come possa occupare il suo tempo.Comunque, con i miei compagni di avven-tura qualcosa ci eravamo ingegnati a fare,salvo che, quel qualcosa, cozzava inesora-bilmente contro la politica - e per essere piùprecisi: contro ciò che si intendeva perpolitica - del Partito comunista. Quelli era-no stati anni fecondi per la teoria politica,e la sirena operaista aveva sollecitato le mieorecchie col suo canto. Un vero e propriomarasma. Era qualcosa che si sposava be-nissimo con la radicalità e l’eclettismo del-la scuola azionista. Anche i miei compagnidella federazione giovanile, studenti o nonstudenti che fossero, erano ammaliati dal-la sirena operaista12. Incontrare AnelloPoma fu per noi del tutto naturale. Quellaera forse la quarta ondata operaista. C’erastata quella delle origini: Rigola e la fon-dazione del sindacato; quella dei Consigli;quella, in verità anomala, degli anni tren-ta, del Front Populaire e della guerra diSpagna. Per gli apparatnik della federazio-ne, Poma era uno stalinista. Ma la cosa cu-riosa, e comica, era che quel termine nonera affatto usato in modo strumentale perdenigrare un nemico interno. Loro crede-vano davvero che Poma rappresentasse le

vecchie istanze comuniste, la Terza Inter-nazionale e cose del genere. Per Poma essierano, più modestamente, degli “impiega-ti” o dei “Culi di Pietra”, quando lasciavalibero sfogo alla sua vena sarcastica. UnCulo di Pietra che dava a Poma dello stali-nista. Era davvero interessante che trascu-rassero - o ignorassero - il fatto che il per-fetto mimetismo, la capacità di essere alcentro dello schieramento nei tempi giu-sti, la paziente e silente attesa, il saper ta-cere quando conviene tacere e saper parla-re quando va detto ciò che è gradito a chiti tiene in posizione di comando, sono leproprietà che hanno fatto di un uomo unostalinista. E ancora lo fanno, giacché que-sto tipo d’uomo, intriso in ogni più intimafibra di queste proprietà, è sempre vivo eattuale. È qui, in vigile attesa, e lotta connoi. E non importa chi sia il “noi”. Qualun-que “noi” è felicemente partecipato daquesto genere di uomini. In quegli anni, sisono trovati a esserne loro gli interpreti, iCuli di Pietra - certo involontari, forse in-consapevoli. Per il resto, non avevano ideadi che cosa si muovesse sul terreno politi-co; e nei confronti di Poma non riuscironomai a capire che diavolo intendesse e checosa volesse. Tacciarlo di stalinismo diven-tava l’unico modo possibile di etichettare

12 L’operaismo degli anni sessanta vive attorno ad alcune riviste di teoria politica. Larivista capostipite, Quaderni Rossi, diretta da Raniero Panzieri, vede la luce dal 1961 al1964. Dal gruppo di Panzieri si staccheranno Mario Tronti e Romano Alquati che darannovita, con Massimo Cacciari e Toni Negri, e più tardi Alberto Asor Rosa, a Classe Operaia(1964-1967), poi a Contropiano (1968-1971). Un altro gruppo proveniente da QuaderniRossi, Pino Ferrari, Lucio Libertini, Franco Ramella, costituirà una corrente operaista nelneonato Psiup. Alla fine degli anni sessanta, l’influenza dell’operaismo sarà determinanteper l’azione politica della Sinistra radicale. Organizzazioni forti e strutturate quali PotereOperaio e Lotta Continua possono essere comprese solo avendo a mente quella genesi.Nel Pci, tra 1967 e 1968, entreranno - aderendo alla sua federazione giovanile - consistentigruppi operaisti che s’erano formati su Classe Operaia e Contropiano. Sarà una genera-zione politica liquidata manu militari tra il 1969 e il 1970 dalle manovre preparatorie perla successione di Enrico Berlinguer alla segreteria generale retta da Luigi Longo.

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ciò che sfuggiva alla loro comprensione.A dicembre di quell’anno era in program-

ma il congresso. Era stato un anno densodi avvenimenti. In Italia e nel mondo. Sulfronte politico interno e sul fronte dellapolitica internazionale. Nella notte del 20agosto, un martedì, i carri armati del Pattodi Varsavia avevano invaso Praga. Il gior-no successivo ci troviamo in federazione.Cosa fare? In via Eugenio Bona le stanzesono deserte. C’è solo Elvo Tempia, in que-gli anni deputato. “Che cosa si fa”? Tem-pia è seduto alla sua scrivania. “Aspettia-mo”, dice. Della sua consueta carica decla-matoria non c’è traccia. Non sorride nem-meno. E allora, aspettiamo. Aspettiamo cheuna telefonata ci dica che cosa pensare, eche cosa poi dovremo andare a dire. Aglialtri. Ai militanti. Al “popolo comuni-sta”13. Ricordo con imbarazzo la miseria diquell’anno. Mentre il mondo esplodeva, etutti noi eravamo a un tempo artificieri evittime dell’esplosione, “il mondo dellaSinistra”, il mitico mondo della mitica Parteche tutto vede, prevede e provvede, stavaa contemplarsi l’ombelico. Ci stavamo acontemplare l’ombelico, o a difendere conle unghie e con i denti il sottile strapunti-no che rendeva meno penoso lo stare assi-si sulla dura pietra del comando. Che qual-cuno, all’improvviso, pensò minacciato.Per quanto il tempo abbia sfocato i ricordie le sensazioni, quel congresso di dicem-

bre mi è tornato spesso in mente come unosgangherato teatro dell’assurdo. O almenocosì mi è apparso finora. Ma ora, ora chenecessariamente devo mettere in relazionei fatti che hanno coinvolto quel gruppo, eche in modo traslato sono in qualche modoi fatti di una generazione politica, con lafigura e l’individuo Anello Poma, il teatroresta sempre sgangherato, però qualchesciabolata di luce rileva, pur sul fondo diassoluta assurdità, qualche motivo dellatrama che ce ne può dare ragione: una siapur esangue ragione. I Culi di Pietra teme-vano. Questo ce lo siamo sempre detti. Esempre ci siamo risposti che tutto ciò eraassurdo, perché da noi, in concreto, nonpoteva venire nessuna minaccia. Nemme-no se, per assurdo, ci fossimo messi in testadi dare l’assalto alla federazione. Ma ora esolo ora arriva la sciabolata di luce. I Culidi Pietra non temevano noi, temevano lui.Temevano il pensionato che ai loro occhiaveva trovato, all’improvviso, truppe dimanovra. Temevano una rivalsa, otto annidopo.

La recita aveva preso il via all’ultimocomitato federale, in occasione del qualeil segretario avrebbe presentato le lineegenerali della sua relazione congressuale.Nell’anno in cui il mondo stava andando afuoco e il Partito comunista se la stava pas-sando proprio male nel rapporto con i gio-vani, a proposito dei giovani della federa-

13 Il tentativo cecoslovacco di riformare lo stato comunista non ha avuto, in Italia e inEuropa, l’attenzione che meritava. In Italia era bastato citare e ricitare, soprattutto dopol’invasione, lo slogan accattivante della “primavera di Praga” per sentirsi in regola. Storiastraconosciuta; ma queste, purtroppo, sono considerazioni dell’oggi. Per quanto riguardai movimenti giovanili e i vari gruppi che li componevano, essi hanno avuto un atteggia-mento da considerare, proprio perché in genere antisovietici, in modo più severo, essendostati più ambigui, diffidenti e indifferenti degli stessi partiti tradizionali. Questa è un’am-missione di colpa. L’unico motivo che posso ricordare a merito del gruppo biellese è l’at-tenzione prestata a Ota Sick, ministro dell’economia nel governo Dubcek, del quale s’erastampata in Italia una sua opera.

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zione, il segretario se ne era uscito con ladefinizione di “ossificati”. Dove avessescovato un aggettivo tanto espressionista,Dio solo lo sa. L’ambiente nel quale risuo-nò la biologica condanna, e che di normaospitava le riunioni del comitato federale,era di per sé emblematico, poiché si tratta-va di una sala lunga e stretta con un tavoloche la percorreva tutta sul lato lungo. Die-tro al tavolo la direzione politica, schiera-ta in una sorta di politbureau in sedicesi-mo; davanti al tavolo le sedie per i membridel comitato. Fu proprio Poma che si alzòe attaccò il giudizio che il segretario inten-deva pronunziare al congresso. Il termine“ossificati” e altre definizioni altrettantostrampalate furono espunte e il giudiziogenerale mitigato. Ma tutto questo - pensoora - non fece che confermarli nei loroastrusi e assurdi pensamenti. E dunque al-lestirono il congresso per “liquidarci”, ter-mine a quei tempi schiettamente in auge, e“riliquidare” Poma. La cronaca di quel con-gresso meriterebbe di per sé un racconto,non per i colpi di scena, che furono deltutto assenti, ma per la noiosissima e ridi-cola conduzione. Tuttavia, questo giudiziolo dò ora, perché allora tutto ciò aveva rap-presentato per me un trauma violento. Con-seguenza di quel congresso fu l’immedia-to ostracismo di Poma; il licenziamentomio e di Brunello Livorno, direttore diBaita. Qualche mese dopo, per Livorno,Giulio Maggia e per me ci fu la destituzio-ne da ogni incarico politico; poi arrivò ildeferimento alla Commissione di control-lo per frazionismo e attività antipartito;indi una specie di processo con la conse-guente radiazione di Livorno, che non ac-

cettò di svolgere una “pubblica autocriti-ca dalle colonne di Baita”, e la non radia-zione per me e Maggia, poiché avevamoaccettato e svolto l’“autocritica”: tutto ciòfu un grottesco scimmiottamento dell’In-quisizione e della Terza Internazionale allafine degli anni sessanta.

Verso la metà del 1970 era tutto finito;la “liquidazione” avvenuta, così che ognu-no di noi se ne andò per la propria strada14.Il progetto politico comune non c’era più.Restava il ricordo che, benché lavorato dalcontinuo macinare della memoria, per mecontinuerà a essere il ricordo di un tempobrevissimo, di una sola stagione che haconsumato illusioni irragionevoli, nellaquale ho conosciuto persone straordinariee ho visto all’opera la violenza ottusa deiCuli di Pietra. Dopo di allora ho spesso rin-graziato - pensate voi alla divinità che viaggrada - di non essere stato conglobato inquella non esimia corporazione.

Adesso che Anello Poma non c’è più,qualcuno mi ha detto: “Sai? Nello ha pro-prio voluto starci nel Partito comunista;l’ha voluto con tutte le sue forze; in certimomenti ha dovuto aggrapparsi con le un-ghie e con i denti, per starci”. Capiscomolto bene ciò che l’amico intende conqueste parole. In misura minima, ne hoavuto esperienza. Dopo la “pubblica auto-critica dalle colonne di Baita”, la mia se-zione, la sezione di Pray, ha tentato per treo quattro anni di non rinnovarmi la tesse-ra. Senza dire una parola. Solo usando quel-le arti silenti di cui sono naturalmente do-tati i Culi di Pietra di tutto il mondo - e nonimporta che essi siano in servizio perma-nente attivo o che ne siano solo aspiranti.

14 Colgo l’occasione per ricordare i compagni della Fgci di quella stagione lontana. Oltrea Giulio Maggia e Brunello Livorno, Paolo Buran, Pier Augusto Donna Bianco, FrancoPezzati, Livio Scanzio, Fulvio Vaglio, Sandra Treves.

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Ma per me era diventata una questione diprincipio, e lì restai finché io, e non altri,decisi di andarmene.

“Tuttavia, bisogna prestare attenzionealla facile mitologia del complotto”, repli-ca un secondo amico, un amico della ge-nerazione resistenziale, la generazione dimio padre. Un amico che, se gli chiedessidi mettere per scritto o di sottoscrivere leproprie opinioni, esattamente come miopadre, direbbe: “È troppo presto per parlar-ne, forse tra vent’anni, se le condizionipolitiche lo permetteranno”. Penso chequesto silenzio abbia avuto e ancora portidelle responsabilità. Penso che, comunquevenga giustificato, abbia permesso l’asce-sa dei Culi di Pietra e abbia reso possibileil loro strapotere. L’amico è più che convin-to che Nello Poma nel Pci non è mai statoamato; ed è più che convinto che, se nel Pcic’è stato per tanti anni, ciò non è successoperché il partito lo ha voluto, piuttostoperché lui è stato tanto caparbio da restar-ci. “Tuttavia” - insiste - “tutto ciò non eraperché qualcuno ce l’avesse con Poma, in-tendo Poma come persona. Certo, a Poma,gruppi organizzati, hanno fatto più voltele scarpe. Tutto questo, però, non avevanulla di personale. Se in quelle determina-te circostanze, invece di Poma, ci fosse sta-to qualcun altro, ebbene, sarebbe toccatoa questo qualcun altro. No. Non bisognapersonalizzare e non bisogna mitizzare, al-trimenti mascheriamo qualcosa di enorme-mente più grave. Mascheriamo quella cheè stata una vera e propria psicopatia”.

La psicopatia del partito. Che questoamico, generazione della Resistenza e di-rigente del Pci, la racconti a me “la psico-patia del partito”, mi lusinga; temo tutta-via che avrebbe ben altra credibilità se fos-se lui stesso a dire, in prima persona, le sueopinioni. Ma così è.

“Attento - dice l’interlocutore -, qui dob-

biamo tirare in ballo un personaggio chenel partito ha sempre goduto di un certoprestigio: l’eretico. Nel Partito comunistasi è sempre avuto un occhio di riguardo perl’eretico; a lui veniva riservato un postoparticolare: nei suoi confronti si manifesta-va persino simpatia e gli interventi chepronunciava ai congressi o svolgeva sullastampa di partito erano seguiti con atten-zione. A un patto: che fosse rigorosamentesolo e non mettesse mai in dubbio il famo-so detto: ‘il partito ha mille occhi’. Dun-que, ne riconoscesse a priori non solo l’au-torità, ma l’inossidabile capacità di avere‘sempre ragione’. I tre o quattro personaggiche daranno poi vita al Manifesto sonosempre appartenuti a questa categoria. Essinon hanno mai discusso la chiesa, ma la li-turgia, il rapporto con i fedeli, le opere. Ipartiti comunisti dell’Europa occidentaleavevano bisogno dell’eretico: ne avevanobisogno per i congegni della vita interna.In Occidente, l’eretico rappresentava ciòche nei regimi dell’Europa orientale eraquell’un per cento di voto contrario, per-messo e organizzato quando necessitava,funzionale a dimostrare che ‘due occhi pos-sono sbagliare, mille occhi mai’. Ci fu unequivoco attorno alla loro radiazione. Nonc’era motivo. Ancora oggi, con il loro gior-nale, essi svolgono la funzione tipica del-l’eretico comunista: il loro discorso è rivol-to esclusivamente ai centri di potere dellaSinistra; nella loro visione non c’è altroche l’intrattenere conversazione con i pa-lazzi della Sinistra per influenzarne ‘la li-nea’ e spingerne la politica verso lidi, ap-punto, eretici. A tutto questo Nello eraestraneo; stava sul lato opposto, rispettoagli eretici; lui discuteva della chiesa e delsuo essere, non della liturgia. Il suo era unosguardo critico posato sulla realtà esterna:la posizione critica dentro al partito ne erauna conseguenza. Non era disposto a ba-

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rattare i suoi occhi con un milione di oc-chi, altro che con mille. Ha portato avantiquesto suo sguardo critico fino alla fine,senza cedimenti e senza accomodamenti.Solo ora, ora che è passato tanto tempodall’epoca in cui il Partito comunista rap-presentava davvero qualcosa, mi risultachiaro un fatto: che sarebbe dovuto tocca-re agli intellettuali svolgere questo ruolocritico. Noi, all’epoca, non avevamo unanozione accettabilmente corretta di criti-ca. Nel Partito comunista italiano, all’ideadi critica, si sovrapponeva l’idea di fron-da. Quale imbarazzante eredità! Qualeamore si nutre in Italia per la fronda! Ma losguardo critico non è la clownerie frondi-sta. Nell’esercizio critico ti giochi semprequalcosa. Invece, gli intellettuali si sonospesso accodati per accomodarsi; mentrenel partito non era tollerato che qualcunopotesse rivolgere uno sguardo critico ver-so l’interno; rovesciare dentro al partito unacritica che originava dall’esterno: dall’eco-nomia, dalla società, dalla politica. Il ca-none prevedeva che la sola critica possibi-le fosse rivolta all’avversario, nei tempi enei modi decisi dal partito. Nello ha attra-versato il partito e la vita sostenendo que-sto scomodo ruolo. Secondo le regole,avrebbe potuto essere fuori in ogni momen-to, perché la logica era: o sei dentro senzariserve ai deliberati dell’ultimo congressoe dell’ultima risoluzione o sei fuori dal par-tito. Lui ha avuto l’abilità di non farsi met-tere fuori. Nei primi anni settanta, avevosaputo di una sua certa vicinanza ai giova-ni biellesi che militavano in Potere Opera-io. Avevo immaginato che quei giovaniavessero trovato in lui l’uomo e il combat-tente che sapeva ascoltarli. Tutto questo eraconsiderato dal partito inconcepibile escandaloso. Anch’io non capivo: ero per-plesso e confuso. Lo incontrai per parlar-ne, gli posi delle domande, volevo capire.

In quella che era stata una lunga chiacchie-rata disse una frase che mi colpì con tuttala forza dell’evidenza. Disse: “Sai, dobbia-mo ricordarci che il partito è solo un mez-zo”. Aveva detto “solo un mezzo”: cioèesiste fin che serve; lo si usa finché sia unostrumento che produce. Il fine non è micail partito; il fine è qualcos’altro. Nel nostroultimo incontro gli ho ricordato quel lon-tano scambio di vedute, e gli ho confessa-to che lezione sia stata per me. Poi, certo,entrava in gioco anche il tratto del caratte-re, della formazione e dell’esperienza: cre-scere nelle Brigate Internazionali e poi farsii campi e il confino, e avere per anni avan-ti a te i personaggi che hanno fatto la no-stra storia recente, è qualcosa che segna edà una certa allure. E l’allure di quei per-sonaggi diventa la tua, così che puoi per-fino incutere timore in chi ti sta di fronte.Forse qualcuno la intendeva come distac-co o alterigia. Anche su questo hanno gio-cato”.

È vero. Nello Poma aveva un’allure nonusuale nel mondo politico di Sinistra, un’e-leganza spontanea e una sincerità totale neirapporti umani. Nulla era più estraneo allasua indole dei comportamenti gesuitici -vera essenza degli italici costumi e viaticonecessario per concrete fortune nella poli-tica nostrana. Era esigente. Coniugherei co-sì la sensazione di distacco, ricordata dal-l’amico resistente, che poteva suscitare.Nella conversazione si concedeva. Volevadire e voleva ascoltare. Per questo era esi-gente. Sulla Spagna mi ha fatto sudare. Iochiedevo, ma la domanda tradiva la scarsaconoscenza del fatto o del suo corollario.“Ma allora, se non sai niente, di cosa par-liamo...”. Non accettava di doverti spiega-re il fatto; quello lo dovevi già conoscere.Perché lui voleva chiacchierare, conversa-re, discutere, polemizzare, litigare. Volevaun rapporto passabilmente alla pari. Non

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Ricordo di Anello Poma

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era nei suoi geni la figura del maestro. Cre-do anch’io che gli anni della Spagna e glianni che seguiranno, fino alla Resistenza,siano il periodo formativo. In questa affer-mazione ci sarebbe persino una buona dosedi banalità se non si tenesse presente l’ec-cezionalità del periodo e delle frequenta-zioni. C’era in Poma qualcosa che solo ra-ramente si può rintracciare in altri perso-naggi politici.

Nell’autunno del 1996, Nello mi offrì diaccompagnarlo in in Spagna. Lo Stato spa-gnolo concedeva la nazionalità onoraria edeffettiva a chi, dal 1936 al 1939, era accor-so a difendere la Repubblica. Furono do-dici giorni di incontri istituzionali e dimanifestazioni, e per me il palesarsi di unmondo affatto speciale15. Erano passatisessant’anni dall’alzamiento, sessant’annidall’inizio di una guerra tragicamente per-sa. Ma quel novembre del 1996, trecento-cinquanta persone provenienti dai quattroangoli della terra, e fra esse otto italiani, siriversarono, con il loro numeroso seguitodi accompagnatori, su Madrid, Albacete eBarcellona. In quell’occasione ho visto econosciuto un tipo umano che credevoappartenere alla letteratura solamente. Lìho visto Nello Poma immergersi in una fol-la che, nonostante il numero e le azionicomuni, risultava composta di individui.L’ho visto muoversi nel suo elemento na-turale: restando individuo.

S’è scritto molto attorno alla partecipa-zione di non spagnoli alla guerra civile diSpagna, e com’è naturale la domanda piùfrequente ha riguardato le motivazioni chehanno spinto quarantaduemila persone aoffrirsi volontarie per combattere. Basta

l’organizzazione a sollecitare e a raccoglie-re tante giovani, e meno giovani, energie?Basta un appello per buttare all’aria fami-glia, affetti, trantran quotidiano sia purecon scarse prospettive?

Ho visto un’umanità particolare, in queidodici giorni spagnoli. Ho visto l’Interna-zionale romantica: uno straordinario insie-me di individui che, evidentemente, vivo-no nella vita normale, quando i tempi sononormali; pronti a entrare in una vita straor-dinaria, quando i tempi lo richiedano. Unasorta di fiume carsico, che appare e scom-pare a seconda della natura del terreno sulquale, e sotto al quale, si trova a scorrere.Un fiume capriccioso, ribelle, indomabile.Una personalità. Un individuo. Se non loavessi accompagnato in Spagna non avreimai sospettato l’esistenza dell’Internazio-nale e non avrei associato Nello Poma aessa.

Adesso so che, per quanto dissimulata, lasua era una natura romantica, e dunque unanatura libera e polemica, contraddittoria eintransigente, concettuale e concreta.

***Per i romantici, i luoghi dove avvennero

grandi fatti si ammantano di un’aura parti-colare e assumono essi stessi un’anima. Ciòche è stato non andrà perso: qualcun altroprenderà il suo posto. Sulla credenza, den-tro a un vaso di vetro, è rimasto un ramettodel Vernet. Se la mia scarsa capacità di ri-cerca botanica non m’ha tradito, dovrebbetrattarsi di un cipresso di Monterey. Il tra-scorrere delle stagioni ha aperto le squame;i semi sono caduti sul fondo del vaso. Do-vrò decidermi a trovare una terra adattadove posarli.

15 La cronaca dell’avvenimento in Brigadistas en España, in “l’impegno, a. XVI, n.3,dicembre 1996.

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ALESSANDRO ORSI

Un paese in guerra

La comunità di Crevacuoretra fascismo, Resistenza, dopoguerra

2001, pp. VI-286 più tre inserti fotografici, € 20,66

La storia che questo libro racconta va diritta al cuore di un problema storiograficoattorno a cui si è sviluppata la discussione negli ultimi anni: la riflessione sulletre guerre (civile, patriottica, di classe) e l’uso della violenza (nazista, fascista,partigiana) dopo l’8 settembre 1943.La vicenda, da cui prende le mosse il libro e con cui si chiude, l’uccisione a Cre-vacuore del sindaco, partigiano comunista, da parte della donna-bambina, ha in-dubbiamente il fascino del dramma, ma non è l’asse del libro. È solo il filo attornoa cui si intreccia e si annoda la vicenda di tante altre vite, di altri drammi, di altrestorie di uomini e donne, di giovani e meno giovani, di partigiani e civili, di co-munisti e fascisti che devono fare i conti con la rottura delle regole della convi-venza e l’emergere di una violenza spietata, apparentemente gratuita e azzerante.La contrapposizione amico-nemico di cui si alimenta la spirale dello scontro den-tro la comunità esplode per vie apparentemente misteriose, che fanno riemergereil ricordo di conflitti radicali di nuovo vivi sotto la polvere del tempo.Proprio la comunità è il personaggio principale della storia, anzi delle storie rac-contate. Detto così potrebbe sembrare un’operazione astratta: è noto che la comu-nità è un concetto polivalente, adatto e spesso adattato a significati plurimi e perciòimpreciso e sfuggente. Non è così perché l’autore ha avuto ed ha ancora con quel-la comunità un rapporto profondo di empatia che sola può consentire di cogliernele voci, le confidenze, le articolazioni e il senso di comportamenti apparentemen-te contraddittori.

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l’impegno 93

Vizi di forma...

Un mese fa un periodico locale pubblicòuna dichiarazione dell’assessore alla Cul-tura della Provincia di Vercelli, Riva Ver-cellotti, nell’ambito della polemica sullarevoca dell’adesione del Comune di Bor-gosesia all’Istituto e a quanto accadde altermine della seduta del Consiglio comu-nale borgosesiano.

