Ascolta una storia che viene da lontano

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037 SETTEMBRE 2012 3,00 Poste Italiane Spa Spedizione in abbonamento postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1 comma 1, LO/MI Roserio. LA NUOVA SANATORIA REGOLARIZZERÀ MIGLIAIA DI MIGRANTI. LA MAGGIOR PARTE È ARRIVATA IN ITALIA CON PERMESSI TURISTICI: UN BUSINESS PER TRAFFICANTI, MULTINAZIONALI E CONSOLATI.

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Racconti di Maria Vittoria Inama e Michelle Lacagnina

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037

settembre 2012€ 3,00

Poste Italiane spa spedizione in abbonamento postaleD. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1 comma 1, LO/mI roserio.

la nuova sanatoriaregolarizzerà migliaia di migranti.

la maggior parte è arrivata in italia con permessi turistici: un business

per trafficanti, multinazionali e consolati.

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scrittori nel cassetto| A CuRA DI | ScUoLA hoLDeN | www.scuolaholden.it

ascolta una storiache viene da lontano

| RACCoNTI DI | mArIA VITTorIA INAmA E mIcheLLe LA cAgNINA | ILLuSTRAzIoNE | PAoLA roLLo

In questo numero vi proponiamo i racconti vincitori del concorso “Ascolta una storia che viene da lontano” (info a pag.35).Le autrici sono due giovani studentesse di scuola secondaria: Maria Vittoria frequenta il liceo artistico “Olivieri” di Brescia, Michelle la media “Mommsen” di Roma.

mArIA VITTorIA INAmA

1945 Essere a Dachau

La grafite lasciava un tratto nero, deciso, polposo sul pezzo di carta che aveva recuperato; era riu-

scito a procurarsi qualche foglio promettendo alla guardia tedesca un ritratto. Chissà dove lo avreb-be messo, magari sul camino in sala da pranzo o magari in parte al ritratto della Madonna sopra il comodino in camera da letto.

Riusciva a sentirla, sentiva la punta smussarsi, imprimersi contro il foglio.

Ogni tratto lasciava un segno che oltrepassava la superficie, ogni segno era eseguito con forza, con decisione.

La stessa forza che lo aveva animato nei prece-denti quindici giorni quando lo avevano portato in-sieme a migliaia di altri deportati fino alla stazione di Monaco a costruire le ferrovie che erano state bombardate. Partivano alle tre di mattina e torna-vano alla una di notte. Quando i civili li vedevano, li scorgevano solo con la coda dell’occhio, si girava-no, si voltavano e cambiavano strada, i ragazzini e i bambini tiravano i sassi.

La mano era ferma, come il volto che non muo-veva lo sguardo dal foglio, dall’opera. Un’opera struggente, quasi le figure uscissero dalla tela, quasi prendessero vita. Erano decine di emozioni che si univano e davano vita a un disegno, a un ricordo impresso sulla superficie. I volti rappresentati erano

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realistici, riportavano la realtà delle persone tale e quale era. Disperazione e paura sembravano essere scritte in fronte ai soggetti talmente erano evidenti.

Era difficile mantenere tranquillità e decisione in circostanze come quelle. Era difficile avere qualcosa in cui credere, qualcosa per cui valeva la pena rischia-re. Ma per lui l’arte non era un rischio, era qualcosa di naturale, qualcosa da portare dovunque, anche in quel luogo, dove ogni cenno di naturalezza sembrava svanito, scomparso, per lasciare posto a quella cru-deltà e a quella disperazione che segnavano i volti, gli occhi, le mani. La disperazione si vedeva sugli abiti, abiti vissuti, sporchi, appartenuti a paesi occupati, a popolazioni deportate, chissà di chi erano quegli abiti che ora servivano per coprire i loro gracili e esili corpi dal freddo, dallo sporco e dalla paura.

Era un attimo, il battito del suo cuore che si in-trecciava con il rumore della matita che sfiorava il foglio, per poi trasformarsi in un silenzioso sol-co, lasciando in pausa il mondo fuori. Era guerra e pace. Era guerra tutto quello che alle sue spalle succedeva, le urla dei prigionieri, le lacrime che si

facevano largo sulle guance, le mani che stringe-vano quelle dei compagni, forse per l’ultima volta. Era pace dentro il cuore, sulla tela, sulla mano che tracciava l’opera, era pace toccare quello che si era creato, era pace asciugarsi il sudore con la mano sporca di grafite e lasciare casualmente un segno sul volto.

Era qualcosa che non poteva essere fermato, nemmeno dentro il campo, nemmeno in quel po-sto dimenticato da Dio.

Era rapido, un tratto veloce, quasi la matita si muovesse da sola, era tutto così automatico, natu-rale. Era vita, era riuscire ad avere un contatto con l’esistenza di prima, era un legame con la vita pas-sata. Era sentirsi ancora parte di quel mondo, quel mondo che si era rivelato tanto crudele. Ora così lontano. Lontano dalla sua vista, dalle sue orecchie e dal suo tatto.