In essa l’assessore, in riferimento a duerichieste dell’Istituto alla Provincia (inol-trate rispettivamente il 13 giugno e il 1 ot-tobre), informava che non erano state ac-colte a causa di “difetti procedurali e for-mali”. Abbiamo immaginato che la comu-nicazione “formale” diretta a noi fosse incorso di invio, da parte degli uffici dellaProvincia, e abbiamo atteso.

A tutt’oggi non ci è però pervenuto nulla.Prendiamo quindi atto che la risposta

alle nostre richieste è negativa e che per laGiunta provinciale di Vercelli è prassi nor-male (anzi “procedura formalmente esenteda difetti”) comunicare le proprie decisio-ni agli interessati mediante dichiarazioniai giornali e non mediante comunicazioneufficiali dirette, come ci sembra si conven-ga nei rapporti tra enti.

Riteniamo opportuno spiegare quali fos-sero le nostre richieste alla Provincia e qua-le origine avessero.

Come è noto, alla fine del 1999 la Giun-ta provinciale decise di revocare l’adesio-ne all’Istituto. Nella comunicazione invia-ta vi era tuttavia l’impegno a mantenere “lacollaborazione mediante il concorso aduna programmazione comune di singoliprogetti”. L’Istituto propose quindi, con ledue lettere citate, la valorizzazione di unaricerca storica, mediante l’acquisto e la di-stribuzione alle biblioteche di alcune co-pie di un volume, e il concorso nella rea-lizzazione di una ricerca sugli amministra-tori locali (consiglieri comunali e provin-ciali) dal 1946 al 1975. Ovviamente se cisarà comunicato quali sono stati gli erroridi forma commessi riformuleremo le richie-ste e resteremo in attesa di conoscere lareale disponibilità della Giunta provincia-le a “mantenere la collaborazione”.

Inoltre nella citata dichiarazione l’asses-sore affermò: “Credo che ci sia troppo irri-gidimento: anche l’Istituto dovrebbe fareun passo verso le amministrazioni di cen-tro destra”. Non siamo riusciti a compren-dere se l’accusa di “irrigidimento” fosse ge-nerica o rivolta esplicitamente all’Istituto.Nel secondo caso sarebbe davvero singo-lare, considerando che la Provincia di Ver-celli ci ha costretti ad aprire una vertenzalegale per ottenere l’erogazione della quotaassociativa per il 2000, dovuta a termini dilegge, poiché la comunicazione della re-

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attualità

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voca era stata inviata oltre i termini previ-sti dal codice civile per poter avere effettodal 1 gennaio del 2000.

Se si tratta di compiere passi per supera-re irrigidimenti, non ritiene l’assessore cheuna prova di buona volontà potrebbe esse-re proprio quella di riconoscere all’Istitu-to quanto dovuto, senza costringerlo aitempi probabilmente non brevi dell’itergiudiziario? Ancora una annotazione:l’Istituto continua ad avere non solo il ri-conoscimento da parte della Regione Pie-monte, con specifico stanziamento, maanche incarichi dalla stessa, ad esempio perla realizzazione di corsi di educazione ci-vica nelle scuole di ogni ordine e grado,per consulenza scientifica per progetticome quello dei luoghi della memoria del-la seconda guerra mondiale, della Resisten-za e della deportazione, ecc.

E, se non sbagliamo, si tratta di un’am-ministrazione di centro destra. (9 gennaio

2002)

Non sono “leggende” ma falsità

Nel film per la tv “Maria José: l’ultimaregina” trasmesso da Rai uno il 7 e l’8 gen-naio ancora una volta si è fatto riferimentoa incontri (in realtà mai avvenuti) tra l’al-lora principessa di Piemonte e il comandan-te partigiano Cino Moscatelli.

Il film ha usufruito della consulenza sto-rica di Arrigo Petacco, che già in altre oc-casioni aveva trattato di questa vicenda: adesempio in una trasmissione televisiva diqualche mese fa. Eravamo già intervenutiin quell’occasione con un nostro comuni-cato (1 marzo 2001) e riteniamo che vi siaora poco da aggiungere, se non qualche an-notazione “di colore” sulla caratterizzazio-ne del personaggio Moscatelli (ben diver-so dall’attore che l’ha interpretato) e sulla

“festa della Liberazione” che Moscatelli ei suoi uomini avrebbero organizzato, confisarmoniche, canti e balli, sulle montagne(è parso di capire valdostane!...) il 26 apri-le 1945. È noto a tutti che quel giorno leformazioni della Valsesia e dell’Ossola era-no impegnate nella liberazione di Novarae che poi parteciparono alla liberazione diMilano.

Che su Moscatelli, uno dei comandantipartigiani più popolari, siano fiorite mol-te leggende è noto, ma in questo caso nonci troviamo di fronte ad una di queste, ben-sì a pure e semplici falsità.

La storia vera è quella raccontata dallostesso Moscatelli a Cesare Bermani, che hascritto l’articolo già pubblicato nel primonumero de “l’impegno” dello scorso anno.(9 gennaio 2002)

Questa è la storia

La Federazione di Vercelli del Movi-mento sociale-Fiamma tricolore ha recen-temente inviato la seguente lettera ai Co-muni della provincia di Vercelli: “EgregioSig. Sindaco, non possiamo, ovviamente,sapere se il Comune da Lei amministratoversa annualmente un contributo all’Isti-tuto Storico sulla Resistenza e la societàcontemporanea ‘Cino Moscatelli’, consede in Borgosesia.

In caso positivo la invitiamo a prenderein seria considerazione l’ipotesi di NONrinnovare la sottoscrizione per il 2002, sul-l’esempio di quanto deciso dalla Provinciadi Vercelli nel 1999 e, recentemente, da al-cuni comuni vercellesi, tra i quali Quinto.

È necessaria una profonda riflessione suquanto successo, anche nella nostra provin-cia, nei tragici mesi della Guerra Civile.Anche nelle nostre zone i ‘patrioti’ con ilfazzoletto rosso hanno avuto occasione di

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rendersi protagonisti d’azioni aberranti,contro prigionieri di guerra e civili inermi.Ci riferiamo all’eccidio di militari dellaRsi, prigionieri di guerra, avvenuto a Ver-celli ed a Greggio nel maggio del 1945 eda innumerevoli episodi di violenza gratui-ta; citiamo, tra tutti, il caso dei coniugiGalli di San Germano V.se, trucidati dai par-tigiani comunisti sulla base di un sempli-ce sospetto, documentazione che è possi-bile consultare sul nostro sito internetwww.msft.it/vercelli.

Come avrà senz’altro notato la revisio-ne storica di quanto successo nel nostroPaese è, per fortuna, inarrestabile.

La Federazione vercellese del Movimen-to Sociale Fiamma Tricolore è da tempo im-pegnata in una ricerca che vuole fare lucesu quanto successo in provincia nei mesisuccessivi alla fine della Guerra Civile. Ri-teniamo che dopo più 50 anni non abbiapiù storicamente senso continuare a esal-tare fatti, uomini ed episodi della nostraStoria che tutto sono tranne che esaltanti.

Continuare a sovvenzionare un ente di-chiaratamente di parte ed intitolato ad unpartigiano comunista, seguace quindi diuna ideologia che ha provocato, nel mon-do decine di milioni di morti, è del tuttoanacronistico e, senza dubbio, poco rispet-toso nei confronti dei suoi tanti ammini-strati che la pensano diversamente.

Rinnoviamo, pertanto, l’invito a ritirarel’adesione del suo Comune dall’Istituto ed,eventualmente, impegnare i fondi per rifor-nire la biblioteca civica di testi storici im-parziali.

Da parte nostra siamo pronti a contribui-re, se ritiene, facendo dono al Comune dellibro ‘Storie comuniste in bianco e nero’ diLodovico Ellena.

Massimo Bosso e Lodovico Ellena”.Questa volta invece di rispondere noi la-

sciamo la parola ad uno dei comuni ade-

renti, quello di Postua, che ha scritto: “Inriferimento alla vostra lettera dell’ottobre2001 in cui siamo invitati a prendere in con-siderazione l’ipotesi di non rinnovare ilcontributo all’Istituto Storico della Resi-stenza, informiamo che in questa Valle ifascisti bruciarono case e baite, ucciserocivili e pastori, brutalizzarono la popola-zione e deportarono a Mauthausen tre con-cittadini di cui uno solo fece ritorno: pesa-va 35 chili. Questa è la storia che conoscia-mo e la sola che faccia rima con la realtà.

Il fascismo qui e in Valsessera ha lascia-to dietro di sé odio orrori e violenza e an-che se qualche disinformato può ignorar-lo, la gran parte della gente sa come anda-rono le cose e non ha bisogno di alcuna re-visione storica.

Il sindaco D’Alberto”.Ps. Come si vede noi pubblichiamo inte-gralmente la lettera della Federazione delMs-Ft: vedremo se faranno altrettanto conla lettera del Comune di Postua.

* * *“La Stampa” di sabato 12 gennaio ha

pubblicato una lettera del segretario pro-vinciale del Ms-Ft, in cui si informa che ilConsiglio comunale di Albano Vercelleseha revocato il “contributo annuale” all’Isti-tuto, con decisione unanime, e si precisache “è stato proprio il gruppo consiliare delMs-Ft a proporre all’ordine del giorno larevoca, continuando una battaglia che laFiamma Tricolore vercellese sta conducen-do per il trionfo, finalmente, della veritàstorica, da sempre ‘inquinata’ e strumenta-lizzata dalla sinistra, anche, ed è il caso del-l’Istituto Moscatelli, beneficiando di con-tributi pubblici. Adesso, ad Albano, i soldidel contributo revocato saranno usati peropere sociali per anziani e bisognosi delpaese”.

Ad essa ha risposto il direttore dell’Isti-tuto (la lettera è stata pubblicata da “La

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Stampa” il 20 gennaio: “Il segretario pro-vinciale del Ms-Ft annuncia trionfalistica-mente di essere riuscito nell’impresa di farrevocare l’adesione del Comune di Alba-no Vercellese all’Istituto per la storia dellaResistenza e della società contemporaneanelle province di Biella e Vercelli, colpe-vole - a suo dire - di una interpretazione diparte della storia del 1943-45.

Poiché è ampiamente provato che non èpossibile alcuna forma di dialogo con cer-ti nostalgici del regime di Salò, non inten-do rispondere alle affermazioni contenutenella lettera né dal punto di vista storiconé da quello etico né da quello politico.Pongo solo una domanda - affinché i letto-ri abbiano la reale dimensione del signifi-cato economico dell’esito della ‘battaglia’vinta dai neofascisti. Poiché leggo che ‘isoldi del contributo revocato saranno usa-ti per opere sociali per anziani e bisognosidel paese’ quale iniziativa pensa ora di pro-porre il signor Bosso all’Amministrazionecomunale di Albano? Una gara di briscolao una cena per cinque persone? Questo èinfatti quanto probabilmente potrà essererealizzato con la somma ‘risparmiata’ apartire dal 2003: ben 78 euro (pari a 151mila lire)!...”.(21 gennaio 2002)

Si rinnega l’identità nazionale

Il sindaco di Borgosesia, buon ultimodopo i presidenti del Polo delle provincedi Biella e di Vercelli, ha deciso di elimi-nare i contributi a favore dell’Istituto perla storia della Resistenza. I motivi che ad-duce sono sempre gli stessi: l’Istituto svol-ge attività di parte, poi, non perdendo ilvizio del provocatore, ci ricorda che la Val-sesia è sì medaglia d’oro per la Resistenzama anche terra di “crimini partigiani”, in-fine si lascia scappare che lui, Corrado

Rotti, non è solo un uomo di destra ma è“anche un fascista”.

Qualche tempo addietro ho scritto che gliuomini di destra sono privi di cultura isti-tuzionale e che il processo di revisione sto-rico e politico avviato con la nascita delpartito di Alleanza nazionale è di pura fac-ciata. Il sindaco di Borgosesia, rivendican-do la sua appartenenza agli ideali fascisti,lo conferma senza pudore.

Il tentativo di mettere in discussione ivalori della Resistenza in realtà ha apertouno scontro tra chi ritiene indispensabilecostruire una forte identità nazionale e chipensa se ne possa fare benissimo a meno.Anzi su questo punto Forza Italia sta ceden-do, per ragioni di alleanza politica, ai ri-catti di Bossi e dei suoi ministri.

Chi è sorretto da un minimo di buon sen-so (non è certamente il caso di Rotti e ca-merati) sa che senza passato non c’è futu-ro, perché non c’è identità. La società mo-derna ci consente di scegliere liberamenteil passato su cui costruire la nostra identitàe decidere quale sia l’orizzonte minimo divalori comuni necessari a garantire una ci-vile convivenza.

In Francia fu un uomo di destra come DeGaulle a imporre come nuovo orizzonte co-mune l’equazione tra patria e antifascismo:chi non è antifascista è nemico della patria.Su quei valori poggia ancora oggi la Co-stituzione materiale francese. Analogamen-te in Germania, dove l’adesione al nazismofu altissima e la Resistenza quasi inesisten-te, la democrazia fu costruita sul dovere del-l’antifascismo.

In buona sostanza l’antifascismo, in Eu-ropa, rappresenta l’identità minima su cuisi sono sviluppati i dettami costituzionali.Non a caso gli uomini del Polo paiono sem-pre più insofferenti all’Europa e a tutto ciòche essa rappresenta.

Nel nostro paese, l’identità nazionale è

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più fragile perché non c’è stata né una Ri-voluzione né una riforma protestante. LaResistenza antifascista, come orizzonte ditutti, dovrebbe essere, da noi più che altro-ve, un punto di riferimento essenziale.

Per quanto riguarda poi il tentativo mal-destro del sindaco Rotti di porre sullo stessopiano fascisti e partigiani la risposta mi-gliore la si trova sul romanzo d’esordio diItalo Calvino, scritto nel 1947 ma sempredi grande attualità: Il sentiero dei nidi di

ragno.Il sentiero è la storia di un distaccamen-

to partigiano anomalo: “ladruncoli, cara-binieri, militi, borsaneristi, girovaghi”.Mentre scendono per i sentieri fra i boschi,la notte prima di un combattimento che sipreannunciava durissimo, Ferriera, opera-io e Kim, commissario politico, discutonodi questa gente che poteva “sparare con lostesso furore con lo stesso odio contro gliuni o contro gli altri fa lo stesso”. Ferrierainterroga Kim e chiede: “quindi lo spiritodei nostri... e quello della brigata nera... lastessa cosa?” La risposta di Kim centra congrande chiaroveggenza il problema di cui,cinquanta anni dopo si discute: “La stessacosa, intendi cosa voglio dire, la stessacosa... la stessa cosa ma tutto il contrario.Perché qui si è nel giusto, là nello sbaglia-to. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadi-sce la catena. Quel peso di male che gravasugli uomini del Dritto, quel peso che gra-va su tutti noi, su me, su te, quel furoreantico che è in tutti noi, e che si sfoga inspari, in nemici uccisi, è lo stesso che fasparare i fascisti, che li porta a uccidere conla stessa speranza di purificazione, di ri-scatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi,nella storia, siamo dalla parte del riscatto,loro dall’altra. Da noi, niente va perduto,nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale alloro, mi intendi? Uguale al loro, va perdu-to, tutto servirà se non a liberare noi, a li-

berare i nostri figli, a costruire un’umanitàsenza più rabbia, serena, in cui si possa nonessere cattivi. L’altra è la parte dei gesti per-duti, degli inutili furori, perduti e inutilianche se vincessero, perché non fanno sto-ria, non servono a liberare ma a ripetere e aperpetuare quel furore e quell’odio”.

Quella del giovane Calvino, borghese,colto e di buona famiglia non è l’assolu-zione in atto di tutte le “buone fedi” e ditutti i furori, ma è di volta in volta la sele-zione delle scelte in base ai principi giustio sbagliati che guidano le azioni degliuomini. Il giorno che la destra capirà, saràveramente il giorno della riconciliazione.(Federico Trombini, 21 gennaio 2002)

Soldi e Resistenza

Il quotidiano “la Repubblica” ha dedi-cato la rubrica “Belpaese” del 30 gennaioalla decisione della Giunta comunale diBorgosesia di revocare l’adesione all’Isti-tuto.

Nell’articolo Alessandra Longo scrive:“Chi l’ha detto che un sindaco dichiara-

tamente fascista, vicino cioè alla FiammaTricolore di Rauti, debba stanziare fondicomunali per un Istituto storico della Re-sistenza? Corrado Rotti, primo cittadino diBorgosesia, ha revocato il finanziamentoal ‘Cino Moscatelli’. Lo hanno convinto isuoi amici camerati con una lettera, re-golarmente protocollata dal Comune, cheinvita ‘ad una profonda riflessione’ e parteda una premessa: ‘La revisione storica diquanto successo nel nostro Paese è, perfortuna, inarrestabile’. Allora perché con-tinuare a foraggiare ‘un ente dichiarata-mente di parte e, per giunta, intitolato adun partigiano comunista, seguace di un’i-deologia che ha provocato decine di milio-ni di morti?’.

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Il sindaco Rotti ha convenuto ‘sull’ana-cronismo’ di questo contributo che, a det-ta dei camerati della Fiamma, ‘è poco rispet-toso nei confronti dei tanti amministrati chela pensano diversamente’. Lo stanziamen-to revocato, nel corso di una seduta tem-pestosissima, dal Comune di Borgosesia,era di circa due milioni e mezzo di lire.Soldi che potrebbero essere utilizzati oraper comprare uno stock di magliette conl’effigie del Duce”.

L’articolo ha generato un grande interes-se per l’Istituto: in cinque giorni vi sonostate 4.845 visite al sito e sono giunte moltelettere di solidarietà ed anche contributi asostegno della nostra attività. Tra queste cifa piacere divulgare la prima pervenuta,anche per sottolineare che l’interesse perla nostra attività va ben oltre i confini del-le nostre province:

“Gentile Sig. Presidente, ho letto su unbreve articolo comparso su ‘la Repubbli-ca’ del 30 gennaio 2002, a firma di Ales-sandra Longo, della scellerata decisione delsindaco Corrado Rotti di revocare il con-tributo annuale a favore del Vostro IstitutoStorico della Resistenza. Inutile commen-tare quella decisione! Come cittadino di Fi-renze, e soprattutto come figlio di un ex in-ternato militare, Le chiedo se è possibileinviare un contributo da privato cittadinoper contribuire a compensare, in parte, ilcontributo negatoVi dall’Amministrazio-ne.

Cordialmente. Dr. Leonello Toccafondi.Firenze”.

Un’altra oblazione che riteniamo dove-roso segnalare è quella di alcuni soci delGruppo escursionistico torinese, di benmille euro: praticamente la somma corri-spondente alla quota non versata dal Co-mune di Borgosesia.

A tutti giungano i nostri più sentiti rin-graziamenti. (5 febbraio 2002)

Vergogna!

I consiglieri di Albano Vercellese delMovimento sociale - fors’anche consideran-do che noi avevamo annunciato di nonavere più alcuna intenzione di risponderené dal punto di vista storico né da quelloetico né da quello politico - hanno pensa-to bene di proseguire la polemica.

Ma prima di riportare una dichiarazionevergognosa, facciamo un piccolo passoindietro: tempo fa, pubblicando integral-mente una lettera inviata dalla Federazio-ne vercellese del Ms-Ft ai comuni, ponem-mo l’interrogativo circa l’eventuale pub-blicazione da parte loro di lettere di rispo-sta da parte dei comuni stessi, come adesempio quella del sindaco di Postua.

Abbiamo voluto verificare nel loro sitoe - ovviamente - non ve ne è nemmenol’ombra. Invece abbiamo trovato vari spro-loqui, a partire dalla home page in cui vi èil titolo “Il Gruppo Ms-Ft di Albano fa re-vocare il contributo al Cino Moscatelli edall’istituto cominciano ad inc...”. Moltofini, come si può notare. Nella pagina in-terna si parla, come al solito, di “battagliaper la verità storica” e si sostiene che “al-l’Istituto cominciano a preoccuparsi (se litocchi sui soldi....)”. Il minimo che si pos-sa dire è che sono davvero meschini.

Dopodiché riportano la nostra lettera a“La Stampa”, loro “risposte” mescolate acommenti a dichiarazioni private e vicen-de che nulla hanno a che fare con l’Istitu-to.

Poiché non ci risulta che una di questeloro “risposte” sia stata pubblicata da “LaStampa” e ci spiace che non abbia avuto ladiffusione che si merita, provvediamo noia dare spazio: “La Fiamma risponde: Egre-gio Direttore, devo confessare che la lette-ra del sig. Piero Ambrosio, direttore del-l’istituto Moscatelli mi ha lasciato piutto-

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sto perplesso: non che mi offenda essereconsiderato un ‘nostalgico del Regime diSalò’, non mi stupisce neppure che il sig.Ambrosio sostenga che ‘è ampiamente pro-vato che non è possibile alcuna forma didialogo’, mi piacerebbe sapere quali sonoqueste prove, quando si fanno delle affer-mazioni bisogna supportarle, questo do-vrebbe saperlo bene uno che dirige un isti-tuto storico. Tuttavia, nonostante le premes-se, il sig. Ambrosio, poi, mi rivolge una do-manda, alla quale non ho problemi a rispon-dere, noi della Fiamma siamo tolleranti edialoghiamo anche con i nostalgici del co-munismo. Non so cosa il Comune di Alba-no intenda fare con i 78 euro risparmiati:quella della gara di briscola non è una brut-ta idea, anzi! Non so neppure cosa avrebbefatto l’istituto Moscatelli con 78 euro, sup-pongo che avrebbe acquisito documenta-zione storica. Ebbene, non si preoccupi ilsig. Ambrosio, la Federazione vercellesedella Fiamma Tricolore è disposta a dona-re l’equivalente in libri che trattano argo-menti storici all’istituto, libri che, senzadubbio, il ‘Cino Moscatelli’ non possiede.Distinti saluti Massimo Bosso Ms-Ft Ver-celli Gruppo consiliare di Albano Vercel-lese”.

Ovviamente non c’è bisogno di commen-tarla. Non possiamo però non notare cheforniscono ancora una volta direttamentequelle “prove” che richiedono a noi.

E veniamo alle questioni serie.In una lettera pubblicata da “La Stampa”

hanno scritto: “In relazione alla replicadell’Istituto storico della Resistenza diBiella e Vercelli contro l’iniziativa del Mo-vimento sociale - Fiamma Tricolore, appar-sa sulla Stampa di domenica 20 gennaioscorso, sono opportune da parte nostra al-cune brevi considerazioni. A noi non inte-ressa in primo luogo l’ammontare dellacifra stanziata a favore dell’Istituto, ma il

principio, il metodo. È intollerabile che unComune, sia Albano o qualunque altro, stan-zi un contributo, più o meno consistente,ad un istituto il cui solo compito è quellodi propagandare verità distorte ad uso econsumo della gente comune su un perio-do travagliato della nostra storia. La veritàevidentemente fa male anche a quasi ses-sant’anni dalla fine dell’ultimo conflitto.Il Ms-Ft, a cui noi consiglieri comunali ab-biamo l’onore di appartenere, si proponesemplicemente di riportare a galla la veri-tà. Noi non vogliamo che i nostri figli sap-piano a scuola solamente fatti distorti e ma-nipolati dai testi scolastici in loro posses-so. Le nefandezze, le atrocità ci sono state,numerose e a guerra ormai finita, da partedelle bande comuniste partigiane. Tre epi-sodi su tutti: Greggio, ex Opn e San Ger-mano Vercellese. Da qualche tempo si diceche i morti, di qualsiasi provenienza poli-tica, siano tutti uguali, ma per i soloni del-l’Istituto evidentemente non è così. Dueultimissime considerazioni. La delibera direvoca non è stata votata solamente dalgruppo consiliare di Fiamma Tricolore, maall’unanimità, vale a dire con il voto favo-revole anche delle altre forze politiche pre-senti nel Consiglio comunale di Albano.Con o senza la benedizione dell’Istituto cifaremo promotori, in qualità di consigliericomunali nel nostro Comune e in qualitàdi esponenti di Ft a livello provinciale, diun’iniziativa affinché venga intitolata nel-la nostra provincia una via, una piazza, unistituto ai nostri valorosi caduti che si sonosacrificati per gli ideali della Rsi. AndreaBarone, Fulvio Marini, Adriano Mognon,Nino Cacciottoli consiglieri comunali diAlbano Vercellese”.

Confermiamo che non intendiamo spen-dere parole (che - considerando gli “inter-locutori” - si rivelerebbero, come sempre,inutili) su alcuna delle questioni toccate,

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né sull’abusata polemica sui libri di testo(cui abbiamo dedicato nel dicembre del2000 un convegno a Vercelli con docentiuniversitari e delle scuole di ogni ordine egrado), né sulle falsità (inesistenti) a noiattribuite o (reali) contenute nella loro let-tera.