Lontano non è un luogo, lontano è essere dentro ma sentirsi fuori, lontano è potere essere. Lontano è qualcosa che puoi vedere, sfiorare ma non puoi avere. Per lui lontano era libertà.

mIcheLLe LA cAgNINA

Io donna indiana del Rajastan

S ento la terra scivolare sotto i miei piedi e il ru-more dell’acqua sopra la mia testa. In questo

deserto arido che toglie il respiro cerco l’equilibrio. Dipende da me, ora, dissetare gli uomini di famiglia e i campi morenti.

I vestiti ondeggiano come la mia mente in questo momento, cerco l’equilibrio, non mi posso fermare.

Le altre donne sembrano come felici, attente per l’esattezza. Io sono un granello di sabbia che va via con il vento, ma se poi questo vento si ferma? No, non mi posso fermare con lui, anche se mi sembra di sentire non solo il peso della brocca.

Io donna indiana del Rajastan ho il dovere di dis-setare la mia famiglia.

Ecco, tra i versi del bestiame e il suono dei brac-ciali che si scontrano tra loro, ho finalmente trova-to l’equilibrio.

Cammino e ogni mio passo è un giorno che se ne va. Ma che vuol dire giorno? Noi non calcoliamo il tempo, perché il tempo siamo noi. Se c’è il sole, la luce, noi lavoriamo e quando se ne va preghiamo. Ecco allora che giorno vuol dire luce e luce lavoro. Poi c’è la notte che mette fine al tempo, tutto si fer-ma e mi fermo anch’io. Guardo la luna così gran-de, bianca, ma sola, eppure è sempre lì, in silenzio. Riflette la mia immagine: i miei occhi scuri come la terra, la mia bocca, i miei capelli sciolti, lunghi e neri proprio come la notte. Porto subito una mano alla testa, ho il velo. Allora perché lassù la luna non lo riflette e i miei capelli sono liberi come l’aria?

Poi mi addormento con questa immagine nella mente e con una mano sul capo a reggere il velo, per non farlo volare, anzi, scappare via da me, altrimenti rimarrei sola. È peccato, almeno così lo chiamano, per

una donna non portare il velo ed io ho solo questo.Sono qui e cammino ancora, le impronte dei

miei piedi sul terreno scompaiono velocemente.È come se il vento stesse cancellando il mio pas-

sato. Lo fa tutti i giorni. Non resta niente a parte il ricordo ma vado sempre a prendere l’ acqua e allora il passato ritorna e si fa presente.

Manca ancora ad arrivare e le mie gambe ora sentono questa distanza ma sono abituate.

Ogni tanto al mio villaggio vengono delle per-sone, alcune sono indiane come me e la mia gen-te, altre invece sono bianche, tranne le guance che sono rosse come il fuoco, parlano un’altra lingua e coprono sempre gli occhi con degli oggetti scuri che si poggiano sul naso.

Ci dicono che presto costruiranno un pozzo di fronte alle nostre case e che l’acqua sarà potabile. È da anni che dicono così, eppure questo pozzo per me ogni giorno si fa sempre più lontano.

La mia famiglia dice sempre che se una persona parla tanto, vuol dire che non ha la bocca mai secca e quindi beve altrettanto e ha i soldi per pagarsi tut-ta quest’acqua e se ha l’acqua perché sprecare tempo in parole e impiegarlo a riempire le nostre orecchie di bugie. È per questo che non dobbiamo fidarci mai di parole che vengono da una bocca senza sete. Mentre se un uomo parla poco e le sue parole sono dolore perché le sue gambe tremano e le vesciche sui suoi piedi bruciano, vuol dire che quell’uomo sta lavorando e continuerà a farlo. E allora possiamo pregare per quell’uomo affinché viva e ci aiuti.

Finalmente vedo il mio villaggio. Mi stanno aspettando. Vorrei correre da loro ma non posso, ho una brocca piena d’acqua sulla testa. Ogni goc-cia è preziosa. Ho una responsabilità.

Allora continuo a camminare, immaginando la donna libera che la luna riflette ogni sera.

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≈ “scrittori nel cassetto” è anche una sezione del nostro sito dove leggere i racconti già pubblicati e trovare i temi dei prossimi mesi. Vi aspettiamo su terre.it!

c ari presidi e docenti, sulla scia dell’entusia-smo con cui è stata accolta la prima edizione,

torna il concorso di scrittura destinato alle scuole “Ascolta una storia che viene da lontano”, organiz-zato da Terre di mezzo e La Grande Fabbrica delle Parole.

La nostra casella di posta elettronica ha raccolto plichi provenienti da tutta Italia, da Palermo a Livi-gno, passando per le grandi metropoli e per decine di piccoli centri. A chi fosse ansioso di ritentare la vittoria, e ai nuovi partecipanti, comunichiamo che il bando sarà pubblicato su terre.it nel mese di ot-tobre.