Su un punto però non possiamo tacere,poiché fa indignare, considerando ancheche la lettera è stata pubblicata proprio il27 gennaio, “Giorno della Memoria in ri-cordo dello sterminio, delle persecuzionidel popolo ebraico e dei deportati militarie politici italiani nei campi nazisti”: checostoro si permettano di parlare di “valo-re” degli appartenenti alle milizie dellaRepubblica sociale e di “ideali della Rsi”.

Quali fossero gli atti “eroici” compiutidai repubblichini è ben noto ed è documen-tato anche in molte sentenze emesse da varitribunali (ne citiamo una fra tutte: quellacontro gli appartenenti alla tristementenota legione “Tagliamento”, che seminòdistruzione e lutti nella nostra provincia):eccidi, assassinii, torture, stupri, incendi,saccheggi.

E quale fosse il ruolo di quei repartimilitari è altrettanto ben noto: erano al ser-vizio dei nazisti invasori, e con i nazisticollaborarono, tra l’altro, alla deportazio-ne di migliaia di italiani verso i campi disterminio. Parlare di “ideali della Rsi” èsempre inaccettabile, permettersi di farlo il27 gennaio è doppiamente vergognoso. (18

febbraio 2002)

Riflessioni sul “Giorno della Memoria”

Alcune riflessioni sulla seconda edizio-ne del “Giorno della Memoria”, istituito dalParlamento della Repubblica italiana, sul-l’esempio di altri paesi europei, per contra-stare quel “malessere” della memoria che

affligge l’Italia come e più di altri paesi eu-ropei.

Se non si vuole che con il tempo il “Gior-no della Memoria” diventi soltanto gior-nata celebrativa e confusa retorica, occor-rerà continuare a mobilitare energie intel-lettuali per affrontare la difficoltà della rap-presentazione e la fatica della riflessione.Dobbiamo, perciò, avviare da subito il ne-cessario lavoro di approfondimento criti-co per preparare adeguatamente il prossi-mo “Giorno della Memoria”.

Mi sembra che da questo punto di vistasia stata particolarmente significativa lascelta della Città di Biella, su suggerimen-to di Emilio Jona, di ricordare la Shoah at-traverso le testimonianze del film omoni-mo di Claude Lanzmann.

Lanzmann, infatti, non ci mostra se nonmarginalmente l’orrore, ma ci aiuta a riflet-tere sulla Shoah attraverso una serie di te-stimonianze raccolte dalla quotidianità delpresente di sopravvissuti, carnefici, com-plici, indifferenti, giusti. Documentando lavarietà dell’agire umano, Lanzmann ci in-chioda alle nostre responsabilità. Tutto ciòè stato rafforzato dalle narrazioni dirette ditestimoni locali.

Penso si debba lavorare in questa direzio-ne, alla ricerca delle nostre responsabilità.Troppo spesso il senso comune si nutre diun’immagine degli “italiani brava gente”caratterizzata dalla sostanziale estraneitàrispetto a forme brutali di violenza, di esclu-sione ed emarginazione storicamente avve-nute. Così, ritengo particolarmente interes-sante avviare al più presto due filoni di ri-cerca ed iniziativa pubblica.

Il primo è la storia dell’approvazione edell’applicazione in Italia delle leggi an-tiebraiche, che passarono senza alcuna op-posizione parlamentare e senza alcuna ri-serva sostanziale da parte del Vaticano etanto meno da parte della monarchia. Si

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trattò di una persecuzione di lunga durata(dal 1938 al 1945) e che in molti casi anti-cipò quella nazista, che smentisce la tesidel fascismo non razzista e non antiebrai-co.

Il secondo è la storia del sistema concen-trazionario di internamento e deportazio-ne in Italia. Una rete ben organizzata e dif-fusa, a partire dai precedenti nelle colonied’Africa e nei territori occupati nei Balca-ni, connessa al regime fascista e alla suatragica alleanza con la Germania nazista.

Storie di “casa nostra” che testimonianol’importante contributo dato dall’Italia fa-scista al progetto di sterminio nazista. Ri-cordare che in Italia non solo si sono “smi-stati” e “deportati” gli ebrei nei campi disterminio nazisti, ma che anche in Italia,alla Risiera di San Sabba presso Trieste, c’èstato un campo di sterminio, è il migliormodo di non dimenticare. Mi pare che inquesta direzione vada il bel progetto di ri-cerca su Villa Schneider avviato dall’Asses-sorato alla Cultura della Città di Biella conil coinvolgimento degli studenti.

È in questa luce che propongo di fare diBiella un “nodo” della rete degli Istitutiper la storia della Resistenza, ad esempiopromuovendo un convegno nazionale distudi, che preveda però la partecipazionediretta degli studenti locali, su uno dei duetemi, attualmente al centro della ricerca sto-riografica, che mi sembrano essere tra quel-li più adatti al “Giorno della Memoria”.(Andrea Stroscio, 11 marzo 2002)

“Benito Mussolini: l’uomo della pace”

“Ha vinto la Biella antifascista”, così hatitolato il bisettimanale “Eco di Biella”dell’Unione industriale biellese!

Il 1 marzo 2002 si sarebbe dovuta tenerenei locali del Liceo classico “Sella” di Biel-

la una “lezione” del nipote del duce, Gui-do Mussolini, su “Benito Mussolini: l’uo-mo della pace”, promossa dal movimentogiovanile di An nell’ambito del corso sul-la “Destra nella storia” (una decina gliiscritti) dell’Università popolare subalpinae propagandata sui muri della città con ma-nifesti da ventennio. Il tutto sulla base diun finanziamento e di una “convenzioneliberamente sottoscritta tra il Liceo, l’Uni-versità popolare e l’Amministrazione pro-vinciale”, secondo le parole del presidedella scuola.

La stessa Amministrazione provinciale,della cosiddetta “Casa delle libertà”, cheha già negato la propria quota di adesioneall’Istituto per la storia della Resistenza,che ha promosso spettacoli teatrali nellescuole su collaborazionisti, fascisti e anti-semiti, che non ha aderito al progetto fran-co-italo-svizzero per i “Sentieri della Liber-tà”, che ha partecipato in forma ufficialealla messa per i caduti di Salò.

Il presidente dell’Università popolaresubalpina ha, infatti, “sospeso la lezioneper ragioni di ordine pubblico e di oppor-tunità”. Persino il circolo “Giovanni Gen-tile” (vicino ad An) ha negato per gli stessimotivi l’uso delle sue sale ai giovani arditi(e proprio in coincidenza del diniego qual-cuno è entrato nottetempo nella sede delcircolo e ha rubato un computer...).

La “lezione” si è trasformata, così, in unincontro in una sala di un albergo con unatrentina di persone, in gran parte iscritti esimpatizzanti di An, tra cui l’on. SandroDelmastro Delle Vedove e suo figlio Andrea(capogruppo provinciale e in passato pro-tagonista di un’azione squadristica controuna lezione dello storico Giovanni DeLuna, già oggetto di un’interrogazione par-lamentare Ds, e più volte autore di roghi dilibri di testo davanti alle scuole biellesi) eLivia Caldesi (capogruppo comunale).

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Determinante è stata la più imponentemobilitazione antifascista biellese degliultimi anni, che ha disarmato gli sprezzan-ti epigoni del duce, i quali si aspettavanola reazione di pochi “residuati bellici del-lo squadrismo dell’antifascismo” (defini-zione del capogruppo provinciale di An).

E invece, pur sotto una pioggia battente,oltre trecento cittadini hanno risposto al-l’appello delle associazioni antifasciste edhanno deposto un mazzo di fiori al monu-mento di piazza Martiri della Libertà aiventidue caduti, partigiani e civili, fucila-ti dai nazifascisti il 6 giugno 1944. Tra ipresenti il sindaco di centrosinistra di Biel-la ed il consigliere regionale Ds, esponen-ti della sinistra e del cattolicesimo demo-cratico, del sindacato confederale ed oltretrenta sindaci. Più di duecento giovani an-tifascisti hanno poi presidiato democrati-camente il Liceo classico per tutta la sera-ta.

Ma già nei giorni precedenti centinaia die-mail, di lettere e di prese di posizione, tracui un’interrogazione parlamentare dei Ds,avevano fatto montare la protesta dell’opi-nione pubblica sulla stampa locale e nazio-nale (“il Manifesto”, “la Repubblica”, “LaStampa”, “l’Unità”).

Infatti - nelle parole usate alla comme-morazione dal vicepresidente Anpi, AldoSola - “per i cittadini democratici memoriasignifica storia vissuta, verità fattuale, nonstravolgimento dei contenuti largamenteaccessibili ed accettati” ed “anche se sia-mo aperti alla rivisitazione della storia,poiché essa può essere, e lo deve essere,nell’attualità della ricerca, completata, ar-ricchita, chiarificata, essa d’altro cantonon deve mai essere sottoposta a banalerevisionismo, pilotato acriticamente perinteressi di parte o addirittura artificiosa-mente e provocatoriamente inventata. Ilcittadino ha il diritto alla conoscenza, per

sé e per il proprio futuro, e non va ingan-nato con il falso e l’invenzione o sostenen-do che il passato è passato e non ci devepiù toccare”.

Ed in effetti le tesi di Guido Mussolini,le cui intenzioni dichiarate erano di “eli-minare un po’ delle menzogne che hannocoperto l’operato di mio nonno”, vannoben oltre le più spericolate esercitazionidel cosiddetto revisionismo storico e co-stituiscono una vera e propria esaltazionedel fascismo fondata sulla menzogna. L’or-goglioso nipote del duce e sedicente “ri-cercatore storico dell’Istituto per la ricercasulla Rsi”, tra l’altro, separa nettamente ilfascismo dal nazismo e attribuisce la re-sponsabilità della seconda guerra mondia-le alle “potenze franco-anglo-americane”e ai “comunisti”, interpretando fantasiosa-mente la Conferenza di Monaco.

Non stupisce che chi sostiene tesi del ge-nere sia stato candidato alle elezioni pro-vinciali di Viterbo per il movimento diestrema destra “Destra europea” e candida-to a sindaco di Roma per il famigerato mo-vimento neofascista “Forza nuova”, né chesia stato più volte protagonista di offesealla memoria dei partigiani caduti, nel-l’omaggiare quelli della Rsi.

Ha dichiarato proprio il prof. Giovanni DeLuna, dell’Università di Torino: “Una tesidel genere non la prendo nemmeno in con-siderazione. C’è una soglia minima al disotto della quale non è serio discutere. Esi-ste una produzione storiografica massiccia,incontrovertibile, sulla volontà di Musso-lini di entrare in guerra. Mi chiedo come sipossa immaginare una conferenza con untitolo tanto assurdo”.

Secondo i promotori, invece, BenitoMussolini sarebbe “l’uomo della pace”anche perché aveva un concetto della na-zione come “un’entità organica senza con-flittualità interne”!

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In una precedente “lezione” dello stessocorso l’on. Sandro Delmastro Delle Vedo-ve (An) aveva affermato: “Sono qui, il gior-no di San Valentino, per festeggiare il mioantico fidanzamento col fascismo, da cuinon mi sono mai separato”.

Agli imbarazzati commenti degli alleatidella “Casa delle libertà” che, pur prenden-do le distanze dall’iniziativa (l’unica soli-darietà è venuta dal Ms-Fiamma tricolore),chiedevano il rispetto del diritto alla libertàd’espressione, ha risposto Marco Berchi,direttore del bisettimanale della Curia ve-scovile “il Biellese”: “Proprio per poter tu-telare il diritto di tutti ad esprimersi occor-re confutare e condannare il tentativo difare un unico fascio del diritto all’espres-sione e della pretesa di poter esercitarequalunque provocazione. Occorre avereben chiara la differenza che passa tra un’ar-gomentazione storica - controcorrente finche si vuole - e una provocazione orche-strata a suon di manifesti”. Ed ha aggiun-to: “Ad aggravare la cosa vi è il fatto che labella pensata nasce dall’ambito di una for-za di governo come An, di cui Azione gio-vani è la costola giovanile”.

Definire Benito Mussolini “l’uomo del-la pace” è, poi, un insulto per tutti coloroche hanno fatto veramente della pace laloro ragione di vita.

Biella, città medaglia d’oro al valor mi-litare per il contributo dato dalle sue gentialla Resistenza e alla lotta di liberazione,insignita di tale riconoscimento dall’allo-ra presidente della Repubblica, il partigia-no Sandro Pertini, ha così respinto il tenta-tivo di riabilitazione di Benito Mussolinie del fascismo, ha riaffermato i valori daiquali è nata la Repubblica italiana ed haricordato a tutti coloro che vorrebbero can-cellare o riscrivere la storia, il sacrificio deitanti che sono caduti per la libertà. (Andrea

Stroscio, 12 marzo 2002)

I soliti spudorati

Siamo venuti a conoscenza che la Fede-razione vercellese del Ms-Fiamma tricolo-re ha inviato la seguente lettera a sindacidi comuni della provincia di Vercelli: “Lascrivente Federazione del Ms-Fiamma tri-colore nell’intento di proseguire nella pro-pria opera di rivisitazione storica del peri-odo bellico e degli avvenimenti delittuosidell’immediato dopoguerra e per fare lucesulle lacune ed occultamenti di verità inordine ad episodi che hanno visto il coin-volgimento di bande partigiane e combat-tenti della Rsi, al fine di ridare dignità edonore ai caduti della Rsi medesima, cadutiche, recentemente, sono oggetto di ‘riabi-litazione’ storica anche da parte delle piùalte cariche della Repubblica italiana, pro-pone all’Amministrazione comunale da leiguidata di intitolare una via cittadina odin alternativa un istituto, una sala, un cen-tro culturale ai combattenti vittime delleaggressioni partigiane”.

Un breve commento. Degli episodi diviolenza della fase insurrezionale e del-l’immediato dopoguerra si sono occupatistorici di prim’ordine e il nostro Istitutoorganizzò nel 1994 a Santhià un convegnonazionale: l’“opera di rivisitazione” daparte di ricercatori improvvisati e soprattut-to non certamente obiettivi, non potrà dicerto portare a nuovi risultati che abbianoqualche valore scientifico.

In ogni caso, se gli esponenti del Ms-Fiamma tricolore nutrono tanto interesseper la storia del nostro Paese li invitiamoad occuparsi degli avvenimenti delittuosidi cui si rese responsabile il fascismo.

Per quanto riguarda gli appartenenti agliopposti schieramenti che si combatteronotra il settembre 1943 e l’aprile 1945 osser-viamo che attribuire la qualifica di com-battenti ai militari della Rsi e negarla ai par-

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attualità

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tigiani (considerandoli inoltre responsabilidi aggressioni, anziché di atti di guerra) èinaccettabile, poiché è noto che questi ul-timi, appartenenti al Corpo volontari dellalibertà, sono riconosciuti come legittimicombattenti appartenenti all’Esercito ita-liano, mentre le milizie di Salò operaronoal servizio dei nazisti invasori e furonoquindi responsabili del reato di collabora-zionismo.

Se l’umana pietà è rivolta a tutti i caduti,non rientra nei poteri delle amministrazio-ni comunali ridare a quelli appartenenti

alla Repubblica di Salò quella dignità equell’onore che essi persero schierandosidalla parte degli invasori e di regimi ditta-toriali condannati dalla storia, che nessu-na “revisione” potrà mai assolvere né ria-bilitare.

Ogni interpretazione di interventi di au-torità dello Stato che ritenga di trovare inessi elementi diversi dal riconoscimentodella possibile ed eventuale buona fede daparte di combattenti della Rsi è assoluta-mente impropria e indegna di considerazio-ne. (22 aprile 2002)

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attività dell’Istituto

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L’Istituto ha organizzato, nel novembredel 2001, un convegno dedicato alla que-stione balcanica, al quale hanno partecipa-to, in qualità di relatori, Gustavo Buratti,Guido Franzinetti, Paolo Ceola, LauranaLajolo e Franco Cecotti.

La complessa situazione dell’area balca-nica, che tanta attenzione ha suscitato inquesti ultimi anni a causa dei sanguinosiconflitti che l’hanno dilaniata, è stata og-getto di un’analisi dei vari aspetti etnici,culturali, politici, religiosi e militari che lacaratterizzano, allo scopo di fornire i mez-zi necessari per una reale comprensione delproblema, che permetta di superare l’uni-vocità dei giudizi e la banalità dei luoghicomuni.

Essenziale, per avere un quadro il piùpossibile esauriente della tensione politi-ca cui sono sottoposti i Balcani, risalire alleorigini dei conflitti e indagare le radici lon-tane degli incontri e scontri di culture, lin-gue e religioni, che hanno attraversato l’a-rea.

L’aspetto più prettamente etnico-cultura-le è stato affrontato da Gustavo Buratti, con-sigliere scientifico dell’Istituto e segreta-rio della sezione italiana dell’AssociationInternationale pour la Défense des Langueset des Cultures Menacées, che ha sottoli-neato come la crisi balcanica sia sostanzial-mente riconducibile a tre momenti storici,

responsabili del groviglio di nazionalitàche caratterizza la zona: il movimento del-le popolazioni slave nel periodo successi-vo alla dominazione romana e greca, l’in-vasione ottomana nel XV secolo e la nasci-ta degli stati nazionali nel XIX secolo.

Il primo periodo è significativo in quan-to comporta il mescolarsi nell’area balca-nica di tre gruppi di popolazioni: gli slavi,provenienti da est e gli illiri, autoctoni, inparte attestati lungo la costa dalmata sot-toposta all’influenza latina dominante nelMediterraneo, poi sostituita dal predomi-nio della Repubblica di Venezia, e in partespinti dal movimento delle popolazionislave nella zona corrispondente all’attua-le Albania. La situazione è però destinataa mutare nuovamente a causa del conside-revole aumento del tasso di natalità regi-strato dagli illiri, in conseguenza del qua-le, necessitando di sempre nuovi spazi d’in-sediamento, le popolazioni autoctone rioc-cupano i loro primitivi territori, costringen-do gli slavi ad attestarsi lungo il fiume Dri-na.

La suddivisione degli stanziamenti del-le popolazioni slave tra le sponde destra esinistra della Drina comporta una concen-trazione di sloveni e croati nella zona alladestra del fiume e una distribuzione di ser-bi nell’area a sinistra, che determina, all’at-to dell’invasione ottomana, il radicarsi di

Convegno “Aspetti della questione balcanica”

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attività dell’Istituto

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forti differenze culturali e religiose tra lepopolazioni. I turchi, infatti, con la conqui-sta della sponda sinistra della Drina e ditutta l’area meridionale occupata dagli illi-ri, influenzano fortemente serbi e albane-si, in maggioranza ortodossi e musulmani,mentre sloveni e croati, non soggetti alladominazione ottomana, rimangono mag-giormente legati alla cultura europea oc-cidentale, quindi cattolica, la quale, dopoil controllo esercitato dalla Repubblica diVenezia, si manifesta in particolare attra-verso l’influenza dell’Impero austro-unga-rico.

Da notare che la popolazione musulma-na presente nell’area balcanica non è omo-genea e che, anche se la maggior parte deimusulmani sono albanesi, una considere-vole percentuale è composta dai cosiddet-ti musulmani “biondi”, di origine slava,prevalentemente attestati in Bosnia. In-fluenzati dai movimenti ereticali e perciòsottoposti alla violenta azione repressivadella chiesa cattolica, i bogomili, analoghiai catari della Francia meridionale, in se-guito all’invasione turca, preferiscono con-vertirsi all’Islam, dando così origine ad unanazionalità autonoma, che non si ricono-sce in nessuna delle etnie già esistenti sulterritorio.

La crisi dell’Impero ottomano, nel XIXsecolo definito “il grande malato”, com-porta la perdita progressiva di territori avantaggio delle potenze europee e, ponen-do le basi per la nascita e lo sviluppo deglistati nazionali, che via via ottengono l’in-dipendenza, non solo apre la strada ad aspriconflitti relativi ai confini, ma dà origineal problema della tutela dei diritti delle mi-noranze. Col formarsi del concetto di na-zione e di identità nazionale, i fattori lin-guistici, culturali, religiosi acquisisconoun’importanza determinante e, poichéspesso non identificano la totalità della

popolazione che vive all’interno di unostato, ma solo gruppi minoritari di essa, so-no fonte di ostilità e scontri, dei quali pe-raltro le potenze europee approfittano peri loro interessi politici ed economici.

I problemi generati dalla formazione de-gli stati nazionali in seguito al disfacimen-to dell’Impero ottomano, si ripresentano,a un secolo di distanza, in conseguenza delprocesso di dissoluzione della Repubbli-ca federativa jugoslava. Questa, suddivisain sei repubbliche (Serbia, Montenegro,Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina eMacedonia), all’interno di ciascuna dellequali di mescolano differenti nazionalitàe differenti religioni (cristiano-cattolica,cristiano-ortodossa, musulmana), è prota-gonista di un progressivo e inesorabile pro-cesso di disgregazione, che porta a poco apoco le repubbliche all’indipendenza.

In questo quadro frastagliato si inseri-scono la crisi bosniaca, il conflitto in Ko-sovo e la guerriglia in Macedonia, doloro-samente protagonisti della storia europeadell’ultimo decennio. La guerra in Bosnia,costituita dalla federazione di due repub-bliche: croata-musulmana (i musulmani“biondi“) e serba, è il sanguinoso risultatodello scontro tra serbi e croati rinfocolato,all’indomani della seconda guerra mondia-le, dalla nascita dei movimenti ultranazio-nalisti dei cetnici in Serbia e degli ustasciain Croazia; la tragedia del Kosovo, provin-cia della Serbia a maggioranza albanese, èscatenata dalla opposizione dei serbi aqualsiasi richiesta mossa loro dal movimen-to indipendentista kosovaro; la difficilesituazione della Macedonia, infine, è de-terminata dalla rivolta della minoranza al-banese ultranazionalista contro la repres-sione messa in atto dal governo macedone.

In conclusione, quello che Buratti ha evi-denziato, con un intervento che, a grandilinee, ripercorre la storia dell’area balcani-

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convegno “Aspetti della questione balcanica”

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ca, soffermandosi in particolare sulla defi-nizione della molteplicità di identità na-zionali presenti sul territorio, è che, percomprendere i conflitti attuali, è necessa-rio risalire alle loro radici storico-culturalie che, solo attraverso il superamento di unavisione dello stato legata alla rigidità deiconfini e nel rispetto di tutte le etnie, so-prattutto di quelle minoritarie (che hannodiritto di essere tutelate in qualsiasi luogosi trovino a vivere) c’è una speranza che siconcretizzi una pacifica convivenza.

Guido Franzinetti, docente all’Universi-tà del Piemonte orientale, ha affrontato laquestione balcanica nel suo rapportarsi alcontesto internazionale, evidenziando inparticolare il ripercuotersi nell’area delloscontro ideologico tra mondo occidentalee Unione Sovietica, manifestatosi aperta-mente all’indomani della seconda guerramondiale.

Il relatore ha evidenziato come sia cor-retto parlare di un legame storico tra Rus-sia e Balcani, dato il notevole ruolo svoltodall’Impero russo, dall’inizio dell’Ottocen-to fino alla prima guerra mondiale, nel-l’evoluzione della questione d’Oriente, os-sia nel gioco politico internazionale legatoal disfacimento dell’Impero ottomano, chesi è tradotto in un appoggio concreto datoalla nascita dei primi stati nazionali balca-nici: Serbia, Montenegro, Romania, Bulga-ria. È invece meno appropriato parlare diun legame indissolubile che legherebbe iBalcani alla Russia, fondato su una prete-sa ansia di unificazione di tutta la popola-zione slava, poiché il mito della slavofilianon è una lente sempre adeguata alla let-tura dei rapporti politici tra gli stati, piut-tosto determinati da ragioni di interesse eopportunismo.

L’influenza che l’Unione Sovietica ebbesull’area balcanica nella sua fase rivolu-zionaria, dal 1917 al 1941, è trascurabile e

si traduce sostanzialmente, dato l’isolazio-nismo della sua politica estera e la sua e-sclusione dal consesso internazionale, inun legame politico con i movimenti comu-nisti balcanici, soprattutto in Bulgaria eJugoslavia, peraltro minoritari nel panora-ma politico dell’area. La situazione mutacon la seconda guerra mondiale, dato ilruolo determinante svolto in essa dall’U-nione Sovietica che, uscita dall’isolamen-to, diventa un interlocutore politico nonpiù ignorabile dalle potenze occidentali.

Le ripercussioni sull’area balcanica ditale mutamento nel quadro degli equilibriinternazionali si manifestano nel cosiddet-to “accordo delle percentuali”, stipulato aMosca nel 1944 da Churchill e Stalin, inbase al quale l’Europa orientale viene sud-divisa tra Unione Sovietica e Alleati in zonedi influenza definite da percentuali. Ciòche spinge la Gran Bretagna di Churchill ariconoscere formalmente all’Urss il predo-minio su buona parte degli stati balcanici,quali Romania, Bulgaria, Ungheria, Jugo-slavia, che di fatto erano già controllatidalle truppe sovietiche, è l’ottenimento delcontrollo pressoché completo della Grecia,di vitale importanza strategico-militare.Ciò che Churchill si garantisce in tal modoè la possibilità di reprimere duramente leforze partigiane comuniste della Grecia,intervenendo massicciamente nella guerracivile, forte del fatto che, in conseguenzadell’accordo, ad esse era venuto a mancarel’appoggio fondamentale dell’Unione So-vietica.

Mentre la Grecia è sottoposta al control-lo delle potenze occidentali, la Jugoslaviadi Tito è invece strettamente legata al-l’Urss, il cui contributo alla guerra di libe-razione, a sostegno dei partigiani jugosla-vi, si rivela determinante, tanto indiretta-mente, sul piano dei fronti militari, quantodirettamente, con la liberazione di Belgra-

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attività dell’Istituto

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do ad opera dell’Armata Rossa. Fino al1948, anno della rottura dei rapporti politicie diplomatici, il legame con l’Unione So-vietica è saldo e il modello cui Tito si ispi-ra non si pone come eterogeneo rispetto aquello sovietico, ma ne costituisce l’avan-guardia rivoluzionaria, caratterizzata dauna molto rapida estensione del controllostatale sulla vita economica e sociale.

Quando, nel 1948, si manifesta aperta-mente il dissenso tra Tito e Stalin, il moti-vo di disaccordo non è di carattere ideolo-gico, ma affonda le sue radici in una moti-vazione puramente politica: la questionedella nascita della federazione balcanica,fortemente voluta da Tito negli anni dal1944 al 1946, inizialmente avversata daStalin, ma in seguito dallo stesso caldeg-giata. Il ribaltamento della posizione sovie-tica sulla questione è determinato dal fat-to che, mentre all’inizio per Stalin ciò checontava era non contravvenire al veto bri-tannico e rispettare l’assetto dell’area bal-canica stabilito dall’accordo delle percen-tuali, nel 1948 ciò che ha maggiore peso èla possibilità di fare del progetto di federa-zione nei Balcani uno strumento per ricon-durre il comunismo jugoslavo sotto il do-minio sovietico. Tale tentativo di ingestio-ne induce Tito alla rottura e lo porta a svi-luppare, a partire dal 1949, un modello dicomunismo indipendente, che gradual-mente acquista caratteri ideologici suoipropri, quali la via nazionale al socialismo,l’idea di autogestione, l’idea di non allinea-mento, ecc.

Gli anni cinquanta vedono un progressi-vo riavvicinamento tra Unione Sovietica eJugoslavia, che prende le mosse dalla mor-te di Stalin, nel 1953, e culmina nel 1955con l’incontro diplomatico tra i massimi di-rigenti delle due federazioni, impegnati adottenere l’uno dall’altro il massimo ricono-scimento possibile. Ciò di cui l’Unione So-

vietica ha bisogno in questi anni è propriodella legittimazione internazionale del suoruolo guida all’interno del movimento co-munista. Il cosiddetto “rapporto segreto”di Kruscev, che denuncia i crimini dellostalinismo, pone l’Urss in una delicata po-sizione e, traducendosi in un’ansia di rin-novamento politico in diversi paesi del-l’Europa orientale, implica la necessità perl’Unione Sovietica di ottenere il più possi-bile appoggi dal movimento comunista, invista di azioni repressive. Il 1956, annodell’invasione sovietica dell’Ungheria(azione militare appoggiata, oltre che dal-la Jugoslavia di Tito, ormai riavvicinatasi,anche dalla Cina comunista) è una riprovadell’importanza dell’unità del movimento,che si sfalderà nel 1960, con la rottura traCina e Urss, disperdendosi in una moltepli-cità di centri di potere.

Con l’aggravarsi dei rapporti tra Orientee Occidente e l’acuirsi della guerra fredda,a cominciare dalla costruzione nel 1961 delmuro di Berlino e dalla crisi dei missili aCuba l’anno successivo, la posizione deipaesi dell’area balcanica è altalenante. Laloro principale preoccupazione è quella dimantenersi il più possibile al riparo daqualsiasi pericolo, attraverso il persegui-mento di una politica utilitaristica. La Ju-goslavia ad esempio, non aderendo né allaNato, né al Patto di Varsavia, si culla nel-l’idea, almeno fino alla fine degli anni ot-tanta, di poter vivere eternamente senzaschierarsi apertamente da una parte o dal-l’altra e di poter beneficiare in tal modo diun effettivo appoggio finanziario di en-trambi i blocchi, mentre i paesi più debolidell’area prendono le loro decisioni inmateria di politica internazionale sulla basedel timore di essere svenduti dall’alleatopiù potente. È il caso dell’Albania, cherompe i rapporti con l’Urss per schierarsicon la Cina, paventando di essere utilizza-

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ta come merce di scambio per ottenere con-cessioni da Belgrado, per poi rompere an-che con l’alleato cinese, colpevole di unasvolta filo-americana, e ritrovarsi in tal mo-do nell’isolamento più totale.

Negli anni novanta la dissoluzione del-l’Unione Sovietica e della federazione ju-goslava, due processi peraltro non assimi-labili, poiché l’una è una costruzione ideo-logica che si identifica con il comunismoe quindi si sfascia in seguito alla sua crisi,l’altra no, muta in maniera radicale lo scac-chiere internazionale e le influenze politi-che. La Federazione russa ormai non svol-ge più un ruolo rilevante nei Balcani, al dilà di un aiuto economico alla Serbia duran-te le guerre di dissoluzione, e si avvia a ri-vestire nuovamente quel ruolo di potenzaregionale, dominatrice dell’Asia centrale,che ha sempre avuto, perdendo invecequello di superpotenza, dovuto solo allacircostanza storica e contingente del crollodella Germania all’indomani della secon-da guerra mondiale.

L’excursus di Guido Franzinetti attraver-so la politica internazionale degli anni daldopoguerra ad oggi rivela come l’area bal-canica sia stata sempre nevralgica nel si-stema degli equilibri in Europa e come siastata spesso protagonista nel conflitto tra idue blocchi, ora appoggiandosi completa-mente ad uno di essi, ora cercando di otte-nere una relativa indipendenza politica, oranon prendendo dichiaratamente posizione.

L’intervento di Franzinetti, conducendo-ci fino agli anni novanta, lascia spazio allatrattazione della dissoluzione della Jugo-slavia e dei conflitti che l’hanno accompa-gnata, argomento dominante dei contributidi Paolo Ceola e di Laurana Lajolo. Ciò sucui viene posta l’attenzione, in entrambigli interventi, non è però solo l’aspettomilitare e politico della guerra, ma soprat-tutto il modo in cui è stata recepita dall’opi-

nione pubblica e l’utilizzo, a questo sco-po, della propaganda da un lato, e dell’in-formazione di guerra dall’altro.

Paolo Ceola, collaboratore dell’Istituto,in un intervento che invita a considerarequanto di reale e concreto ci sia al di sottodella retorica con cui si parla di guerra uma-nitaria, ricorda che, nel prendere posizioneriguardo a un argomento di tale complessi-tà, è necessario mantenere le distanze daposizioni manichee e analizzare i processistorici col maggior equilibrio possibile.

La definizione di guerra umanitaria, uti-lizzata in occasione dello scontro in Ko-sovo tra i paesi della Nato e la Serbia, emer-ge ex negativo attraverso l’analisi di ciò chesi intende per guerra anti-umana. Anche sea prima vista tale espressione potrebbe sem-brare tautologica, dato il carattere anti-umano di qualsiasi forma di violenza, con-siderando tale termine in senso stretto puòritenersi specificamente anti-umana unaguerra rivolta in particolare contro i civili.E le guerre balcaniche sono proprio unesempio di tale violenza esercitata controi soggetti deboli e innocenti, consideratidi volta in volta come bersagli, cioè comevittime della pulizia etnica e di quella par-ticolarmente crudele forma di violenza fi-sica e psicologica che è il cecchinaggio, ocome arma indiretta, cioè come strumentiatti a creare difficoltà all’avversario. La pu-lizia etnica, perseguita allo scopo di puri-ficare un territorio dagli elementi ritenutiostacoli alla convivenza pacifica, comportal’eliminazione fisica o lo spostamento for-zato di masse umane che, se sfruttate alloscopo di rendere difficoltosi i movimentidelle organizzazioni umanitarie e il soccor-so ai rifugiati, si trasformano in una effica-ce arma.

Se tale è la guerra anti-umana, allora saràper definizione guerra umanitaria quellacombattuta allo scopo di difendere i fon-

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damentali diritti umani di un popolo, mi-nacciato nella sua stessa esistenza. Nonsolo, ma lo sarà maggiormente quella guer-ra che cercherà di limitare al massimo glieffetti distruttivi ad essa inevitabilmenteconnessi.

Non si può negare che la cosiddetta guer-ra chirurgica e umanitaria combattuta inKosovo, per quanto ovviamente frutto diun intento propagandistico mirante allagiustificazione dell’intervento armato, ab-bia in sé un aspetto indubbiamente veritie-ro e fondato su dati di fatto.

Il primo aspetto da considerare è l’evi-dente cambiamento nel modo di gestire ilpotere aereo che l’evoluzione tecnologicaha reso possibile: non ci si affida più allaquantità di ordigni esplosivi sganciati, maalla qualità dell’arma e alla precisione dellancio che, in Serbia, ha consentito di com-piere dai 23.000 ai 28.000 lanci con unmargine di errore al di sotto dell’1 per cen-to. Ovviamente non si può trascurare il fat-to, anche se la propaganda lo minimizzaampiamente, che ognuno di questi “insi-gnificanti” errori ha causato la morte dicentinaia di persone, per la maggior partecivili, ma è fuor di dubbio che, in ogni caso,i danni sono stati contenuti il più possibile.

A subire un cambiamento non è statoperò solo l’aspetto più propriamente tec-nico della guerra, ma anche quello speci-ficamente politico, non meno determinan-te. La guerra, strettamente legata alla poli-tica, ne ha seguito l’evoluzione, finendoper essere fortemente modificata dalla per-dita da parte degli stati della loro sovrani-tà. Il percorso declinante imboccato dallostato sovrano fa sì che la guerra non si com-batta più fra soggetti chiaramente definitida una sovranità politica e territoriale, maall’interno di uno stesso stato, allo scopodi modificare i rapporti di forza in esso. Intal modo la parte della popolazione che si

pone come ostacolo ai progetti di espan-sione della parte avversa, viene considera-ta come il nemico da combattere e lucida-mente sottoposta a pulizia etnica. La vio-lazione dei diritti umani diventa a questopunto, non più una conseguenza dello scon-tro bellico, ma lo strumento di cui ci si ser-ve per fare la guerra. Detto questo, non sipuò negare che una guerra combattuta con-tro chi fa della violazione dei diritti umaniun’arma, sia una guerra umanitaria.

Ceola quindi sottolinea come le defini-zioni di guerra anti-umana e di guerra uma-nitaria debbano essere indagate da tutti ipunti di vista, allo scopo di smascherarequanto di slogan e mito si nasconde in essee allo stesso tempo scoprire i processi realie concreti che nascondono. Un atteggia-mento orientato ad evidenziare solamenteuno di questi due aspetti finirebbe per ca-dere nel dogmatismo e per semplificare unarealtà complessa, cancellandone le molte-plici sfumature.

Anche l’intervento di Laurana Lajolo,presidente dell’Istituto nazionale per lastoria del movimento di liberazione in Ita-lia, tocca l’aspetto, già in parte analizzatoda Ceola, dell’impatto esercitato dallaguerra sull’opinione pubblica e di quantola censura e la propaganda siano determi-nanti nella creazione del consenso, soffer-mandosi in particolare sul modo in cui laguerra giunge fino a noi, filtrata attraver-so giornali e televisione. Compiendo unattento studio su quattro testate giornali-stiche (“La Stampa”; “Il Manifesto”; il“Corriere della sera” e “La Repubblica”) esu alcune trasmissioni televisive, quali te-legiornali e dibattiti, Lajolo mette in lucei meccanismi che regolano il giornalismodi guerra, denunciando una evidente omo-logazione dell’informazione.

La guerra combattuta dalla Nato per di-fendere il Kosovo dall’aggressione serba è

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stata rappresentata in modo da creare un’a-desione generalizzata all’intervento, mo-strando insistentemente le immagini dram-matiche delle migliaia di profughi in fuga,raccontando le loro storie e rendendo tan-gibile il loro dolore. La fortissima caricaemotiva che ha accompagnato i servizi egli articoli giornalistici ha reso la guerraaccettabile e giustificabile allo spettatoree al lettore, facendo emergere esclusiva-mente il carattere umanitario dell’interven-to e lasciando così poco spazio al dissenso.

L’utilizzo ripetuto e continuo di imma-gini che illustrano quasi esclusivamente larealtà angosciosa della pulizia etnica, hafornito una visione univoca della situazio-ne poiché, non evidenziando gli effetti delconflitto sulla popolazione serba, ha trala-sciato elementi indispensabili ad una co-noscenza globale del problema.

A parte poche eccezioni, rappresentatedai servizi di Ennio Remondino, e dalletrasmissioni di Andrea Purgatori e Miche-le Santoro, disposti a dar voce anche aiserbi, le reti televisive pubbliche hannopresentato superficialmente la questione,tralasciando di fornire, ad un pubblico mol-to poco informato, l’essenziale inquadra-mento storico generale. Questa guerra è sta-ta in tal modo decontestualizzata, slegatadalla situazione politica e sociale della Ju-goslavia del passato recente e ridotta a bar-baro attentato ai diritti umani; il nemico èstato demonizzato, facendo leva su unaforte connotazione negativa derivante dalsuo passato comunista e la complessità delproblema è stata oggetto di un’arbitrariasemplificazione che ha posto l’attenzioneunicamente sul conflitto etnico e religio-so.

Si è quindi privilegiato maggiormentel’aspetto delle storie individuali, esemplar-mente poste come metafore della condizio-ne kosovara, ed è stata compiuta la spetta-

colarizzazione ed enfatizzazione degliaspetti più drammatici del conflitto, spes-so riportando le notizie senza curarsi disottoporle al vaglio di un’attenta ricerca edocumentazione.

L’omologazione dell’informazione è evi-dente anche in un atteggiamento di auto-censura da parte degli stessi giornalisti,chiamati a raccontare un conflitto in cui l’I-talia è direttamente coinvolta e, per questo,piuttosto acritici e schierati a favore del-l’intervento. Data l’influenza della guerra,è mutato il modo di porre, ad esempio, ilproblema dei clandestini, mai come alloraaccettati e giustificati, ed è venuta menola doverosa indagine sui legami tra crimi-nalità balcanica e italiana nella regolazio-ne del flusso migratorio.

La posizione dei media è stata dunque so-stanzialmente uniforme e appiattita sul so-stegno al potere politico e alla missionedell’esercito italiano. Le stesse fonti prima-rie di riferimento dei giornalisti, utilizzatesenza mediazioni né filtri autonomi, sonostate le cosiddette fonti forti, istituzionali,legate al potere politico, militare ed eco-nomico, e quindi fortemente orientate aduna massiccia selezione delle notizie alloscopo di influenzare il pubblico. Le vocidissenzienti, quali quelle dei pacifisti, nontrovando adeguato spazio sui canali media-tici, non hanno potuto contrastare, con iloro appelli, l’impatto emotivo forte susci-tato dalle immagini dei profughi e sonoperciò rimaste inascoltate.

Questo atteggiamento della stampa ita-liana, schierata a fianco della Nato, ha fat-to sì che non venissero messe sufficiente-mente in rilievo le anomalie della guerrain Kosovo, combattuta senza alcuna dichia-razione formale di guerra e non allo scopodi difendere la patria e i confini, ma nelnome dei diritti umani. Con ciò, basando-si su valori morali, si è data alla guerra una

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attività dell’Istituto

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nuova legittimazione, poiché è stata rico-nosciuta come efficace strumento utilizza-bile nella risoluzione dei conflitti interna-zionali. È quindi emersa nell’opinione pub-blica, fatto questo positivo, una nuova ideadi cittadinanza universale fondata sui di-ritti inalienabili dell’individuo, che trava-lica le frontiere, si pone al di sopra deglistati nazionali e diventa determinante nel-la definizione dell’identità.

Evidenziando come l’atteggiamento deimedia sia fondamentale nella creazione delconsenso e come sia quindi necessario e-splicitare i meccanismi che regolano l’in-formazione di guerra, Laurana Lajolo mettedunque in guardia dall’assumere un atteg-giamento passivo nei confronti di quantoci viene veicolato dal giornalismo televisi-vo e non, e rivela l’importanza, soprattuttoin ambito scolastico, dell’analisi criticadelle fonti.

Per quanto già l’intervento di LauranaLajolo abbia una rilevanza didattica, piùspecificamente dedicato a questo aspettodella questione balcanica è il contributo diFranco Cecotti, dell’Istituto regionale perla storia del movimento di liberazione nelFriuli e Venezia Giulia, che si sofferma sul-le difficoltà incontrate dagli insegnantinell’affrontare in maniera consona ed esau-riente il complesso tema delle guerre bal-caniche dell’ultimo decennio, poiché spes-so sprovvisti di strumenti adeguati. Cecot-ti lamenta innanzitutto l’assenza, allo scop-pio del primo conflitto nel 1991, di infor-mazioni sufficienti alla comprensione dellasituazione, assenza che si è tradotta in unaccantonamento dell’aspetto più propria-mente didattico e in un’accentuazione diquello civile ed etico, attraverso testimo-nianze nelle scuole di profughi e di gior-nalisti inviati nei territori di guerra. È statacosì perseguita una duratura e massicciaopera di sensibilizzazione che ha permes-

so agli studenti di toccare con mano la tra-gicità della guerra e che, ponendo in pri-mo piano l’emergenza umanitaria, è spes-so sfociata in aiuti concreti.

La lacuna didattica dovuta all’assenza diun’informazione generalizzata sui Balca-ni, causata anche dall’assenza di precise di-rettive ministeriali che vincolassero gli in-segnanti all’approfondimento della storiadel Novecento alla fine di ogni ciclo sco-lastico, è stata resa difficilmente colmabi-le anche dalla complessità della questionebalcanica, passata attraverso continui mu-tamenti e caratterizzata da una tale insta-bilità da rendere eccessivamente impegna-tivo qualsiasi tentativo di aggiornamento.

Dati inoltre i problemi che l’insegnanteincontra nell’orientarsi all’interno di unapubblicistica di vastissime proporzioni edata la sua difficoltà ad individuare le operedivulgative di un certo valore, Cecotti se-gnala quei testi che si mostrano più esau-rienti, precisi e ben documentati, pur evi-denziandone i limiti: “Ex Jugoslavia: leorigini del conflitto, la sua storia, le pro-spettive di pace”, schede del Centro tosca-no di documentazione politica, del 1993;“Il confine mobile. Atlante storico dell’Al-to Adriatico. Austria-Croazia-Italia-Slove-nia”; “Il confine orientale: una storia ri-mossa” e “I Balcani: ieri e oggi”, saggi pub-blicati all’interno della rivista “I viaggi diErodoto”, rispettivamente nel 1998 e nel1999; “A chi appartiene l’Adriatico? L’Ita-lia e i Balcani: gli stereotipi della realtà delNovecento” e, infine, nella rivista on linedell’Istituto nazionale per la storia del mo-vimento di liberazione in Italia, “Novecen-to. Storie contemporanee. Didattica in can-tiere”, la sezione “L’Italia in guerra”. Meri-to di queste opere è quello di affrontare ilproblema in modo completo, compiendouna panoramica sulla storia dei Balcani dal1918 in poi, allo scopo di inquadrare sto-

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convegno “Aspetti della questione balcanica”

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ricamente i conflitti contemporanei e af-frontando l’argomento anche dall’impor-tante punto di vista geografico delle varia-zioni dei confini. Nonostante tutto, ciò chemanca è un’attenzione per la totalità del-l’area, indagata solo in quelle zone, qualiCroazia, Slovenia, Bosnia, costa dalmatache, costituendo il confine orientale del-l’Italia, sono in rapporto diretto col nostropaese. La validità delle opere è così infi-ciata da quella che Cecotti definisce una“visione italocentrica”, su cui viene appiat-tita la complessità del problema.

Importante quindi per l’insegnante cheaffronta la questione balcanica, è innanzi-tutto avere una buona conoscenza dellageografia e dei mutamenti cui l’area è sta-ta sottoposta, cosa tutt’altro che semplicedato il moltiplicarsi dei confini e la diffi-coltà di reperimento di carte storico-geo-grafiche. In secondo luogo è essenzialeprocedere alla contestualizzazione dellastoria balcanica, che non deve essere affron-tata in sede separata, ma inserita all’internodel programma curricolare di storia e salda-mente legata alla storia italiana ed europea.Le aree di progetto organizzate nelle scuole,a seguito dello scoppio dei conflitti, costi-tuite da corsi incentrati su tutti gli aspettistorici e culturali dei Balcani, pur rappre-sentando una lodevole iniziativa, stimo-lante la curiosità e l’interesse dello studen-te, corrono il rischio di essere talmente ric-che di informazioni da non lasciare un’im-

pronta duratura.Fondamentale è poi per Cecotti che l’in-

segnante sappia distanziarsi sia dalle super-ficiali interpretazioni delle guerre balcani-che fornite da molta cattiva stampa, che in-dividua le cause dei conflitti in una gene-tica predisposizione alla violenza e in unaincapacità di convivenza dei popoli slavi,assumendo in tal modo una posizione de-cisamente razzista, sia dalla parzialità del-l’informazione, che deve essere invece ilpiù possibile completa.

Per quanto infatti sia doveroso affronta-re il tema della violenza compiuta da slo-veni, croati e serbi alla fine della secondaguerra mondiale, il tema delle foibe e del-la deportazione delle popolazioni del-l’Istria, non si può ignorare il contesto sto-rico, come molti manuali scolastici fanno,non citando la dichiarazione di guerra fat-ta dall’Italia alla Jugoslavia, e occorre per-ciò sfatare il mito del “buon italiano”, pri-vato della responsabilità di azioni violen-te troppo spesso comodamente attribuite al“cattivo” alleato tedesco.

Come si evidenzia quindi dalla relazionedi Cecotti, gli insegnanti di storia si muo-vono su un terreno estremamente insidio-so e scivoloso, ragion per cui è essenzialeche esercitino la massima attenzione e, so-prattutto, che documentino e verifichinoscrupolosamente ogni fonte di informazio-ni.

Raffaella Franzosi

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ALBERTO LOVATTO (a cura di)

Canzoni e Resistenza

Atti del convegno nazionale di studi

2001, pp. IV-319, con compact disc allegato, € 20,66

L’opera dà spazio, in maniera equilibrata e proficua, a un momento di studio e di

approfondimento a carattere specialistico, quale fu il convegno organizzato dal-

l’Istituto in collaborazione con il Consiglio regionale del Piemonte e con il con-

tributo dell’Amministrazione provinciale di Biella, della Città di Biella e della

Fondazione Cassa di Risparmio di Biella, e a un evento di maggiore divulgazione

e di più ampia partecipazione, quale fu il concerto “E sulla terra faremo libertà”,

svoltosi in occasione del convegno stesso.

Il volume (che fa seguito alla pubblicazione del volumetto e del cd contenente la

registrazione del concerto stesso) raccoglie i saggi della maggior parte degli stu-

diosi che a livello nazionale si sono occupati di canzoni partigiane e rappresenta

un’ulteriore occasione per ridare respiro alla riflessione, secondo le modalità e gli

schemi propri della divulgazione scientifica. L’aggiunta del compact disc con

alcuni documenti sonori esprime uno sforzo di rigorosa fedeltà nei confronti del-

le fonti della ricerca.

Il volume contiene saggi di Cesare Bermani, Emilio Jona, Adriano Gasparrini, Getto

Viarengo, Antonietta Arrigoni, Marco Savini, Riccardo Schwamenthal, Amerigo

Vigliermo, Alberto Lovatto, Mimmo Boninelli, Mimmo Franzinelli, Franco Lucà,

Fabrizio Tavernelli, Antonio Canovi, Giovanni Contini, Silvio Ortona, Francesco

Biga, Fausto Amodei, Cesare Bermani, Franco Castelli, Alberto Cesa, Francesco

Caudullo, Roberto Leydi, Franco Castelli, Alberto Lovatto; una bibliografia cu-

rata da Cesare Bermani e Alberto Lovatto, e gli indici dei nomi di persona, di luo-

go e del cd allegato.

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attività dell’Istituto

l’impegno 115

Di mondo musulmano, di questione pa-lestinese, di fondamentalismo islamico imass media parlano continuamente, ma checosa realmente si conosce della travagliatasituazione del Medio Oriente che vada aldi là di una superficiale informazione?

Per approfondire l’argomento l’Istituto,nel mese di novembre del 2001, ha orga-nizzato un convegno specificamente dedi-cato alla questione mediorientale, i cui re-latori, attraverso l’analisi degli aspetti sto-rici, politici, militari, culturali e sociali delproblema, hanno cercato di rendere ragio-ne del complicato intrecciarsi di dinami-che conflittuali nell’area.