Intanto, per prepararvi, vi annunciamo le no-vità di questa edizione: le storie che scriverete do-vranno trarre spunto da un oggetto che evochi luo-ghi o tempi lontani. E la gara sarà aperta anche agli autori più giovani, con l’apposita sezione “scuola primaria”!

Per saperne di più, contattateci sin d’ora all’indi-rizzo: [email protected].

Sabina EleonoriFrancesca Frediani

elogio della bugia

o ccorre diffidare della verità, so-prattutto quando viene sban-dierata dentro un romanzo o

un racconto. Quando leggo nelle sche-de di presentazione dei manoscritti che mi capitano tra le mani “questa è una storia vera” oppure “questo ro-manzo si scrive da solo perché raccon-ta la verità”, rabbrividisco.

Se non esiste invenzione, non esi-ste neppure una storia. Breve o lunga che sia. Perché la narrazione, a dif-ferenza della realtà, necessita di una trama e di una drammaturgia. Di un movimento. Di un’invenzione straor-dinaria. Serve la verità, ammesso che esista, ma solo per sparpagliarla come briciole lungo un sentiero.

Perciò, se state scrivendo una storia partite pure da uno o più fatti veri ma fatela attraversare dalla fantasia.

Di recente ho letto un libro molto utile per imparare a scrivere una storia vera inventandosela completamente.

È un romanzo di william Somerset maugham, scrittore inglese poco noto in Italia, che ha ispirato Burgess, Or-well e perfino il creatore di James Bond, Ian Fleming. Un Maestro, insomma. Una penna tagliente, la cui grandezza è legata alla capacità di trasformare la vita in letteratura. Non esiste in me-rito migliore lezione di scrittura della lettura de “La luna e sei soldi” (scritto nel 1919 e pubblicato da Adelphi nel 2002). È la biografia di Paul Gauguin senza Paul Gauguin. All’epoca si parla-va di ispirazione. Ma in realtà il pudo-re letterario fece sì che lo scrittore non ammettesse mai, neanche per finta, che quel personaggio, senza scrupoli e senz’anima, fosse il celebre Gauguin. Piuttosto gli cambiò il nome, e un po’ i connotati. Forse qualcosa dell’ambien-tazione. Ma non la storia meravigliosa della sua vocazione artistica: come ini-ziò a dipingere, come non sia riuscito

a smettere, come non abbia fatto altro nella sua vita anche senza un pennello in mano. Ce l’aveva in testa, Gauguin, la pittura.

È un po’ la stessa cosa che accade con la scrittura. Ce le abbiamo in te-sta le storie e finché restano lì dentro sono ancora vere. Per questo sentia-mo l’urgenza di scriverle. Per liberar-ci dalla verità e mostrare la bellezza dell’invenzione:

Perché pensare che la bellezza, la cosa più preziosa del mondo, se ne stia come un sasso sulla spiaggia, a farsi raccoglie-re per ozio dal primo sbadato passante? La bellezza è qualcosa di strano e mera-viglioso che l’artista plasma dal caos del mondo nel tormento della sua anima. E quando l’ha creata, non a tutti è dato comprenderla. Per riconoscerla devi ripe-tere l’avventura dell’artista. È una melo-dia quella che lui canta, e per riudirla in cuor tuo ti occorre esperienza, sensibilità e immaginazione.

“La luna e sei soldi” insegna a rac-contare la verità, mentendo. Un invito che vale la pena raccogliere. Una let-tura maieutica che insegna a scrivere e aiuta a smuovere quel potere che solo l’immaginazione ha: smettere di essere indulgenti con la realtà e com-plicarla quanto si vuole, perché se c’è una morale, per ogni narratore, allora è solo questa:

[…] Lo scrittore deve cercare ricom-pensa nel piacere del suo lavoro e nel sollievo dal fardello dei suoi pensieri; e indifferente a quant’altro, non tenere in alcun conto lode o biasimo, successo o fallimento.

il mestieredi leggere

A cura diALeSSANDrA

mINerVINI

LASCIATE PERDERE IL RoMANzo vERITà: L’uNICA MoRALE CoNSENTITA AGLI SCRITToRI È QuELLA DELL’IMMAGINAzIoNE.

≈ raccontare storie è un’arte che si può imparare. Lo dimostra la Scuola holdendi torino, fondata da alessandro baricco.

Da leggere wILLIAm SomerSeT mAUghAm

La luna e sei soldiAdelphi 2002248 pagine ± 18,00 euro

Paola RolloNata a Lecce 28 anni fa, dopo il liceo artistico ha studiato Lettere moderne e si è dedicata alla pittura, esponendo in tutta Italia. Oggi vive a Milanoe lavora come illustratrice free lance in progetti di comunicazione video e infografica. Ha un sito, paolarollo.com, e un blog: lasemiretta.blogspot.it.