Le cause storiche dell’instabilità del Me-dio Oriente sono state al centro dell’inter-vento di Valter Coralluzzo, docente del-l’Università di Torino, che, ripercorrendola storia della regione, ha evidenziato leradici dei conflitti e il modo in cui su diessi ha influito la strategia politica delmondo occidentale.

Il fattore determinante della destabiliz-zazione dell’area mediorientale è dato dalruolo di primo piano che, a partire dall’ini-zio del XX secolo, si è trovata a rivestirenel panorama internazionale, in seguitoalla scoperta dell’enorme ricchezza petro-lifera di cui dispone. Il controllo che di fat-to esercita su buona parte delle risorse ener-getiche del pianeta ha fatto del Medio

Oriente un’area in cui si intrecciano incal-colabili interessi economici e su cui, diconseguenza, si concentra l’attenzione del-le grandi potenze industriali.

La tensione inevitabilmente generata daun elemento di carattere economico-poli-tico, è poi acuita ulteriormente da cause diattrito di natura storica, religiosa e cultu-rale, altrettanto significative che, somman-dosi le une alle altre, rendono esplosiva lasituazione.

Accanto al problema della precarietà deiconfini, la cui responsabilità è da attribuirsiagli imperi coloniali occidentali che han-no tracciato divisioni in modo approssima-tivo, senza considerare le specificità terri-toriali, Coralluzzo evidenzia il conflitto re-ligioso dato dallo scontro dottrinale trasunniti e sciiti, le due principali correntidell’Islam; il diffondersi del fondamentali-smo islamico; l’emarginazione delle mino-ranze, viste come una minaccia alla sicu-rezza e duramente represse e, non ultimo,il sorgere di figure carismatiche che, mani-polando le masse, fanno leva sul mito del-la costituzione di una grande e unita nazio-ne araba.

In questo quadro già fortemente a rischiosi inserisce il complesso nodo di problemirappresentato dalla questione palestinese,che, dalla fondazione dello stato di Israelenel 1948, ha provocato ben quattro guerre

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attività dell’Istituto

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arabo-israeliane e innumerevoli conflitti diminore entità.

Non è possibile tacere l’appoggio dato,all’indomani della seconda guerra mondia-le, dal mondo occidentale, e soprattutto da-gli Stati Uniti, al movimento sionista, sor-to alla fine dell’Ottocento con l’obiettivodi riportare il popolo ebraico nella Terrapromessa. Vuoi per tentare di cancellare ilsenso di colpa provocato dall’orrore dellosterminio nazista, vuoi per garantirsi unalleato in un’area economicamente nevral-gica, l’Occidente ha avallato il processo dirimozione messo in atto dal sionismo, inconseguenza del quale si è volutamenteignorata la presenza di una popolazionepalestinese di cultura islamica, radicata sulterritorio da ben dodici secoli, e costrettaad abbandonarlo senza alcuna possibilitàdi scelta.

È importante sottolineare il fatto che en-trambi i contendenti pongono il problemacome una questione di sopravvivenza. Siail popolo palestinese sia il popolo ebraicosi sentono minacciati nella loro stessa esi-stenza: il primo a causa dell’assenza diun’identità territoriale, il secondo perchél’obiettivo dichiarato dell’Olp è stato sem-pre, almeno fino alla guerra del Kippur nel1973, l’annientamento dell’insediamentoebraico, ritenuto privo di qualsiasi dirittodi cittadinanza in Palestina. La lotta per lasopravvivenza è proprio la motivazioneforte che, accanto a un indubbio valore deivertici militari e dell’armamento, ha resopossibile la vittoria del piccolo stato diIsraele in tutte le guerre sostenute contro ilmondo arabo. Il fatto poi che l’Occidentesi sia posto quale garante della sicurezzadi Israele ha inciso notevolmente sugliequilibri dell’area, costringendo gli arabia intavolare trattative di pace, nella ormairaggiunta consapevolezza dell’impossibi-lità di sconfiggere uno stato con alleati

tanto potenti. Così, nel 1979, la pace diCamp David tra Israele ed Egitto rappresen-ta un importante passo avanti nel tentati-vo di pacificare la zona.

Ma se la strategia politica statunitensenegli anni della guerra fredda mira a garan-tire la sopravvivenza di Israele, cercandonello stesso tempo di contenere l’espansio-nismo dell’Unione Sovietica, con i muta-menti epocali dati dalla caduta del murodi Berlino e dallo sfaldamento dell’Urss, gliobiettivi che si pone mutano, in accordocon la profonda trasformazione del pano-rama internazionale e della stessa regionemediorientale. Il Medio Oriente infatti ri-sente della nuova situazione, non solo dalpunto di vista geografico, con l’acquisizio-ne di nuove aree, ad esempio Tagikistan eKazakistan, precedentemente integratenell’Urss e ora, in quanto musulmane, gra-vitanti verso paesi arabi quali Iran e Ara-bia Saudita, assunti come modelli, ma an-che e soprattutto da un punto di vista poli-tico, a causa della perdita dell’appoggiosovietico al radicalismo di chi, nel mondoarabo, rifiutava categoricamente qualsiasidialogo e negoziato.

La politica statunitense in Medio Orien-te, non più totalmente dominata dallo scon-tro ideologico con l’Unione Sovietica, nonpiù così pressata dalla necessità di proteg-gere Israele da un possibile attacco sferra-to da una coalizione di paesi arabi, ipotesialquanto remota, e non più così preoccu-pata, dopo la guerra del Golfo, dal proble-ma dei rifornimenti petroliferi, è ora prin-cipalmente impegnata nel tentativo di im-pedire il formarsi di egemonie regionali chepossano contrastare gli interessi del mon-do occidentale, ricompattando politica-mente il mondo arabo attorno all’idea diun nemico ateo e materialista da combat-tere con ogni mezzo.

L’avversario principale è ora il fonda-

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mentalismo islamico che, sventolando labandiera della guerra santa, manipola lemasse dei diseredati e le strumentalizza infunzione antioccidentale, facendo levasulla loro disperazione e la loro miseria,con l’obiettivo dell’abbattimento dei con-fini fra gli stati arabi e della costituzionedi una unica comunità musulmana, capacedi superare ogni frammentazione.

La questione palestinese dunque, già re-sa estremamente complessa dal problemadei profughi, costretti a vivere nei campidi raccolta nei paesi arabi vicini o nei co-siddetti “territori occupati”, dalla negazio-ne da parte del governo israeliano della ri-soluzione dell’Onu che sancisce il ritornodei palestinesi nelle loro terre, dalla proli-ferazione degli insediamenti ebraici e dal-la rivendicazione della città di Gerusa-lemme come capitale da parte di entrambii contendenti, è ulteriormente aggravatadal delirante progetto del fondamentali-smo islamico, avversario della democraziae dello stato nazionale, visti come strumen-ti imperialistici atti ad indebolire il mon-do arabo.

In una così difficile situazione una pos-sibilità di risoluzione del problema chepreveda la realizzazione di una proficuacollaborazione economica e culturale traIsraele e mondo arabo sembra essere asso-lutamente utopica. Più realistica pare l’in-staurazione di una “pace fredda” che ren-da il conflitto sotterraneo, ma endemico,oppure, scenario estremamente inquietan-te, una deflagrazione dell’intera area inseguito alla decisione degli Stati Uniti, piùattuale che mai, di spostare il conflitto dauna zona periferica come l’Afghanistan apaesi più centrali quali l’Iraq, o come con-seguenza della destabilizzazione, ad ope-ra dei fondamentalisti, dei paesi arabi mo-derati come il Pakistan.

Ciò che bisogna tenere ben presente per

Coralluzzo è che per la pacificazione del-l’area mediorientale non è determinantesolo la risoluzione dei problemi politici,militari, ed economici, ma ciò che è neces-sario capire è l’importanza di un interven-to sul piano culturale che passi attraversola sconfitta del fondamentalismo e facciain modo che il problema non venga più er-roneamente posto come uno scontro traciviltà, l’Islam e l’Occidente, ma come unalotta tra i valori universalmente validi del-la pace, della tolleranza, della multicultu-ralità e la loro negazione.

Per evitare un atteggiamento fondato sulpregiudizio è fondamentale acquisire unaconoscenza della civiltà islamica che vadaal di là della banalità dei luoghi comuni econsenta di guardare alla cultura musulma-na in modo consapevole. È proprio in que-sta direzione che si è sviluppato l’interven-to di Claudia Tresso, docente dell’Univer-sità di Torino, che ha evidenziato comel’Islam si ponga quale sistema di valori cheoltrepassa i confini della religione per in-formare di sé la cultura, la società e, in qual-che caso, anche la politica.

Premettendo che è necessario evitare laconfusione generata dall’identificazionetra arabi e musulmani, i primi identificatida fattori geografici e linguistici, i secon-di essenzialmente definiti da una religio-ne e dotati di caratteri sovranazionali, larelatrice sottolinea la non assoluta etero-geneità tra islamismo e cristianesimo. En-trambe, infatti, insieme all’ebraismo, sonoreligioni monoteiste e rivelate agli uomi-ni dai profeti. Precedono Maometto, il piùgrande tra loro, altri profeti quali Mosé eGesù, tutti portatori della volontà divina,concretamente conservata nei libri sacri: ilPentateuco, i Vangeli e il Corano, comple-tamento ultimo del messaggio che Dio havoluto gli uomini conoscessero.

Non c’è scontro, non c’è contrapposizio-

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ne netta, ma solo una visione che pone ilCorano come culmine e perfezionamentodella rivelazione di Allah (che in arabo si-gnifica semplicemente Dio), già manifesta-tasi in precedenza in forme imperfette.

La figura di Maometto è fondamentaleper l’Islam, poiché egli si fa portatore, nel-la vita e nelle opere, del progetto che Dioha per gli uomini e che si realizza nelleforme e nei modi descritti nella Sunna. In-sieme al Corano, questo libro sacro, chepone la vita di Maometto come modello daseguire, è l’altro fondamento della religio-ne musulmana e su di esso si erige quell’in-sieme di culti, di norme, di prescrizioni checontribuiscono alla diffusione di una cul-tura comune in popoli anche molto diver-si tra loro. La religione islamica superaquindi i confini intimi del rapporto tra uo-mo e Dio per proiettarsi nel mondo e nellasocietà e influenzare le tappe dell’esisten-za del singolo, dalla nascita alla morte, e ilegami tra individuo e comunità. Le dispo-sizioni contenute nei libri sacri, quali ildovere dell’ospitalità, la separazione tramondo maschile e femminile, il divieto dimangiare carne di maiale e i riti legati allanascita, alla circoncisione, al matrimonio,alla cura dei morti, accomunano tutti colo-ro, anche al di fuori del mondo arabo, checredono all’Islam.

Diffondendosi tra le persone di ogni or-dine e grado, quindi anche tra uomini dilegge e governanti, la religione islamicafinisce per diventare ciò da cui essi trag-gono ispirazione nell’esercizio delle lorofunzioni e, in tal modo, determina il formar-si di una mentalità giuridico-islamica sul-la base della quale si stabiliscono le leggiregolanti la società civile.

Fulcro di tale società e ragione stessadella sua esistenza è, nel mondo islamico,la cellula familiare, all’interno della qualei rapporti acquisiscono un carattere deci-

samente prioritario rispetto al legame chesi viene a creare tra cittadino e stato. I con-cetti di nazione e di nazionalismo, di stam-po prettamente europeo, non hanno gran-de rilevanza per il musulmano che, in pri-mo luogo, sente di appartenere alla fami-glia e viene cresciuto in modo tale da po-tersi pienamente realizzare in essa.

Ricollegandosi all’idea tipicamente oc-cidentale di nazione, Ada Lonni, docenteall’Università di Torino, cerca di delinearei percorsi identitari attraverso i quali si co-struisce in Medio Oriente, e in particolarein Israele e Palestina, il concetto di appar-tenenza nazionale.

Il ruolo giocato dal mondo occidentalein tale processo è determinante, poiché lasuddivisione dell’area mediorientale inaree distinte e separate è una costruzionecompiuta dagli europei all’indomani del-la prima guerra mondiale. L’idea di stato-nazione, inteso come territorio racchiusoda precisi confini, all’interno del quale vi-vono popolazioni accomunate da una stes-sa lingua e da una stessa storia, non ha al-cun significato nell’area mediorientale.Ciò che invece ha determinato il sorgere diun forte senso di appartenenza è stata sial’idea di una grande nazione araba, identi-ficata con l’Impero che, da Mohamed inpoi, ha conosciuto momenti di grandeespansione e di grande fioritura culturale,sia un’idea più specificamente legata allareligione, che nell’Islam vede il tratto co-mune in cui tutti i popoli dell’area si pos-sono riconoscere.

Se di nazionalismo si può parlare, alla vi-gilia della prima guerra mondiale, è comun-que un concetto del tutto slegato da qual-siasi connotazione geografica, accomu-nante i popoli del territorio oggi corrispon-dente a Palestina, Israele, Libano, Siria,Giordania, Iraq, raggruppati nelle cosiddet-te “terre di Damasco” e uniti dal tentativo

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di non lasciarsi assorbire dagli ottomaniche governavano la regione. I confini, nondelineati sulla base dell’appartenenza diun popolo ad un luogo chiaramente defi-nito, ma legati ad una suddivisione fonda-ta sulle tribù e sulla attribuzione a ciascu-na di una parte del territorio dotata del ne-cessario per sopravvivere (pascoli, pozzi,ecc.), vengono ridefiniti da Francia e GranBretagna, uscite vittoriose dalla guerra,attraverso l’introduzione di distinzioni eseparazioni, laddove originariamente, no-nostante le differenze specifiche, c’eraunità e condivisione di valori e atteggia-menti. In conseguenza di ciò l’idea di na-zione entra progressivamente a far partedell’immaginario dei popoli mediorienta-li, consapevoli del fatto che l’appartenen-za nazionale è la condizione indispensa-bile per dialogare con l’Occidente e farsentire la propria voce.

Ada Lonni dunque, dopo aver sottoline-ato come il concetto di stato-nazione, alie-no al mondo arabo, sia stato in esso forza-tamente introdotto dall’ingerenza degli oc-cidentali, che hanno applicato le loro rigi-de categorie ad una realtà molto eteroge-nea, ne segue l’evoluzione nei due casispecifici di Israele e Palestina, impegnatientrambi nel tentativo di costruire una pro-pria identità sullo stesso minuscolo pezzodi terra.

Atipico è il percorso attraverso il qualesi è giunti alla costituzione dello stato diIsraele, miscela di persone differenti perprovenienza e quindi per lingua, tradizio-ni, abitudini che, a partire dalla secondametà dell’Ottocento, hanno cominciato adabbandonare la loro terra d’origine e a sta-bilirsi in Palestina, fuggendo in tal mododa situazioni divenute insostenibili. Gliinsediamenti ebraici che si sono progres-sivamente stabiliti in Medio Oriente sonoil risultato dell’antisemitismo latente che,

periodicamente, si è ripresentato in formesempre più crudelmente persecutorie.

Gli ebrei di Palestina sono fuggiti dallaRussia zarista alla fine dell’Ottocento, dal-l’Unione Sovietica all’indomani della rivo-luzione d’ottobre, dalla Germania nazistain seguito alla promulgazione delle leggirazziali, dall’Europa dell’Olocausto, dal-l’Etiopia e dall’Eritrea, dallo stesso mon-do arabo. Ciascun gruppo ha portato consé la propria cultura e il proprio modo divivere, tratto distintivo che lo separa daglialtri, ai quali però è allo stesso tempo lega-to da un’identica esperienza di profondodolore. La varietà del mondo ebraico cosìcostituitosi avrebbe potuto essere la basedi partenza per realizzare concretamenteuna società multiculturale, fondata sul ri-spetto e sulla tolleranza e unita, pur nelladiversità delle vicende, dalla condivisio-ne della medesima grande sofferenza. Que-st’importante obiettivo però non è statoraggiunto, a causa del prevalere della cul-tura occidentale aschenazita che, ritenutaprioritaria, ha assorbito in sé tutte le altre ole ha relegate nei gradini più bassi di unasocietà fortemente gerarchizzata, costrui-ta su principi maschilisti e militaristi. Gliebrei aschenaziti, di origine tedesca, rico-prendo tutte le più importanti cariche go-vernative, hanno nelle loro mani il control-lo della regione, mentre i sefarditi, di ori-gine araba, cacciati dalla Spagna, e i fala-scia, originari dell’Etiopia, sono collocatipiù in basso nella scala sociale. A renderela situazione di Israele ancora più comples-sa non mancano gli autoctoni, ossia i pale-stinesi cristiani o musulmani che non han-no abbandonato la regione, e la forte pre-senza di un’immigrazione clandestina.

L’incapacità di comunicazione all’inter-no di un mondo estremamente variegato,l’introversione esasperata, che rende impos-sibile superare la diffidenza reciproca e

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condividere il dolore, fanno sì che l’unicocollante in Israele sia rappresentato dallapresenza di un nemico da cui è necessariodifendersi. Il popolo ebraico non si defini-sce sulla base di quello che è, ma sulla basedi quello che lo rende differente dall’altro.L’avversario palestinese, il rapporto colquale è fondato sul terrore, è l’unico ele-mento in grado di amalgamare la societàebraica.

Dopo aver delineato i percorsi attraver-so i quali gli israeliani si definiscono comenazione, Ada Lonni evidenzia il modo incui lo stesso processo si svolge per i pale-stinesi, evidenziando come, paradossal-mente, i concetti di patria e nazione comin-ciano a nascere proprio nel momento in cuial popolo palestinese, in seguito all’espul-sione, viene meno la terra. Dopo il 1948,una popolazione in fuga, pari circa al no-vanta per cento dei residenti, si ritrova pri-vata di qualsiasi punto di riferimento con-creto, senza più casa, né villaggio, insedia-ta in campi profughi che sussistono a tut-t’oggi e che hanno visto succedersi le ge-nerazioni. È proprio la condivisione diquesto identico destino di rifugiati che av-vicina i palestinesi e consente il sorgere diun identico sentire e della consapevolez-za, raggiunta gradualmente, del loro dirittoad una patria comune. Ciò su cui costrui-scono la loro identità e che utilizzano comestrumento di sopravvivenza, l’unico chenon può in alcun modo essere loro sottrat-to, è la cultura. L’importanza data all’istru-zione, l’attenzione per l’educazione deibambini e dei giovani, gli studi che questiultimi compiono nelle più prestigiose uni-versità internazionali, sono le armi più ef-ficaci di cui i palestinesi dispongono perrendersi visibili e, in tal modo, porsi comeinterlocutori privilegiati nel dialogo conl’Occidente.

Seguendo tappe atipiche dunque, sia

israeliani che palestinesi hanno costruito,in modo molto personale, un’idea di nazio-ne in cui riconoscersi, affacciandosi en-trambi sul panorama internazionale con glistrumenti necessari a farsi ascoltare. Essen-ziale però è che si aprano dei canali di dia-logo tra le parti, nonostante gli spazi per-ché ciò avvenga sembrino restringersi sem-pre più. L’apertura e la disponibilità alla co-noscenza reciproca, determinanti per supe-rare l’ostilità fondata sul pregiudizio, rap-presentano l’unica possibilità per cessaredi vedere nell’altro sempre e comunque unnemico.

L’elevata tensione e diffidenza dei rap-porti tra israeliani e palestinesi però, benlontani da una distensione, trova confermanel ruolo vitale da sempre attribuito da Isra-ele alle strategie messe in atto per garan-tire la sicurezza nazionale, argomento alcentro della relazione di Paolo Ceola, col-laboratore dell’Istituto.

Fin dalla sua fondazione lo stato di Israe-le ha sviluppato tutte le sue potenzialitàeconomiche, scientifiche, tecnologiche,militari in funzione del radicamento sulterritorio e della sua difesa da qualsiasi in-gerenza esterna, percependo la sua stessaesistenza e sopravvivenza come dipenden-te dall’idea di sicurezza nazionale.

Tale idea è alimentata dalla convinzio-ne della durata pressoché infinita del con-flitto arabo-israeliano, destinato a protrar-si attraverso periodici conflitti, visti cometappe di una interminabile guerra. A que-sto si aggiunga l’imperativo della prepa-razione militare, indispensabile per far fron-te ai potenziali attacchi congiunti dei pae-si arabi e tale da saper gestire qualsiasi tipodi scontro, dalla guerriglia, agli attacchiaerei su larga scala, fino al possibile uti-lizzo di armi di distruzione di massa. Que-sta concezione ha fatto sì che Israele con-centrasse le proprie risorse e i propri sforzi

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nell’addestramento di un esercito che puòessere annoverato tra i migliori del mondo,privilegiando l’aspetto qualitativo rispet-to a quello quantitativo e facendo leva,oltre che su una annosa esperienza di au-todifesa, elemento costitutivo della vita inIsraele già per i primi coloni, sullo studioapprofondito di validi modelli militari,quale ad esempio quello svizzero.

La definizione di sicurezza nazionalenon può prescindere inoltre da considera-zioni di carattere geografico, esplicative diuna strategia che tende ad allontanare ilconflitto dal territorio israeliano, di esten-sione estremamente limitata e quindi pre-ziosa risorsa da difendere, e a concentrarlonei paesi arabi o, al limite, sui confini.Mancando di quella che viene definitaprofondità strategica, Israele non può per-mettersi le disastrose conseguenze di unalunga guerra combattuta in un luogo pri-vo di confini naturali a far da barriera edove, per evitare la perdita di spazio vita-le, l’avanzata del nemico deve essere ne-cessariamente bloccata prima ancora chesia penetrato nel territorio. Lo scaricare iconflitti all’esterno è dunque un adatta-mento della strategia militare ad esigenzedeterminate dalla conformazione territoria-le, che influenza fortemente l’atteggiamen-to dell’esercito israeliano e lo induce a pri-vilegiare una posizione in cui deterrenza eteoria offensivistica procedono di pari pas-so.

Limitarsi ad abbracciare una concezio-ne di difesa passiva mirante a logorare l’av-versario, in un paese così piccolo, in cuibuona parte della popolazione viene ri-chiamata alle armi in caso di guerra, com-porterebbe eccessive perdite da un puntodi vista economico e avrebbe effetti deva-stanti su Israele. La minaccia di rappresa-glia, di cui l’esercito israeliano si servecome di un deterrente per impedire un at-

tacco nemico, si accompagna così ad unatempestiva offensiva nel caso in cui la guer-ra sia considerata inevitabile, in modo daporsi in posizione di vantaggio e conclu-dere il conflitto in tempi brevi. Inoltre, aseconda della tipologia del conflitto, i dueconcetti di deterrenza e offensivismo sonooggetto di differenti applicazioni e agisco-no in modo diverso a seconda che si trattidi una guerra convenzionale, di una guer-riglia o di una guerra combattuta con armidi distruzione di massa. Nel primo casoIsraele, per scongiurare il conflitto, dà disé un’immagine minacciosa di grande po-tenza e, attraverso ultimatum e l’istituzio-ne di precise linee non oltrepassabili daipaesi arabi, diffonde intorno a sé il terrore,cercando poi, in caso di guerra, di prende-re immediatamente in mano la situazionee di imporsi con forza. Nel secondo caso,quando il conflitto è di basso profilo, ac-canto alle minacce Israele mette in atto du-rissime rappresaglie, apparentemente spro-porzionate all’entità dell’offesa ricevuta e,infine, nel terzo caso, rimasto fortunata-mente a livello teorico, la deterrenza siesplica nell’allusione al possesso di un’ar-ma atomica e nella disponibilità ad usarla,qualora fosse necessario.

A completare il quadro dei fattori checontribuiscono a definire l’idea di sicurez-za nazionale in Israele, concorre la ricercadi un’alleanza con una grande potenza, dasempre rappresentata dagli Stati Uniti, alloscopo di scongiurare la possibilità dell’in-tervento nelle guerre mediorientali di unnemico troppo forte da affrontare. Bisognaperò tenere presente l’indipendenza che,nonostante tale determinante appoggioesterno, Israele mantiene, non sottometten-dosi servilmente alle direttive dell’alleatopiù potente e influente, ma agendo a volteanche in contrasto con le sue volontà.

La relazione di Ceola evidenzia come la

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sicurezza nazionale sia l’idea sulla basedella quale lo stato di Israele si plasma e sidefinisce, divenendo perciò la colonna por-tante della sua stessa esistenza e sviluppan-dosi in una efficace strategia militare on-nicomprensiva.

I due ultimi interventi del convegno fan-no l’uno da contraltare all’altro, in quantomossi da un’ugualmente appassionata di-fesa dei diritti e delle motivazioni delleparti in conflitto.

Emilio Jona, consigliere scientifico del-l’Istituto, esprime la propria condanna del-l’atteggiamento di chi, incapace di guar-dare al di là di se stesso e di vedere il con-testo in cui matura lo scontro, agisce uni-camente tenendo presenti le proprie ragio-ni, senza nessun tentativo di comprensio-ne effettiva dell’altro.

Facendo riferimento al movimento sioni-sta e all’incapacità da parte araba di com-prenderne e rispettarne le motivazioni, evi-denzia come, fin dal 1969, anno della co-stituzione dell’Olp, sia stato falsamente in-terpretato come fanatico, imperialista e raz-zista. Jona, ripercorrendo la storia del sio-nismo, mira a smascherare questa concezio-ne fondata sul pregiudizio, chiarendo in-nanzitutto come non debba essere intesocome un fenomeno religioso, ma essenzial-mente come movimento in cui l’aspettopolitico è preponderante, poiché l’obietti-vo ultimo è la costituzione di uno stato na-zionale laico, lontano dalla visione mes-sianica del ritorno in Palestina propria deireligiosi ebrei.

Nato in occasione dei pogrom organiz-zati dalla polizia segreta dell’Impero rus-so e dell’infondata accusa di alto tradimen-to mossa a un capitano ebreo dell’esercitofrancese, nel 1894, e nota come affaire

Dreyfus, il sionismo si sviluppa come rea-zione a una violenta ondata di antisemiti-smo che attraversa l’Europa e che tende a

fare dell’ebreo il capro espiatorio su cui farconvergere il malcontento della società. LaPalestina viene così indicata, nel famosolibro “Lo stato ebraico” di Theodor Herzl,come terra destinata ad accogliere gli ebreiin fuga, poiché originariamente, prima chei romani li costringessero a disperdersi, essivi fondarono lo stato di Giudea e vi impian-tarono la loro cultura. Progressivamente icoloni, acquistando le terre che gli arabiaccettano di vendere loro, accrescono con-siderevolmente il piccolo nucleo di ebreirimasti in Palestina dopo la diaspora, fortidella dichiarazione di Balfour del 1917, incui l’Inghilterra riconosce loro il diritto alpossesso di un “focolaio nazionale”. Lareazione del mondo arabo all’insediamen-to è immediatamente violenta ed è resaancora più aggressiva, prima dalla dichia-razione di una commissione inglese che,alla fine degli anni trenta, stabilisce la ne-cessità della fondazione di uno stato ebrai-co in Palestina che occupi il 20 per centodel territorio, poi dal riconoscimento inter-nazionale dello stato di Israele nel 1947.

È la Lega araba ad opporsi, ad attaccare,ad essere sconfitta, poiché inizialmente ipalestinesi, per secoli inglobati all’internodell’Impero ottomano, sono privi di unacoscienza nazionale e la consapevolezzadel proprio diritto ad uno stato sorge uni-camente come reazione al sionismo.

Non bisogna dimenticare, sottolineaJona, come lo stato ebraico abbia fin dal-l’inizio dovuto difendere la propria esisten-za dalla violenza araba, manifestamente in-tenzionata alla distruzione di Israele e do-minata da un antisemitismo di fondo, spes-so utilizzato strumentalmente da una mar-tellante propaganda. Se si verificasse real-mente, secondo le richieste di Arafat, il ri-torno dei tre milioni e mezzo di profughipalestinesi, discendenti di coloro che fu-rono cacciati o se ne andarono dai territori

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nel 1948, ciò rappresenterebbe una pro-gressiva estinzione demografica e cultura-le per Israele, responsabile sì di aver falsa-mente considerato la Palestina una terrasenza popolo, ma comunque avente il di-ritto alla sopravvivenza. Arafat dunque,avanzando proposte assolutamente inac-cettabili, ha erroneamente rifiutato le van-taggiose condizioni offertegli da Barak,ossia la restituzione del 93 per cento deiterritori e di una parte della città di Geru-salemme, gettando al vento in tal modo unagrande occasione di pacificazione.

Jona non nega i gravi errori e le enormimancanze commesse anche da parte israe-liana, che tante vittime innocenti hannoprovocato, ma sottolinea comunque lamancanza nel mondo arabo di quella fortecoscienza critica che è invece fortementesviluppata in Israele e che, attraverso gior-nali e movimenti pacifisti, nonché lettera-ti quali Amos Oz e David Grossman, si espli-cita in una protesta contro le violenze e imassacri ingiustificati compiuti dal pro-prio governo.

Nel deteriorarsi progressivo della situa-zione, in una condizione in cui domina l’ir-razionalità, in cui al terrorismo si rispondecon la violenza, imboccando in tal modoun vicolo cieco, l’unica possibilità è rap-presentata dall’interposizione di forze in-ternazionali che si assumano il compito diriaprire un canale di comunicazione, perquanto tale processo sia lungo e difficol-toso.

Nella sua relazione dunque Jona cerca dichiarire come i diritti del popolo israelia-no debbano essere tutelati dalla minacciadel terrorismo e dell’antisemitismo araboe mette in guardia da una visione del pro-blema che non tenga conto del fatto che gliisraeliani stanno lottando per la loro stes-sa sopravvivenza.

Ivana Stefani, dal canto suo, facendo ri-

ferimento alla sua esperienza all’internodel movimento pacifista internazionaledelle “Donne in nero”, nato in Israele ecomposto da donne che, per manifestare ilproprio dissenso contro la politica del lorostesso stato, sfilano completamente vesti-te di nero e in perfetto silenzio, apre il suointervento con un breve filmato incentra-to sulla manifestazione tenutasi in occasio-ne del 19o anniversario della strage di Sa-bra e Chatila, nella quale furono massacra-ti dai duemila ai tremila palestinesi, tra iquali numerose donne e bambini. Ciò chela relatrice vuole in tal modo evidenziareè la disperata condizione in cui si trovanoi 350.000 profughi palestinesi in Libano,che da cinquant’anni vivono nei campi esono privati dei più elementari diritti, inquanto esclusi per legge dalle attività pro-fessionali, dall’istruzione, dall’assistenzasanitaria. In una condizione di assoluto de-grado, da cui si salvano solo per il loro altogrado di alfabetizzazione, determinanteper la conservazione del ricordo della ter-ra e, di conseguenza, dell’identità, i pale-stinesi subiscono l’intolleranza dei paesidi accoglienza, mal disposti ad accettare unvero e proprio stato organizzato, e in quan-to tale destabilizzante, all’interno dei loroconfini. Giustificati dall’argomentazioneche l’integrazione all’interno dello statoospite pregiudicherebbe il ritorno alla ter-ra d’origine, i paesi accoglienti impedisco-no ai profughi di vivere fuori dai campi edi possedere qualsiasi proprietà all’ester-no, condannandoli in tal modo alla mise-ria. In una situazione in cui non solo è im-possibile il ritorno in Palestina, ma anchela vita nei campi profughi è privata di ognidignità, le masse disperate sono facile pre-da della follia del fondamentalismo islami-co e del terrorismo. Ma, nonostante ciò, bi-sogna assolutamente evitare l’identifica-zione dell’intero mondo islamico colla

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violenza terrorista, alibi spesso utilizzatoper giustificare l’intervento armato comeunica possibile soluzione.

Ivana Stefani, in conclusione, facendo ri-ferimento all’accordo di pace proposto daBarak ai palestinesi, citato anche da Jona,evidenzia, al contrario di quest’ultimo, lemotivazioni che hanno spinto Arafat allarinuncia, sottolineando come, in fondo, sitrattasse di concedere il ritorno di percen-tuali minime di profughi, escludendo to-talmente i palestinesi in Giordania e Siria,lasciando agli israeliani il controllo delle

strade di collegamento tra un insediamen-to e l’altro e, soprattutto, il controllo del-l’acqua.

Gli ultimi due interventi mostrano comela difficile e dolorosa questione palestine-se possa essere guardata da opposti puntidi vista, ciascuno con le proprie valide mo-tivazioni a sostegno, ed è proprio l’atten-zione e il riconoscimento delle ragioni edei diritti dell’altro a rappresentare la stra-da da percorrere per porre fine alla violen-za.

r. f.

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Premessa

Essendo finalmente avviato a soluzionel’annoso problema dell’insufficienza deglispazi della sede dell’Istituto, nel corso del2002, in occasione del trasloco a Varallo,nei nuovi, ampi locali messi a disposizio-ne dall’amministrazione comunale, l’atti-vità potrà subire un rallentamento. Per que-sto motivo si è ritenuto di non programmaremolte iniziative pubbliche, che si sarebbe-ro rivelate di difficile gestione in una talecontingenza. L’impegno dei collaboratorisarà quindi concentrato in altri settori, spes-so meno appariscenti, ma non per questomeno significativi ed utili.

Da segnalare che inizierà la propria atti-vità il nuovo Comitato scientifico, di cuifanno parte, oltre ai consiglieri già in cari-ca, docenti delle Università di Torino e delPiemonte orientale.

Ricerche

Nel 2001 sono innanzitutto proseguite levarie ricerche pluriennali.

Nell’ambito di quella sull’antifascismonel Vercellese, nel Biellese e nella Valsesia(1919-1945), a cura di Piero Ambrosio,vengono redatte biografie di protagonisti(finora oltre settecento), ricostruiti episo-di (finora oltre duecento) e informatizzatii dati, anche al fine di una lettura compa-rata con altre banche dati, come quelle del

“partigianato”, dei Cln insediatisi alla Li-berazione, delle giunte di Cln, delle primegiunte comunali elettive del 1946 e degliamministratori locali del dopoguerra.

La ricerca sugli amministratori (che sicollega alle ricerche sul partigianato e sul-le “classi dirigenti” nel dopoguerra) dal1946 fino al 1975 (individuato come mo-mento di ricambio generazionale della clas-se dirigente amministrativa) studia la par-tecipazione democratica alla vita ammini-strativa e politica, attraverso un’analisi sto-rico-sociologica fondata su riscontri obiet-tivi quali le consultazioni elettorali, e ge-nera un data base contenente i dati eletto-rali e socio-demografici relativi agli attuali168 comuni compresi nel territorio delledue province, i dati anagrafici e politicidegli eletti (generalità, anno di nascita,luogo di nascita e residenza, professione,incarichi amministrativi, orientamentopolitico), per un totale di circa 24.000 sche-de.

La ricerca è coordinata da Enrico Paga-no, che si avvale della collaborazione diLuca Perrone per la raccolta dei dati all’Ar-chivio di Stato e la loro schedatura infor-matizzata, che è stata avviata nel corso del2001.

La ricerca sulla canzone resistenziale inPiemonte - il cui progetto nacque dallavolontà di dare continuità al convegno

Relazione sull’attività svolta nel 2001

e piano di lavoro per il 2002

attività dell’Istituto

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attività dell’Istituto

nazionale di studi “Canzoni e Resistenza”,organizzato dall’Istituto con il Consiglioregionale del Piemonte (Biella, ottobre1998) - è invece stata avviata con dueobiettivi: stimolare, attraverso iniziativeeditoriali specifiche, la ripresa di studi e diconfronto sul tema della canzone resisten-ziale ed attivare una rete di collaborazionifra i diversi soggetti, enti, istituti che sisono interessati o dimostrano interesse peril tema della canzone popolare e sociale.Non potendo evidentemente avere pretesadi esaustività, la ricerca si pone due obiet-tivi realistici: la raccolta di tutti i canti editidella Resistenza piemontese in un’unicapubblicazione, per renderli facilmente con-sultabili, e la pubblicazione della maggiorquantità possibile di canti inediti, coinvol-gendo nell’iniziativa il maggior numeropossibile di studiosi che si sono occupatie si occupano di canzoni partigiane.

La ricerca - coordinata da Alberto Lovat-to e Franco Lucà - è condotta in collabora-zione con il Consiglio regionale del Pie-monte, il Centro regionale etnografico-lin-guistico di Torino e gli altri Istituti per lastoria della Resistenza e della società con-temporanea del Piemonte.

È stata conclusa la ricerca sui Cln comu-nali e le giunte di Cln (a cura di MarcoNeiretti, con la collaborazione di Ambro-sio), che ha, per ora, prodotto un data base

contenente i dati anagrafici e politici de-gli appartenenti agli organismi in questio-ne. I dati raccolti dovranno ora essere mes-si in correlazione con quelli delle altrebanche dati (soprattutto quelle del “parti-gianato” e degli amministratori del dopo-guerra) ed elaborati.

Per quanto riguarda le nuove ricerche:sono state avviate quella di Angela Regis(approfondimento del lavoro sulla comu-nità di Boccioleto durante la seconda guer-ra mondiale e la Resistenza) e quella sui po-

destà (a cura di Piero Ambrosio, con la col-laborazione di Luca Perrone), che si colle-ga alla ricerca sugli amministratori localie prevede la realizzazione di un nuovodata base, di cui saranno elaborati i dati,che potranno essere presentati nel corso diuna iniziativa pubblica e di cui si prevedela pubblicazione in forme da definire.

Per completare il quadro si sarebbe do-vuta avviare anche la ricerca sulle ammi-nistrazioni comunali prefasciste, ma per oranon è stato possibile, per la mancanza difonti archivistiche disponibili localmente.

Inoltre non è stato finora possibile svi-luppare la ricerca sui caduti della secondaguerra mondiale (per divieti all’accessodella documentazione opposti da autoritàdel settore).

Infine non sono ancora stati stipulati ac-cordi tra gli Istituti per le preventivate nuo-ve ricerche coordinate in ambito regiona-le, eccezion fatta per quella sui “luoghidella memoria” della seconda guerra mon-diale, della Resistenza e della deportazio-ne, che è invece entrata nel vivo (ed in cuiconfluiscono i risultati di nostri lavori svi-luppati nel corso degli ultimi anni, anchein collaborazione con le Anpi provincialibiellese e vercellese) nell’ambito del pro-getto di ecomuseo transfrontaliero “Lamemoria delle Alpi”, promosso dalla Re-gione Piemonte e di cui la sezione “I sen-tieri della libertà” costituisce la parte sto-rica dedicata agli anni della seconda guer-ra mondiale. Tale periodo storico ha rive-stito un ruolo fondamentale nella formu-lazione della memoria e della cultura deiterritori interessati dal progetto, così comepopolazione e territori alpini hanno avutouna funzione materiale e simbolica di pri-maria importanza nella storia e nella me-moria della Resistenza europea: il proget-to si propone in prima istanza di individua-re, censire e valutare storicamente luoghi

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ed eventi connessi al periodo, facendoemergere le valenze di carattere storico infunzione di temi ed episodi significatividella guerra resistenziale e dei percorsidegli ex prigionieri alleati verso la frontie-ra elvetica.

Per questo progetto la Regione e gli altrienti aderenti si sono avvalsi e si avvarran-no della collaborazione scientifica degliIstituti per la storia della Resistenza e del-la società contemporanea. Referente per ilnostro Istituto è Enrico Pagano.

Per quanto riguarda le province di Biellae Vercelli sono stati individuati ventottoitinerari, distribuiti fra Biellese, pianuravercellese e Valsesia, e sono state redatteschede descrittive storiche, ambientali eculturali, che possono costituire la base perla realizzazione di un insieme di percorsivirtuali, ma che riportano anche indicazio-ni su eventuali interventi materiali per ilripristino di sentieri, la realizzazione dipunti informativi e la posa di elementisegnaletici.

È prevista anche (autonomamente) la rea-lizzazione di una sezione del sito Internetdel nostro Istituto dedicata agli itineraridella Resistenza del Biellese e della Valse-sia (schede descrittive e storiche, immagi-ni, ecc.).

In collegamento con gli itinerari resi-stenziali è in fase di studio il progetto “Cit-tà in guerra”, con lo scopo di individuare edescrivere segni e memoria della guerra neicentri urbani del territorio: si ritiene che,come già avvenuto in altre province, pos-sano essere realizzate guide a stampa evideotapes.

Nel corso del 2002 proseguiranno le ri-cerche pluriennali, e si auspica di poter su-perare le difficoltà incontrate per quantoriguarda l’accesso alle fonti e di poter av-viare le due previste ricerche sulle ammi-nistrazioni comunali prefasciste e sui ca-

duti della seconda guerra mondiale.Per quanto riguarda le nuove ricerche, ol-

tre ad un progetto di ricerca biografica suiparlamentari locali del dopoguerra, sonoall’esame proposte di nuovi collaboratoridell’Istituto sulla “società biellese, il de-litto Matteotti e l’Aventino” e sull’“azionedi fascistizzazione operata sull’ammini-strazione pubblica negli anni trenta: il casodi Crescentino”.

La ricerca sul Biellese considera un pe-riodo molto interessante (1924-26) checonsente di studiare in ambito locale unafase delicata e decisiva della conquista delpotere da parte del fascismo.

Per la ricerca su Crescentino - basata sumateriali dell’archivio storico comunale -l’idea guida è quella di delineare l’inciden-za della propaganda e della cultura fasci-sta su di una piccola amministrazione pub-blica di provincia, mettendo in rilievo an-che le curiosità e le distorsioni che si veri-ficano quando si mescolano gestione delquotidiano e propaganda ai massimi livelli.

Mostre

Nel 2001 sono state esposte tre delle mo-stre attualmente disponibili: “...il filo spi-nato ti lacera anche la mente...”, disegni dalLager del pittore vercellese Renzo Ronca-rolo, ex internato militare (a Vigliano Biel-lese dal 27 gennaio al 5 febbraio e a Trinodal 25 aprile al 7 maggio); “Il Lager diMauthausen”, mostra di immagini realiz-zate dal fotografo Fulvio Borro (a Cossatodal 23 al 27 gennaio); “Partigiani a colorinelle diapositive di Carlo Buratti” (a Va-rallo dal 24 aprile al 1 maggio e a ValleMosso il 27 maggio).

Per motivi organizzativi non è stato in-vece possibile ultimare la mostra sugli emi-grati antifascisti del Vercellese e della Val-sesia schedati nel Casellario politico cen-trale (1922-1945), che rientra nel più va-

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128 l’impegno

attività dell’Istituto

sto lavoro di ricerca su questo tema, la cuiconclusione è pertanto rinviata ad epocasuccessiva al trasloco nella nuova sede.

Le mostre citate nonché quella sui sov-versivi e gli antifascisti della provincia diVercelli schedati nel Casellario politicocentrale dal 1896 al 1945 “Da vigilare eperquisire” e quella sulla Resistenza pie-montese “Con le armi, senza le armi” con-tinueranno ad essere disponibili anche nel2002.

Convegni, giornate di studi, conferenze

Nel 2001 sono stati realizzati i due con-vegni “Aspetti della questione balcanica”e “Aspetti della questione mediorientale”,mentre si è dovuto rinviare quello su “Gior-nalismo di guerra e giornalismo del dopo-guerra”.

Il primo si è svolto il 28 novembre a Ver-celli, con relazioni di Gustavo Buratti,Guido Franzinetti, Paolo Ceola, LauranaLajolo, Franco Cecotti; il secondo il 30novembre a Biella, con relazioni di ValterCoralluzzo, Claudia Tresso, Ada Lonni,Paolo Ceola, Emilio Jona, Ivana Stefani econ la proiezione di un documentario suSabra e Chatila.

Sono inoltre state realizzate alcune con-ferenze: a Vercelli il 19 aprile su “Le straginaziste in Italia” con la partecipazione diLutz Klinkhammer; a Borgosesia il 20 apri-le “Riflessioni sulla Resistenza” con lapartecipazione di Alessandro Orsi e Mau-ro Begozzi; a Biella il 15 novembre su “Sto-ria e politica: revisionismi e uso pubblico”con la partecipazione di Giovanni DeLuna.

Infine l’Istituto ha collaborato con l’Uni-versità del Piemonte orientale ed il Centrointeruniversitario “Bairati” per l’organiz-zazione di un ciclo di conferenze su “Col-ture e culture del riso” e del convegno in-ternazionale “Gli usi pubblici della storia

e la cittadinanza democratica”.Nel corso del 2002 si prevede di organiz-

zare altre iniziative su aspetti di storia con-temporanea, al momento non ancora defi-niti.

Se le richieste di finanziamenti per laprosecuzione e l’ultimazione della ricercasugli amministratori locali inoltrate ad al-cuni enti otterranno risposte positive è ipo-tizzabile l’organizzazione di una giornatadi studi per illustrare i risultati.

Pubblicazioni

Nel 2001 è stato possibile pubblicare so-lo due dei volumi previsti: Alessandro Orsi,Un paese in guerra (riedizione); AlbertoLovatto (a cura di), Canzoni e Resistenza,atti del convegno.

Per quanto riguarda la rivista “l’impe-gno”: è stato realizzato un numero specialecontenente alcune relazioni del convegno“I fondamenti dell’Italia repubblicana:mezzo secolo di dibattito sulla Resisten-za”, mentre non è stato possibile realizza-re il numero speciale dedicato ai naziona-lismi, tema del convegno svoltosi a Varal-lo nel 2000.

Nel 2002 inizierà una nuova serie dellarivista, che cambierà formato e periodicità(diventando semestrale).

Per quanto riguarda i volumi si ricordal’elenco di quelli già programmati, la cuiuscita è prevista nell’arco del prossimobiennio: Paolo Ceola, Il labirinto. Saggi

sulla guerra contemporanea; Fabrizio Dol-ci, Strutture associative, politiche, econo-

miche e sociali in Vercelli e provincia dal

1870 al 1945; Piero Ambrosio, “Un ideale

in cui sperar”; Piero Ambrosio - AlbertoLovatto (a cura di), Radio libertà; SimonaTarchetti, L’emigrazione italiana in Alta

Savoia tra Ottocento e Novecento; EnricoPagano, Partigianato e società civile nel

Vercellese, nel Biellese e in Valsesia; Piero

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Ambrosio, “Pericolosi per l’ordine nazio-

nale”. Vercellesi, biellesi e valsesiani de-

feriti al Tribunale speciale, confinati e in-

ternati civili; Aa. Vv., La canzone resisten-

ziale in Piemonte, con allegato saggio so-noro su compact disc; Pierfrancesco Man-ca, Aspetti di storia della Resistenza biel-

lese; Piero Ambrosio, La vera storia del tra-

dimento di Eros Vecchi; Piero Ambrosio, Gli

arresti dell’estate 1938 in Valsesia; MarcoNeiretti (a cura di), Antologia della memo-

rialistica della Resistenza.Gli atti del convegno I fondamenti del-

l’Italia repubblicana: mezzo secolo di di-

battito sulla Resistenza saranno invecepubblicati on line nel sito Internet.

Nel frattempo il Comitato scientificopredisporrà il nuovo progetto editoriale pergli anni seguenti.

Didattica della storia contemporanea

Nel mese di marzo del 2001 si è conclu-sa a Vercelli la seconda edizione del corso-laboratorio di didattica della storia per in-segnanti di scuola elementare (iniziato nelmese di novembre del 2000): “Lavoro/nonlavoro. La dimensione storico-sociale deltempo libero”, a cura di Alberto Lovatto.

Tra febbraio e giugno si sono svolti, incollaborazione e su richiesta della Regio-ne Piemonte, nell’ambito della secondaedizione del progetto “Autonomia scolasti-ca. Proposte per l’innovazione didattica”,alcuni corsi di aggiornamento e laboratoridi educazione civica. Si è trattato del la-boratorio per la scuola dell’infanzia “DalPianeta della Felicità ad una Terra senzadiritti: un viaggio fantastico per portare lagioia ai bambini di tutto il mondo”, a curadi Angela Regis, realizzato a Roasio e Loz-zolo; del laboratorio di educazione civicaper la scuola elementare “Va in scena lamemoria: conoscere il passato per esserecittadini del futuro” (seconda edizione), a

cura di Alberto Lovatto con la collabora-zione di Mario Sgotto, realizzato a Coggio-la, Grignasco (No), Portula, Pray, Quarona;del corso per la scuola media superiore“Le scuole storiografiche del Novecento ele due guerre mondiali”, a cura di MarcelloVaudano, realizzato a Varallo (con la par-tecipazione di Maurizio Vaudagna).

Inoltre è stato riconosciuto come corsodi aggiornamento per insegnanti il citatoconvegno “Aspetti della questione balca-nica”, a cui hanno partecipato anche moltistudenti.

Numerosi studenti ed insegnanti hannopartecipato anche al convegno sulla que-stione mediorientale e alle conferenze edhanno visitato le mostre.

Anche nel corso del 2002 l’Istituto saràimpegnato nella realizzazione di corsi diaggiornamento e di laboratori di storia,organizzati sia in collaborazione e su ri-chiesta della Regione Piemonte, nell’am-bito della terza edizione del progetto “Au-tonomia scolastica. Proposte per l’innova-zione didattica”, sia autonomamente.

Tra i primi citiamo quelli proposti per ilcorrente anno scolastico, che si conclude-ranno quindi entro maggio: la riproposi-zione del laboratorio per la scuola dell’in-fanzia (l’unico presente nel progetto regio-nale) a Borgosesia e a Portula; il laborato-rio di educazione civica per la scuola me-dia superiore “Giovani e Costituzione.Educazione alla partecipazione civica e de-mocratica”, a Biella; ed i due corsi per lascuola media superiore “Valutazioni e in-terpretazioni di alcuni nodi problematicidella storia del Novecento” (a Biella) e “IlNovecento allo specchio: conflitti interna-zionali ed etica collettiva nel cinema oc-cidentale” (a Biella e Crescentino).

I citati corsi e laboratori (che si prevededi riproporre alla Regione anche per il pros-simo anno scolastico) sono progettati e

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attività dell’Istituto

coordinati rispettivamente da: Angela Re-gis, Marisa Gardoni, Marcello Vaudano ePaolo Ceola.

Tra le iniziative che si prevede di realiz-zare autonomamente è invece in fase di pro-gettazione un corso-laboratorio di didatti-ca della storia per insegnanti di scuola ele-mentare, da realizzare a Vercelli nel prossi-mo anno scolastico.

Altre iniziative per l’ultimo trimestre del2002, rientrando nel successivo anno sco-lastico, saranno progettate successivamen-te.

L’Istituto è inoltre disponibile, come sem-pre, a collaborare a progetti di singole scuo-le o enti locali.

Per quanto riguarda gli studenti si preve-de di organizzare conferenze su vari temi.In particolare è allo studio l’ipotesi di or-ganizzare a Biella e Vercelli seminari distoria del Novecento.

Ricordiamo infine che prosegue l’attivitàdello “Sportello scuola” (istituito su richie-sta del Ministero dell’Istruzione, nell’am-bito della convenzione stipulata con l’In-smli, che coinvolge anche gli Istituti asso-ciati) per assistenza e consulenza a inse-gnanti per quanto concerne la didatticadella storia contemporanea, l’organizza-zione di conferenze, lezioni, incontri constudenti, ecc. Esperti sono a disposizioneper servizi di biblioteca (consultazione eprestito di libri, consultazione di periodi-ci vari e di riviste specializzate, realiz-zazione di bibliografie), archivio (consul-tazione di documentazione), informatici(banche dati, sitografie Internet). Lo “spor-tello” è a disposizione anche degli studen-ti per assistenza nelle ricerche e tesi di lau-rea.

È da registrare anche l’attività di consu-lenza agli studenti partecipanti al concor-so bandito annualmente dal Consiglio re-gionale in collaborazione con le province

e l’Ufficio scolastico regionale.Da ultimo citiamo il sito Internet del-

l’Istituto, che intende continuare ad offri-re nuove risorse per lo studio e l’insegna-mento della storia del Novecento: ritenia-mo significativo e degno di segnalazioneil fatto che nel corso del 2001 il maggiornumero di visite si sia concentrato nel pe-riodo finale dell’anno scolastico, quandogli studenti si preparano per l’esame, e chein quel periodo siano giunte molte richie-ste di informazioni, documentazione, bi-bliografie ecc. a mezzo di e-mail prove-nienti da varie parti d’Italia.

I nuovi mezzi di divulgazione

Le più moderne tecnologie consentononuove forme di divulgazione dei risultatidi ricerche e più in generale della memoriae della conoscenza storica. Come è notol’Istituto - che aveva già saputo utilizzareampiamente le possibilità di videoripresa,registrando molte testimonianze di prota-gonisti e realizzando alcuni documentari -ha iniziato a produrre compact disc audio(nel 2001 ne è stato prodotto uno allegatoagli atti del convegno “Canzoni e Resisten-za”) ed ha in programma anche la realizza-zione di cd rom, su filoni ampiamente in-dagati, quali quello resistenziale, e su altritemi, su cui sono attualmente in corso ri-cerche.

Particolare attenzione viene dedicata alsito Internet dell’Istituto, attivato nel luglio1999: in esso, oltre ad articoli on line, arecensioni di opere di storia contempora-nea, a segnalazioni bibliografiche, ecc.vengono immesse “sitografie” su temi distoria contemporanea di particolare inte-resse, pagine di “didattica on line”, di “stru-menti per la ricerca e la didattica” e di “do-cumentazione storica” (ipertesti, ecc.):queste ultime sezioni, a cui è stato dedica-to un notevole impegno nel corso del

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2001, saranno ulteriormente ampliate.Anche il settore degli audiovisivi potreb-

be essere rilanciato, sia con la realizzazio-ne di nuovi videotapes, ricavati dalle testi-monianze raccolte, sia con l’edizione ecommercializzazione di quelli realizzatinegli scorsi anni.

Prosegue infine il lavoro per il sito In-ternet collettivo degli Istituti piemontesiper la storia della Resistenza e della socie-tà contemporanea, in cui si intende farconfluire risultati di ricerche realizzate inambito regionale, guide archivistiche e bi-bliografiche, materiali didattici.

Archivi

Proseguono l’acquisizione, l’ordinamen-to e la schedatura di documentazione varia.Come è noto viene utilizzato il program-ma informatico Isis-Guida, secondo le pro-cedure messe a punto dall’Insmli, nell’am-bito di un progetto concordato con il Mi-nistero per i Beni culturali e ambientali.

Non è stato invece possibile avviare l’in-formatizzazione dell’archivio sonoro edell’archivio fotografico con il program-ma Isis.

Biblioteca-emerotecaLa connessione al Sistema bibliotecario

nazionale, prevista dalla convenzione conla Regione Piemonte per l’adesione dellebiblioteche degli Istituti piemontesi per lastoria della Resistenza e della società con-temporanea al Polo regionale piemontesedell’Sbn e al Sistema informativo regiona-le dei beni culturali, è stata rinviata, in con-seguenza della previsione di trasferimen-to nella nuova sede. Nel frattempo si con-tinua a schedare il patrimonio bibliografi-co con il programma informatico adottatoanni fa in accordo con la Biblioteca civicadi Borgosesia, con la quale la bibliotecadell’Istituto è collegata in rete.

Prosegue anche l’aggiornamento del ca-talogo dell’emeroteca, la schedatura per ar-gomenti delle riviste di storia contempo-ranea, la ricerca bibliografica per la rasse-gna su “Storia contemporanea e cultura neiperiodici locali” e la “Bibliografia dellaResistenza”, tutti realizzati con procedurainformatizzata.

Banche dati

Oltre alle varie banche dati già a dispo-sizione, nel 2001 ne è stata iniziata un’al-tra, relativa ai podestà, frutto della ricercaavviata nel corso dell’anno.

Inoltre si è continuato ad aggiornare lebanche dati bibliografiche.

Nel 2002, come si è detto, si prevede dicorrelare quelle relative ai Cln a quelle re-lative agli antifascisti, ai partigiani e agliamministratori del dopoguerra e quest’ul-tima a quella sui podestà.

Progetti allo studioIl Comitato scientifico ultimerà la pro-

gettazione della già prevista iniziativa su“Parole, suoni, immagini del Novecento”che, a partire da un questionario rivolto avarie fasce di età, si svilupperà fino ad unaserie di conferenze nel corso delle quali irisultati elaborati saranno oggetto di inter-pretazione da parte di storici, antropologie sociologi.

Altro progetto allo studio riguarda lapossibilità di organizzare, in collaborazio-ne con altri enti, un concorso letterario su“I racconti del Novecento”, basato su avve-nimenti del Biellese, del Vercellese e dellaValsesia.

Ed infine un progetto su “Storia e Inter-net”, con il duplice scopo di presentazionepubblica del nostro sito e di riflessione ge-nerale sul tema, anche in questo caso conla partecipazione di storici, antropologi esociologi.

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132 l’impegno

attività dell’Istituto

Iniziative varie

Si ricorda infine che l’Istituto collabora,fornendo consulenza e materiali, alla rea-lizzazione di iniziative locali organizzateda comuni o da associazioni culturali opartigiane, soprattutto in occasione del“Giorno della Memoria” e dell’anniversa-rio della Liberazione.

In particolare, nella prima edizione del

“Giorno della Memoria” sono state realiz-zate conferenze (a Vercelli e Trino), espo-ste mostre (a Cossato e Vigliano Biellese),proiettati film (a Varallo).

Tra le iniziative promosse da comuni, siricorda la ricerca condotta da un gruppo distudenti su villa Schneider, la tristementenota sede delle Ss di Biella durante l’oc-cupazione nazifascista.

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in biblioteca

l’impegno 133

Mimmo FranzinelliLe stragi nascosteL’armadio della vergognaImpunità e rimozione dei crimini di guerranazifascisti 1943-2001Milano, Mondadori, 2002, pp. 418, € 18,60

Mimmo Franzinelli sta assurgendo, conuna raffica di libri pubblicati a ritmo serra-to negli ultimi anni (ricordiamo solamente“I tentacoli dell’Ovra” e “Delatori. Spie econfidenti anonimi: l’arma segreta del re-gime fascista”) al ruolo di uno dei più ac-creditati storici del fascismo. Già in questeopere si poteva cogliere una delle tesi carea questo autore, tesi peraltro ormai accredi-tata da tempo nella storiografia italiana ecioè la continuità, sotto molti aspetti, tra ilregime fascista e l’Italia repubblicana. Lamancata defascistizzazione dell’Italia è unadelle tare consolidate del nostro paese.

Nel caso trattato in quest’opera poi, lacontinuità è addirittura fisica, grottesca eindegna di un paese che si vorrebbe civile:fascicoli dimenticati (o “dimenticati”) den-tro un armadio alla fine della guerra e che,saltati fuori dopo cinquant’anni, rivelanodocumentazione a iosa su stragi perpetrateai danni di civili da nazisti e “bravi ragazzidi Salò”.

Come viene detto nell’introduzione, illibro esamina tre questioni: la repressionein Italia durante l’occupazione tedesca, lapolitica di occultamento delle prove di varieccidi e l’iter seguito da alcune istruttoriesu alcuni dei fatti riemersi alla luce dopo

mezzo secolo di silenzio.Per quanto riguarda gli eccidi, Franzinel-

li fa molte osservazioni interessanti, tra lequali occorre citare il fatto che la repressio-ne mise spesso in scacco il movimento par-tigiano, se non altro perché le popolazionimartoriate non volevano più saperne nontanto di questo schieramento o di quell’al-tro, ma della guerra e basta. Ma il punto piùimportante, a mio parere, è sul ruolo diMussolini, e della Rsi tutta, in merito allerappresaglie. È nota la posizione di chisostiene che o Mussolini non sapeva oppu-re, se sapeva, proprio la sua presenza avreb-be impedito, o almeno egli ci avrebbe pro-vato, maggiori violenze. La tesi di Franzi-nelli è chiara: non solo il duce non potevanon sapere, subissato com’era di rapporti suquel che avveniva nell’Italia occupata daitedeschi, ma la sua azione, e quella dell’in-tera struttura repubblichina, fu “insignifi-cante o addirittura legittimante rispetto allapresenza militare germanica in Italia”.Mussolini poi tenne su tutta la questioneun comportamento altalenante, ora lamen-tandosi debolmente con l’ambasciata tede-sca ora facendo proclami bellicosi, da cuispariva l’interesse per l’incolumità dellepopolazioni civili.

Se possibile, la parte più dolorosa dellavicenda era ancora di là da venire. Quellache si sviluppò subito dopo la guerra e neglianni successivi fu una vera e propria con-giura del silenzio e dell’insabbiamento.Migliaia di processi a collaborazionistifurono rallentati o rinviati a nuovo ruolo, i

Recensioni e segnalazioni

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in biblioteca

134 l’impegno

processi contro i tedeschi furono accanto-nati e centinaia di fascicoli finirono dentroun armadio della Procura generale militare.Cause interne, certo, prima fra tutte, comesi è detto, la continuità in tante branche dellostato italiano di strutture e personale fasci-sta, ma soprattutto fu la guerra fredda a pe-sare. La necessità di non spiacere agli “al-leati” americani e di non creare polemichecon la Germania federale portò a una situa-zione in cui il popolo italiano si è poi ritro-vato tante volte, anche per sua colpa: lamemoria delle stragi, la pietà per le vittimee soprattutto la ricerca della verità e la pu-nizione dei colpevoli furono lasciate aiparenti dei morti, dei feriti e dei torturati.L’idea di una “Norimberga italiana” fu, comeafferma l’autore, accantonata (eppure, quan-ti delitti sarebbero stati da punire, anchecommessi all’estero dalle nostre truppe neiBalcani, in Grecia, in Albania e in Africa) e,come sempre accade in Italia, la tragediaassunse toni grotteschi: i fascicoli finiti inquell’armadio furono rubricati sotto la di-citura “archiviazione provvisoria” (unabarzelletta giuridica) e dimenticati per cin-quant’anni. Saltarono di nuovo fuori inoccasione del processo Priebke e la mac-china processuale si rimise cigolando in mo-vimento. Il volume segue con pignoleria ildestino di alcuni di questi processi o istrut-torie anche nel caso, come quello dei Lagerdi Bolzano e Fossoli (di cui vengono pre-sentate alcune agghiaccianti immagini), sisiano concluse con l’ennesimo insabbia-mento.

Come afferma l’autore alla fine dell’in-troduzione, ormai il passaggio inesorabiledel tempo ha consegnato ai giudici, nel casofossero intenzionati a servire veramente lagiustizia, il compito non più di perseguirei colpevoli (ormai per la maggior partedeceduti nel loro letto), ma di testimoniareche la ricerca della verità e il predominiodella legge non possono arrestarsi, pena nontanto il ripetersi delle stragi quanto il loroessere ritenute meri incidenti di percorsonelle vicende umane.

Paolo Ceola

Alessandra Deoriti - Silvio Paolucci - Ros-sella Ropa (a cura di)Germania pallida madreCultura tedesca e Weltanschauung nazistaChiaravalle (An), L’orecchio di Van Gogh -Istituto per la storia della Resistenza e dellasocietà contemporanea nella provincia diBologna, 2002, pp. 416, € 22,21

Se mai ce ne fosse stato bisogno (ma inquesti tempi disgraziati pare che tale neces-sità esista) questo volume comprova l’inso-stituibilità del ruolo che gli Istituti storicidella Resistenza rivestono in un paese alle-gramente dedicato a fare a pezzi la memoriastorica. Il volume in oggetto tratta di alcuniaspetti della cultura nazista e nasce in se-guito ad un corso di aggiornamento perinsegnanti delle scuole superiori nell’annoscolastico 1998-1999. Il suo merito mag-giore, e in ciò appunto consiste l’importan-za degli Istituti, sta nella divulgazioneculturale intesa nella sua accezione miglio-re, cioè contemporaneamente improntata suun livello scientifico corretto e su un lin-guaggio accessibile e fruibile da un pubbli-co di non addetti ai lavori. In tal modo gliinsegnanti, e in genere i lettori mediamentecolti e mediamente curiosi, possono dispor-re di uno strumento di conoscenza che puòrisultare già sufficiente, anche a non volersfruttare le occasioni di ulteriori approfon-dimenti.

Come si è accennato, il volume tratta dialcuni tratti fondamentali della visione delmondo nazista (questo è il significato deltermine Weltanschauung); in particolaredella visione estetica del nazismo. “Esteti-ca” qui deve essere intesa, semplificando,come la forma che i nazisti intendevano dareal mondo; forma non solo politica ma pro-prio visibile, esteriore, promuovendo certimoduli espressivi e distruggendone altri.Anzi, la politica stessa, nella visione nazi-sta, doveva riempirsi di contenuti estetici(“bei gesti”, parate, simboli, ecc.) la cuifunzione era di integrare in senso emotivole scelte meramente politiche.

A mo’ di introduzione il volume presenta

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recensioni e segnalazioni

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alcuni saggi che cercano di dare un quadrogenerale delle trasformazioni culturali inGermania nel periodo tra la repubblica diWeimar e l’avvento di Hitler. Così, Giovan-na Sarti nel suo “Kultur e Zivilisation nellaGermania pre-nazista” illustra brillantemen-te il significato e le implicazioni di questidue termini, da considerarsi veri cardini perla comprensione dell’intero periodo. Larivolta della Kultur (considerata l’espres-sione della vera anima del popolo tedesco)contro la Zivilisation, espressione dell’il-luminismo cosmopolita e borghese che innome della razionalità economica tenta diomogeneizzare e uniformare il mondo, è daconsiderarsi il vero luogo di origine dellavisione nazista del mondo. Leggendo que-sto saggio poi è nettissima l’impressionedell’attualità e contemporaneità di questoscontro culturale.

Con il saggio di Luciano Canfora “Glistudi di antichità classica tra Weimar e ilnazismo” si entra nel vivo del volume. Neisaggi via via pubblicati sono trattati gliaspetti relativi alle belle arti, scultura epittura, all’architettura, al cinema e allamusica all’avvento del regime hitleriano edurante la fase del suo consolidamento. Ful’architettura a rivestire importanza priori-taria: al di là delle personali preferenze diHitler e al ruolo di Albert Speer, l’edifica-zione di opere colossali, veri contenitori perla mobilitazione politica delle masse, ri-spondeva al bisogno di concretizzare nelmodo più evidente la “volontà di potenza”dell’uomo nuovo nazista.

È anche interessante apprendere che l’ini-ziale ispirazione ai modelli greci e romanifu, se non soppiantata, se non altro correttae integrata dal ricorso a stilemi più vicinialle monarchie orientali, come Babilonia oNinive, dove il gigantismo delle architettu-re richiamava l’onnipotenza del poterecontrapposto all’insignificanza del singo-lo suddito.

Anche il cinema però fu di fondamentaleimportanza. Viene analizzata la figura del-la regista Leni Riefenstahl, autrice dei duefilm più importanti del periodo, girati in

occasione del congresso del partito nazistaa Norimberga nel 1934 e in occasione delleOlimpiadi di Berlino del 1936. L’esteticanazista, espressa attraverso il cinema, inse-gnò molte cose ai dittatori successivi. “Cor-pi belli da ammirare” (come recita il titolodel saggio di Anna Grattarola), quelli degliariani, contrapposti alle deformità e scon-cezze soprattutto dell’ebreo, eterno e irri-ducibile nemico. Quando poi si vuole ri-trarre il capo, ecco le riprese sempre dalbasso durante i discorsi, ecco il suo aereoscendere a terra con fare di arcangelo salvi-fico.

Molto interessante è poi il saggio di Al-berto Burgio che tratta del problema lin-guistico. La lingua è un veicolo di comuni-cazione e integrazione: come i nazisti risol-sero il problema di escludere gli ebrei dallalingua tedesca, visto che essa era anche laloro lingua? Intanto inventando nuovi sot-to-linguaggi, o destinati alle vittime (la“lingua del Lager”) o fruibili dai tedeschiariani attraverso una trasformazione delsignificato di intere frasi e parole: il linguag-gio doveva soprattutto sterilizzare l’allu-sione ad atrocità e delitti che il mondo do-veva conoscere negli anni successivi. Unaltro metodo consistette nell’esclusione at-traverso l’evidenziazione: ad esempio, nel-la letteratura giuridica tedesca, ricchissimadi autori ebrei, l’appartenenza razziale do-veva essere evidenziata nella citazionedelle fonti. Così, surrettiziamente, gli auto-ri ebrei finirono per essere considerati comestranieri nella loro stessa patria.

Si è detto dell’estetizzazione della poli-tica. Eliminare il brutto, lo sbagliato, l’in-sano e il deforme fu perciò un imperativocategorico del nazismo. Gli ultimi saggi sioccupano del destino degli omosessuali e,in particolare quello di Stefano Fattorini,del programma di eliminazione dei disabi-li, dei malati e degli handicappati; un argo-mento che, come fa rilevare l’autore, è an-cora ben lungi dall’essere stato esaminatoin modo soddisfacente dalla ricerca storio-grafica.

p. c.

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in biblioteca

136 l’impegno

Noam Chomsky11 settembreLe ragioni di chi?Milano, Marco Tropea, 2001, pp. 124, €8,26

Voce critica dell’America, l’irriducibileNoam Chomsky continua nel suo intentodi tener sveglie le coscienze dai rischi delleemozioni, anche quelle più dolorose, comegli attentati alle Torri Gemelle. In questolibro sono raccolte le interviste di Chomsky- storico oppositore della guerra in Vietnam- dal giorno degli attentati. Il filo rosso chele lega è quello di una vigile attenzione aipericoli dell’unanimismo e della mancan-za di memoria. In una parola, i rischi della“guerra santa” al rovescio. Già nella presen-tazione Chomsky tende ad affermare conun giudizio netto la sua condanna per que-sti attentati: “non c’è nessuna giustifica-zione possibile a crimini come quello dell’11settembre, ma possiamo considerare gli StatiUniti vittima innocente solo se prendiamola strada più comoda, e ignoriamo comple-tamente le loro azioni pregresse e quelle deiloro alleati che in fondo non sono un segre-to per nessuno”.

Una voce contro insomma. Se da un latoabbiamo europei degni di nota che fanno agara per schierarsi a pieno titolo tra i filoamericani, dall’altro non sono poche leopinioni più dure e critiche che nascono inseno alla nazione statunitense, basta consi-derare tra gli altri i vari interventi di SusanSontag e di Gore Vidal. L’immagine elo-quente in copertina non può che ricordarela sciagura delle Twin Towers dell’11 set-tembre 2001 che ha colpito l’America inuno dei suoi più famosi simboli di grandez-za e potere. Ma Noam Chomsky in questeinterviste va oltre, egli si interroga sulleragioni che hanno portato a tali eventi, stu-dia la tragedia come un fatto storico: ana-lizza la situazione della società, sottol’aspetto culturale ed economico, ricerca lecause nel passato e annuncia che veste avràda allora in poi il futuro mondiale. Il parti-colare che più colpisce però è che ai vari

perché questo grande intellettuale rispon-de in modo forte, affibbiando alla sua stessapatria colpe gravissime che sono state trop-po a lungo dimenticate od oscurate. Egligiunge ad una conclusione che per moltiversi potrebbe risultare scioccante ma che,date le premesse poste, si giustifica ampia-mente: “I governi sono ansiosi di aderirealla ‘guerra al terrorismo’ degli americaniper ottenere sostegno al proprio terrorismodi stato, spesso esercitato in proporzioniscioccanti”. Chomsky esclude poi che sipossa parlare di scontro tra due civiltà cosìcome molti hanno sostenuto sulla scia del-le idee dello storico e politologo america-no Samuel Huntington. “È un’espressionealla moda, ma non ha senso [...] dove si trovaesattamente la linea di demarcazione tra leciviltà?”- si domanda l’intellettuale ameri-cano, dopo aver ricordato che, ad esempio,l’Indonesia, lo stato islamico più popolo-so, è un “pupillo” degli Stati Uniti e chel’Arabia Saudita, lo stato che registra “il piùestremo fondamentalismo islamico, a partequello dei talebani”, è cliente degli StatiUniti dalla “sua fondazione”. Come si vedetesi che spiazzano molti luoghi comuni sucui la gran parte degli intellettuali tendevolutamente a sorvolare. Chomsky qualestudioso conosce bene l’uso della parola edella linguistica e riesce a cogliere il segno.Gli Stati Uniti escono fuori non come vit-tima innocente immolata al fondamentali-smo di pochi, ma come mente attiva nellemiserie degli altri paesi. Piangere la trage-dia del World Trade Center, senza conside-rare il passato e le cause scatenanti, è soloun ignorare la realtà, trovare la soluzionepiù semplice e comoda al perché sia succes-sa una cosa così atroce.

Di certo un’interpretazione dura, nuovaper questi mesi, che vuole far luce sui realilegami dell’asse America-Europa. Chomskynon esita a riconoscere che l’11 settembreè stata un’“orrenda atrocità, probabilmentela più devastante carneficina di tutti i tem-pi, guerre escluse” ma il suo punto di vistaè quello di “ridurre la probabilità che crimi-ni del genere non si ripetano, né contro di

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recensioni e segnalazioni

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noi né contro nessun altro popolo”. E quel-lo che detesta è proprio il doppio binarioche gli Usa applicherebbero da sempre aqueste vicende. Perché solo chi è accecatodalla propaganda di stato - sostiene l’auto-re - può credere alla fola della guerra deibuoni yankee contro i cattivi islamici. Il cur-riculum di politica estera della superpoten-za racconta tutta un’altra storia. “L’esempiopiù ovvio (della natura terroristica delladiplomazia Usa, ndr), sebbene non il piùsanguinoso, è il Nicaragua”. Per le violenzeperpetrate in quello stato al tempo di Rea-gan gli Stati Uniti sono stati condannati siadalla Corte internazionale che dal Consi-glio di sicurezza dell’Onu. Invano. Eppurefu il Pentagono che, nel 1985, ordinò dimettere un camion imbottito di esplosivodavanti a una moschea nel momento in cuidoveva esserci la massima affluenza. Qual-che decina di migliaia di morti dopo - nellapopolazione principalmente - e danni eco-nomici che hanno fatto del Nicaragua unodegli stati più poveri del mondo, l’Americanon ha mai pagato alcun prezzo per quellasua colpa.

È una lunga scia di sangue quella che gliStati Uniti si sono lasciati dietro interve-nendo fuori dai propri confini e che giusti-fica l’etichetta di “stato canaglia” che hadefinito nella storia quelli che, “non sen-tendosi legati al rispetto delle norme inter-nazionali”, si sono concessi qualsiasi arbi-trio. Come infischiarsene delle condanneper il Nicaragua, ad esempio, o decidere uni-lateralmente l’intervento della Nato inKosovo o scatenare i B-52 sull’Afghanistanponendo le condizioni per “3-4 milioni diinnocenti che moriranno di fame” comeconseguenza.

L’intellettuale americano, non risparmiapoi una frecciatina ad uno dei pilastri dellademocrazia: la libertà di informazione. Purrilevando che “ostacoli alla libera circola-zione delle informazioni, in paesi come gliStati Uniti, raramente sono imputabili algoverno”, Chomsky sostiene che “ci sono,invece, alcuni sorprendenti esempi compiu-ti dal governo americano per restringere il

libero flusso delle informazioni all’estero”.E si riferisce all’intervento di Colin Powellsull’emiro del Qatar per “imbrigliare” la retetelevisiva araba Al Jazeera. “‘Naturalmenteci saranno quelli che chiederanno obbedien-za silenziosa [...] - conclude Chomsky - mala cosa importante è non rimanere intimidi-ti dalla farneticazioni isteriche né dalle bu-gie[...]”.

a. p.

Didi GnocchiOdissea rossaLa storia dimenticata di uno dei fondatoridel PciTorino, Einaudi, 2001, pp. 272, € 14,46.

Un viaggio attraverso alcuni dei decennipiù importanti, esaltanti e tragici del secoloscorso: così potrebbe essere definito que-sto libro. Certo il punto di vista è quello diun individuo solo, una persona però che nelcorso della sua esistenza è stata partecipe etestimone di eventi storici fondamentali delmovimento operaio internazionale.

Didi Gnocchi, attraverso una ricerca me-ticolosa, ricostruisce, riportandole alla lucedalle profondità della Siberia russa, la figu-ra e l’attività di Edmondo Peluso, militantedi spicco del primi anni di vita del Partitocomunista d’Italia, delegato, assieme ad A-madeo Bordiga, Luigi Longo, Camilla Ra-vera e Angelo Tasca, ai lavori del IV Con-gresso dell’Internazionale comunista (di-cembre 1922) e costantemente presentesulle pagine delle più importanti rivistecomuniste non solo italiane. La sua figuranon è soltanto militanza nelle file organiz-zate del movimento operaio internaziona-le; immergendosi nella lettura del libro siscopre come Peluso abbia visitato numero-si paesi: spettatore della rivolta spartachi-sta in Germania nel 1919 e dell’assassiniodei suoi leader principali, Karl Liebknechte Rosa Luxemburg; presente, nel 1916, allaII conferenza di Kiental; viaggiatore inEstremo Oriente e spettatore della Comunedi Canton nel 1927. Da tutto ciò emerge la

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figura di un rivoluzionario eccentrico, viag-giatore, divorato dalla curiosità.

L’epilogo è tristemente comune a molti diquei comunisti che avevano deciso di con-tribuire all’edificazione del socialismo inUrss attraverso il loro quotidiano lavoro:arrestato a Mosca nel corso dei grandi pro-cessi staliniani degli anni trenta, fu condan-nato e deportato nel cuore della Siberia, aKrasnojarsk, (medesimo luogo in cui era sta-to confinato Lenin dagli zar negli anniprecedenti la rivoluzione d’ottobre), ovemorì fucilato nel 1942.

Uno degli aspetti più interessanti del li-bro riguarda la struttura della narrazione;qui si fa evidente il debito dell’autrice neiconfronti della sua professione di inviataspeciale e documentarista, la sua attenzio-ne non solo per la storia stessa ma anche per“l’ambiente sociale” e le persone contatta-te durante l’opera di ricostruzione. Così illibro assume un duplice livello di lettura:

a fianco della narrazione della biografia diEdmondo Peluso e della situazione nazio-nale ed internazionale dei primi del Nove-cento, se ne propone una della società russaa dieci anni dalla caduta dell’Unione So-vietica. Un viaggio in un mondo dove lapassività insita nell’homo sovieticus stentaad adeguarsi, generando vasto tessuto didegrado e tragedie, alle modifiche impostedal nuovo modello liberale.

Un’utile lettura, interessante soprattuttoperché “restituisce” la vicenda personaledi uno “sconfitto” dalla Storia e, soprattut-to, inserisce un altro tassello nella ricostru-zione di quella varietà e ricchezza che ca-ratterizzarono il movimento operaio inquegli anni e che oggi, soprattutto in alcu-ne sue versioni, è associato quasi esclusiva-mente ai suoi aspetti più tragici e dramma-tici.

Federico Caneparo

.BORZANI, LUCA - BOTTARO, MARIO

Per Colombo ma con TuratiGenova 1892. La nascita del Partito socialistaGenova, Pirella, 1992, pp. 165.

CEOLA, MARIO

Dalle trincee alle nubiRovereto, Museo storico italiano della guerra,1997, pp. 199.

CEREJA, FEDERICO (a cura di)Religiosi nei lagerDachau e l’esperienza italianaMilano, Angeli, 1999, pp. 213.

PERISSINOTTO, UGO

“Sull’astro della miseria”Un paese e la dittatura. Concordia 1923-1939[Trieste], Istituto regionale per la storia del movi-mento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia,[1999], pp. 278.

ROLANDO, PIERLUIGI

Ronco 1944-45Vigliano Biellese, Gariazzo, 2001, pp. 98.

ROVIGHI, ALBERTO

I militari di origine ebraica nel primo secolo di vitadello Stato italianoRoma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore del-l’Esercito, 1999, pp. 259.

SARRI, SERGIO

La scatola degli spaghi troppo cortiCuneo, L’arciere, 1999, pp. 103.

VEROLI, SEBASTIANO FRANCO

Donne in manicomioLe ricoverate a S. Croce nel decennio 1890-1900Il caso di Ernesta Cottino FaccioMacerata, Istituto storico della Resistenza e del-l’età contemporanea, 1998, pp. 94.

Archivi di famiglie e personeMateriali per una guidaRoma, Ministero per i Beni e le attività culturali,1998, pp. XVIII, 404.

Carteggio Croce - NovatiNapoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1999,pp. 160.

Libri ricevuti

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recensioni e segnalazioni

a. XXII, n. s., n. 1, giugno 2002 139

Confini contesiLa Repubblica italiana e il Trattato di pace di Parigi(10 febbraio 1947)Torino, Ega, 1998, pp. 171.

Contro la pena di morteTorino, Regione Piemonte, 2000, pp. 32.

La Costituzione ha cinquant’anniMilano, Fiap - M&B Publishing, 1995, pp. 176.

Dalla memoria al progettoInsegnare storia oggiSeminario di formazione per docentiLatina, Liceo Scientifico statale Majorana, vol. I,1995, pp. 114; vol. II, 1997, pp. 70.

Dal passato al futuro del socialismoTestimonianza sull’esperienza umana e politica diFrancesco De MartinoAtti delle Giornate in onore di Francesco De Mar-tinoRoma, Editori Riuniti, 1998, pp. 175.

Davide LajoloVinchio è il mio nido. Catalogo mostraVinchio, Comune - Associazione culturale DavideLajolo, 1999, sip.

Emigrazione piemontese all’esteroRassegna bibliograficaTorino, Regione Piemonte, 1999, pp. 286.

Fabio Luca CavazzaNapoli, Istituto italiano di studi storici, 1999, pp.30.

Età contemporaneaNovara, Banca popolare di Novara, 1998, pp. 400.

I giardini degli eroiCimiteri di guerra sul fronte orientale 1914-1918Immagini ed epigrafiRovereto, Museo storico italiano della guerra,1997, pp. 29.

Guerra, guerriglia e comunità contadine in EmiliaRomagna 1943-1945Reggio Emilia, Istoreco, 1999, pp. 314.

La guerra raccontataLa biografia e le cartoline illustrate della primaguerra mondiale scritte e disegnate da GiovanniAntioco Mura alla sorella GavinaSassari, Istituto sardo per la storia della Resistenzae dell’autonomia, 1999, pp. 48.

Guida all’Archivio di Stato di BiellaRoma, Ministero per i Beni e le attività culturali,Ufficio centrale per i Beni archivistici, 2000, pp.223.

Guida alle fonti per la storia del brigantaggio pos-tunitario conservate negli Archivi di StatoRoma, Ministero per i Beni e le attività culturali,1999, pp. XXVIII, 567.

Lavoro/lavoriAttività, impiego, mestiere, professione, fatica,impegnoFotografie di Uliano Lucas. Con un’appendice ditesti sul lavoroBergamo, Biblioteca “Di Vittorio” - Istituto berga-masco per la storia della Resistenza e dell’età con-temporanea - Il filo di Arianna, 2000, pp. 150.

I manifesti della Federazione milanese del Partitocomunista italiano (1956-1984). InventarioRoma, Ministero per i Beni e le attività culturali,1999, pp. 347

La memoria della legislazione antiebraica nellastoria dell’Italia repubblicanaMilano, Angeli; Roma, Istituto romano per la sto-ria d’Italia dal fascismo alla Resistenza, 1999, pp.121.

Millenovecento51Il cinema italiano del 1951Torino, Archivio nazionale cinematografico dellaResistenza, 1998, pp. 260.

Millenovecento52Da Umberto D a Europa 51Torino, Archivio nazionale cinematografico dellaResistenza, 1999, pp. 361.

Millenovecento53L’Italia de “I vitelloni” e “La bersagliera”Torino, Archivio nazionale cinematografico dellaResistenza, 2000, pp. 383.

1945-1995. Ora e sempre ResistenzaCuneo, Istituto storico della Resistenza, [1998],pp. 64.

MombercelliI primi mille anni di un paese in cui il pane si chia-ma vinoTorino, Regione Piemonte; Asti, Provincia di Asti- Fondazione Cassa di Risparmio di Asti - Israt,1999, pp. 184.

“Non avevamo ancora cominciato a vivere”Voci e immagini dai campi di concentramento pergiovani di Moringen ed Uckermark 1940-1945Reggio Emilia, Istoreco, 1998, pp. 40.

Il NovecentoStoria, storiografia e didatticaSondrio, Istituto sondriese per la storia della Re-sistenza e dell’età contemporanea, 1999, pp. 111.

Parole per la paceAsti, Istituto per la storia della Resistenza e dellasocietà contemporanea della provincia di Asti,1998, pp. 30.

Per la storia del Mezzogiorno medievale e moder-no. Studi in memoria di Jole MazzoleniRoma, Ministero per i Beni culturali e ambientali,1998, 2 voll., pp. 1.032.

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in biblioteca

140 l’impegno

Per la storiografia italiana del XXI secoloSeminario sul progetto di censimento sistematicodegli archivi di deposito dei ministeri realizzatodall’Archivio centrale dello StatoRoma, Ministero per i Beni culturali e ambientali,1998, pp. 231.

Piemonte economico sociale. 1997Torino, Ires, 1998, pp. 178.

Pittura e memoriaLa raccolta d’arte di MarzabottoBologna, Grafis, sd, pp. 79.

Problemi della contemporaneitàTerritori, identità culturali, scambiLatina, Liceo scientifico statale Majorana, 1998,pp. 227.

Quaderno di formazione per le elette degli entilocaliTorino, Regione Piemonte, 1999, pp. 127.

I resistentiTerza edizione de “La Resistenza nel Saluzzese”Cuneo, Primalpe, 2000, pp. 317.

Resistenza e CostituzioneCatalogo delle fonti conservate presso la bibliotecae l’archivio della Fondazione Giangiacomo Feltri-nelliMilano, Fondazione Feltrinelli, 1998, pp. XXIII,604.

RiflessiUn viaggio per immagini dal Rosa alla pianuraBorgosesia, Idea editrice, 2000, pp. 152.

Riso amaroUn film luxVercelli, Provincia, 1999, pp. 22.

Scrivere dai lagerBriefe aus dem lagerBolzano, Città di Bolzano, 2000, sip.

Le Società di mutuo soccorso italiane e i loro ar-chiviRoma, Ministero per i Beni e le attività culturali,1999, pp. 344.

Le stanze di Primo LeviAcquarelli di Fiorenza RoncalliBergamo, Istituto bergamasco per la storia dellaResistenza, sd, pp. 25.

State of the warI dati economici, sociali e ambientali del fenome-no guerra nel mondoMilano, Edizioni Ambiente, 1999, pp. 127.

Stati Generali del PiemonteConferenza generalista della Provincia del Verba-no-Cusio-OssolaTorino, Consiglio regionale del Piemonte, sd, pp.78.

Stati Generali del PiemonteConferenza generalista della Provincia di BiellaTorino, Consiglio regionale del Piemonte, 1997,pp. 64.

Stati Generali del PiemonteConferenza generalista della Provincia di AstiTorino, Consiglio regionale del Piemonte, sd, pp.79.

Le storie del NovecentoFaenza, Moby Dick, 2000, pp. 123.

Il tempo del riposoSquarci di vita sociale del proletariato torinese difine secoloMilano, Feltrinelli, 1991, pp. 117.

Tulli pour Giacomosl, Centro nazionale di studi leopardiani, 1998, pp.69.

L’Umbria dalla guerra alla ResistenzaAtti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Peru-gia, 30 novembre-1 dicembre 1995)Foligno, Editoriale umbra; Perugia, Istituto per lastoria dell’Umbria contemporanea, 1998, pp. 361.

L’Unità europea 1943-1954Torino, Consiglio regionale del Piemonte - Con-sulta europea, 2000, sip.

Vademecum per la prossima guerraRoma, Odradek, 1999, pp. 263.

Villanova Biellese... ricordi e voltiVigliano Biellese, Gariazzo, 2001, pp. 95.

Cd- rom

ChicchirichìCanti ed echi della Resistenza in provincia di Ales-sandriaAlessandria, Isral, 2000.

Italia costituenteTorino, Regione Piemonte - Ancr, 1999.

La memoria del sindacatoPorto Marghera Venezia 1945-90Venezia, Istituto veneziano per la storia della Re-sistenza e della società contemporanea, 2000.

Storia e canzoni in Italia. Il Novecento (1/2)A cura di Antonella De Palma e Cesare Bermani,Comune di Venezia; Assessorato alla Pubblica Istru-zione - Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Mar-tino, 2000.

Anche l’Italia ha vintoPavia e la sua provincia dal fascismo alla Repub-blicaPavia, Istituto pavese per la storia della Resistenzae dell’Età contemporanea, 2002.

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Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporaneanelle province di Biella e Vercelli

Volumi pubblicati:

La Stella Alpina 1944-46, reprint, 1974

MANUELA CASTANO, Aspetti della Resistenza in Valsesia, 1974

Quando bastava un bicchiere d’acqua, Processo alla Legione Tagliamento, re-quisitoria del dr. Egidio Liberti, 1974

CESARINA BRACCO, La staffetta garibaldina, 1976

PIETRO CALCAGNO, Verso l’esilio. Memorie di un anarchico confinato in Valsesiaalla fine dell’Ottocento, 1976

MARZIO TORCHIO, “Il Piave mormorava...”. E poi?, 1978

PAOLO BOLOGNA, La battaglia di Megolo, 1979

DANTE STRONA, Una stagione nel tempo. Poesie sulla Resistenza, 1979

BRUNO POZZATO, Sui sentieri della 50a brigata Garibaldi, 1979

PIERO AMBROSIO, Rappresaglia kaputt. Serravalle Sesia, febbraio 1944, 1979

ESTER BARBAGLIA, La Spezia combatte in Valsesia, 1979

GIANNI DAVERIO, Io, partigiano in Valsesia, 1979

FRANCESCO LEONE, Le brigate Garibaldi nel movimento partigiano in Italia, riedi-zione, 1980

PIERO AMBROSIO, I notiziari della Gnr della provincia di Vercelli all’attenzione delduce, 1980

PIERO AMBROSIO (a cura di), La Resistenza biellese: storia, documenti, immagini,1981

DANTE STRONA, Per non gridare alle pietre. Poesie sulla Resistenza, 1982

GLADYS MOTTA, Le donne operaie biellesi nella lotta di liberazione, 1982

Ricordo di Cino Moscatelli, 1982

MARILENA VITTONE, Analisi della struttura proprietaria dell’agricoltura vercellese,1982

ENZO BARBANO, Lo scontro a fuoco di Varallo del 2 dicembre 1943, 1982

CARLO MUSSO, Diplomazia partigiana. Gli Alleati, i rifugiati italiani e la Delega-zione del Clnai in Svizzera (1943-1945), Milano, Angeli, 1983

Mondo del lavoro e Resistenza, atti del convegno (a cura di Franca Bonaccio),1983

ANTONINO PIRRUCCIO, Borgosesia 1914. Sciopero alla Manifattura Lane, 1983

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LUIGI MORANINO, Le donne socialiste nel Biellese (1900-1918), 1984

CESARINA BRACCO, La staffetta garibaldina, 1984, 2a edizione accresciuta

PIERO AMBROSIO - GLADYS MOTTA (a cura di), Sui muri del Vercellese. Settembre 1943-aprile 1945, catalogo della mostra, 1985

ALFREDO DOMENICONE, Disegni di libertà. 1944-1945, 1985

PIERO AMBROSIO - GLADYS MOTTA (a cura di), Sui muri della Valsesia. Settembre 1943-aprile 1945, catalogo della mostra, 1986

PIERO AMBROSIO (a cura di), I “sovversivi” e gli antifascisti della provincia di Ver-celli schedati nel Casellario politico centrale (1896-1945), 1986

PAOLO CEOLA, La nuova destra e la guerra contemporanea, Milano, Angeli, 1987

La deportazione nei lager nazisti, atti del convegno (a cura di Alberto Lovatto),1989

“Ogni strumento è pane”. L’emigrazione dei valsesiani nell’Ottocento, atti delconvegno (a cura di Gladys Motta), 1989, in collaborazione con la Società valse-siana di cultura

PIERO AMBROSIO - GLADYS MOTTA (a cura di), Sui muri del Biellese. Settembre 1943-aprile 1945, catalogo della mostra, 1989, € 12,90

ALBERTO LOVATTO, L’emigrazione dei valsesiani nell’Ottocento. Materiali per unaricerca, catalogo della mostra, 1989, in collaborazione con la Società valsesianadi cultura, € 6,00

FRANCA GALIFANTE, Movimento cooperativo e fascismo nel Vercellese e in Valsesia(1920-1940), 1990

ALESSANDRO ORSI, Il nostro Sessantotto 1968-1973. I movimenti studenteschi e operaiin Valsesia e Valsessera, 1990

FRANCESCO OMODEO ZORINI, La formazione del partigiano. Politica, cultura, educa-zione nelle brigate “Garibaldi”, 1990, € 12,90

TERESIO GAMACCIO, L’industria laniera tra espansionismo e grande crisi. Imprendi-tori, sindacato fascista e operai nel Biellese (1926-1933), 1990, € 12,90

PIERO AMBROSIO (a cura di), “Da vigilare e perquisire”. I “sovversivi” e gli antifa-scisti della provincia di Vercelli schedati nel Casellario politico centrale (1896-1945), catalogo della mostra, 1991, € 6,00

Dalle leggi razziali alla deportazione. Ebrei fra antisemitismo e solidarietà, attidella giornata di studi (a cura di Alberto Lovatto), 1992

PIER GIORGIO LONGO, Chiesa, cattolici ed emigrazione in Valsesia, 1992, in collabo-razione con la Società valsesiana di cultura, € 12,90

Aspetti della storia della provincia di Vercelli tra le due guerre mondiali, atti dellegiornate di studi (a cura di Patrizia Dongilli), 1993, € 15,00

ALESSANDRO ORSI, Un paese in guerra. La comunità di Crevacuore tra fascismo,

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Resistenza, dopoguerra, 1994

LUIGI MORANINO, Il primo inverno dei partigiani biellesi, 1994, in collaborazionecon l’Anpi Valle Strona

PEPPINO ORTOLEVA - CHIARA OTTAVIANO (a cura di), Guerra e mass media. Strumenti emodi della comunicazione in contesto bellico, Napoli, Liguori, 1994, € 18,00

CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valse-sia, vol. I, 2000, in 2 tomi, € 19,00 cad.; voll. II e III, 1995 e 1996, € 20,00 cad;vol. IV, 2000, € 5,00

ALBERTO LOVATTO (a cura di), “Quando io avevo la tua età c’era la guerra”, 1995

ALBERTO LOVATTO, L’ordito e la trama. Frammenti di memorie su lotte e lavoro deitessili in Valsessera negli ultimi cinquant’anni (in collaborazione con la Cameradel lavoro territoriale della Valsesia), Genova, La clessidra editrice, 1995

FRANCESCO OMODEO ZORINI, Una scrittura morale. Antologia di giornali della Resi-stenza, 1996, € 18,00

PIERO AMBROSIO (a cura di), In Spagna per la libertà. Vercellesi, biellesi e valsesia-ni nelle brigate internazionali (1936-1939), 1996, € 9,00

PIERO AMBROSIO, “Nel novero dei sovversivi”. Vercellesi, biellesi e valsesiani sche-dati nel Casellario politico centrale, 1996

ALBERTO LOVATTO, Deportazione memoria comunità. Vercellesi, biellesi e valsesia-ni deportati nei Lager nazisti, 1998, Milano, Angeli, in collaborazione con l’Anede il Consiglio regionale del Piemonte, € 15,49

ALBERTO LOVATTO (a cura di), “E sulla terra faremo libertà”. Piccola storia in musi-ca dell’immaginario partigiano tra Resistenza, dopoguerra, anni sessanta ed ol-tre, 1999, pp. 64 con cd di 61' allegato

ALBERTO LOVATTO (a cura di), Partigiani a colori nelle diapositive di Carlo Buratti,2000, € 18,00

ALBERTO LOVATTO (a cura di), Va in scena la memoria. La radio, la storia, l’ascolto,2000, pp. 56, fuori commercio

ALESSANDRO ORSI, Un paese in guerra. La comunità di Crevacuore tra fascismo,Resistenza, dopoguerra, 2001, 2a ed. accresc., € 20,00

ALBERTO LOVATTO (a cura di), Canzoni e Resistenza. Atti del convegno, con allegatocd, 2001, in collaborazione con il Consiglio regionale del Piemonte, € 20,00

PAOLO CEOLA, Il labirinto. Saggi sulla guerra contemporanea, Napoli, Liguori,2002, € 20,00

I volumi senza indicazione di prezzo sono esauriti. Per i soci dell’Istituto, gli ab-bonati alla rivista, gli enti locali aderenti, le scuole, le biblioteche, gli insegnantie gli studenti si praticano sconti nelle misure stabilite dalle leggi vigenti (franconostra sede, per richieste di invio a mezzo posta verranno addebitate le spese).

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PAOLO CEOLA

Il Labirinto

Saggi sulla guerra contemporanea

Napoli, Liguori, 2002, pp. X-384, € 20

Il Novecento ha visto convivere forme primitive di violenza con nuovi esperimentidi ingegneria sociale e con spettacolari progressi nel settore della tecnologia bel-lica. Tutto questo ha comportato un’accentuazione del carattere labirintico dellaguerra, nella quale si intersecano, in un groviglio inestricabile, aspetti sociali,psicologici, tecnici e strategici. È proprio sulla complessa matassa di tali fattoriche il volume, suddiviso in saggi, si concentra, partendo dalla prima guerra mon-diale per arrivare fino ai recenti attentati terroristici.Il primo saggio vuole essere un panorama a grandi linee della storia delle guerredel Novecento, alla ricerca di costanti ed elementi di novità rispetto al passato: iconflitti mondiali, la guerra fredda, l’evoluzione tumultuosa della tecnologiamilitare. Il secondo e il terzo saggio cercano di illustrare la situazione atomica neisuoi caratteri essenziali e nella sua evoluzione, dalla dissuasione nucleare classi-ca alle “guerre stellari”, dalla proliferazione nucleare ai tentativi di disarmo e dicontrollo delle armi nucleari. Il quarto e il quinto contributo si occupano rispet-tivamente di guerra chimica-biologica e di guerriglia; il sesto saggio, dedicato almilitarismo, cerca di avvicinare il lettore agli aspetti più oscuri della professionemilitare. “Scenari”, il settimo saggio, contiene riflessioni su conflitti o prospetti-ve politiche di stretta contemporaneità, dalla fine della guerra fredda al Kosovo,dal Vietnam alla guerra del Golfo. Vi sono trattate anche le tematiche del diritto edelle istituzioni internazionali e della cosiddetta “guerra umanitaria”, che tantepolemiche continua a suscitare nell’opinione pubblica. Infine l’appendice è de-dicata all’analisi di alcuni film particolarmente significativi per la conoscenzadella guerra. Conclude l’opera una vasta bibliografia comprendente molte deci-ne di volumi, articoli su riviste e contributi reperiti nella rete Internet.Il volume - un viaggio lucido e appassionato nella guerra contemporanea - hal’obiettivo di fornire un’analisi scientificamente corretta, in un linguaggio acces-sibile al pubblico medio, nella convinzione che proprio il lettore non addetto ailavori ma interessato e curioso abbia diritto a un’informazione lontana dalle sem-plificazioni spesso interessate di tanta pubblicistica corrente.

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